olocausto: è forse giusto dimenticare?...timbrando come bugiardi tutti i sopravvissuti e false foto...

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Olocausto: è forse giusto dimenticare? Neanche un mese ci separa dalla celebrazione dell’ultima giornata della Memoria, testimonianza di un passato che porta con sé ancora forti ripercussioni. Da quando questa ricorrenza è stata istituita, sessant’anni dopo la fine dell’Olocausto, in molti si sono chiesti se fosse giusto ricordare così le sedici milioni di vittime, tra cui circa cinque/sei milioni di ebrei. Fin da piccola mi è stato sempre insegnato a celebrare la giornata con il rispetto dovuto; solitamente tramite la visione di un film si cercava di spiegare anche ai più piccoli cosa si ricordava ma soprattutto il perché. Crescendo mi è venuto spontaneo cominciare a riflettere, soprattutto dopo essere venuta a contatto con realtà che non contemplavano l’avvenimento dell’Olocausto, timbrando come bugiardi tutti i sopravvissuti e false foto e tutta la documentazione che ci è pervenuta. Ovviamente l’Olocausto è un avvenimento storico di cui si hanno prove concrete, ma come se non bastasse abbiamo anche svariati sopravvissuti (per lo più bambini nati all’interno dei campi di concentramento) che sulla pelle, metaforicamente parlando e non, portano i segni di ciò che è accaduto. Ritengo perciò che il ricordo di un avvenimento che ha portato alla diaspora di un’intera comunità, e quasi al suo sterminio, e alla morte di milioni di persone, vittime di una ideologia che le etichettava come “errori nel sistema” e da eliminare, sia doveroso e necessario. Necessario non tanto alle generazioni che lo hanno vissuto o che sono cresciute con le storie dei genitori vittime della strage, quanto alla mia generazione e a quelle che verranno, generazioni che si ritroveranno senza testimonianze viventi. È essenziale insegnare, ricordare e portare avanti la memoria di ciò che è accaduto ai giovani, in modo tale da evitare che si possa restare vittime di un’ideologia politica che non tollera individui di un’altra religione o di un colore diverso. Tolleranza, rispetto e amore per il prossimo devono essere alla base di una società funzionale e funzionante perché una società che non si prende cura del diverso è una società morta. Comprendo però anche il punto di vista dei sopravvissuti o dei loro figli che hanno visto la propria comunità violata e dilaniata nel corso di cinque anni terribili e che ora preferiscono dimenticare, come racconta anche lo scrittore israeliano Yoshua nel romanzo “Fuoco amico”. Il loro non è un voler dimenticare le vittime, quanto voler dimenticare la violenza e il dolore che hanno segnato in modo irreparabile tutti quelli che sono venuti a contatto con questa realtà. Per molti di loro inoltre il mero ricordo è insufficiente se non è coadiuvato da una rielaborazione personale, come espresso da Wlodek Goldkorn, scrittore polacco intervistato dalla Repubblica (articolo del 26 gennaio 2017) Concludo volendo riportare l’attenzione del lettore su qualcosa che sta accadendo OGGI, in un mondo dove le notizie si spargono così velocemente eppure dove

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Olocausto: è forse giusto dimenticare?

Neanche un mese ci separa dalla celebrazione dell’ultima giornata della Memoria,

testimonianza di un passato che porta con sé ancora forti ripercussioni.

Da quando questa ricorrenza è stata istituita, sessant’anni dopo la fine dell’Olocausto,

in molti si sono chiesti se fosse giusto ricordare così le sedici milioni di vittime, tra

cui circa cinque/sei milioni di ebrei.

Fin da piccola mi è stato sempre insegnato a celebrare la giornata con il rispetto

dovuto; solitamente tramite la visione di un film si cercava di spiegare anche ai più

piccoli cosa si ricordava ma soprattutto il perché.

Crescendo mi è venuto spontaneo cominciare a riflettere, soprattutto dopo essere

venuta a contatto con realtà che non contemplavano l’avvenimento dell’Olocausto,

timbrando come bugiardi tutti i sopravvissuti e false foto e tutta la documentazione

che ci è pervenuta.

Ovviamente l’Olocausto è un avvenimento storico di cui si hanno prove concrete, ma

come se non bastasse abbiamo anche svariati sopravvissuti (per lo più bambini nati

all’interno dei campi di concentramento) che sulla pelle, metaforicamente parlando e

non, portano i segni di ciò che è accaduto.

Ritengo perciò che il ricordo di un avvenimento che ha portato alla diaspora di

un’intera comunità, e quasi al suo sterminio, e alla morte di milioni di persone,

vittime di una ideologia che le etichettava come “errori nel sistema” e da eliminare,

sia doveroso e necessario.

Necessario non tanto alle generazioni che lo hanno vissuto o che sono cresciute con

le storie dei genitori vittime della strage, quanto alla mia generazione e a quelle che

verranno, generazioni che si ritroveranno senza testimonianze viventi.

È essenziale insegnare, ricordare e portare avanti la memoria di ciò che è accaduto ai

giovani, in modo tale da evitare che si possa restare vittime di un’ideologia politica

che non tollera individui di un’altra religione o di un colore diverso.

Tolleranza, rispetto e amore per il prossimo devono essere alla base di una società

funzionale e funzionante perché una società che non si prende cura del diverso è una

società morta.

Comprendo però anche il punto di vista dei sopravvissuti o dei loro figli che hanno

visto la propria comunità violata e dilaniata nel corso di cinque anni terribili e che ora

preferiscono dimenticare, come racconta anche lo scrittore israeliano Yoshua nel

romanzo “Fuoco amico”.

Il loro non è un voler dimenticare le vittime, quanto voler dimenticare la violenza e il

dolore che hanno segnato in modo irreparabile tutti quelli che sono venuti a contatto

con questa realtà.

Per molti di loro inoltre il mero ricordo è insufficiente se non è coadiuvato da una

rielaborazione personale, come espresso da Wlodek Goldkorn, scrittore polacco

intervistato dalla Repubblica (articolo del 26 gennaio 2017)

Concludo volendo riportare l’attenzione del lettore su qualcosa che sta accadendo

OGGI, in un mondo dove le notizie si spargono così velocemente eppure dove

nessuno sembra far nulla: in Cina almeno un milione di musulmani è rinchiuso in

campi di concentramento.

In questi posti, come emerge chiaramente da un interessante reportage pubblicato da

Panorama (Così la Cina “rieduca” i musulmani uiguri. 18 ottobre 2018) si viene

forzati a bere alcol e a mangiare carne di maiale, carne proibita per gli aderenti

all’Islam, i simboli di un’identità islamica (il velo per le donne o la barba più lunga

per gli uomini) vengono strappati cercando di estirpare dal suolo cinese l’etnia uigura

come fosse un’erbaccia spuntata in giardino. I prigionieri vengono sottoposti anche

ad isolamento, torturati, forzati a rinunciare alla loro religione per cantare inni

patriottici cinesi.

“Campi di rieducazione”, così vengono chiamati.

Altro non sono che prigioni, dove i detenuti vengono incarcerati pur non avendo

commesso alcun delitto ma semplicemente perché ricondotti in qualche modo, spesso

molto vago, all’Islam.

Tutto questo sta accadendo ora, in un paese che è una potenza economica sempre più

in espansione; come mai nessuno fa nulla? Perché nessuno si oppone all’ennesimo

tentativo di pulizia etnica? Il mondo è davvero cambiato da quando abbiamo giurato

che nessun avvenimento simile all’Olocausto sarebbe più accaduto?

Non ne sarei così certa.

Insegnare la storia è il modo più efficace per far sì che certi tragici avvenimenti non

si ripetano? Forse l’umanità è condannata a ripetere tali orrori.

Marta Angelici Classe III H

Vaccini: quando la vita è più importante della libertà

“Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona.”

Che sia pure una coincidenza, ma nell’articolo 3 della Dichiarazione universale dei

diritti umani vengono accostati i due fronti in cui, negli ultimi anni, si è divisa la

popolazione italiana sul tema dei vaccini. Da una parte c’è chi sostiene l’efficacia dei

vaccini nel salvaguardare la vita delle persone; dall’altra c’è chi, come fa notare il

giornalista Ivo Mej in un articolo del 27 luglio 2017 (“il Fatto Quotidiano”, “No vax

brava gente”), preferisce reclamare ostinatamente la libertà di non vaccinare i propri

figli piuttosto che richiedere vaccini scientificamente testati come innocui e

funzionanti.

Eppure le prove dell’azione positiva dei vaccini, in particolare contro malattie che

mettono a rischio la vita, ci sono. Secondo dati diffusi dal Ministero della Salute, in

Russia è stato recentemente riscontrato un aumento dei casi di difterite in seguito alla

sospensione della pratica vaccinale, nonostante la malattia sembrasse scomparsa nel

1990. Similmente è accaduto in Italia con la meningite: essendo facoltativo il vaccino

contro il meningococco, l’Istituto Superiore della Sanità ha rilevato del 2014 un

aumento del numero dei malati nel nostro paese. Al contrario, secondo statistiche

dell’ISTAT del 1999, le morti per tetano sono in fortissima diminuzione, merito

dell’obbligatorietà della vaccinazione fin dal 1955. E fu proprio grazie alla

vaccinazione obbligatoria degli anni ’70 e ’80 che nel 1980 il vaiolo fu dichiarato

definitivamenteeradicato.

A dispetto dei risultati riscontrati riguardo l’attività vaccinale, gli “anti-vax” si

appellano a studi di medici indipendenti, diffusi tramite canali non approvati dalla

comunità scientifica per far valere il diritto alla libertà di vaccinazione. Come

raccomandato da Beppe Boni (“Dalla parte dei bambini”, Il Resto del Carlino, 15

gennaio 2019) le scelte in merito dovrebbero essere basate su ricerche e prove

eseguite da persone competenti e professionisti. Non è un caso se, recentissimamente,

il medico antivaccinista Fabio Franchi abbia dovuto rinunciare all’esecuzione di un

esperimento di medicina alternativa contro la parotite annunciato tramite un post su

Facebook a causa di una bufera di polemiche di esperti scoppiata in rete. Ed hanno

fatto bene. Gli eventuali risultati, non così attendibili, di un tale “esperimento”

avrebbero potuto alimentare la causa sostenuta dagli antivaccinisti. “La diffusione di

informazioni non basate su prove scientifiche da parte di operatori sanitari costituisce

grave infrazione alla deontologia professionale, oltre che essere contrattualmente e

legalmente perseguibile” afferma l’Istituto Superiore di Sanità.

Nonostante ciò, i genitori “no-vax” pretendono la libertà di scegliere per i propri figli,

non considerando che ci sono le vite d i molti bambini che possono essere salvate con

le vaccinazioni. Ed è lì che si ferma la libertà degli antivaccinisti. Si ferma di fronte

alla vita dei bambini immunodepressi, che hanno tutto il diritto di vivere in

condizioni che non impediscono la loro salute. Si ferma di fronte al rischio di nuovi

affioramenti di malattie per cui la copertura vaccinale nazionale è insufficiente.

Perché non si può rischiare la propria vita per paure scientificamente infondate di chi

si rifiuta di vaccinare i propri figli.

Eleonora Ferretti

Classe II H

L’arresto Battisti diventa uno show, la passerella (evitabile) a Ciampino

Il 13 gennaio, con grande gioia da parte dello Stato Italiano, finalmente è stato

arrestato il terrorista rosso Cesare Battisti, latitante da più di trent’anni.

Preso in Bolivia è stato portato a Ciampino, dove una delegazione del governo

Conte, composta dal ministro dell’Interno Salvini e dal ministro della Giustizia

Bonafede, trionfalmente ha festeggiato un così grande successo per lo Stato. Non

sono mancate polemiche, scatenate soprattutto dall’abito del vicepremier, una giubba

della polizia, e dalla “conferenza stampa” successiva all’arresto dell’uomo, nella

quale la frase: “Nessuno può sottrarsi alla giustizia italiana” la faceva da padrone. Le

prime ore di Battisti in Italia sono diventate uno show, creato da Lega e Cinque Stelle

perché – a loro dire – si è celebrata la fuga di un barbaro terrorista. Molti esponenti

del partito radicale e l’ex premier Gentiloni, hanno sottolineato l’inopportunità di

questa “passerella” e dello spettacolo fatto attorno a questa vicenda. Certo Battisti è

un assassino che non merita perdono, ma non si può togliere la dignità ad una

persona. I molteplici video che sono stati girati riportano al Medioevo. Lo Stato ha

voluto così esaltare la propria vittoria e mostrare una forza che probabilmente non ha.

I rappresentati del governo dovrebbero ricordare che con la parola giustizia si intende

la “capacità dell’uomo di riconoscere e rispettare i diritti altrui attribuendo a ciascuno

ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge”. Dunque lasciamo fare televisione

a chi conosce davvero il mondo dello spettacolo. La politica è qualcosa di più serio

ed elevato, non roviniamolo.

Graziani Matteo

Classe III H

M5S, lo scontro.

Ciò che dovrebbe essere, o ciò che può essere?

A cura di Alice Greco

Nel suo trattato “Il Principe”, Machiavelli sosteneva che un buon governante

dovesse attenersi alla realtà di fatto. Non basta voler realizzare progetti ideali,

occorre farlo tenendo a mente i progetti realmente realizzabili. Nell’attuale

situazione politica, sembra che il Movimento grillino non tenga conto di

questo: il passaggio dall’utopico al reale.

“Scambiano i desideri per la realtà”

Così ha detto in una intervista Giovanni Dosi, noto economista di riferimento

del partito fino a poco tempo fa. (Vittorio Malagutti, “M5S, come sei caduto in

basso”, L’Espresso, 10 febbraio 2019) Analizzando infatti le loro posizioni,

notiamo un divario. Vorrebbero la democrazia diretta, ma rifiutano l’attuale

forma di governo. Non vorrebbero termovalorizzatori, ma il riciclo dei rifiuti è

una realtà ben lontana dall’affermarsi, soprattutto in Campania. Guardando al

caso no TAV, si oppongono strenuamente al progetto, confidando che

“presto” si trasporteranno merci con stampanti 3D.

Trascurare la realtà: la retrocessione

Posizioni simili dimostrano un’unica cosa:

il rifiuto della realtà. Si nega il progresso,

ed è un po’ come nei paesi del terzo

mondo. Quasi due secoli fa, a Lagos, la

gente si ribellava all’affermazione del

sistema metrico, già utilizzato in

Occidente; ricorda il caso dei

termovalorizzatori, già diffusi in tutta

Europa. Come nel terzo mondo, l’unica

conseguenza al rifiuto è la retrocessione

definitiva. Questo modo di procedere non

può che avere effetti negativi, che stanno

già emergendo. Alle regionali 2019 si è

notato un brusco calo della percentuale di

voti al Movimento (dal 40% al 19,7%, vedi

grafico allegato). Di fronte alla sconfitta, Di Maio continua a ripetere: “non

riusciamo a far capire quanto di buono è stato fatto”.

Staccare la spina.

Se quanto di Maio ha detto è vero, l’unica soluzione possibile, come osserva

G. Dosi, sarebbe staccare la spina al governo. La perdita di concretezza

verso il futuro sta portando il M5S alla perdita di sé.

Forse è ora di ascoltare Machiavelli:

guardare la realtà.

Alice Greco

Classe III H

Stadi violenti, un problema complesso da risolvere

La violenza negli stadi è una triste realtà diffusa purtroppo da sempre. Episodi di

aggressività ingiustificata, razzismo, bullismo, scatenati, a volte, semplicemente da

un rigore sbagliato. Basti ricordare i 39 morti allo stadio di Bruxelles del 1985; i

recenti incidenti accaduti a San Siro il giorno di Santo Stefano, in occasione della

partita tra il Napoli e l’Inter, ossia i cori razzisti contro il difensore napoletano

Koulibaly, e lo scontro tra gli ultras delle due squadre che ha portato alla morte di

Daniele Belardinelli. Questi sono solo alcuni fatti, che completano una serie ben piú

lunga di episodi di violenza.

Quello della violenza che contorna il calcio è un problema che non riguarda solo

l’Italia ma è diffuso in tutto il mondo. Nella civile Germania, dove la Bundesliga è

giudicata oramai il miglior campionato d’Europa, la stagione 2012 è stata la peggiore

dal 2000 per numero di reati da stadio con il doppio di tifosi feriti rispetto alla

stagione precedente; nel 2013 si sono visti scontri tra migliaia di tifosi e persino

stazioni ferroviarie messe a ferro e fuoco. Anche In Inghilterra pene e severe

restrizioni sono scattate di nuovo contro i tristemente famosi Hooligans, dopo i 96

morti in occasione della semifinale di Fa Cup tra il Liverpool e il Nottingham.

Come risposta al comportamento violento e scorretto della tifoseria diversi stati

hanno adottato misure di sicurezza, leggi e punizioni per la repressione di eventuali

altri scoppi ribelli. Sono state create leggi che prevedono il controllo delle persone

che accedono agli stadi, sanzioni economiche per chi detiene oggetti pericolosi, e

addirittura divieto di assistere alla partita. Nonostante queste manovre non è semplice

ridurre o eliminare la violenza.

Le cause della violenza negli stadi non sono semplici da individuare ed estirpare:

essa amplifica talvolta quelle situazioni di aggressività quotidiana che le nostre

società vivono in molte diverse situazioni, familiari sociali o lavorative. Il calcio è

diventato un business troppo grande; i tanti giornalisti che ne scrivono, le società

calcistiche, i giocatori stessi troppo spesso descrivono le partite di calcio come se

fossero vere e proprie battaglie, invece che semplici competizioni sportive. Danno

troppa epica pubblicità ai protagonisti e agli episodi anche violenti che

inevitabilmente accadono durante ogni partita. Le tifoserie sono sollecitate ad un

atteggiamento violento anche da questo tipo di dichiarazioni e comportamenti.

Le leggi tendono naturalmente a colpire i tifosi a gruppi o singolarmente ma secondo

me è importante evidenziare la complessità del fenomeno, i cui attori sono molteplici

e devono dividersi colpe e responsabilità. Nel gioco del calcio, infatti, dai calciatori

all’arbitro, dai tifosi agli ultras, dai dirigenti ai giornalisti fino alle forze dell’ordine,

sono tutti protagonisti sociali che all’interno dello stadio contribuiscono con le loro

azioni e il loro comportamento a definire un fenomeno che deve essere regolamentato

fin dalle sue dinamiche più profonde. Ognuna di queste componenti dovrebbe

consapevolmente contribuire a minimizzare quelle che possono essere le cause di

atteggiamenti violenti da parte delle tifoserie.

Pur essendo favorevole ai provvedimenti adottati dai vari governi europei, forse

necessari per arginare il problema nell’immediato, non credo che senza un

coinvolgimento più forte di tutti gli attori in gioco possano essere sufficienti per

debellare la violenza in modo definitivo. Auspico pertanto che le istituzioni

considerino il problema in modo più ampio affinché possano essere eliminati i motivi

che portano i giovani di oggi ad usare ed esprimersi molto spesso con atti di violenza,

che sono a parere mio un segno di insoddisfazione, di malessere, che non dovrebbe

appartenere alle società civile.

Montecchiari Teresa

Classe III H

Italia: la via dello sviluppo passa dal Sud Di Mattia Niccolini

quasi un anno dal voto del 4 Marzo 2018, pochi sono i rimpianti del governo

precedente. Una lotta continua al precariato ha caratterizzato le riforme

economiche-sociali del governo giallo-verde con discreti risultati. Infatti

secondo gli ultimi dati dell’osservatorio Inps sul precariato vi sarebbe stato un

aumento generale delle assunzioni (il +5,1% in più rispetto al 2017) con un

incremento massiccio di quelle a tempo indeterminato (il +7,9% rispetto all’anno

scorso). Segnali rassicuranti, simbolo di una ripresa che c’è, o almeno sta iniziando

ad esserci. Ma per risollevare una volte per tutte questo Paese, c’è bisogno dello

sviluppo di tutta l’Italia: Sud in particolare.

La ripresa del Sud è fondamentale, in quanto ben il 40% di tutto l’import ed export

italiano transita via nave, e questo dato sale fino al 60% scendendo lungo la costa

dello Stivale, dove operano circa 200.000 imprese. Segnali di ripresa c’erano stati col

precedente mandato che aveva registrato una spinta dell’industria del 3,4% ed un

accrescimento del fatturato delle aziende e di tante piccole imprese. Ora però si sta

verificando una battuta d’arresto a causa di una manovra di bilancio mal gestita da

questo governo. Infatti per quanto riguarda il Mezzogiorno (di cui il movimento

pentastellato si è eretto difensore) gran parte delle risorse disponibili o reperibili

sono state destinate al reddito di cittadinanza. Questo immenso drenaggio di risorse

al Sud però non comporterebbe una reale crescita del Pié del Paese e

dell’occupazione, come ha affermato Valerio Castronovo in un suo articolo, “Perché

c’è bisogno di rilanciare il Sud?”, pubblicato nel Sole 24 Ore il 24 Ottobre scorso.

Questa scelta assieme al NO dei pentastellati alla TAV, costituisce una combinazione

micidiale per il reale sviluppo dell’economia. Non sembrano perciò attenuarsi le

continue tensioni sociali tra le due facce del nostro governo. Per sconfiggere il

blocco antindustriale, in modo da uscire da una crisi ormai di vecchia data è

necessaria una forte presa di posizione da parte di tutti quei cittadini del Meridione

che vogliono “restare ancorati alla modernità” (Angelo PaneBianco,”Nord, Sud un

patto contro i no”, Corriere della Sera, 14 Gennaio 2019) contro quel partito che ad

oggi pretende di rappresentare tutto il Sud. Se si continuerà a sfruttare il Nord,

senza effettivamente fornire un sostanzioso contributo per la ricrescita, si giungerà a

una sempre più irreparabile frattura. Allora non sembrano poi così lontane a noi nel

tempo le parole di Dante che in un’invettiva contro l’Italia divisa tra potenze

straniere diceva: “Ahi serva Italia, di dolore ostello…”(Divina Commedia, Purgatorio,

Canto VI).

A

LE DUE FACCE DELL’IMMIGRAZIONE

L’immigrazione al giorno d’oggi è un tema che interessa in modo diretto il nostro

Paese.

Di frequente avvengono infatti terribili tragedie lungo le coste della penisola italiana.

L’evento più eclatante negli ultimi anni è stata la morte di 368 migranti nel naufragio

del 3 ottobre 2013 che, a quanto pare, non ha fatto aprire gli occhi ai politici europei

riguardo una questione così importante, tant’è che a gennaio di quest’anno il dramma

poteva ripetersi con i 49 migranti salvati dalle Ong al largo di Malta.

È forse possibile che i governi dei vari Paesi coinvolti non riescono a trovare un

accordo a riguardo invece che giocare a scaricabarile a discapito dei poveri migranti

ridotti alla fame in mare?

La colpa è anche delle televisioni e dei social network che dipingono i migranti come

delinquenti o terroristi, creando uno stereotipo indelebile che suscita in molti paura e

diffidenza.

Viene quasi sempre trascurato il lato positivo dell’immigrazione: un’opportunità per

abbattere le barriere tra le nazioni, per conoscerci più a fondo, ampliare la nostra

cultura e aprire la mente delle generazioni future. Inoltre essendo stati noi stessi un

popolo di migranti, dovremmo essere più solidali nei loro confronti e comprenderli:

partire per i “viaggi della speranza”, lasciandosi alle spalle drastiche situazioni

economiche o di guerra non è facile.

Allora perché non si riescono ad emanare delle leggi a riguardo che oltre ad essere

chiare (per evitare certi tipi di situazioni) siano anche umane, che vadano incontro ai

bisogni primi dell’uomo e che rispecchino un certo tipo di fratellanza che ci dovrebbe

essere tra tutti quanti noi?

Nicole Nisi

Classe III H

Elisa Quattrini

E’ giusto vietare oggetti appartenenti ad un’altra cultura come il velo

islamico?

Nel marzo del 2017 la Corte di giustizia di Lussemburgo, in seguito a due episodi che

avevano come protagoniste altrettante donne mussulmane, ha emesso una

sentenza che permette alle aziende e ai datori di lavoro di vietare ai propri

dipendenti di indossare indumenti che siano riconducibili a “segni religiosi” come il

velo islamico.

Gli episodi di cui le due donne sono state protagoniste sono molto simili: entrambe

svolgevano un lavoro che le metteva a contatto con delle persone, a entrambe

essendo mussulmane è stato vietato per la tipologia di lavoro svolto di indossare

l’hijab, loro tipico copricapo. Le donne si sono rifiutate e in seguito sono state

licenziate.

A questo punto vorrei porre una domanda: perché queste donne hanno scelto di

perdere il lavoro solo per un velo che copre loro i capelli? Non bastava solo non

indossarlo durante l’orario di lavoro?

Sembrano queste domande stupide ma la loro risposta non è per tutti scontata.

Quello che noi vediamo come un pezzo di stoffa è per queste donne cultura e

religione sulla quale esse stesse e il resto dei mussulmani basano la propria vita.

È vero che la corte di giustizia ha emesso la sentenza nel modo più neutrale possibile

ma cerchiamo di metterci nei panni di queste donne, cresciute ed educate fin

dall’infanzia a portare l’hijab.

L’hijab come il burqa sono appartenenti alla cultura musulmana ormai da molto

tempo e la stessa religione dice alle donne di indossarli.

Per questo costringere una musulmana a scegliere fra lavoro e religione è qualcosa

di profondamente scorretto.

Prendiamo ora il cristianesimo, esso si basa su altri principi e non impone un codice

vestiario per nessuno dei credenti, ecco perché un cristiano può più facilmente

rinunciare a simboli religiosi come un crocifisso o un rosario a lavoro, senza dover

andare contro al proprio credo.

Ecco quindi che una deliberazione che parte con l’intento di essere neutrale e non

discriminare nessuno in particolare non riesce minimamente nel suo intento.

Questa legge non dà solo un enorme potere ai datori di lavoro ma finisce con il

negare la diversità culturale, trasformandola in un limite invece che in una ricchezza

Quattrini Elisa

Classe III H

VIOLENZA NEGLI STADI: C’E’ SOLUZIONE? A cura di V. Elisabeth Slama

La violenza nel mondo del calcio è un problema ricorrente tra tutte le fasce d’età, dibattuto

ed analizzato da numerosi psicologi specializzati nell’area dello sport.

La psicologia fornisce infatti una buona chiave di lettura e rappresenta un mezzo

affidabile per arrivare alle soluzioni possibili.

Come ad ogni fenomeno sociale problematico, si può porre rimedio anche alla violenza

negli stadi, ma solamente attraverso l’educazione della popolazione ad una sana

percezione dello sport ed al rispetto delle strutture pubbliche.

“Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come

se fossero partite di calcio.” Winston Churchill descrive così l’attaccamento emotivo degli

italiani alla palla, e, a parer mio, è proprio questa ossessione la causa delle violenze negli

stadi italiani.

Quanti gridano di fronte allo schermo durante una partita di calcio? E quanti rispondono

in modo aggressivo alle presunte ingiustizie di un arbitro verso la loro squadra del cuore?

Se la società che ci circonda è disposta a diminuire questo coinvolgimento emotivo allora

la soluzione esiste e verte su tre principali cardini:

L’educazione nelle scuole di calcio a scopo di prevenire reazioni esagerate dei giovani

sportivi; una diminuzione dell’enfasi posta sulle partite, spesso dipinte dai media come

duelli piuttosto che eventi sportivi; interventi sulla sicurezza negli stadi al fine di tenere

tranquillo il pubblico prima, durante e dopo le partite.

Questo processo di rieducazione di massa richiede sicuramente tempo, ma è l’unico che,

agendo sulle menti e sulla morale degli italiani può portare ad un progresso stabile e

duraturo

IL DESTINO HA VOLUTO LA SHOAH

E L’HA VOLUTA PER UN MOTIVO

Voglio pensare che nulla accada per caso, ma che tutto faccia parte di un gigantesco

disegno umanitario. Altrimenti come ci spiegheremmo perché al mondo accadono così

tanto cose brutte? C'è un detto che dice “sbagliando s’impara”: e se fosse questo lo

scopo di tutto? Ricordare.

Qualcuno potrebbe dire: “Allora la SHOAH c’è stata per insegnarci a non essere

razzisti?”

Si, questa è la mia opinione: non penso che l’universo sia così crudele da lasciare che

delle persone muoiano invano, la loro morte deve avere un senso.

Il destino ha voluto la SHOAH, ma ci siamo mai chiesti perché? Perché ha permesso che

Hitler nascesse e facesse tutto ciò?

Per farci imparare dagli errori dei nostri antenati, che altro non sono che persone come

noi, che sbagliano come noi, e impedirci di commetterli di nuovo poiché così come

l’hanno fatto loro potremmo farlo anche noi.

Pensate infatti se ora, nel 2019, nascesse un nuovo Hitler che al posto degli ebrei

decidesse di uccidere tutte le persone disabili ad esempio? Cosa faremmo? Lo

ignoreremmo come hanno fatto tutti i paesi nella seconda guerra mondiale solo perché

non si tratta di noi nello specifico?

Il punto è che queste cose non riguardano solo gli ebrei o i disabili ma l’intera umanità.

Non bisogna pensare che ricordare la Shoah significhi ricordare migliaia di ebrei morti

innocenti. Farlo significa ricordarci di quanto il mondo possa essere meschino, non

dimenticare che cose come queste capitano, a tutti, e, consapevoli di ciò, agire affinché

non avvengano più.

Non è dunque condivisibile l’opinione di chi, come Elena Loewenthal, critica la

celebrazione della giornata della memoria, perché con l’oblio si perderebbe il senso del

mondo.

Non si tratta di ossessione né di autolesionismo ma di dovere verso le generazioni future

e in questo l’educazione svolge un ruolo importantissimo: bisogna insegnare ai figli che

il mondo non è come nelle favole ma che le cose brutte accadono, in modo tale che

quando queste avverranno di nuovo, ed avverranno, essi proveranno coraggio e non

paura.

Non adempiere a questo dovere sarebbe inoltre una mancanza di rispetto verso le vittime

dell’Olocausto che si sono sacrificate per noi.

Federica Venturini

Classe III H