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167 o Montrone * dro Montrone In questi ultimi anni è andato sviluppandosi nelle scienze sociali un dibattito sulla direzione della trasformazione del welfare su scala europea (Hemerijck, 2012; Morel, Palier, Palme, 2012) in cui viene attribuita particolare importanza agli interventi di tipo educativo nella prima infanzia: studi pedagogici (Del Boca, Pasqua, 2010) e sociologici (Esping-Andersen, 2005) sostengono la natura di investimento sociale di tali interventi, perché questi - prima ancora che alimentare la domanda aggregata, sul versante economico, e ridefinire i carichi di lavoro domestico tra i generi, dal punto di vista socio-culturale - agirebbero positivamente sulle abilità cognitive dei bambini, contrastando la riproduzione delle diseguaglianze di classe nell’istruzione e nella mobilità sociale (Barone, 2012) 1 . Questo dibattito sembrerebbe in linea con le politiche dell’UE che, come ribadito dalla Strategia Europa 2020, punta proprio alla creazione di una “società della conoscenza” mediante l’integrazione tra istruzione, formazione professionale ed educazione permanente. Ciò dovrebbe presupporre un maggiore investimento in questi comparti, ritenuti centrali nel “nuovo welfare” (Ferrera, 2012); ma le politiche messe in campo tanto a livello nazionale quanto europeo sono a dir poco contraddittorie. Se si concentra l’attenzione sul caso nazionale, risultano evidenti i tagli lineari subiti dal sistema scolastico statale negli ultimi 15 anni circa (Ascoli, Pavolini, 2012), a conferma di come i governi italiani abbiano partecipato al ridisegno internazionale dei sistemi di istruzione basato sul decentramento e la privatizzazione (Cobalti, 2006; Ball, 2012; Serpieri, 2013). D’altra parte, non si può negare che in forme deboli - siamo in un contesto di politiche economiche restrittive - vi sia una ricalibratura degli interventi e della spesa sociale a favore dei nuovi bisogni della società post-fordista (Paci, 2005), come l’educazione dei minori di 3 anni: ad esempio, dal 2007 al 2012 le regioni italiane * Ricercatore Agenzia Umbria Ricerche. 1 Non solo, tali interventi eserciterebbero anche un’azione preventiva rispetto al disagio sociale (dispersione scolastica, disoccupazione, riproduzione della deprivazione economica, devianza, etc.).

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Page 1: o Montrone - aur-umbria.it · o Montrone*dro Montrone ... economia, società e politica ... iniziative paternaliste che davano vita a una prima forma di welfare aziendale. Sotto il

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o Montrone*dro Montrone In questi ultimi anni è andato sviluppandosi nelle scienze sociali un dibattito sulla direzione della trasformazione del welfare su scala europea (Hemerijck, 2012; Morel, Palier, Palme, 2012) in cui viene attribuita particolare importanza agli interventi di tipo educativo nella prima infanzia: studi pedagogici (Del Boca, Pasqua, 2010) e sociologici (Esping-Andersen, 2005) sostengono la natura di investimento sociale di tali interventi, perché questi - prima ancora che alimentare la domanda aggregata, sul versante economico, e ridefinire i carichi di lavoro domestico tra i generi, dal punto di vista socio-culturale - agirebbero positivamente sulle abilità cognitive dei bambini, contrastando la riproduzione delle diseguaglianze di classe nell’istruzione e nella mobilità sociale (Barone, 2012)1. Questo dibattito sembrerebbe in linea con le politiche dell’UE che, come ribadito dalla Strategia Europa 2020, punta proprio alla creazione di una “società della conoscenza” mediante l’integrazione tra istruzione, formazione professionale ed educazione permanente. Ciò dovrebbe presupporre un maggiore investimento in questi comparti, ritenuti centrali nel “nuovo welfare” (Ferrera, 2012); ma le politiche messe in campo tanto a livello nazionale quanto europeo sono a dir poco contraddittorie. Se si concentra l’attenzione sul caso nazionale, risultano evidenti i tagli lineari subiti dal sistema scolastico statale negli ultimi 15 anni circa (Ascoli, Pavolini, 2012), a conferma di come i governi italiani abbiano partecipato al ridisegno internazionale dei sistemi di istruzione basato sul decentramento e la privatizzazione (Cobalti, 2006; Ball, 2012; Serpieri, 2013). D’altra parte, non si può negare che in forme deboli - siamo in un contesto di politiche economiche restrittive - vi sia una ricalibratura degli interventi e della spesa sociale a favore dei nuovi bisogni della società post-fordista (Paci, 2005), come l’educazione dei minori di 3 anni: ad esempio, dal 2007 al 2012 le regioni italiane

* Ricercatore Agenzia Umbria Ricerche. 1 Non solo, tali interventi eserciterebbero anche un’azione preventiva rispetto al disagio sociale (dispersione scolastica, disoccupazione, riproduzione della deprivazione economica, devianza, etc.).

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hanno avuto dallo Stato un finanziamento di oltre 600 milioni di euro per il rafforzamento di questi servizi. I due processi, per quanto opposti, contribuiscono al rafforzamento della dimensione territoriale del welfare in epoca post-fordista, ribadendo come la varietà di capitalismi (Hall, Soskice, 2001) coinvolga più che in passato anche le società locali (Bagnasco, Negri, 1994; Bagnasco, 2012): la globalizzazione presuppone la regionalizzazione di economia, società e politica (Arrighi, 1994; Scott, 2001). L’articolo offre una breve storiografia dell’emergente welfare educativo (Parziale, 2011), ossia di un processo di parziale integrazione tra scuola e servizi per la prima infanzia. Tale analisi è condotta su scala nazionale e poi in riferimento all’Umbria. Successivamente si passa alla proposta di modelli sociali nel campo educativo, distinguendo tra un periodo immediatamente precedente all’avvio dell’attuale crisi economica (2004-2007) e il periodo successivo (2008-2012). Nell’intero arco temporale considerato si registra, nonostante i tagli del governo centrale, la crescita dell’investimento medio delle regioni italiane nel welfare educativo. Con quest’ultima espressione si intende l’insieme degli interventi di una filiera che va dai servizi educativi della prima infanzia all’università, considerando anche i servizi di integrazione sociale dei minori e l’educazione degli adulti2 (Parziale, 2015a): in questo articolo l’analisi, però, si concentra solo su scuola (e università) e servizi per la prima infanzia, evidenziandone, come detto, la parziale integrazione. Nel quarto paragrafo l’analisi si sposterà sulla riproduzione delle diseguaglianze di scolarità nei diversi modelli sociali individuati. L’articolo ha un duplice scopo: far emergere alcune caratteristiche specifiche del modello sociale umbro nel campo educativo ed evidenziare la complessa relazione tra investimento e diseguaglianze di scolarità, quando si ragiona non sul ruolo positivo del primo sui singoli individui, bensì sull’organizzazione sociale (Bagnasco, 2003) della domanda e dell’offerta educativa nei territori. Nascita e sviluppo del welfare educativo in Italia

Nei primi anni dello Stato italiano la legge Casati del 1859 fu estesa all’intero territorio nazionale: l’istruzione venne affidata quasi completamente ai Comuni e la partecipazione scolastica aumentò, ma con una forte disomogeneità territoriale. I docenti delle elementari erano impreparati e malpagati, come in altri Paesi (Brint, 2002), mentre l’istruzione superiore era riservata alle èlite. Ad inizio Novecento il sistema scolastico italiano fu investito da un processo di modernizzazione segnato dalle riforme Orlando (1904) e Credaro (1911), dopo che per decenni si era assistito alla lenta applicazione della legge Coppino (1877) che aveva fissato l’obbligo scolastico a 9 anni. In seguito fu decisiva la riforma Gentile del 1923 che prevedeva 5 anni di scuola elementare, con la successiva ripartizione del sistema in 4 canali: avviamento

2 L’educazione degli adulti a sua volta è suddivisibile in formazione professionale degli inoccupati, formazione continua degli occupati, educazione permanente non strettamente legata al mondo del lavoro (Parziale, 2011).

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professionale, indirizzo tecnico inferiore, istituto magistrale e ginnasio. Solo chi frequentava il ginnasio poteva accedere, dopo 3 ulteriori anni di liceo classico, all’università. L’acquisizione del diploma del liceo scientifico permetteva, invece, l’iscrizione solo ad alcune facoltà, precludendo la partecipazione ai corsi di laurea umanistici, ritenuti più prestigiosi e importanti, quali Giurisprudenza o, ad esempio, Lettere e Filosofia. Durante la fase di costruzione della scuola moderna, l’intervento statale in materia di servizi per la prima infanzia fu marginale e imperniato sul ruolo materno piuttosto che sui minori. Gli interventi furono indirizzati alle “madri inadempienti”: buona parte della popolazione - con l’eccezione delle famiglie dell’alta borghesia che potevano ricorrere al mercato dei servizi domestici - provvedeva all’educazione e cura dei figli prevalentemente all’interno della famiglia (Ribolzi, 1993; Saraceno, 2003). Quindi, da un lato non vi era alcun riconoscimento dei minori in quanto soggetti meritevoli dell’intervento pubblico, relegando quest’ultimo a una funzione marginale per uno specifico target oggetto di stigma; dall’altro lato la cura di infanti e minori si configurava come problema che ostacolava la piena valorizzazione della forza lavoro femminile nel processo produttivo; di qui l’impegno di alcuni industriali a favore di iniziative paternaliste che davano vita a una prima forma di welfare aziendale. Sotto il fascismo, con l’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia) istituita nel 1925, furono costruiti i primi asili nido, ma essi erano concepiti (l. 1277/1925 e successivo RD 718/1926), insieme ai consultori materno-infantili, come servizi per sostenere le donne in quanto madri piuttosto che lavoratrici. La visione che anteponeva il benessere della famiglia a quello dei singoli componenti fu scalfita dal quadro normativo post-bellico con la legge 860/1950 e soprattutto con la legge 685/1967 che, nell’avviare il programma quinquennale del primo governo di Centro-Sinistra, riconobbe l’asilo nido come servizio di cura psico-fisica del bambino. Successivamente, la legge 1044/1971 segnò un passo indietro nel riconoscimento della soggettività sociale dei minori. L’asilo nido veniva concepito come servizio sociale di interesse pubblico volto a custodire i bambini al fine di favorire l’inserimento occupazionale delle donne. Negli anni Settanta si confermò una sorta di bipartizione tra la sfera della prima infanzia, vissuta in parte come un problema per le madri e un costo per la società, e la sfera dei minori in età pre-scolare e scolare, riconosciuta pienamente come perno del welfare. Prima ancora delle riforma sanitaria (1978) il welfare italiano mostrava il suo volto universalista nella scuola, mantenendo invece un impianto corporativo e categoriale negli altri settori (Ferrera, 1993). Tra l’unificazione della scuola media (legge 1859/1962) e la liberalizzazione dell’accesso universitario (legge 910/1969) si affermò la scuola dell’infanzia, allora detta materna (la denominazione è cambiata nel 1991). Pur traendo origine dagli enti assistenzialistico-religiosi, dai Comuni e dalle iniziative private, e dal successivo DR 1054/1923, essa si configurava in senso moderno ed universalistico con la legge 444/1968. Venendo agli anni a noi più vicini, dopo la legge 1044/1971 si è registrato per i servizi della prima infanzia un “buco normativo” e le vere protagoniste sono diventate le

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Regioni del Centro-Nord, anche perché diversi Comuni avevano già sperimentato nel corso della prima metà del Novecento varie forme di servizi socio educativi rivolti ai bambini di età inferiore ai 3 anni. In pieno sviluppo del welfare keynesiano, dunque, una parte considerevole delle politiche per l’infanzia ed i minori veniva declinata in senso locale, riproducendo il divario economico territoriale ed evidenziando al tempo stesso le specificità di società regionali come quella umbra. Lo Stato - con l’eccezione della legge 891/1977 che stabiliva le norme di finanziamento del piano degli asili nido e modificava la legge 1044/1971 - non è intervenuto fino agli anni Novanta, quando con la legge 176/1991 è stata ratificata ed eseguita la Convenzione dell’ONU sui diritti del fanciullo stipulata a New York il 20 novembre 1989. Con la legge 285/1997 vi è stato, poi, il primo tentativo di creare un impianto normativo finalizzato a promuovere i diritti per l’infanzia e l’adolescenza e creare un sistema integrato di servizi sociali, meglio definito con la legge 328/2000 e la riforma del titolo V della Costituzione (l. 3/2001). Solo a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo si è pervenuti al pieno riconoscimento dei minori come soggetti del welfare anche nei primi anni di età. Da una parte vi è stata l’istituzione della Commissione Parlamentare per l’Infanzia e dell’Osservatorio Nazionale per l’Infanzia (l. 451/1997), dall’altra sono stati ideati i Piani d’azione per l’infanzia (1997, 2000, 2002). Negli ultimi quindici anni sono stati promossi diversi Piani nazionali: da quello sugli interventi e servizi sociali del 2001-2003 a quello previsto dalla legge finanziaria del 2007 (l. 296/2006) in materia di servizi socio-educativi. Il piano triennale straordinario per lo sviluppo dei servizi socio educativi per la prima infanzia 2007-2009 ha destinato (fino al 2012) 616 milioni di euro (il cofinanziamento regionale è stato di 300 milioni)3. È in questi ultimi anni che lo Stato si è dunque impegnato attivamente nel rafforzamento del welfare per i minori, ampliando l’offerta e puntando a un riequilibrio territoriale (circa 270 milioni di euro sono stati impegnati a favore delle Regioni meridionali a cui vanno aggiunti i 53 milioni del Lazio). All’Umbria sono stati destinati 7,5 milioni di euro dal 2007 al 2012, ma le amministrazioni locali hanno fatto ricorso anche ad altri tipi di fondi, continuando da un lato sulla scia di una tradizione sensibile a questo tema e dall’altro mirando a un

3 L’intesa del 26 settembre 2007, raggiunta nella Conferenza Unificata (CU) n. 83, ha avviato il piano triennale ed è stata integrata dall’intesa del 14 febbraio 2008 (CU n. 22), per un finanziamento complessivo alle Regioni di 446,5 milioni di euro. Al termine del piano nel 2010 il Dipartimento per le Politiche della Famiglia, dopo l’intesa del 7 ottobre 2010 (CU n. 109) ha finanziato le Regioni con altri 100 milioni di euro per migliorare la qualità dei servizi, aumentare il sistema integrato e il numero di posti, fornire altri interventi per le famiglie numerose o in difficoltà. Con l’intesa del 2 febbraio 2012 (CU n. 24) sono stati stanziati 25 milioni di euro sia per il rafforzamento dei servizi per l’infanzia sia per l’assistenza domiciliare integrata (ADI). Infine l’intesa del 19 aprile 2012 (CU n. 48) ha messo a disposizione delle amministrazioni regionali altri 45 milioni per lo sviluppo sia dei servizi per l’infanzia sia per l’invecchiamento attivo. Negli ultimi anni, dunque, i finanziamenti sono stati indirizzati non solo all’infanzia. Nondimeno, sono stati stipulati diversi Accordi per la realizzazione di un’offerta di servizi educativi a favore di bambini dai 2 ai 3 anni: l’Accordo del 14 giugno 2007 (CU n. 44); l’Accordo del 20 marzo 2008 (CU n. 40); l’Accordo del 29 ottobre 2009 (CU n. 53); l’Accordo del 7 ottobre 2010 (CU n. 103).

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rafforzamento dei servizi negli ultimi anni. Il recente sforzo istituzionale ha portato la nostra regione, almeno fino al 2011, su livelli simili al Nord-Est, area con la migliore performance (Parziale, 2015a, op. cit.). A livello nazionale, le leggi 42/2009 e 135/2012 hanno ribadito il ruolo centrale delle amministrazioni comunali e più in generale delle società locali nella gestione e organizzazione dei servizi per la prima infanzia. Questi servizi sono stati riconosciuti (con la l. 135/2012) come appartenenti a un ambito a cavallo tra istruzione e lavoro. La spinta maggiore a una legge nazionale per l’infanzia e i minori è provenuta dalle istituzioni internazionali. Tra queste vi è l’UE: secondo gli obiettivi stabiliti a Barcellona nel 2002, l’assistenza all’infanzia avrebbe dovuto riguardare almeno il 66% dei bambini tra i 3 e i 6 anni e il 33% dei bambini fino a 3 anni; ma l’Italia è ancora lontana dal raggiungere questa performance. Sebbene le Comunicazioni della Commissione Europea (ad es. Comunicazione 66 del 17 febbraio 2011; Comunicazione 112 del 20 febbraio 2013) diano particolare enfasi al ruolo educativo dei servizi per la prima infanzia, le pressioni più forti ad ideare una legge nazionale sull’infanzia provengono comunque dal Comitato ONU sui diritti dell’infanzia e soprattutto dal CRC (Convention for the Rights of Children, gruppo di lavoro formato da 82 associazioni). Quest’ultimo attore esorta l’Italia a produrre un’efficace integrazione orizzontale (tra diversi gestori dei servizi) e verticale (in particolare legando i servizi socio-educativi per l’infanzia alla filiera dell’istruzione) in vista di uno sviluppo unitario del settore a favore di tutti i minori della fascia di età 0-6 anni. In sintesi, le indicazioni ed esortazioni internazionali, con diverso grado di cogenza, spingono verso il consolidamento di un vero e proprio welfare educativo. Ma, come detto, questa parziale convergenza tra servizi per la prima infanzia e scuola negli ultimi quindici anni sta avvenendo mentre si assiste a un ridisegno del sistema di istruzione su scala globale (Cobalti, op. cit.). In Italia è stata riformulata l’offerta dell’istruzione superiore (Vaira, 2015), dando vita a una continua riforma dell’obbligo scolastico prima innalzandolo a 15 anni (l. 30/2000), poi inquadrandolo nel “diritto-dovere” all’istruzione (l. 53/2003), infine portandolo a 16 anni (l. 296/2006). La legge 53/2003, poi, ha promosso la tripartizione tra licei, formazione professionale e apprendistato, successivamente modificata nel 2010, in seguito ai regolamenti di attuazione della l. 133/2008: l’istruzione artistica è entrata (salvo eccezioni) a far parte dell’offerta liceale e attualmente vi sono ben 6 tipi di licei, a loro volta suddivisibili in indirizzi; mentre gli istituti tecnici e professionali sono stati ridotti di numero, con questi ultimi che hanno visto la loro offerta ri-articolarsi in un quinquennio suddiviso secondo il meccanismo “2+2+1” ed interagire con i percorsi di istruzione e formazione regionale. I cambiamenti apportati alla scuola di 2° grado in nome della valorizzazione degli indirizzi professionali e tecnici paiono avere avuto come effetto (inatteso?) il rafforzamento del processo di liceizzazione che si dichiarava di contrastare. La sensazione è che l’offerta tecnica e soprattutto quella professionale sia stata indebolita, divenendo una seconda gamba dell’istruzione superiore, più marginale di prima e riservata in particolare agli studenti stranieri (Colombo, 2010).

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Lo spirito della riforma Gentile non è stato superato, anzi per certi versi è stato rinnovato. Analogamente è stata modificata l’offerta universitaria, con l’introduzione del modello “3+2” (DM 509/99, successivamente modificato dal DM 270/2004) e l’introduzione della “terza missione” dell’università in seguito al processo di Bologna4 (Moscati, 2012). In estrema sintesi, in un contesto di disinvestimento nella scuola e nell’università, si registrano due fenomeni interessanti: si è mantenuto quel livello medio-alto di stratificazione dell’istruzione di 2° grado che contribuisce alla persistenza delle diseguaglianze di scolarità dovute all’origine sociale (Checchi, 2010; Benadusi, Giancola, 2014); si è contratto il tasso di passaggio all’università in un contesto di crescita delle difficoltà economiche delle famiglie e di taglio delle borse di studio. Di recente anche il tasso di conseguimento della laurea pare essersi arrestato, almeno quando si considera il percorso formativo più lungo di 4-6 anni (Parziale, 2013). L’investimento nel campo educativo da parte dell’Umbria

L’Umbria si caratterizza per una vera e propria “lunga marcia educativa” (Parziale, 2013, op. cit.) tale che da società rurale, con una percentuale di analfabeti inferiore solo al Mezzogiorno nel 1951, è divenuta una società terziarizzata (Montesperelli, 2015) con un livello di istruzione della popolazione tra i più alti d’Italia. Guardando alla Toscana e soprattutto all’Emilia-Romagna, nel secondo dopoguerra l’Umbria ha provato a puntare sull’espansione, diversificazione e integrazione dei servizi per l’infanzia (Cipollone, 2001), concependo questi ultimi come strettamente connessi alla filiera dell’istruzione. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta diversi ambienti intellettuali, sindacali, politici hanno rinnovato la sfera pubblica regionale, mettendo al centro le politiche sociali ed educative. È in questo clima che è sorto il Saposs, il Servizio per l’aggiornamento permanente degli operatori scolastici e per la sperimentazione pedagogica: l’intento era rinnovare i paradigmi educativi nella scuola (Carnieri, 2012)5. La stessa istituzione della Regione, sin da subito orientata a un modello organizzativo improntato alla valorizzazione delle esperienze municipali, ha tratto linfa da questa particolare sensibilità per l’infanzia e i minori: essa costituisce oggi la matrice dell’emergente welfare educativo umbro. In questo clima la produzione normativa regionale si è caratterizzata fin dall’inizio per l’orientamento alla professionalizzazione di questo segmento del welfare e per il riconoscimento, in anticipo rispetto alle dinamiche nazionali, dei minori come veri destinatari dei servizi per l’infanzia.

4 Si tratta della dichiarazione congiunta di 29 ministri dell’istruzione europei nel giugno del 1999 a Bologna. Questa dichiarazione è stata preceduta dalla Magna Charta Universitarum enunciata nel 1988, la Convenzione di Lisbona del 1997 e la Dichiarazione della Sorbona nel 1998. 5 Molte sono state le iniziative di intellettuali e professionisti dell’educazione in Umbria, tra le quali vanno annoverate le riviste “Junior”, diretta da Ferruccio Cremaschi, e “Albero ad elica”, diretta da Franco Frabboni, Carlo Paglierini, Carmelo Piu, Giuseppe Trebisacce, sulla scia dell’azione di intellettuali come Gianni Rodari. Per una più puntuale ricognizione si rinvia a Carnieri (2012).

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Infatti, con la legge 21/1974 l’amministrazione regionale ha attuato la normativa statale (la l. 1044/1971) e ha definito l’asilo nido come servizio sociale territoriale; successivamente, con la legge 30/1987, ha posto particolare attenzione alla formazione degli stessi operatori del campo educativo. La legge regionale 30/2005, che disciplina oggi6 il sistema integrato dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, rappresenta l’esito naturale dello storica attenzione della società locale per la professionalizzazione di questo settore del welfare. La legge recita che il nido d’infanzia è un servizio di interesse pubblico aperto ai bambini di 3-36 mesi per non più di 10 ore giornaliere; mentre vi sono 2 tipi di servizi integrativi (articolati in forme ludiche ed educative per non più di 3 ore giornaliere) a cui possono partecipare anche gli adulti: si tratta dei “centri per bambine e bambini” e dei “centri per bambine, bambini e famiglie”. A questi si aggiungono i servizi sperimentali, disciplinati dal regolamento regionale 13/2006, quali: gli spazi gioco (per bambini tra i 12 e i 60 mesi), i centri ricreativi (per bambini dai 3 anni in su), le sezioni integrate tra nido e scuola dell’infanzia (per bambini tra i 24 e i 36 mesi), i servizi di sostegno alle funzioni genitoriali, i nidi e i micronidi aziendali e interaziendali7. La variazione dei destinatari a seconda dei servizi e le possibilità di integrazione formale con la scuola dell’infanzia (tramite la cooperazione professionale degli educatori e la costruzione di progetti educativi appositi, nel caso delle sezioni integrate tra asilo nido e scuola dell’infanzia) costituiscono aspetti di promozione della continuità dei servizi socio-educativi. A questo proposito il comma 4 dell’articolo 5 della legge, insieme all’art. 6, sostiene che il Piano triennale regionale promuove l’integrazione tra scuola e servizi socio-educativi: questo è un aspetto di per sé importante, ma acquisisce maggiore rilevanza se letto alla luce della legge regionale 7/2009. Quest’ultima legge, infatti, dichiara l’intento di costruire un sistema formativo integrato che abbia come obiettivo finale lo sviluppo della persona. Sul versante delle risorse umane, le figure professionali individuate sono tre: l’educatore professionale, che deve essere in possesso del diploma di laurea in scienze della formazione ed educazione e di un attestato di formazione (oppure di una laurea di secondo livello in pedagogia, psicologia o in materie umanistiche a indirizzo socio-psico-pedagogico); l’educatore animatore, al quale è richiesto il diploma di scuola di 2° grado e un’apposita qualifica; il personale addetto ai servizi al quale viene riconosciuta comunque una funzione educativa, pur essendo addetto a mansioni operative di supporto (preparazione del cibo, pulizia, manutenzione, etc.). A queste figure si aggiunge il coordinatore pedagogico, di cui debbono dotarsi i Comuni anche in forma associata. Si tratta di una figura qualificata, che costituisce il nodo di riferimento del sistema territoriale complessivo, in quanto deve badare al coordinamento e alla formazione degli operatori, alla valutazione dei servizi socio-educativi posti in essere, nonché alla sperimentazione di servizi e progetti innovativi.

6 La legge ha subito una serie di integrazioni, le ultime due sono inserite nella legge regionale 1/2013 e sono relative al meccanismo dell’autorizzazione e a quello dell’affidamento dei servizi a terzi. 7 La legge 30/2005 all’art. 5 stabilisce che gli enti locali possono promuovere altre forme sperimentali, previa autorizzazione.

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Oggi, il sistema dei servizi socio-educativi si fonda sulla cooperazione di più attori. I principali sono: cooperative sociali ed associazioni del Terzo Settore, amministrazioni comunali, Regione, Asl, Università, scuole. Si tratta di un insieme di soggetti che trovano nella Conferenza regionale dei servizi per la prima infanzia (art. 11, l. 30/2005) il luogo per una programmazione condivisa degli interventi. Questo tipo di governance vale per tutto il sistema di welfare locale, e dunque anche per i servizi successivi alla prima infanzia e che svolgono una funzione di educazione e inclusione sociale dei minori. L’Umbria punta all’integrazione degli interventi destinati ai bambini dai 0 ai 6 anni. Alcuni servizi innovativi previsti dal quadro normativo regionale, come lo spazio gioco e soprattutto le sezioni primavera, vanno in questa direzione e possono essere funzionali a rendere più stretto nel tempo il rapporto con la scuola. In seguito alla crescente autonomia delle istituzioni scolastiche (Benadusi, Consoli, 2004; Serpieri, op. cit.), le singole organizzazioni scolastiche sono divenute connettori tra lo Stato e altre agenzie educative del territorio operanti nell’ambito del welfare locale. La pro-attività di singoli attori individuali interni alla scuola (in particolare dirigenti scolastici e insegnanti), o di attori collettivi che possono relazionarsi a questa (associazioni culturali e di promozione sociale, Asl, Comune, etc.), costituisce una risorsa importante per la ridefinizione del welfare locale e l’ideazione di progetti innovativi funzionali allo sviluppo dell’offerta educativa per bambini e ragazzi. In altri termini, la scuola - a partire dallo strumento del Piano di Offerta Formativa (POF) - può costituire uno dei nodi più importanti per la governance locale necessaria al funzionamento del welfare locale nel campo educativo. Inoltre, non va dimenticato che la scuola svolge anche una funzione di redistribuzione delle risorse tra le classi sociali in termini fiscali e di pari opportunità educative, oltre che di riequilibrio dei tempi di vita. Purtroppo, questa operazione redistributiva è solo parziale perché l’organizzazione scolastica non riesce a contrastare pienamente le diseguaglianze scolastiche (Schizzerotto, Barone, 2006; Marzadro, Schizzerotto, 2014): la scarsa mobilità sociale complessiva e la maggiore partecipazione all’istruzione di 2° grado e soprattutto universitaria da parte dei membri delle classi medio-alte confermano questo fenomeno. Questo aspetto pare coinvolgere in particolare la nostra regione, nonostante il buon livello di inclusività del welfare educativo testimoniato innanzitutto da un più ridotto tasso di abbandono prematuro degli studi da parte dei giovani (graf. 1). L’Umbria riesce a includere nel sistema scolastico una quota molto ampia di giovani, nonostante l’alta presenza di alunni stranieri, una componente che incontra ovvie difficoltà di integrazione nella scuola italiana (Colombo, op. cit.). A questo proposito è utile ricordare che la nostra regione si colloca al secondo posto per presenza di alunni stranieri nella scuola statale di ogni ordine e grado nell’anno scolastico 2011-2012, con il 13,9% di alunni non italiani, valore che è salito al 14,4% due anni dopo8. 8 Dall’a.s. 2004-2005 all’a.s. 2011-2012 il numero di alunni stranieri è raddoppiato nella scuola dell’infanzia, superando le 3.500 unità, mentre l’incremento è stato addirittura superiore nella scuola di 2° grado: da 1.759 a 4.032 alunni. Nella scuola primaria e in quella di 1° grado gli alunni stranieri sono rispettivamente 5.881 e 3.653, con un incremento di quasi 2.500 unità nel primo caso e di poco più di 1.500 unità nel secondo. L’80,6% degli alunni stranieri della scuola dell’infanzia è nato in Italia. Questa percentuale diminuisce sensibilmente all’aumentare

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Graf. 1 - Percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni con al massimo la licenza media, priva di qualifiche professionali superiori e non frequentante né corsi scolastici né attività formative dal 2004 al 2012. Comparazione tra l’Umbria e le diverse aree geografiche del Paese

Fonte: Istat, Rilevazione sulle Forze di Lavoro Inoltre, il processo di contrazione della scolarizzazione di massa è meno intenso di quanto rilevato su scala nazionale. Dal 2004 (ossia qualche anno dopo l’innalzamento dell’obbligo scolastico con la l. 30/2000) il tasso di conseguimento del diploma si è ridotto, per via di una platea più eterogenea del passato (con l’inclusione di soggetti che altrimenti non si sarebbero iscritti alla scuola di 2° grado), ma poi a partire dal 2010 è tornato ai livelli del primo anno. Al contrario, il tasso di passaggio all’università è in calo progressivo, sebbene l’Umbria continui a mostrare anche su questa dimensione valori superiori al dato italiano (graf. 2). Complessivamente nel nostro Paese si assiste a un preoccupante arresto della scolarizzazione di massa, in particolare per quanto concerne la partecipazione all’istruzione terziaria. È evidente che in un contesto di crisi economica e di disinvestimento nella scuola (Ascoli, Pavolini, op. cit.) a pagare di più sono i giovani di estrazione sociale svantaggiata (Schizzerotto, Marzadro, op. cit.). Graf. 2 - Tasso di conseguimento del diploma e tasso di passaggio all’università dal 2004 al 2012. Comparazione tra l’Umbria e l’Italia

Fonte: Istat-Miur, Annuario Statistico Italiano

dell’ordine e grado scolastico: passa al 57,6% nella scuola primaria, scende ulteriormente al 26,8% nella scuola di I grado fino a ridursi al solo 10,1% negli istituti superiori. Pertanto, il livello di disagio e di svantaggio degli stranieri cambia a secondo del livello scolastico esaminato, con gli studenti della scuola di 2° grado che sono presumibilmente in maggiore difficoltà in termini di integrazione linguistico-culturale. Si tratta di stranieri per lo più di prima generazione che (nella gran parte dei casi) hanno partecipato direttamente alle vicende migratorie della famiglia, vivendo gli effetti negativi derivanti dall’impatto con la società di approdo.

0,0

5,0

10,0

15,0

20,0

25,0

30,0

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

Umbria

Nord-ovest

Nord-est

Centro

Mezzogiorno

Italia

77,3 77,574,3 74 72,8 72,6 73,8 76,2 77

70,769,7

66,365,7

63,6 63,3 61,358,2 55,7

81,1 81,184,7

77,9 75,8 75,7 74,778,1 80,0

72,4

66,767,8

65,7 63,9 65,3 66,261,9 60,0

50556065707580859095

100

2004-2005 2005-2006 2006-2007 2007-2008 2008-2009 2009-2010 2010-2011 2011-2012 2012-2013

Conseguimento diploma Italia

Passaggio all'università ItaliaConseguimento diploma UmbriaPassaggio all'università Umbria

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E anche nella nostra regione, nonostante l’investimento in istruzione maggiore o, più precisamente, una maggiore resilienza rispetto alle pressioni nazionali di contenimento della spesa anche in questo settore strategico (Parziale, 2013, op. cit.), emergono segnali di divario delle opportunità educative tra le classi sociali. Questo aspetto sarà esaminato con dovizia di particolari nel quarto paragrafo, dopo aver proceduto a una classificazione delle regioni italiane in modelli sociali relativi al welfare educativo, esaminando sia i servizi per l’infanzia, in via di irrobustimento, sia la scuola, come detto in difficoltà. La società locale umbra ha mostrato negli anni una capacità di adattamento alle pressioni esogene di taglio al welfare che ha rallentato gli effetti negativi del disinvestimento: si può notare, peraltro, che lo stesso tasso di passaggio all’università è iniziato a calare nell’a.a. 2011-2012, ossia con 2 anni di ritardo rispetto al dato nazionale. Ma la logica dell’aggiustamento incrementale, dinanzi a politiche economiche nazionali restrittive, non pare più sufficiente. Con qualche anno di ritardo le difficoltà del modello sociale umbro si sono palesate anche nel campo dei servizi per l’infanzia, dopo l’enorme investimento che aveva portato la nostra regione a superare addirittura il Nord Est per presa in carico dei bambini di età inferiore ai 36 mesi (graf. 3). In sintesi, in questi ultimi anni l’Umbria continua ad essere una delle società con i più alti livelli di istruzione della popolazione. Inoltre, essa si caratterizza per il progressivo aumento dei laureati tra la popolazione di 30-34 anni (il dato umbro nel 2012 è inferiore solo a quello laziale e, di pochi decimali, a quello ligure), mentre la quota di abbandono degli studi resta stabile (graf. 4). Come si vedrà tra breve, l’Umbria è una delle regioni che più investe in istruzione e servizi per l’infanzia. Ciò non dipende solo da una dinamica di path dependence (North, 1990), consistente nella persistenza di una matrice politico-istituzionale progressista, ma anche dalla crescente domanda di educazione di una popolazione sempre più scolarizzata, per effetto dell’investimento passato. Ma ciò porta alla luce un mutamento nella formazione sociale umbra su cui vale la pena riflettere. Graf. 3 - Presa in carico dei servizi per l’infanzia (% di bambini di età inferiore ai 36 mesi utenti dei servizi) dal 2004 al 2012. Comparazione tra l’Umbria e le diverse aree geografiche del Paese

Fonte: Istat, Indagine sugli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati

13,6 13,7 14,0 14,9

23,4

27,7 27,6

23,0

16,415,314,1

15,0 15,4 16,0

17,6 17,916,8 16,4

16,8 17,2 18,1 18,2 18,519,8 20,3

19,2 19,1

14,9 14,3 15,1 15,516,5 17,0 17,9 18,0 18,8

4,4 4,6 4,3 4,4 5,0 5,1 5,3 5,0 5,0

11,4 11,2 11,7 12,0 12,7 13,6 14,0 13,5 13,5

0,0

3,0

6,0

9,0

12,0

15,0

18,0

21,0

24,0

27,0

30,0

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Umbria

Nord-ovest

Nord-est

Centro

Mezzogiorno

Italia

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Graf. 4 - Tasso di laureati tra i giovani di 30-34 anni e percentuale di giovani che abbandonano prematuramente gli studi in Umbria dal 2004 al 2012

Fonte: Istat, Rilevazione delle Forze di Lavoro Modelli sociali e welfare educativo

Per cogliere la dimensione territoriale dello sviluppo del welfare educativo è possibile ricorrere a una serie di indicatori, assumendo come unità di analisi le regioni italiane. Esse, infatti, possono essere concepite come società locali (Bagnasco, 2012, op. cit.) dove concretamente le politiche, anche nazionali, prendono forma grazie al concorso degli attori politico-istituzionali locali e alla loro relazione con quelle organizzazioni statali che operano sul territorio, a partire dalle scuole. L’accresciuta autonomia locale delle scuole rende queste organizzazioni delle vere e proprie agenzie di governance delle politiche sul territorio, sebbene in un contesto in cui crescono le pressioni di standardizzazione da parte delle agenzie nazionali e internazionali (Landri, 2014). In realtà, ciò che più conta è la capacità degli attori della società locale di modellare e combinare risorse di diversa provenienza nell’organizzazione delle politiche. Non sono, dunque, le scuole in quanto tali ad essere discriminanti bensì l’organizzazione sociale locale, fatta di consuetudini, saperi consolidati, subculture politiche, reti e risorse economiche anche endogene. L’investimento nelle politiche educative rappresenta un caso esemplare dell’importanza delle società locali, come dimostrano le cosiddette “regioni rosse” (Caciagli, 2014): la formazione delle amministrazioni regionali ha rafforzato l’orientamento storico-istituzionale di queste società locali alla crescita dei livelli di istruzione della popolazione e al miglioramento della qualità dei servizi sociali. L’attuale processo di rafforzamento dei servizi per l’infanzia e al tempo stesso di contrazione della spesa pubblica statale in istruzione non fa altro che rimarcare le differenze territoriali, non fosse altro che per il diverso modo in cui le società locali fanno fronte alle minori risorse del governo centrale, sfruttando esperienze, conoscenze e reti consolidatesi negli anni del welfare fordista-keynesiano. Le differenze tra le regioni, o gruppi di regioni, non sono, però, di ordine solo quantitativo (chi investe di più, chi meno), ma anche qualitativo. Si pensi ai servizi per l’infanzia: essi sono sviluppati dove più alta è la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, per via anche di una maggiore solidità economica dell’assetto produttivo; ma

20,7 20,0 20,8 20,2 19,5 22,5

25,6 25,5 25,5

13,215,4 14,8

12,714,8

12,3 13,411,6

13,7

0,0

5,0

10,0

15,0

20,0

25,0

30,0

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Laureati 30-34 anni

Giovani che abbandonano prematuramente gli studi

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al tempo stesso questi servizi possono essere concepiti come strumento che alimenta l’impiego femminile secondo una logica di mediazione tra tradizione e modernità. È questo il caso dell’Umbria dove le donne sono impegnate nelle attività economiche remunerate, nella cura della famiglia nucleare e nel sostegno ai parenti non conviventi (Montesperelli, 2008); ma al tempo stesso sono caratterizzate sempre più da un alto tasso di scolarizzazione che le spinge più del passato a delegare parte della socializzazione primaria ad agenzie specializzate come gli asili nido. In quest’ottica, l’espansione della presa in carico dei servizi per l’infanzia si collega alla crescita della scolarizzazione da parte delle donne (Parziale, 2015b): quest’ultime chiedono l’espansione dell’offerta dell’intera filiera educativa sia perché credono in questo tipo di investimento, come testimoniano i loro percorsi scolastici, sia perché necessitano di più tempo per soddisfare il triplice carico evidenziato da Montesperelli. Esiste, dunque, una funzione sia economica sia simbolica del welfare educativo, che varia a seconda dei contesti locali (Parziale, 2015c). Per l’individuazione dei diversi modelli sociali con riferimento al welfare educativo nel nostro Paese, si è partiti dal paniere delle 10 variabili illustrate nelle tabelle 1 e 2, dove si riportano i dati descrittivi delle 22 regioni italiane (inizialmente, il Trentino Alto Adige è stato considerato sia nel suo insieme, sia scorporato nelle due province autonome) in due periodi distinti: il 2004-2007, periodo immediatamente precedente all’intensificazione della crisi economica, e il 2008-2012, arco temporale più vicino alla situazione attuale. Quando si esamina la spesa delle regioni in istruzione (fonte: Conti Pubblici Territoriali) calcolata a livello pro-capite (cioè suddivisa rispetto alla popolazione in età scolare e pre-scolare, di 3-18 anni), essa risulta mediamente in crescita nel passaggio dal primo al secondo periodo (+6,1%), così come aumentano la spesa pro-capite per il diritto allo studio universitario (DSU) e l’analoga spesa nei servizi sociali dei comuni nell’Area Minori e Infanzia. In quest’arco temporale viene ribadito il calo del conseguimento del diploma e del passaggio all’università, mentre aumenta la percentuale di giovani laureati. Peraltro, la crescita della spesa pro-capite per il DSU andrebbe esaminata considerando il calo degli iscritti all’università. In altre parole, l’investimento sociale in istruzione ed educazione cresce mediamente nelle regioni italiane in un periodo in cui si verifica una polarizzazione tra coloro che riescono a laurearsi e coloro che nemmeno conseguono il diploma. Il sistema scolastico acquista efficienza (minore dispersione degli iscritti), ma forse non migliora in efficacia perché è incapace di includere un numero crescente di giovani nell’istruzione terziaria. La polarizzazione sociale è accompagnata da quella territoriale, se è vero (come indicano gli scarti tipo) che nel secondo periodo aumenta l’eterogeneità delle regioni per tipo per investimento sociale nel campo educativo (scuola, università, famiglia e minori), così come per crescita del tasso di laureati, date anche le migrazioni interne (Pugliese, 2006; Istat, 2013). Le differenze territoriali si riducono di poco, invece, in merito alla contrazione dei due tassi di scolarizzazione prima esaminati: la contrazione di diplomati e immatricolati all’università costituisce, dunque, un fenomeno nazionale.

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Infine, restano pressoché invariati il livello di concentrazione dei redditi tra le famiglie e la partecipazione alla formazione della popolazione adulta, mentre cresce tanto la presa in carico dei servizi per l’infanzia quanto l’investimento in ricerca (% su Pil). Si può sostenere che in meno di 10 anni vi è per certi versi un leggero spostamento delle regioni italiane verso il modello di “società della conoscenza”, ma ciò avviene col costo di un aumento delle diseguaglianze sociali e territoriali. Per comprendere come cambia l’articolazione territoriale dell’investimento educativo e della domanda sociale di istruzione, è possibile sintetizzare le informazioni in indici, grazie al ricorso dell’Analisi in Componenti Principali in 2 stadi (Di Franco, Marradi, 2003). L’analisi porta alla costruzione di 2 indici, uno costituito dalle prime 3 variabili elencate nelle tabelle 1 e 2, l’altro formato dalle successive tre variabili. Il primo fattore può essere definito “Investimento Sociale in Educazione” (ISE)9, e rappresenta il tipo di offerta e di sforzo istituzionale in questo campo; il secondo fattore fa riferimento, invece, al “Successo Scolastico” (SUSCO)10, e rappresenta - secondo un movimento circolare - causa ed effetto dell’impegno istituzionale nel campo educativo. Le altre 4 variabili sono poco correlate alle altre 6, ma sono utili come variabili illustrative per migliorare l’analisi territoriale: solo la presa in carico dei servizi per l’infanzia è strettamente legata alla spesa sociale pro-capite dei comuni nell’area Famiglia e Minori11, mentre le altre 3 variabili rinviano a caratteristiche maggiormente connesse all’assetto produttivo12. La sottoposizione dei dati relativi ai 2 indici riferiti al periodo 2004-2007 alla tecnica della cluster analysis non gerarchica13 (Biorcio, 1993) rende possibile classificare le regioni italiane in 4 gruppi (graf. 5)14. 9 L’indice ISE riproduce il 68,2% delle 3 variabili nel primo periodo (2004-2007), mentre l’analogo valore scende nel secondo periodo al 59,2% (2008-2012). In particolare per il primo periodo i coefficienti componenziali, che indicano l’influenza netta di ogni variabile sul fattore complessivo, sono i seguenti: spesa pro-capite istruzione +0,422; spesa pro-capite DSU +0,435; spesa sociale pro-capite nell’area Famiglia e Minori +0,348. Gli analoghi valori per il secondo periodo sono rispettivamente: +0,436; +0,432; +0.431. I dati riportati fanno riferimento all’analisi su 21 regioni, non considerando più anche il Trentino Alto Adige nel suo complesso. 10 L’indice SUSCO riproduce il 62,3% delle 3 variabili nel primo periodo (2004-2007), mentre l’analogo valore scende nel secondo periodo al 53,7% (2008-2012). In particolare per il primo periodo i coefficienti componenziali, che indicano l’influenza netta di ogni variabile sul fattore complessivo, sono i seguenti: tasso di conseguimento del diploma +0,433; tasso di passaggio all’università +0,405; percentuale di laureati tra i giovani di 30-34 anni +0,427. Gli analoghi valori per il secondo periodo sono rispettivamente: +0,438; +0,550; +0,355. I dati riportati fanno riferimento all’analisi su 21 regioni, non considerando più anche il Trentino Alto Adige nel suo complesso. 11 Il coefficiente di correlazione tra spesa pro-capite nei servizi sociali dell’area Famiglia e Minori e la presa in carico dei servizi per l’infanzia è +0,879 nel periodo 2004-2007 e +0,835 nel periodo 2008-2012. Sono variabili quasi collineari. 12 L’investimento in ricerca segnala il grado di innovazione delle imprese, e dunque il tipo di domanda di forza lavoro. Laddove l’economia è più sviluppata cresce la partecipazione alla formazione degli adulti, sia perché questi sono tendenzialmente più istruiti, sia perché cresce la percentuale degli occupati in quei segmenti più centrali del mercato del lavoro dove si ricorre a corsi di aggiornamento dei dipendenti. Il tasso di concentrazione dei redditi delle famiglie dipende maggiormente dal tipo di regolazione dell’economia, fermo restando che nelle regioni più povere esso tende ad essere più alto: il modello di produzione è a scarsa diffusività, per dirla alla Myrdal (1957), perché non si creano le condizioni di espansione di quei segmenti del mercato del lavoro che offrono opportunità di lavoro regolare e meglio retribuito. 13 La misura di calcolo delle distanze tra le regioni rispetto ai due fattori è la distanza euclidea quadratica, mentre il metodo di raggruppamento adottato è il legame medio entro i gruppi. Per chiarimento si rinvia a Biorcio (1993). Queste coordinate valgono anche per l’analisi effettuata sui dati del periodo 2008-2012. 14 Per evitare sovrapposizioni che falsano la classificazione si è deciso di considerare le province autonome di Bolzano e Trento, ma non più il Trentino Alto Adige nel suo complesso.

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Tab. 1 - Offerta e domanda nel campo educativo e della ricerca nelle regioni italiane. Valori medi 2004-2007 Variabili N Minimo Massimo Media Scarto Tipo Euro istruzione per pop. 3-18 anni 22 4.950 7.153 6.056 678 Euro DSU per iscritto all’università 22 64 567 308 128 Spesa sociale pro-capite nell’area Famiglia e Minori 22 23 228 108 60 Tasso di conseguimento del diploma 22 59,6 90,4 76,5 8,3 Tasso di passaggio all’università 22 43,1 82,3 68,1 7,7 Percentuale di laureati tra i giovani di 30-34 anni 22 12,2 22,5 17,2 2,9 Spesa in Ricerca (% su Pil) 22 0,3 1,8 0,9 0,4 Presa in carico dei servizi per l’infanzia 22 1,9 36,7 12,5 8,3 Percentuale di adulti di 25-64 anni in formazione 22 4,5 8,6 6,4 1 Coefficiente sulle diseguaglianze di reddito tra le famiglie 22 0,253 0,339 0,296 0,024

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat, Miur e dei Conti Pubblici Territoriali Tab. 2 - Offerta e domanda nel campo educativo e della ricerca nelle regioni italiane. Valori medi 2008-2012 Variabili N Minimo Massimo Media Scarto Tipo Euro istruzione per pop. 3-18 anni 22 5.196 8.256 6.429 850 Euro DSU per iscritto all’università 22 106 1.764 399 349 Spesa sociale pro-capite nell’area Famiglia e Minori 22 23 267 129 64 Tasso di conseguimento del diploma 22 63 87,9 74,1 7,1 Tasso di passaggio all’università 22 38,4 71,9 60,3 7,2 Percentuale di laureati tra i giovani di 30-34 anni 22 14,3 25,1 20,5 3,2 Spesa in Ricerca (% su Pil) 22 0,5 1,9 1,1 0,4 Presa in carico dei servizi per l’infanzia 22 2,6 28,5 14,1 7,6 Percentuale di adulti di 25-64 anni in formazione 22 4,8 8,9 6,5 1,1 Coefficiente sulle diseguaglianze di reddito tra le famiglie 22 0,268 0,346 0,296 0,024 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat, Miur e dei Conti Pubblici Territoriali In alto a destra nel grafico (I quadrante) si collocano le regioni che mostrano sia un maggiore investimento educativo sia un buon livello di scolarizzazione della popolazione, rivelatrice dell’alta domanda di istruzione da parte delle famiglie. Nel panorama nazionale queste regioni presentano un modello di welfare più vicino all’ideal-tipo “universalista-educativo”: l’investimento riguarda sia i servizi per l’infanzia sia l’istruzione, secondo una logica che tende all’integrazione della filiera educativa, e al tempo stesso si registra la presenza di una società credenzialista (Collins, 1979), ossia che dà molta importanza alla partecipazione dei giovani ai percorsi scolastici. Al contrario, le regioni poste in alto a sinistra (II quadrante) si caratterizzano per l’elevata scolarizzazione della popolazione, ma per un investimento nel welfare educativo medio-basso. Complessivamente è come se le istituzioni puntassero ad assecondare la logica selettiva rinvenibile nella scuola (Brint, op.cit.) a discapito della sua funzione inclusiva. Il primo gruppo comprende Umbria, Emilia-Romagna, Toscana, Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta e Trento. In pratica si tratta del Centro-Nord-Est senza Marche e Veneto, e con l’aggiunta della piccola Valle d’Aosta. Il secondo gruppo è più numeroso ed è formato da Molise, Abruzzo, Lazio, Marche, Piemonte, Liguria, Basilicata e Calabria.

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Dal punto di vista geografico il secondo gruppo corrisponde a tre aree: innanzitutto vi è l’area centro-meridionale (Lazio, Marche, Abruzzo e Molise), distante da quella parte di Mezzogiorno attraversato da particolari difficoltà economiche e sociali. Nel Centro-Sud è altissima la partecipazione all’università e anche il conseguimento della laurea. A Sud, poi, vi sono due regioni rurali e montuose, quali Calabria e Basilicata, caratterizzate dall’assenza (se si esclude l’area di Reggio Calabria) di realtà urbane particolarmente sviluppate: è ragionevole ipotizzare che in queste regioni, dove è alta la presenza di paesi e città di ridotte dimensioni, la scuola costituisca un importante presidio dello Stato, anche perché a questa istituzione si attribuisce la funzione di allocazione della forza lavoro per via di un assetto produttivo debole. Pertanto, in queste realtà i criteri di distinzione sociale del campo culturale sembrano dominare su quelli del campo economico (Bourdieu, 1979, 1984; Parziale, 2015d). In questi contesti, il combinato disposto di minore differenziazione e maggiore controllo sociale - aspetti tipici dei piccoli centri - incoraggia anche gli studenti di modeste origini sociali a seguire lunghe carriere scolastiche. Infine, nel Nord Ovest Piemonte e Liguria si caratterizzano per essere regioni in cui l’investimento nel welfare educativo è inferiore a quello delle regioni più orientate all’universalismo, ma maggiore dell’area lombardo-veneta dove la logica d’azione del welfare educativo pare residuale. Il gruppo con quest’ultimo tipo di welfare è composto da regioni grandi e urbanizzate del Nord e Sud Italia: Lombardia e Veneto, da un lato, e Sicilia, Puglia e Campania, dall’altro lato. La scolarizzazione è in queste 5 regioni più contenuta di quanto registrato mediamente nelle regioni dei primi 2 gruppi per via della maggiore polarizzazione sociale, che porta parte dei giovani della classe operaia ad accorciare la carriera scolastica per le opportunità offerte dal mercato del lavoro (al Nord) o, al contrario, per grandi difficoltà non solo economiche ma anche di integrazione culturale (soprattutto al Sud). Ciò non si traduce automaticamente in maggiori diseguaglianze di opportunità educative tra le classi sociali, come vedremo nel prossimo paragrafo. Graf. 5 - Modelli sociali e welfare educativo rispetto ai valori medi 2004-2007

Legenda: in rosso sono raggruppate le regioni del modello “universalistico-educativo”; in verde le regioni del modello “selettivo”; in blu le regioni del modello “residuale”; in turchese le regioni del modello “scolastico” Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat, Miur e dei Conti Pubblici Territoriali

Bolzano

Sardegna

SiciliaCampania PugliaVeneto CalabriaLombardia VDAToscana TrentoEmilia-RomagnaLiguria Basilicata FVG

Marche Piemonte UmbriaAbruzzo

Molise Lazio

-3-2,8-2,6-2,4-2,2-2-1,8-1,6-1,4-1,2-1-0,8-0,6-0,4-0,200,20,40,60,811,21,41,61,82

-2 -1,8 -1,6 -1,4 -1,2 -1 -0,8 -0,6 -0,4 -0,2 0 0,2 0,4 0,6 0,8 1 1,2 1,4 1,6 1,8 2

SUSC

O

ISE

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182

In sintesi, le regioni con welfare residuale si caratterizzano per lo scarso investimento nella filiera educativa (con le regioni meridionali che spendono meno delle altre, in particolare nei servizi per l’infanzia) a cui corrisponde un livello di scolarizzazione medio-basso. Ancora più bassa è la scolarizzazione in Sardegna e nella provincia di Bolzano, realtà socioeconomiche molto diverse tra loro, ma accomunate da questo fenomeno. Entrambe le realtà si caratterizzano per il grande sforzo nella spesa per l’istruzione scolastica. Si può parlare di welfare scolastico: l’investimento è concentrato in modo particolare in questo punto della filiera educativa, evidentemente per far fronte a fenomeni come il basso tasso di conseguimento del diploma. Le tabelle 3 e 4 permettono al lettore di valutare in maniera più analitica il profilo dei 4 modelli appena descritti. Qui ci si limita ad evidenziare come nelle regioni in cui l’investimento nel welfare educativo è ridotto si rilevano tendenzialmente una più bassa spesa per la ricerca, una minore propensione alla formazione da parte degli adulti e un più alto livello di diseguaglianza di reddito tra le famiglie. Al contrario, nelle regioni con il welfare educativo più completo vale l’esatto contrario. Si tratta, in quest’ultimo caso, delle regioni con la più alta capacità di presa in carico dei servizi per l’infanzia. Ciò dipende sia dal maggiore livello di ricchezza prodotto dall’economia locale, sia dalla particolare importanza attribuita alle politiche sociali più strettamente legate all’educazione. Quanto detto vale in particolare per una regione come la nostra: considerando i valori medi del quadriennio 2004-2007, l’Umbria risultava quarta per spesa pro-capite in istruzione, seconda per l’analoga spesa nel DSU e a metà classifica per spesa nei servizi per l’infanzia e relativa presa in carico. Tab. 3 - Analisi dei 4 modelli sociali per le singole variabili che compongono gli indici ISE e SUSCO. Valori medi 2004-2007

Modelli di welfare Valori

Euro istruzione per pop. 3-18 anni

Euro DSU per iscritto

all’università

Spesa sociale pro-capite nell’area

Famiglia e Minori

Tasso di conseguimento

del diploma

Tasso di passaggio

all’università

Percentuale di laureati tra i giovani di 30-34 anni

Universalistico educativo

Media 6.586 419 176 74,0 71,2 18,4 N 6 6 6 6 6 6

Scarto Tipo 438 104 50 6,0 4,8 1,9

Residuale

Media 5.112 170 69 75,2 66,3 15,1 N 5 5 5 5 5 5

Scarto Tipo 181 67 34 4,8 3,1 2,4

Scolastico

Media 6.788 375 82 64,3 52,9 13,0 N 2 2 2 2 2 2

Scarto Tipo 334 83 15 6,7 13,8 1,1

Selettivo

Media 5.936 279 84 83,8 71,8 18,8 N 8 8 8 8 8 8

Scarto Tipo 91 94 49 5,7 4,8 2,6

Totale

Media 6.007 302 107 77,1 68,5 17,3 N 21 21 21 21 21 21

Scarto Tipo 653 128 61 8,1 7,6 2,9

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat, Miur e dei Conti Pubblici Territoriali Sull’ultimo punto va detto che la nostra regione mostrava un grande sforzo proprio nella costruzione di un’ampia rete di servizi per l’infanzia a fronte di un pil pro-capite superiore solo alle 8 regioni del Mezzogiorno.

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Tab. 4 - Analisi dei 4 modelli sociali per variabili illustrative relative all’assetto socioeconomico, con l’aggiunta del Pil pro-capite. Valori medi 2004-2007

Modelli di welfare Valori

Spesa in Ricerca (% su

Pil) Presa in carico dei

servizi per l’infanzia Percentuale di adulti di 25-

64 anni in formazione Coefficiente sulle diseguaglianze di

reddito tra le famiglie Pil pro-capite

Universalistico educativo

Media 1,0 21,3 6,8 0,277 28.536 N 6 6 6 6 6

Scarto Tipo 0,3 9,6 1,4 0,017 3.332

Residuale

Media 0,9 7,8 5,5 0,313 21.836 N 5 5 5 5 5

Scarto Tipo 0,2 5,3 0,5 0,027 7.736

Scolastico

Media 0,5 10,0 6,7 0,294 25.868 N 2 2 2 2 2

Scarto Tipo 0,1 1,0 0,6 0,021 10.406

Selettivo

Media 1,0 9,5 6,4 0,302 22.540 N 8 8 8 8 8

Scarto Tipo 0,6 5,4 0,8 0,018 5.108

Totale

Media 0,9 12,5 6,4 0,297 24.403 N 21 21 21 21 21

Scarto Tipo 0,4 8,5 1,0 0,023 6.137

Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat Tale sforzo è proseguito negli anni successivi, come attesta il grafico 3. Tutti questi aspetti rivelavano un modello di sviluppo regionale che in quegli anni faceva prevalere la dimensione socio-educativa su quella economica (Montesperelli, Acciarri, 2013). Non a caso, il livello di diseguaglianza economica tra le famiglie era la più bassa d’Italia, dopo Abruzzo e Molise, e al tempo stesso il tasso di giovani laureati era inferiore solo a quello laziale. Con l’intensificarsi della crisi economica si assiste, come anticipato, alla polarizzazione sociale e territoriale. Ciò è testimoniato anche dalla difficoltà di individuare solo 4 modelli sociali. Non solo, nel primo periodo considerato i modelli sociali risultavano abbastanza legati al tipo di welfare educativo15; nel secondo questo legame si allenta e sembra più utile distinguere 6 diversi tipi di modelli sociali, che segnalano anche come le diverse società locali abbiano risposto alla crisi (graf. 6). Le regioni appartenenti al precedente modello educativo universalista non sono più 6, ma 5 perché da un lato Valle d’Aosta e Trento hanno assunto una nuova conformazione, dall’altro lato la Liguria si è avvicinata alla situazione di Umbria, Toscana, Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia. Le ultime 5 regioni, poste in alto a destra nel grafico 6 (I quadrante), presentano un punteggio positivo sui due indici elaborati. Tuttavia, va detto che si registra in molti casi un arretramento in termini di investimento educativo. Infatti sul fattore ISE il punteggio dell’Umbria passa da 1,1 a 0,5, così come il Friuli Venezia Giulia passa da 0,9 a 0,4 e la Toscana da 0,7 a 0,4. Solo l’Emilia-Romagna tiene il passo (0,7 nel primo periodo, 0,8 nel secondo). La Liguria è distante da queste regioni, mostrando un punteggio pari a 0,1; tuttavia questo punteggio è più alto rispetto al periodo precedente quando la performance ligure era negativa (-0,3: l’investimento era inferiore alla media delle 21 regioni analizzate).

15 Le note 9 e 10 evidenziano la riduzione del potere esplicativo dei due indici appositamente elaborati.

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Graf. 6 - Modelli sociali e welfare educativo rispetto ai valori medi 2008-2012

Legenda: in rosso sono raggruppate le regioni del modello “educativo universalistico”; in verde le regioni del modello “selettivo terziario”; in viole le regioni del modello “selettivo secondario” in blu le regioni del modello “selettivo-residuale”; in arancione le regioni del modello “educativo con stratificazione”; in turchese la regione con modello “educativo con forte stratificazione” Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat, Miur e dei Conti Pubblici Territoriali La scolarizzazione delle società con modelli tendenzialmente universalistici non si riduce, ma anzi cresce ancora. Questo è il caso dell’Emilia-Romagna, dove il punteggio sul fattore SUSCO passa da 0,3 a 0,5, e l’Umbria in cui il punteggio è 0,8, mentre si attestava a 0,7 in precedenza. Dato il nuovo profilo, questo modello può essere meglio definito come “educativo universalistico” in modo da dare maggiore enfasi al primo termine, essendosi indebolita la capacità di inclusione. Il primo modello resta comunque tendenzialmente universalista, nel senso che esso crea una scarsa stratificazione nella ripartizione della popolazione giovanile per lunghezza delle carriere scolastiche. Nel prossimo paragrafo si vedrà che, però, questo universalismo è ambivalente e si proveranno a spiegarne le ragioni. Diversa è la situazione di Trento e Valle d’Aosta, dove l’investimento educativo si tiene alto (pur contraendosi un po’ come nel primo caso) e talvolta cresce (Valle d’Aosta), ma la scolarizzazione si contrae, almeno per quanto riguarda il tasso di conseguimento del diploma e il tasso di passaggio all’università. Il modello sociale di queste due regioni può essere definito “educativo con stratificazione”, in modo da distinguerlo dal primo modello dove i tassi di scolarizzazione sono nel complesso più alti. In basso a destra (IV quadrante), ancora più in basso di Trento e Valle d’Aosta, si posiziona Bolzano. Questa provincia speciale continua a mostrare un alto investimento nel welfare educativo, ma una bassa scolarizzazione per via della sua particolare configurazione economica e geografica, che spinge una parte della popolazione ad accorciare le carriere scolastiche o a proseguirle fuori Italia. In questi termini il modello bolzanese può essere definito “educativo ma a forte stratificazione”:

Campania

PugliaVeneto

Sicilia

Calabria

Molise

Abruzzo

Lombardia

BasilicataMarche

Piemonte

Lazio

Liguria

Sardegna

FVGToscana

Umbria

Emilia-Romagna

Trento

Bolzano

VDA

-2,8-2,6-2,4-2,2

-2-1,8-1,6-1,4-1,2

-1-0,8-0,6-0,4-0,2

00,20,40,60,8

11,21,41,61,8

2

-1,8 -1,6 -1,4 -1,2 -1 -0,8 -0,6 -0,4 -0,2 0 0,2 0,4 0,6 0,8 1 1,2 1,4 1,6 1,8 2 2,2 2,4

SUSC

O

ISE

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vi è maggiore equilibrio nella ripartizione dei giovani tra non diplomati, diplomati che non proseguono gli studi, e diplomati che proseguono (con possibilità di conseguire poi la laurea). Questo aspetto rivela una stratificazione educativa dei giovani particolarmente marcata. Complessivamente Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta - piccole e montuose regioni collocate ai confini nazionali - si caratterizzano per alti investimenti nel welfare, ma la domanda di istruzione è relativamente contenute da parte delle famiglie. Discorso differente vale per le altre regioni poste a sinistra nel grafico 6. Le regioni che nel primo periodo mostravano un modello selettivo paiono ora differenziarsi per punto del sistema scolastico in cui la selettività diviene più intensa; mentre lo stesso modello residuale assume una natura più ibrida e simile a quello selettivo. Ciò deriva dal fatto che regioni a scarso investimento educativo, come Puglia e Campania, riducono la loro distanza dalle altre realtà poco dedite al welfare educativo per via di un doppio movimento. Da un lato l’investimento nell’istruzione scolastica e quella per i servizi ai minori in queste regioni cresce, dando vita a una convergenza positiva; dall’altro lato si assiste quasi ovunque a una contrazione della spesa per il diritto allo studio universitario, con una convergenza negativa. La differenziazione dei modelli sociali dipende anche dalle dinamiche più strettamente connesse al mercato del lavoro locale. Abruzzo, Molise, Lazio, Marche e Basilicata mostrano un investimento nel welfare educativo non elevato, a metà strada tra Piemonte e Sardegna, da un lato, e Campania, Calabria, Puglia, Sicilia, Lombardia e Veneto, dall’altro lato. Le prime 5 regioni si caratterizzano anche per alti tassi di scolarizzazione, con una particolare partecipazione al sistema di istruzione terziaria. Si può dunque parlare di “modello selettivo terziario”, perché la selettività scolastica si sposta prevalentemente all’università. Piemonte e Sardegna, con punteggio sull’indice ISE intorno alla media (il Piemonte si pone poco sotto, la Sardegna poco sopra la media), si caratterizzano per bassi tassi di conseguimento del diploma: la selettività scolastica si consuma in particolare nella scuola di 2° grado. Pertanto si può parlare di “modello selettivo secondario”. Le altre regioni meridionali e l’area lombardo-veneta restano quelle con più basso investimento nel welfare educativo, mentre per scolarizzazione alcune si pongono su livelli intorno alla media (Lombardia, Puglia, Veneto), se non superiori (Calabria), altre al di sotto (Campania e Sicilia). I modelli sociali di queste regioni coniugano quindi logica residuale e logica selettiva (“modello selettivo-residuale”), lasciando ampio spazio alla competizione sociale per l’acquisizione dei titoli di studio. Le tabelle 5 e 6 chiariscono ulteriormente il quadro. I modelli sociali più stratificati hanno una maggiore spesa in scuola e università, mentre la spesa sociale dei comuni per i minori è tendenzialmente più alta nelle regioni del modello educativo tendenzialmente universalista. Esso riesce a coniugare un alto tasso di conseguimento del diploma con un buon tasso di passaggio all’università e di giovani laureati. Riesce a fare meglio solo il modello selettivo terziario. In quest’ultimo modello il livello di diseguaglianza tra i redditi delle famiglie è relativamente alto, mentre bassa è la presa in carico dei servizi per l’infanzia e contenuta è la percentuale di adulti in formazione. In altri termini, il modello selettivo terziario si caratterizza per

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dinamiche credenzialiste marcate, dato il debole assetto produttivo e l’ampio spazio riservato alla competizione iniqua tra i gruppi sociali per ottenere i vantaggi derivanti da una buona scolarizzazione. In sintesi, il campo culturale prevale su quello economico in maniera abbastanza incisiva. All’opposto si pone il modello selettivo-residuale, dove il campo economico prevale su quello culturale: alcune società ricche del Nord e le società povere del Sud sono in questo accomunate; nelle prime le classi subalterne riescono quantomeno a raggiungere una condizione sociale tendenzialmente migliore, grazie al buon livello di sviluppo economico, mentre nelle seconde non avviene nemmeno questo. Tab. 5 - Analisi dei 4 modelli sociali per le singole variabili che compongono gli indici ISE e SUSCO. Valori medi 2008-2012

Modelli di welfare Valori

Euro istruzione per pop. 3-18 anni

Euro DSU per iscritto

all’università

Spesa sociale pro-capite nell’area

Famiglia e Minori

Tasso di conseguimento

del diploma

Tasso di passaggio

all’università

Percentuale di laureati

tra i giovani di 30-34 anni

Selettivo secondario Media 6.494 353 138 68 60 18

N 2 2 2 2 2 2 Scarto Tipo 663 133 25 2 1 2

Educativo con stratificazione Media 7.072 1.228 185 66 59 21

N 2 2 2 2 2 2 Scarto Tipo 1.079 758 14 0 10 5

Educativo universalistico Media 6.641 326 190 73 62 23

N 5 5 5 5 5 5 Scarto Tipo 394 78 47 2 2 2

Selettivo-Residuale Media 5.532 212 73 76 59 18

N 6 6 6 6 6 6 Scarto Tipo 427 59 43 6 5 3

Educativo con forte stratificazione

Media 8.256 692 175 63 38 19

N 1 1 1 1 1 1 Scarto Tipo , , , , , ,

Selettivo terziario Media 6.322 264 91 83 67 23

N 5 5 5 5 5 5 Scarto Tipo 164 112 57 3 4 2

Totale Media 6.352 385 127 75 61 20 N 21 21 21 21 21 21

Scarto Tipo 788 352 65 7 7 3 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat, Miur e dei Conti Pubblici Territoriali Gli altri modelli si caratterizzano per un maggiore equilibrio tra campo economico e campo culturale. Nel selettivo secondario questo equilibrio pare giocato al ribasso, mentre nei modelli sociali educativi e stratificati si registrano minori diseguaglianze economiche, un buon livello di investimento educativo e forse una maggiore efficienza nella capacità allocativa della scuola. In merito a quest’ultimo aspetto, il modello educativo universalistico perde colpi e forse presenta un rapporto tra mercato del lavoro e scuola meno efficiente di quanto rilevato in Trentino e Valle d’Aosta. Ma, in compenso, il livello di istruzione dei giovani è più alto. Ciò dovrebbe avere delle ricadute positive maggiori su diverse dimensioni che favoriscono la coesione sociale.

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Tab. 6 - Analisi dei 4 modelli sociali per variabili illustrative relative all’assetto socioeconomico, con l’aggiunta del Pil pro-capite. Valori medi 2008-2012

Modelli di welfare Valori

Spesa in Ricerca

(% su Pil)

Presa in carico dei servizi per

l’infanzia

Percentuale di adulti di 25-64

anni in formazione

Coefficiente sulle diseguaglianze di

reddito tra le famiglie

Pil pro-capite

Selettivo secondario Media 1,3 14,0 6,4 0,294 21.685

N 2 2 2 2 2 Scarto Tipo 0,8 1,1 1,0 0,007 5.437

Educativo con stratificazione

Media 1,2 23,9 6,9 0,281 29.703 N 2 2 2 2 2

Scarto Tipo 0,9 2,9 2,9 0,009 2.970

Educativo universalistico

Media 1,3 22,0 7,1 0,286 25.569 N 5 5 5 5 5

Scarto Tipo 0,2 4,5 0,3 0,014 2.746

Selettivo-Residuale Media 1,0 7,7 5,5 0,313 19.698

N 6 6 6 6 6 Scarto Tipo 0,3 6,2 0,5 0,030 6.985

Educativo con forte stratificazione

Media 0,6 7,0 7,7 0,268 32.555 N 1 1 1 1 1

Scarto Tipo , , , , ,

Selettivo terziario Media 0,9 11,3 6,4 0,303 20.957

N 5 5 5 5 5 Scarto Tipo 0,5 4,4 0,7 0,023 4.469

Totale

Media 1,1 14,1 6,4 0,297 23.150 N 21 21 21 21 21

Scarto Tipo 0,4 7,8 1,0 0,024 5.899 Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat Modelli sociali e diseguaglianze di scolarità relative

I modelli sociali individuati si distinguono non solo per il tipo di investimento nella filiera educativa (e più precisamente nelle 3 aree prese qui in esame: servizi per l’infanzia, scuola e università), ma anche per il livello di scolarizzazione dei giovani. Il secondo aspetto restituisce informazioni sulla domanda di istruzione da parte delle famiglie. In realtà, offerta educativa da parte delle istituzioni e domanda sociale di istruzione, pur non essendo in rapporto di stretta causalità, vanno analizzate in maniera relazionale: le forze sociali (le famiglie si distinguono per risorse possedute, e cioè per posizione nella struttura sociale) si esprimono all’interno di forme istituzionali che esse stesse costruiscono (Habermas, 1981). I modelli sociali illustrati in precedenza, per quanto elaborati solo sulla base di informazioni parziali, sono utili a comprendere il modo in cui una società si organizza (Bagnasco, 2012, op. cit.) nel campo educativo. La forte attivazione nei servizi socio educativi e nell’istruzione da parte della nostra regione è dovuta allo storico impegno delle classi dirigenti umbre nel costruire un modello di sviluppo che coniughi crescita economica e coesione sociale. In effetti, l’Umbria continua ancora oggi a caratterizzarsi per la buona qualità dei servizi, a partire da quelli educativi, nonostante la crisi economica abbia messo allo scoperto le gracilità del tessuto produttivo. Inoltre, la progressiva crescita della scolarizzazione della popolazione non si è arrestata, ma anzi ha finito per qualificare la nostra regione come una delle società col più alto tasso di laureati, non solo tra i giovani. Questa lunga marcia in direzione della scolarizzazione della popolazione ha avuto come protagoniste le donne (Parziale, 2015b, op. cit.). Gli alti tassi di scolarizzazione confermano anche la contenuta polarizzazione sociale, altra caratteristica storica del modello umbro. Tuttavia, bisogna stare attenti a non

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confondere i buoni tassi di istruzione, anche tra gli studenti delle classi sociali subalterne, dalle diseguali possibilità di vita (Ballarino, Schizzerotto, 2011). In particolare, bisogna considerare che, dato un contesto istituzionale che promuove un certo livello di partecipazione scolastica complessiva, l’acquisizione dei titoli di studio risente delle dinamiche di riproduzione sociale, dipendenti a loro volta dalle risorse che un individuo può attingere dal proprio ambiente familiare per avere successo a scuola come nel lavoro. Quando si analizza una società come quella umbra, ad alta scolarizzazione e con buona inclusione sociale, bisogna interrogarsi allora sulle diseguaglianze relative di scolarità, soprattutto in una fase critica come l’attuale che vede crescere la povertà (anche dei minori) persino nel nostro contesto regionale (Parziale, 2015a, op. cit.). Infatti, il modello sociale umbro sembra oggi affaticato al punto da aver rallentato la sua capacità di assorbimento delle contraddizioni socioeconomiche, con una parte della popolazione a rischio di esclusione. Tale affaticamento pare investire proprio il cuore del modello regionale, ossia il campo educativo. Le pressioni esterne non sono state irrilevanti ed hanno messo in difficoltà la società locale. La contrazione della spesa pubblica del governo centrale, a fronte della crescita degli alunni stranieri e dei disoccupati espulsi dalle fabbriche, ha spinto le istituzioni umbre a correre ai ripari con aggiustamenti incrementali, consistenti nella ridefinizione degli interventi. Si corre, però, il rischio di abbassare la qualità di alcuni servizi sociali. Tuttavia, il modello ha finora retto nel suo complesso: come abbiamo visto, il tasso di conseguimento del diploma è tornato a crescere e a porsi su livelli superiori al dato nazionale, dopo la contrazione della seconda metà del primo decennio, così come si è tenuto alto il tasso di conseguimento della laurea. D’altra parte, alcuni rallentamenti ci sono stati: si pensi alla riduzione della presa in carico dei servizi per l’infanzia, alla presenza di una quota non irrilevante di minori poveri e alla non sufficiente espansione della scuola a tempo pieno. Quest’ultimo aspetto è molto importante per il nostro discorso perché l’estensione del tempo passato a scuola dai bambini permette ai figli delle classi svantaggiate di recuperare parte del divario di capitale culturale rispetto ai coetanei di diversa origine sociale. Il tempo pieno, dunque, risulta maggiormente utile e vantaggioso alle famiglie delle classi lavoratrici, sia perché queste ultime non possono ricorrere con la stessa intensità delle altre classi sociali al mercato dei servizi di cura o del tempo libero (si pensi all’iscrizione dei figli in palestra o ad associazioni sportive), sia perché il tempo a disposizione per l’organizzazione quotidiana post-scolastica è minore, sia - last but not least - perché i minori di origine sociale più umile necessitano di un’offerta scolastica più robusta. Rispetto al 1968-1969, anno di avvio in chiave sperimentale a Bologna, e dopo il consolidamento degli anni Settanta e Ottanta su scala nazionale, il tempo pieno ha subìto prima una modifica con la legge 148/90 e poi una decisa contrazione. In particolare, con la riforma Gelmini l’orario settimanale delle lezioni nella scuola primaria può variare in base alle scelte delle famiglie da 24 a 27 ore, estendendosi fino a 30 ore. In alternativa a questi orari, le famiglie possono chiedere il tempo pieno di 40 ore settimanali, ma a patto che vi sia la disponibilità di posti. Asimmetrie informative

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tra le classi sociali (Saraceno, op. cit.) e scarsa disponibilità di budget del Miur rendono questa alternativa sempre meno praticabile. Tutto ciò ha finito per rendere l’istruzione di bambini e ragazzi maggiormente dipendente dalle risorse economiche e culturali delle famiglie. Se questo vale per tutto il Paese, la nostra regione si contraddistingue per il fatto che il tempo pieno è davvero poco diffuso (tab. 7). Il triplice carico delle donne (Montesperelli, 2008, op. cit.) non può giustificare questa situazione, perché le ricadute in termini di coesione sociale potrebbero essere col tempo negative. Peraltro, le umbre sono sempre più scolarizzate e impegnate nell’ambito lavorativo (Parziale, 2015b, op. cit.). Negli ultimi anni l’Umbria ha provveduto comunque a rafforzare i servizi per la prima infanzia in modo da allentare il carico familiare delle donne. Ciò dovrebbe nel tempo contribuire alla riduzione delle diseguaglianze di scolarità, ma a patto che vi saranno interventi mirati lungo la filiera scolastica. Il rischio di sfilacciamento del modello sociale umbro è reale, data la nuova configurazione demografica e la contrazione della spesa pubblica centrale. Sono diversi gli indizi dell’esistenza di una vera e propria questione sociale anche nel campo educativo. Innanzitutto, va detto che ben il 15,4% dei bambini e ragazzi di 6-17 anni dichiarava nel 2011 di non aver frequentato la scuola dell’infanzia: si tratta del valore più alto in Italia, pari a oltre il triplo di quello nazionale (tab. 8). Tab. 7 - Classifica delle regioni per incidenza di classi e alunni a tempo pieno nella scuola primaria statale nell’a.s. 2012-2013 Regioni % classi Regioni % alunni Basilicata 47,7 Piemonte 50 Lombardia 47,1 Lombardia 49,1 Piemonte 45,5 Lazio 47,8 Lazio 45,4 Toscana 46,8 Emilia Romagna 44,4 Emilia Romagna 46,7 Toscana 44,4 Liguria 45,1 Liguria 41,7 Basilicata 44,6 Friuli 38,3 Friuli 38,7 Sardegna 33,4 Sardegna 34 Totale Italia 30 Totale Italia 31,6 Marche 24,6 Marche 25,5 Veneto 23,7 Veneto 25,3 Calabria 21 Umbria 21,2 Umbria 20,6 Calabria 19,8 Puglia 14 Puglia 13,2 Abruzzo 11,5 Abruzzo 12,3 Sicilia 7,7 Molise 8 Molise 7,4 Sicilia 7,3 Campania 7,3 Campania 7 Fonte: Miur Questi dati sembrano suggerire un investimento non sufficiente in quel tipo di servizi che dovrebbero servire a contrastare le diseguaglianze educative soprattutto quando vi sono molti studenti stranieri e al tempo stesso in molte famiglie umbre, soprattutto operaie, la condizione economica è andata peggiorando a causa dei licenziamenti. Se questo dato viene letto insieme alla scarsa presenza del tempo pieno, allora non deve meravigliare che la maggior parte dei giovani stranieri tende a seguire percorsi

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formativi più deboli, di tipo professionale, e a incontrare maggiori difficoltà nella prosecuzione degli studi. Ad esempio, in provincia di Perugia ben il 42,8% degli alunni stranieri nei primi due anni di scuola superiore frequenta l’istituto professionale16, mentre ciò vale per poco più di un decimo degli studenti di cittadinanza italiana, e anche in provincia di Terni la percentuale di stranieri che scelgono questo indirizzo di studio è superiore al doppio di quella rilevata tra gli italiani. Contemporaneamente non si può sottovalutare il fatto che oltre un quinto degli alunni stranieri frequenta il liceo, almeno stando ai dati sui primi due anni di scuola superiore, così come la scelta dell’indirizzo tecnico è simile tra italiani e stranieri, anzi è superiore per i secondi nella provincia di Terni. Nel ternano è interessante rilevare che oltre il 16% degli alunni stranieri nei primi due anni di scuola superiore è iscritto al liceo scientifico. Tab. 8 - Bambini e ragazzi di 6-17 anni nel 2011 per frequenza in passato della scuola dell’infanzia per almeno un anno per regione, ripartizione geografica e tipo di comune Regioni, Ripartizioni e tipi di comune

Frequenza in passatodella scuola dell’infanzia

Si, pubblica Si, privata Totale

Piemonte 4,7 75,3 20 100 Valle d’Aosta 0,7 93,4 5,9 100 Liguria 2,5 65,4 32,1 100 Lombardia 2,7 93,2 4,1 100 Trentino-Alto Adige 2 91,9 6,1 100 Bolzano 3,4 94,5 2,1 100 Trento 5,5 52,1 42,4 100 Veneto 0,5 84,1 15,4 100 Friuli-Venezia Giulia 8,7 75,5 15,8 100 Emilia-Romagna 7,5 58,4 34,1 100 Toscana 1 83 16 100 Umbria 15,4 79,7 4,9 100 Marche 3,9 87,9 8,2 100 Lazio 4,1 80,4 15,5 100 Abruzzo 2,5 87,3 10,3 100 Molise 3,9 81,5 14,6 100 Campania 6,6 83,1 10,3 100 Puglia 1,6 88 10,4 100 Basilicata 0,5 90,9 8,6 100 Calabria 3,5 88,7 7,7 100 Sicilia 10,3 84,1 5,5 100 Sardegna 2,7 77,9 19,4 100 Nord-ovest 3,6 69,2 27,2 100 Nord-est 5,4 62,2 32,3 100 Centro 4 82,1 13,9 100 Sud 4,1 85,9 10 100 Isole 8,7 82,8 8,5 100 Italia 4,8 76,2 19 100 Fonte: Istat, Indagine Multiscopo sulle famiglie, Aspetti della Vita Quotidiana, 2011 Ma vi sono altri segnali di difficoltà nel campo educativo nella nostra regione, rivelatori dei processi di nuova gerarchizzazione sociale che come altrove si sono manifestati nell’ultimo ventennio, e si sono intensificati con la crisi economica iniziata nel 2007. Ad esempio, dai dati dell’Indagine Multiscopo sulle famiglie risulta che i ragazzi di 13-17 anni intervistati nel 2011 hanno dichiarato nel 71,5% dei casi di aver ottenuto un giudizio inferiore a distinto nel conseguimento della licenza media: l’Umbria è tra le 16 Nella provincia perugina circa i quattro decimi degli iscritti alle prime due classi degli istituti professionali sono stranieri. Per maggiori dettagli si rinvia al Primo Rapporto sull’istruzione in Umbria realizzato dall’AUR.

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regioni col più alto tasso di licenziati con giudizio corrispondente a sufficiente o buono. La scuola umbra è forse più esigente? Non sembrerebbe così. Infatti, secondo i dati dell’indagine OCSE-PISA del 2012 sulle competenze degli studenti di 15 anni, l’Umbria si colloca in posizione mediana per punteggio medio nelle prove di matematica e di lettura e lo stesso risulta dai dati più recenti, del 2013, forniti dall’Invalsi in merito al test sulle competenze alfabetiche degli studenti della scuola di 2° grado: gli umbri ottengono un punteggio medio pari a 204, facendo collocare l’Umbria in posizione mediana nella graduatoria nazionale (il punteggio medio italiano è 192,7). La nostra regione conferma questa collocazione anche quando si considera la percentuale di studenti che mostrano scarse competenze (non vanno oltre il primo dei sei livelli di preparazione previsti dall’indagine dell’OCSE-PISA) o, al contrario, di studenti con un’ottima performance (che raggiungono il quinto o sesto livello). In ogni caso, è preoccupante che il 20,8% degli studenti umbri risultati dotato di scarse competenze in matematica, con questo valore che scende di poco, attestandosi al 18%, nel caso delle competenze in lettura. Al contrario, solo poco più del 10% ha raggiunto o superato il quinto livello nel test di lettura, con questa percentuale che si riduce al 5,3% nel caso della prova di matematica. Ancora più preoccupante è il grande divario tra gli indirizzi scolastici, con i liceali umbri che mostrano una prestazione media superiore ai loro colleghi italiani, mentre vale l’esatto contrario quando si considerano gli studenti degli istituti professionali (Parziale, 2013, op. cit.). Data la forte associazione tra origine sociale e tipo di indirizzo scolastico su scala non solo nazionale (Dubet, 2010), emerge un altro indizio della presenza di particolari diseguaglianze di scolarità tra le classi sociali. Il quadro delineato in questo paragrafo viene corroborato dall’analisi secondaria dell’indagine Istat “Percorsi di studio e di lavoro dei diplomati nel 2007”17. Questa indagine considera la situazione dei giovani nel 2011, a 4 anni dal conseguimento del diploma. Nel nostro caso sono state effettuate 4 regressioni logistiche binomiali (Corbetta, Gasperoni, Pisati, 2001) al fine di esaminare le diseguali opportunità dei diplomati di diversa origine sociale in merito alla probabilità di: ottenere un giudizio corrispondente a distinto/ottimo piuttosto che sufficiente/buono all’esame di terza media; scegliere i licei piuttosto che gli indirizzi tecnico-professionali nella prosecuzione degli studi alla scuola di 2° grado; iscriversi all’università piuttosto che non farlo; laurearsi entro 4 anni. Per analizzare l’origine sociale dei diplomati sono stati esaminati sia la loro classe sociale di appartenenza18 sia il capitale culturale familiare19, tenendo sotto controllo il genere e l’area geografica (Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud e Isole). 17 L’analisi ha riguardato il sottocampione di 8.334 casi estrapolato dall’Istat e reso pubblico sul suo sito. 18 Per stabilire la classe sociale di provenienza si è tenuto conto dell’occupazione dei genitori dell’intervistato quando questi aveva 14 anni. Si è fatto ricorso allo schema di Cobalti e Schizzerotto (1994) e al principio di dominanza (Erickson, 1984), ma con alcuni correttivi: da un lato si è considerato il diseguale accesso delle donne al mercato del lavoro; dall’altro lato della congruenza tra occupazione e titolo di studio dei genitori. Nel dettaglio, gli intervistati sono stati attribuiti alla borghesia quando sono risultati figli di imprenditori con almeno la licenza media (se l’occupazione dominante era quella del padre), imprenditrici con almeno il diploma (se l’occupazione dominante

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Le regressioni logistiche sono state effettuate in maniera separata su 5 sotto campioni: uno per ogni modello sociale del primo periodo (2004-2007) e un sottocampione formato dai soli umbri. Si è fatto ricorso alla classificazione dei modelli del primo periodo perché essa copre gli ultimi 3 anni di scuola di 2° grado degli intervistati (che, come detto, si sono diplomati nel 2007). Le analisi restituiscono valori molto incerti per via della non ampia estensione dei sotto-campioni. Tuttavia, emerge un risultato statisticamente significativo in tutti i modelli di regressione elaborati: la diseguaglianza scontata dai diplomati con basso capitale culturale familiare (i genitori non hanno conseguito il diploma) rispetto a coloro che provengono da famiglie con alta istruzione (entrambi i genitori laureati, o uno laureato e l’altro diplomato). A parità di genere, classe sociale e area geografica (quindi neutralizzando il divario Nord/Sud Italia), il modello sociale universalista mostra il più alto livello di diseguaglianza relativa di scolarità, in particolare in termini di iscrizione all’università. Questo carattere è particolarmente marcato nella nostra regione (graf. 7). Questo risultato è solo apparentemente paradossale. Infatti, nelle regioni in cui si investe di più in educazione e al tempo stesso vi è un’alta scolarizzazione della popolazione, l’istruzione risulta una risorsa particolarmente importante per tutte le classi sociali. Regioni come l’Umbria in passato (cioè nel periodo di espansione del welfare fordista-keynesiano) hanno mostrato, almeno rispetto alla società nazionale particolarmente chiusa (Checchi, 2010), una relativa mobilità sociale dei figli della classe operaia grazie all’istruzione. Oggi una parte della classe media e della borghesia, le classi tendenzialmente più istruire, sono costituite da soggetti di origine operaia. Le stesse famiglie operaie mostrano spesso un capitale culturale non così basso, pertanto scontano livelli di diseguaglianza non particolari. In altri termini, bisogna stare attenti ai contesti territoriali: quando si considerano le diseguaglianze tra le classi non bisogna commettere l’errore di confondere l’operaio che vive al Sud con quello che vive al Nord. La struttura di classe è spazialmente connotata. In quest’ottica, dunque, va detto che le maggiori diseguaglianze di scolarità sono pagate da coloro che associano la condizione di classe subalterna a un basso livello di scolarizzazione. In tal caso, data la forte e per certi versi inter-classista competizione sociale nell’investimento per l’istruzione, i gruppi più deprivilegiati soccombono in misura alquanto forte. era almeno quella della madre); i figli di liberi professionisti con laurea e i figli di dirigenti. Gli intervistati sono stati considerati di classe media se l’occupazione dominante è risultata essere: padre/madre quadro, funzionario, impiegato, tecnico a media qualificazione, insegnante. Nella Piccola borghesia autonoma sono rientrati i figli di imprenditori con licenza elementare (se l’occupazione dominante era quella svolta dal padre), di imprenditrici con licenza elementare o media (se l’occupazione dominante era quella della madre), oppure i figli di liberi professionisti privi della laurea ed i figli di lavoratori autonomi. Infine, la classe operaia è costituita dai figli di operai o impiegati esecutivi. Per chiarimenti si può scrivere all’autore: [email protected]. 19 Gli intervistati sono stati classificati in 4 gruppi a seconda del titolo di studio dei genitori: capitale culturale alto (genitori entrambi laureati oppure uno laureato e l’altro diplomato), medio (genitori entrambi diplomati oppure uno laureato e l’altro privo del diploma), medio-basso (un genitore diplomato e l’altro privo del diploma), basso (entrambi i genitori privi del diploma).

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Per questo regioni tendenzialmente universaliste come l’Umbria e l’Emilia-Romagna - peraltro le regioni col più alto tasso di alunni stranieri - rivelano un particolare livello di diseguaglianze di scolarità relativa pagata dai diplomati provenienti da famiglie operaie a basso capitale culturale. Altrimenti, le diseguaglianze di classe “pure” sono più contenute di molte altre regioni d’Italia, come mostra l’analisi che bipartisce ogni classe sociale in 2 frazioni: quella a medio-basso capitale culturale (al massimo uno dei due genitori è diplomato) e quella a medio-alto capitale culturale (i genitori sono almeno entrambi diplomati, oppure se uno non lo è, l’altro è laureato)20. Limitandoci al caso umbro21, ad esempio, le frazioni più svantaggiate (e per le quali le stime del relativo coefficiente beta è statisticamente significativo) in termini di probabilità di iscrizione all’università - il punto in cui le differenze tra studenti con capitale culturale familiare differente si traducono in misura maggiore in diseguaglianza relativa di scolarità - sono, nell’ordine, le frazioni poco istruite della borghesia, della classe operaia e della piccola borghesia autonoma (tab. 9). Graf. 7 - Svantaggio (stimato con i parametri Beta) tra i diplomati con basso capitale culturale familiare e quelli con alto capitale culturale familiare, a parità di classe sociale, genere e zona geografica, per ogni stadio del percorso scolastico e per modello sociale

Note: 2.102 casi per il modello universalista educativo; 2.351 casi per il modello residuale; 751 casi per il modello scolastico; 1.918 casi per il modello selettivo; 377 casi per l’Umbria. Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat, Percorsi di studio e di lavoro dei diplomati nel 2007 Se la minore propensione a continuare gli studi all’università da parte dei figli degli imprenditori poco istruiti può derivare in diversi casi dalla possibilità di rilevare l’azienda senza avere la necessità di un titolo di studio superiore al diploma; le difficoltà delle altre due frazioni rivelano un blocco dell’ascensore sociale in una regione che tanto investe in istruzione e più in generale in educazione. La classe più favorita risulta essere quella media e istruita, anche rispetto alla frazione borghese a medio-alta istruzione (i figli di liberi professionisti laureati, di dirigenti e imprenditori

20 In altre parole la categoria “capitale culturale familiare alto” è stata accorpata alla categoria “capitale culturale familiare medio-alto”, così come sono state accorpate le restanti due categorie. Si rimanda alla nota precedente. 21 Per maggiori dettagli sull’analisi si invita a scrivere all’autore. Si veda la nota 18.

-3,300-3,000-2,700-2,400-2,100-1,800-1,500-1,200-0,900-0,600-0,3000,000

distinto-ottimo licei università laurea

Universalista educativo

Residuale

Scolastico

Selettivo

Umbria

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con almeno il diploma22). Avvantaggiati rispetto ai figli della borghesia istruita, sebbene in misura inferiore alla classe media, risultano essere anche coloro che provengono da famiglie operaie con capitale culturale medio-alto. Ciò sembra indicare che il modello sociale umbro è particolarmente centrato sulle famiglie della classe media istruita, in parte composta da genitori di estrazione operaia, e in seconda battuta promuove le famiglie operaie, a patto che esse abbiano un livello di istruzione almeno medio (conseguimento del diploma da parte dei genitori). L’investimento educativo è dunque efficace, ma l’inclusione è favorita quando l’utenza è formata da famiglie con disposizioni non avverse alla scolarizzazione (Bourdieu, 1979, op.cit.). Il problema si pone rispetto a quella fascia sociale composta da operai umbri e immigrati (stranieri e italiani) poco qualificati: questa parte della società regionale resta ai margini, estranea al modello inclusivo. I risultati appena illustrati spingono ad approfondire lo studio sulle diseguaglianze di scolarità in Umbria con apposite indagini su un campione più ampio di studenti umbri. Tab. 9 - Propensione relativa dei diplomati umbri all’iscrizione (entro 4 anni dal diploma) all’università per frazione di classe di provenienza, a parità di genere. Svantaggio o Vantaggio rispetto agli studenti della borghesia a medio-alto capitale culturale

Frazioni di classe B E.S. Sig. Exp(B) Borghesia con medio- alto capitale culturale

(cat.rif.)

Classe operaia con medio-basso capitale culturale

-1,347 0,435 0,002 0,260

Piccola borghesia autonoma con medio-basso capitale culturale

-1,121 0,477 0,019 0,326

Classe operaia con medio-alto capitale culturale

0,231 0,563 0,681 1,260

Piccola borghesia autonoma con medio-alto capitale culturale

-0,808 0,530 0,127 0,446

Classe media con medio-basso capitale culturale

1,015 1,105 0,358 2,760

Borghesia con medio-basso capitale culturale -1,456 0,719 0,043 0,233

Classe media con medio-alto capitale culturale

0,631 0,610 0,301 1,880

maschio 0,202 0,264 0,444 1,224 Costante 1,547 0,402 0,000 4,696 Note: 377 casi Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Istat, Percorsi di studio e di lavoro dei diplomati nel 2007 Per il momento la nostra analisi suggerisce che non è sbagliato investire in educazione, ma piuttosto il modello sociale umbro necessita di un’innovazione basata su interventi solidi e sistematici nei diversi punti della filiera educativa: rafforzamento dei servizi per l’infanzia e legame pedagogico con la scuola dell’infanzia; tempo pieno nella scuola

22 Si veda la nota 18.

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primaria e interventi mirati alle fasce più deboli anche nella scuola di 1° grado; de-segregazione dell’offerta dell’istruzione secondaria; orientamento e diritto allo studio universitario. Non è facile seguire questa ricetta, date le pressioni nazionali e internazionali, ma forse la forza dell’Umbria sta nel puntare su un modello di sviluppo più egualitario e capace di diffondere il benessere “ad ampio raggio”, per dirla alla Myrdal (1957). Il rallentamento della crescita indebolisce il contrasto delle diseguaglianze, ma è anche vero il contrario: la redistribuzione del potere tra le classi sociali facilita lo sviluppo economico (Piketty, 2014), come peraltro testimonia proprio il percorso storico-istituzionale seguito dalla nostra regione in passato.

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