numero 5/2010

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Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino IL DUALISMO ITALIANO UNA QUESTIONE ETICO POLITICA Nino Daniele 5 Settembre/ottobre 2010 – Anno XI Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania GAMBESCIA, GEREMICCA, GIANNOLA, MARRELLI, MADDALONI e RANIERI discutono col Ministro RAFFAELE FITTO CONFRONTO SUL PIANO SUD Claudio D’Aquino D opo un terre- moto non esi- ste un modello unico di ricostruzione, valido per tutti i territori e tutte le epoche. È impossibile comparare le vicende del Belice con quelle del Friuli, dell’Umbria, del Molise, dell’Aquila con quelle di Napoli e delle zone interne della Cam- pania e della Basilicata. Si tratta di accadimen- ti diversi per intensità, estensione, entità dei danni. Pertanto non esi- ste neppure un parame- tro unico per valutare i criteri di intervento e i risultati conseguiti. Nel trentennale del sisma del 23 novembre 1980 in Campania e Ba- silicata non sono man- cati e non mancheranno studi e teorie su quello che con i programmi e i finanziamenti per la ri- costruzione si poteva e si doveva fare. E opinioni su quello che si è fatto o non si è fatto. Riten- go che chi ha vissuto in prima persona, e con re- sponsabilità primarie, la temperie di quegli anni, piuttosto che giustifica- re le scelte compiute e le cose realizzate, farebbe cosa utile a racconta- re la realtà e i problemi con i quali si è misura- to. Da testimone e pro- tagonista. E le decisioni che ha dovuto assume- re ‘in tempo reale’. A volte sbagliando. Altre volte no. L’epicentro del ter- remoto del 1980 è stato in Irpinia. Le vittime, 2.735 morti e 8.850 feri- ti, con interi paesi rasi al suolo, sono dell’Irpinia e delle zone interne. Napoli è stata teatro di un terremoto ‘fred- do’, con un solo edificio crollato, nel quartiere di Poggioreale. Nei primi giorni del dopo-sisma dalla città erano addi- rittura partite squadre di volontari e iniziative di solidarietà verso le zone interne. >> Segue a pag. 16 23 Novembre 1980 Spunti e riflessioni nel trentennale del terremoto in Campania e Basilicata Andrea Geremicca DA PAG. 6 A 150 anni dalla costru- zione dello Stato nazionale unitario il dualismo italiano è tuttora irrisolto. La differenza con altre fasi della vita unitaria è che si è fatta più debole e quasi soccombente la volontà di venirne a capo come pro- blema generale della na- zione e sua comune meta ed ambizione. L’Italia non sembra ave- re più nel suo “idem senti- re” l’idea che un Paese più forte e progredito si può co- struire… >> Segue a pag. 3 DA PAGINA 21 “Noi cittadini del Mezzogiorno d’Europa a 150 anni dall’Unità d’Italia diciamo: Su la testa!”

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Rivista Mezzogiorno Europa

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Page 1: Numero 5/2010

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

IL DUALISMOITALIANOUNA QUESTIONEETICO POLITICANino Daniele

5Sette

mbre/

ottob

re 20

10 –

Ann

o XI

Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.Spedizione in abbonamento postale 70%

Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Gambescia, Geremicca, Giannola, marrelli, maddaloni e ranieri discutono col Ministro raffaele fitto

CONFRONTO SUL PIANO SUDClaudio D’Aquino

Dopo un terre-moto non esi-

ste un modello unico di ricostruzione, valido per tutti i territori e tutte le epoche. È impossibile comparare le vicende del Belice con quelle del Friuli, dell’Umbria, del Molise, dell’Aquila con quelle di Napoli e delle zone interne della Cam-pania e della Basilicata. Si tratta di accadimen-ti diversi per intensità, estensione, entità dei danni. Pertanto non esi-

ste neppure un parame-tro unico per valutare i criteri di intervento e i risultati conseguiti.

Nel trentennale del sisma del 23 novembre 1980 in Campania e Ba-silicata non sono man-cati e non mancheranno studi e teorie su quello che con i programmi e i finanziamenti per la ri-costruzione si poteva e si doveva fare. E opinioni su quello che si è fatto o non si è fatto. Riten-go che chi ha vissuto in

prima persona, e con re-sponsabilità primarie, la temperie di quegli anni, piuttosto che giustifica-re le scelte compiute e le cose realizzate, farebbe cosa utile a racconta-re la realtà e i problemi con i quali si è misura-to. Da testimone e pro-tagonista. E le decisioni che ha dovuto assume-re ‘in tempo reale’. A volte sbagliando. Altre volte no.

L’epicentro del ter-remoto del 1980 è stato

in Irpinia. Le vittime, 2.735 morti e 8.850 feri-ti, con interi paesi rasi al suolo, sono dell’Irpinia e delle zone interne.

Napoli è stata teatro di un terremoto ‘fred-do’, con un solo edificio crollato, nel quartiere di Poggioreale. Nei primi giorni del dopo-sisma dalla città erano addi-rittura partite squadre di volontari e iniziative di solidarietà verso le zone interne.

>> Segue a pag. 16

23 Novembre 1980

Spunti e riflessioni nel trentennale del terremoto in Campania e BasilicataAndrea Geremicca

da paG. 6

A 150 anni dalla costru-zione dello Stato nazionale unitario il dualismo italiano è tuttora irrisolto.

La differenza con altre fasi della vita unitaria è che si è fatta più debole e quasi soccombente la volontà di venirne a capo come pro-blema generale della na-zione e sua comune meta ed ambizione.

L’Italia non sembra ave-re più nel suo “idem senti-re” l’idea che un Paese più forte e progredito si può co-struire… >> Segue a pag. 3

da paGina 21

“Noi cittadini del Mezzogiorno

d’Europa a 150 anni dall’Unità

d’Italia diciamo:

Su la testa!”

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Coesione Milano – Napoli:Prove di dialogo federalista Luisa Pezone » » 28

Altre AfriChe Cyberdemocrazie africane Vincenzo Cavallo » » 33

Focus permanente Rapporti UE‑Russia Carmine Zaccaria » » 37

euronote Andrea Pierucci » » 42

sommario

Con il patrocinio di Regione Campania – Comune di Napoli – Provincia di Napoli

La Fondazione Mezzogiorno Europa e l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”nell’ambito delle Celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia

promuovono

Ciclo di 10 conferenze

Novembre 2010 – marzo 2011 Sala del Rettorato Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

Paolo Macry “Napoli 1860: come crolla uno Stato” • Luigi Musella “Napoli in età liberale: modelli politici”

Paolo Frascani “Dal risanamento all’industrializzazione” • Paolo Varvaro “Il fascismo napoletano” • Paolo de Marco “Gli anni 40: guerra e dopo guerra alla scala cittadina” • Andrea Geremicca “Il fenomeno Achille

Lauro” • Piero Craveri “Da Gava a Valenzi: il ciclo politico nazionale e la politica locale” • Massimo Villone “Prima e dopo il terremoto: la lunga storia delle legislazioni speciali” • Biagio de Giovanni • “Il crollo della

Prima Repubblica e la stagione della leadership carismatica” • Giuseppe Galasso “Napoli e l’Italia: 150 anni

di problemi della storia e di risposte degli storici” • Conclusioni Tavola rotonda

Le opere che illustrano questo numero sono tavolette votive offerteper “grazie ricevute” al santuario della Madonna dell’Arco.

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3>> Segue dalla prima

…conseguendo più alti livelli di unificazione economica e ci-vile passando attraverso la ri-soluzione di quella che fin dalla nascita della nuova formazione statale unitaria veniva descritta e definita come “questione me-ridionale”.

Sembrano di oggi queste parole di Pasquale Saraceno: ”insomma se la storia recen-te ha profondamente cambia-to i termini economici e tecnici della questione meridionale, la sua essenza resta quella indi-cata dai grandi meridionalisti del passato: quella cioè di una grande questione etico-politica, che inve-ste le stesse fondamenta morali della società nazionale e dello Sta-to Unitario”.

Sono invece del 1989. Anche allora esse prendevano le mosse dalla necessità di politiche dei red-diti e di risanamento strutturale del-la finanza pubblica e dal fatto che a quelle politiche si opponevano, più o meno apertamente, interessi di natura corporativa che apparivano tanto più forti quanto più dispersi e politicamente più deboli erano ”co-loro che si riconoscono nella finalità della unificazione economica e socia-le del paese”.

Lungo un’analoga ispirazione mi sembra si muovano le considerazioni di Fabrizio Barca: ”la società e l’eco-nomia italiane restano frenate da mer-cati non concorrenziali e da uno Stato inefficace”. La crisi mondiale ed il suo perdurare hanno accentuato e reso più visibili e frenanti tare storiche del nostro capitalismo e del nostro siste-ma produttivo. Esse sono ormai così macroscopiche da spingere molti os-

servatori a paventare un irreversibile declino e un ruolo progressivamente marginale per l’Italia.

Quando la crisi è esplosa, e quando è apparso chiaro che essa aveva tra le ragioni scatenanti un de-ficit di regolazione dei mercati finan-ziari nel quale si era prodotto un vero e proprio collasso etico delle élites fi-nanziarie dominanti la parola d’ordine dei governi è stata: mai più.

Perfino il Ministro Tremonti ado-perava parole di fuoco contro la fi-nanza mondiale e la immoralità dei banchieri.

Etica ed economia, etica e politi-ca ricostruite nei loro necessari nessi avrebbero dovuto presiedere alla ri-presa ed al rilancio dello sviluppo per-ché niente fosse più come prima.

Possiamo rintracciare in modo ovviamente sintetico e sommario i fattori di criticità e di rischio che con-figurano il problema italiano proprio nell’incapacità di riprodurre in modo adeguato il capitale imprenditoriale ed i giacimenti di conoscenza, accu-mulati nei secoli, specializzazioni di saperi frutto di una cultura e di una civiltà che tutto il mondo ci invidia.

Siamo diventati consumatori e non più produttori di cultura.

È stata la capacità di utilizzare queste nostre due peculiare risor-se – capacità imprenditoriale e gia-cimenti di conoscenza – a consentire all’Italia lo scatto dopo la guerra mon-diale e a permetterci di partecipare all’età dell’oro dello scorso secolo. Fu la combinazione di meccanismi formativi, pubblici e di mercato, a cre-are allora le competenze e le capacità dello scatto: l’accesso all’istruzione, l’apprendimento all’interno delle im-prese maggiori, le scuole tecnico-professionali, la costruzione di reti associative di servizi alle imprese. Fu storicamente il vero punto di forza quello dell’imprenditoralità diffusa, radicata in tutte le sezioni della po-polazione, alimentata di continuo dal mondo del lavoro che cresceva negli ambiti industriali. E fu il compromesso straordinario fra forze politiche e cul-turali diverse a dare sempre in quegli anni, al ceto medio imprenditoriale il libero accesso ai mercati internazio-nali e lo spazio per usare i giacimen-ti della storia, e, perfino l’invenzione nittiana degli enti pubblici – parte-

cipazioni statali e Cassa per il Mezzogiorno – aprì la strada alla formazione di manager e quadri nuovi per grandi e medie imprese in concorrenza con quelli dell’in-dustria privata.

“Ma si trattava di soluzioni provvisorie – considera F. Bar-ca –. Mancava la costruzione di un sistema concorrenziale che, in tutti i mercati, mantenesse lo sprone per il ceto medio impren-ditoriale. Mancava la costruzione di un’amministrazione pubblica ordinaria (di cui gli enti pubblici erano supplenti) capace di dare a quell’imprenditoria diffusa i ser-vizi collettivi e le condizioni per riprodurre i giacimenti trovati. ” Quando poi gli enti pubblici da stimolo concorrenziale divenne-ro sistema di potere, autotute-

la di vertici immobili e conservatori dello status quo, proprio e delle po-che grandi imprese private del capi-talismo familiare, allora, il rimedio escogitato divenne un fallimentare sistema fiscale, un regime di bassi salari, il sommerso, condizioni odio-se di impiego del lavoro.

È così che il capitale umano e fis-so delle imprese si è andato depau-perando, ovvero non è progredito in linea con l’evoluzione delle tecnolo-gie, della conoscenza degli altri nostri competitori.

Quello dell’istruzione, in Italia, è un insuccesso che ha riflessi negati-vi sulle opportunità delle persone di trovare occupazione, sulle abilità dei lavoratori di sostenere le innovazioni del processo produttivo e di interagire con il lavoro che più incorpora tecno-logia e ricerca, sulle potenzialità degli imprenditori di concettualizzare le pro-prie intuizioni produttive e di ricercare e riuscire a stabilire relazioni proficue con l’innovazione tecnologica scatu-rente dal progresso scientifico. E si tratta anche di un insuccesso nell’as-sicurare una mobilità sociale in grado di fomentare i processi innovativi, nel

IL DUALISMO ITALIANO…Nino Daniele

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Rivista mezzogiorno europa205x250:Layout 2 2-03-2009 15:15 Pagina 1

mettere continuamen-te in corsa nuove leve che, provenienti dal territorio nazionale o da altri territori, pones-sero a disposizione del progresso del paese le loro capacità e non i loro natali.

Sulla base di alcu-ni recenti indicatori la probabilità in Italia di conseguire una laurea è per i figli dei laureati pari a 16 volte quella di coloro che non hanno genitori laureati. Un’in-giustizia che ci ren-de più poveri. Iniquità ed inefficienza vanno di pari passo – come spesso accade.

Abbiamo insisti-to su questo aspet-to perché il caso dell’istruzione, della formazione e della ricerca, mostrano quale miopia al-berghi nelle teo rie neo liberiste che affidano l’intero processo della pro-duzione e riproduzione culturale al mercato ed al censo.

Qualsiasi élite che non sappia in-cludere ed allargarsi attraverso pro-cessi selettivi fondati sul merito ed il talento è destinata ad esaurire la propria funzione storica. È da Croce che lo abbiamo appreso e dalla sua polemica contro le teorie elitarie dei conservatori e pertanto antitetiche all’autentico spirito liberale.

E nel Mezzogiorno?Tutte le analisi disponibili forni-

scono per il Mezzogiorno valutazioni sostanzialmente non difformi dalla diagnosi generale.

Il Mezzogiorno non è altro rispet-to ai problemi del Paese. Il divario di produttività che permane con il Cen-tro-Nord e l’Europa e le difficoltà a colmarlo appaiono dovuti alle stese

quattro cause ultime che spiegano la crisi italiana, ovvero un mercato pro-tetto e distorto, inadeguatezza delle infrastrutture e dei servizi collettivi, un sistema bancario ed un mercato dei capitali asfittico e refrattario a misurarsi con il rischio d’impresa, stato e burocrazie pubbliche ineffi-cienti e deresponsabilizzate, bassi tassi di investimento in ricerca ed innovazione tecnologica, debolez-za ed inadeguatezza dei processi di istruzione e formazione.

La somiglianza delle cause dà ra-gione a chi ritiene che i problemi del Mezzogiorno non vanno affrontati con strumenti straordinari, ossia diversi per concezione e finalità da quelli ne-cessari per l’intero paese. Ma la mi-sura dell’intervento deve essere più forte ed alcune sue forme, regole e prassi rafforzate perché la misura del-le cause è decisamente più grave. Tre sono le ragioni di questa accentuata

gravità: a) l’accumularsi in un lungo arco di tempo di una politica sbaglia-ta, sin dall’inizio degli anni sessanta; b) la debolezza delle relazioni fiducia-rie tra privati e privati e tra privati e Stato; c) il condizionamento invasivo e degenerativo delle mafie.

La politica economica sbaglia-ta ha ridotto il livello di concorrenza, attraverso sussidi e soprattutto at-traverso la creazione di una leva di mediatori pubblici, che ha sottratto (e sottrae) intelligenze allo sviluppo e di-storce norme ed azione pubblica.

Ciò ha alimentato sfiducia verso la democrazia e lo Stato di diritto. E la sfiducia rappresenta il principale ter-reno di coltura delle mafie.

La presenza di queste ecceziona-li ragioni impediscono di pensare al Mezzogiorno ed al dualismo italiano come ad un problema esclusivamen-te o principalmente di politiche eco-nomiche e di sviluppo.

Non si può pen-sare ad un nuo-vo Mezzogiorno, ad una nuova politica industriale, ad una più alta capacità competitiva senza venire a capo di bar-dature corporativisti-che, mafie legali, po-sti di lavoro ereditari, strutture parassitarie; cioè di quella com-plessa trama omer-tosa tesa promuo-vere e tutelare una ragnatela di privilegi soffocanti ed ingiusti, che danneggiano la concorrenza, nega-no l’universalità dei diritti, scoraggiano i nuovi imprenditori e gli investimenti.

Il Mezzogiorno è una questione eti-co-politica non econo-

mica. Compito di un nuovo riformismo è rilanciare con coraggio l’attualità di una “rivoluzione liberale ”sorretta da rigore riformatore contro cartelli, trust, buro-crazie inefficienti e spesso corrotte, cor-porazioni, rendite, protezioni clientela-ri, nepotismi, familismi, e protesa a far premio al talento, alla professionalità, alla produttività, alla generosità verso i beni pubblici e, l’ambiente.

“Rivoluzione libe rale” vuol dire anche la ricostruzione di un’etica pubblica fondata sui rispetto dei di-ritti e l’esercizio dei doveri, sull’au-togoverno improntato al principio di responsabilità.

Quella parte di una riforma fede-ralista che non dobbiamo temere ma accettare come sfida, per costruire finalmente anche nel Mezzogiorno quella moderna statualità obbiettivo del pensiero meridionalista critico e dell’europeismo democratico.

Con una sola parola “legalità”.

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6 CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO

Claudio D’Aquino

“Entro un mese il Piano per il Sud sarà presentato in ver‑sione ufficiale. In questo tempo occorre dialogare con gli Enti locali e con le istituzioni e le parti sociali per mo‑dificare, integrare, arricchire i contenuti in un confronto

costruttivo teso alla risoluzione dei problemi anziché alla sterile con‑trapposizione teorica”. A parlare è Raffaele Fitto, che il 13 ottobre scor‑so, nella Sala del Parlamentino della Camera di commercio di Napoli, conclude un dibattito sul Piano per il Sud promosso dalla Fondazione Mezzogiorno Europa. E alla parola di un Ministro bisogna credere. Ma il confronto è serrato sulla necessita di evitare una discussione e una iniziativa politica su cui grava il clima di una nuova contesa elettorale (anche se nessuno sa se e quando si andrà a votare) col timore di ave‑re posizioni dettate,

come dice Andrea Geremicca introducendo il confronto “dall’ansia di conquistare voti e consenso a prescindere dal merito delle questioni”. “C’è da augurarsi invece – afferma il Presidente della Fondazione M‑E – che col Piano non si voglia tentare il bilanciamento dei consensi elettorali nel‑la parte più debole del Paese nei confronti dell’arroccamento della parte più forte attorno alla bandiera del federalismo fiscale”.

Sullo sfondo c’è un’altra ipotesi, più strisciante, legata all’idea di uti‑lizzare i Fondi europei non spesi per risolvere nodi di primaria competenza statale, ”ordinaria”, come la Giustizia, la Sicurezza o la Ricerca.

Quali sono invece gli assi che il Piano del Sud dovrebbe incentivare nell’ottica di recuperare un divario che rischia di approfondirsi con la crisi? È ancora Geremicca a chiarirlo: “Si sente il bisogno di un Piano articolato in macro‑aree e iniziative trainanti, per saldare l’obiettivo dello sviluppo e della ricostruzione di una nuova governance nel Mezzogiorno”.

Interviene Maurizio Maddaloni, Presidente della Camera di commer‑cio di Napoli. “Con i suoi 100 miliardi di euro disponibili tra Fondi europei, nazionali e del Fas – afferma‑ richiede una sterzata da parte delle regioni meridionali. Occorre un cambio di marcia nella capacità di spesa, metten‑do alla spalle una stagione fallimentare. Il punto di partenza è la riforma federale dello Stato che prevede un profondo ripensamento della macchi‑na amministrativa e burocratica dei governi del Sud.

Gli fa eco Adriano Giannola, Presidente della Svimez, che sul federa‑lismo ha idee chiare: “Non può essere concepito come un grimaldello per liberarsi del Sud. Il problema italiano non è tutto nel Mezzogiorno coi suoi ritardi, ma un sistema Paese che è in crisi per costo del lavoro e produtti‑vità rispetto all’Europa”. Anche il Nord, insomma, perde terreno da dieci anni e tiene sui mercati solo grazie all’export. Il federalismo è uno strumen‑

to di cambiamento istituzionale e non una strategia. “Il Mezzogiorno – insiste Giannola – solo apparentemente è annegato in un mare di risorse pubbliche, perché in realtà i fondi europei hanno sostituito i trasferimenti statali ordinari, calati del 10 per cento in dieci anni. “Oggi si tratta – aggiunge il Presidente della Svimez – di delineare la strategia dello sviluppo e pensare a come renderci competitivi rispetto ai nuovi mercati. Il Sud è la naturale piattaforma per la logistica nel Mediterraneo, e il naturale serbatoio per le energie rinnovabili, e la ca‑pitale d’Europa per i saperi immateriali. Quali strategie ha il governo per utilizzare queste risorse?”

Il Rettore dell’Università Federico II di Napoli, Mas‑simo Marrelli, prende di mira l’inefficienza di un ordina‑mento giuridico che affoga tra norme, burocrazia, ricorsi di una macchina amministrativa che fa trascorrere in media oltre 18 mesi tra l’emanazione di una legge e la sua attuazione. “Tempi – è il suo giudizio – che deter‑minano un freno nella rincorsa per la competitività. Il ministero della Semplificazione ha tolto qualche vec‑chia norma ma non è andato oltre e ha inciso poco sui

Gambescia, Geremicca, Giannola, marrelli, maddaloni e ranieri

discutono a Napoli di Mezzogiorno e Federalismo

SUL PIANO SUDPASSARE DALLE PAROLE AI FATTI

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7CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO

tempi di attuazione delle politiche industriali e sulle strate‑gie di crescita”. Fa quindi cenno a uno studio della Federico II in cui emerge che negli ultimi venti anni le delibere emanate dalle amministrazioni pubbliche di tutta Italia “sono diventate operative solo nell’1,7 per cento dei casi, con poche differen‑ze tra Nord, Centro e Sud”. Poi un passaggio sull’Università e sulla inadeguatezza del nostro sistema formativo. “La Cam‑pania – osserva – ha speso molto per l’Università in conto capitale, ossia in infrastrutture, ma poco per i servizi e per la gestione sul medio e lungo termine”.

Tocca poi a Umberto Ranieri, responsabile Mezzogiorno Pd, portare il punto di vista dell’opposizione. “La classe diri‑gente economica e politica del Sud deve recitare il mea culpa sulle tante lacune e nodi irrisolti del tessuto economico del Mezzogiorno. Ma bisogna stare attenti ai tempi delle riforme dettate dal Governo. Non servono accelerazioni ma pondera‑zione e confronto. Dico no al luogo comune che vuole che il Sud possa recuperare terreno se lasciato all’auto‑determina‑zione e alle sfide del federalismo”. Il processo di devoluzione prevede un attento accompagnamento e il Nord non riuscirà a rimettere in moto la locomotiva dello sviluppo solo basandosi sugli egoi‑smi insiti nel federalismo non solidale. Il rischio è che vi sarà un Sud con meno servizi e più tasse e un Nord che non cresce.

“Occorre lavorare insieme, fare fronte comune – dice il Ministro nelle sue conclusioni – perché è necessario un vero e proprio patto bipartisan per il Sud. Che non è tutto nero. Ma siamo a metà percorso dell’Agenda 2007‑2013 e prima di aprire un dibattito per avere più risorse, il Sud deve sapere che a metà programmazione è stato speso solo il 7% dei fondi di‑sponibili”. Quindi prosegue sulla necessità di razionalizzare gli sforzi e con‑centrare le risorse impegnandole anzitutto sulle infrastrutture, la sicurezza, l’Università e la ricerca. Sul Piano per il Sud, promette, ci sarà un mese di confronto con le Regioni e gli altri enti locali.

Un mese. E poi ?

• • • • •

Viviamo un tempo in cui tra le “parole” e le “cose” si è aperta una faglia. E colmarla a questo punto sembra alquanto difficile. Assistiamo a una continua consunzione del senso, a una costante frattura logica per cui le parole, che per un paio di millenni sono state conseguenza delle cose, tali non sembrano più. Quanto il sistema dei media contribuisca ad allargarla, questa faglia, non è ar-gomento che si possa affrontare in una riflessione sul Mezzogiorno, per così dire, “ieri, oggi e domani”. Però, come vedremo, molti problemi nascono dalla inclinazione acquisita dai media a fungere da spinta magmatica tendente a:

1) rincorrere la tematizzazione imposta dalla politica, specie da quando in politica è sceso in campo un campione della comunicazione; quasi una resa a discrezione di fronte alla capacità di chi è al potere di dettare l’agenda setting; persino i programmi d’informazione televisiva più “aggressivi” e più “efficaci” (cioè in grado di raccogliere grandi numeri di ascolto e di share) vanno a rimorchio: non riescono a sviluppare argomenti trainanti se non, in un modo o in un altro, con “la voce del padrone” incorporata.

2) la narrazione sul Sud, da sempre a marchio di fabbrica meridionale, da un decennio almeno appare subornata dal sistema politico-comunica-zionale del Nord; fenomeno a cui corrisponde, in parallelo, l’abdicazione del Mezzogiorno dal ruolo che al Mezzogiorno è appartenuto a lungo, cioè di fucina della classe dirigente della nazione. Risultato: oggi depositari della verità sul Sud sono anzitutto coloro che sono nati altrove, altrove lavorano, del Sud hanno visto e conosciuto punto o poco, salvo andarci in vacanza. Chi garantisce che la lente non sia distorta e la diapositiva sfocata?

GLI UMORI DI ADROIl destino del Mezzogiorno è nelle mani di chi alla diapositiva sfocata

o “ci crede o ci fa”. O vede il Sud in filigrana, e macera nell’umor nero che secernono gli “idola tribus” del profondo Nord, una radice antropologica nutrita dalla dialettica “noi vs loro”. Oppure pizzica ad arte quelle corde, imbevute di umori ancestrali (gli umori di Adro), per stimolare consensi al suono di un corno che chiama a raccolta i valligiani: a difesa della etnia, della razza, del territorio. Sapendo invece, in coscienza, che tirare in ballo le distorsioni e i difetti del Mezzogiorno è sacrosanto, forse è utile persino al Mezzogiorno chiamato alla responsabilità di scegliersi una classe dirigente degna del nome, governare il riallineamento suscitato dal federalismo, ec-cetera. E tuttavia qualcuno gioca il monito al Sud come espediente retorico buono a gettare la palla fuori dal campo. Quale? Il campo dove si gioca la partita vera, la competizione internazionale. Dove Nord e Sud d’Italia, con-siderati uno diviso dall’altro non contano, conta poco il Paese (che, al più, da dieci anni almeno, amministra il suo declino), forse qualcosa contereb-be l’Europa se agisse come area sistemica della sfida globale. Come altro si può definire se non “finzione” il ricorso all’idea che basti dare un giro al rubinetto dei trasferimenti statali, sprecati al Sud, per avere più risorse nei luoghi dove si fa più Pil e più reddito, da investire nel posto dove vengono

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8 CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO

prodotte? Ne deriva che una coalizione di governo egemonizzata dalla Lega finisce col trattare il Mezzogiorno come problema di una parte del Paese, non del Paese intero. Alimentando una schizofrenia che distorce il dibatti-to politico al punto da farne un esercizio senza presa sulla realtà. Anzi, se un’unica influenza “reale” c’è, si esercita sul balletto degli annunci o delle dichiarazioni – queste sì prive affatto di “responsabilità” – di una men che vaga esigenza di “produrre risultati”. Nomina fuerunt consequentia rerum. Oggi non più. Il dibattito sul Mezzogiorno ne è la prova.

MARCHIONNE E GLI ALTRIMarchionne va in televisione e in un programma di grande ascolto di-

chiara che “non un euro dei due miliardi di ricavi del gruppo Fiat proven-gono dall’Italia”. Ha detto Pomigliano? Ha detto Termini Imerese o Melfi? No, ha detto proprio “Italia”. Senza l’Italia il gruppo Fiat farebbe molto di più. Il manager-filosofo interpreta la situazione del Paese con gli occhi di chi ha – deve avere – per mercato il mondo. Per lui (e per i tanti investi-tori stranieri) il problema è l’Italia, non il Mezzogiorno. “Negli ultimi dieci anni – sostiene – il nostro paese non ha saputo reggere il passo con gli altri. Non c’è nessuno straniero che investe qui… La proposta che abbia-mo fatto è dare alla rete industriale di Fiat la capacita di competere con i paesi vicini a noi… Il salario cambierà se cambierà il sistema di produzione in Italia…”. Italia, Italia, ancora Italia. Un Paese “frenato”, scriveva Fabrizio Barca in un suo saggio per Donzelli nel 2006. Un Paese che deve andare “oltre in declino”, ribatte un gruppo di analisti economici guidati da Tito Bo-eri in un libro de Il Mulino del 2005. Voci di coloro che parlano nel deserto. “Nel 2009 – si legge nella Nota della Banca d’Italia sulle economie delle regioni italiane – la recessione ha coinvolto tutti i settori e le aree geogra-fiche”. Il calo del PIL è stato relativamente maggiore nel Nord Ovest (-6,1 per cento) e del Nord Est (-5,6) rispetto al Centro (-3,9) e al Mezzogiorno

(-4,1)”. Si è assistito a una caduta della produzione che ha portato il grado di utilizzo degli impianti su livelli inferiori ai minimi di inizio anni Novanta. In tutte le aree geografiche, ma soprattutto al Nord, sono state le piccole imprese (la parte preponderante del tessuto produttivo nazionale) a regi-strare maggiori difficoltà produttive e reddituali.

BENVENUTI AL SUDBenvenuti al Sud, allora. Che c’è ma non si vede. Benvenuti nel 46% del

territorio nazionale, dove vive il 35% della popolazione italiana, che produ-ce solo il 25% del Pil. Benvenuti al Sud che enumera tre regioni su cinque in cui si concentra il 75% del crimine organizzato e in cui il valore aggiun-to pro capite del settore privato è pari al 45% di quello del Centro-Nord. Dove vive quasi un pensionato di invalidità su 2 (leggi 1.900.000 pensioni su un totale di 4.200.000; il 45% del totale nazionale). Dove negli ultimi quindici anni la crescita è stata attorno al 20%, collocando cosi l’area di circa il 35% al di sotto della media nazionale. Il Pil del Sud vale pratica-mente la meta rispetto al Nord. Il Sud che ha perso oltre 175.000 occupati nella sola fascia giovanile. Ed ha oltre 6,5 milioni di lavoratori che gravita-no nel sommerso. Benvenuti al Sud, dove tante cose non vanno. Ma senza il quale l’Italia non è. A meno di non sognare l’annessione della Padania, magari per referendum, all’impero austro-ungarico, ripristinato per effetto dell’allargamento europeo ad Est. Un processo dal quale manca un’ulti-ma regione, il Lombardo Veneto. Un arroccamento che determinerebbe un vantaggio competitivo nella gara della globalizzazione pari a zero. Perché quella competizione si gioca su un quadrante che non ha più per confini gli Stati del centro Europa. Senza il Sud l’Italia non è. Continuare a stargli “contro”, puntare sul federalismo come versione “dolce” della secessione, può essere pagante nel breve periodo. Non nel medio-lungo termine. Ma il

Sud è ciò che l’Italia sarà, perché è già – qui e ora – la metafora amplificata di ciò che il Paese è diventato. Se il Sud piange e si lamenta, il Centro Nord di certo non ha motivo di ridere.

ATTO DI NASCITA“La fredda e più accreditata evidenza contabile

del prodotto lordo regionale oggi disponibile – ricorda l’economista Adriano Giannola – non ravvisa tracce di dualismo al fatidico 1861, né tantomeno nei primi 20 anni dell’ Unità. Il divario inizia a manifestarsi dopo il 1891, quando esso si palesa e si propaga nell’econo-mia di tutte le regioni meridionali”. Insomma, fino al 1891 la Campania risulta la regione più ricca del Pae-se, gareggiando con Lombardia e Piemonte”. Se la sto-ria insegna, è il caso di tenerne conto. Tener conto del fatto che come il Sud anche l’Italia (è ancora Giannola che parla) ormai da quasi quindici anni stenta a tenere il passo tutt’ altro che eccezionale dei Paesi dell’ Unio-

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9CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO

ne. Né sembra corretto imputare tale deludente performance al peso di un Sud che, se fosse possibile depennarlo, consentirebbe al Settentrione una ben più brillante posizione… L’impasse dell’industria manifatturiera, sostanzialmente simile al Sud ed al Nord nel periodo 2001 – 2007 – con-clude l’economista – emerge con evidenza impietosa dal confronto con il resto d’ Europa”. Problema che non si affronta e non si risolve invocando una riforma istituzionale – il federalismo – come surrogato di una politica economica degna del nome.

QUADRO E CORNICEC’è un’altra faccia della produttività del Sud, quella che dipende da

carenza di beni collettivi – infrastrutture, logistica, servizi, formazione, criminalità – e che incide notevolmente sulla competitività, sugli investi-menti, sull’attrazione di imprese esterne. Su questo fronte il federalismo fiscale può essere uno strumento, non lo sbocco finale. Pertanto il fede-ralismo può considerarsi una cornice, non il quadro. E talvolta, come me-tafora dei conti che devono tornare – lo dice Nichi Vendola – è di impe-dimento esso stesso. “Se violo il patto di stabilità – ricorda il presidente della Puglia in un’intervista al Corriere del Mezzogiorno – incorro in una punizione che si riflette sui cittadini. Ma per non violare i patti di stabi-lità già da oggi non posso più spendere un euro di fondi comunitari… Siamo di fronte a una manovra finanziaria che ha le caratteristiche del sadismo sociale e che rende favolistica la prospettiva del federalismo. Si può fare il federalismo con il morto?”. E il direttore della Svimez Ric-cardo Padovani che, sul Sole 24 del Sud, ha facile gioco nel rammentare che “dal 2007 si registra una progressiva crisi degli interventi di incen-tivazione per l’ industria nel Mezzogiorno, fino ad arrivare nel 2009 a un sostanziale azzeramento…”. I contratti di programma? I contratti di loca-lizzazione? Le zone franche urbane? “Per un motivo o un altro, sono rimasti lettera morta…”. L’economista Gianfranco Viesti rincara la dose: “Anche nelle virtuose regioni del Nord o nei ministeri la spesa (dei fondi euro-pei 2007-2013. Ndr) è praticamente ferma. Perché non si spende? Prima di tutto perché non ci sono le idee chiare su quello che bisogna fare. In secondo luogo perché, per ogni euro finanziato da Bruxelles ce ne vuole uno prelevato dalle casse nazionali. E le Regioni hanno già enormi pro-blemi a far quadrare i bilanci…”.

SUD A PERDERE?Un terzo della popolazione, un quarto del Pil del Paese. “Il Sud è una

pentola bucata: assorbe la ricchezza prodotta dal Nord pagandola coi tra-sferimenti pubblici che riceve dal Nord”. Adotta la metafora di Paolo Savo-na l’economista Massimo Lo Cicero quando deve sintetizzare il suo giudizio sul divario del Mezzogiorno. Lo squilibrio tra demografia e base produttiva, dal quale deriva una disoccupazione strutturale, fa del’economia meridio-nale, appunto, una pentola bucata. “Si trasforma, insomma, in un vaso dal quale la liquidità fuoriesce, grazie agli acquisti, in altre regioni italiane e in altri Paesi, delle imprese e delle famiglie residenti nel Mezzogiorno”.

Il resto deriva dalla dimensione del lavoro illegale e sommerso, che riduce il gettito fiscale che dal Sud dovrebbe arrivare nelle casse dello Stato. Di contro, la qualità dei servizi, assai mediocre nel Mezzogiorno, riduce il be-nessere dei cittadini meridionali, comunque più poveri di quelli del Nord”. (E il “sacco del Nord”, di cui parla un fortunato libro di Luca Ricolfi? “Non è una rapina dei meridionali, ma uno squilibrio che danneggia anche i me-ridionali… Se si riducesse la spesa dei meridionali, finanziata dal resto dell’Italia, si ridurrebbe anche il tenore di vita del Nord). Ma Lo Cicero ne ha anche per le Regioni italiane. La loro introduzione, che risale al 1970, non è essa stessa un primordiale passaggio federalista, un decentramen-to che avrebbe dovuto “responsabilizzare” le classi dirigenti nella gestio-ne dei territori? “Il Sud – afferma l’autore del libro “Sud a perdere?” – è molto più grande demograficamente, di numerosi Stati europei: il doppio del Portogallo. E sarebbe considerato un’area omogenea ed integrabile in se stessa se non fosse stato smembrato negli anni Settanta in un nume-ro eccessivo di regioni amministrative”. Ciascuna troppo piccola (e troppo diversa dalle altre) per essere significativamente capace di crescere su se stessa. Ci sono quindi colpe del Sud. Ma c’è anche una colpa del governo del Paese: la propria l’incapacità di trasformare il Sud governando, come avrebbe dovuto, le fragili, e non sempre attente all’etica della responsabi-lità, classi dirigenti meridionali.

BADARE A SE STESSIChe cosa serve invece al Sud? A chiederlo a un esponente (qualsivoglia)

del governo, la risposta sarebbe una: punire le classi dirigenti che disammi-nistrano. E a Napoli anche Fitto la butta in politica, come si dice, afferman-do che le risorse ci sono (quelle europee, s’intende): il fatto è che il Mezzo-giorno lamentoso e cialtrone non le sa spendere. Mentre invece andrebbe avviata una semplificazione del numero delle Regioni, che nel Sud sono

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10 CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO

troppe e troppo piccole. Affiancate – lo sostiene da tempo Lo Cicero – da una Banca mediterranea di sviluppo, mutuata dagli standard operativi della World Bank. La nuova politica economica del Mezzogiorno? Non deve, e non può, partire dalle radici locali – conclude Lo Cicero – ma dalla ricognizione delle tendenze in atto nel mercato internazionale: per individuare le forme e i modi con i quali collegare le risorse locali alle opportunità commerciali e finanziarie della scena mondiale; per individuare i Paesi in cui le imprese meridionali devono trasferire parte delle proprie capacità industriali e crea-re forme stabili di integrazione con altre economie. Serve anzitutto – come sostiene nell’introduzione all’incontro con Fitto il direttore di Mezzogiorno Europa Andrea Geremicca – e serve un vero e proprio piano regolatore per la riqualificazione delle periferie delle grandi aree urbane. E un piano indu-striale per l’innovazione e l’efficienza delle Pubbliche amministrazioni. Ma se l’obiettivo è il recupero sul divario economico, servono anche azioni a sostegno delle politiche di internazionalizzazione delle piccole e medie im-prese e un vero e proprio piano regolatore delle infrastrutture immateriali, a partire dalla banda larga”.

MARI E MERCATIÈ dalla fine degli anni Settanta che Singapore è stata direttamente coin-

volta nella creazione del mercato dell’Asia-dollaro costituendo una base offshore alle operazioni della rete bancaria delle eurovalute. Hong Kong si è adeguata poco dopo: nel 1982 è diventata, dopo Londra e New York, il terzo centro finanziario del mondo in termini di banche estere rappresenta-te. Taiwan, dal canto suo, si è “specializzata” nell’accumulazione di riserve monetarie estere… La Corea del Sud è divenuta uno dei maggiori investi-tori esteri diretti nella regione dell’Asia orientale e sudorientale. Alla fine degli anni ottanta le “Quattro Tigri” come gruppo hanno superato sia gli

Stati Uniti che il Giappone come principali investitori dei Paesi dell’Asean (Brunei, Filippine, Indonesia, Malaysia, Singapore, Tailandia e Vietnam). È Giovanni Arrighi, professore di Sociologia alla State University di New York – Binghamton, a snocciolare, ne “Il lungo XX secolo” (Il Saggiatore), i dati della sorprendente ascesa finanziaria del Far East, trascinato nella mo-dernità dalla infaticabile locomotiva Giappone, ieri, dalla Cina e dall’India oggi. Venti o trenta anni fa le avremmo definite capitali e regione del Ter-zo Mondo. In poco tempo hanno fatto passi da gigante… Perché lo stes-so destino non può riguardare l’area di sottosviluppo più estesa d’Europa, il Sud d’Italia? L’Italia deve al Mezzogiorno un vantaggio competitivo. La profonda immersione nello spazio euro mediterraneo. Uno spazio acqueo, marittimo, portuale, forse logistico, ma di certo non ancora un’area mercato strutturata: la più grande al mondo nel suo genere perché raggrupperebbe quasi 40 Paesi e circa 800 milioni di consumatori.

Può il nostro Mezzogiorno candidarsi a diventare il traino per i Paesi emergenti del bacino, trasformando il Mediterraneo in un’area di mercato competitiva come quella asiatica?

Ne esistono le condizioni?Nei porti italiani tra il 1996 e il 2003 si è passati da poco meno di 4 a

circa 9 milioni di container. L’incremento delle merci movimentate sfiora il 30 per cento. Nel 2008 l’ammontare delle esportazioni italiane verso i pa-esi della costa nordafricana è salito a 52 miliardi di euro. Un incremento formidabile: 61% in più rispetto all’anno precedente. Parliamo di Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Israele, Giordania, Libano e Siria. Verso questi 9 paesi nel 2008 l’Italia ha esportato più di tre volte il valore delle vendite, comunque in ascesa, di prodotti nazionali in Cina.

Con un tale ritmo di crescita, l’export italiano verso le economia del Me-diterraneo non europeo potrebbe in breve raggiungere – e al limite anche su-perare – il valore degli acquisti di merci italiane da parte degli Stati Uniti.

Le parole, abbiamo visto, non pesano più. Ma i numeri contano an-cora?

MILANO VICINO A TERRONIAAvere un Mezzogiorno che nella partita universale della concorrenza

sappia giocare un ruolo di primo piano è cosa che serve anche a una regio-ne padana che non voglia ridursi ad appendice de cuore renano dell’’eco-nomia europea. Un Mezzogiorno che da questione irrisolta e malato d’Euro-pa diviene un hub di un’area consolidata nelle sue componenti competitive basiche – logistica e portualità, ma anche infrastrutture di connessione su ferro e su gomma, energia, finanza e credito – è un’evenienza che sarebbe corroborante anche al resto d’Italia. Perciò adoperarsi per un Piano per il Sud significa impegnarsi per il rilancio del sistema Paese, la cui dinamica della produzione è divenuta decisamente inferiore a quella dei due diretti competitori, Francia e Germania.

Non è (solo) il Mezzogiorno che ha urgente bisogno di allinearsi alla modernità. Con il Sud ripartirebbe l’Italia intera. Senza il Sud, invece, si fi-nisce tutti giù per terra. Ecco dunque perché il federalismo può essere tut-to, salvo che una foglia di fico usata che nasconde la voglia di secessione “dolce” della parte “forte” del Paese.

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11CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO

In questi ultimi tempi il Piano per il Sud, da un lato, e il Fede‑ralismo fiscale dall’altro, stanno avendo una repentina acce‑lerazione. Tuttavia tra i due provvedimenti a noi sembra di co‑gliere una qualche contraddizione, perché mentre il federali‑

smo responsabile si propone (ma c’è ancora molto da vedere!) di accentuare il protagonismo e l’autogoverno dei territori, il Piano per il Sud tende a superare le pesanti, innegabili difficoltà delle Regioni meridionali concentrando la regia e la gestione delle poli‑tiche e degli interventi in un sistema fortemente centralizzato. Qui noi intravediamo il rischio di un pericolosa “forbice istituzionale”. Quale è la Sua opinione in proposito?

Certamente esistono elementi di contraddizione. Da un lato si è affrettato il varo dei decreti legislativi in attuazione della

delega sul Federalismo fiscale: una legge che la Conferenza delle Regioni ha ‘costruito’ con il Governo, fornendo un importante contributo di propo‑ste. Abbiamo cioè condiviso un impianto di principi auspicando e concor‑dando una puntuale concertazione per i decreti legislativi di attuazione che avevamo ipotizzato come tasselli di un unico progetto condiviso, cui dare il via in modo contestuale. Purtroppo l’esecutivo, ubbidendo più che altro a logiche politiche, ha preferito procedere in modo unilaterale varan‑do prima il così detto federalismo demania‑le, poi il cosiddetto fe‑deralismo municipale ed ora proponendo un decreto per il federali‑smo fiscale regionale e sui costi standard. Tut‑to ciò in un quadro di mancata trasparenza sui numeri e sulle risor‑se. È chiaro che siamo di fronte ad un meto‑do e ad una sostanza non condivisibili. Non a caso la Conferenza delle Regioni ha posto all’unanimità due que‑stioni di fondo che ap‑paiono imprescindibili. La prima è quella rela‑

tiva ai così detti costi standard in sanità: si tratta di un’operazione pos‑sibile solo dopo aver definito i LEA, livelli essenziali di assistenza (nella sanità), e i LEP, livelli essenziali delle prestazioni (nel welfare come nella scuola). Insomma si tratta di stabilire quanti e quali servizi garantire in modo omogeneo a tutti i cittadini italiani, in qualunque regione risiedano. Solo allora ne può conseguire una determinazione del fabbisogno legata all’applicazione dei costi standard per garantire i livelli essenziali. Diver‑samente questo tema del federalismo rischia di trasformarsi in una sorta di ‘passaggio del cerino’.

La seconda questione riguarda l’incrocio della manovra con il decreto sul federalismo fiscale. La finanziaria estiva ha tagliato drasticamente i fi‑nanziamenti alle, Regioni ma in un articolo ha precisato che tali tagli non dovrebbero far parte dell’impianto sul federalismo fiscale. Si tratta di una dichiarazione di principio rispetto alla quale ora ci si scontra, come è evi‑dente alle difficoltà legate alla copertura finanziaria del federalismo fisca‑le. Il timore è che questi tagli incidendo pesantemente sui trasferimenti alle Regioni possano avere ricadute pesanti sulla qualità e sulla quantità di servizi pubblici fondamentali.

Dall’altro lato accanto alla ‘mancata trasparenza’ che sta accompagnan‑do il processo legato al federalismo fiscale, si inseriscono temi ancora più

nebulosi, come quello legato all’ ennesimo an‑nuncio di un piano per il sud. Non è chiaro se e in che modo saranno coin‑volte in questo ‘piano’ le Regioni e le autonomie locali. E non è chiaro su quali risorse potrà con‑tare questo piano. Fino ad oggi abbiamo assi‑stito ad un progressi‑vo svuotamento delle risorse che erano de‑stinate proprio al Mez‑zogiorno. Se si esclude la rilevante operazione relativa all’accordo sugli ammortizzatori sociali in deroga per sostenere imprese e lavoratore in

Federalismo e mezzoGiorno

È SBAGLIATO INVENTARSI CAPRI ESPIATORI TERRITORIALIil punto di vista di Vasco errani presidente della conFerenza delle reGioni

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12 CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO

questo difficile momento di crisi (a cui le Regioni hanno responsabilmente contributo), il FAS è stato adoperato dall’esecutivo quasi fosse una sorta di bancomat. In altre parole le risorse del Fondo per le aree sottoutilizzate – che per l’85% sono destinate proprio alle Regioni del sud – sono state utilizzate per altre finalità, intaccando non solo la ‘quota nazionale’ di tale fondo, ma anche la parte ‘regionale’. Tutto ciò in un quadro di iniziative unilaterali ed estemporanee e non certo nell’ambito di una strategia per lo sviluppo.

Il dato reale e incontrovertibile è che sono fermi i PAR, piani attuativi regionali, di tutte le Regioni, del Nord, del Centro e del Sud. È cioè para‑lizzato proprio lo strumento operativo per l’utilizzo delle risorse del FAS. Ciclicamente il Governo propone possibili ‘riprogrammazioni’ di tale Fon‑do. Un modo per ritardare ulteriormente i necessari e già programmati in‑terventi sul territorio.

Mi pare che sia giunto il momento di affrontare il tema del Mezzogior‑no facendolo uscire dalla logica dell’annuncio e facendolo invece diven‑tare uno dei temi del rilancio del ‘sistema Paese’, magari cominciando ad utilizzare quegli strumenti, come il FAS, che già ci sono. Aspettiamo di co‑noscere poi nel dettaglio i contenuti del futuro ‘piano sud’ e, soprattutto, di capire come e in che modo saranno coinvolte le sedi di concertazione istituzionale a cominciare dalla Conferenza Stato‑Regioni.

Inoltre: fermo restando il divario e l’effetto devastante della crisi sul fragile tessuto economico meridionale, non crede che sia sbagliato presentare il Mezzogiorno come palla di piombo ai piedi del paese, mettendo al tempo stesso in ombra gli effetti gravissimi della crisi anche e forse soprattutto al Centro Nord? Il che reclama, proprio a partire da quelle regioni, la richiesta di un cambiamento di fondo degli indirizzi di politica economica ge‑nerale, nazionale?

È assolutamente sbagliato cercare dei ‘capri espiatori’ territoriali, nel tentativo di individuare le cause di una crisi globale, che coinvolge tutto il Paese ed è grave che talvolta si sia arrivati addirittura all’insulto, pun‑tando il dito sui rappresentanti delle istituzioni regionali e locali, in una specie di ‘scarica barile’ che allontana sempre più le istituzioni dai citta‑dini. Sono d’accordo sul fatto che un cambiamento di politica economica per ridare slancio al Mezzogiorno debba passare attraverso una condivisa ‘strategia nazionale’ dove da un lato si incentivino i comportamenti virtuo‑si delle Regioni e delle autonomie locali soprattutto per metter ordine nei conti pubblici, dall’altro si ragioni sulle priorità del Paese, concentrandosi su alcuni obiettivi. E in questo quadro occorrerebbe un confronto serio fra tutti i diversi attori istituzionali – Governo, Regioni, autonomie locali – per

dare corpo a quella strategia nazionale a cui ho fatto riferimento. Puntare sulla governance, cioè sul contributo che tutti i livelli istituzionali possono dare, è a mio avviso una strada obbligata, soprattutto in un momento in cui i vincoli europei e quelli più generali di bilancio impongono di rea‑lizzare la massima sinergia possibile fra le risorse e gli strumenti disponibili. Con una avvertenza però: arrivare ad una strategia nazionale non significa centralizzare e ac‑centrare per riprogrammare, ma piuttosto vuol dire avere una visione unitaria di ciò che serve all’Italia e condividere obiettivi concreti in cui sia ben chiaro chi fa e che cosa. Da ultimo occorre fare i conti con i servizi pubblici essenziali. Un settore su cui può trovare terreno fertile la tensione sociale che già, purtroppo, caratterizza molte zone del Paese. Sotto questo pro‑filo bisogna sposare una logica che con‑trolli e razionalizzi la spesa corrente, ma aumenti ed incentivi gli investimenti in conto capitale. Mi pare invece che troppo spesso le scelte politiche risentano della contingenza e non siano fondate su scel‑te di medio e lungo periodo di cui però il Paese ha davvero bisogno.

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13CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO

ATTENZIONEAL PERICOLODI UNA “FORBICE”ISTITUZIONALE

Questa iniziativa vuole essere un momento di approfondimento dei problemi nel loro merito. E di confronto (lo abbiamo chiama‑to proprio così: “confronto”), tra valutazioni e posizioni diverse, non sempre univoche (e ci mancherebbe!). Stando però ai fatti

(se ci riusciamo!). Ed evitando (se ci riusciamo!) le insidie della propagan‑da e delle polemiche ‘ideologiche’ o comunque pregiudiziali.

Mi rendo conto di proporre una missione quasi impossibile. Perché il clima elettorale è nell’aria – anche se nessuno sa se e quando si andrà a votare – e le posizione sembrano sovente dettate dall’ansia di conquista‑re voti e consensi a prescindere dal merito delle questioni. Ma così non si va da nessuna parte. Non si fanno gli interessi del paese.

A ben riflettere, appare del tutto evidente che in questi giorni il Piano per il Sud, da un lato, e il Federalismo fiscale, dall’altro, stanno avendo con‑temporaneamente una repentina accelerazione. C’è chi sostiene che questo non sia dovuto al caso: che col Piano per il Sud si voglia tentare il bilancia‑mento dei consensi elettorali nella parte più debole del paese nei confronti dell’arroccamento della parte più forte intorno al Federalismo fiscale.

Il processo alle intenzioni francamente non ci appassiona. Anzi, siamo convinti che se questa tesi si accreditasse produrrebbe un vulnus profondo nella coscienza collettiva. Perché il Mezzogiorno non riguarda “una parte del paese”. Il Mezzogiorno (come sostiene efficacemente l’economista Massi‑ma Lo Cicero nel suo ultimo volume) non solo consente all’Italia di crescere, ma anche di esistere. E il Federalismo fiscale: o è concepito come un modo per rafforzare la coesione del paese nel suo insieme, mettendo in campo il patrimonio di risorse civili e produttive presenti in tutte le regioni – del Nord, del Centro e del Sud – oppure è destinato ad aggravare gli squilibri e a sfibrare ulteriormente il tessuto connettivo dell’Italia.

Tuttavia una disarmonia, una contraddizione di fondo tra i due provve‑dimenti a noi sembra che esista: perché mentre il federalismo responsabi‑le – lo dico in estrema sintesi – si propone di accentuare il protagonismo e l’autogoverno dei territori, il Piano per il Sud tende a superare le oggetti‑ve difficoltà del regionalismo meridionale (che esistono e sono innegabili), concentrando la regia e la gestione delle politiche e degli interventi in un sistema fortemente centralizzato. Vorrei sbagliare, ma qui io colgo qualcosa

di più di uno squilibrio: intravedo il rischio di un pericolosa “forbice istitu‑zionale”. Parliamone senza il gusto della polemica, con sereno rigore.

Un altro punto di riflessione e approfondimento sta a mio avviso sul‑la peculiarietà, puntualità e concretezza delle politiche pubbliche per il Mezzogiorno, che non possono essere tutte chiuse e circoscritte in piani straordinari e “pacchetti speciali”. Occorre una seria presenza “ordinaria” dello Stato e della Pubblica Amministrazione nel Mezzogiorno nell’ambito di progetti, programmi e politiche nazionali.

Da questo punto di vista, non vogliamo credere – anche così appare, ma ascolteremo il Ministro dopo averlo letto in più occasioni – che il Piano per il Sud possa prevedere la riprogrammazione dei Fondi europei non uti‑lizzati nel periodo 2000 / 2006 e 2007 / 2013 per tentare di risolvere al suo interno nodi di primaria competenza statale: dalla Giustizia, alla Sicurezza, alla Scuola, alla Ricerca e così via. Se così fosse – al di là dei vincoli e delle disposizioni comunitarie, che vanno pur tenute in conto – ci troveremmo di fronte alla sovrapposizione impropria di compiti e funzioni diverse, alla ricollocazione ora di qua ora di là delle stesse risorse, alla spesa aggiunti‑va che sostituisce quella ordinaria, alla riedizione dei progetti‑sponda, al serpente che si morde la coda.

In definitiva: anziché mettere in mora le Regioni in panne o porre sot‑to accusa lo Stato e la Pubblica Amministrazione inadempienti, o per altro verso invocare un mercato di per se salvifico o un’impresa capace da sola di competere col mondo, penso che varrebbe la pena di lavorare ad un Piano articolato in macro‑aree e iniziative‑trainanti che in un programma condi‑viso e coordinato saldino davvero ordinario e aggiuntivo contribuendo in concreto allo sviluppo e in qualche caso alla ricostruzione (non so trovare un termine meno radicale) della governance nel Mezzogiorno, delle auto‑nomie locali, degli organismi intermedi, del sistema d’impresa, del capita‑le sociale. In una parola alla crescita civile e produttiva del Mezzogiorno. Alla corretta modernizzazione di questi territori.

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14 CONFRONTO CON IL MINISTRO RAFFAELE FITTO

Solo per fare qualche esempio: pensiamo che il Piano per il Sud po‑trebbe incentivare: un piano industriale per l’innovazione e l’efficienza del‑le Pubbliche amministrazioni meridionali; azioni a sostegno delle politiche di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese; un vero e proprio piano regolatore delle infrastrutture immateriali, a partire dalla banda lar‑ga; una Legge‑obiettivo per la riqualificazione delle periferie delle grandi aree urbane;

Solo qualche esempio, ripeto, per rendere l’idea dell’approccio pro‑positivo e costruttivo che vorremmo dare oggi e in seguito al tema del Piano per il Sud.

D’altronde in una recente intervista il Ministro Fitto ha detto che il Pia‑no non è ancora chiuso e concluso: sarà pronto nelle prossime settimane. E rappresenterà comunque il frutto di un intenso confronto con Regioni, parti sociali, associazioni di categoria e con tutti i soggetti interessati.

Ebbene, per quanto ci riguarda il confronto comincia da oggi e prose‑guirà anche con strumenti concreti di intervento: con vere e proprie pro‑poste di chiarimenti, emendamenti e integrazioni da costruire in rete con altre Associazioni e Fondazioni come la nostra.

Dalla introduzione di Andrea Geremicca al Confronto col Ministro Fitto.

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16

>> Segue dalla prima

Poi, di colpo, la situazio-ne è cambiata. Il terremoto è diventato ‘caldo’ anche a Na-poli. 5.531 edifici sottoposti a perizie furono dichiarati pericolanti. 150.000 persone sfrattate. Il 57,3% degli abitan-ti del quartiere Pendino-Mer-cato diffidati a lasciare ad ho-ras i propri alloggi: il 38,4% a San Lorenzo-Vicaria; il 29,1% a Montecalvario. Migliaia di senza-tetto accampati in al-berghi, scuole, edifici pubbli-ci, alloggi sfitti, campi- contai-ners. Interi quartieri, specie nel

centro storico, si erano tenuti in piedi per anni e secoli gra-zie – qualcuno disse scherzan-doci sopra – alla ‘statica di San Gennaro’. Con gli edifici che si sostenevano a vicenda per non cadere. È bastata una scossa di moderata intensità per produr-re l’effetto domino.

A quel pun-to Napoli entra con t u t t a l a

sua mole e il suo peso nella normativa e negli stanziamen-ti per la ricostruzione della Campania e Basilicata. Il Ti-

tolo VIII° della Legge 219, con un maxi-emendamento alla Legge per la ricostruzione pre-sentato in extremis al Senato nella notte del 27 aprile 1981, stabilisce un Programma stra-ordinario di edilizia pubblica per la città di Napoli, per la costruzione di 20 mila allog-gi residenziali con le relative infrastrutture primarie e se-condarie. Dal punto di vista ordinamentale, con una inno-vazione assai discutibile e gre-ve di molti rischi, la legge de-lega il potere straordinario di programmazione, progettazio-ne, attuazione e gestione degli interventi a due Commissari governativi. Nella fattispecie al Sindaco di Napoli (il comuni-sta Valenzi) per le aree urbane e al Presidente della Regione Campania (il democristiano De Feo) per gli altri territo-ri. Con la facoltà di decidere e agire in deroga all’ordina-mento, alle norme e alla pro-cedure vigenti. Così, nel nome del’urgenza e dell’efficienza, le assemblee elettive e le autono-mie locali vengono private dei propri poteri. Si tratta di una ‘innovazione’ che diventa, da allora in poi, la madre di tut-te le ‘gestioni straordinarie’ in deroga a tutto.

Un ‘modello’ (in questo caso si può, purtroppo, parla-re di’ modello’) assunto dalla Protezione Civile di Berlusconi e Bertolaso anche quando do-vevano promuovere un evento o recuperare un campo sporti-vo. E da troppi Sindaci e Presi-

denti di Regione, che mal sop-portavano le regole e i vincoli della normativa ordinaria e i controlli degli organismi elet-tivi anche quando erano chia-mati a realizzare un program-ma di edilizia scolastica.

Non saprei dire, fran-camente, se la scelta di

una gestione straordinaria per la ricostruzione dopo un sisma devastante come quello del 1980 sia da considerare in via di principio del tutto sba-gliata. Un’emergenza di quella gravità e dimensione richiede-va risposte rapide. E procedu-re snelle: burocrazia zero. Di una cosa sono tuttavia certo: che fu un errore far durare così a lungo quell’esperienza, oltre ogni ragionevole limite. Dove-va concludersi nel giro di un anno o poco più. Poi tutto do-veva tornare nei poteri e nella responsabilità previsti dall’or-dinamento e dalle leggi.

Sono altresì convinto che fu un errore aver pensato

di poter risolvere tutti i pro-blemi di quelle zone – case, lavoro, sviluppo – unicamen-te attraverso il Programma della ricostruzione, con le ri-sorse, le procedure e gli stru-menti previsti per fronteggiare l’emergenza. Quel Programma doveva muoversi entro obiet-tivi e limiti precisi e specifici, e andava accompagnato da grandi e forti politiche pubbli-che nazionali per la rinascita e la modernizzazione dei ter-ritori colpiti e di tutto il Mez-zogiorno. Così non è stato. E

23 Novembre 1980Spunti e riflessioni nel trentennale del terremoto in Campania e BasilicataAndrea Geremicca

Le zoNeDANNeggiAteHanno perso la vita nel terremoto del 1980 in Cam-

pania e Basilicata 2.735 persone. 8.850 i feriti.

Dei 679 comuni che costituiscono le otto province in-

teressate globalmente dal sisma Avellino, Benevento,

Caserta, Matera, Napoli, Potenza, Salerno e Foggia),

506 (il 74%) sono stati danneggiati.

Le tre province maggiormente sinistrate sono quel-

le di Avellino (103 comuni), Salerno (66) e Potenza

(45). Trentasei comuni della fascia epicentrale hanno

avuto circa 20.000 alloggi distrutti o irrecuperabi-

li. In 244 comuni (non epicentrali) delle province di

Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Foggia, Napoli,

Potenza e Salerno, altri 50.000 alloggi hanno subito

danni da gravissimi a medio-gravi.

Ulteriori 30.000 alloggi lo sono stati in maniera lieve.

Dati forniti dall’Ufficio del Commissario Straordinario alla ri‑

costruzione.

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17la ricostruzione si è ripiegata su se stessa.

Lo stesso Pro-g r a m m a d i edilizia resi-denziale pub-

blica – mi riferisco specifica-mente al ‘Piano Napoli’ – con-teneva in se rischi altissimi. Perché costruire 20 alloggi (pari a 100 mila vani) e le re-lative infrastrutture in deroga a qualsiasi normativa urbani-stica poteva indurre, nel nome della urgenza e dei bisogni so-ciali, alla ulteriore congestione e cementificazione della città. Per la verità, a questo il Sin-daco-Commissario Maurizio Valenzi si è sottratto con alcu-ne scelte precise: I°) la costru-zione nell’area metropolitana, fuori la cintura daziaria della città, di 3.500 alloggi (circa 20 mila vani) destinati a cittadini napoletani sfrattati dalle pro-prie case. Non dispendendoli a caso sul territorio ma allocan-doli in 17 comuni provvisti dei Piani di zona di cui alla Leg-ge 217 che disciplina l’edilizia economica pubblica; II°) il re-cupero, in luogo dell’abbat-timento, di 3 mila alloggi di particolare valore storico e architettonico; III°) l’insedia-mento degli alloggi di nuova costruzione secondo le previ-sioni dei Piani della Periferia (approvati in Consiglio comu-nale pochi giorni prima del si-sma) e, anche qui, dei piani di zona della Legge 167. In effetti la Gestione commissariale si è avvalsa dei poteri straordinari per dare impulso e attuazione a piani e programmi ordinari, precedentemente decisi dagli organi elettivi. Per il centro storico di Napoli mancavano

studi, progetti e strumenti san-citi e legittimati dal voto del Consiglio comunale. E lì il Sin-daco – Commissario non ha ef-fettuato interventi strutturali, al di là del recupero e della riattazione degli alloggi dan-neggiati, e della destinazione a verde pubblico dei suoli resi disponibili dalle demolizioni. Per anni Maurizio Valenzi è stato aspramente criticato per non avere ‘colto l’occasione’ per il recupero del Centro sto-rico. Non sono d’accordo. E non voglio neppure pensare a quello che sarebbe potuto ac-cadere se avessimo deciso di porre mano in quei quartieri, assistiti da illustri consulenti ricchi di ‘genio e sregolatez-za’, felici di potere finalmente realizzare i loro sogni.

Probabilmente il punto più debole, il vero tallone di Achille della ricostruzione sta nel fatto

LA SpeSAI fondi stanziati dal Parlamento per l’emergenza e la

ricostruzione nelle zone colpite dal sisma del 1980

ammontano a 50.620 miliardi di lire, così suddivisi:

4.684 per affrontare i giorni dell’emergenza; 18.000

per la ricostruzione dell’edilizia privata e pubblica;

2.043 per gli interventi di competenza regionale; 8.000

per la ricostruzione degli stabilimenti produttivi e

per lo sviluppo industriale; 15.000 per il programma

abitativo del comune di Napoli, e le relative infra-

strutture; 2.500 per le attività delle amministrazioni

dello Stato; 393 residui passivi. Commissione parla-

mentare d’inchiesta sulla attuazione degli interventi

per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori della

Basilicata e della Campania colpiti dai terremoti del

novembre del 1980 e febbraio 1981, X legislatura, Re-

lazione conclusiva, Atti P”.

Dalla Relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla Ricostruzione in Campania e Basilicata presieduta da Luigi Scalfaro.

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che le risorse impiegate furono unicamente pubbliche, statali, senza il pur minimo coinvolgi-mento della finanza e dell’im-presa privata. E così qualsiasi programma di recupero urba-no è destinato al fallimento.

Sotto il profi-lo più squisi-tamente po-litico non si

possono esprimere giudizi, condanne e assoluzioni, a pre-scindere dal contesto. Dal cli-ma di quei tempi. Dalle dram-matiche tensioni di quei gior-ni. Con tre forze in campo. Da un lato la collettività civile con urgenti bisogni e fondamenta-li diritti. Dall’altro lo Stato, le istituzioni, i partiti, la legge. Dall’altro ancora l’anti-Stato, il terrorismo, la camorra e le mafie. Io dico: vinse lo Stato. Vinse per il protagonismo, la combattività, la partecipazione dei cittadini in difesa dei pro-pri diritti. E per la solidarietà istituzionale delle forze politi-che, maggioranza e opposizio-ne. È fu sconfitto l’anti-Stato. Fallì il disegno scellerato del-le Brigate rosse e della crimi-nalità organizzata che con la morte, la violenza e la dema-gogia miravano ad assumere

un ruolo di rappresentanza sociale e di interlocuzione con le istituzioni.

Dalla semplice sequenza degli eventi emerge l’asprezza dello scontro di quegli anni. 23 novembre 1980: il terre-moto sconvolge Campania e Basilicata. Inverno 1981: ha inizio sul territorio, nelle isti-tuzioni locali e in Parlamento

il confronto sugli interventi per fronteggiare l’emergenza e av-viare la ricostruzione. 27 apri-le 1981: l’Assessore all’Urbani-stica della Regione Campania Ciro Cirillo viene sequestrato dalle Brigate rosse, che ucci-dono il suo autista e il suo as-sistente.

Il giorno seguente le BR de-positano in un contenitore dei rifiuti alla Riviera di Chiaia un farneticante ‘Comunicato’ di 22 cartelle sulla ricostruzio-ne, i senzatetto, i disoccupati. E sugli ‘accordi’ tra la DC e il PCI. Il 6 maggio viene appro-vato alla Camera, con voto unanime, la Legge sulla rico-struzione. Il 15 maggio viene ferito in un attentato delle BR il Consigliere comunale di Na-poli della DC Rosario Giovine. Il 3 giugno il Sindaco Valenzi delega gli Assessori Siola, De-

mitry e Picardi al coordina-mento del Piano – casa per i senzatetto napoletani.

Il 5 giugno Uberto Siola rilascia a l’Unità una dichia-razione: “Sta per partire il più grande Programma residenzia-le che sia mai stato realizzato in Europa”. Il 6 giugno Uber-to Siola viene sequestrato, in-terrogato e ferito dalle BR al Rione Cavalleggeri D’Aosta. Il 10 giugno il Consiglio comu-nale approva col voto determi-nante del Gruppo dc, il bilan-cio della Giunta minoritaria di sinistra. Tornando a casa, il Consigliere dc Cilenti, stres-sato dall’emozione, muore di infarto. L’11 giugno Andrea Geremicca, consigliere comu-nale e deputato al Parlamen-to, viene rieletto nella Giunta Valenzi per sostituire l’Asses-sore Uberto Siola.

iL “piANo NApoLi”20.000 alloggi di cui 6.000 nell’area metropolitana

45 Asili nido

54 Scuole materne

29 Scuole elementari

32 Scuole medie

5 Istituti superiori

45 Impianti sportivi

58 Parchi e Aree verdi

22 Strutture sanitarie

56 Strutture socio-culturali

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m e z z o g i o r n o

Noicittadini del Mezzogiorno d’Europa

a centocinquant’anni dall’Unità d’Italia diciamo:

Su la testa!Chi spreca un centesimo di soldi pubblici

commette un crimine contro la sua comunità.Chi tollera l’illegalità se ne fa complice.

Ai test etnici, alle gabbie salariali, al federalismo punitivo e a tutto quanto con livore e miopia

sottrae diritti e risorse a chi vive nel Sudsi risponde con due azioni:

isolare chi alimenta il risentimentoverso il Mezzogiorno;

sostenere chi fa fino in fondo il proprio doverein un contesto difficile.

Non si risponde al razzismo con altro razzismoalle barriere con nuovi separatismi.

Senza una politica per il Sud l’Italia cessa di esistere.

Il federalismo può essere un patto tra ugualio un’arma per realizzare una secessione mascherata.

Un sano federalismo prevede premi e sanzioni;ma la punizione deve colpire chi sbaglia

senza danneggiare chi frequenta una scuolachi mette piede in un ospedale

chi lavora, fa impresa, versa le tasse.

Le sorti del Mezzogiorno sono nelle nostre mani:sta a noi darci strumenti d’azione autorevoli e autonomi.

Sta a noi realizzare un futuro che veda protagonistii nostri giovani, i migliori talenti,

la comunità degli uomini e delle donne meridionaliSta a noi costruire la nuova missione euromediterranea

necessaria all’Europa e all’intero Paese.

Su! Il tempo del lamento è finito.

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m e z z o g i o r n os u   l a   t e s t a

1. La ripresa del dibattito sul Sud costituisce un dato certamen-te positivo. Essa interviene dopo una fase, lunga, in cui la questio-ne è stata sostanzialmente derubri-cata dall’agenda del Governo e an-che, più in generale, dai temi della riflessione culturale e della propo-sta politica. Nella fase più acuta del-la crisi economica, l’antica questione è finita tra quelle non prioritarie, tra quelle meno urgenti, mentre si cer-cavano risposte ed interventi capaci di limitare i danni al sistema econo-mico nazionale. L’utilizzazione dei fondi Fas per sostenere le misure di estensione degli ammortizzatori so-ciali, è apparsa, per certi versi, pa-radigmatica. Ma la ripresa di atten-zione del Sud non fa emergere, pur-troppo, elementi di significativa di-scontinuità rispetto al passato, non solo recente. Si avanzano propo-ste, peraltro a lungo attese e ancora non definite, anche da parte del Go-verno; proposte di razionalizzazio-ne, di innovazione, di rilancio; ma l’impressione è che si tratti di ten-tativi non all’altezza della comples-sità della questione, non in grado di avviare, finalmente, un percorso che consenta di raggiungere avan-zamenti significativi. Nessuno pen-sa che sia possibile superare in tem-pi brevi il dualismo del nostro siste-ma (promesse di soluzione imme-diate si sono rivelate assai pericolose in questi decenni); ma è forte l’im-pressione che le linee proposte siano davvero insufficienti.

In particolare si avverte come sfumata se non assente una conside-razione che a noi appare decisiva: è nell’interesse dell’Italia tutta che ab-biano successo le politiche di coesio-

ne, perché se c’è un’area del Paese in ritardo economico e sociale il danno per l’intera comunità non è quello, puramente statistico, che si “abbas-sa la media”. È invece quello di ve-der compromessa qualsiasi prospet-tiva di competizione nello scenario internazionale, dove a gareggiare è l’Italia tutta. Chi crede che il Nord possa crescere più rapidamente sen-za la “zavorra Mezzogiorno” com-mette lo stesso errore di chi imma-gina che un aereo possa volare me-glio se alleggerito delle ali.

2. Restano di fatto non af-frontate adeguatamente le questioni centrali:

• la coerenza tra misure dedicate e politiche generali, tema tan-to più importante in una fase in cui si tenta di costruire uno schema di federalismo; si rifor-mulano ipotesi di intervento, parzialmente annunciate come innovative, ma mai in collega-mento con le politiche ordina-rie. Parlare di Sud dovrebbe si-gnificare parlare degli organi-ci e degli strumenti della ma-gistratura e della forze dell’or-dine; della scuola e dell’edilizia scolastica; di alcune infrastrut-ture (non solo fisiche) di stret-ta competenza della politica e della amministrazione ordi-naria; di nuove modalità nelle politiche di tenuta e di svilup-po individuando alcune opzio-ni strategiche;

• la necessità di innovare gli strumenti; un solo esempio per tutti: gli incentivi. Si continua, in modo acritico ed esaustivo, a sostenere gli incentivi auto-

matici, nonostante il bilancio non esaltante di questa moda-lità. Occorre recuperare il senso vero degli incentivi che, accan-to ad interventi di tipo fisca-le, necessariamente e utilmen-te generalizzabili e automatici, dovrebbero ritrovare una di-mensione di selettività. C’è bi-sogno di innovazione per gli strumenti, c’è bisogno di quali-tà, senza la quale, la quantità è inutile.

3. Ma progressivamente, mentre la politica stan-camente di tanto in tan-

to riafferma la centralità del Mezzo-giorno, con formule di rito che non tentano neppure modeste innova-zioni semantiche; mentre non vi sono idee significative e progetti in-novativi, nel Paese avanza una onda lunga di contrapposizione politica, culturale e sociale, sul tema del Sud, che per la sua profondità e radica-lità, rischia di essere la vera novi-tà di questa fase. La contrapposizio-ne, spesso violenta nei toni è espres-sa anche da grandi opinionisti ol-tre che dalle seconde file della poli-tica; ma soprattutto, appare diffusa, fortemente in crescita, in ambienti sociali, imprenditoriali e culturali. Monta la percezione – e la denun-cia – della inutilità di dare soldi al Sud, incapace di spenderli e, soprat-tutto di spenderli bene. Questa per-cezione trova un puntuale riscontro in una rappresentazione sostanzial-mente asimmetrica del Sud: spreco-ne, corrotto, inaffidabile, preda fa-cile della criminalità organizzata. In questa rappresentazione manca del tutto un Sud normale: o lo sfa-

D o c u m e n t o p r o g r a m m a t i c oA U T O C R I T I C A D E N U N C I A P R O P O S T A

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m e z z o g i o r n os u   l a   t e s t acelo delle istituzioni, la delinquen-za, i furbi, i finti disoc cupati, i pub-blici dipendenti cialtroni, i mor-ti ammazzati, o gli eroi. Non è così: ci sono eroi, ci sono tante cose che non vanno, ma c’è anche una realtà normale, con cittadini e istituzioni, con reddito e risorse più scarse, con qualità della vita meno alta. Italia-ni operosi, che non sono adeguata-mente rappresentati: e purtroppo, la politica guarda poco a loro, perché impegnata in un’operazione diver-sa: investire nella contrapposizio-ne. Dall’altra, specularmente, vi è la denuncia dei torti subiti, degli stan-ziamenti promessi e mai tradotti in erogazioni; del modo contradditto-rio di calcolare la distribuzione ter-ritoriale delle risorse; del fatto che le risorse comunitarie sono di fatto, da tempo, sostitutive delle spese ordi-narie; del modo iniquo e oggettiva-mente insostenibile con cui vengo-no assunti i parametri per i trasferi-menti dallo Stato alle regioni. Le de-nunce su questo versante sono nu-merose e spesso qualificate. Hanno di solito l’effetto di sorprendere, di lasciare persino increduli nel bre-ve periodo, tanto sono contraddit-torie rispetto alla opinione corren-te. Ma, alla fine, non riescono a in-cidere sulla pubblica opinione. Le due posizioni si contrappongono, duramente; riemergono nelle occa-sioni in cui ufficialmente si dà con-to dell’immutabile livello del “di-vario”. È l’occasione per alcuni per confermare che i soldi sono dati al Sud inutilmente; per altri che i soldi sono pochi. Palesemente il persiste-re di queste posizioni non consen-te di individuare soluzioni adegua-te: esse risultano utili e produtti-ve nell’alimentare rancori facilmen-te quotabili al mercato “basso” della politica, ma non producono risulta-ti incoraggianti.

4. Le due posizioni che si fronteggiano hanno cer-tamente, ciascuna, una

buona dose di verità. Ma la questio-ne prioritaria non è quella di defini-re la responsabilità, quanto quella di definire una politica efficace, plausi-bile e il più possibile condivisa.

La prima mossa, quella capa-ce di spostare più in alto il dibatti-to ed il confronto, spetta ai meridio-nali che hanno il dovere di denun-ciare i limiti delle politiche nazio-nali, ma che devono intestarsi con rigore e con forza, la denuncia del-le loro responsabilità. Anzi, per pri-mi e con grande determinazione de-vono sottolineare i limiti delle isti-tuzioni meridionali, le incongruen-ze dei comportamenti e gli sprechi. Devono essere in prima linea nel su-bordinare l’entità dei trasferimen-ti alla qualità e alla efficacia degli interventi. La denunciata, innegabi-le, storica, incoerenza delle politiche nazionali rispetto al Sud, non si su-pera con un aumento degli stanzia-menti straordinari; la virtuosità del-le Regioni non si deve misurare con il livello di spesa impegnato ed ero-gato, ma con la efficienza e la tra-sparenza degli interventi. Aver as-sunto il livello di spesa dei fondi europei come parametro di effica-

cia delle amministrazioni ha portato a non poche distorsioni nei livelli di progettazione, nella qualità dei con-trolli, negli stessi meccanismi am-ministrativi e contabili. La possibi-le discontinuità in termini cultura-li e politici si realizza lavorando più su strumenti e obiettivi che sulla quantità di risorse, assumendo fino in fondo, coraggiosamente, una po-sizione che giudichi negativamen-te il trasferimento di risorse finan-ziarie straordinarie che non trovino una destinazione efficace, selettiva e trasparente.

5. Una discontinuità diffici-le perché capace di met-tere in discussione i mec-

canismi di consenso nel Sud: ma an-che in grado di far prevalere una corretta logica della domanda di svi-luppo rispetto al criterio del prevale-re della offerta indiscriminata, gene-rica e deresponsabilizzante.

Ma anche una discontinuità ca-pace di modificare i toni del dibattito nazionale che renderebbe allo stesso tempo, più forti ed autorevoli le po-sizioni meridionalistiche, e scoperta-mente strumentali le posizioni con-trarie a un rinnovato impegno dello Stato per il Mezzogiorno.

La globalizzazione ha sposta-to la produzione dei beni elementa-ri verso paesi emergenti ove i costi di produzione sono inferiori a quelli europei. Fingere di non comprende-re questo dato rischia di indebolire e segnare negativamente la possibili-tà di crescita. I consumi si orientano però sempre di più verso la qualità. L’innovazione tecnologica, supporta-ta dalla ricerca applicata, immedia-tamente a ridosso e sostegno dell’im-presa, rende competitivi i sistemi.

Il nostro paese, con la sua rete fitta di piccole e medie imprese, deve tendere all’eccellenza per sposare la tendenza dei consumi emergenti.

I documenti di appro-fondimento e le prossi-me tappe dell’iniziati-va sono stati illustrati dai promotori il 6 no-vembre in una Confe-renza stampa presso la Fondazione Mezzo-giorno Europa

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m e z z o g i o r n os u   l a   t e s t aL’internazionalizzazione delle impre-se è il passaggio indispensabile per essere competitivi. La reciprocità dei know‑how, la combinazione dei fatto-ri, le partnership saranno decisive e selettive. Chi non si adeguerà a que-sto sistema sarà destinato a scompa-rire dai mercati.

In questo contesto il Mezzogior-no appare in ritardo. La crisi ha acce-lerato il processo di espulsione di im-prese e lavoratori a scarso contenuto di innovazione. Non c’è più lo spazio per produzioni tradizionali e per im-prese ancorate a vecchie visioni. Gli alti tassi di disoccupazione, la morta-lità d’impresa sono il segnale eviden-te della necessità di un inversione a 360 gradi per promuovere un nuovo Mezzogiorno.

In questo contesto esistono le condizioni affinché alcune aree di eccellenza e alcuni centri produtti-vi di qualità già presenti nel Mezzo-giorno possano risultare punto di at-trazione per ricercatori, imprese ed investimenti.

6. Proponiamo quindi un tavolo di confronto di-verso: maggiore assun-

zione di responsabilità da parte dei meridionali, maggiore capacità auto-critica, più forte coerenza nei com-portamenti; individuazione comune degli obiettivi e capacità critica di in-novare negli strumenti.

Il Mezzogiorno si riconosce nel paese e contribuisce a dare ruo-lo al sistema nazione con i suoi fer-menti culturali, sociali ed economi-ci, uscendo da una “frammentazione regionalista” e recuperando una sua dimensione d’insieme. Così potrà ap-procciare all’Europa.

Il Nord non può essere spin-to verso il corridoio franco – tedesco producendo una scissione del terri-torio nazionale che aprirebbe gap in-

colmabili. Serve un’idea italiana del come posizionare il Paese nel conte-sto europeo. In questo senso la co-esione nazionale parte dalle nuove consapevolezze del Mezzogiorno.

I punti fermi di tale impostazio-ne dovrebbero essere:• la riaffermazione della centrali-

tà delle politiche ordinarie; • l’allargamento dei criteri di va-

lutazione del divario; • una maggiore attenzione al

Mezzogiorno che funziona, pur nelle difficoltà, evitando che le politiche assumano a riferimen-to le patologie e le patologie di-ventino il cuore della domanda di sviluppo;

• un modo realistico di discu-tere di federalismo: la nostra posizione è che il federalismo può costituire una opportunità per le Regioni del Mezzogior-no, nel senso di una accentua-zione del processo di respon-sabilizzazione. Tuttavia biso-gna superare una stagione fat-ta di improbabili mediazioni di stampo ideologico e di un de-ficit di proposte operative sen-sate e plausibili, soprattutto sul piano fiscale;

• il rifiuto di nuovi strumenti speciali: Agenzie, Cabine di Re-gia o altro, allontanano la pri-maria esigenza di ragionare, so-prattutto, di politiche ordinarie.

7. L’agenda di lavoro dovreb-be assumere le seguenti priorità:

• piano straordinario per il re-cupero dell’obbligo scolastico, particolarmente accentuato e socialmente disastroso;

• impegno a rafforzare i centri di ricerca, pubblici e privati, ed in generale tutti i soggetti capaci di trattenere ed attrarre giovani

intelligenze al Sud: non si tratta di bloccare la fuga dei cervelli, obiettivo incomprensibile in un mondo globalizzato, ma di pun-tare a un saldo zero tra giova-ni che vanno via e giovani che vengono al Sud;

• anche a tal f ine r ipensare globalmente gli interventi del Fse, troppo sbilanciati verso la formazione professionale tra-dizionale, che spesso diventa uno strumento per una sorta di corporativizzazione della lotta per il lavoro;

• una riflessione strutturata sulla finanza locale evitando che in-terventi indiscriminati azzerino gli elementari diritti dei cittadi-ni in materia di servizi sociali;

• una verifica del funzionamen-to e delle esigenze degli uffici periferici delle amministrazio-ni centrali dello Stato, a partire dalla magistratura e dalle forze dell’ordine;

• fare della legalità e della sicurez-za uno dei cardini delle politiche nel Mezzogiorno e per il Mezzo-giorno. La criminalità organizza-ta è contro la democrazia, la cre-scita civile e lo sviluppo economi-co del Sud e dell’intero paese. La legalità ‘conviene’. Ma perché ciò venga avvertito e praticato da tut-ti, e dai giovani in modo partico-lare, occorre che la cultura della legalità sia sostanziata dal rispetto e l’affermazione delle regole e dei diritti di cittadinanza, dal funzio-namento dello Stato e delle isti-tuzioni in tutte le loro espressio-ni, dal coinvolgimento della col-lettività nella vita pubblica, dalla innovazione e dal potenziamento della governance a tutti i livelli;

• una maggiore attenzione al problema del lavoro e dell’eco-nomia sommersa: è difficile im-

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maginare di avere una politica di promozione dello sviluppo che ignori un terzo circa del si-stema produttivo. Accanto alla necessaria opera di repressione, occorre sviluppare mirate po-litiche di promozione, selezio-ne, accompagnamento capaci di con so lidare le esperienze “recu-pe rabili”;

• modificare il sistema di incenti-vi. Accanto ad una agevolazione fiscale (ovviamente automatica) da concentrare sull’Irap, occor-rerebbero meccanismi di valu-tazione capaci di individuare i programmi imprenditoriali in-novativi;

• semplificare per quanto possi-bile, le procedura del FESR;

• individuare alcuni interventi infrastrutturali urgenti e su essi concentrare la eventuale spesa straordinaria.

8. Implicita o esplicita che sia, prevale, a proposito del Mezzogiorno, l’idea

di una faticosa distanza, di una

qualche irrimediata marginalità. Di una lontananza dal “centro”, ovun-que quest’ultimo venga a essere si-tuato: a Roma, a Milano, a Bruxelles o a Berlino. Sappiamo che la lonta-nanza tradotta sul piano socio-eco-nomico si trasforma facilmente in “lentezza”, “arretratezza”, “ritardo”.

Se al tema della distanza si ag-giunge quello del “transito”, del pas-saggio, lo spazio meridionale ri-schia di trasformarsi in barriera. Ma il Mezzogiorno non può essere que-sto. Vi è un’indiscussa centralità sto-rica del Mediterraneo che va recu-perata.

Una centralità che ha riguarda-to le vicende delle grandi civiltà, che lo ha visto fulcro del più vasto fra gli imperi, e poi terreno di lotta fra le più grandi religioni, in ogni caso, sempre luogo di transito e di conta-minazione di uomini, merci e cul-ture.

Plasticamente l’idea di un Mez-zogiorno “corridoio” del Mediterra-neo si coniuga con l’esigenza di una politica di messa in rete dell’Europa con il Nord Africa e il Medio Orien-

te. E sono le vie di terra e le vie di mare a rappresentare la genesi del-le nuove opportunità, i “cunicoli” dell’espansione, Spazi, vie che ci ren-deranno partecipi, consapevolmente protagonisti, delle “nuove relazioni” entro le quali il Mezzogiorno potrà collocarsi.

Si tratta di definire le direttri-ci della riaggregazione meridionale, per contrastare i due nemici stori-ci del Sud che fin qui abbiamo pro-vato a descrivere: la disgregazione interna e l’isolamento. Così si ren-de esplicita l’idea di una nuova de-cisa infrastrutturazione, attivata at-traverso una intelligente e selettiva allocazione delle risorse finanziarie. Sono gli assi e i nodi del sistema ter-ritoriale meridionale a dover essere individuati e rafforzati per scioglie-re definitivamente la contraddizione che si apre tuttora fra perifericità e integrazione, fra marginalità e mes-sa in rete, in una logica che non può che essere sovraregionale e sovra-nazionale, e che deve per forza di cose commisurarsi su scala mediter-ranea ed europea.

I PromotorICarlo Borgomeo Presidente Fondazione per il Sud

Adriano Giannola Presidente SvimezAndrea Geremicca Presidente Fondazione Mezzogiorno Europa

Gianni Pittella Vicepresidente vicario del Parlamento europeoMarco Esposito Giornalista

Alfonso Ruffo Direttore ”Il Denaro”

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• Semplificare e razionaliz-zare finanziamenti, strumenti e azioni a sostegno delle po-litiche di internaziona-lizzazione. Se ci si vuole in-serire nel mercato mediterra-neo occorre aiutare le nostre imprese a competere offren-do loro accompagnamento, servizi consulenziali di qua-lità, strumenti operativi, assi-stenza diplomatica. Occorre ri-mettere mano ad un sistema di governance pubblica del setto-re che – tra ICE, Unioncame-re estero, Simest, enti regiona-li ecc. – produce spesso fram-mentazione degli interventi e mancanza di strategia;

• Difendere le nostre eccel-lenze produttive, a partire dai poli aeronautici campano e pugliese. Le due regioni non sono ancora riuscite a fare se-riamente “distretto”, e si rischia l’indebolimento di tali insedia-menti a vantaggio del lombar-do veneto;

• Ragionare sulla possibili-tà di costruire un fondo di venture capital misto, pubblico privato, per sostenere la crescita delle PMI del Mez-zogiorno. Alcune regioni lo hanno già rea lizzato

• Tale fondo potrebbe ave-re una dotazione finanziaria ad hoc per favorire il conso-lidamento degli spin off e l ’accompagnamento sui mercati dei brevet-ti. La competitività oggi si gio-ca sul valore aggiunto dei pro-dotti, sul know how che si fa processo produttivo, sul tem-po di trasferimento tecnologi-

co, sulla conoscenza. Il Mez-zogiorno – con la sua creativi-tà, le sue eccellenze universi-tarie, i suoi centri di ricerca e di competenza – potrebbe di-venire un punto di riferimento europeo per una muova poli-tica industriale dell’innovazio-ne;

• Urge un “piano regola-tore delle infrastruttu-re immateriali”, a partire dalla banda larga. Va ripresa le disponibilità di Cassa Deposi-ti e Prestiti per co-finanziare, assieme allo Stato, alle Regioni ed ai privati, la diffusione del-la banda larga omogeneamen-te in tutto il territorio meridio-nale: si tratta del vero fattore competitivo di svolta in quan-to a qualità dei servizi a citta-dini e soprattutto imprese;

• Abbiamo bisogno di un grande piano di riqualifi-cazione del capitale so-ciale del Sud, e abbiamo le risorse del FSE per realizzar-lo. Orientare la formazione alle esigenze del mercato del lavo-ro, ridisegnare il ruolo dei cen-tri per l’impiego, coinvolgere maggiormente le associazio-ni dato riali nella programma-zione, liberalizzare il mercato dell’offerta formativa, valoriz-zare il ruolo delle agenzie per il lavoro, passare integralmente dai famigerati “corsi di forma-zione fatti dagli enti accredita-ti” alla “dote alla persona” me-diante l’adozione del voucher formativo individuale;

• Serve un piano indu-striale per le pubbliche amministrazioni meri-

dionali. Il blocco del turn over, lungi dal rappresentare una misura di contenimento della spesa pubblica, ha finito solo con il produrre: 1) la ricerca esterna delle competenze ne-cessarie a governare la moder-nità, a tutto vantaggio delle so-cietà di consulenza; 2) l’impo-verimento, la marginalizzazio-ne e il ripiegamento della pub-blica amministrazione “di car-riera”, tagliata di fatto fuori dai principali nuovi processi di governance dei territori. Occor-re assumere giovani bravi, pre-parati e qualificati via via che negli uffici maturino cessazio-ni di posizioni per pensiona-menti o altri motivi. Non sia-mo contro l’outsourcing in via di principio, ma occorre tro-vare un nuovo equilibrio tra competenze interne ed esterne agli uffici;

• Serve una Legge Obietti-vo per la riqualificazio-ne delle periferie del-le grandi aree urbane del Mezzogiorno. Le peri-ferie di grandi città – da Napo-li a Bari, da Palermo a Reggio Calabria – vivono condizioni di grave degrado urbanistico, sociale e di sostanziale abban-dono economico. In Italia, e in modo particolare nel Sud, esi-ste una vera e propria “emer-genza città” che non può esse-re lasciata sulle spalle di sin-goli sindaci. E siccome oggi la competizione economica non avviene più tra singole azien-de ma tra sistemi territoriali, è inutile porre il tema dello svi-luppo economico del Sud, sen-

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za affrontare quello del “con-tenitore”: contesto territoriale e attrattività.

• Occorre dare subito concre-tezza al pacchetto di misu-re recentemente introdotte dal Governo: Zone franche urbane, Zone burocrazia Zero, Agen-zia per le Imprese. Non si trat-ta certamente di atti di svol-

ta epocale, ma comunque sia-mo di fronte ad interventi che, se attuati rapidamente, posso-no aiutare la ripresa nelle aree più deboli;

• Obiettivo legalità: è un tema con mille sfaccettature, dalla prevenzione alla repres-sione, dal controllo del terri-torio al rafforzamento degli

strumenti di indagine. E tutta-via, una piccola proposta ope-rativa potrebbe essere rappre-sentata dal passaggio integra-le alla “stazione unica appal-tante” presso le prefetture per tutte le gare pubbliche, di ope-re o forniture di beni e servizi, di ammontare superiore ai 200 mila euro.

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28 Un libro per la formazione di giovani sul campo a partire dalla realtà che li circonda

L’ultimo libro di Luca Mel‑dolesi “Milano‑Napoli : prove di dialogo federa‑lista” pubblicato da Guida Editori focalizza l’attenzio‑

ne su un tema delicato in un perio‑do che non è da meno: quello del federalismo.

Il testo nasce da un dialogo dell’autore con il noto economista milanese Marco Vitale (ma di origini casertane) e con un gruppo di ex al‑lievi e collaboratori meridionali che si trasforma progressivamente in un “silenzioso” ragionamento sulle due città, sollecitando commenti, spun‑ti e reazioni che costituiscono il filo conduttore del volume. L’ispirazione democratica federalista anima co‑stantemente le pagine del lavoro di Meldolesi. Il problema, diceva Carlo Cattaneo in polemica con Massimo D’Azeglio, non è fare l’Italia, che è fatta da gran tempo, ma liberarla. E anche l’Autore giunge a questa con‑clusione chiave, presentando il fe‑deralismo democratico come “inizio di un completamento indispensabile della lunga rivoluzione democratica italiana”.

Il libro si apre con il racconto della partecipazione ad un semina‑rio tenuto a Lugano nel 2009, sul tema “Nord e Sud di fronte ad una scelta federalista”, nel quale Mel‑dolesi si accorse con sorpresa di come le sue analisi, frutto di tanti anni di esperienza a Napoli e nel Mezzogiorno, trovassero una spon‑da inattesa e insperata nei ragio‑namenti del collega milanese, sulla base di una comune parola d’ordi‑ne: la “trasformazione democratica e federalista” dell’Italia, problema cruciale per l’intera penisola. Da qui inizia un dialogo serrato e sti‑molante sull’immagine italiana bella e possibile (cap. 1), sulle condizioni dell’economia campana (cap. 2), su alcune tipiche difficoltà di Napoli (cap. 3) e infine sul federalismo de‑mocratico (cap. 4).

L’Autore chiarisce fin da subi‑to come la sua interpretazione del federalismo democratico non sia una proposta “intellettualistica”, ma sia invece pienamente consa‑pevole delle difficoltà di aprire un varco pubblico‑privato per costru‑ire una via d’uscita alla condizione di subalternità in cui si trovano Na‑poli, la Campania, il Mezzogiorno e l’Italia. Particolarmente acute e dense le sue pagine sul Napoleta‑no, in cui l’analisi si articola su un triplice punto di vista, ribaltando gli schemi tradizionali: come terapia, come prognosi e come diagnosi. In questo quadro nasce la formula “Mi‑lano chiama Napoli”: per costruire ed escogitare le possibili soluzioni per la Campania; per intravedere le tendenze evolutive già in atto; e infine, per comprendere meglio le difficoltà “esagerate” che attana‑

gliano Napoli e la sua regione, con l’intento di neutralizzarle per gradi e risalire la china.

La proposta al centro di que‑sto libro, spiega Meldolesi, scaturi‑sce dall’attività svolta per circa un decennio con i suoi allievi sui temi dell’economia territoriale, forman‑do giovani sul campo a partire dalla realtà che li circondava, anche nelle aree definite “difficili” nella Gomor‑ra di Saviano. Ed è proprio nella pra‑tica di questo lavoro, toccando con mano sia le potenzialità di questi gruppi di operatori organizzati in termini di sostegno alle PMI che gli ostacoli frapposti da un apparato amministrativo incapace ed impo‑tente, che è nata l’opzione federali‑sta. La conclusione, scrive l’Autore, è semplice: il salto di produttivi‑tà potenziale e di sprigionamento delle energie della realtà sociale,

consentito da un funzionamento fe‑deralista‑democratico, è semplice‑mente enorme. Ed è questo il cuore della questione, perché, come inse‑gna Albert Hirschman, lo sviluppo non dipende dall’applicazione tout court di una determinata tecnica economica, per quanto sofisticata, ma dalla attitudine concreta a ri‑chiamare, valorizzare, potenziare e arruolare alla crescita democratica capacità e risorse inizialmente na‑scoste, disperse, o mal utilizzate. In sostanza, è stato proprio lo sforzo di formazione di “abilità direttive” pub‑bliche e private, condotto da Meldo‑lesi in questi ultimi anni, a rendere evidente la vitale necessità di una contemporanea democratizzazione del sistema pubblico in senso fede‑rativo. Perché la questione, sottoli‑nea l’Autore, è sempre la medesima. Da un lato, l’esistenza di un enorme e obsoleto apparato gerarchico dai piedi d’argilla. Dall’altro, “yes we can! ”, e cioè la possibilità reale e concreta di scatenare e stimolare l’iniziativa di giovani operatori cre‑ativi, flessibili, entusiasti, destina‑ta inevitabilmente a scontarsi con le logiche e i ritmi fuori tempo dello stesso apparato.

L’approdo federalista, secondo Meldolesi, potrà essere favorito ed accelerato da alcune condizio‑ni specifiche. In primo luogo, dalla capacità di organizzare interventi e proposte concrete in grado di asse‑condare e valorizzare quella tenden‑za spontanea verso il federalismo democratico, da sempre presente nel nostro paese ed esaltata da al‑cuni grandi italiani, come Garibaldi, Cattaneo, Sturzo, Salvemini, Einau‑di. Sul piano tecnico, questo disegno comporta la conseguenza che, con‑trariamente al pensiero di tanti eco‑nomisti, il sistema sia, entro certo limiti, “decomponibile”, cioè che sia possibile operare su settori specifici e insinuarsi nei varchi offerti dalla realtà esistente per sviluppare dina‑

Luca Meldolesi

Milano‑Napoli:prove di dialogo federalista

Napoli, Guida Editori, 2010

Luisa Pezone

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29Un libro per la formazione di giovani sul campo a partire dalla realtà che li circonda

miche virtuose, sia dal punto di vista politico che socio‑economico. In se‑condo luogo, risulterà decisivo fare esperienza con la “E” maiuscola, e cioè organizzare senza sosta gruppi di giovani operatori che si battano sul campo, nell’interesse delle co‑munità locali, e soprattutto del va‑sto mondo operoso e creativo delle PMI. L’attività di formazione sarà, come sottolinea l’Autore, sempre più cruciale, perché consentirà di ottenere risultati specifici, maga‑ri modesti, ma reali, e di “mettere le mani in pasta”, identificando in

concreto quel “cambio di passo” che il federalismo democratico po‑trà consentire. Solo diventando tutti “tommasei” (quelli del “se non vedo non credo! ”) sarà possibile impa‑rare a combattere le due tendenze negative opposte: quella dell’inglo‑bamento nel sistema esistente e quella della marginalizzazione. Solo l’etica del fare, suggerisce Meldole‑si, porterà a galla la contraddizione chiave, quella tra il sistema pubbli‑co tradizionale e le esigenze effet‑tive delle PMI e dei giovani. Come sintetizza l’Autore, “è l’etica che

suggerisce la soluzione federalista democratica”.

In conclusione, secondo Meldo‑lesi, solo il federalismo democratico potrà facilitare il pieno riconosci‑mento delle “difficoltà esagerate” in cui si dibatte il Mezzogiorno e guidarlo sulla strada di uno sviluppo reale e duraturo. Ma questa soluzio‑ne si otterrà solo scoprendo e risco‑prendo, nella pratica, l’immenso di‑vario di efficacia/efficienza e demo‑cratizzazione che esiste tra la realtà attuale e le prospettive che potrem‑mo conquistare. Per tali motivi sarà decisivo anche il confronto continuo e costante con esempi positivi che siano parlanti, convincenti in quan‑

to tali, sia a livello naziona‑le che internaziona‑

le. Gli esempi merite‑

voli offerti dal alcune realtà e regio‑ni italiane, ma anche da paesi come Svizzera, Canada, Stati Uniti, Au‑stralia (paese federalista democra‑tico più avanzato dal punto di vista sociale) dovranno rappresentare un punto di riferimento imprescindibile per riappropriarci delle idee migliori. La via federalista, quella vera, quella democratica, potrà essere imbocca‑ta effettivamente partendo dal ter‑reno, dal Nord e dal Sud, ispirandosi a processi di confronto interistitu‑zionale, di cooperazione‑emulazio‑ne e di socialità che già esistono nell’esperienza della Penisola, inse‑rendosi nel processo stesso che il governo ha avviato, ma con l’intento di migliorare concretamente la per‑formance degli enti locali coinvolti, e ricollegandosi, per tale via, al meglio dell’esperienza internazionale.

Responsabile Ufficio Studi, Ricerche e Progetti della Fondazione Mezzogiorno Europa.

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Largo Luigi Antonelli, 20 ( 00145 Roma ) Telefono: +39 06 5947441

Fax: +39 06 594744313Email: [email protected]

Vico Carceri San felice, 13 ( 80135 Napoli ) Telefono: +39 081 5447726

P R E S T I G I O S I R I C O N O S C I M E N T IA DUE SOCI F OND AT ORI E DIRIGEN T I DI ME Z Z OGIORNO EUROPA

PREMIO“GUIDO DORSO”

Istituzioni

Gianni pittella

Gianni Pittella, nato a Laurìa, medico, respon‑sabile nazionale Ds per gli Italiani nel Mondo; dal 14 luglio 2009 è Vice Presidente Vicario del Par‑lamento Europeo.

Da trent’anni ha profuso il suo impegno meri‑dionalista nelle istituzioni locali, regionali, naziona‑li ed europee, una “costante” nell’azione politica e parlamentare e nell’impegno sociale e culturale.

Allievo di maestri di meridionalismo e di eu‑ropeismo come il nostro Presidente della Repub‑blica Giorgio Napolitano, Gianni Pittella ha saputo trasmettere con passione il suo amore per la sua terra, la fierezza di essere lucano e meridionale, la consapevolezza dei limiti e degli errori ma anche delle virtù e dei talenti del Mezzogiorno.

Nei suoi libri, nei suoi atti parlamentari, nei suoi discorsi politici, nel suo ruolo di primo vi‑cepresidente del Parlamento Europeo, nella sua presenza costante sul territorio, sui media e sui social network, c’è l’idea e la visione di un Mez‑zogiorno che alza la testa, perciò sa riconoscere le proprie colpe e sa contrastare il disegno antime‑ridionalista e secessionista, un Mezzogiorno che sa proporre e costruire una nuova prospettiva di sviluppo euromediterraneo.

PREMIO“SCANNO”Economia

enzo Giustino

Enzo Giustino, prestigiosa figura del mondo economico e sociale, è attualmente Presidente del Banco di Napoli.

Il carattere saliente del percorso di Enzo Giu‑stino è il profondo impegno connesso al ruolo dell’imprenditore ed alla sua funzione nella so‑cietà ai fini di uno sviluppo economico e civile.

Tale impegno, nel suo percorso profes‑sionale, trova una prima importante testimo‑nianza negli anni Sessanta nella costituzione in Confindustria del Gruppo dei Giovani Indu-striali.

Dal 1972 e fino alla fine del decennio, no‑minato Presidente della Camera di Commercio di Napoli, Enzo Giustino si dedicò con passio‑ne ai temi della questione meridionale anche nella sua qualità di Consigliere incaricato della Confindustria per il Mezzogiorno. In tale perio‑do maturò una propria visione meridionalistica nella quale la ricerca di spazi di autonoma cul‑tura di governo si dovevano coniugare con gli obiettivi dello sviluppo.

Il naturale sbocco negli anni Ottanta fu la creazione della Società Studi Centro Storico, che diede vita alla ben nota proposta: Il Regno del Possibile. Era, come Giustino disse, una propo‑sta di metodo, che aveva l’ambizione di contri‑buire alla ripresa di un percorso di sviluppo e di intervento sociale che appariva frenato.

Da allora il dibattito sociale sulle complesse realtà meridionale e napoletana ha visto sempre la presenza e la passione civile dell’attuale Pre‑sidente del Banco di Napoli; basti ricordare la sua posizione sul Mediterraneo come una pos‑sibile area di libero scambio, una cerniera che favorisca l’integrazione tra Comunità Europea ed economia delle sponde adiacenti.

È di tutta evidenza il ruolo che il dott. Giusti‑no ha ricoperto nella vita economica, istituzio‑nale e sociale del nostro Paese. Viene pertanto proclamato vincitore della XXXVIII edizione del “Premio Scanno” di Economia con l’auspicio che continui nella sua meritoria attività.

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Towards a safer world.

Voliamo ogni giorno in tutti i cieli del mondoAlenia Aeronautica è un leader globale negli aerei regionali e un costruttore indipendente di livellomondiale nelle aerostrutture. La famiglia ATR domina il mercato dei turboelica. Tra breve entrerà inservizio il nuovissimo Superjet, basato su un’ampia collaborazione con Sukhoi.Il contributo al Boeing 787 e all’Airbus A380 conferma Alenia Aeronautica come vero “small prime” incampo civile. Alenia Aeronautica ha contribuito in modo significativo ai più importanti aerei di lineaBoeing e McDonnell Douglas. Una vasta gamma di aerostrutture e componenti Alenia Aeronautica èsugli Airbus, sui jet d’affari Dassault e sul futuro Bombardier C-Series. La controllata Alenia Aermacchiè un importante fornitore di gondole motore ad Airbus, Boeing, Dassault, Embraer e altri costruttori.

Quando le idee volano

www.alenia.it

pubbl 205x250 istit IITA CIV_09:pubbl 205x250 istit IITA CIV_09 27-05-2010 11:28 Pagina 1

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Towards a safer world.

Voliamo ogni giorno in tutti i cieli del mondoAlenia Aeronautica è un leader globale negli aerei regionali e un costruttore indipendente di livellomondiale nelle aerostrutture. La famiglia ATR domina il mercato dei turboelica. Tra breve entrerà inservizio il nuovissimo Superjet, basato su un’ampia collaborazione con Sukhoi.Il contributo al Boeing 787 e all’Airbus A380 conferma Alenia Aeronautica come vero “small prime” incampo civile. Alenia Aeronautica ha contribuito in modo significativo ai più importanti aerei di lineaBoeing e McDonnell Douglas. Una vasta gamma di aerostrutture e componenti Alenia Aeronautica èsugli Airbus, sui jet d’affari Dassault e sul futuro Bombardier C-Series. La controllata Alenia Aermacchiè un importante fornitore di gondole motore ad Airbus, Boeing, Dassault, Embraer e altri costruttori.

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CyberdemocrazieafricaneLa storia di Ushahididalle violenze post‑elettorali al referendum costituzionaleVincenzo Cavallo

Sto scrivendo questo articolo nell’i‑Hub, il la‑boratorio di innovazione tecnologica che in Kenya ha sede in una delle più importanti strade com‑merciali di Nairobi. Sono venuto qui per due moti‑vi: per la connessione internet veloce e gratuita e perché questo posto è il risultato tangibile di una storia a lieto fine, cominciata tre anni fa durante gli scontri elettorali che hanno scosso il Kenya.

Nel 2007 il Paese è travolto da una guerra civile tra etnie rivali. I media accorrono da ogni parte del mondo per testimoniare quello che agli occhi della comunità internazionale appare come l’ennesimo fallimento di un’altra giovane demo‑crazia africana. Stati/nazione disegnati a tavolino e mai veramente esistiti. In pochi giorni il Kenya piomba nel caos con un bilancio pesantissimo alla

fine degli scontri: circa 1.500 morti e 300.000 sfol‑lati. Durante le violenze il governo dichiara lo stato di emergenza e vieta ai canali tv di trasmettere qualsiasi tipo di diretta. La televisione è oscurata e al posto delle news compare la bandiera nazio‑nale che ammonisce i cittadini all’unità.

E in questo contesto che un gruppo di blog‑ger e programmatori in tre giorni sviluppa una piattaforma di giornalismo partecipativo, free ed open source, per consentire a tutti i cittadini di riportare, testimoniare, mappare gli scontri in atto e ai programmatori di tutto il mondo di mi‑gliorarne la tecnologia. Danno vita a un media partecipativo indipendente e senza precedenti nella storia di internet. Uno strumento che con‑sente ai kenyani, non solo di testimoniare a tutti le atrocità che si stanno perpetrando nel paese, bypassando i media istituzionali, ma anche di for‑nire un servizio informativo formidabile a tutte le persone che si spostano durante gli scontri etnici per evitare i check points della morte e i luoghi di scontro tra le diverse fazioni.

Decidono di chiamare la piattaforma on‑line “Ushahidi”, che in Swahili significa “Testimone”.

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Geniale invenzione che diventa presto un caso di portata globale. Le tre menti che danno vita a questa impresa sono quelle di Ory Okolloh, Erick Hersman e David Kobia.

In seguito il software è stato, ed è, utilizzato in diversi paesi africani, asiatici, americani, euro‑pei, per gestire informazioni in modo partecipati‑vo e condivisibile. In Sud Africa per mappare gli scontri xenofobi che continuano a devastare le aree urbane più povere, in Congo, nella striscia di Gaza da Ajeciras, in India per monitorare le elezioni nel 2009, in Messico per la febbre sui‑na, sempre in Africa per monitorare le condizioni di rifornimento e distribuzione di medicine negli ospedali del Kenya, del Malawi e dello Zimbawe, negli Stati Uniti per monitorare la criminalità, in Italia per le emergenze ambientali.

Ma la prova più eccezionale della grandis‑sima utilità ed efficacia di questa innovazione made in Kenya è sicuramente il caso di Hahiti. Il software è stato utilizzato per supportare le agenzie umanitarie nel coordinamento degli aiuti. Le radio locali comunicavano un numero verde al quale segnalare gli incidenti, i cittadini inviavano sms e i volontari di tutto il mondo mappavano le emergenze attraverso Ushahidi. In questo modo le agenzie disponevano di un quadro sempre ag‑giornato di ciò che accadeva e riuscivano coordi‑nare gli aiuti utilizzando i dati inviati organizzati dal team di volontari Ushahidi.

La portata del successo di questa operazio‑ne spinge fondazioni e sponsor, soprattutto nord americani, ad investire nel progetto circa 3 milioni di dollari. Con questi fondi i tre pionieri di Ushahi‑di decidono di dare vita all’ i‑Hub, il laboratorio di innovazione tecnologica da cui scrivo.

Secondo un sondaggio del Business Daily, Jessica Colaco, 28 anni, è già tra le 40 donne più importanti del Kenya. Solo per merito – e non per età o appartenenza – l’imprenditrice e ricercatrice alla Stratmore University di Nairo‑bi, è stata eletta dalla comunità i‑Tech keniana, prima direttrice dell’i‑Hub di Nairobi.

In un’intervista ci spiega che il Kenya ha una popolazione di 38.6 milioni di abitanti e che metà di questi cittadini ha una sim card ed è quindi connessa alla rete mobile. “In Kenya ovunque puoi avere una connessione ai dati grazie al te‑lefonino” – e questa è sicuramente un’opportu‑

nità per Jessica che si definisce una “missionaria delle tecnologie mobili”. E aggiunge: “Il mio ruolo come missionaria delle tecnologie è di informare il pubblico sulle applicazioni che i programmatori sviluppano e allo stesso tempo analizzarne l’im‑patto sulla società e comunicarlo a più attori”. “L’ i‑Hub” – ci spiega – “è il modo che i crea‑tori di Ushahidi hanno scelto per ricambiare la comunità i‑Tech di Nairobi, per lo sforzo e i ri‑sultati raggiunti”.

L’ i‑Hub è un posto in cui la comunità tecno‑logica può incontrarsi, lavorare insieme, scam‑biare idee, progettare, confrontarsi con il mondo accademico, della ricerca, del design. In sostanza un luogo di emersione di idee e di trasformazione delle idee in applicazioni e progetti concreti. Uno spazio nel quale coesistono comunità e imprendi‑torialità, dove i giovani programmatori di talento si trasformano in giovani imprenditori.

La direttrice del laboratorio tecnologico ci dice che qui i ragazzi, sebbene molto diversi tra loro, condividono la medesima visione: far diven‑

tare il Kenya un posto migliore grazie alle nuove tecnologie. Secondo Jessica esiste una relazio‑ne diretta tra open software e open space, come dire una connessione public software/public spa-ce. E Ushahidi ne è la dimostrazione.

Un’idea nata da tre intelligenze e pensata per espandersi. Un’idea sviluppata dall’intera comunità i‑Tech, kenyana e internazionale. Uno sforzo cognitivo e creativo dal quale è gemmato questo senso di community. “E quando un idea è comunitaria” – dice Jessica – “acquista mag‑giore forza, diventa una missione perché allora la comunità determina proprie istanze e bisogni, come la necessità di creare uno luogo come que‑sto, una forza dal basso”. Secondo la giovane di‑rettrice, Nairobi è probabilmente un caso unico di sviluppo rivoluzionario più che evolutivo, almeno a partire dagli ultimi 10 anni. Non è una coinci‑denza che tutto questo stia accadendo proprio qui, nella capitale del Kenya.

Jessica non nasconde la sua ambizione, i giovani qui non soffrono di depressione e que‑

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sto è solo l’inizio: in pochi mesi, l’i‑Hub sarà il più grande hub tecnologico di tutto il continen‑te africano.

Vivo in Kenya dal gennaio del 2007. Nel 2009, insieme ad altri blogger e artisti, ho par‑tecipato alla progettazione di “Urban Mirror”, lo Specchio Urbano. Abbiamo utilizzato Ushahidi per mappare tutti i luoghi nei quali gli artisti del Kenya, in K enya, stanno lavorando sullo spazio pubblico. Nairobi è una città che vive un grande sviluppo, anche architettonico, e necessita di spazio pubblico, ha bisogno di artisti vi lavori‑no. Nairobi non è solo slum e baraccopoli. Noi pensiamo che il software modificherà la perce‑zione che i cittadini hanno dello spazio pubblico e della città.

Ushahidi ha dato prova di essere una piatta‑forma straordinariamente potente perché è stata immaginata in connessione con la radio e con il cellulare. In Africa la maggior parte della popo‑lazione non ha accesso ad internet. E proprio a partire dall’assenza di infrastrutture, la grande

intuizione di mettere in connessione mezzi di comunicazione accessibili alla collettività, sta aprendo la strada ad innovazioni tecnologiche low tech, poco costose e facilmente utilizzabili dal territorio.

Direi che la società civile sta creando un nuo‑vo modo di fare politica, diverso rispetto a ciò che abbiamo visto nel secolo precedente. Una modalità che invece si dota di strumenti di par‑tecipazione collettivi e ad alta tecnologia. È in‑teressante sottolineare che Ushahidi può essere utilizzato per prevenire invece che per mappare le crisi, può diventare uno strumento per fare pressione sui governi locali ed internazionali. Pensiamo ad esempio all’emergenza rifiuti in Campania, a se avessimo utilizzato Ushahidi per mappare l’evoluzione del fenomeno. La società civile avrebbe potuto mostrare, ai governi locali, nazionali ed internazionali, la mappa del disagio, la mappa delle discariche abusive… e forse si sarebbe in qualche modo potuto arginare ciò che poi è diventato una crisi senza fine.

Un giorno per la CostituzioneIl 4 agosto del 2010 il software è stato utiliz‑

zato per monitorare l’andamento del referendum popolare che ha approvato la nuova Costituzione in Kenya. Ho passato tutto il giorno nell’i‑Hub in‑sieme a centinaia di ragazzi.

Erick, uno dei fondatori, mi ha spiegato che “Uchacuzi” è un’implementazione di Usha‑hidi sviluppata per monitorare il referendum. “Ci stanno aiutando molti volontari alcuni sono sul campo, altri sono qui, altri ancora stanno la‑vorando da casa”. “In questa occasione siamo anche partner di Crico un’organizzazione che si occupa di monitoraggio elettorale e che gesti‑sce 550 osservatori sul campo che ci inviano messaggi. Quindi per la prima volta riceviamo informazioni da osservatori elettorali profes‑sionisti e da comuni cittadini”. Erick sostiene che c’è una grande differenza rispetto alle ele‑zioni del 2007, durante le quali erano occupati a capire come far funzionare il sistema. “Questa volta vogliamo essere pronti, prevenire. Da qui riceviamo ed inviamo informazioni a moltissime organizzazioni ed è per questo che siamo a tutti gli effetti un centro di elaborazione e smistamen‑to dati che funziona nel caso si verificasse una crisi. Se dovesse succedere qualcosa noi siamo pronti e le nostre persone sono in grado di ge‑stire la situazione”.

Philip uno dei volontari mi ha detto che alle 5.00 le urne erano piene e che è rimasto sciocca‑to dalla reazione positiva della gente. “Sembra che abbiano riacquistato la fiducia nel processo elettorale, ma capiremo solo alla fine della gior‑nata se e come la gente avrà accettato i risultati. Le persone che hanno combattuto per l’indipen‑denza ti diranno che stanno aspettando una nuo‑va Costituzione da 40 anni. Penso che questo sia un momento molto importante per la storia del K enya, le nuove generazioni potranno dire di ave‑re una Costituzione che non è stata imposta dagli europei o dal colonialismo, ma una costituzione creata da noi. Non andremo a casa, siamo tutti pronti ad aspettare come puoi vedere”.

Anche Lina è una volontaria: “Praticamente ri‑cevo gli sms sul sistema in forma di testo. Li leggo e li inserisco nella mappa in base a quello che segna‑lano le persone che li inviano e poi indico il report con un titolo in modo da facilitare la comprensione

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dell’utente finale. È incredibile quello che si può fare con questo software! Per capire quello che sta suc‑cedendo non devi leggere pagine e pagine di paro‑le, attraverso questo metodo riesci subito a render‑tene conto. Quanto più è importante la quantità di informazioni che ricevi tanto più è minore il tempo che impieghi a capire la situazione. Il messaggio è che le persone votino pacificamente”.

Un operatore di Ghetto Radio mi ha spie‑gato che organizzazioni come la loro ed altre community based organizations che si occupano di informazione o anche di altre attività socia‑li sono fondamentali per il progetto e per i dati che vengono recuperati attraverso Ushahidi, perché sono sul campo e sanno cosa sta suc‑cedendo. Questo vuol dire che possono verifica‑re le informazioni che arrivano relative alle loro aree di azione. “Per esempio se arriva un report anonimo, noi di Ghetto Radio possiamo sempre chiedere al nostro audience di confermare quel‑lo che è accaduto. Le persone che ci ascoltano sono le prime a sapere cosa sta succedendo e le prime ad inviarci feedback direttamente attra‑verso il sistema che abbiamo messo su. Questi sono tutti spazi comunitari che servono a stimo‑lare i cittadini a riempire i nostri database. Noi siamo fonti autorevoli, se pubblicizziamo uno short-code, un numero verde, la gente lo usa. Le persone hanno una relazione di fiducia con noi. Non e semplice trovare un posto come questo a Nairobi, dove puoi trovare più di 100 persone con com‑petenza e passione che col‑laborano ad un solo progetto per un obiettivo comune. Un progetto basato su tecnolo‑gie informatiche in un posto dove l’elettricità e stabile, la connessione a internet è ve‑loce. Questa è la novità! Uno spazio messo a disposizione della collettività, uno spazio dove progetti come Ushahidi e Uchacuzi possono portare frutti. Immagina se fossimo in un ufficio dove la gente deve andare via alle 8.00 di sera perché chiude, o se fossimo distribuiti in diverse location

a comunicare con telefonate e sms. L’atmosfera non sarebbe la stessa”.

Margaret una volontaria venuta dagli Stati Uniti mi ha detto di essere venuta in Kenya per lavorare con Ushahidi e di non essersene pen‑tita nemmeno per un momento: “Penso sia un posto incredibilmente interessante sia per il la‑voro con il team al miglioramento del software, sia per gli incontri con diverse organizzazioni che ne sperimentano nuovi modi di utilizzazione. Sono sempre circondata da persone entusiaste, intraprendenti, intelligenti e attive. Penso che non esista un posto migliore a Nairobi”.

A fine giornata I ragazzi restano svegli, ne intervisto ancora un paio.

George mi racconta che non è riuscito a votare: “In realtà non l’ho fatto perché avevo paura, perché il mio seggio è a Eldoret. Ero li ad Eldoret durante le ultime elezioni la mia famiglia è rimasta intrappolata a causa dei disordini. La situazione era folle, non ci potevamo muovere. Fortunatamente noi eravamo in un area abba‑stanza sicura, ma era come un’isola proprio al centro della guerra. Ho avuto molta paura per questo ero scettico, non volevo rischiare di re‑stare bloccato li. Mi sono sentito in colpa e ho deciso di venire qui per fare volontariato, per fare qualcosa di positivo”.

Godwin sbadiglia: “È quasi mezzanotte, ora stiamo cercando di controllare nuovamente i re‑

port che abbiamo verificato in giornata e poi stia‑mo cercando di scrivere e inviare articoli ai media ufficiali. CNN per esempio ha pubblicato alcuni dei nostri report e questa e una cosa molto stimolan‑te per noi… Poi stiamo cercando di monitorare le votazioni per provincia e per circoscrizione, i miei occhi sono rossi perche sono stanchissimo”.

Al bar una ragazza sorseggia un caffè, sono seduto vicino a lei e le chiedo chi è e cosa pensa di Ushahidi. Mi risponde che è una studentessa della Stratmore University, e che ha aiutato a mappare i report e gli sms che arrivavano dalla gente comune: “Ushahidi è probabilmente una delle cose più belle che poteva accadere a questo paese. Un’incredibi‑le innovazione. Il fatto che è stato utilizzato in cosi tante altre parti del mondo rende tutto ancora più incredibile. Oggi è stato divertente e ho fatto qual‑cosa di buono per il mio paese”.

Abdalla viene dalla costa e quando gli chie‑do di fare un bilancio della giornata mi rispon‑de: “Per me e stato come mettermi in una cap‑sula che viaggia nel futuro, attraverso la quale vedere me stesso a distanza di anni e pensare che in quel momento (oggi) ho fatto qualcosa di positivo ”.

Saranno le 6.00. Il Kenya ha dimostrato di essersi risollevato e di aver ritrovato fiducia in se stesso e nelle proprie istituzioni. In parte ha imparato dagli errori commessi, in parte mi piace pensare che il merito di questa ritrovata pace e

voglia di democrazia, sia an‑che di questi giovani media attivisti e del loro impegno politico. Forse questi ragazzi stanno dimostrando che un’al‑tra Africa è possibile e che stiamo assistendo alla nasci‑ta di una nuovo modo di fare politica attraverso la rete e in rete. Un evento storico dun‑que. Le prime Cyberdemocra-zie Africane sono nate e forse questa volta siamo noi dall’oc‑cidente ad avere qualcosa da imparare.

Lavora in Kenya come regista e produt‑tore di documentari per la CVF. Collabo‑ra con diverse riviste e università.

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F O C U S P E R M A N E N T E

A cura di Carmine Zaccaria

la Grande stampa del nostro paese si affanna sulla ricerca di proprietari e inquilini di case a Montecarlo o ville di prestigio

nell’Isola di Antigua. Dagli spazi di questo Focus Permanente vor‑remmo occuparci di una questione di fondo, dei rapporti dell’Euro‑

pa e dell’America con la Federazione Russa. Una questione di fondo che vorremmo portare all’attenzione degli autorevoli e attenti lettori di

questa pubblicazione. Parliamo di Georgia. E dell’indipendenza procla‑mata dell’Ossezia del Sud e dell’Abkasia: regioni separatiste per Europa e America, paesi indipendenti e riconosciuti per la Federazione Russa. Il primo passo per far chiarezza sulla guerra tra la Russia e la Georgia che ha dato origine agli scenari odierni, lo ha fatto l’Unione Europea ascri‑vendo alla Georgia e al suo Presidente la responsabilità dell’apertura delle ostilità. Questo è quanto chiedeva dall’inizio della guerra la Fede‑razione Russa. Poi le strade si dividono. Le due repubbliche si dichiarano indipendenti, la Russia le riconosce e l’Europa si trova spiazzata in una delle zone calde del globo. Questi sono i fatti. Quali gli scenari futu‑ri? Questa resta una crisi strisciante che si protrarrà nel tempo. Uno

sola certezza. La Russia non tornerà sui suoi passi e intensificherà il rapporto con le due repubbliche rafforzando ulteriormente anche

la sua presenza nella zona ritenuta strategica. La Georgia non ha possibilità né diplomatiche né militari per recuperare una parte

importante e strategica del suo territorio. Solo partendo da questa analisi oggettiva si può seriamente affrontare l’ar‑

gomento per non dedicarsi a un vuoto esercizio dialet‑tico. L’Italia e l’Europa, nel suo insieme, si muovono

nel rispetto delle proprie alleanze e quindi pos‑siamo ipotizzare che difficilmente potran‑

no sostenere le ragioni della Russia. Il ruolo dell’Europa non può

essere certo quello

di spettatore inerte di fronte a scenari così com‑plessi. Si andrà avanti comunque, con la Russia ferma sulle sue posizioni e l’Europa che dissente ma non agisce. Que‑sta dell’Europa è una posizione responsabile, in quanto agire sarebbe oltremodo pericoloso. Su altre pubblicazioni abbiamo parlato di una Fascia di Rispetto che interessa la Federazione Russa. Parlare di fascia d’in‑fluenza è improprio, cose da Guerra Fredda. La guerra della Georgia all’Ossezia del Sud rischiava di alterare questa Fascia di Rispetto che garantisce la Sicurezza Nazionale della Federa‑zione Russa. Sulla Sicurezza Nazionale la Federazione Russa si è pronunciata decidendo la possibilità di un ricorso ad azioni pesanti se questa sicurezza dovesse essere messa in discussione da iniziative di terzi prevedendo anche soluzioni preventive. Questa decisione della Federazione Russa è stata di carattere pubblico, ma poco si è ragionato e discusso intorno a questi temi. Non bisogna dimenticare che l’Ossezia del Sud è separata dall’Ossezia del Nord, territorio russo, da una lunga galleria che le collega e che è un’importante via di transito sotto il profi‑lo economico, e non solo. Quali sono i pericoli di questa crisi che, come abbiamo anticipato, si protrarrà nel tempo? Un eventuale tentativo della Georgia di riprendersi i territori. In questo caso la Georgia rischierebbe di trascinare l’America e molti paesi d’Europa in un conflitto regionale con la Federazione Russa. L’Area interessata è troppo importante e un conflitto regionale potrebbe degenerare. Molto si è rischiato quando l’Amministrazione dell’Ucraina dichiarò che avrebbe impedito alla flotta russa di stanza a Sebastopoli di muoversi in totale autono‑mia nel Mar Nero. Per fortuna le minacce ucraine restarono solo parole. Oggi la nuova Amministrazione è molto più vicina alla Russia e quindi questa minaccia è scongiurata. L’Europa potrebbe svolgere un importante ruolo di mediazione, quantomeno per evitare un aggravarsi della crisi, raf‑forzando il suo impegno diplomatico nella zona. Un impegno teso a favorire il dialogo tra le parti che possa garantire una pace duratura e possa contribuire a disinnescare una miccia così vicina al fuo‑co del Caucaso.

R A P P O R T IU E - R U S S I A

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F O C U S P E R M A N E N T E

La questione energeticae le relazioni Russia - UE

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Istituto di Cultura RussaM. Lermontov

Istituto di Cultura RussaM. Lermontov

Ricerca interamente finanziatadall’Istituto di Cultura Russa M. Lermontov

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F O C U S P E R M A N E N T E

PrefazioneGianni Pittella

Le politiche energetiche sono dal 1956 al cen‑tro della vita dell’Unione europea. Con la dichia‑razione di Messina i padri fondatori dell’Unione avevano già identificato la disponibilità di “energia abbondante e a condizioni competitive” come una delle precondizioni della costruzione comunitaria. Questa visione di lungo termine, tuttavia, non si è mai tradotta in un’armonizzazione reale delle politiche energetiche dei Paesi che hanno pro‑gressivamente condiviso il percorso dell’Unione; anzi, quasi paradossalmente, l’energia è rimasta nel tempo come uno dei settori più gelosamente custoditi dalle cancellerie e dai Governi naziona‑li. Molte sono le ragioni di questa “gelosia”, dal‑la volontà di alcuni paesi di sfruttare i vantaggi competitivi derivanti dalla disponibilità massiccia di materie prime (con il carbone che ha marcato la storia del dopoguerra di molti stati europei), alla consapevolezza di quanto l’energia fosse un set‑tore pervasivo e percepito dai cittadini come una primaria fonte di sicurezza sociale e benessere, agli straordinari intrecci tra politiche energetiche e relazioni internazionali alimentati dallo sviluppo degli idrocarburi e del nucleare. Per molti decen‑ni siamo andati avanti cosi, con 6, 10, 12, 15, 27 “energy mix” differenti (spesso affidati alle cure di monopolisti nazionali orientati nella loro azio‑ne più dalle agende economiche dei Governi che non dalle decisioni dei Consigli di Amministrazio‑ne) e la parola “energia” – che aveva “scatenato” il processo di costruzione europea – bandita dai Trattati. L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona segnerà un passaggio epocale, anche se ancora non definitivo, con il riconoscimento esplicito di un ruolo comunitario nel definire politiche ener‑getiche sostenibili e solidali.

È da molti anni che si prepara questo mo‑mento e, non senza qualche vistosa incoerenza, gli Stati membri hanno intrapreso un cammino ormai irreversibile di congiunzione dei propri de‑stini energetici. Dapprima la liberalizzazione (in ben due “ondate legislative”), adottata come il “modello unico” dello sviluppo dei mercati ener‑getici nazionali e poi, progressivamente, una nor‑

mazione sempre più estesa sulla sicurezza degli approvvigionamenti, sugli scambi transfrontalieri, sulla dimensione ambientale dei sistemi energeti‑ci. Un quadro di politiche ampio ed articolato che ha tuttavia mostrato il fianco davanti alla rigida tutela degli interessi nazionali (che ha creato am‑pie divergenze nei risultati nazionali delle scelte politiche comuni) e, soprattutto, davanti al corso sempre più rapido degli eventi e alla crescita espo‑nenziale della consapevolezza ambientale. La lot‑ta al cambiamento climatico è un obiettivo delle politiche europee da molti decenni, ma solo dopo il Protocollo di Kyoto e – nella realtà degli stru‑menti normativi (come l’Emissions Trading Sche-me ) – a partire dal 2003 l’agenda dei Governi eu‑ropei ha consapevolmente accettato di portarne il peso. Tutto questo non può lasciare immutato il quadro dei nostri sistemi energetici; il carbone, grande serbatoio energetico della crescita eco‑nomica dell’Unione, non può restare la risorsa di riferimento per la crescita della domanda ener‑getica e la de‑carbonizzazione dell’energia che consumiamo deve diventare la priorità assoluta delle nostre scelte, se vogliamo raggiungere nel 2050 l’obiettivo di 450 parti per milione di CO2 in atmosfera e limitare la crescita della temperatu‑ra globale entro i 2°C. Ha ragione chi rileva che questo percorso è necessariamente globale, cosi come la sfida che abbiamo dinanzi; senza la par‑tecipazione di tutti gli attori, ogni sforzo europeo non sarà che una goccia nel mare. Tuttavia, non solo l’Europa deve guidare la strada dimostrando concretamente la propria volontà, ma deve anche essere consapevole delle conseguenze sui mercati di questo potenziale ripensamento globale, a co‑minciare dalle scelte di combustibile.

Nell’immediato futuro l’Unione europea ha già definito alcuni provvedimenti, volti a vincere le prime sfide “necessarie”, innanzitutto quelle le‑gate all’efficienza energetica con la riduzione della domanda e la promozione delle fonti rinnovabili; non possiamo più permetterci di non valorizzare appieno il contributo che può arrivare alle tecno‑logie più rispettose dell’ambiente. Questo garan‑tirà, secondo gli obiettivi europei, un sostanziale contributo alla de‑carbonizzazione dell’energia, ma inevitabilmente lascerà aperta la questione di fondo legata alla generazione termica (che è

destinata ad alimentare in ogni caso una “fetta” preponderante della domanda). Se per il futuro la questione è aperta, con un ampio dibattito euro‑peo sul rilancio nucleare, nei decenni che ci divi‑dono dall’attivazione di nuovi impianti atomici (e soprattutto dal nucleare di IV generazione, che dovrebbe indirizzare molte delle principali preoc‑cupazioni legate a questa tecnologia), nei pros‑simi anni la sfida centrale sarà la disponibilità di gas. Eccoci, dunque, alla “risultante” delle politi‑che europee sul clima, la grande sfida geopolitica cui il sistema energetico di tutta l’Unione si tro‑va davanti oggi e almeno per i prossimi quindici anni: gestire la dipendenza dall’estero sul fronte dell’import di idrocarburi e di gas in particolare (con una dipendenza destinata a crescere vorti‑cosamente sino al 2030). La concentrazione del‑le riserve e soprattutto le caratteristiche del gas, così difficile da trasportare e tradizionalmente im‑portato attraverso infrastrutture che ci collegano principalmente con la Russia, ci spiegano perché il percorso scelto dai ricercatori è assolutamen‑te centrale per chi si occupa di politiche energe‑tiche. Innanzitutto la ricerca ci guida assai bene nel comprendere perché “Mosca”, nel triangolo con la competitività di Lisbona e la sostenibilità di Kyoto, rappresenta oggi l’orizzonte geografico della sicurezza degli approvvigionamenti di gas, così critici anche per sostenere la crescita della nostra domanda elettrica; come dimostra la crisi georgiana, anche le vie della diversificazione del‑le rotte e delle fonti, forzosamente fanno tappa nella capitale russa e si devono confrontare con le strategie del governo russo per il futuro di quell’im‑menso paese. Un’ampia e ragionata serie di dati e di indicazioni ci aiuta a definire con chiarezza i contorni delle esigenze europee e la dimensione temporale stringente. Soprattutto, la ricerca fà un passo avanti, provando a collegare la prospettiva europea con la visione di Mosca e la dimensione tattica e strategica delle politiche russe; è una visione su cui l’Europa si è interrogata ancora troppo poco, sviluppando quindi strumenti limitati e – come ci insegna il dibattito in corso sul Terzo Pacchetto della Commissione europea – ancora inefficaci di gestione della relazione euro‑russa, che non incontrano il “vocabolario” dei nostri in‑terlocutori e non riescono quindi a fornire ai nostri

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F O C U S P E R M A N E N T E

sistemi economici soluzioni “operabili” per nego‑ziare con la Russia.

Sono corsi fiumi di inchiostro sulla “dottrina Putin”, ovvero sull’uso politico delle risorse ener‑getiche, ma bene fa questa ricerca a guidarci in un percorso di “collegamento” tra i fattori che hanno indotto un progressivo abbinamento della dimen‑sione esterna delle politiche energetiche e della linea geostrategica russa. Dai dati della ricerca appare chiara la consapevolezza con cui la Russia ha, sul fronte interno, scelto il posizionamento del “produttore”, valorizzando soprattutto l’elevato li‑vello di prezzi sui mercati di destinazione; questo ha progressivamente condotto ad un’importante innovazione in termini di “modello produttivo”, con strategie di maggiore presidio da parte di operatori russi, una politica di approvvigionamenti dai paesi del Caspio più collegata (anche se ancora fortemen‑te politicizzata) alle dinamiche del mercato europeo e del mercato cinese, la centralizzazione vigorosa di tutte le attività in Gazprom, un unico “centro di pensiero” destinato a raccogliere i frutti della ven‑dita all’estero della commodity e a valorizzarli sui

mercati finanziari per poi distribuirli a monte, nei settori in cui la Russia sceglierà di investire. È que‑sto il quadro con cui i Russi si sono contrapposti in modo coordinato sia sul tavolo politico sia sul tavolo energetico alle politiche europee sull’allar‑gamento e allo sviluppo delle relazioni dirette tra l’Occidente e la regione del Caucaso, con le rilevan‑tissime risorse che i Russi vorrebbero “incanalare” attraverso le proprie reti e che l’Unione europea punta a conquistare. Su questi fronti, i Russi han‑no mostrato nel tempo atteggiamenti fortemente diversificati: da un lato, una certa dose di pragma‑tismo (con la disponibilità a concedere condizioni migliori ai Paesi del Caspio e con l’accettazione di alcuni accordi con i Cinesi); dall’altro, un’opposizio‑ne crescente alla presenza Occidentale su quello scacchiere, con un attento presidio in Iran (anche volto ad impedirne lo “sblocco” verso l’Europa) ed una politica molto attiva verso Kazakhstan, Uzbe‑kistan, Turkmenistan e Azerbaijan. Questo rispon‑de a una strategia precisa, volta a massimizzare il valore delle infrastrutture russe, ma soprattutto a mantenere dentro Gazprom la capacità di arbitrare

tra fonti diverse. L’esigenza che emerge da parte russa (e che la ricerca descrive bene, nell’analisi articolata anche del percorso dell’Energy Charter e del suo Protocollo di Transito) non è quella di mas‑simizzare il valore di breve termine degli scambi commerciali con l’UE, ma di stabilizzare nel tempo il vincolo europeo (e il cash flow dell’operatore na‑zionale russo). È una strategia che gia altri paesi produttori hanno adottato e che richiede risposte politiche efficaci, nuove rispetto al “pensiero unico” del mercato interno europeo. Ciò che funziona tra paesi consumatori, che affidano al mercato la dina‑mica dei sistemi economici e della crescita, non è immediatamente replicabile con pae si intenzionati a costruire il loro futuro su un’importante fonte di reddito che deve loro garantire risorse sufficienti a costruire la crescita delle generazioni future. Anche su questo fronte la ricerca ci offre spunti di asso‑luto interesse, costruendo in modo molto corretto un’architettura ampia per il dialogo Euro‑Russo che (dopo lo stop della crisi georgiana) presto saremo chiamati a riprendere.

La ricerca è stata pubblicata nel novembre del 2008.

Alexander Deineka è uno degli esponenti più originali del realismo sovietico. Una mostra de-dicata alla sua arte aprirà l’Anno della Russia in Italia. Vladimir Putin inaugurerà la mostra. La Gal-leria Tetriakova di Mosca ha di recente dedicato un’importante retrospettiva all’artista. Altra data importante sarà il 2 ottobre 2011. Al Bolshoi (Te-atro Grande) di Mosca è di scena Giuseppe Verdi con il suo Requiem. L’Arte italiana sarà protago-nista sulle tavole di uno dei teatri più importanti del mondo. Questo coinciderà con la riapertura del Teatro dopo cinque anni di restauri. Eseguirà il Requiem l’Orchestra del Teatro alla Scala.

Già questo basta a dimostrare l’importanza, non solo artistica, dell’evento. Tante saranno le iniziative che vedranno coinvolte Italia e Russia. Giuliano Urbani e Mikhail Shvidkoy, due ex Mi-nistri della Cultura, saranno gli animatori di un evento storico che rinnoverà il segno della gran-de amicizia che lega i due paesi. Amicizia storica che non bastano le pagine di tutta questa presti-giosa rivista che ospita il Focus per parlarne come si dovrebbe. La speranza è che si possa cogliere

questa occasione per avvicinare i due popoli in un grandioso progetto che possa fungere da stimolo per continuare e accrescere la collaborazione tra la Repubblica Italiana e la Federazione Russa. La prova è impegnativa, ma si può essere certi che gli esponenti dei due paesi saranno all’altezza del compito. Va ricordato che, per il 2012, l’Italia è il maggior candidato a ospitare il Congresso Mon-diale della Stampa Russa e che, in attesa del 2013, sono in corso i lavori per ospitare a Napoli il Forum delle Culture che vedrà la Russia prota-gonista di una serie di iniziative che nasceranno nella nostra città.

Nella nostra città si pensa di dedicare alla Russia due intense settimane nei 101 giorni del Forum. Tre anni importanti per l’Italia e per la Capitale del Mezzogiorno che nel ‘700 è sta-ta Capitale Mondiale della Cultura. Un giovane Mozart in cerca di notorietà è stato nelle nostre terre dove aveva molto da imparare da musicisti

e da compositori del nostro Meridione d’Italia. Preoccupato per la sua carriera chiedeva al pa-dre Leopoldo: perché mi hai mandato a Napoli dove ci sono trecento musicisti? A Parigi ce ne sono solo tre. Di queste cose parleremo nei nu-meri a venire. Ritorniamo alle iniziative del 2011. Caravaggio e Botticelli saranno ospiti al Museo Pushkin di Mosca.

Noi potremo ammirare le famose uova di Fa-bergè, le uova degli Zar. Splendide composizio-ni, grande arte rimasta nella storia della Russia. Qualcuno in Italia si chiede già perché la Russia abbia voluto Alexander Deineka, esponente del realismo socialista, protagonista dell’apertura del-la celebrazione. Di certo si parlerà ancora di que-sto argomento introdotto da qualche importante testata giornalistica. Per noi è solo un artista di grande rilievo, di fatto quasi sconosciuto in Italia. L’Italia, per tre anni, come abbiamo scritto, sarà Capitale di Cultura.

La cronaca la lasciamo a chi, per dovere o per piacere, dalle colonne dei grandi mezzi d’informa-zione si occupa di questo.

Conclusioni del Focus

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Euronotedi Andrea Pierucci

Autunno cAldo?L’autunno si annucia come una stagione molto

densa di attività per l’Unione europea, stret‑ta nella morsa della crisi, « assediata » dal mondo globalizzato , in grave difficoltà sociale. Le ristrettezze di bilancio, spe‑cie per gli Stati come l’Italia con un debito smisurato (rispetto al PIL è di gran lunga il più alto debito fra gli Stati dell’UE) contribuiscono ad aggravare la crisi sociale. D’altra parte i segnali di insofferenza rispetto alla gestione naziona‑le della crisi sono sotto gli occhi di tutti. Basta guardare la Fran‑cia, con le sue agitazioni sociali contro le riforme pensionistiche; basta guardare il Belgio, ove vi sono scioperi anche in mancanza di un governo effettivo (è la seconda volta in due anni che, dopo una tornata eletto‑rale sofferta, non si riesce a formare un nuovo governo, politicamente significativo). Ma si guardi anche la Germania, laddove la Cancelliera ha dichiarato che la sua politica d’integrazione degli immigrati non ha avuto successo (e con quattro milioni di Turchi a Berlino….). È lo stesso fenomeno che ha condotto partiti apertamente razzisti ad ave‑re notevoli successi elettorali; nei Paesi Bassi, addirittura, uno di tali partiti va al governo; è vero che anche in Italia abbiamo la Lega, ma non è, nonostante tutto, la stessa cosa. Sul fondo credo che l’Euro‑pa ed i suoi Stati membri scontino le paure dei cittadini, spesso in sè ingiustificate, ma fondate sulla manifesta incapacità delle autorità di farvi fronte. La stessa Europa è debole proprio per questo trionfo delle paure. Tuttavia, sembra che dall’Europa proprio possa uscire qualche prospettiva un po’ più auspicabile per i comuni cittadini. Avevamo visto nello scorso numero (ma anche prima) una tendenza dell’Euro‑pa ad essere antagonista verso certe tendenze che, pure, sembrano comuni agli Stati membri. La cronaca di queste settimane ne mostra qualche altro esempio

Per esempio, il Parlamento si è pronunciato per “un’iniziativa” della Commissione per creare un sistema di reddito minimo per tut‑ti in Europa. Il voto del 20 ottobre non è stato così cristallino come avrebbero voluto la relatrice, la portoghese Ilda Figuereido e tutti i gruppi di sinistra che avrebbero preferito la richiesta esplicita alla Commissione di un’iniziativa legislativa. Inoltre, il Parlamento indica la necessità che i salari minimi corrisposti ai lavoratori non siano al di sotto delle soglie di povertà, altrimenti è lo stesso lavoro a creare povertà. Non è proprio la linea tenuta dai governi nazionali in questo momento! Ma gli interventi antagonisti non finiscono qui. In materia di congedi di maternità la Commissione aveva proposto di passare il minimo ammesso da 14 a 18 settimane. Il Parlamento ha approvato, sempre il 20 ottobre, un emendamento per portare il congedo di ma‑

ternità a 20 settimane con retribuzione uguale a quella percepita sul lavoro e aprendo la strada ad un’astensione obbligatoria del lavoro per i padri di due settimane.

Di più: anche l’immigrazione è stata trattata in modo non conforme

alle politiche restrittive e sovente in‑decenti dei governi. Il Parlamento ha

segnalato che, riferendosi anche ai go‑verni, “c’è chi gioca sulle paure della gente

e invoca valori liberali per cause che di libe‑rale non hanno niente, accusando i migranti di

non rispettare i “valori europei”. Senza neanche voler disturbare gli immigrati, il cui maltrattamento

sembra ormai pacifico in molti Stati, nonostante l’ob‑bligazione costituzionale ed europea di rispettare i diritti

fondamentali, ci limiteremo ai Rom. È sicuro che la relazione con quelle comunità Rom che sono nomadi non è cosi semplice, per

differenza di concezioni e di valori e per abitudini inaccettabili con‑tratte nel tempo, ma non si può neanche diffondere una circolare che domanda ai prefetti di cacciare tutti i nomadi, dandogli eventualmente un piccolo sussidio perché non si facciano più vedere in Francia. Biso‑gna notare che i detti nomadi sono cittadini europei, di Stati membri dell’Unione o, addirittura francesi. Non c’è problema: ai francesi si potrebbe togliere la nazionalità e il gioco sarebbe fatto. Inoltre, basta non dire la verità alla Commissione europea e non si rischia neanche una procedura d’infrazione. Salvo che, comunque la Commissione se n’è accorta, si è arrabbiata per essere stata presa in giro ed ha obbli‑gato il governo farncese a ritirare la circolare. Naturalmente qualche nostro Ministro è corso a sposare le tesi francesi più estremiste, fa‑cendoci fare, come accade sovente, una poco bella figura in quanto Italiani; ma tanto abbiamo ormai l’abitudine.

Infine, senza voler andare oltre, ricordiamo che la Commissione dal 2000 sta costruendo un sistema di monitoraggio del rispetto dei diritti nella legislazione, tanto in fase di proposta che in fase di appro‑vazione legislativa. Ormai la Commissione s’impegna a fare un’ana‑lisi d’impatto sui diritti delle normative proposte (dunque non solo a verificare il rispetto della Carta dei diritti fondamentali, ma anche ad esaminarne gli eventuali danni collaterali) ed a monitorare in questo senso le decisioni del Parlamento e del Consiglio. Inoltre sta creando un sito che indica ai cittadini i principali casi di violazione dei diritti e le relative soluzioni adottate negli Stati membri.

EuropA più sociAlE?Eppure i governi che agiscono talvolta impropriamente al livello

nazionale sono gli stessi che al livello europeo vanno nel senso di più tutela e promozione dei diritti, così come lo sono le forze politiche im‑plicate. È un sano istinto di vergogna che prende i nostri governanti

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43(o certi di loro) a Bruxelles, oppure è il segno di una necessaria inver‑sione di tendenza, di fronte alla crisi sociale che si annuncia sempre più grave?

E tutto questo in pieno tentativo di reagire alla crisi e di evita‑re drammi come quello che ha, appunto, innescato la crisi attuale. Il primo aspetto è il controllo delle banche. La Commissione e di più i governi sono molto timidi, anche se la Commissione sostiene che non si dovrà più evitare il fallimento delle banche per quanto gran‑di, usando questa tesi come spada di Damocle rispetto ai banchieri avventurosi. Ma tutte le misure limitative per le banche sembrano essere scartate. Vedremo.

Il Parlamento insiste sulle ricette per lottare contro la crisi e per uscirne, sulla base di un rapporto di Pervenche Berès (socialista fran‑cese) a nome della commissione parlamentare specialmente creata per proporre soluzioni anticrisi. Il primo punto riguarda proprio l’in‑sistenza sulla supervisione e regolamentazione delle banche. In ef‑fetti è vero che sarebbe giusto lasciar fallire certe banche, ma poi? È evidentemente più adeguato un incisivo controllo preventivo che stenta ad essere accolto. Inoltre il Parlamento chiede una riforma istituzionale: la creazione di un Consiglio “governance economica” presieduto, sul modello del Consiglio Affari esteri, da un vice‑presi‑dente della Commissione. Poi chiede il completamento del mercato interno sulla scorta di quanto proposto da Mario Monti in un recente rapporto a Barroso, ed insiste sulla necessità di promuovere la ricer‑ca e l’innovazione e le piccole e medie imprese.

Di grande interesse istituzionale è infine la proposta di concorda‑re con i parlamenti nazionali una via di uscita dalla crisi.

Al tempo stesso sembra raggiunto l’accordo al Consiglio Ecofin (sulla base di un compromesso franco‑tedesco) per rivedere il patto di stabilità. In sostanza, si rendono più automatiche le sanzioni per i deficit eccessivi, ma se ne ammorbidiscono le scadenze e si allar‑gano i parametri di valutazione del deficit o del rischio di un deficit eccessivo, includendo per esempio, come chiesto dall’Italia, una va‑lutazione del debito privato. L’innovazione consiste nel fatto che il Consiglio non deve approvare la proposta della Commissione che, se non è formalmente respinta diventa d’immediata applicazione. Di tutto ciò la Germania è così contenta da chiedere una revisione del Trattato in questo senso entro il 2013!

il bilAncio 2011 vA strEtto Al pE

Il Parlamento europeo ha votato una risoluzione sul bilancio 2011 nella quale critica i governi per le ristrettezze finanziarie proposte, molte delle quali non si giustificano con la crisi; anzi, alcune spese, globalmente permetterebbero di limitare la spesa pubblica naziona‑le. Si ricorderà che questo bilancio è il primo adottato con la nuo‑va procedura del Trattato di Lisbona, molto simile alla codecisione legislativa. È vero che il Parlamento europeo ha perduto il diritto di

veto, ma il Consiglio è obbligato a concordare la decisione finale col Parlamento europeo.

lA cinA è vicinA (E con lEi tuttA l’AsiA).

Dopo l’attribuzione del Nobel ad un dissidente cinese imprigiona‑to (una reazione veramente poco utile da parte della Cina), questo paese torna all’ordine del giorno dell’Europa col 13o vertice Cina/UE che ha avuto luogo a Bruxelles il 6 ottobre con la partecipazione di Wen Jiabao, di Hermann Van Rompuy e di Josè Manuel Barroso. La lotta alla crisi, i cambiamenti climatici sono stati certo al centro del dibattito. Ma anche gli investimenti europei in Cina e la questione dei diritti fondamentali hanno fatto oggetto del vertice.

Nello stesso giorno l’Unione e la Corea del Sud hanno firmato un accordo di libero scambio di grande portata. Un successo europeo è stata l’inclusione del rispetto delle denominazioni di origine di certi prodotti (es: prosciutto di Parma).

Infine 46 paesi europei e asiatici si sono incontrati il 4 e 5 ottobre intorno all’8o vertice ASEM con un ricco ordine del giorno che inclu‑deva financo la lotta alla pirateria!

Insomma, l’Asia è sempre di più il nostro grande interlocutore economico e politico.

AmmAinA bAndiErA Al comitAto Economico E sociAlE EuropEo

Dopo due anni di mandato, Mario Sepi non è più presidente del CESE. Molte iniziative ed una notevole visibilità hanno caratterizzato il CESE in questi due anni.

Dal 20 ottobre Staffan Nilsson, rappresentante degli agricoltori svedesi è il nuovo presidente.

Al centro del suo programma vi sono lo sviluppo sostenibile e la realizzazione del programma EU 2020 lanciato in estate dall Commis‑sione europea in sostituzione della strategia di Lisbona giunta, non con tutti gli onori, al suo termine.

i trAdizionAli opEn dAys Al comitAto dEllE rEgioni

Da diversi anni, a ottobre il CdR invita rappresentanti di regioni e città per discutere di numerosi temi politidi e sociali e per favorire gli incontri fra amministratori di diverse città e regioni d’Europa.

Quest’anno ben 6000 amministratori hanno fatto il viaggio a Bruxel‑les, dando luogo ad una manifestazione molto interessante.

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• La storia di Graded inizia nel 1958, e fino ai giorni nostri ha se-

guito un percorso evolutivo che ha portato la società, dalla semplice

installazione e costruzione di impianti tecnologici industriali e civili, ad

essere una società di servizi energetici ad elevati standard innovativi.

Graded è oggi leader negli impianti di Produzione Energia ad alta effi-

cienza, grazie alla consolidata esperienza di progettazione, costruzione

e manutenzione sempre al passo con le nuove frontiere del progresso.

La società deve il suo successo ad un approccio ingegneristico ed inte-

grato al problema del risparmio energetico, dalla fornitura di servizi di

audit, diagnosi ed ottimizzazione, alla formulazione di mirate proposte

di intervento, con tecnologie efficienti, contenimento dei costi, redditi-

vità degli investimenti e compatibilità ambientale, il tutto supportato da

precise garanzie di risultato per il Cliente finale.

Graded è oggi approdata al business innovativo derivante dalla produ-

zione di energia sia da fonti tradizionali che rinnovabili, ma sempre con

la garanzia della massima efficienza energetica. La società è presente

attivamente nei meccanismi di riconoscimento e negoziazione dei Titoli

di Efficienza Energetica rilasciati dal GME (Gestore Mercato Elettrico) e

nell’Emission Trading (Quote CO2) sancite dal Protocollo di Kyoto.

Grazie alle competenze acquisite ed all’elevato standard della propria

struttura ingegneristica ed operativa, oggi la struttura è in grado di sod-

disfare ogni tipologia di esigenza proponendo soluzioni innovative e

sostenibili dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico-finan-

ziario in tutti i settori degli impianti tecnologici, come dimostrano i con-

tratti di costruzione, gestione e manutenzione di impianti complessi a

servizio di aziende pubbliche e private, con la fornitura di energia e di

servizi integrati di global service di lunga durata.

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Le librerie:

Feltrinelli Via S. Tommaso D’Aquino, 70 NAPOLI – Tf. 0815521436

Piazza dei Martiri – Via S. Caterina a Chiaia, 33 NAPOLI – Tf. 0812405411

Piazzetta Barracano, 3/5 SALERNO – Tf. 089253631

Largo Argentina, 5a/6a ROMA – Tf. 0668803248

Via Dante, 91/95 BARI – Tf. 0805219677

Via Maqueda, 395/399 PALERMO – Tf. 091587785

Librerie Guida Via Port’Alba, 20 – 23 NAPOLI – Tf. 081446377

Via Merliani, 118 NAPOLI – Tf. 0815560170

Via Caduti sul Lavoro, 41‑43 CASERTA – Tf. 0823351288

Corso Vittorio Emanuele, Galleria “La Magnolia” AVELLINO – Tf. 082526274

Corso Garibaldi, 142 b/c SALERNO – Tf. 089254218

Via F. Flora, 13/15 BENEVENTO – Tf. 0824315764

Loffredo Via Kerbaker, 18‑21 NAPOLI – Tf. 0815783534; 0815781521

Marotta Via dei Mille, 78‑82 NAPOLI – Tf. 081418881

Tullio Pironti Piazza Dante, 30 NAPOLI – Tf. 0815499748; 0815499693

Pisanti Corso Umberto I, 34‑40 NAPOLI – Tf. 0815527105

Alfabeta Corso Vittorio Emanuele, 331 TORRE DEL GRECO – Tf. 0818821488

Petrozziello Corso Vittorio Emanuele, 214 AVELLINO – Tf. 082536027

Diffusione Editoriale Ermes Via Angilla Vecchia, 141 POTENZA – Tf. 0971443012

Masone Viale dei Rettori, 73 BENEVENTO – Tf. 0824317109

Centro librario Molisano Viale Manzoni, 81‑83 CAMPOBASSO – Tf. 08749878

Isola del Tesoro Via Crispi, 7‑11 CATANZARO – Tf. 0961725118

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N. 5 – Anno XI – Settembre/ottobre 2010

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Page 48: Numero 5/2010

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