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Dal Pci al socialismo europeo Un’autobiografia politica Giorgio Napolitano Editori Laterza Registrazione al Tribunale di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% – Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Periodico del Centro di Iniziativa Mezzogiorno Europa Settembre/Ottobre 2005 Anno VI Numero 5 Direttore ANDREA GEREMICCA Art director LUCIANO PENNINO Andrea Pierucci 52 EURONOTES UNIONE EUROPEA LA SFIDA DEL BILANCIO Gianni Pittella 24 EUROPA UN PROGRAMMA RIFORMISTA PER IL TERRITORIO? Eirene Sbriziolo 26 TERRITORIO Cetti Capuano Avverto la necessità di un aggior- namento del nostro modo di guardare e interpretare la città in rapporto alla sua storia. Cos’è la società civile a Napoli oggi rispetto al passato? come si diversi- fica e si articola al proprio interno? qual è il ruolo degli intellettuali? che tipo di relazione intrattiene con la politica, le istituzioni, il sistema di potere locale e centrale?”. Andrea Geremicca, proseguendo nelle Conversazioni con personalità della cultura, della politica e delle isti- tuzioni sui temi relativi al Mezzogiorno e all’Europa, comincia così una appas- sionata discussione con Rosario Villari sulla fase difficile e contraddittoria che la città di Napoli sta vivendo dentro la crisi generale della grandi aree me- tropolitane nel mondo e delle regioni meridionali nell’Europa che cambia. Io appartengo ad una generazione che ha imparato la storia sui manuali di Rosa- rio Villari,… 3 NAPOLI L’EUROPA IL MEDITERRANEO Ivano Russo In più di un’occasione, recentemente, mi è capitato di tornare su un tema che considero assolutamente strategico e vitale per le sorti della città. 20 Biagio de Giovanni Il giorno dell’addio a Gaetano Macchiaroli sono salito, per un ultimo omaggio, nella sua splendida casa a un piano alto di via Michetti, con Napoli interamente davanti. Con lui, io ho avuto una consuetudine durata anni, attutita negli ultimi tempi, quando ognuno di noi, nell’età che avanza, è preso dalla foga e dal desiderio di portare a termine i piccoli46 GAETANO MACCHIAROLI La morte non lo ha trovato in ozio FEDERICO II, UN SOVRANO PRESAGO DELLA MODERNITÀ Francesco Paolo Casavola PERCHÉ NON TORNARE A QUELLA PORTICI? Gilberto A. Marselli VALENZI: il mio amico e compagno GIORGIO NAPOLITANO senatore a vita 47 NAPOLI, PROBLEMI E PROSPETTIVE Lunedi 21 novembre ore 16,30 Palazzo Serra di Cassano. Via Monte di Dio, 11 Incontro promosso da Mezzogiorno Europa in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Relazioni GIUSEPPE GALASSO Napoli e la questione meridionale BENEDETTO GRAVAGNUOLO Sviluppo urbanistico e area metropolitana MASSIMO MARRELLI Il nodo dell’economia BIAGIO DE GIOVANNI Il tema della classe dirigente PAOLO MACRY Istituzioni, politica, società Intervento conclusivo UMBERTO RANIERI Partecipano GIORGIO NAPOLITANO ANTONIO BASSOLINO Andrea Geremicca discute con l’illustre storico su Napoli, la sua storia, le sue prospettive CONVERSAZIONE CON ROSARIO VILLARI STRALCI 31 MA LA DEMOCRAZIA NON SI PUÒ ESPORTARE Massimo Galluppi 6 I RIMEDI NON DEVONO ESSERE PEGGIORI DEL MALE Andrea Pierucci 9 IL PRIMATO DELLA PERSONA Pietro Ciarlo 13 La lotta al terrorismo dopo l’11 settembre. Si va verso un’epoca post-sociale e post-liberale? 42 44 Sicurezza e diritti fondamentali

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Rivista Mezzogiorno Europa

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Dal Pci al socialismo europeo • Un’autobiografia politica • Giorgio NapolitanoEditori Laterza

Registrazione al Tribunale di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% – Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico del Centro di Iniziativa Mezzogiorno Europa • Settembre/Ottobre 2005 • Anno VI • Numero 5 • Direttore ANDREA GEREMICCA – Art director LUCIANO PENNINO

Andrea Pierucci 52EURONOTES

UNIONE EUROPEALA SFIDA DEL BILANCIOGianni Pittella 24

EUROPA

UN PROGRAMMA RIFORMISTA PER IL TERRITORIO?Eirene Sbriziolo 26

TERRITORIO

Cetti Capuano“Avverto la necessità di un aggior-

namento del nostro modo di guardare e interpretare la città in rapporto alla sua storia. Cos’è la società civile a Napoli oggi rispetto al passato? come si diversi-fica e si articola al proprio interno? qual è il ruolo degli intellettuali? che tipo di relazione intrattiene con la politica, le istituzioni, il sistema di potere locale e centrale?”.

Andrea Geremicca, proseguendo nelle Conversazioni con personalità della cultura, della politica e delle isti-tuzioni sui temi relativi al Mezzogiorno e all’Europa, comincia così una appas-sionata discussione con Rosario Villari sulla fase difficile e contraddittoria che la città di Napoli sta vivendo dentro la crisi generale della grandi aree me-tropolitane nel mondo e delle regioni meridionali nell’Europa che cambia. Io appartengo ad una generazione che ha imparato la storia sui manuali di Rosa-rio Villari,… 3

NAPOLI L’EUROPAIL MEDITERRANEO

Ivano RussoIn più di un’occasione, recentemente,

mi è capitato di tornare su un tema che considero assolutamente strategico e vitale per le sorti della città. 20

Biagio de GiovanniIl giorno dell’addio a Gaetano Macchiaroli sono salito, per un ultimo omaggio, nella sua

splendida casa a un piano alto di via Michetti, con Napoli interamente davanti. Con lui, io ho avuto una consuetudine durata anni, attutita negli ultimi tempi, quando ognuno di noi, nell’età che avanza, è preso dalla foga e dal desiderio di portare a termine i piccoli… 46

GAETANO MACCHIAROLI

La morte non lo ha trovato in ozio

FEDERICO II,UN SOVRANO PRESAGO

DELLA MODERNITÀFrancesco Paolo Casavola

PERCHÉNON TORNARE

A QUELLA PORTICI?Gilberto A. Marselli

VALENZI: il mio amico e compagnoGIORGIO NAPOLITANO senatore a vita 47

NAPOLI, PROBLEMIE PROSPETTIVE

Lunedi 21 novembre ore 16,30Palazzo Serra di Cassano. Via Monte di Dio, 11

Incontro promosso da Mezzogiorno Europa

in collaborazione conl’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici

RelazioniGIUSEPPE GALASSO

Napoli e la questione meridionale

BENEDETTO GRAVAGNUOLOSviluppo urbanistico e area metropolitana

MASSIMO MARRELLIIl nodo dell’economia

BIAGIO DE GIOVANNIIl tema della classe dirigente

PAOLO MACRYIstituzioni, politica, società

Intervento conclusivoUMBERTO RANIERI

PartecipanoGIORGIO NAPOLITANOANTONIO BASSOLINO

Andrea Geremicca discute con l’illustre storicosu Napoli, la sua storia, le sue prospettive

CONVERSAZIONE CON ROSARIO VILLARI

STRALC

I

31

MA LADEMOCRAZIA NON SI PUÒ ESPORTAREMassimo Galluppi

6

I RIMEDINON DEVONO

ESSERE PEGGIORI DEL MALE

Andrea Pierucci 9

IL PRIMATODELLA PERSONA

Pietro Ciarlo 13

La lotta al terrorismo d

opo l’11 settem

bre.

Si va verso un’epoca p

ost-sociale e post-lib

erale?

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Sicurezza e diritti fondamentali

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… meridiona-lista e sto-

rico di fama euro-pea. A partire da quelle pagine, ho imparato a met-tere in relazione cause ed effetti nella ricostruzio-ne degli avveni-menti, e a sentire il “respiro della Storia” negli eventi di tutti i giorni. Per questo motivo, la con-versazione assume per me una colora-zione particolare, anche sotto il profilo emotivo e culturale. Ci incontriamo nel suo studio romano, stracolmo di libri. “I libri mi hanno cacciato da casa – dice scusandosi per l’ambiente spartano – e ora si stanno accumulando anche qui in un tale disordine che quando devo cercare qualcosa me ne vado in una delle belle biblioteche romane…”. Ot-tant’anni portati magnificamente, con un fisico asciutto ed elegante. La voce sommessa, i toni pacati, gli occhi sereni raccontano il pudore e la riservatezza coi quali tiene a freno i furori di una passione civile e di una tensione etica che hanno caratterizzato tutta la sua vita e la sua opera.

Geremicca chiarisce le ragioni che lo hanno spinto a sollecitare un incontro con Rosario Villari sui problemi e le prospettive della città di Napoli.

G. Confesso il mio disagio nel sen-tirmi stretto tra due posizioni estreme: da un lato di chi sostiene che negli ultimi decenni la situazione a Napo-li è cambiata in peggio e continua a peggiorare; e dall’altro di chi respinge qualsiasi osservazione critica e conside-ra un atteggiamento ostile, un attacco alle amministrazioni di centro sinistra,

ogni richiesta di innovazione politica e programmatica. Invece io sono convinto che debbano essere per prime le istitu-zioni cittadine ad aprire una riflessione critica, seria e responsabile, sui nostri limiti ed errori, di fronte alle straordi-narie difficoltà ed alla vera e propria crisi – usiamola, questa parola! – che sta vivendo la città. Penso che non ci si debba sentire offesi “dal linguaggio delle cose”, per dirla con Nitti, ma che debbano essere le forze democratiche a raccogliere la sfida della realtà ed a farsi protagoniste di una nuova fase. D’altronde fu Bassolino, alla vigilia della recente competizione elettorale regio-nale, a sostenere che una fase politica si è conclusa e che si deve aprire un nuovo corso. Io la penso allo stesso modo. Ma, francamente, è faticoso portare avanti una posizione equilibrata e misurata sotto il fuoco incrociato di due linee oltranziste. Tu che ne pensi?

V. Prima di incontrarti per questa conversazione ti ho pregato di farmi avere un po’ di materiale per aggior-nare la mia conoscenza della realtà napoletana. Da quello che ho potuto leggere sulla tua rivista e dalle cose che tu mi dici, mi sono fatto l’idea che sarebbe sbagliata una impostazione di natura “processuale” a senso unico. Mi informi di un incontro promosso

da Mezzogiorno Europa per met-tere a confronto i punti di vista di alcuni intellettua-li napoletani sui problemi e le pro-spettive della cit-tà. Conoscendoli, sono certo che la loro forte e docu-

mentata critica si accompagnerà ad un’altrettanto forte autocritica, come si diceva una volta e oggi non si dice più. Mi spiego. Io conosco Napoli per averci vissuto, e per aver partecipa-to alla sua vita culturale, attraverso l’esperienza di “Cronache Meridionali” ma anche assai più recentemente, per avere seguito alcune iniziative per la valorizzazione del patrimonio cultu-rale e storico della città, come quella promossa dall’Associazione Napoli ’99 di Mirella Barracco, ed altre. Premetto che Napoli ha una grande tradizione culturale e ha dato sempre un contri-buto fondamentale alla cultura ed alla scienza del nostro paese, storiografia compresa. Aggiungo inoltre di avere ricevuto, quando ho soggiornato per molti anni a Napoli, una buona e ge-nerosa accoglienza, e di avere molte e costanti amicizie tra i napoletani. Colgo l’occasione per esprimere il mio dolore per la recentissima scomparsa di Gaetano Macchiaroli, uno tra i miei migliori amici. Quello che però mi sem-bra di poter cogliere nella situazione napoletana, fatte le dovute eccezioni, è una tendenza all’arroccamento da parte del mondo della cultura. Un at-teggiamento difensivo, che si traduce spesso in una chiusura verso il nuovo e verso l’esterno, una insufficiente

ROSARIO VILLARIOGGI LA CULTURA MEDIA

È PIENA DI LUOGHI COMUNI NEGATIVI SU NAPOLI

Cetti Capuano

CONVERSAZIONE

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[4]DALLA PRIMA

attenzione verso l’Europa e il mon-do, verso gli altri, verso i giovani; questo atteggiamento è anche di una parte della classe dirigente. Inoltre, a parte le forme di illegalità che ap-partengono a specifici settori della società, mi pare di poter notare una più generale sottovalutazione delle regole che dovrebbero governare la civile convivenza ed anche i rapporti culturali. Per esempio, quella che un tempo si chiamava onestà scientifica talvolta non è praticata nella misura necessaria; e quando questo avviene le reazioni sono deboli o mancano del tutto. In questa situazione accade che alla funzione di maestri, che alcuni hanno tutti i numeri per esercitare, si sovrapponga la preoccupazione di conservare ad ogni costo posizioni personali e di potere. Questa mia per-cezione mi sembra che trovi conferma nella Conversazione con Gino Nicolais, riportata sullo scorso numero di Mez-zogiorno Europa (n.4/2005 n.d.r.).

G. Si tratta di un atteggiamento che ha radici antiche tra gli intellettuali e nella società napoletana, o mi sbaglio?

V. Non ti sbagli. Ma non è stato sempre così, la città ha vissuto fasi di-verse. Ricordo il periodo a cavallo tra il ’52 e il ’62. Erano anni in cui soffiava un vento nuovo, c’era una voglia di stu-diare e capire la realtà in movimento che si manifestava anche attraverso riviste importanti, Cronache Meridio-nali, Nord e Sud, Il Tetto (che esiste ancora), solo per citare tre centri di di-verso orientamento culturale e politico. C’era un confronto convinto e creativo sul Mezzogiorno e sul destino del paese. E anche sull’Europa, soprattutto nelle pagine di Nord e Sud. Oggi mi pare che in questa città si stia diffondendo una immagine pigra e retorica dell’Eu-ropa, una tendenza a usare in modo strumentale e inadeguato un tema che dovrebbe essere fondamentale per una città come Napoli: il ruolo del nostro paese nel mondo mediterraneo.

G. In effetti occorre realismo e senso della misura quando si parla di Napoli europea e mediterranea. Su que-sto stesso numero della rivista pubbli-chiamo uno studio di Ivano Russo che fornisce in proposito riflessioni e dati molto significativi.

V. Dopo la seconda guerra mondiale

a Napoli c’era una grande voglia di ca-pire e di capirsi, incontrarsi, conoscersi, magari anche attraverso una intransi-gente battaglia delle idee, ma senza mai delegittimarsi. Il gusto del confronto e l’apertura al dialogo in quegli anni si esprimeva anche in un desiderio di or-dine e in una sorta di autoimposizione di regole. Un esempio di questo clima, sin dentro il corpo profondo della città, nelle sue fabbriche, nelle sue scuole, nei suoi quartieri, erano le manifestazioni del Primo Maggio. Te le ricordi? Popola-ri, combattive e festose, con tanto spon-taneismo ma con altrettanta disciplina, ordine e autocontrollo. Naturalmente si tratta di un esempio esteriore, eppure in quella esteriorità vi era una cura e un impegno che dimostravano la voglia di fare le cose secondo le regole.

G. Il clima nuovo di quegli anni è testimoniato anche dal numero e dalla qualità dei centri di cultura, dei gruppi artistici, dei cenacoli, delle istituzioni universitarie. Tu citavi il pluralismo delle riviste. Io potrei ricordare cosa era in quegli anni la Facoltà di Agraria, con Rossi Doria…

V. … e il Laboratorio di Fisica con Eduardo Caianiello alla Mostra d’Ol-tremare. E il Laboratorio di biologia e Genetica con Adriano Buzzati Traverso. E la Scuola di matematica. E le Facoltà di Architettura e Ingegneria: ricordo lo straordinario interesse intorno alla co-struzione della sede della Olivetti, a Poz-zuoli, che costituì un esempio di novità a livello mondiale, e intorno al suo idea-tore e progettista, il geniale architetto Luigi Cosenza. La città cercava di uscire dal caos con iniziative alte e personalità di respiro davvero europeo.

Oggi la cultura media è piena di luoghi comuni negativi sulla città. Esiste una parola, che viene ancora usata, per indicare il ceto popolare, ed è la parola plebe, un termine che non si usa più da nessuna parte. Napoli è una città divisa in due, la società civile sta da una parte e il popolino dall’altra, spesso considerato ancora come plebe, appunto. Una classe dirigente dovrebbe sapere superare que-ste separazioni, ed evitare che avvenga-no episodi deprecabili, come qualche vol-ta accade quando il cosiddetto popolino si ribella alle forze dell’ordine che vanno ad arrestare un camorrista.

G. Questa divisione si registrava an-

che in passato, ma c’era al tempo stesso la volontà della sinistra e di importanti ambienti democratici di assolvere ad un ruolo di sintesi, di unificazione, di aggre-gazione e promozione sociale. E’ possi-bile oggi, nella Napoli post industriale, ricostruire la città come comunità, come luogo “dove gli stranieri si incontrano” (“Se nell’altro, anche un solo altro, so vedere un compagno, ho fatto qualcosa per la mia città”)? E’ possibile impedi-re che Napoli precipiti in una guerra fra bande? Come si può costruire una nuova classe dirigente, posto che gli intellettuali non possono permettersi di essere un’espressione sradicata dal contesto sociale?

V. Svolgendo la loro attività di ri-cerca o professionale gli intellettuali esercitano un ruolo particolarmente importante come forza di aggregazione della società. Le forze politiche dovreb-bero prestare la massima attenzione all’organizzazione della cultura ed alla formazione intellettuale per promuove-re la partecipazione organizzata e per-manente dei cittadini alla vita politica. I cosiddetti partiti personali, gli atteggia-menti leaderistici, le cattive pratiche di governo fondate sulla spartizione e sulla fedeltà al singolo, allontanano il popolo dalla politica e bloccano lo sviluppo e la modernizzazione della città.

Nella polemica aperta dal servizio de L’Espresso ‘Addio Napoli’ tu hai scritto che si può “uscire in avanti” dalla crisi che sta attraversando la città “riforman-do la politica, promuovendo la parte-cipazione, sviluppando la democrazia, selezionando una nuova classe dirigente, recuperando in chi governa, a tutti i livel-li, umiltà, senso della misura e capacità di ascolto”. Sono d’accordo su tutto, e condivido in modo particolare il tuo richiamo all’umiltà: mi ha fatto tornare alla mente un aforisma di Kafka, che mi sembra particolarmente calzante per chi ha il pesante onere di governare la città e si trova, come indubbiamente oggi si trova, in difficoltà ed ha bisogno del so-stegno di tutte le forze sane: “L’umiltà dà a ciascuno, anche a chi dispera in solitudine, il rapporto più forte con gli altri, e lo dà subito, a patto soltanto che l’umiltà sia forte e costante”.

G. A Napoli la sinistra e le altre forze democratiche hanno governato la città per dieci anni con Valenzi, e per oltre

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[5]CONVERSAZIONE

dieci anni con Bassolino e Iervolino. Al di là dei molti e indiscutibili aspetti positivi, quali sono a tuo avviso i limiti di quella esperienza di allora e di ades-so (ammesso che a tuo giudizio ve ne siano)?

V. Indubbiamente un riesame storico va fatto, e con tutto il necessario rigore. Per quanto riguarda la classe dirigente attuale, essa evidentemente non ha svol-to in misura adeguata la sua funzione essenziale, che dovrebbe essere quella di dare un insostituibile contributo alla coesione della società e al suo svilup-po. In Spagna, dopo il franchismo, la società ha trovato nella monarchia la forza di aggregazione e di superamento delle fratture interne. In Italia, dopo la seconda guerra mondiale, questo ruolo venne svolto dai partiti. Oggi essi non riescono più ad assolvere pienamente a questo compito.

G. Si parla spesso del “silenzio della città” intorno a questioni fondamenta-li: l’urbanistica, l’economia, la sanità. Penso che si debba essere più precisi: la città non è un corpo indifferenziato. Prendi le associazioni, i sodalizi, gli istituti universitari, gli ordini professio-nali, che queste tematiche dovrebbero rappresentare, e che su di esse dovreb-bero aprire il confronto fornendo un contributo autonomo e critico. Ebbene, molti degli esponenti apicali di questi organismi sono al tempo stesso collabo-ratori, consulenti, progettisti delle am-ministrazioni pubbliche, a cominciare dalla Regione. In questo modo avviene una cooptazione anomala di parti im-portanti della società nelle istituzioni. Penso – tra i tanti esempi possibi-li – all’afasia dell’Ordine degli Ingegneri e architetti e alle straordinarie tensioni (ci sono voluti i carabinieri nei seggi) in occasione delle votazioni all’Ordine dei medici. Sia chiaro: non pongo un pro-blema di scarsa trasparenza, di possibili conflitti di interessi sottotraccia, pongo una questione diversa, tutta politica, relativa al tentativo in atto da parte delle amministrazioni di centro sinistra di ‘istituzionalizzare’ gruppi sociali e movimenti di opinione pubblica, nella convinzione che così si rende più rap-presentativo e ‘partecipato’ il governo delle città. Ma si tratta di un errore che produce rassegnazione, conformismo e paralisi. Perché la complessità urbana

non si governa assorbendo e spegnendo i conflitti, le diversità, l’autonomia delle forze in campo, che sono il motore della vita e della crescita delle città. Non può esservi grandezza di una città se non gra-zie alla capacità di “governare i tumulti” e renderli produttivi di nuove forme di democrazia. Immaginare un sistema di potere come univoca espressione di una presunta “volontà generale” non sta né in cielo né in terra.

V. Come prima auspicavo l’autocri-tica degli intellettuali, così ora dico che bisogna combattere con fermezza la ten-denza delle forze politiche a “usare” gli elettori, a “servirsi” del loro consenso per accrescere il proprio potere, ed a pensare che più il consenso è ampio e indifferen-ziato meglio è. Neppure la sinistra si sot-trae a questa suggestione. Ed è un errore che può avere gravi conseguenze. Perchè la politica deve stare indubbiamente “dentro” la società, deve avere un “radi-camento sociale” forte ed un consenso elettorale sempre più ampio: ma senza rinunciare mai, per miopi e meschini cal-coli elettorali, a condurre una battaglia culturale e politica contro la violenza, la prepotenza, l’illegalità, il malaffare, o le falsità culturali e ideologiche, anche e soprattutto quando si manifestano all’in-terno delle organizzazioni e degli strati sociali a cui si chiede appoggio e con-senso. Non c’è peggiore demagogia che alimentare o ignorare consapevolmente le convinzioni sbagliate dei propri soste-nitori. Bisogna fare leva sulle forze sane della società: aggregarle, incoraggiarle, mobilitarle in una lotta senza quartiere per la salvezza e lo sviluppo di Napoli. Non si deve abbandonare a sé stesso il cosiddetto popolino, perché è portatore di una riserva di energie positive che vanno convogliate, altrimenti diventa terreno di conquista della camorra. Il problema è politico e culturale insieme, e va posto innanzitutto alla sinistra. Perché solo così si estende e si consolida il potere politico di una forza che vuole cambiare, rinnovare, ammodernare la città. Solo così la cultura della legalità e il senso delle istituzioni, dello Stato, si invera e diventa credibile. Altrimenti il consenso fine a sé stesso, indifferenziato e indiscriminato purché sia ampio (“i voti non hanno odore, sono voti e ba-sta”), rischia prima o poi di trasformarsi in un boomerang.

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MA LA DEMOCRAZIANON SI PUÒ ESPORTARE

Massimo Galluppi

Lotta al terrorismo dopo l’11 SettembreSicurezza e diritti fondamentali

Fino a che punto la mi-naccia del terrorismo

islamico e la necessità di neutralizzarla impongono una un ripensamento del rapporto tra libertà e autorità nelle società democratiche dell’Occiden-te? Biagio de Giovanni ha affrontato questo problema nell’ultimo numero di Mezzogiorno/Europa (Luglio-Agosto 2005, anno VI n.4) e, ricordando che lo Stato moderno nasce “come risposta all’esplodere in Europa delle guerre civili di religione e come contratto che garantiva a tutti la sicurezza e la con-servazione della vita”, egli ha posto in termini estremamente chiari (sgra-devoli per chi non ha il coraggio di guardare in faccia la realtà) il rapporto imprescindibile tra libertà e sicurezza. Poiché, se alla base del patto sociale sul quale è fondata una democrazia liberale (scrive de Giovanni) vi è il “diritto fondamentale delle persone […] di esprimere le proprie opinioni”, non è possibile “staccare il carattere fondamentale di questo diritto dal mantenimento del patto sociale che ne è alla sua base” che è “anzitutto nel ri-conoscimento dell’esistenza di tutti”. A meno che “il liberalismo non diventi la caricatura di sé, ossia la tendenza ver-so una giuridificazione antipolitica del mondo dove tutti sono eguali in diritto, e questo diritto si estende a tal punto da coprire anche la distruzione, prepa-rata a parole del proprio simile” senza che lo Stato liberale possa esercitare il proprio potere sovrano di “rispondere per le rime”.

Come si configura concretamente questo “primato della sicurezza” in società liberali impreparate ad affron-tare la minaccia terroristica con il ri-gore concettuale e la determinazione politica necessari? Il passaggio alla politica pratica comporta la soluzione di molti e complessi problemi come

l’analisi dell’esperienza britannica fatta da Marco Plutino sullo stesso numero di Mezzogiorno/Europa dimo-stra chiaramente. Se è vero che “gran parte dei cittadini britannici sarebbe disposta a rinunciare ad una parte della propria libertà in luogo di una maggiore sicurezza” come riuscire a regolare i conflitti emersi dopo gli attentati di Londra del luglio scorso “senza rinunciare ad un alto livello di tutela dei diritti fondamentali”? A partire dal 2001 il governo di Londra si

è orientato verso un ripensamento ra-dicale dell’approccio multiculturale al problema rappresentato dalla presen-za di una forte e numerosa comunità islamica sul territorio britannico. Nel-lo stesso tempo ha messo in cantiere una nuova politica dell’immigrazione fondata su strumenti di controllo più penetranti e limitativi delle libertà personali. Tutte misure motivate dalla gravità della minaccia terroristica ma il cui carattere problematico – sottolinea Plutino è perfettamente esemplificato dalle riserve avanzate nei loro confron-ti dalla massima istituzione giudiziaria britannica (la Camera dei Lord) che nega l’esistenza di uno “stato di emer-genza” tale da mettere in pericolo la vita dei cittadini e sostiene “che la “la vera minaccia alla vita e alla sicurezza della nazione, nel senso di un popolo che vive nel rispetto delle sue leggi e dei suoi valori politici non viene dal terrorismo” ma dai provvedimenti (come l’Anti Terrorism Act del 2001) voluti dal governo Blair.

Se queste sono le difficoltà quando opera nell’ambito del proprio territo-rio nel pieno e incontrastato esercizio dei suoi poteri sovrani, con il sostegno della maggioranza dell’opinione pub-blica, quali sono i problemi che lo Stato liberale deve affrontare quando deve “rispondere per le rime” ad una minac-cia terroristica proveniente dall’esterno e (a meno che non voglia essere “una caricatura di se stesso” come dice de Giovanni) è chiamato a definire gli strumenti, gli obiettivi intermedi e fini ultimi della propria politica estera? La sua libertà di azione è garantita da una tradizione giuridica e politico-diplo-matica secolare che le organizzazioni sovra nazionali nate dopo la seconda guerra mondiale sono riuscite a scalfire solo marginalmente. Ma è intralciata e spesso paralizzata dai diritti sovrani

DIBATTITO

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degli altri Stati, dai principi morali che impediscono ai suoi governanti di usa-re la forza in modo assoluto o indiscri-minato se non in casi estremi, dalle ca-pacità mimetiche delle organizzazioni terroristiche, dagli strumenti finanziari considerevoli di cui queste dispon-gono, dalle innumerevoli complicità sulle quali i suoi capi e i suoi militanti possono contare. Dall’impossibilità, infine, anche per la massima potenza militare e tecnologica del pianeta, di far arrivare la sua lunga mano nelle zone – impenetrabili per la loro confi-gurazione geografica o sociale – dove si annidano i suoi nemici.

Ma se le cose stanno così, come proteggere i propri cittadini dalla mi-naccia rappresentata dal terrorismo? La risposta emersa negli Stati Uniti e Inghilterra dopo l’ <Undici Settembre> è stata quella di puntare sull’accelera-zione dei processi di diffusione della democrazia liberale come strumento di ordine internazionale. Il problema è che la ‘battaglia’ per la democrazia nel mondo islamico è una battaglia difficile e dall’esito incerto. La mag-gior parte di coloro che credono alla possibilità di una crescita democratica dei paesi islamici (altri non vi credono affatto) ritengono che ciò possa avveni-re soltanto grazie a processi di trasfor-mazione interni; considerano centrale a

questo fine il ruolo dell’Islam modera-to, il che significa che nessun cambia-mento è concepibile senza il rispetto della tradizione; e, infine, ritengono che sarà un processo necessariamente lungo. Però questa possibilità esiste. Per John Esposito, direttore e fondatore del Center for Muslim and Christian Un-derstanding della Georgetown University di Washington, “negli ultimi anni, i ri-sultati ottenuti dai movimenti islamici maggioritari e moderati (intesi come opposizione all’estremismo militante e violento) dimostrano fino a che punto sono diffusi comportamenti e valori che inducono al cambiamento demo-cratico e allo sviluppo di società e Stati moderni”. Naturalmente “gli ostacoli al cambiamento democratico sono enormi se si considera l’arroccamento delle elites del potere e delle forze mi-litari e di polizia che le sostengono”, ma questo non ci deve indurre in errore sulle prospettive di fondo. “E’ in atto, sotto i nostri occhi, un esperimento aperto a esiti diversi. La storia della democrazia in Occidente è una storia di tentativi accompagnati (in Francia e in America, per esempio) da guerre civili e da conflitti ideologici e religiosi. Quindi, a loro modo anche le società islamiche impegnate nel tentativo di ridefinire la natura del governo e del-la partecipazione politica, così come

il ruolo dell’identità religiosa, sono coinvolte in un delicato processo nel quale i rischi a breve termine sono il prezzo da pagare per i vantaggi vir-tuali a lungo termine”.

Ma un processo di trasformazione del genere, per l’incertezza dei suoi esiti a breve-media scadenza, non co-stituisce una soluzione del problema della sicurezza per quelle tra le demo-crazie dell’Occidente che sono in prima linea nella lotta contro il fondamentali-smo islamico e hanno già sperimentato l’orrore degli attentati terroristici sul loro territorio. Si capiscono, quindi, le ragioni che hanno spinto l’Ammi-nistrazione Bush, chiamata a rispon-dere hic et nunc all’ansia di sicurezza dei cittadini, a formulare un’opzione diversa. Un’opzione fondata sulla ‘esportazione’ della democrazia me-diante un atto di forza dall’esterno, al quale viene attribuita la capacità di in-nescare un processo di modernizzazio-ne democratica relativamente rapido. Di qui (dopo l’operazione chirurgica in Afghanistan per eliminare il bubbone talebano) l’intervento in Iraq il cui suc-cesso (se dobbiamo credere alle previ-sioni del presidente degli Stati Uniti formulate nel documento noto come “Dottrina Bush”) dovrebbe favorire la nascita di una grande alleanza guidata dagli Stati Uniti e comprendente tutte

DIBATTITO

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le nazioni impegnate a cercare “i van-taggi della libertà” e a costruire “un futuro migliore” per i loro popoli, in un mondo in cui il “libero commercio e il libero mercato” porteranno “intere società fuori dalla miseria”.

E, tuttavia, almeno per il momen-to questa strategia non ha prodotto i risultati sperati. Anche se concepita come una guerra “contro i terroristi su scala mondiale” di durata “indefinibi-le”, l’intervento in Iraq doveva essere un’operazione chirurgica rapida e re-lativamente indolore articolata in tre tempi: distruzione dell’apparato mili-tare di Saddam Hussein, occupazione militare americana e avvio di un pro-cesso di modernizzazione democrati-ca. Ma non è stato così. La possibilità di costruire rapidamente un Iraq de-mocratico si fondava sulla previsione (legittimata dal parere di autorevoli orientalisti) che esistesse in Iraq una classe media dotata di un’istruzione superiore o universitaria acquisita du-rante l’epoca di Saddam ma ostile al regime saddamita e pronta a prendere

il potere qualora un intervento ester-no le avesse dato questa possibilità. A parte la totale sottovalutazione della questione sciita, questa previsione non ha tenuto conto del fatto che la spina dorsale della ‘borghesia’ irachena è stata spezzata durante il lungo regime di Saddam da una nomenklatura la cui consistenza, forza politica e capacità di penetrazione sociale sono state lar-gamente sottovalutate. E così gli ame-ricani, una volta distrutto l’apparato militare di Saddam, si sono trovati ad avere come unici collaboratori il picco-lo gruppo degli émigrés, assolutamente non all’altezza del compito che la ‘sto-ria’ aveva loro affidato. E, contraria-mente a tutte le loro aspettative, si sono invischiati in una guerra di occupazio-ne lunga e costosa in termini di risorse e vite umane americane che ha alcune significative analogie con la guerra del Vietnam. E’ difficile dire come potran-no uscirne e a quali costi. E’ sicuro che non potranno vantarsi di avere creato le premesse per un’affermazione della democrazia in Medio Oriente.

Sindrome del Vietnam a parte, è difficile capire come alla Casa Bian-ca sia potuta maturare l’idea che era possibile esportare la democrazia in paesi che non l’hanno mai conosciuta e che niente predispone per una rapi-da assimilazione delle sue istituzioni politiche e delle sue pratiche sociali. In alcuni degli scritti degli intellettuali neoconservatori si trova il riferimento all’eredità dell’impero britannico in India; un modello che, tuttavia, non spiega la presenza americana in Iraq la cui caratteristica principale doveva essere quella della brevità. In altri il ri-ferimento è all’occupazione americana del Giappone nel 1945, un riferimento che non tiene conto di numerosi fattori distintivi. Il fatto che la presenza ame-ricana fu accettata da tutti i giapponesi come l’esito inevitabile di una guerra perduta la cui responsabilità era accet-tata dalla collettività. La circostanza che il Giappone nel 1945 era un paese avanzato con le caratteristiche di una società industriale moderna, che la cu-riosità verso l’Occidente, la volontà di

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imitarne le istituzioni adattandole alla tradizione e il debito nei suoi confron-ti, faceva parte del carattere naziona-le da quasi un secolo e, infine, che le istituzioni democratiche imposte dagli americani furono, per molti aspetti, un’opera di restaurazione perché negli anni Venti il Giappone era stato una dinamica e vivace democrazia.

La verità è che, a quattro anni di distanza dall’attacco alle Torri Gemel-le del World Trade Center le democrazie occidentali non dispongono ancora di politiche internazionali o transnazio-nali efficaci contro la minaccia esterna rappresentata dal terrorismo islamico. Le più agguerrite e decise tra di loro possono garantire la sicurezza dei loro cittadini contro le minacce di tipo tra-dizionale: per esempio, reagendo alla costruzione di armi nucleari da parte della Repubblica islamica iraniana. Ma non potranno proteggerli efficacemen-te e durevolmente dal terrorismo isla-mico fino a quando non saranno le stes-se società islamiche a decretare la sua sconfitta. Il che non avverrà finché non

sarà stato colmato l’abisso di frustra-zione, risentimento, odio che divide queste ultime dall’Occidente, di cui il conflitto mortale tra Israele e il mondo arabo è il segno più evidente e che l’oc-cupazione americana dell’Iraq alimen-ta enormemente. Il pensiero ufficiale dell’Occidente fa fatica ad ammettere che Al Qaeda trae la maggior parte del-la sua linfa vitale dall’enorme divario di risorse economiche e tecnologiche, di prestigio e di potenza esistente tra l’Occidente e il mondo arabo-islamico e dagli effetti devastanti e crescenti del senso di umiliazione provocato da una situazione del genere.

In realtà, frustrazione e rivolta non sono una particolarità di questi tempi e di queste società. Non è mai accadu-to che chi si affaccia alla modernità e ne scopre i vantaggi accetti di esserne escluso. “Ogni popolo deve essere pro-tetto nel proprio diritto all’esistenza”, il che significa che non solo gli devono essere riconosciute “uguali opportuni-tà per il godimento della sua civiltà” ma che i popoli dotati di un surplus

di risorse devono metterle a disposi-zione “delle altre nazioni per le loro necessità”. Non sono le parole di un intellettuale terzomondista dei nostri giorni, ma di un brillante diplomatico giapponese (Matsuoka Yosuke) arri-vato alla maturità alla fine degli anni Venti, esacerbato per l’ingiustizia rap-presentata ai suoi occhi dal divario di opportunità economiche esistente tra il suo paese e le grandi democrazie industriali dell’Occidente, dubbioso sulla possibilità di colmarlo grazie ai vantaggi del mercato, nell’ambito di un sistema di relazioni internazionali fondato sui principi dell’internazio-nalismo liberale. Il suo fu un tragico destino. Divenne uno dei più tenaci sostenitori della politica di espansio-ne militare del Giappone in Asia e, come ministro degli Esteri tra il 1940 e il 1941, uno dei suoi principali esecu-tori. Catturato dai russi in Manciuria e accusato di crimini di guerra morì, prima dell’inizio del processo che pro-babilmente lo avrebbe condannato alla pena capitale, nel 1946.

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Ho letto i due interventi di Biagio de Giovanni e

di Marco Plutino sulla questione del terrorismo e dei diritti fondamentali, pubblicati sul numero di luglio/agosto 2005: se c’era bisogno di altri stimoli per riflettere sul problema, questi sono davvero appropriati e mettono sul ta-volo, esplicitamente o implicitamente, una serie di questioni. Dico subito che condivido l’approccio problematico seppur diverso di entrambi. Non è il momento di ripetere verità e posizio-ni che, appunto, sono messe in causa dai cambiamenti politici, specialmen-te dall’affermarsi di un terrorismo di matrice integralista e da reazioni dei paesi destinatari di questo flagello molto spesso inefficaci o, addirittura, controproducenti. Certo, non intendo negare la centralità dei diritti fonda-mentali e, in particolare, del diritto alla vita, né la piena convinzione politica che la questione dei diritti sia fonda-mentale in un mondo nel quale, volen-do o non volendo, la globalizzazione allontana la presa degli Stati nazionali e “libera” in parte il cittadino dalla sua relazione col solo Stato di origine per farne un soggetto globale di diritti. Le stesse complesse considerazioni sulle espulsioni riprese dall’articolo di Mar-co Plutino danno un’idea dell’intrico di problemi che si presentano in questo contesto.

I rimedi non devono essere peggiori

del male

Mi sembra che il problema in di-scussione sia ben chiaramente quello della lotta al terrorismo e la protezione della vita dei cittadini e delle altre per-sone che rischino di esserne vittima. Il problema non è un altro.

La questione centrale è dunque quella dell’esistenza di uno “stato di emergenza”. Mi sembra che affermar-lo puramente e semplicemente o ne-garlo senz’appello siano due radicali incongruenze. Non c’è Annibale alle porte, né un terrorismo all’irakena nei confronti degli Stati europei – su que-sti Stati essenzialmente si soffermano

i due articoli ed io non vorrei disco-starmi da quest’orientamento. Né c’è una situazione di tranquilla sicurez-za; senza arzigogolare, basta vedere gli attentati a Madrid ed a Londra. Le dichiarazioni di Lord Hoffman (citate nell’articolo di Plutino) sull’inesistenza di uno stato di emergenza sono nobili, utili per calmare e contrastare l’azione dei forcaioli, sempre pronti a rilanciare una repressione insensata, ma non tan-to esatte. Un’emergenza esiste, ma essa va valutata per quello che è e non spin-ta all’estremo della difesa della vita de-gli uomini contro la permanente, attua-le e costante minaccia dei propri simili. D’altronde, al di là delle teorizzazioni sullo stato di emergenza, gli Stati hanno imparato a modularne il senso, tant’è vero che si parla di stato di emergenza e si modificano le relazioni fra i diversi diritti quando vi è, per esempio, lo stra-ripamento di un fiume o un terremoto anche non catastrofico. Certamente, quale che sia il grado di emergenza annunziato, lo stato di emergenza ri-chiama sempre il potere sovrano e si tende a farlo vedere chiaramente, con il dispiegamento di soldati, poliziotti, mezzi, funzionari pubblici chiamati ad agire. E’ anche vero, però, che col passa-re del tempo, sempre di più accanto alla potenza pubblica si vedono volontari, associazioni, ONG, cittadini parteci-pare, e non necessariamente in forma subordinata alle misure di emergenza; anzi, talora queste organizzazioni par-tecipano all’emergenza in forma critica rispetto all’organizzazione pubblica. E’ altrettanto vero che gli stessi detentori della sovranità cercano in molti casi appoggi in Stati terzi fino a farne un corollario quasi sistematico, talvolta non imposto dalla necessità, dello sta-to di emergenza; financo gli Stati Uniti si sono recentemente piegati a questa “nuova tradizione”.

I RIMEDI NON DEVONO ESSERE PEGGIORI DEL MALE

Andrea Pierucci

Lotta al terrorismo dopo l’11 SettembreSicurezza e diritti fondamentali

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Vorrei sottolineare questi aspetti in relazione alla lotta contro il terrorismo. In questo caso il rischio che il rimedio sia peggiore del male è elevatissimo, in particolare si rischia che una dose eccessiva di rimedio rafforzi il male specifico del terrorismo. Sovradosando la cura si potrebbe rinforzare il male. Un ultimo aspetto riguarda poi la questione delle leggi eccezionali. Qui sono assai preoccupato per l’ipocrisia mostrata da alcuni Ho letto i due inter-venti di Biagio de Giovanni e di Marco Plutino sulla questione del terrorismo e dei diritti fondamentali, pubblicati sul numero di luglio/agosto 2005: se c’era bisogno di altri stimoli per riflet-tere sul problema, questi sono davvero appropriati e mettono sul tavolo, espli-citamente o implicitamente, una serie di questioni. Dico subito che condivido l’approccio problematico seppur diver-so di entrambi. Non è il momento di ri-petere verità e posizioni che, appunto, sono messe in causa dai cambiamenti politici, specialmente dall’affermarsi di un terrorismo di matrice integralista e da reazioni dei paesi destinatari di questo flagello molto spesso inefficaci o, addirittura, controproducenti. Cer-to, non intendo negare la centralità dei diritti fondamentali e, in particolare, del diritto alla vita, né la piena con-vinzione politica che la questione dei diritti sia fondamentale in un mondo nel quale, volendo o non volendo, la globalizzazione allontana la presa de-gli Stati nazionali e “libera” in parte il cittadino dalla sua relazione col solo Stato di origine per farne un soggetto globale di diritti. Le stesse complesse considerazioni sulle espulsioni riprese dall’articolo di Marco Plutino danno un’idea dell’intrico di problemi che si presentano in questo contesto.

I diritti fondamentali

Il primo riguarda l’equilibrio fra i diritti fondamentali, in particolare fra il diritto alla vita e gli altri diritti di libertà. Non c’è dubbio che si possa fare una gerarchia: da morti il proble-ma dei diritti fondamentali conta po-chissimo. Bisogna però, appunto, che questa gerarchizzazione non rinforzi

il terrorismo. Ci sono quattro aspetti che mi preoccupano. Il primo riguar-da l’effetto della reazione militare o di polizia, se questa è eccessiva, sulla motivazione dell’estremista. Si rischia cioè che una forte propaganda contro la “repressione” stimoli nuovi adepti e finisca per giustificare il terrorismo: vedete come sono cattivi, violano i nostri diritti. La cosa può essere aggra-vata dal fatto che, salvo miracoli, non si possono violare solo i diritti dei ter-roristi, ma certamente anche quelli di cittadini che non hanno assolutamente niente da rimproverarsi, come mostra l’assassinio dell’elettricista brasiliano da parte della polizia a Londra. Questa riflessione può poi estendersi alla po-polazione non interessata alle ragioni

del terrorismo, ma solidale con quelli i cui diritti fondamentali siano violati, terroristi o meno e indebolire il giudi-zio negativo del cittadino, compreso del cittadino giudice o poliziotto, ri-spetto al terrorismo stesso. Non credo che si possa dedurre l’acquiescenza dei cittadini dai sondaggi effettuati a caldo dopo un attentato; non c’era bisogno di fare un sondaggio per sapere che il giorno dopo gli attentati di Londra i cittadini erano molto poco attenti alla questione dei diritti fondamentali, ec-cetto, ovviamente, quello alla vita.

Un secondo aspetto riguarda la natura stessa del terrorismo. E’ ovvio che si tratta di un fenomeno interna-zionale, la cui repressione non può fer-marsi alle frontiere dello Stato colpito. Questo significa che si devono poter perseguire i terroristi senza tener con-to delle frontiere, perlomeno in spazi, come quello europeo, caratterizzato da un’enorme circolazione di persone. Dunque, si deve arrestare il terrorista e tradurlo davanti al giudice di uno Stato non direttamente colpito da un fatto terroristico. Il suddetto giudice deve poter consentire all’estradizione o all’incarceramento del presunto ter-rorista, altrimenti quest’ultimo se ne scappa a far danno da un’altra parte. Ma il giudice deve essere convinto, a causa della Convenzione europea sui diritti fondamentali del 1950, a causa della propria Costituzione nazionale, degli stessi impegni europei chiara-mente espressi nei Trattati di Maastri-cht e di Amsterdam, della Carta dei diritti dell’Unione europea, adottata come dichiarazione nel dicembre 2000, che l’arresto o l’estradizione del pre-venuto non lo espongono a violazioni di diritti fondamentali al di là delle cause di eccezione consentite. Si tratta già oggi di un tema molto sensibile; si ricordi che, recentemente, il Tribunale costituzionale tedesco ha annullato la legge di recepimento del mandato di cattura europeo, considerando che non vi erano garanzie sufficienti in mate-ria di diritti fondamentali, anche se il richiedente dell’arresto era la Spagna che ha poco da imparare in materia di tutela dei diritti fondamentali. Il pre-sunto terrorista implicato nel giudizio è così tornato libero.

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Un ultimo punto riguarda il ruo-lo dei diritti fondamentali nel nostro “modello di società”, quello appunto messo in causa dai terroristi. Uno dei pilastri è il ruolo quasi sacro dei dirit-ti fondamentali. Bene fa de Giovanni a ricordare che non si tratta appunto della sfera del sacro (anche se qualche Cardinale sembra contraddirlo …), ma di quella della politica. Nonostante ciò, senza un rispetto crescente dei diritti fondamentali, la nostra società cambia di natura. Sminuire il ruolo dei diritti fondamentali diventa cioè una sorta di “vittoria” del terrorismo, perché conferma che la nostra società non è valida neanche per quel che riguarda i suoi pilastri. La buona ricetta, forse, è quella dell’integralismo, per l’occa-sione, islamico. Inoltre, se lo stato di emergenza dura troppo a lungo, finisce per mettere in discussione il sistema di libertà che noi conosciamo e che, con la vita dei cittadini, cerchiamo di difende-re contro il terrorismo e l’integralismo. Nel confronto culturale (l’arma più for-te che abbiamo nei confronti di questo tipo di terrorismo) perdiamo un punto molto pesante.

La sovranitàIl secondo punto che vorrei pren-

dere in conto è quello della sovranità e del suo esercizio. E’ indiscutibile: l’entità sovrana può e deve procedere alla repressione degli atti che negano il diritto alla vita dei cittadini. Vorrei però analizzare un po’ questa sovra-nità e le condizioni concrete del suo esercizio nel caso di specie.

La prima cosa che ha fatto Sarkozy, ministro francese degli interni, è stata quella di “sospendere Schengen”, cioè (del tutto teoricamente perché ormai la circolazione di persone alle frontiere è così vasta che è difficile controllare davvero il transito delle persone) di ripristinare i controlli alle frontiere. Egli ha cioè indicato come spazio della repressione e, correlativamente, della sicurezza, il livello nazionale. Certo, la misura è così concretamente irrealizza-bile da non provocare veri problemi e da non suscitare reazioni significative. Però il messaggio è chiaro. E sbagliato. La storia di questo terrorismo prova

che la questione territoriale interessa pochissimo i terroristi. Certi attentatori vengono da fuori, altri sono cittadini degli Stati interessati o residenti da lungo tempo. Via internet finanziano i terroristi in Spagna da Milano o dalla Germania; agiscono in Gran Bretagna (che non è vincolata dal trattato di Schengen e che esercita controlli ab-bastanza sistematici alle frontiere) e si rifugiano in Italia. E questi esempi si li-mitano all’Europa, ma si potrebbe fare senza problemi il giro del mondo.

Il richiamo alla sovranità naziona-le, dunque, non è molto efficace. Anzi, a mio parere, produce l’effetto inverso: il poliziotto ed il giudice si fermano alla frontiera, mentre il terrorista non si pone proprio il problema delle fron-tiere, perché agisce in modo globale. Viene, allora, da domandarsi come si debba esercitare la sovranità, posto che, mi pare non se ne possa, nelle cir-costanze date, fare a meno. Mi sembra che uno spazio interessante di eserci-zio della sovranità sia quello europeo. Dico interessante per varie ragioni. In primo luogo si tratta di uno spazio re-lativamente definito. In secondo luogo si tratta di uno spazio di cooperazione intensa fra gli Stati e le rispettive socie-tà civili. Inoltre, salvo a voler giocare sui cavilli, vi è una concezione comune del diritto e dei diritti fondamentali in particolare, specialmente grazie al di-vieto d’infliggere la pena di morte o di torturare i detenuti. Vi è poi un livello di controllo del territorio diverso da Stato a Stato, ma certamente caratte-rizzato da moltissime analogie. Infine vi è un’esperienza di cooperazione in seno all’Unione europea alquanto lun-ga e relativamente intensa. Certo, una cooperazione mondiale sarebbe forse più utile, ma mancano gli elementi suc-citati e ciò impedisce una cooperazione senza remore in materia di esercizio della sovranità. E, inoltre, non credo che ci si possa fidare ciecamente in questo momento ed in questa materia di altri Stati anche amici. Si pone dun-que il problema di esercitare efficace-mente la sovranità al livello europeo. Si badi, non si tratta di trasferire la sovranità; quand’anche ciò fosse au-spicabile e possibile richiederebbe un tempo estremamente lungo. Si tratta

invece di esercitare la sovranità degli Stati in modo coordinato, sulla base di regole e procedure comuni piuttosto forti, nettamente più forti delle attua-li. Questa può essere un’azione seria

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di contrasto del terrorismo, perché lo combatte ad un livello abbastanza elevato, prossimo del livello spaziale usato dal terrorismo. Il problema grave che si pone è però quello dell’efficacia e della fiducia. Questo problema ha aspetti normativi ed aspetti operativi. Sul piano normativo, le regole conve-nute al livello europeo non devono consentire scappatoie, né procedurali, né inerenti al rispetto dei diritti fonda-mentali. Il carattere democratico del-l’adozione delle regole ed il controllo parlamentare, europeo e nazionale, possono essere, a Trattati costanti, una forte garanzia in questo senso. Sul pia-no operativo, bisogna migliorare la ca-pacità d’inchiesta delle diverse polizie ed il loro coordinamento; forse è ormai tempo di dare un ruolo operativo ad Europol, assoggettandolo dunque ad un controllo giurisdizionale e politico e di rendere più vincolanti le procedu-re di Eurojust. E, inoltre, bisognerebbe, probabilmente, che i servizi d’intelli-gence cooperassero più strettamente. Con una battuta: se lo stato di emer-genza specifico ha una conseguenza è proprio quella di limitare la sovranità dei singoli Stati e di obbligarli ad eser-citarla in comune.

Contro il terrorismo valori e politica

Non voglio, per una volta, fare la lista degli interventi proposti dal-l’Unione europea per fronteggiare il terrorismo, né di quelli diretti né di quelli indiretti, concernenti, per esempio l’immigrazione (e, devo dire, è uno dei pochissimi settori nei quali, nonostante la crisi, si lavora moltis-simo per stabilire regole e procedure nuove). E’ certo che si sta facendo un vasto lavoro legislativo per proporre agli Stati membri misure comuni per contrastare il terrorismo; il punto è qui, come altrove, giustamente l’equilibrio fra la tutela del diritto alla vita e quella degli altri diritti fondamentali. A dir la verità, sulla necessità di un fonda-mentale rispetto del sistema dei diritti fondamentali in Europa (e, dunque, per l’eccezionalità della limitazione dei diritti fondamentali) si è espresso

recentemente il vice presidente della Commissione europea Frattini davanti al Parlamento europeo. Quest’ultimo, con qualche eccezione forcaiola o ultra-nazionalista, ha seguito la linea propo-sta dalla Commissione; semmai si sono intesi accenti ancor più garantisti da sinistra e dai liberali. Vorrei spendere, tuttavia, qualche parola su aspetti del contrasto al terrorismo spesso evocati, ma poi dimenticati, nonché su qualche contraddizione manifesta.

In primo luogo non c’è nessuno che non ponga il problema del confronto dei valori nella lotta al terrorismo. Niente di più giusto. Solamente che non si provvede in alcun modo, sti-racchiati fra la tolleranza di qualsiasi valore o presunto tale, purché venga in forma di critica e di rifiuto dei no-stri e l’affermazione dell’universalità, definita una volta per tutte, grazie alla nostra superiore civiltà, di qualsiasi buona idea venga da noi. O peggio, che, appoggiandosi su valori religio-si si faccia, da aprte di persone che, appunto, non ci credono per niente, una nuova campagna per una Civil-tà Cristiana Occidentale, superiore, eccezionale e, magari, madre di altre crociate (crociatine, perché quelle del medioevo con tutti i loro profondissimi difetti erano una vera grande avventu-ra; quelle proposte, ahimè, portano alla guerra in Iraq o, da noi, a qualche voto per i suddetti personaggi). Anch’io sono un fautore del confronto, magari un po’ più posato e critico, ma senza rinunciare alla nostra storia, anzi, ap-profittandone.

Faccio un esempio. Non credo che l’accesissimo maschilismo di alcuni orientamenti islamici possa essere ascritto alla logica dei valori. Vorrei, per esempio, ricordare che fino a non molti anni fa una donna non poteva andare a messa senza cappello, l’omi-cidio della “fedifraga” non era un reato poi così grave oppure che la moglie era legalmente soggetta al marito, com-preso nella definizione del domicilio coniugale. Quest’ultima regola (oggi sembrerebbe folle) era considerata un pilastro della nostra società (in appog-gio si citavano il Vangelo (!!!), la Co-stituzione, le Profonde Tradizioni del Popolo Italiano) soggetta a sanzione

penale. Ricorderò che la democrati-cissima Svizzera fino a pochi anni fa non conosceva il voto femminile. In altri termini, senza bisogno di ricor-rere alla religione, che pure talora era evocata, anche l’Europa, democratica e tollerante conosceva la discrimina-zione maschilista, forse in modo meno folkloristico di quanto non facciano i più convinti integralisti islamici, ma in modo fondamentalmente non meno crudele. L’evoluzione non è passata at-traverso un rifiuto della religione cri-stiana, ma attraverso una critica di certi valori. Non credo che si debba cessare di criticare le posizioni islamiche, cri-stiane o laiche (e certi recenti dibattiti parlamentari fanno pensare che ci sia un bel problema anche nel nostro pen-siero) che favoriscono l’oppressione delle donne. Non credo neanche che si possa imporre la minigonna alle ragaz-ze che si richiamano alla religione od alla tradizione islamica! Credo che si debba aprire un onesto dibattito civile senza pregiudizi e senza debolezze, te-nendo conto delle conquiste effettuate nella nostra società (e dei suoi difetti) ma anche senza costruire barriere ar-tificiose e nuove, sostanzialmente per bloccare il dibattito.

Il confronto culturale non basta; esso è necessario, ma non regolerà il problema di assicurare un attacca-mento alla nostra società sufficiente per sradicare il terrorismo, specie nei confronti dei giovani che vivono in Europa. Secondo me, il problema è quello di offrire ai giovani immigrati (ed agli altri!!!) qualche prospettiva. Inoltre, una società che offre, oltre alla prosperità, qualche prospettiva ideale, è un bersaglio meno comodo anche per il terrorismo internazionale. Mi sembra che, invece, la politica europea e nazio-nale facciano l’impossibile per evitare un tale obiettivo. La crisi europea è proprio un caso di scuola. Si gridano le parole: occupazione, sviluppo sosteni-bile, diritti, prossimità delle istituzioni rispetto ai cittadini e non si fa molto, o, addirittura, si va in senso inverso. Temo che questa politica, causa impor-tantissima della crisi europea, rischi di diventare una componente essenziale del terreno di coltura del terrorismo. Non sarebbe il caso di rifletterci?

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La tematica della sicurezza si colloca esattamente all’in-

crocio tra la consapevole costruzione degli ordinamenti e l’emotività della psicologia politica. Tra universo intel-lettuale e potere politico. Tra politica e comunicazione di massa. Forse non c’è tematica più esposta all’uso strumen-tale. Basta saperlo. Basta sapere che le rappresentazioni dei problemi della sicurezza possono facilmente nascon-dere qualche intrigo internazionale, oppure mere questioni di politica in-terna o ambedue le cose insieme.

Il terrorismo islamico mette a ri-schio le nostre vite. Vero, verissimo, troppo vero. Riformuliamo il quesito. In che misura la mia vita è a rischio a causa del terrorismo islamico? Im-provvisamente la risposta appare problematica. Non so rispondere, ma certo la mia sensazione di insicurezza si riduce. Anzi, inizio a credere che le probabilità di essere ucciso per mano di un terrorista islamico siano prati-camente inesistenti. Diciamo che se i morti causati da questo terrorismo fossero, nel complesso dei paesi simili al nostro, mille all’anno e gli abitanti di tali paesi tre miliardi, statisticamente ci sarebbe una possibilità su tre milioni. Il mio senso di sicurezza continua a cre-scere. Allora il terrorismo islamico non esiste? Evidentemente esiste, ma con-cretamente è un pericolo infinitamente minore di quanto noi tutti percepiamo. Certo si possono paventare attentati con milioni di morti, ma credo che non siamo intimiditi tanto dalla materialità dei rischi, ma dalla scoperta che qual-cuno è diverso da noi, che ci odia e che vorrebbe farci diventare come lui. Ne-garci. Su questa paura è facile che un qualche potere, anche quello politico di governi democraticamente eletti, innesti le peggiori speculazioni. La cro-naca di questi giorni, con il Cia gate, sta

confermando come l’amministrazione Bush abbia ampiamente manipolato l’opinione pubblica per motivare la guerra in Iraq sfruttando, appunto, il sentimento dell’insicurezza.

L’insicurezza al tempo d’oggi è un male endemico, ma deriva, come è no-tissimo, da tante cose, non solo dal pe-ricolo dell’integralismo islamico, basti ricordare i saggi di Baumann.

Biagio De Giovanni ha brillante-mente sostenuto su queste stesse pa-gine che il diritto alla vita è il diritto dei diritti. E’ vero, senza il corpo forse resta l’anima, ma la questione non è stata ancora definitivamente chiarita. Dunque, per intanto, habeas corpus. Ma il diritto alla vita non è solo conserva-re il corpo, è anche vivere. Il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero è un pezzo del diritto a vivere. L’esercizio dei differenti diritti può es-sere confliggente. L’esercizio del diritto di riunirsi in un luogo pubblico, in una piazza, può contrastare con il diritto degli altri a circolare liberamente. Gli ordinamenti moderni hanno elaborato tecniche molto sofisticate e complesse per arrivare ad una tutela bilanciata dell’esercizio dei diritti in modo da cer-care di ottenere il massimo di soddisfa-zione per il maggior numero possibile. Anche per questo sono state inventate le Costituzioni e le Corti costituzionali, ma è il sistema legale e giudiziario nel suo complesso a lavorare costantemen-te al bilanciamento dei diritti.

Inevitabilmente l’esercizio del sin-golo diritto deve essere limitato per consentire l’effettiva fruizione di altri diritti. Nel concreto degli ordinamenti sono le Corti costituzionali a decidere secondo criteri di ragionevolezza sulla legittimità e, nella sostanza, sulla op-portunità di tali limitazioni.

Dall’inizio il costituzionalismo af-fronta il problema di coniugare auto-

IL PRIMATODELLA PERSONA

Pietro Ciarlo

Lotta al terrorismo dopo l’11 SettembreSicurezza e diritti fondamentali

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rità e libertà, sicurezza e diritti, diritto alla sicurezza ed altri diritti. Si tratta della questione che dal 1648, data del Trattato di Westfalia, costituisce il nodo centrale della costruzione dello stato moderno. E’ a tale data simbolica, che segna la fine delle guerre di religione e sancisce la definitiva affermazione degli Stati nazionali, che può, infatti,

essere ricondotta la nascita dell’idea di tolleranza e dell’idea che il diritto alla religione non possa mettere in discus-sione il valore della sicurezza.

Per quanto si possano ipotizzare attentati catastrofici, i rischi che attual-mente corre la persona, più che dalle bombe islamiche, sembrano venire dal fatto che in nome della sicurezza si le-gittimino poteri arbitrari e permanenti, con una preoccupante regressione del-le tematiche della garanzia delle perso-ne, dell’ abeas corpus, in ultima istanza della sicurezza di ciascuno.

Lo Stato di diritto ha, invero, cono-sciuto e disciplinato, con l’istituto dello stato d’eccezione, la sospensione delle garanzie costituzionali in caso di guer-ra, tuttavia mentre in tale circostanza le restrizioni sono limitate alla durata della guerra, l’indeterminatezza tem-porale del fenomeno terrorista rischia di rendere le restrizioni permanenti. Si potrebbe ovviare al problema stabilen-do un termine di vigenza oltre il quale la normativa restrittiva dovrebbe esse-re rinnovata costringendo il legislatore a periodiche e rinnovate valutazioni politiche. Ma il problema di fondo re-sta di cultura politica o, se si vuole, di percezione collettiva.

La storia europea ma soprattutto americana è costellata di esempi di

sospensione delle garanzie individuali, ma appunto di sospensione. Nell’am-bito della guerra del 1915-1918, negli Stati Uniti, i diritti furono ampiamente, forse eccessivamente limitati. E’ nota l’amnistia che Franklin Roosvelt con-cesse nel 1933 per tutti i comportamen-ti che erano stati qualificati come reati nel periodo bellico. Ma vi erano stati,

comunque, una qualificazione giuridi-ca dei comportamenti e dei giudici.

Lo stesso presidente che era ap-parso così attento alla protezione dei diritti, a seguito dell’attacco giappo-nese del 1941 a Pearl Harbour, dispo-se l’internamento di tutti i cittadini americani di origine nipponica. Cir-ca 150.000 persone furono sottratte alle loro libertà per essere rinchiuse in campi di concentramento (in vero piuttosto confortevoli), che più avanti ospitarono anche cittadini americani di origine italiana e tedesca. I detenuti ac-cettarono senza particolari rimostranze tali restrizioni in quanto capivano che si trattava di misure comunque tempo-ranee e che la pienezza del godimento dei loro diritti sarebbe stata ripristinata a guerra conclusa. Pur in queste dram-matiche circostanze, gli stati democra-tici tesero sempre a salvaguardare la dignità della persona umana e la sua integrità fisica.

Di questo orientamento politico e culturale sono buon esempio la Con-venzione di Ginevra sullo status dei prigionieri o, più in generale, quelle norme costituzionali, come l’ articolo 27 della nostra Costituzione, che pre-scrivono l’umanizzazione della pena.

A cosa dovrebbe portare, oggi, un’affermazione apodittica del primum

vivere? Appare impossibile accettare posizioni come quella sostenuta da Alan Dershowitz, che ipotizza, in pre-senza di determinate condizioni, la legalizzazione della tortura, peraltro appoggiato, dopo il trauma innesca-to dall’11 settembre, anche da alcuni esponenti della cultura liberal ame-ricana. Le argomentazioni addotte a

sostegno di tale tesi sono due, nondi-meno assolutamente tradizionali: la prima è che trattandosi di fenomeni che comunque accadono è preferibile regolarli piuttosto che lasciarli senza regolazione; la seconda è di tipo utilita-ristico, basata sulla logica del bene per il maggior numero, e fa ricorso al noto paradosso della bomba ad orologeria. In base a tale argomento se il prigio-niero sa quando scoppierà la bomba, io devo avere la sua confessione, a qualunque costo, per poter salvare al-tre vite umane.

Personalmente ritengo tale argo-mento aberrante non solo per ragioni connesse allo sviluppo della nostra ci-viltà del diritto, ma anche e principal-mente per una ragione di sicurezza. Se si legittimasse la tortura, si aprirebbero le porte ad un uso tendenzialmente estensivo dello strumento. Chi stabi-lisce quando si possa procedere alla tortura? La tortura presuppone che nell’incertezza si torturi per sapere. Chi controlla coloro che sono chiamati a praticarla? Se il divieto cessa di esse-re assoluto, rischiamo di divenire tutti ostaggio del potenziale torturatore, cui sarebbe facile invocare l’esistenza delle condizioni eccezionali per procedere alla tortura stessa, facendo passare l’onere della prova dell’innocenza in

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capo al torturato. Più in generale rico-noscendo la possibilità della tortura, sarebbe l’assetto culturale e valoriale della democrazia contemporanea ad essere messo in discussione con riper-cussioni incalcolabili sui nostri ordi-namenti e sulle garanzie di ciascuno. Ammesso e non concesso che nell’im-mediato si possano salvare delle vite, i danni di lungo periodo sarebbero viceversa incalcolabili, erodendosi le stesse basi culturali della nostra civi-lizzazione.

Ritornando all’attualità vorrei se-gnalare come, al di là del problema della tortura, i casi di Guantanamo e dei prigionieri in Afghanistan e Iraq pongono il problema, per nulla mino-re, della durata delle limitazioni delle libertà, oltre che quello dell’assenza di un processo. Quando riappariranno le chiavi? Anche i prigionieri di guerra non vengono previamente processati, anzi è una loro garanzia non venir pro-cessati: alla fine della guerra verranno comunque liberati. Ma nel caso del ter-rorismo ancora una volta il problema della sua indeterminatezza temporale prospetta ipotesi di detenzione prolun-gata ad infinitum.

I provvedimenti restrittivi adottati contro i cittadini americani nel corso della Seconda guerra mondiale cade-vano in un contesto di cultura politica completamente diverso da quello at-

tuale. Esso era, infatti, un contesto di certezze in cui da una parte vi erano le dittature dall’altra le democrazie che rappresentavano senza esitazioni il mondo dei diritti, sempre. Anche quando in Europa l’unica democrazia a resistere era quella britannica. Nono-stante fossero minacciate dall’avanzata dei regimi totalitari, o forse proprio per questo, le democrazie si ponevano e si autorappresentavano come il ba-luardo dei diritti. Oggi, questo solido ancoraggio appare in crisi. Pur nelle drammatiche circostanze della secon-da guerra mondiale esse non misero mai in discussione la tutela dei diritti, cercandone sempre la minima com-pressione possibile. Questo le distin-se dal fascismo, costituì la loro forza politica e morale, consentì la vittoria. Mai, nel corso della lotta totale per la vita contro il nazismo e il fascismo, le democrazie si sognarono di indebolire i diritti tanto e contestualmente avalla-re comportamenti come la tortura. E se casi vi furono, essi vennero considerati deviazioni. Se la cultura dei diritti vie-ne dismessa, è arduo distinguere.

La consapevolezza che sempre bisogna ricercare la minore compres-sione possibile dei diritti senza farsi in-gannare dall’idea dell’assoluta preva-lenza di uno solo di essi, con il rischio di avallare qualsiasi cosa in nome di quell’unico fondamentalissimo diritto,

si ritrova in molte Costituzioni. Nella nostra, ad esempio, è previsto che in caso di guerra il Parlamento conferisca al Governo i “poteri necessari”, non più i “pieni poteri” secondo la dizione dello Statuto albertino.

La radice etimologica di sicurez-za ci riporta al latino sine cura, senza preoccupazione. Non è un caso che nel-la letteratura post-11 settembre l’idea di sicurezza abbia subito uno slitta-mento semantico. Prima era, infatti, prevalsa l’accezione psicologica del termine che ha portato a soffermarsi su fenomeni quali l’ansia e l’angoscia. Si tratta evidentemente di una perce-zione della mancanza di sicurezza che fa perno sul soggetto e che deve essere valutata in modo diverso a seconda dell’individuo che la prova.

Agli inizi del ’900, Le Bon, nel noto saggio sulla psicologia delle folle, ri-collega il problema dell’insicurezza individuale a fenomeni politici, inau-gurando un fecondo filone di studi che è quello della psicologia politica. Le Bon osserva che nei momenti in cui vengono meno le grandi certezze identitarie, culturali, religiose, nazio-nali, la ricerca della certezza si indi-rizza altrove, nel carisma di un capo o nel localismo delle piccole patrie. Il bisogno di certezza funziona come un sistema in cui le diverse componenti si mescolano proporzionalmente. Se

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vi è un calo di identità nazionale, ad esempio, tenderà a crescere l’identità religiosa. Non a caso gli ebrei hanno enfatizzato l’appartenenza religiosa di fronte al fatto di avere avuto una storia senza Stato.

Oltre che sull’insicurezza identita-ria, la letteratura pre-11 settembre in-siste anche su altri tipi di insicurezza, per esempio quella riguardante i diritti politici a seguito delle manipolazioni dell’opinione pubblica. Il voto che dovrebbe essere libero, eguale e se-greto viene sempre più manipolato dai mezzi di comunicazione di massa che creano una unidimensionalità della formazione culturale ed una incapacità di osservare criticamente il reale.

Alla insicurezza identitaria e a quella che ruota intorno ai diritti poli-tici, veniva aggiunta l’insicurezza nella tutela dei diritti civili. Possiamo, ad esempio, ricordare il consolidarsi delle location tecnologies che permettono di rintracciare l’individuo in qualunque parte egli si trovi, la video sorveglianza e quant’altro. Con tale tipo di tecnolo-gie è difficile percepire che è in corso una violazione del diritto alla riserva-tezza perché è difficile rendersi conto che si viene spiati, ma presto le conse-guenze di questa diffusione potrebbero toccarci profondamente.

Infine era poi evidenziato il proble-ma di quei diritti connessi alla quan-

tità di risorse disponibili per renderli effettivi. E’ il caso dei diritti sociali anch’essi attraversati dal vento dell’in-sicurezza a seguito delle restrizioni cui il Welfare State viene sottoposto.

Dunque, per ragioni diversissime prima dell’ 11 settembre è maturato un orientamento variamente critico verso la tutela dei diritti, ma cosa in-finitamente più grave, verso la stessa idea dei diritti e della loro garanzia. Le strade dell’insicurezza, oggi, sono quasi infinite. Basti pensare a quanta insicurezza generano la disoccupa-zione o la riduzione dell’assistenza sanitaria. Ma non è difficile incanalare queste diverse insicurezze verso mo-tivi identitari e, come sta avvenendo dopo l’11 settembre, verso l’ ansia per la propria integrità fisica. Temo proprio che il terrorismo islamico si presti magnificamente ad essere il più comodo terminale di tutte le insicurezze. Paravento di politiche spregiudicate.

Quando Londra era bombardata tutti i giorni, nessun inglese pensò di lodare la tortura. In che mondo vi-vremmo oggi se i vincitori della guerra fossero stati dei torturatori? Fortunata-mente i torturatori la persero.

La sicurezza di tutti noi va perse-guita senza sottovalutare nessuno dei rischi dell’oggi, ma l’unico sistema che le democrazie conoscono per stabilire

le modalità della sua tutela è quella di bilanciare lo stesso diritto alla si-curezza fisica con gli altri diritti, pure necessari alla vita della persona. Per tutelare la sicurezza fisica si possono accettare molte limitazioni agli altri di-ritti, ma esse, secondo un canone ormai universale del metodo costituzionale, devono essere ragionevoli, cioè devo-no essere coerenti con l’obiettivo per-seguito di incrementare la sicurezza fisica della persona, ma senza arrivare a distruggere per altri versi la persona medesima. Viceversa, saremmo nel campo dell’irragionevole e, dunque, dell’inammissibile da un punto di vi-sta costituzionale, ma soprattutto di incompatibile con la cultura politica della democrazia che in larga misura si fonda su un’idea complessa di perso-na. Anche il feudatario aveva l’obbligo di occuparsi della sicurezza fisica dei servi della gleba, ma questa è un’altra storia. Le anime morte non si addicono alla democrazia.

Di fronte ad un attentato da un milione di morti, come fecero i nostri padri dinanzi all’attacco ancor più micidiale del nazismo, continuerò ad essere contrario alla pena di morte, alla tortura, agli arresti senza termine e senza processo, alla possibilità di sparare per uccidere. Diversamente i terroristi avrebbero veramente vinto: tutti saremmo diventati come loro.

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Segue dalla prima pagina

… Mi riferisco al rapporto tra Napoli, l’Europa, e il Mediterraneo, quale vero e proprio architrave di una moderna e aggiornata riflessione sulle prospettive di crescita e sviluppo di Napoli e della sua area metropolitana.

La condicio sine qua non, tuttavia, affinchè tale approccio abbia un senso, è rappresentata dalla volontà di abbando-nare la pessima tendenza ad affrontare le grandi questioni strategiche attraver-so slogan e astratte enunciazioni.

Napoli Capitale del Mezzogiorno, “molo europeo” nel Mediterraneo, grande metropoli continentale “ponte” tra culture ed esperienze. Tutto vero, se non fosse per il fatto che possedere un grande capitale geostrategico, di per sé, non serve assolutamente a nulla se non lo si riesce a trasformare in un concreto vantaggio competitivo rispetto ad altre aree del Paese o dell’Europa stessa.

Affinchè ciò avvenga occorrono, oltre naturalmente a volerlo, una serie di competenze, l’assunzione di speci-fiche scelte amministrative e assoluta chiarezza di idee su progetto comples-sivo, tempi di realizzazione, obiettivi da centrare.

•••••

Si parta allora da una breve con-siderazione di carattere generale e di cornice.

Con la realizzazione dell’area di libero scambio euromediterranea nel

2010, impegno assunto a Barcellona dai 15 ormai dieci anni orsono e suc-cessivamente ribadito in più occasioni, alcune centinaia di milioni di nuovi consumatori e produttori – i cittadini dei Paesi del Magreb – entreranno a far parte di una sorta di unione doga-nale tra le più vaste mai realizzate nella storia dell’umanità.

A ciò vi è da aggiungere che una possibile adesione della Turchia all’UE, seppur non prima del 2013, farà del Mezzogiorno d’Italia, insieme a Grecia e Bulgaria, l’area comunitaria di mag-gior prossimità rispetto ad una penisola anatolica parte integrante del consesso economico, finanziario e politico euro-peo, oltreché confinate con il grande Medio Oriente.

Ciò comporterà, stime alla mano, una crescita potenziale complessiva di traffici commerciali – soprattutto per ciò che attiene a merci e servizi – e flussi finanziari senza precedenti che potranno giungere al “cuore” dell’Euro-pa, all’area cosiddetta mittleeuropea, e al nord del continente prevalentemente attraverso il sud Italia oppure attra-verso le coste meridionali di Francia e Spagna.

In una simile competizione di mer-cato, volta ad attrarre la maggior parte di tali potenziali flussi e investimenti internazionali, saranno rilevanti una serie di dati concreti che attengono al quadro infrastrutturale, alla dinami-cità economica, alla vivacità produt-tiva, all’efficienza amministrativa, al

coordinamento territoriale su scala macroregionale, alla capacità di inno-vazione, all’evoluzione del know how, alla presenza di risorse immateriali, all’attivazione di partenariati tran-snazionali e a tanti altri determinanti fattori tipici delle economie moderne post industriali, che i diversi competitor sapranno mettere in campo.

Occorre tener ancora presente che l’Unione Europea, da qualche decennio e con grande lungimiranza, ha messo e mette a disposizione delle proprie aree territoriali più strategiche e più sensi-bili, una galassia notevole di chances e opportunità affinchè tale sfida possa essere giocata e, possibilmente, vinta.

Tuttavia, ancora una volta, se non si è in grado di mettere in valore al mas-simo tali risorse e tali iniziative, il fatto che esse sic et simpliciter esistano, non ricopre alcuna importanza.

•••••

L’Unione Europea è anche ma non solo, come invece purtroppo pare anco-ra doversi registrare nel dibattito politi-co locale, i suoi Fondi Strutturali.

Un confronto miope e di carattere esclusivamente ragionieristico sulla quantità della spesa – avvitato su ta-belle, dati, numeri, progetti sponda, potenziali premialità e giustificazioni varie – ha prodotto un dannoso oscu-ramento del tema di gran lunga più importante relativo alla qualità della spesa, al suo essere “strategica e volano per l’attivazione di virtuosi meccanismi

Napoli l’Europa il MediterraneoIvano Russo

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di investimenti privati atti a favorire l’infrastrutturazione territoriale e l’am-modernamento profondo dei tessuti produttivi a maggiore tasso di innova-zione nelle aree in ritardo di sviluppo”. Almeno così recitano a riguardo i docu-menti ufficiali di Bruxelles.

I ritardi in questa direzione, che ad onor del vero non solo del Mezzogiorno d’Italia, devono essere risultati gravi e abbastanza preoccupanti se è vero che nel Dossier della Commissione Barroso sul rilancio della Strategia di Lisbona, dello scorso 2 febbraio, si è avvertita la necessità di sostenere l’esigenza di una improrogabile “lisbonizzazione” della spesa strutturale, che orienti la stessa verso i settori della comunicazione, del-le reti materiali e immateriali, dell’eco-nomia della conoscenza e dei saperi, del lifelong learning, dell’innovazione tecnologica, della produzione ad alta qualità e di eccellenza.

Anche per queste ragioni, in pre-visione della nuova programmazione poliennale 2007 – 2013, si sta facendo strada l’ipotesi di istituire un più siste-matico monitoraggio, attraverso specifi-ci studi, proprio sul tema della “qualità” della spesa, per trasformare tale dato nel nuovo paramentro di valutazione per l’assegnazione delle premialità.

Ma comunque, anche a prescindere da tali riflessioni, i Fondi Strutturali non possono rappresentare certamente l’unico elemento di contatto tra la go-vernace locale e l’Unione Europea.

Maggiore attenzione occorrerebbe riporre, ad esempio, nei confronti del Quadro Comunitario di sostegno alle politiche d’infrastrutturazione, tema in parte complementare al discorso sviluppato sopra.

Vi sarebbe cioè a riguardo la ne-

cessità di costruire un’azione politica forte, nazionale e locale, che imprima una accelerazione alla costruzione del cosiddetto “Corridoio 8”, indispensa-bile rete infrastrutturale materiale e immateriale per l’interconnessione del Mezzogiorno d’Italia – in particolare Puglia e la retrostante Campania – con l’area adriatico – balcanica.

Il tutto dentro una più ampia visione che dovrebbe essere caratterizzata dallo sforzo di progettazione di una moderna piattaforma tranfrontaliera e paneuro-pea – da realizzarsi anche attraverso iniziative sovraregionali – che non tagli fuori le nostre aree dalle dinamiche di partnership economico e commerciale, rilanciate e rafforzate dalla rinnovata “politica di vicinato” UE.

•••••

Così come reputerei utile che si aprisse, finalmente, una riflessione seria e certamente autocritica sui cosiddetti “Programmi a sportello Bruxelles”. Decine di macroprogrammi, centinaia di linee di finanziamento in numerosi settori strategici, messi a disposizione dall’Europa direttamente agli attori locali – senza intermediazioni cioè da parte delle varie amministrazioni – ma poco o affatto sfruttati nella nostra real-tà metropolitana e regionale. Cultura, ambiente, trasporti, energia, università, formazione, ricerca, comunicazioni: questi sono solo alcuni dei potenziali settori interessabili da una seria inizia-tiva in tale direzione.

Sembrerà difficile credervi, ma nel Mezzogiorno d’Italia – a differenza di realtà come Spagna, Irlanda e Porto-gallo – sono rarissime le competenze tecniche in grado di presentare progetti a riguardo in grado poi realmente di

competere in sede di attribuzione delle risorse, a Bruxelles.

Eppure formare “euro – progettisti” dovrebbe, per tante ragioni, rappresen-tare una assoluta priorità per le classi dirigenti locali. Una di queste è legata al fatto che i Fondi Strutturali, comunque, dal 2013 non saranno certamente più destinati alla Campania, e quindi tali Programmi resteranno le uniche vie di accesso a possibili finanziamenti comu-nitari per meritevoli iniziative locali.

Dar vita ad un “laboratorio di eu-ro – progettazione”, relazionato con le attuali società di consulenza già operan-ti a Roma, nel nord Italia e a Bruxelles, e istituito dal sistema universitario locale con il sostegno di Regione, Provincia, Comune, Camere di Commercio, Unio-ne Industriali, rappresenterebbe una scelta strategica e di lungo respiro.

Sulla scorta di quanto fin qui so-stenuto, va da se che anche rispetto al prossimo VII Programma Quadro per la Ricerca Scientifica, Napoli, la Campania e l’intero Mezzogiorno do-vrebbero provare a fare quel salto di qualità nella capacità di intercettare risorse e partecipare da protagonisti a grandi iniziative comunitarie di svilup-po, crescita e innovazione produttiva e tecnologica, superando pigrizie intel-lettuali e miopie politiche che troppo spesso sembrano delineare ancora il volto di una realtà provinciale e tutto sommato restia ad intraprendere nuove e più complesse sfide.

I dati a riguardo relativi al preceden-te PQRS, il VI, sono purtroppo molto deludenti sia in quanto ad attenzione che per quanto attiene le proposte, po-che e spesso mal costruite, avanzate.

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DALLA PRIMA

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Tra l’altro il già citato Dossier Bar-roso su Lisbona, si sofferma anche sulla possibilità di costruire “Poli o Parchi urbani tecnologici di eccellenza, ad alto contenuto innovativo” impegnando la Commissione a sostenere finanziaria-mente iniziative che, in tale direzione, rafforzino le relazioni tra Università e nuove medio – piccole realtà produtti-ve a livello regionale e locale nell’ottica “della creazione di un policentrico Isti-tuto Europeo della Tecnologia”.

Su questo aspetto qualcosa di inte-ressante, grazie soprattutto all’azione del Professore Nicolais nella precedente Giunta Regionale, sembrava essersi mosso in Campania.

Ma non troverei certo ardito can-didare più stringentemente Napoli a divenire una di tali realtà, all’interno del contesto comunitario, magari cogliendo l’occasione per ripensare, arricchire e internazionalizzare significativamente un dibattito sulla riconversione territo-riale post – industriale che, ad Est come ad Ovest della città, si presenta ancora con troppe lentezze, contraddizioni, fumisterie, incognite.

Del resto un recente studio del Professor Marco Percoco, dell’Istituto di Economia Politica della Università Bocconi, ha convincentemente dimo-strato quanto le nuove tecnologie del-l’informazione e della comunicaizone abbiano modificato e ridisegnato, in misura sostanziale, la struttura e le prospettive economiche di un territorio urbano. Fuori dalla massima valoriz-zazione delle risorse immateriali dello sviluppo, la capacità innovativa del territorio di riferimento si affievolisce, viene meno la possibilità di superare l’archetipo “di metropoli specializzata per settori” con la nuova dimensione

della “specializzazione per funzioni” e, il territorio stesso, si avvia al declino e alla marginalità geo economica rispet-to al più vasto contenitore nazionale o internazionale di riferimento.

Costruire nuove relazioni cen-tro – periferia, su scala metropolitana e dentro l’economia della conoscenza in ambito urbano, rappresenta la nuova sfida che Napoli e la sua area circostante non possono permettersi di perdere.

Ancora una volta, se veramente lo si volesse, l’Unione rappresenterebbe una risposta e al tempo stesso un positivo stimolo per aggredire tali questioni.

La Relazione Guellec del Parlamen-to Europeo sul ruolo della Coesione Territoriale nello sviluppo regionale, approvata dalla Commissione per lo Sviluppo Regionale lo scorso 25 luglio, offre infatti nuovi e interessanti spunti per un ulteriore affinamento delle idee e delle strategie ispirate al binomio UE – sviluppo locale.

Il dato di fondo di tale impor-tantissimo documento parte da una incontestabile valutazione: a seguito dell’allargamento a 25 dell’Unione sono maturate nuove e crescenti disparità nei livelli di sviluppo delle diverse aree territoriali. Pertanto, alla consolidata Coesione economica e sociale, occor-re affiancare nuovi strumenti, definiti di Coesione Territoriale orizzontale, in grado di offrire proposte e risposte convincenti alla sfida dello sviluppo organico dell’insieme del territorio co-munitario, a partire dal superamento delle distorsioni centro / periferia – da contrastare anche attraverso politiche di sostegno a partenariati tra centri urbani –, tanto radicate e purtroppo storicamente consolidatesi anche nella nostra realtà.

In quest’ottica, e con questi obiet-tivi, come ridefinire e semplificare il binomio Fondi – Progetti in modo tale da allargarne il bacino di potenziale in-teresse e fruizione? Come rafforzare una governance locale che si senta coinvolta in tale delicata sfida?

A tali interrogativi la Relazione Guellec offre risposte che considero convincenti e che dovrebbero essere politicamente supportate, sostenute, vissute dagli attori del governo locale e dai soggetti economici più interessati ad un equilibrato sviluppo policentrico del territorio urbano e regionale.

Purtroppo mi pare che tale rifles-sione, a tale livello, latiti, così come assente è stato – ovviamente ancora su scala locale – uno stringente confronto sul Rapporto Boge che ha indirizzato e influenzato il dibattito più complessivo sulle Politiche e di Coesione e sulle Pro-spettive Finanziarie UE del prossimo sestennio.

•••••

Del resto la disattenzione rispetto a tale dimensione nel dibattito sullo sviluppo e il futuro di Napoli, è resa in maniera inequivocabile da una serie di dati che sembrano dimostrare la lontananza tra la città e la prospettiva europea e mediterranea.

Mi riferisco, in particolare, allo stu-dio sulla “mediterraneità” condotto nel luglio 2005 dalla Camera di Commercio di Milano secondo il quale – individuati quali parametri di riferimento i flussi di importazione, esportazione, la presenza di imprese a capitale “misto” e la proie-zione infrastrutturale delle principali città italiane rispetto ai Paesi Med – Na-poli si classificherebbe rispettivamente al 25

o, 32

o, 15

o e 9

o posto.

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Nella classifica complessiva che tie-ne conto di tutti tali fattori, così, Napoli chiude al 24° posto, dietro a realtà come Milano, Roma, Torino, Bari, Firenze, Bologna, Cagliari, Siracusa e tante al-tre ancora.

La seconda ricerca a cui vorrei far riferimento, è stata presentata invece all’Unione Industriali nel settembre scorso e, sempre attraverso il metodo dell’analisi comparativa, mette a con-fronto questa volta le principali 13 città mediterranee dell’Unione Europea al fine di valutarne il tasso “di apertura sostanziale al Mediterraneo”.

Ebbene, definiti quali parametri di riferimento flussi import/export, mo-vimenti finanziari, numero di imprese miste, partenariati istituzionali attivati, scambi culturali, infrastrutture strategi-che e altri simili aspetti, a fronte del pri-mato di Barcellona, colpisce il penultimo posto di Napoli, superata in peggio solo da Salonicco.

Ovviamente, sulla scorta di tali dati, non può destare alcuna sorpresa il fat-to che la candidatura di Napoli quale sede della futura Banca Euro – Med, peraltro solo timidamente avanzata e senza neanche troppa convinzione dai vertici istituzionali locali, non sia stata presa seriamente in considerazione in sede Ue.

Si badi che non ci si riferisce qui a inutili lustrini che poca incidenza avrebbero poi sulle reali dinamiche dello sviluppo locale.

In un lungo saggio, molto ben co-struito, Fabrizio Guzzo – ricercatore del Dipartimento di Sociologia e Scienza Po-litica dell’Università della Calabria – fa riferimento, citando Harvey, all’urban entrepreneurialism. Si tratta di uno stu-dio volto a sostenere quanto nei processi di governace urbana conti la capacità di costruire economie dinamiche, moderne e internazionalizzate al fine di reggere alla nuova difficile sfida della competi-tività delle e tra le città. La ricerca è in-centrata sul “fenomeno” Barcellona, ma alcuni suoi spunti sono senz’altro validi anche per questa nostra analisi.

A partire dal dato che, la presenza di un ambiente istituzionale particolar-mente dinamico, sensibile alle esigenze del sistema produttivo e in grado di attuare con certezza politiche di svi-luppo condivise e ben relazionate con il contesto esterno al perimetro urbano, rappresenta un primario fattore per ac-crescere e migliorare le performance e la competitività di una città nel contesto nazionale e internazionale.

All’interno del disegno politico com-plessivo che ha conosciuto, nel 1987, il varo di 12 Aree di Nuova Centralità per lo sviluppo strategico funzionale futuro della città di Barcellona, i massicci inve-stimenti in potenziamento e attrazione della “classe creativa”, in infrastrutture materiali, sociali e culturali, nel rinno-vamento urbano diffuso con interventi medio – piccoli ma in tutti i quartieri della città, e nella scelta di fare della

capitale catalana una vera grande cit-tà/meta europea del turismo giovanile e diportistico, hanno rappresentato le linee guida di un progetto che è riuscito a coinvolgere, nel vero senso della parola, tutta la città.

•••••

E qui torna il tema della governance locale. La capacità cioè di includere e coordinare i diversi attori locali, prota-gonisti dell’evoluzione dinamica e com-plessiva di un territorio, in un grande progetto strategico veramente condiviso e che abbia una dimensione e un orizzon-te internazionale.

Per Napoli, così come è stato per Barcellona, tale orizzonte non può che essere rappresentato dal prezioso bino-mio Europa – Mediterraneo.

Ma occorre vincere la sfida della competizione di qualità e dell’economia dell’innovazione.

Proprio pochi giorni fa, ad esempio, la Commissione Bilancio del Parlamento Europeo ha approvato un importante emendamento sulle politiche comunita-rie di sostegno al “turismo compatibile”. Con tale risoluzione, per la prima volta, è introdotta una specifica linea di bilancio dedicata a tale settore: si tratta di 1 milio-ne di euro per il sostegno ad un “progetto pilota” – denominato “Destinazioni Eu-ropee di Eccellenza” – che funzionerà seguendo lo stesso schema già collaudato con l’iniziativa “città europee della cultu-ra”. Il progetto è finalizzato a valorizzare

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il patrimonio turistico, monitorarne lo sviluppo, sostenere iniziative di part-nership e scambi permanenti tra realtà turistiche appartenenti a diversi Stati membri, promuovere l’accoglienza at-traverso i nuovi strumenti multimediali e tecnologici, coinvolgere gli operatori del settore nella programmazione di iniziative e attività.

Io credo che Napoli, nei modi e nelle forme tecniche che poi saranno previste, dovrebbe concorrere e partecipare a tale progetto, appieno inquadrabile in quella economia immateriale e di eccellenza, vera colonna portante di ogni moderna strategia di crescita e sviluppo, locale e nazionale.

Così come dovrebbe sfruttare al me-glio le opportunità provenienti dall’isti-tuzione e dal finanziamento, di recente approvato dal Parlamento Europeo, del progetto Erasmus per i giovani impren-ditori. Affiancato all’Erasmus tradizio-nale rivolto alle Università, finalmente vi sarà la possibilità anche per ragazzi che hanno deciso di intraprendere un’inizia-tiva imprenditoriale privata di entrare in diretto contatto con “colleghi” europei scambiando esperienze, conoscenze, impressioni e saperi.

•••••

Queste considerazioni, lungi dal vo-ler essere l’ennesimo saggio più o meno accademico sulla crisi della città, nasco-no dalla volontà di voler in qualche modo contribuire ad individuare una nuova

mission per Napoli in grado di offrire un orizzonte e ridare fiducia ad un tessuto civile, produttivo, intellettuale ed econo-mico che appare sfiduciato e rassegnato a vivere “alla giornata”, magari in attesa di astratti avvenimenti palingenetici.

Sia chiaro, pur considerandomi un cittadino abbastanza informato, non ho certo la possibilità di monitorare quoti-dianamente l’attività amministrativa del sistema di governo locale o le iniziative di altri soggetti istituzionali. Pertanto potrebbe darsi che alcune delle possibili potenziali iniziative menzionate sopra siano state già assunte, e in tal caso faccio preventivamente ammenda.

Ciò che è però certo, è che invece un disegno strategico complessivo incentra-to su Napoli – Europa – Mediterraneo, costruito sulla volontà di porre la città al centro di questa galassia di opportunità, e che coinvolga non sporadicamente tutti gli attori della governance locale e parte importante dell’opinione pubblica, certamente è assente.

Non mi sfugge che tutto ciò comun-que non potrà risolvere tutti i problemi di questa realtà: dai rifiuti al traffico, dall’ordinaria (difficile) amministra-zione alla criminalità e via discorrendo, una serie di nodi storici e irrisolti hanno attanagliato e continueranno ad attana-gliare la nostra realtà, probabilmente anche nel prossimo futuro. Ma offrire un progetto complessivo tanto avvincente e coinvolgente a Napoli, significa costruire insieme una nuova mission, un nuovo

grande orizzonte verso cui tendere, nuo-ve concrete opportunità di inclusione nel mondo produttivo per giovani, ricercato-ri, imprese, saperi, competenze.

Del resto molti di questi problemi non è che altrove, e mi riferisco a realtà italiane ed europee generalmente con-siderate più avanzate, non esistano. E gli stessi problemi erano presenti, nella stessa Napoli, anche nei primi anni No-vanta. Ma il fatto che vi sia o vi sia stato, altrove o prima, un disegno superiore e appassionante, un grande obbiettivo da raggiungere per il progresso di ognuno e di tutti, ha senz’altro dato maggior coraggio, risposte concrete, più grinta e determinazione, più speranza e fiducia nel futuro a quanti, con la difficile realtà quotidiana, sono comunque chiamati a fare i conti.

Con questo ampio respiro, e con que-sto disegno nuovo, credo occorrerebbe impostare la prossima campagna eletto-rale per l’amministrazione di Napoli.

Ecco, non vi sarebbe nulla di più rattristante che assistere ad un dibat-tito incentrato invece esclusivamente, e al di là di una grande proposta “di contesto”, su traffico, rifiuti, recupero del Centro Storico, futuro di Bagnoli e dell’Area Est, stato delle finanze co-munali. Grosso modo gli stessi temi, e prevedibilmente più o meno negli stessi termini, del 1993. Però intanto sono passati quasi quindici anni, molto attorno a noi è cambiato, e il resto del mondo continua a correre.

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Quando il gruppo socialista nella Commissione Bilanci del Parlamen-

to europeo ha deciso di affidarmi l’ incarico di relatore generale del Bilancio UE 2006, mi era ben chiara la speciale situazione a cui andavo incontro.

Innanzitutto perchè da quindici anni non accadeva che un italiano fosse nominato relatore generale del Bilancio. In secondo luogo perchè il Bilancio 2006 è l’ultimo della fase program-matoria 2000-2006 (meglio conosciuta come Agenda 2000) e quindi i suoi contenuti influen-zeranno, nel bene e nel male (penso proprio nel bene) la nuova programmazione 2007-2013, che è cruciale per la capacità di recupero dell’ Unione e per il destino delle Regioni italiane. L’approvazione dello stesso avverrà durante la Presidenza del Consiglio britannica, e il suo successo o il suo insuccesso porteranno in primo luogo il timbro socialista (socialista il relatore generale, laburista il Presidente britannico). La Commissione Europea che ha l’onere della proposta iniziale ha partorito un progetto di Bilancio poco ambizioso e largamente al di sotto delle attese del Parlamento e dei cittadini europei. In ultimo, sapevo bene che l’attenzione dei media e conseguentemente dell’opinione pubblica è insufficiente rispetto ad un dossier così importante e tuttavia così poco indagato per la sua forte connotazione tecnica. E, quindi, un braccio di ferro tra Parlamento, Commis-sione e Consiglio sarebbe stato tanto legittimo quanto confinato nello spazio angusto delle istituzioni europee e di qualche interlocutore più o meno interessato.

Ho affrontato questa lunga fase consa-pevole di queste difficoltà, ma determinato a portare a casa un risultato politico dignitoso, in grado di ridare slancio alla Unione in un momento di particolare appannamento e di lanciare un messaggio positivo a chi attende dall’Europa risposte concrete, efficaci, auto-revoli.

Oggi siamo alla prima lettura. A di-cembre, dopo il negoziato col Consiglio, ci

sarà l’approvazione definitiva. Ma la scheda che pubblichiamo accanto, dimostra che il Parlamento a larga maggioranza ha approvato un Bilancio assai soddisfacente.

Il volume complessivo delle risorse è di 115 miliardi di euro. Siamo nettamente al di sopra sia della proposta della Commissione che di quella del Consiglio.

La rubrica relativa ai Fondi Strutturali segna un incremento di 4 miliardi, che saranno preziosi perchè le autorità regionali possano attuare i loro Programmi Operativi senza creare un divario tra le somme impegnate e quelle erogate.

La rubrica relativa alle Politiche interne presenta un aumento di 190 milioni di euro, con un significativo vantaggio per le azioni rivolte a ricerca, innovazione, politiche gio-vanili, ambiente e PMI. In particolare per i giovani, i tre programmi europei SOCRATES, YOUGHT e LEONARDO beneficiano di un incremento mai ottenuto prima di ora. Abbiamo individuato alcuni Progetti Pilota ed Azioni Preparatorie di sicuro interesse, tra i quali l’estensione del Progetto ERASMUS ai giovani imprenditori e agli studenti delle scuole superiori a partire dal sedicesimo anno di età.

Sulla Rubrica relativa alle Azioni esterne abbiamo chiesto un incremento di circa 300 milioni di euro, necessari per finanziare gli in-terventi in Irak, Afghanistan e per lo Tzunami, lasciando uno spazio notevole ai programmi geografici per il Mediterraneo, l’Asia, l’America Latina, l’Africa, i Balcani.

L’Italia ha un beneficio diretto da que-ste scelte. Le regioni italiane, sia quelle dell’Obiettivo 1 che quelle dell’Obiettivo 2, sarebbero in difficoltà se non passasse la nostra proposta di aumentare di 4 miliardi il budget dei fondi strutturali. Su PMI, ri-cerca, giovani e ambiente gli aumenti da noi proposti possono interessare il sistema Italia. L’Agenzia nazionale Socrates è forte-mente interessata all’incremento del nu-mero di giovani che potranno accedere

all ’Erasmus grazie alle nostre proposte. Le nostre scuole medie superiori sono in-teressate alla estensione dell ’Erasmus . Confindustria, Api, sistema delle came-re di commercio sono interessati al lancio dell’Erasmus per i giovani imprenditori . L’Associazione cinquantanni e più al progetto enea per un maggiore protagonismo della popolazione anziana .

Il Collegio di Parma e l’ Istituto Univer-sitario di Firenze hanno ricevuto una posta finanziaria adeguata.

Nell ’ambito del Programma Meda, abbiamo approvato alcuni emendamenti per riservare una parte di fondi alla cooperazione tra le regioni della sponda sud e nord del Mediterraneo per finanziare il funzionamento dell’assemblea parlamentare euromediterranea . I cospicui finanziamenti riservati alle ini-ziative con i Paesi dell’ America latina in-teressano da vicino il nostro Paese che è storicamente un partner privilegiato per l’Italia . Con i fondi alle iniziative verso i Paesi in adesione – Romania, Bulgaria, Croazia e Tur-chia – abbiamo aperto opportunità importanti al nostro Paese, a patto che gli attori nazionali ed economico sociali ne faranno buon uso. Questi sono solo alcuni esempi, tra i più rilevanti, degli spazi che si aprono col Bilancio 2006 per l’Italia.

Ora ci aspetta la fase più delicata, quella del negoziato col Consiglio. Il Bilancio, come è noto, è codeciso da Parlamento e Consiglio. Noi lavoreremo per un accordo. Non per una intesa purchessia. Sappiamo la proverbiale avarizia degli Stati Membri. Quando si tratta di fare dichiarazioni altisonanti, i Capi di Governo sono generosi oltre misura. Quanto si tratta di mettere mano al portafoglio, molto meno. Ma qui ed ora e’ in gioco la credibilità residua dell’Europa.

Un Bilancio che consentisse solo la ordinaria amministrazione segnerebbe la fine delle speranze di rilanciare il ruolo della Unione Europea.

UNIONE EUROPEA LA SFIDA DEL BILANCIO

EUROPA

Gianni Pittella

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Mentre scriviamo non sappiamo cosa potrà accadere in conseguenza della riforma elettorale varata dal Parla-mento tra e nelle compagini politiche.

Per ora incassiamo il successo par-tecipativo di tanti cittadini alle primarie e quello personale di Romano Prodi.

La curiosità: quale sarà il program-ma oltre le promesse che racchiudono i vocaboli sfida, scommessa? E quali saranno le armi per sfidare e le poste per scommettere?

Sono tante le aree del Paese, dove problemi e situazioni irrisolti declinano in emergenze economico-sociali e dolo-rosamente umane.

Non intendiamo fare recriminazio-ni di maniera sulle latitanze, le miopie di governi lunghe sessantanni, e non scopriremmo niente che non si sappia, faremo riferimento, invece, a qualche fatto del passato, se questo ritorna at-tuale per la ricerca del percorso evoluti-vo di cambiamento che ponga al centro un tema ingombrante: l’emergenza territorio.

E’ un’emergenza questa che richie-de politiche e comportamenti del tutto nuovi per essere affrontata e proba-bilmente di difficile comprensione, se ad esempio, pensassimo a segnali di cambiamento con:

• provvedimenti fuori da convenien-ze tattiche

• decisioni di programmi fuori da politiche congiunturali;

• risposte all’emergenza-territo-

rio fuori da logiche proprie di politi-che-di-emergenza;

• esplorazione del territorio come fulcro della leva per il cambiamento.

Convinti che è nel territorio che van-no colte e interpretate le fenomenologie dello spazio/comunità, per riuscire a ca-pire quei legami che si scompongono e faticosamente a volte si ritessono, quasi con naturale disposizione del diritto a vivere nei nuovi tempi della società.

I luoghi che, però, non ce la fanno sono ormai tanti; sono quelli dove il degrado ha ammalorato la fisicità vul-nerando drammaticamente il corpo sociale. Mentre non ci sono legami da ritessere perché l’emergenza è esclu-sione.

Basta davvero disporre soltanto di pacchetti di risorse?

Lo escludiamo. E non perché anche in questi casi emblematici di emergenza non ci sia bisogno di infrastrutture, di servizi, di case, di attrezzature eccellen-ti, ma perchè lo spazio fisico ha esibito il conto per l’uso scriteriato che se n’è fatto. E il grosso del saldo riguarda la ri-costruzione della dimensione umana e sociale dei luoghi che l’hanno perduta.

Un percorso complesso e difficile, da costruirsi in continua coniugazione di concretizzazioni quotidiane e di seg-menti del progetto-territorio di medio o più lungo periodo, che gradualmente facciano nuova comunità.

Ci sono pratiche sperimentali,

frequentate da tempo nei Paesi eu-ropei (non ancora molti, ma lodevoli gli esempi nel nostro) che sul campo consentono di verificare l’efficacia dei programmi e delle azioni attivati, e ad un tempo di valutare in itinere la forma-zione degli equilibri parziali ingenerati e ingenerabili.

La compagine politica riformista che si candida alla responsabilità pub-blica del Paese dovrà promuovere da subito confronti allargati e ascolti su nuove idee e fatti, costruire gli stru-menti per una politica responsabile, efficace, che non sia costretta da tatti-cismi e da incassi di consensi, che non sia contaminata da compromessi nelle impostazioni, e, solo dopo il più largo confronto democratico, lo scambio diventa valore plurale. Perchè a quel punto non ci sarà più un si o un no alle scelte che contano, ma la decisione per la costruzione partecipata e condivisa del progetto-Paese.

Oggi a dirsi riformisti sono in tanti.

Ma non sappiamo come intendere il riformismo-per-il-territorio,

Intanto, perché – da un lato – c’è tutto un fronte politico-amministra-tivo-progettuale che si autodefinisce riformista, ma che nel concreto rimane più incline alla conservazione che al cambiamento per un agire sul territorio adeguato alle esigenze della contem-poraneità: programmazioni e progetti rigidi, ingabbiati in regole (molte) che

QUALI SONO I CONTENUTI DI UN PROGRAMMA RIFORMISTA PER IL TERRITORIO?

Eirene Sbriziolo

TERRITORIO

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omologano identità di luoghi, di si-tuazioni, di problemi che omologabili non sono.

Cartine di tornasole sono quelle programmazioni di trasformazioni territoriali ed urbane del governo cen-trale e di istituzioni locali, che non si aspetti svincolano da logiche prevalen-temente ordinamentali, ingombranti, di freno agli stessi obiettivi individuati in forza di leggi emanate, anche se per più criticate, proprio per intercettare bisogni, attese progetti di sviluppo delle società.

Dall’ altro lato, c’è l’altro fronte riformista, quello che ha cominciato a costruire faticosamente un percorso differente.

Che è partito dai quei c.d. program-mi complessi, anzi li ha ispirati, e li ha intesi (e qui sta il nuovo) anche come opportunità di verifica dei metodi ormai del tutto inadeguati di tradizione per gli assetti territoriali ed urbani, e tuttavia ancora molto frequentati dalle istituzio-ni, e difesi da burocrazie amministrative e da operatori di materia,

Questo riformismo praticante sta af-finando metodiche nuove per interpre-tare l’efficacia di modelli europei nelle situazioni nostrane (appena descritte) politico-amministrative-professionali, refrattarie ad una cultura per la ter-ritorialità che sia fuori da razionalità prescrittive per piani generali, locali di settore.

Ci saranno novità nel programma di Romano Prodi?

Già nel 1996 molti di noi si fidarono dell’Ulivo, di Romano Prodi per una responsabile attenzione alla questio-ne – territorio.

Rimanendo delusi perché nel pro-gramma il territorio non c’era.

Ne scrivemmo a caldo. Leonardo Benevolo fu il primo col suo libello L’Italia da costruire (marzo 1996) a ricordare che:

Una delle cose da cambiare, nel nostro Paese, è la pianificazione del-le città e del territorio. Il paesaggio delle grandi città, dei centri minori, delle campagne, delle coste, fotografa le storture di questo mezzo secolo di democrazia imperfetta. La distanza che ci separa dall’Europa e l’entità dei cambiamenti da introdurre nelle isti-tuzioni e nei comportamenti…

Nel programma del 1996 il terri-torio identificò un contenitore di lo-calizzazione di risorse piuttosto che la questione centrale emergente: le linee programmatiche furono di natura giuri-dica, economica, sociale, di funzionalità settoriali. Certo non furono tralasciati obiettivi di risanamento ambientale, di tutela di valori naturali per la qualità della vita urbana, troppo generici e privi di indicazione di scelte per andare oltre l’elenco degli obiettivi stessi.

Oggi, leggiamo i lineamenti di sintesi del Progetto per l’Italia, destinato agli elettori delle consultazioni primarie con cui Romano Prodi indica le priorità pro-grammatiche. Ma la questione territorio si presenta ancora come trama e non come struttura portante per le politiche di cui ai termini del trinomio nuova economia-nuova società-nuova qualità ambientale:ancora un ruolo ancillare?

E bisognerà capire come: l’Unione assume la sfida ambientale come oc-casione per la tutela e la conservazione del territorio e delle risorse naturali a partire dall’agricoltura e come oppor-tunità d’ innovazione produttiva, di uso razionale dell’energia, di valorizza-zione del territorio, di riqualificazione urbana, di espansione dei servizi. Le politiche infrastrutturali e della logi-stica dovranno essere individuate in un quadro di programmazione e con mec-canismi di decisione e finanziamenti partecipati, efficienti e certi

E poi…Il Mezzogiorno è la vera sfida eco-

nomica, sociale e culturale dei prossimi anni. L’Unione s’ impegna per politiche di riequilibrio economico, occupazio-nale, di coesione sociale. Una nuova stagione della legalità, condizione es-senziale per il rilancio del Mezzogiorno e per la tutela e la valorizzazione del territorio.

Intanto, nel numero precedente di questa Rivista opportunamente Paola De Vivo riporta dal Rapporto SVIMEZ 2005 il titolo posto al XIV cap, per la voce Assetto del Territorio: La qualità del territorio come condizione per lo sviluppo. Poi c’è scritto: Tra i fattori che concorrono al permanere di un complessivo ritardo del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese il territorio va assumendo un ruolo sempre più di primo piano sia per quanto riguarda

la qualità della vita civile, sia con rife-rimento al supporto che si è in grado di fornire al dispiegarsi delle attività produttive.

Si avverte l’esigenza di una sede per dare sistematicità ad un’ informazione e a una riflessione allargata su alcuni temi topici del fare territorialità. Per far crescere conoscenze e competenze anche fuori dalla sfera degli adepti, per veicolare quelle logiche che debbono le-gare problematiche territoriali e poteri di decisione pubblica,

Romano Prodi, nel febbraio scorso, inaugurando la Fabbrica del program-ma, disse. Lavoreremo sulla conoscen-za dei problemi e delle soluzioni, non per un programma predeterminato, ma avendo davanti un lunghissimo pe-riodo di riflessioni e di ascolti. Tutto il materiale raccolto sarà strumento utile per la definizione del programma.

L’esito delle primarie ha testimo-niato della voglia di partecipazione dei cittadini, e le elaborazioni del materiale raccolto – se non rimarrà appannaggio di laboratori di pluriscienza – potrebbe, attraverso modalità da approfondire (e comparate con risultati positivi che si stanno ottenendo in più aree del Paese) costituire occasione sperimentale di ascolto-partecipazione.

Sarà un lavoro difficile, impopolare perché non si potrà promettere tan-to-e-subito se l’impegno è la costruzio-ne di nuova economia, nuova qualità ambientale, nuova società: i tempi non possono essere proprio brevi.

Nello stesso tempo bisogna de-costruire un convincimento che ha prevalso per decenni nel Paese e parti-colarmente nel Mezzogiorno (complici soggetti politici trasversalmente uniti): fin che c’è emergenza i programmi e i piani per il territorio non servono.

Riteniamo perciò che un governo riformista debba scontare anche una terapia d’urto per affermare la nuova governance di cui l’Italia ha bisogno: una cosa è garantire la soddisfazione di livelli essenziali di servizi a comunità, tanto trascurate da smarrire il senso di cittadinanza, altra cosa è rinunciare al progetto del futuro territorio (ancora davvero in molti lo ritengono inutile, ma meglio leggere scomodo).

E invece, è la nostra riflessione, il recupero delle situazioni sofferenti del

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locale farebbe riemergere rapporti af-fettivi con i propri habitat, che non più mortificati da percepita o reale perdita di pari dignità, si ritroverebbero in una logica di orizzontalità che poi darebbe vero e nuovo senso al progetto-futuro del territorio, che tanto sarà utile ed efficace quanto riuscirà a legare sogget-tività (individuali) locali a espressioni allargate di nuova comunità.

Intanto, si sono perdute occasioni: delle novità introdotte dalle nuove programmazioni attivate (d’interventi integrati, complesse, negoziate che fos-sero) in molti luoghi del Mezzogiorno non ce ne siamo accorti: la ragione è che il territorio organizzato come spa-zio fisico unitario non c’era e ha preval-so la condizione di frammentazione.

Le azioni locali sono risultate re-plicanti delle politiche redistributive e assistenziali, quelle oggetto di critiche da manuale nelle fasi di industrializ-zazione per la crescita economica del Mezzogiorno.

I patti territoriali quando hanno fallito, dove hanno fallito è stato perchè il progetto/territorio non c’era.

I programmi complessi, fiore al-l’occhiello di una pianificazione rifor-mista, come ricordato in precedenza, non sono riusciti a disegnare una geo-grafia di rete.

A fare da riferimento territoriale al programma complesso non c’era un piano direttore di assetto d’area, bensì un disordinato accumulo di varianti ai piani locali, e si sono mescolate le tessere del già disastrato e precario mosaico dei comuni, soprattutto nel Sud.

La biografia dei luoghi è imparzia-

le: non narra soltanto di irresponsa-bilità incompetenze, prevaricazioni politico-amministrative, ma registra comportamenti arroganti di troppi cittadini che del territorio hanno fatto un vero uso personale, delle incertez-ze politico amministrative tesoro, dei varchi lasciati incustoditi (da leggi, controlli) le vie per l’assalto.

E perché non si dica di un atteggia-mento censorio il nostro mettiamoci le nostre responsabilità professionali, accademiche, di componenti di isti-tuti e di associazione culturali…per ritardi accumulati nella formazione di strumenti e di metodiche innovativi per il territori. Di quelli che oltre a consentire di risolvere annosi proble-mi ci avrebbero avvicinati all’Europa delle città.

Quanto hanno influenzato la classe politica – storicamente distaccata da queste tematiche – le rigide costru-zioni disciplinari e ideologiche e la chiusura oppositiva ad ogni proposta innovativa alternativa per fare nuova qualità urbana e territoriale?

Quanto hanno ostacolato diatribe criptiche la sistematicità di una rifles-sione allargata, e davvero inclusiva della rete sociale?

Chi non ricorda le remore per prati-care l’approccio sperimentale sul cam-po contrastato e ironizzato con quel pianificar facendo, perché avrebbe contaminato con il progetto la rigida cultura del piano?

Ma ad altro non mirava quest’ ap-proccio che a sperimentare appunto sul campo, la validità teorizzata di dar luogo a sistemi di relazioni tra luoghi attraverso interventi a loro volta ge-

neratori di occasioni per creare nuova comunità, occasioni impensabili con la astratta e geometrica concezione del piano di tradizione.

Eppure, se novità ci sono state negli ultimi dieci anni per effetto di legislazioni nazionali – queste sono andate nella direzione di pratiche di integrazioni spaziali (situazioni e con-testi): dai piani integrati di recupero urbano …alle pianificazioni negoziate, ai programmi complessi, così aderendo alle direttive europee.

Il nodo dei fallimenti in tanti luo-ghi di queste programmazioni sta nel fatto che queste legislazioni hanno implicato il territorio, ma non sono partite dal territorio: non sono stru-menti nati per innovare nelle politiche per il territorio, sono nate per finalità di natura economico-occupazionali, congiunturale.

In conclusione scorciatoie illusorie che non hanno accorciato i tempi ope-rativi: problemi, situazioni e ragioni del territorio l’hanno impedito.

Rimane un disagio civile più che culturale in chi ha vissuto questo lungo travaglio della questione urbanistica come fenomenologia carsica: compare e scompare.

Altro che Rotterdam o Londra degli anni quaranta del secolo scorso.

La Rotterdam che fu bombardata il 14 giugno 1940 e quattro giorni dopo il 18 giugno la Municipalità conferì l’in-carico di redigere il progetto per il fu-turo della Città. La Londra che proget-tava il nuovo piano della Città durante gli attacchi degli aerei tedeschi.

Da noi, l’esigenza di dover rifor-mare la legge urbanistica del 1942, si

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presentò subito dopo la guerra, era il 1946, solo oggi, nel 2005, ha avuto per quanto imperfetta una risposta.

La Camera dei Deputati ha ap-provato il ventotto giugno scorso il Disegno di legge sul governo del terri-torio: un testo snello che in 15 articoli le tematiche attuali del territorio le affronta e, per oggettività, è un buon esito possibile per questa fase parla-mentare.

Le contraddizioni ci sono, e sono figlie di un eccesso di trasversalità: la stesura ha coinvolto tutti i componenti della Commissione Ambiente Territo-rio della Camera dei Deputati, da AN a Rifondazione.

Non sappiamo come sarebbe stata se ad elaborarla fossero state le sole espressioni dell’attuale maggioranza politica, né sappiamo come e se il Se-nato l’approverà, quello che ci sembra è che più indicazioni entreranno in conflitto con molte di quelle messe in atto dalle regioni.

Allora la legge per il governo del territorio è un tema fondamentale del programma riformista, e la nuova legi-slatura parlamentare nazionale dovrà impostare anche un percorso parteci-pativo tra le formulazioni nazionale e regionali.

Quando si dice voltare pagina, per la questione del territorio mi disorien-to, perché non so cosa si scriverà sulla nuova pagina. E come la scriverebbe una forza di nuovo riformismo, se si collocherà dentro le evoluzioni e le contraddizioni del nostro tempo senza cedere a letture ideologiche della realtà o a nuovi manierismi di materia.

La pagina bianca del primo Par-lamento repubblicano fu scritta con l’ansia di ricostruire un Paese sangui-nante, arrovellata sul cosa fare prima e meglio, cosa con più urgenza, dove senza discriminare.

Ma voltata pagina con le elezio-ni del 1948 ci fu un’altra scrittura, e Adriano Olivetti reagì subito per il massiccio distacco tra Cultura e Stato, tra Governo e Paese…

Con il primo governo di centro sini-stra quella pagina fu riscritta e si lesse di riforme globali per il territorio, di concretizzazioni settoriali intelligenti, ma nei fatti le contraddizioni prevalse-ro sulle intenzioni: le politiche settoria-

li si appannarono e l’intelligenza delle concretizzazioni industriali consegnò in generale cattedrali nel deserto.

Gli insediamenti residenziali viag-giarono su un doppio binario: in tante aree del Paese dove una cultura politica sensibile e competente era riuscita a conservare a ri-creare o a creare con-dizioni relazionali tra urbanità con-solidata e nuove realtà insediative gli esempi sono stati esemplari.

In altre aree del Paese hanno resti-tuito le Secondigliano .

Diverso anche il comportamento che, da un lato, portò alle severe misure di condanna per la frana di Agrigento e, da un altro, al cedimento di conces-sione del regime di moratoria nella legge urbanistica c.d. Ponte. E non fu senza conseguenze soprattutto nel Mezzogiorno.

Negli anni settanta la pagina si scri-ve e si riscrive: sono nate le Regioni e il territorio trova attenzioni di nuovo segno, ma l’attenzione non è rivolta ai suoi problemi. Ad assillare sono le aspettative, anche individuali, di come saranno ridisegnate le competenze tra Stati e regioni dopo la nascita delle Regioni.

Sono in gioco convinzioni ideolo-giche e appartenenze amministrative e non sfuggono posizioni sodali tra

politici e burocrati in difesa di poteri e competenze.

Perciò la legislazione degli anni settanta di materia restituisce commi-stioni imperfette tra indicazioni di vera riforma e anacronistici arroccamenti: hanno dato luogo a conflittualità tra istituzioni centrali e locali, tra sedi e soggetti di competenza …a sovrapposi-zioni di scelte e di decisioni impedendo nei fatti la riconduzione a logiche di unitarietà gli assetti economici-socia-li-territoriali e indebolendo le garanzie dell’efficacia e dell’utilità dei program-mi e delle azioni indicate.

Dal fascino della deregulation degli anni ottanta e, di seguito, dagli eventi di notevole impatto vissuti dal Paese agli inizi degli anni novanta cambiano ambiguamente le logiche per la com-prensione della questione territorio.

E le pagine scritte negli anni Ottan-ta-Novanta sono state tanto ricche di misure, provvedimenti legislativi, nuove forme del fare politiche sul territorio da far dimenticare il problema-emergen-za-territorio aggravato ulteriormente per un ricorso a terapie improprie.

Misure congiunturali e condoni edilizi; nuove leggi settoriali che hanno incrementato la frammentazione delle competenze e favorito sovrapposizioni e conflittualità operative (piani paesi-stici, dei parchi, di bacino), forme di istituzioni e aggregazioni economiche nuove (per esemplificare: la program-mazione negoziata) non potevano bilan-ciare eventi di notevole impatto quali il Paese stava vivendo: hanno fatto del territorio un serbatoio, ormai al limite del troppo pieno.

Direttive e modelli europei sono stati svisati perché questi oltre a garan-tire uno sviluppo per grandi concen-trazioni programmatiche e operative pongono obiettivi di coesione econo-mico sociali per i deboli.

Negli anni 2000 non è stata scritta una pagina, è stato stilato un con-tratto.

L’emergenza – territorio non è una rappresentazione mentale, astratta: è il problema, è il progetto politico, è l’impegno per un cambiamento civile prima ancora che di modernità delle condizioni di ormai tante realtà urbane e territoriali: il nuovo riformismo deve partire anche da qui.

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STRALC

IGIORGIO NAPOLITANO

Dal Pcial socialismo

europeoUn’autobiografia politica

Editori Laterza

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INDICE DEL VOLUMEPremessa VII

1942-1953. L’incontro con la politica, le prime esperienze nel Pci – Un semestre a Pa-dova, p. 3 – L’incontro col gruppo napoletano, p. 5 – Una conoscenza singolare: Curzio Ma-laparte, p. 9 – Mario Alicata e l’inizio della collaborazione col partito, p. 11 – Mio padre, p. 14 – Dal V Congresso del Pci al mio primo lavoro politico, p. 17 – Funzionario del Pci, tra gli operai napoletani, p. 22 – Il movimento dei Consigli di gestione; il Piano del lavoro della Cgil, p. 24 – Il peso dell’ideologia e le ricadute della «scelta di campo», p. 28 – Segretario della Federazione di Caserta, p. 31.

1953-1962. In Parlamento e nel Meridione in un’Italia che cambia – Dagli «shock» del ’48 allo sbocco del ’53, p. 34 – Apprendistato parlamentare. Prove di dialogo tra opposizione e maggioranza, p. 36 – Il trauma dell’autun-no 1956. Le radici della posizione del Pci, p. 39 – Continua il confronto in Parlamento, p. 43 – Un curioso episodio di lotta politica nel Pci, p. 45 – Tensioni tra Psi e Pci, e Movimento per la rinascita del Mezzogiorno, p. 46 – Piena im-mersione nella realtà meridionale, p. 48 – L’ini-ziativa per lo stabilimento siderurgico a Taranto, p. 50 – Il ruolo del Pci in un grande processo storico, p. 52 – Il maturare dell’«apertura a si-nistra», p. 53 – «Lavoro di massa» e rapporti con la Cgil, p. 55 – La prima prova di gover-no del centro-sinistra, p. 56 – L’impatto sul Pci del XXII Congresso del Pcus, p. 59 – Missione a Mosca, p. 61 – Ritorno a Napoli, p. 62 1963-1968. Involuzione del centro-sinistra, contrasti nel Pci, dissenso dell’Urss sulla Cecoslovacchia 64 Preparando a Napoli le elezioni del 1963, p. 64 – Due linee nel Pci verso il centro-sinistra, p. 65 – Il balzo in avanti del Pci. Un solco tra i militanti di Pci e Psi, p. 66 – Il declino del centro-sinistra, p. 67 – Il dramma della sinistra, p. 68 – Incontri con Togliatti, p. 69 – L’ultimo Togliatti, p. 72 – Longo segretario. Amendola e la polemica sul «partito unico», p. 75 – L’ele-zione di Saragat a Presidente della Repubblica, p. 77 – Dibattito aperto in preparazione dell’XI Congresso del Pci, p. 78 – La riorganizzazio-ne del vertice del partito, p. 80 – La repentina scomparsa di tre forti personalità, p. 82 – La nascita della Sinistra indipendente, p. 83 – La «rosa» per la successione proposta da Longo, p. 85 – La primavera di Praga e la riformabilità del comunismo, p. 86 – L’invasione sovietica: il «grave dissenso» del Pci, p. 87 – Il malore di Longo. La scelta del vicesegretario, p. 88.

1968-1975. Dopo il Sessantotto: la politica culturale del Pci Una relazione e discussione sul movimento studentesco, p. 91 – La conferenza nazionale del Pci sulla scuola, p. 93 – Il «lavo-ro culturale », p. 95 – L’amicizia con Ranuccio Bianchi Bandinelli, p. 96 – L’impegno di Erne-sto Ragionieri, p. 98 – Squarci di verità sulla «storia segreta» del Pci, p. 101 – Il convegno su «Il marxismo degli anni ’60», p. 103 – Badalo-ni, Luporini e la questione del «Manifesto», p. 104 – Fermenti e iniziative nel mondo musica-le, p. 106 – Le «Giornate del cinema italiano», p. 107 – L’incontro con Pier Paolo Pasolini, p.

108 – Dopo il dissenso sulla Cecoslovacchia, p. 109 – L’atteggiamento del Pci verso i paesi socialisti dell’Est europeo, p. 112 – Gli svi-luppi del movimento sindacale dopo il 1968. L’«autunno caldo», p. 114 – Una crisi politica di fondo, p. 116 – L’identità del Pci e l’idea di rivoluzione, p. 117 – L’«illusione rivoluziona-ria» del biennio 1968-1969, p. 119 – Di fronte alla strategia della tensione: antifascismo e arco costituzionale, p. 120 – Gli articoli di Berlin-guer sul Cile, p. 121 – La situazione politica si rimette in movimento, p. 122.

1976-1979. La prova della «solidarietà de-mocratica» 124 La legge e il referendum sul divorzio, p. 125 – Lo storico risultato del 1976. Un partito «cresciuto nell’errore»?, p. 126 – La strada dei rapporti col socialismo europeo, p. 127 – Il ruolo di opposizione del Pci, p. 129 – La crisi italiana, p. 131 – Un concreto compromes-so politico: il «governo della non sfiducia», p. 133 – Cade la preclusione anticomunista. Inizia una prova di governo, p. 134 – Per «un nuovo tipo di sviluppo». Sacrifici e contropar-tite, p. 136 – Dall’accordo programmatico alla crisi del gennaio 1978, p. 137 – L’attacco delle Brigate Rosse, p. 140 – La fermezza del Pci di fronte al terrorismo di sinistra, p. 142 – Inizia la fine della solidarietà democratica. Uno dei «periodi meno infelici» dell’Italia repubbli-cana, p. 143 – I rapporti del Pci con la classe operaia, p. 145 – Convergenze e tensioni con i sindacati, p. 147 – Il «compromesso storico»: reazioni del Psi, difficoltà di fondo con la Dc, p. 150 – Un fatale intreccio, p. 152 – La proposta dell’«alternativa socialista». Il Pci privo di una strategia, p. 154 – I frutti e gli stimoli dell’espe-rienza 1976-1979, p. 155.

1979-1984. Gli ultimi anni di Berlinguer: «diversità» e isolamento del Pci Il discorso di Genova: annuncio di una ritirata, p. 161 – Una correzione di rotta da cui non nasceva una pro-spettiva politica, p. 163 – L’intervista a Scalfari del 28 luglio 1981, p. 166 – Il mio intervento sull’«Unità» del 21 agosto, p. 167 – Emerge un orientamento e raggruppamento critico nel Pci, p. 169 – Lo spartiacque dell’anticapitalismo, p. 172 – I rapporti con i sovietici: «l’oro di Mo-sca», p. 173 – L’invasione dell’Afghanistan e l’estrema posizione di Amendola, p. 174 – Ra-dicalizzazioni e oscillazioni nella linea del Pci, p. 175 – L’«ossessione» dell’unità a sinistra, p. 178 – Il «colpo» militare in Polonia, p. 179 – Lo «strappo» con l’Urss. Ma con una contraddizio-ne di fondo, p. 181 – Un dibattito a Torino con Norberto Bobbio, p. 183 – Per un «governo di-verso» in Italia, p. 186 – Il Congresso di Mila-no (1983): verso l’alternanza?, p. 187 – Il tema delle riforme istituzionali. Avvicinamento tra Pci e Psi, p. 190 – Opposizione per l’alternativa, p. 192 – Craxi assume la presidenza del Consi-glio. Nuova contrapposizione tra i due partiti, p. 194 – Il lungo scontro sul decreto per la scala mobile, p. 195 – Lotta a oltranza in un clima parossistico, p. 197 – L’annuncio del ricorso al referendum, p. 199 – Un penoso epilogo politi-co. La morte di Berlinguer, p. 200 1984-1989. Il lento cammino del Pci in anni di stagnazione istituzionale 204 Natta segretario: continuità e novità, p. 205 – L’impegno in Parlamento: l’op-posizione al governo Craxi, p. 207 Ancora sulla «questione morale», p. 208 – Confronti, ma sen-

za risultati, sulle riforme istituzionali, p. 210 – I rapporti a sinistra, p. 212 – Il dialogo con la Spd. «Due lettere d’amore», p. 215 – Un pigro continuismo nel governo del paese, p. 218 – Il Congresso di Firenze (1986), p. 220 – Respon-sabile della politica estera del Pci, p. 221 – Nel-l’Assemblea Nato, p. 223 – Missione in Israele, p. 225 – Gorbaciov segretario del Pcus. Incon-tri a Mosca, p. 226 – Libertà per Dubcˇek, p. 229 – Nuove relazioni con i partiti dell’Inter-nazionale socialista, p. 230 – Un impegno di revisione e di ricerca, p. 232 – Il contrasto su Occhetto vicesegretario, p. 234 – Il Congresso di Roma (1989), p. 235 – «Un nuovo Pci» o cambiare nome e partito?, p. 237 – Il crollo dei regimi comunisti, p. 238.

1989-1992. La contrastata nascita del Pds L’incontro del 9 novembre 1989 con Willy Brandt, p. 244 – L’annuncio della svolta. «La ‘cosa’ che vogliamo», p. 247 – Il documento dell’area riformista per il Congresso di Rimi-ni, p. 250 – Confronto sulla politica estera, p. 251 – La scissione di Rifondazione comunista, p. 253 – Il rapporto con l’esperienza del Pci, p. 254 – Il rifiuto di «entrare» nella tradizione del socialismo democratico, p. 256 – L’atteggia-mento di Craxi verso il Pds, p. 259 – Attacco all’area riformista, p. 261 – Il voto del 5 aprile 1992, p. 263 – La fine dell’Urss, p. 264 – Storia di un riformista sconfitto, p. 267 1992-1998. Da Montecitorio al Viminale 270 Presidente della Camera, p. 272 – Centinaia di domande di au-torizzazione a procedere, p. 274 – Un sentiero stretto e difficile. Il suicidio di Sergio Moroni, p. 275 – Contro la tesi del «Parlamento delegit-timato », p. 277 – Il «caso Craxi», p. 278 – Di-missioni di Amato e designazione di Ciampi, p. 280 – Riforme elettorali e riforma costituziona-le, p. 282 – Sull’orlo di una crisi finanziaria, p. 284 – Una transizione incompiuta, p. 285 – La morte di Gerardo Chiaromonte, p. 288 – Dal-la sconfitta del 1994 alla nascita dell’Ulivo, p. 289 – Dopo cinquant’anni la sinistra al Vimina-le, p. 291 – Nuove responsabilità per i prefetti, p. 293 – Crimine organizzato e micro-crimi-nalità, p. 295 – Ruolo delle amministrazioni locali e indirizzi della politica di sicurezza, p. 297 – L’agitazione secessionista della Lega nord, p. 298 – La prima legge organica sul-l’immigrazione, p. 300 – Dimensione europea e visione globale dei problemi della sicurezza, p. 302 – Dalla caduta del governo Prodi all’in-carico a D’Alema, p. 304.

1999-2004. L’approdo europeo Ciampi Pre-sidente, p. 306 – L’Europa, l’Occidente, la Co-munità, p. 308 – Confini e valori della «piccola Europa», p. 310 – L’europeismo del Pci: una radicale rottura col passato, p. 312 – Altiero Spinelli e i comunisti italiani, p. 313 – I conti col comunismo reale, p. 315 – La lezione di Thomas Mann, p. 316 – La mistificazione e il mito del «socialismo diventato realtà», p. 319 – L’«utopia capovolta», p. 320 – L’ideale di una federazione europea, p. 322 – Jacques Delors e i rischi di deriva dell’integrazione europea, p. 324 – Convergenze e distinzioni tra le forze europeistiche, p. 326 – I punti di riferimento della mia generazione, p. 327 – Il rapporto con la cultura liberale, p. 327 – Come coltivare la memoria storica, p. 329 – Un bilan-cio personale, p. 330.

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1999-2004 L’approdo europeoDopo aver lasciato il campo della politica italiana,

fui chiamato da Walter Veltroni – che aveva scelto anche lui di restare fuori del governo dopo la caduta di Prodi ed era succeduto a D’Alema come segretario del Pds – a seguire la politica europea. Mi occupai per alcuni mesi della preparazione delle elezioni del giugno 1999 per il Parlamento europeo: e me ne occupai partecipando anche, a Bruxelles, alle discussioni in seno al Partito dei socialisti europei sulle linee di un programma elettorale comune. Fui quindi candidato come capolista dei Ds nella circoscrizione dell’Italia meridionale, accogliendo la convinta sollecitazione di Veltroni, che mi dimostrò sempre stima e simpatia. Ciampi Presidente.

Ciampi PresidentePrima che si giungesse alle elezioni europee, si

pose – alla scadenza del settennato di Oscar Luigi Scalfaro – il problema della scelta del nuovo Presidente della Repubblica. Sostenni con molta determinazione, nei contatti col segretario dei Ds e col presidente del Consi-glio e in qualche occasione di confronto anche con altre componenti del centro-sinistra, la proposta di candidare Carlo Azeglio Ciampi.

Pensavo che non si potesse affrontare un problema di quel rilievo istituzionale sulla base di «patti» o di calcoli di convenienza nei rapporti tra i partiti della maggioranza di centro-sinistra, ma che dovesse prevalere su ogni altro criterio la considerazione della qualità della persona, della sua idoneità a rappresentare l’intero paese, a dare voce all’Italia in Europa, a sostenere i principi e gli equilibri costituzionali. E Ciampi aveva queste caratteristiche, per non essere uomo di una parte sola, per aver acquisito come nessun altro stima e prestigio negli ambienti po-litici e di governo dell’Unione europea, per essersi fatto apprezzare da autorità di governo e monetarie nelle istituzioni finanziarie internazionali. E da presidente del Consiglio aveva dato la misura della sua sensibilità democratica e del suo rispetto per il Parlamento.

Fu una fortuna per l’Italia che sul suo nome si rag-giungesse l’accordo, si esprimesse il consenso anche dell’opposizione di centro-destra. A conclusione di un’intensa campagna in tutte le regioni del Mezzogiorno continentale, fui eletto deputato al Parlamento europeo

con una consistente quota di voti di preferenza. Mi ac-cinsi con grande slancio al nuovo compito, per assolverlo a tempo pieno, senza dover rispondere di alcun’altra re-sponsabilità in Italia: a differenza del mio primo mandato a Strasburgo, quando fui eletto deputato europeo nel 1989. Avevo fatto allora parte del Parlamento europeo per tre anni, ma essendo anche deputato nazionale e diri-gente responsabile della politica estera del Pci. In pratica, avevo dovuto limitarmi a partecipare quasi soltanto alle sessioni plenarie che si tenevano ogni mese a Strasburgo (e diedi le dimissioni nel 1992 dopo essere stato eletto presidente della Camera dei deputati in Italia). Nel ’99 mi resi subito disponibile per un incarico fortemente impegnativo, quello di presidente di una Commissione: e il gruppo socialista europeo, presieduto dal vecchio amico Enrique Barón, richiese per me, nel negoziato con gli altri gruppi parlamentari, e ottenne, la presidenza della Commissione Affari costituzionali. La tenni per cinque anni, perché a metà legislatura fui confermato in quella funzione grazie a un generale apprezzamento per la prova data.

Mi dedicai senza risparmio di energie alla direzione della Commissione – la cui importanza si accrebbe come non mai in quel quinquennio che vide lo storico obbiet-tivo di una Costituzione europea prendere corpo – e più in generale all’attività del Parlamento nonché del gruppo politico di cui facevo parte. E nello stesso tempo sentii di dover compiere – almeno nell’area napoletana – il massi-mo sforzo possibile per informare e coinvolgere elettori, cittadini, rappresentanti della società civile nel dibattito sui temi della costruzione europea. Promossi quindi, subi- to dopo la mia elezione nel 1999, la costituzione di un’associazione, Mezzogiorno-Europa, che ha negli anni successivi indetto frequenti iniziative e pubblicato una bella rivista. E in questo modesto, accanito tentativo, ho potuto contare sulla generosità e sul talento di Andrea Geremicca, amico e compagno di tempi antichi, già dina-mico Assessore della Giunta Valenzi al Comune di Napoli ed eccellente parlamentare. Avrei molto da raccontare, naturalmente, del mio lavoro tra Bruxelles e Strasburgo, e della vicenda di quel periodo. Ma sia perché si tratta di storia assai recente, sia perché ho già consegnato a un breve libro, Europa politica, una documentazione essen-ziale dell’apporto da me dato a quella legislatura europea

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1999-2004, darò un diverso carattere a quest’ultimo capi-tolo delle mie rievocazioni autobiografiche. Svilupperò cioè una riflessione più distaccata sul significato che ha assunto la scelta europeistica come approdo della mia complessiva esperienza politica e istituzionale.

L’Europa, l’Occidente, la ComunitàIl senso di un orizzonte europeo non era mancato

nella strategia nazionale e nell’azione internazionale del Pci, nel corso degli anni ’50 e ’60. Ma la scelta che venne a lungo elusa fu quella dell’identificazione con l’Europa comunitaria, col processo di integrazione concepito e avviato a partire dalla storica Dichiarazione del ministro degli Affari esteri francese Robert Schuman, resa pub-blica il 9 maggio 1950. L’internazionalismo socialista, o «proletario », che rappresentava uno dei tratti costitutivi dell’ideologia e della politica dei partiti comunisti, non contemplava uno specifico quadro di riferimento euro-peo. Esso rappresentava certamente un drastico antidoto contro qualsiasi tentazione nazionalistica, ma implicava solidarietà di classe e rivoluzionaria e alludeva all’av-vento di un mondo liberato dal capitalismo, unificato dal socialismo. L’humus in cui il comunismo italiano affondava le sue radici era quello della grande cultura moderna europea, e non del solo pensiero di Marx; ma ciò non lo conduceva a riconoscersi pienamente nella tradizione ideale e politica, istituzionale e sociale dell’Eu-ropa occidentale. L’Occidente come luogo del capitalismo sviluppato era stato evocato da Lenin per indicare con accenti drammatici, nei primi mesi del 1918, le difficoltà della rivoluzione in Russia: «Siamo più indietro del più arretrato degli Stati dell’Europa occidentale». E Lenin si riferiva non solo al grado di sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, ma al fatto che in quei paesi il capitalismo avesse «dato, fino all’ultimo uomo, una cultura e un metodo di organizzazione democratica». Ma questa analisi, che esaltava l’importanza decisiva – e tradiva l’angosciosa attesa – dell’estensione del moto rivoluzionario all’Occidente, era pur sempre parte di una strategia rivolta al fine di creare dovunque «una società comunista » (e per rendere evidente e inequivoco questo fine, si abbandonò la denominazione di Partito operaio socialdemocratico della Russia per quella di «Partito comunista [bolscevico] della Russia»).

Gramsci era andato ben oltre nella sua riflessione teorica, valorizzando come dato essenziale quello della distinzione tra Occidente e Oriente sotto il profilo del rapporto tra società civile e Stato. E il Pci di Togliatti aveva fatto di una certa interpretazione del leninismo e di una piena assunzione dell’eredità gramsciana gli elementi distintivi del suo bagaglio ideologico. Ma esso restò lontano per lungo tempo, anche dopo Togliatti, dal riconoscimento dell’Occidente come luogo della democrazia, si trattasse di quella parte dell’Europa che dopo la seconda guerra mondiale restò fuori della zona d’influenza sovietica, o si trattasse degli Stati Uniti d’America. Tenevano il Pci lontano da tale riconosci-mento sia la fedeltà alla sua matrice rivoluzionaria sia la

«scelta di campo» dalla parte dell’Unione Sovietica contro il campo imperialistico identificato con l’Occidente. To-gliatti, anche quando – dopo il XX Congresso del partito sovietico – giunse a sostenere che si potesse «mettere fine in parte e in gran parte al carattere illusorio della democrazia borghese», affermò – senza chiarire il senso di questa sua affermazione – che «gli istituti democratici dell’Occidente non sono il punto di arrivo della storia». Fu così che dal Pci non venne compresa, ma piuttosto svalutata e negata la storica novità dell’«invenzione comunitaria» contenuta nella Dichiarazione Schuman del 1950, dell’aggregazione – grazie all’adesione della Germania, dell’Italia e del Benelux – di un gruppo di Stati europei decisi a procedere verso forme di gra- duale integrazione tra loro. Fu ignorata l’elaborazione sapiente e lungimirante di Jean Monnet, il grande ispiratore della Dichiarazione Schuman. Fu osteggiata la creazione nel 1952 della Comunità del carbone e dell’acciaio, prima tap-pa del processo d’integrazione. Quelle posizioni furono proprie sia del Pci sia del Psi, cioè dell’intera sinistra di opposizione, che già nei dibattiti parlamentari del 1948 e del 1950 denunciò nella scelta europeistica il riflesso di una strategia americana di divisione dell’Europa, in fun-zione antisovietica, e di consolidamento del capitalismo. Il federalismo europeo fu visto come un mito dietro il quale si nascondeva l’adesione del governo guidato dalla Dc al disegno dell’imperialismo americano. Togliatti, nel dibat-tito di fine 1948, dichiarò di condividere ogni critica del nazionalismo e anche l’idea del porre limiti alla sovranità assoluta degli Stati, ma respinse l’ipotesi di una «unione federativa europea» circoscritta a «quei paesi che accet-tavano determinati principi e forme di organizzazione politica, economica e sociale». Quelli erano evidentemen-te i paesi dell’Europa capitalistica, ma erano nello stesso tempo i paesi dell’Europa democratica: l’equivoco della formulazione di Togliatti era tutto lì. Alcide De Gasperi, che fu l’ispirato, combattivo, determinatissimo paladino della scelta europeistica dell’Italia, ebbe comunque buon giuoco – nel dibattito del novembre 1950 – nel cogliere quel che di contraddittorio e perfino di paradossale vi era nel rifiuto del disegno federalista da parte di uomini della sinistra internazionalista, che avrebbero dovuto sentirsi «pionieri di questa idea».

Confini e valori della «piccola Europa»Fatto particolarmente clamoroso fu l’incomprensio-

ne che la sinistra mostrò per il decisivo valore di pace del progetto comunitario, dell’intesa da cui nacque la Comunità del carbone e dell’acciaio. Quell’intesa pose termine all’antagonismo storico tra Francia e Germania, fattore scatenante di due guerre distruggitrici nel cuore dell’Europa, divenute guerre mondiali: fu un ingiustifi-cabile abbaglio non riconoscerlo. L’incomprensione e la contrapposizione da parte del Pci si manifestarono anche nei confronti dei Trattati di Roma del 1957, istitutivi della Comunità economica europea e della Comunità europea dell’energia atomica, e vennero via via superate a partire dalla seconda metà degli anni ’60. Ma restò ancora per

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anni una riserva sulla delimitazione dell’Europa comu-nitaria. In sostanza, si riteneva che il continente dovesse unirsi nella sua interezza, addirittura dall’Atlantico fino all’immaginaria frontiera degli Urali, magari attraverso un ipotetico «superamento» dei blocchi contrapposti; e così si sfuggiva al nodo del sistema democratico, che caratterizzava solo i paesi dell’Europa occidentale e che non poteva non delimitare i confini del processo di integrazione europea. Si pensi alle facili polemiche sull’Europa dei sei (i paesi fondatori delle Comunità istituite con i Trattati del 1951 e del 1957) qualificata come «piccola Europa».

Certo, la mancata adesione iniziale della Gran Breta-gna ai principi della Dichiarazione Schuman e al processo di integrazione costituì un limite rilevante, che solo nel 1972 l’adesione decisa da Londra permise di superare; e l’impossibilità di associare alla Comunità la Spagna fino a quando restò sotto la dittatura di Franco rappre-sentava un altro, non trascurabile limite. Ma gli altri tre maggiori paesi europei, Francia, Germania (sia pure solo nella sua parte occidentale) e Italia, furono tra i fondatori della Comunità, che si poteva dunque ben considerare rappresentativa dell’idea d’Europa, della tradizione e dell’identità europea. Una identità riconoscibile in un peculiare retaggio di civiltà e di cultura, sfociato nelle conquiste dello Stato di diritto e della democrazia politica. Insomma, l’Europa unita non poteva che identificarsi con l’Occidente come luogo della democrazia: declinandone valori e concezioni in termini diversi rispetto all’altra grande realtà dell’Occidente, gli Stati Uniti d’America, ma stabilendo con questi ultimi un sistema di relazioni privilegiate. Fu perciò importante che nel Pci, diretto da Berlinguer, procedessero di pari passo, nel corso degli anni ’70, l’adesione convinta, senza riserve, al progetto di uno sviluppo conseguente, anche sul piano politico, dell’integrazione europea; e l’identificazione piena col patrimonio delle libertà personali e collettive, dei principi della laicità dello Stato e del pluralismo, delle regole della democrazia politica, di cui era storicamente depositaria l’Euro- pa occidentale. Fu quello il significato dell’eurocomunismo, della dichiarazione di principi e dell’iniziativa che furono così denominate, per quanto non fosse destinata a durare l’intesa tra i partiti italiano, spagnolo e francese.

L’europeismo del Pci:una radicale rottura col passato

Una volta abbandonate vecchie illusioni e ambiguità che non tenevano conto delle ragioni di fondo della cesura tra Europa occidentale ed Europa orientale di obbedienza sovietica, e quindi dell’impossibilità di superare quella divisione senza una trasformazione dei paesi dell’Est in paesi democratici – e perché ciò accadesse furono necessarie le rivoluzioni del 1989 – l’approdo del Pci all’europeismo costituì di fatto la più radicale rottura col suo bagaglio ideologico originario, con la sua visione rivo-luzionaria di matrice leninista, con l’ancora non del tutto spento idoleggiamento del «socialismo diventato realtà»

nell’Urss e dovunque i partiti comunisti fossero giunti al potere. Era l’approdo verso il quale eravamo sospinti dal corso stesso della nostra esperienza e del nostro trava-glio a partire dagli anni ’60, e grazie, certo, a riflessioni maturate in seno al Pci ma anche a influenze esterne, la più importante delle quali, sul piano culturale e politico, fu quella di Altiero Spinelli. Personalmente, sul concetto di Occidente e sul tema del rapporto con la tradizione e i valori dell’Occidente ero stato stimolato a una più matura riflessione – come ho ricordato nel mio scritto del 1992 sul Pci visto dall’America – già dalla mia prima visita negli Stati Uniti nel 1978; ma il senso dell’europeismo, dell’approdo a quella sponda, lo trassi essenzialmente dalla lezione di Altiero Spinelli. E mi riferisco alla sua vicenda – ricostruita nella splendida autobiografia Come ho tentato di diventare saggio. Io, Ulisse – di comunista privato per lunghi anni della libertà dal fascismo, che rivede in modo rigoroso e spietato le sue convinzioni, parte dalla denuncia dello stalinismo per superare inte-ramente quello che era stato il suo orizzonte ideologico, entra in rotta di collisione col Partito comunista e ne viene espulso, sfidandone l’ostilità e subendone l’isolamento nelle condizioni drammatiche della piccola comunità dei condannati al confino, e infine si apre a nuovi orizzonti facendosi militante dell’idea di Europa attraverso la straordinaria e visionaria elaborazione del Manifesto di Ventotene, scritto insieme con Ernesto Rossi. Che cosa significò per lui la conclusione cui era arrivato, attorno al 1937, lo dicono le parole della sua autobiografia: Giunto nel mio viaggio alle porte della città democratica, che ave-vo una volta considerato città nemica, di cui avevo perciò spiato e appreso debolezze, contraddizioni, ipocrisie, e che ora sceglievo come mia patria ideale, rimasi ancora a lungo a contemplarla, senza entrarci, diffidente verso cose e persone [...]. Non era in quegli anni né attraente, né prospera, né vigorosa, e faceva piuttosto pensare a un gran corpo in decomposizione.

Il colpo fatale alla cittadella democratica europea venne dato poco dopo dalla guerra di aggressione sca-tenata dal nazifascismo; e da quella terribile esperienza, che mise a nudo le debolezze e le contraddizioni che egli aveva individuato, Spinelli ricavò la visione nuova, ormai storicamente necessaria, di un’Europa capace di federarsi attraverso la limitazione sostanziale dei poteri sovrani degli Stati nazionali.

Altiero Spinelli e i comunisti italianiEbbene, nel 1976 – preceduta da un graduale riav-

vicinamento tra il dissidente ed espulso degli anni ’30 e il Pci – giunge la candidatura di Altiero Spinelli come indipendente nelle liste comuniste per la Camera dei deputati. Ed egli l’accetta dandone questa motivazione: Questo partito è nato come Partito comunista per la presa totale del potere in nome del proletariato. Ha percorso tutta la traiettoria ideologica dello stalinismo. Ma la storia reale lo ha posto fin dalla sua nascita e costantemente in un contesto politico, economico e sociale, nel quale la sua azione effettiva, in contrasto con la sua ideologia, è

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consistita in rivendicazione, difesa e promozione di va-lori democratici. Di fronte a questa contraddizione esso [...] ha saputo superare il proprio passato, sceverando il vivo della propria azione reale dal morto della propria ideologia e scoprendo, non da un giorno all’altro, ma con un complesso, faticoso e lungo riesame dei suoi impegni ideologici e della sua azione, da una parte che la sua battaglia politica non può essere che nella e per la democrazia, dall’altra che questa non può svilupparsi che nel quadro e nella prospettiva dell’unità democratica dell’Europa occidentale. Una motivazione generosa, ma non di convenienza; un riconoscimento significativo più di ogni altro, e soprattutto, forse, un atto di fiducia e di sollecitazione. Nell’autobiografia del 1984, egli introduce poi una considerazione che ci porta ancora più vicino alla riflessione che sto svolgendo in queste mie pagine: Tenuto conto delle differenze che non possono non correre fra un’evoluzione personale e quella di un grosso corpo politico, non si può non constatare che la scoperta della libertà, dell’unità europea e del nesso politico tra le due cose, fatta nella solitudine della prigione dal giovane rivoluzionario professionale leninista, ha strane e forse non del tutto casuali somiglianze con le analoghe scoperte fatte più tardi da quello che era stato inizialmente un partito di rivoluzionari professionali leninisti.

D’altronde Spinelli aveva tenacemente operato per far crescere nel Pci il seme dell’europeismo e per ispirare e incoraggiare quanti nelle sue file si muovessero in quel senso. Dal suo Diario europeo 1976-1986 si può ricavare la frequenza, e la ricchezza di contenuti, dei nostri contatti e colloqui a due, così come dei nostri incontri in occasione di iniziative e di dibattiti cui partecipammo insieme: da quando, nel 1976, egli fu eletto alla Camera dei deputati, fino al marzo 1986 (qualche mese prima della sua morte) quando lanciammo, con Gaetano Arfè e altri, la dichia-razione (e, speravamo, il movimento) «per una sinistra europea». Nelle sue note, sempre critiche e spesso causti-che, Altiero registra momenti di dissenso col Pci come per il voto nel 1978 sul Sistema monetario europeo – benché io avessi raccolto sue preoccupazioni e suoi argomenti, si decise di votar contro – ma coglie con soddisfazione tutti i segni dell’evoluzione europeistica di alcuni di noi e del partito in quanto tale. E cita così gli interventi, in un di-battito del 1982, che gli avevano «mostrato quanto ormai sia penetrato il mio pensiero nel modo di pensare della generazione che viene dopo la mia, in Italia», o ancora, qualche anno dopo, vede nell’interesse di Ingrao per la prospettiva europea «che lo ha avvicinato a Napolitano e agli amendoliani [...] un altro segno di quanto profonda sia stata nel gruppo dirigente del partito la conversione al federalismo spinelliano».

I conti col comunismo realeGli apprezzamenti e i riconoscimenti di Spinelli, per

quanto restino importanti e vadano ricordati a certi giudici che hanno poi pronunciato sentenze distruttive sull’intera parabola del Pci, non esimono tuttavia nessuno di noi da un esame critico e autocritico per non aver fatto che molto

tardi i conti col comunismo reale. Com’è stato possibile ne-gare così a lungo la natura totalitaria del regime sovietico, e non vederne la spaventosa dimensione repressiva? Si sono, certo, anche da parte nostra analizzati i costi, in termini di coercizione e violenza, di decisioni come la collettivizzazio-ne dell’agricoltura, ma quanto della brutalità dell’esercizio del potere in generale è stato da noi considerato il prezzo inevitabile di una trasformazione rivoluzionaria? E quanto delle persecuzioni e liquidazioni di avversari di partito o di presunti nemici dello Stato sovietico, sommariamente con-dannati in mostruosi processi o annichiliti nei gulag, è stato rimosso o sminuito anche in un Partito comunista come quello italiano almeno fino al 1956? E anche dopo Stalin e dopo il famoso XX Congresso del Pcus, non è forse rimasto intatto – nonostante che si fosse cancellata la pratica del terrore e allentata la pressione poliziesca – il fondamento totalitario di quel sistema, senza che noi ci risolvessimo a riconoscerlo come tale? Non c’è bisogno di avallare la sinistra contabilità del Libro nero del comunismo né di accettare la riduzione della storia dell’Urss a una vicenda di pura negatività criminale, per ammettere che troppe analisi, denunce, testimonianze e riflessioni, relative alla realtà del sistema sovietico, nei suoi più crudi svolgimenti e aspetti, sono state per lungo tempo da noi ignorate ed esorcizzate come pura libellistica anticomunista. E quando dico «noi», intendo anche persone della mia generazione. Bisogna in qualche modo non cercarne una giustificazione, ma farsene una ragione. Il fenomeno è stato molto ampio, tutt’altro che solo italiano, e ha riguardato l’atteggiamento, innanzitutto, rispetto al comunismo sovietico, ma anche rispetto ai regimi dell’Est europeo o rispetto al comunismo cinese nella impressionante vastità delle sue tragedie. Riferendosi non in particolare a uno scenario italiano, nel 1966 Hannah Arendt scriveva: Indubbiamente, il fatto che il regime totalitario, nonostante i suoi aspetti apertamente criminali, poggi su un sostegno di massa è molto inquietan-te. È perciò difficile che sorprenda come studiosi e statisti spesso rifiutino di riconoscerlo, i primi credendo alla magia della propaganda e del lavaggio del cervello, e i secondi semplicemente negando il fatto, come ad esempio Ade-nauer lo negò ripetutamente. Per capire i limiti e gli errori della mia generazione (ricalcati, purtroppo, da quelli delle generazioni successive), occorre ripartire dall’esperienza di cui siamo stati figli, quella della lotta contro il nazifa-scismo e della seconda guerra mondiale. Ne vivemmo la fase conclusiva, prima che il Partito comunista risorgesse in Italia a vita legale, e dell’Unione Sovietica conoscemmo in primo luogo il decisivo concorso alla liberazione del-l’Europa, alla vittoria contro la dominazione e la barbarie hitleriana. In questo riconoscimento, e nella visione di un possibile futuro di nuova cooperazione mondiale, eravamo confortati dalle riflessioni e dagli appelli di altissime figure intellettuali e morali.

La lezione di Thomas MannCosì, tra le mie prime letture politiche fuori degli

schemi di partito vi fu una raccolta di scritti di Thomas Mann, che venne pubblicata in Italia nel gennaio 1947 col

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titolo Moniti all’Europa. Mann divenne poi, ed è sempre rimasto, l’autore a me più caro, non solo per il fascino delle sue creazioni letterarie, ma per la profondità della riflessione – che ha attraversato tutta la sua ope- ra, e ha portato l’impronta drammatica del suo tempo – sul rapporto tra politica, cultura e democrazia. I suoi scritti pubblicati nel ’47, compresi gli interventi militanti degli anni di guerra, erano una grande lezione sulla Germania e sull’Europa. Il fuoco della polemica era rivolto contro quella che tra tutte le menzogne di Hitler appariva a Mann «la più rivoltante»: la menzogna «europea», la menzogna dell’«Ordine nuovo», dell’«Europa unificata da Hitler». Era quasi «un furto all’idea di Europa, la sfrontata inter-pretazione delle proprie rapine e dei propri delitti come di un’azione di unificazione ispirata da spirito europeo. Presentare la riduzione in schiavitù, l’umiliazione, l’evi-razione delle nazioni europee sotto il giogo nazista come l’unificazione dell’Europa fu una grottesca falsificazione dell’idea europea». Si sarebbe dunque dovuto – sconfitto il nazismo – «restaurare dal loro storpiamento», le idee che esso aveva rubato e stravolto, e in particolare «‘l’idea d’Europa’». Si sarebbe dovuto rovesciare l’assunto del nazismo, per il quale «non la Germania doveva diventare europea, ma l’Europa doveva diventare tedesca».

E guardando al giorno in cui l’Europa sarebbe stata liberata, Mann si rivolgeva ai tedeschi con parole severe e fiduciose: «Nel coro di quel giorno, la parola libertà echeg-gerà tutt’intorno alla Germania, che l’ha disprezzata, malgrado Kant, malgrado Schiller, come la più vana delle parole, quando non significava la libertà per la Germania di esercitare la violenza, e il cui senso vitale essa deve ora apprendere dai popoli dell’Occidente». Ed egli avrebbe poi, in un celebre passo, chiarito come tutto quel che in quegli anni diceva intorno alla Germania l’avesse «spe-rimentato su se stesso» e fosse dunque «un frammento di autocritica tedesca». Guardando più in generale al futuro dell’Europa e del mondo dopo l’esperienza della guerra e la sconfitta del nazismo, Mann vedeva, alla pari di Franklin Delano Roosevelt, l’unificarsi delle «culture dell’Asia, dell’Europa e delle due Americhe», il formarsi «per la prima volta di una civiltà mondiale». Di certo, l’esperienza della guerra avrebbe portato a un «appia-namento dei contrasti tra la Russia e l’Occidente», a una «conciliazione fra socialismo e democrazia, su cui posa tutta la speranza del mondo». Anche perché da Stalin e da chi parlava in suo nome veniva l’assicurazione che l’Unione Sovietica non si proponeva di imporre la sua volontà e la sua forma di governo «ai popoli slavi e ad altri soggiogati» da Hitler in Europa, ma intendeva difendere il diritto di ogni nazione all’indipendenza «e anche il suo diritto a istituire l’ordine sociale e a scegliere la forma di governo» ritenuta migliore. Sì, erano queste le speranze e le illusioni largamente condivise in Occidente negli anni della grande alleanza antifascista in guerra contro la Germania hitleriana. Ben presto quella prospettiva svanì; i comportamenti sovietici furono altra cosa dai rassicuranti annunci di qualche anno prima; sopravven-ne bruscamente la guerra fredda. Si aprì un periodo di

«implacabile sfida» tra l’America e l’Unione Sovietica, di dura contrapposizione in Europa e nel mondo, e la mia generazione ne fu profondamente segnata. Fummo spinti a opposte scelte di campo, e quella che io e tanti altri facemmo con il Pci avrebbe per un periodo molto lungo influenzato il nostro modo di pensare e il nostro atteggiamento, anche e in particolare rispetto all’Unione Sovietica. Non fu soltanto il dato storico del ruolo svolto dall’Urss nel secondo conflitto mondiale e nella vittoria finale contro il nazifascismo, che continuò a condizio-nare i nostri giudizi. Esso certamente ci spinse sempre a rifiutare o schivare, benché venissimo maturando posi-zioni via via più critiche, la definizione dell’Urss come regime totalitario, che implicava un aberrante – tale ci sembrava – accostamento al regime nazista. Ma non si trattò solo di questo. I nostri giudizi furono condizionati anche da un quadro internazionale nel quale la potenza sovietica era parte di un equilibrio fondato sulla condivi-sione dell’arma nucleare e sul deterrente di una «sicura distruzione reciproca»; da un quadro internazionale nel quale noi comunisti italiani, sentendoci profondamente solidali verso i movimenti di liberazione dei popoli co-loniali, verso la lotta per l’emancipazione e il progresso dei paesi del Terzo Mondo, ne vedevamo il sostegno maggiore, in chiave antimperialistica, nella forza politica e militare del «mondo socialista». Quanto vi fosse in ciò di unilaterale e mistificatorio, è discorso che meriterebbe di essere condotto col necessario rigore storico, senza semplificazioni in nessun senso.

La mistificazione e il mitodel «socialismo diventato realtà»

Ma molto grande fu indubbiamente la mistificazione, affidata a una sapiente macchina ideologica e propa-gandistica, nel rappresentare la società sovietica, le sue strutture, i suoi meccanismi decisionali, le condizioni dei cittadini, le vicende dell’economia. L’entusiasmante bilancio delle prove affrontate dall’Urss fino alla vitto-ria del 1945 si identificò – nell’animo di noi che allora scoprivamo il Pci e vi aderivamo – col successo della costruzione del socialismo. Ci conquistò non solo l’ideale del possibile avvento di una società nuova, socialista, «di liberi e di eguali», ma qualcosa di infinitamente più forte: il mito del «socialismo divenuto realtà» (e il mito avrebbe via via abbracciato, attraverso successive vicende rivoluzionarie, una parte crescente del mondo).

Non si può negare una responsabilità storica, anche nei confronti della mia generazione, di quanti, assumendo la guida del Pci come «partito nuovo», nazionale, demo-cratico e di massa, si fecero banditori di quel mito, pur avendo avuto modo di conoscere meglio quale fosse la verità drammatica della storia dell’Urss, la verità – così lontana dalla propaganda – delle sue condizioni effettive. Non è arbitrario, credo, ritenere che il partito «nato la prima volta» nel 1921 sull’onda della Rivoluzione d’ot-tobre ebbe bisogno – «nascendo per la seconda volta» nel 1944-1945 – del mito del successo, anzi del trionfo conseguito dal socialismo nel grande paese in cui era stato

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instaurato. Quel mito fu coltivato, forse nell’aspettativa di cambiamenti che la vittoria nella seconda guerra mondiale avrebbe reso possibili nell’Unione Sovietica, ma certamen-te apparendo ai dirigenti del Pci, anche ai meno convinti di quel che fosse o potesse diventare l’Urss, fattore essenziale di attrazione nel rapporto con larghe masse lavoratrici e popolari. E come tale esso operò potentemente, insieme con altri fattori, relativi all’azione concreta del Pci attorno ai problemi del paese. Erano questi elementi di mito e di «fede» rispondenti a un’analisi storica e rivolti ad assorbire il tendenziale «ribellismo» di masse escluse dallo Stato italiano, qual era stato costruito da classi dirigenti borghesi troppo chiuse ed esclusiviste? Ho usato il termine «fede», pensando all’uso esplicito che ne fece Togliatti, quando nel primo discorso pronunciato a Roma dopo la liberazione della città giunse ad afferma-re: «Abbiamo dichiarato, come Partito comunista – e io ripeto oggi qui in Roma, capitale del mondo cattolico, questa dichiarazione – che rispettiamo la fede cattolica, fede tradizionale della maggioranza del popolo italiano; chiedendo ai pastori e rappresentanti di questa fede di rispettare a loro volta la nostra fede, i nostri simboli, la nostra bandiera». Proprio così, la nostra fede. E in effetti si suscitò un’adesione fideistica al partito che rappresen-tava il mito del «socialismo diventato realtà» e poteva garantire la prospettiva di una società nuova anche in Italia, purché si fosse accettata la sua guida e la sua disciplina. Una disciplina che comportava l’abbandono di impulsi ribellistici e massimalistici, il sostegno a una strategia, che nel tener fermo il lontano e vago orizzonte dell’avvento del socialismo perseguiva concreti risul-tati di progresso sociale e civile e di integrazione nel nuovo Stato democratico e repubblicano. Quella di cui ho parlato fu – sia chiaro – solo una componente della «fortuna» del Pci, del consenso sui cui quella fortuna si fondò: ma una componente non secondaria, finché resse. Ed essa comunque pesò sulla fisionomia e sulla linea generale del partito, ne costituì anche un limite grave, e finì per trattenere lo stesso gruppo dirigente da scelte più coraggiose, nel rapporto con l’Unione Sovietica e col movimento comunista mondiale, che potessero mettere in crisi, insieme con la «fede» che era stata predicata, la fiducia politica di una parte della base e dell’elettorato nel Pci. Siamo stati tutti condizionati, dirigenti venuti al partito con la Liberazione e non solo coloro che allora lo rifondarono, da scelte che erano diventate un modo di essere e di crescere del Pci.

L’«utopia capovolta»L’insegnamento che abbiamo il dovere di trasmettere

alle nuove generazioni della sinistra italiana è quello di non ricadere in mitizzazioni di nessun tipo, di guar-darsi da utopie che possano, comunque si presentino, produrre risultati di violenza, di oppressione, di morte, anche in contrasto con gli ideali proclamati. Tali sono stati nel Novecento gli esiti dell’utopia rivoluzionaria del comunismo; essa conteneva in sé promesse di eman-cipazione sociale e di liberazione umana, ma si è di fatto

rovesciata nel suo op- posto. Gli ideali del comunismo hanno acceso immense speranze, animato movimenti di progresso sociale e democratico all’interno delle società occidentali, come ci dice l’esempio dell’Italia; ma quando si siano tradotti in lotta per il potere senza esclusione di mezzi e in esercizio autoritario del potere, hanno prodotto aberrazioni tali da far parlare a giusto titolo di una «utopia capovolta».

Dall’Urss di Stalin alla Cina di Mao e della «rivoluzio-ne culturale» fino al caso estremo della Cambogia di Pol Pot e dei Khmer rossi, dove trionfò la logica del massacro e dello sterminio in nome della creazione di un mondo nuovo, si può ben dire che fu «pervertita» ogni grande idea originaria di uguaglianza e di giustizia. Se oggi si dichiara di temere che la rinuncia alle utopie comporti l’impoverimento della politica e dei movimenti sociali, il loro appiattirsi sull’esistente senza più visioni e progetti di cambiamento, si rischia di fare una gran confusione. Non ho trovato, su questo tema, distinzioni e conside-razioni più illuminanti e rigorose di quelle formulate da Isaiah Berlin: «Le utopie hanno il loro valore ma come guide al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali». E quelle a cui mi sto qui riferendo sono state utopie che poggiavano su dottrine rivoluzionarie e si traducevano proprio in «guide al comportamento». I presupposti dei loro esiti aberranti erano in posizioni di pensiero, in concetti chiave della dottrina comuni-sta come quello di «dittatura del proletariato», erano nell’idea stessa di una «soluzione finale», dice Berlin, identificata con l’avvento di «un’armoniosa società senza classi». «Infatti, se veramente si crede che una tale solu-zione sia possibile, è chiaro che nessun prezzo sarebbe troppo alto pur di ottenerla: arrivare a un’umanità giusta, felice, creativa e armoniosa, arrivarvi una volta per tutte, per sempre – quale costo potrebbe essere troppo alto di fronte a questo traguardo?» Ebbene, fu quella l’ispira-zione fanatica di una prassi di violenza e di oppressione, perseguita sotto la bandiera del comunismo innanzitutto ma non solo nell’Urss di Stalin. E invece, «possono essere giustificati i sacrifici per fini a breve scadenza [...]. Ma gli olocausti in nome di fini remoti, no: è solo una crudele irrisione di tutto ciò che gli uomini hanno caro, ora e in qualsiasi tempo». Bisogna dunque fare attenzione a non porre sotto lo stesso se- gno tutte le idee e visioni utopistiche, né per indulgere ad assoluzioni o a recuperi di quelle che vanno decisamente bandite, né per confon-derle in un giudizio negativo che condanni a un piatto adeguamento all’esistente. Così, quando Berlin parla del valore che possono avere le utopie se non si traducono in «guide al comportamento» e dice: «non c’è nulla che allarghi così meravigliosamente gli orizzonti immagina-tivi delle potenzialità umane», il mio pensiero corre alle intuizioni e agli annunci dell’europeismo italiano. Gli Stati Uniti d’Europa invocati da Luigi Einaudi nel 1918 non erano forse un’utopia? E che dire del vasto disegno di un’Europa federale tracciato da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel Manifesto di Ventotene? Quei profeti e militanti dell’europeismo potevano nel 1941 esprimere

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la generosa convinzione che «l’ideale di una federazione europea si presentasse come una meta raggiungibile e quasi a portata di mano», ma in effetti esso conservava largamente i caratteri dell’utopia. E non presentava quei caratteri la profezia – con cui Croce concluse nel 1932 la sua Storia d’Europa nel secolo decimonono – di «un processo di unione europea, che è direttamente opposto ai nazionalismi e già sta contro di essi e un giorno potrà liberarne affatto l’Europa»?

L’ideale di una federazione europeaL’europeismo, l’idea di un’Europa unita – oltre i

confini degli Stati nazionali – nella democrazia e nella pace, ha rappresentato l’esempio più alto di utopia mite, non violenta, portatrice di libertà e di progresso, non rovesciabile nel suo contrario. E in questo senso essa si è venuta realizzando e svolgendo a partire dagli anni ’50 dello scorso secolo. Nel Manifesto di Ventotene si usa anche l’espressione di «rivoluzione europea». E nel suo Diario Spinelli si diverte ad anno-tare che incontrandosi, nel 1985, a pranzo con me e il socialdemocratico tedesco Karsten Voigt, aveva visto in noi «l’antica immagine del ‘bonzo’, quale ogni vecchio rivoluzionario è destinato a diventare », e aggiunge: «Io ho evitato questo destino, perché a un certo momento, oltre quarant’anni fa, ho scoperto un’altra, diversa e strana rivoluzione – quella del federalismo europeo – e sono encore en train de me battre pour elle». Raccoglien-do quella suggestione di Altiero, io penso che davvero noi socialisti europei – compreso chi come me venga dal superamento dell’esperienza comunista e da un autentico ripensamento critico – potremmo e dovremmo riconoscerci senza riserve nell’inveramento dell’idea di Europa unita, nel pacifico processo «rivoluzionario» dell’integrazione europea.

Questo è stato il convincimento che sono venuto ma-turando dagli anni ’70, nell’incontro con Altiero Spinelli e il suo pensiero, nei primi contatti con la realtà delle istituzioni europee, e poi – tra il 1989 e il 1992, ancor più tra il 1999 e il 2004 – attraverso la partecipazione al Parlamento europeo. Negli anni recenti di pieno impegno a Strasburgo e a Bruxelles, ho colto lo stesso convincimento in uomini del vecchio Psi e del vecchio Pci, con i quali ho lavorato in quel Parlamento: come Giorgio Ruffolo, protagonista aperto e fine di tanti dibat-titi del passato tra comunisti e socialisti italiani, e come Bruno Trentin, col quale nella battaglia europeistica ci siamo trovati vicini, più che in certi momenti lontani di confronto in seno al Pci. E nella legislatura intensissima conclusasi nel maggio 2004 ho vissuto fasi importanti di avanzamento della costruzione europea, comprendendo meglio come si tratti di un processo in continua evolu-zione, esposto a incognite e sfide che richiedono nuovi apporti di pensiero e progettuali, nuove dosi di slancio «utopistico». Prima di entrare brevemente nel merito di questo discorso, voglio ricordare quell’artefice di sviluppi fondamentali del processo di integrazione che è stato Jacques Delors. Presidente della Commissione

europea dal 1985 al 1995, socialista francese formatosi nell’associazionismo e nel sindacalismo cristiani, egli ha rafforzato grandemente in me e in altri, come Ruffolo e Trentin, la scelta europeistica, la fiducia in quel dise-gno: il suo è stato un modello di europeismo sensibile a valori essenziali come la solidarietà, immaginativo e realistico, capace di delineare e portare avanti con razionalità e con passione grandi progetti che potessero unire e far progredire l’Europa. Jacques Delors e i rischi di deriva dell’integrazione europea Dopo aver lasciato le sue funzioni di presidente della Commissione di Bruxelles, Delors ha condiviso e oggi condivide – pur senza mai cadere nello scoramento – le preoccupazioni che desidero ora sinteticamente richiamare: preoccupa-zioni scaturite dagli stessi straordinari sviluppi della costruzione europea, quali sono stati l’opzione di tipo federale della moneta unica e lo storico allargamento dell’Unione a venticinque Stati membri, che ha segnato la fine dell’Europa divisa, l’unificazione del continente attorno ai valori che erano stati propri della piccola comunità dei sei paesi dell’Europa occidentale. La preoc-cupazione fondamentale è costituita dall’indebolirsi della volontà politica europeistica delle forze di governo e in senso più ampio delle classi dirigenti degli stessi paesi fondatori della Comunità, dal loro tendenziale ripiegare su vecchi approcci angustamente nazionali, nell’anacronistica illusione di poter recuperare spazi per decisioni sovrane che tutelino interessi minacciati dal processo di globalizzazione.

Questi atteggiamenti difensivi, queste chiusure, la conseguente riluttanza ad attribuire alle istituzioni dell’Unione i poteri necessari per dare nuovi sviluppi al processo di integrazione hanno pesato gravemente sul-l’elaborazione della Costituzione europea, del Trattato costituzionale discusso e definito nella Convenzione di Bruxelles e quindi nella conferenza intergovernativa tra il 2002 e il 2004. E il rischio è quello di una stagnazione e regressione del processo di integrazione: un rischio insito anche nel nuovo Trattato, in quanto non garanti-sce pienamente efficaci meccanismi decisionali, e offre appigli per più gravi condizionamenti da parte degli Stati nazionali nei confronti delle iniziative e delle scelte della Commissione europea come governo dell’Unione. Ma anche i sia pur insoddisfacenti progressi, sul piano politico, istituzionale e democratico sanciti con tale Trattato-Costituzione, rischiano di essere annullati dall’esito di consultazioni referendarie come quella francese (maggio 2005) e dal fallimento del processo di ratifica. E allora davvero si può produrre una paralisi, un fatale indebolimento dell’Unione o la sua diluizione in una semplice area di libero scambio o di mercato comune. Il grande salto verso una Unione politica, che con la Costituzione si è teso a compiere, può restare bloccato. Gli antidoti a questo rischio di deriva non mancano: la possibilità, ad esempio, di fare del gruppo dei paesi dell’Euro la leva per un governo dell’econo-mia, per un coordinamento delle politiche economiche nazionali, che riapra per l’Europa prospettive di crescita

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sostenibile nel contesto di un’ardua competizione glo-bale. O lo strumento delle «cooperazioni rafforzate», attraverso il quale gli Stati che intendano procedere più rapidamente e in nuovi campi sulla via dell’integrazio-ne possano farlo, secondo una logica di differenziazione che è già oggi obbligata, in una Unione a venticinque, e ancor più lo sarebbe per poter considerare accettabili suoi ulteriori allargamenti. Ma perché queste oppor-tunità vengano colte, occorre pur sempre una volontà politica che veda alcuni Stati, alcuni governi assumere un ruolo di forza motrice, ovvero – come amava dire Jacques Delors – di «avanguardia». Se proprio la ca-renza di tale volontà costituisce il principale motivo di preoccupazione nella fase attuale, la crisi di consenso che sta investendo il disegno europeo ne costituisce il più inquietante risvolto. L’ondata di riserve e di timori che il dibattito sulla ratifica della Costituzione ha fatto emergere, e non solo in Francia, spinge a riflettere sul-l’ambiguità di una parte grande delle forze politiche anche nei vecchi Stati membri, sulla loro debolezza nel rapporto con l’opinione pubblica, con i cittadini, sulla loro riluttanza a coinvolgerli, o sulla loro incapacità di coinvolgerli, in una presa di coscienza collettiva degli storici risultati del processo di integrazione e delle pres-santi esigenze che ne richiedono un ulteriore sviluppo. La più recente conseguenza di tali ambiguità e incapa-cità è stata proprio il diffondersi di incomprensioni e di reazioni di rigetto nei confronti di una Costituzione che pure renderebbe possibili risposte più efficaci su temi cruciali, tra i quali quello dell’affermazione del ruolo dell’Europa sulla scena mondiale. Un ruolo effi-cace anche al fine di dettare regole per quel processo di globalizzazione che suscita tante preoccupazioni e paure. Un ruolo da ridefinire sul tema così controverso del rapporto con gli Stati Uniti e sul terreno, così aspro e complesso, della lotta contro il terrorismo di matrice fondamentalista islamica.

Convergenze e distinzionitra le forze europeistiche

Da questa analisi ricavo motivi di allarme ma soprattutto motivi di rinnovato, combattivo e creativo

impegno di quanti, nel vasto e non uniforme campo delle forze politiche, sociali e culturali, siano guidati da profonde convinzioni europeistiche. Penso, come ho già detto, a quel che dovrebbe essere una consapevole e non dubbia collocazione delle forze di sinistra, delle forze socialiste, oggi invece non poco divise ed esitanti su questo terreno. Ma l’esperienza che ho fatto nel Parlamento europeo, in special modo guidandone la Commissione Affari costituzionali, mi ha dato il senso della possibile ampiezza dello schieramento europeisti-co. Nella battaglia per una Costituzione europea, e per la sua più conseguente e avanzata configurazione, mi sono incontrato con popolari, con liberali, con «verdi», non solo con socialisti. Naturalmente, la convergenza e l’intesa su obbiettivi di sviluppo del processo di inte-grazione e di unità europea non annullano diversità e contrasti tra forze politiche che hanno retroterra storici e culturali ben distinti e che nei singoli paesi si presentano addirittura come antagonisti nella competizione per conquistare la maggioranza in Parlamento e la guida del governo. Le stesse politiche dell’Unione, i loro con-tenuti, le priorità secondo cui ordinarle, costituiscono oggetto di contrasto, nel Parlamento europeo, tra forze che pure convergono su obbiettivi di rafforzamento e valorizzazione delle istituzioni comunitarie. A maggior ragione la sinistra dovrebbe «europeizzarsi» senza in-certezze e senza risparmio di energie. Ricordo queste belle righe di Altiero Spinelli: «Sono sicuro che l’Europa non sarà fatta dalla sola sinistra, ma è assai importante che nella sua costruzione la sinistra sia presente, perché ne dipenderà che Europa verrà fuori». Ma nello stesso tempo non si può trascurare l’importanza storicamente decisiva dei principi e dei diritti fondamentali, e dei grandi obbiettivi, che sono risultati, sempre di più, condivisi ben oltre i confini della sinistra, dando infine l’impronta al progetto di Costituzione europea. E biso-gna vedere meglio quali restino invece le discriminanti essenziali tra destra e sinistra, o in termini più ampi tra forze conservatrici e forze rinnovatrici, di progresso, riformiste.

A questo proposito mi soccorrono ancora gli insegna-menti sui quali si è formata la mia generazione. […]

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Perché dedicare una Enciclo-pedia a Federico II? Una prima risposta potrebbe provenire da dati occasionali o estrinseci. L’VIII centenario della nascita dell’imperatore svevo, oppure la produzione enciclopedica Trec-cani dedicata alla civiltà medie-vale (la Dantesca, l’Arte medievale, il volume Medioevo-Rinascimento della Storia della Scienza). Ma non sarebbe una risposta convincen-te. Occorre scendere nel cuore del tema, soprattutto quando il nucleo del tema è una figura individuale. Può una grande personalità umana attrarre su di sé tanta attenzione da giu-stificare la compilazione di una enciclopedia? Se attorno ad un uomo si muove un universo sto-rico da lui evocato ed influito al punto da divenire eponimo, eb-bene c’è materia sufficiente per una trattazione enciclopedica. E tuttavia occorre ancora valutare il profilo metodologico accanto a quello del merito. La enciclo-pedia a differenza del trattato monografico non si presta ad un organico e continuo racconto sto-

riografico sulla vita e le opere di un grande protagonista di storia. Ortensio Zecchino ha accennato nella sua Introduzione a questo problema. Egli ha indicato la contraddizione o almeno la dif-ficile compatibilità tra la febbre di inventario propria della enci-clopedia e l’esprit de système del trattato. E a questo proposito Zecchino ha ricordato la defini-zione di Diderot per la Grande Encyclopedie «enchaînement de connaissance», concatenazione di conoscenze. La Fridericiana ha applicato questo modulo di Diderot e oggi ne possiamo misurare gli esiti. Nessuna trat-tazione monografica avrebbe potuto contenere tante notizie, non solo implicanti conoscenze disciplinari disparatissime, ma attenzione a tessere di realtà materiali e culturali, componenti il grandioso mosaico di quella ci-viltà del medioevo mediterraneo ed europeo, in cui è campita la figura di Federico II.

La storiografia contempo-ranea, specie dopo la grande lezione delle Annales, ambisce

stringere insieme cultura ma-teriale e cultura intellettuale, le strutture del quotidiano e la lunga durata storica, geografia, economia, religione, politica, scienza e tecniche. Può mai uno storico assemblare tante realtà e costruire una narrazione gui-data da quell’ésprit de système, che inevitabilmente agisce da filtro e da griglia con cospicui effetti selettivi? Solo una Enci-clopedia riesce a trattenere un paesaggio totalizzante con voci come architettura distinte nei tre regni di Germania, Italia e Sicilia, o castelli, città, agricoltu-ra, ingegneria, medicina, viabilità. Solo una Enciclopedia può offrire quadri compiuti per cultura araba cavalleresca ebraica greca o per la formazione delle lingue nei regni di Arles, Germania, Gerusa-lemme, Italia, Sicilia, o dedicare alla scuola poetica siciliana quattro articolazioni fortuna e tradizione, lingua e metrica.

Quanto ai grandi organismi della statualità medievale citerò impero bizantino di Gian Luca Borghese, regno d’Inghilterra di

Federico II, un sovrano presago della modernità

Francesco Paolo Casavola

PERCHÉ GLI VIENE DEDICATA UN’ENCICLOPEDIA

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David Abulafia, l’amplissima trattazione di Regno ii Sicilia di Giuseppe Galasso, oltre alla splendida Sicilia del bravissimo Vincenzo D’Alessandro, cui si deve anche la voce Palermo. Ma per il Regno di Sicilia vanno ricordate le articolazioni am-ministrazione della giustizia di Mario Caravale, amministrazione finanziaria di Enrico Mazzarese Fardella, Chiesa di Cosimo Da-miano Fonseca, Porti di Pietro Dalema.

E ancora Regno di Germania di Wolfgang Stürner e poi Papato, Roma, studio di Napoli di Girola-mo Arnaldi, Crociata di Giosuè Musca.

L’ambiguità di Federico II eretico e persecutore di eretici emerge dalla voce Anticristo/messia di Andrea Piazza. Ma non c’è aspetto della sua vita e della sua azione di governo che non riveli in lui una intelligenza versatile e inquieta in cerca di una legittimazione non solo del-l’autorità imperiale ma anche del

suo carisma personale tra il più remoto passato di Roma e i segni dei nuovi tempi, nell’ultimo in-contro tra Islam e Cristianesimo, arabi e ebrei, greci e normanni lungo un asse che si estende dal Mar del Nord fino a Geru-salemme. La sua politica della cultura con lo Studio Napoleta-no, la protezione e promozione delle arti e delle scienze, i medici intesi come funzionari pubbli-ci, la fondazione di uno Stato amministrativo e non soltanto di giustizia, la rivendicazione giurisdizionalista rispetto alla Chiesa fanno di Federico II per molti aspetti un sovrano presago della modernità e certo consa-pevole della crisi e della fine del Medioevo feudale.

Tutto ciò non rivivrebbe per le nostre intelligenze se non dispo-nessimo oggi di questa Enciclope-dia che inviteremmo a leggere e non soltanto a consultare.Appunti dall ’intervento di presentazione dell ’Enciclopedia federiciana. Bari, giugno 2005.

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Non intendo, certo, tornare fisicamente a Portici. Sarebbe troppo facile ed anche ovvio: senza contare che è una delle più popolose cittadine dell’agro vesuviano. Quello che auspico è, invece, un ritorno etico, sociale e politico a ciò che Portici ha significato, per un ampio arco di tempo, nella storia del nostro Mezzogiorno. E non solo di esso, dato che alcuni laureati in quella Facoltà di Agraria furono tra i primi profughi dei paesi dell’Est europeo a recarsi clandestinamente nella terra promessa, an-cor prima che si avesse il rinnovato Stato di Israele. Anzi, furono proprio loro ad essere gli artefici di quella rivoluzione verde che avrebbe costituito il nucleo della futura agricoltura israeliana.

Si deve risalire all’editto del 5 giugno 1224, emanato a Siracusa da Federico II di Svevia dopo quattro anni di assenza dal suo Regno, con il quale veniva istituito l’Ateneo fridericiano, che avrebbe dovuto distinguer-si dall’analoga istituzione confessionale che l’aveva preceduto nella guelfa Bologna. In questo spirito e sulla scia di ben cinque secoli di continue e brillanti affermazioni, all’inizio del XIX sec. il Regno Borbonico si era già munito di una Scuola di Agricol-tura con sede nelle pertinenze della famosa Reggia di Portici e della vicina Villa la Favorita. Quella stessa che, a tredici anni dall’avvenuta unificazione, fu trasforma-ta dal Regno unitario in Regia Scuola Superiore d’Agricoltura (1873) e, poi, in Istituto Superiore Agrario (1891) e, infine, nell’attuale Facoltà di Agra-ria (1928), afferente all’Università Federico II di Napoli. In tutte que-ste sue diverse facies, fu sempre un sicuro punto di riferimento non solo per l’agricoltura delle regioni meridionali, ma anche per le corrispondenti istituzioni presenti in altre realtà italiane (Milano, Pisa e Perugina) oltre che, come ho già detto, per i Paesi mediterranei.

Per fortuna l’attuale Rettore (prof. Trombetti) ed il Senato Acca-

demico della Federico II hanno quest’anno, provveduto a cancellare quel vero e proprio affronto secondo il quale, per un’improvvi-da decisione assunta dal Rettore precedente e dal Sindaco di Napoli dell’epoca, questa Facoltà avrebbe dovuto essere trasferita demagogicamente a Scampìa, nell’illuso-ria speranza che bastasse ciò a sanare una serie interminabile di gravi errori urbani-stici, sociali e politici che hanno colpito quella realtà. Molto più correttamente e nel doveroso rispetto della Storia, la Facoltà verrà trasferita nei locali precedentemente occupati dall’azienda Fiore, al Granatello, consentendo al Palazzo Reale di essere re-stituito ad una più sintonica utilizzazione da parte dell’Amministrazione Provinciale che ne è la consegnataria.

Così come questa istituzione si era di-stinta nel suo passato, nel campo della Bo-tanica (con l’oriundo danese Carlo Ahlsen e con Orazio Comes) e dell’Entomologia (con Filippo Silvestri), lo stesso avvenne, nel passaggio da Istituto Superiore Agrario a

Facoltà di Agraria, in quello dell’Economia agraria (con Oreste Bordiga ed Alessandro Brizi). E non è, certo, un caso se proprio a questa disciplina va riconosciuto il merito di aver svolto, ancora una volta, un ruolo niente affatto indifferente e trascurabile nell’affrontare scientificamente lo studio delle diverse realtà agricole meridionali. Un ruolo che, senza alcun dubbio, ebbe anche un’indiscutibile valenza politica, se non altro per l’indiscutibile influenza esercitata da essa nel determinare gran parte degli eventi avutisi, soprattutto, nella seconda metà del XX secolo.

In ciò, il vero protagonista fu Manlio Rossi Doria, che, nel quadriennio 1924/28 ne aveva frequentato i Corsi di studio sì da far parte del primo gruppo di laureati da quella Facoltà universitaria. Essendo nato a Roma il 25 maggio del 1905, quest’anno (il 27 ottobre) i suoi allievi ne cureranno la celebrazione del centenario, in colla-borazione con l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (ANIMI).

Come da lui stesso ampiamente docu-mentato in un’opera rimasta incompleta e pubblicata dopo la sua morte

1, la sua deci-

sione di iscriversi ad Agraria, a Portici, fu fortemente condizionata dalla sua amicizia con i tre fratelli Sereni. L’attiva partecipa-zione del pimo di essi (Enrico) al Con-gresso sionistico internazionale (1921) spinse Enzo ad una scelta sionista, pre-sto seguita anche da Emilio (familiar-mente, Mimmo). Come quest’ultimo, in previsione di trasferirsi in Eretz Israel (nella Terra Promessa di Israel), dove prioritari sarebbero stati i problemi agricoli, decise di iscriversi ad Agraria, così anche Rossi – Doria, colpito dalle vi-cende che avevano preceduto il

delitto Matteotti, adottò la stessa scelta: il problema agrario sareb-

be stato nodale nell’espletamento di un’attività tecnica politicamente

orientata.In breve, non vi è alcun dubbio

PERCHÉNON TORNARE

A quella PORTICI?Gilberto A. Marselli

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che vi era una diffusa e generalizzata ten-sione ideologica, in quei tempi, a Portici fino addirittura all’arresto, avvenuto nel 1930, di Rossi – Doria ed Emilio Sereni per ricosti-tuzione del Partito Comunista: ed un’eco la si può trovare anche in quella pregevole testimonianza di Giorgio Amendola su quel periodo napoletano

2.

Una tensione che, grazie soprattutto al-l’impulso dato ancora una volta dallo stesso Rossi – Doria, appena ritornatovi come docente, ne costituirà una nota dominante a partire dagli anni (1948 e 1949) in cui si cominciò a pensare di poter realizzare una riforma fondiaria in Italia (le cui leggi furo-no approvate dal Parlamento nel maggio e nell’ottobre 1950) e si concretizzarono scelte che avrebbero caratterizzato la politica degli interventi straordinari nel Mezzogiorno.

Il carattere interdisciplinare e non solo tecnicamente orientato dato al suo inse-gnamento e, soprattutto, la passione da lui trasmessa ai suoi allievi e collaboratori trasformarono Portici e la sua Reggia in un punto nodale di tutto quanto sarebbe accadu-to nel Mezzogiorno negli anni futuri. E non ci si limitò solo ai problemi dell’agricoltu-ra: basterebbe pensare anche alle profonde innovazioni apportate alle metodologie da adottare nella redazione dei piani territoriali ai diversi livelli.

Infatti, in seguito, è stato unanimemente riconosciuto l’apporto dato alla redazione di questi documenti di Piano dalle indicazioni e dai suggerimenti tratti da quella mirabile esperienza che era stato, in questo campo, il rooseveltiano New Deal nella Tennessee Valley e nel Columbia Basin. Tracce di ciò si ebbero nei rilevamenti preliminari agli interventi di riforma fondiaria in Calabria (la carta delle utilizzazioni del suolo, suc-cessivamente copiata anche dal Centro di Geografia del Consiglio Nazionale delle Ricerche) e nelle articolazioni settoriali date, prima, al Piano per lo sviluppo della Lucania promosso dalla Svimez (1952/53) e, dopo, dal Piano di Coordinamento Territoriale per la Campania, in collaborazione con il Dott. Nino Novacco della Svimez, promosso dal Ministero dei LL.PP.

Il primo di questi interventi (il Piano Lucano) determinò anche l’arrivo a Portici di Rocco Scotellaro – il sindaco-poeta di Tricarico (Matera) – che ne curò la rela-zione sulla scuola e le attività formative

3,

collaborando a quella Sezione di Sociologia rurale, costituitasi presso l’Osservatorio di Economia agraria, che – grazie all’apporto

datovi dai numerosi colleghi stranieri attratti a Portici dall’interesse allora suscitato dalla nostra questione meridionale e dalla politica straordinaria di interventi – svolse un ruolo niente affatto trascurabile nella ripresa degli studi di Sociologia in Italia e, in particolare, di quelli in ambiente rurale, nonostante la prevalente influenza della tradizione stori-cistica crociana.

Purtroppo, nel 1953, Rocco morì a Porti-ci: le sue poesie

4 e la parte incompiuta della

sua ricerca sociologica, che avrebbe dovuto interessare tutto il Mezzogiorno

5, ebbero

l’autorevole riconoscimento del Premio Viareggio 1954, della critica e, non meno, dell’ambiente della ricerca: ma sollevò anche un’incresciosa polemica da parte di Carlo Sa-linari

6 e di Mario Alicata

7, successivamente

attenuate in un coraggioso e leale intervento dello stesso Giorgio Amendola nel Conve-gno organizzato dal PSI per l’anniversario della morte di Rocco.

È, oggi, motivo di sorpresa che i cin-quant’anni da quella scomparsa siano stati opportunamente ricordati a Potenza, prima, e, poi, a Tricarico; ma nessuna manifestazio-ne si sia avuta a Portici. Quella che, in una sua poesia del 1952, così era stata ricordata, sulla scia dei carretti degli orticoltori che portavano i loro prodotti al mercato ortofrut-ticolo napoletano e che lo vedevano spesso come compagno di strada nei suoi trasferi-menti notturni alla grande città:

“Nella resurrezione ogni mattinaportano il tuo nome e il tuo corposopra un ciuffo di canti di gallo,che lo taglia la ruota del carretto,il carretto che viene da ScafatiA portare cavolfiori ai mercati.”

Mentre del suo nuovo posto di lavoro e di meditazione (il Palazzo Reale di Por-tici) così aveva detto ancora nel 1952:

“Dai grandi archi della Reggiail mare è il primo a farsi vederebianco sotto le luci neredelle nubi lasciate dal giorno.Verso le grandi chiome dei pini spunta una Napoli corallina con le sue luci di palco.Degli amici vicini e lontani cade il ricordo, come cade la ghianda dalla nuvolaglia dei lecci.”

Non vi è alcun dubbio che, oggi, attra-versiamo un periodo gravido di problemi,

di ansie, di incertezze sul destino delle nostre realtà locali: innanzitutto, quella dell’area vesuviana; ma poi, anche del napoletano, della Campania e, più in ge-nerale, del nostro Mezzogiorno così come delle campagne abbandonate ed anche delle città e delle aree metropolitane.

Proprio in questi frangenti occorre-rebbe potersi valere degli stessi stimoli e strumenti che tanto ci aiutarono negli anni ’50: impegno politico e civile, rigo-roso approccio tecnico e metodologico, superamento di inconsistenti confini tra le diverse discipline, completa interazio-ne tra le due culture (quella umanistica e quella tecnico-scientifica) e, soprattut-to, incondizionato superamento di ogni gretto personalismo, alla continua ricerca di sempre più efficaci ed efficienti occa-sioni di collaborazione reciproca.

Ecco perché, all’inizio, mi sono per-messo di auspicare un ritorno a quella Portici: una particolare visione della vita e delle responsabilità, che non si possono più oltre eludere. Molte volte i voti si avverano e le utopie si trasforma-no in prove concrete del nuovo modo di come affrontare attivamente i problemi del momento.

Anche questo è un modo cosciente di assolvere le responsabilità proprie di una classe che non può più oltre sottrarsi ai propri doveri. Forse, l’unica strada da percorrersi senza alcuna esitazione.

Note1 M Rossi – Doria: La gioia tranquilla del

ricordo: Memorie 1905/1934 – Il Mulino, Bologna 19912 G. Amendola: Una scelta di vita – Rizzoli,

Milano 19763 R. Scotellaro: Scuole di Basilicata – in

Nord e Sud, A. I, n°1, 1954 e A. II, n°2, 19554 R. Scotellaro: È fatto giorno – Mondatori,

Milano 1954, con prefazione di Carlo Levi5 R. Scotellaro: Contadini del Sud – Laterza,

Bari 1954 – con prefazione di Manlio Rossi – Doria6 C. Salinari: Tre errori a Viareggio – in Il

Contemporaneo del 28 agosto 19547 M Alicata: Contadini del Sud – in Il

Contemporaneo del 4 settembre 1954; Il meridionalismo non si può fermare ad Eboli – in Cronache Meridionali – A. I, n

o 9, settembre 1954.

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Segue dalla prima pagina

…compiti che si è dato, e tende a rinchiudersi in sé e a ridurre perfino con-suetudini care, come cara era stata quella con Gaetano soprattutto negli anni della ”Città Nuova”, nella quale lavoravamo insieme, collaborando e discutendo e polemizzando. E aggirandomi, fra molti volti amici, nell’abitazione sua, e fra i suoi libri, messi insieme con un ordine e una precisione che gli ho sempre invidiato, mi è tornata in mente con forza la sua figura, il suo stile, il tono delle cose che diceva, la sua ironia e insieme le sue convinzioni radicate (anzi: radicatissime), che aveva-no costruito un personaggio della vita e della cultura napoletane, un impasto di cose e di idee, di convinzioni e di modi di fare che non è facile immaginare che si possano mai più ripetere. In quell’or-dine immediatamente comprensibile, si distendeva la biblioteca di un grande intellettuale comunista napoletano, dove con questo termine non si indica un limite ma un carattere profondo che ha dato identità al modo di pensare e di essere di una generazione di intellettuali e di politici, i quali sono stati, appunto, comunisti a Napoli, entrando nel cuore della cultura e della storia di una città nucleo vivente, per tanto tempo, della cultura nazionale. Benedetto Croce, credo completo e in bell’ordine, e poi la distesa delle edizioni classiche del Macchiaroli che aveva fondato e “fatto” per decenni i sobri fascicoli della “Parola del passato”, nell’intensa collaborazione con Giovanni Pugliese Carratelli. E poi, la storia del movimento operaio e comunista, con rari testi e opuscoli di Lenin e Stalin,

documenti non di archeologia politica ma di quelle connessioni intense che avevano consentito ai comunisti napoletani di pensare (e vivere), insieme, storicismo e realismo politico, idealismo e marxismo, dimensione etico-politica e scelte anche tragiche, ma infine di una serietà che toccava le corde più profonde della loro vita, e si presentava come visione politica sorretta da una fede, senza la quale, come disse Max Weber, prende il sopravvento, in politica, la mera forza violenta del po-tere, e il senso della nullità delle creature umane. E poi, la storia d’Italia, soprat-tutto fra otto e novecento, e De Sanctis e Dorso e Salvemini e Gramsci e Omodeo (con il quale Macchiaroli aveva lavorato con “l’ Acropoli”), quel De Sanctis che ha accompagnato Gaetano nei giorni ultimi, dedicati a mettere a punto, con la sua geniale attenzione al dettaglio (perché è il dettaglio che fa l’insieme, come mi disse una volta, rispondendo

infastidito alle critiche di “pignoleria”), l’edizione del “Viaggio elettorale” che aveva potuto vedere, elegante nella sua straordinaria sobrietà, solo qualche giorno prima della fine, di quella morte che “in ozio stupido non ci può trovare” come suona il soliloquio di Benedetto Croce. Insomma, un mondo visto da Napoli, ma da una Napoli che consentiva universalità dello sguardo, serietà nei compiti che ci si dava, laboriosità estrema, insofferente verso ogni rappresentazione della napole-tanità come geniale pigrizia e chiacchiera sull’universo e sul vuoto.

Solo a Napoli, dunque, da tutto questo impasto di letture e di scelte, si è potuto formare una generazione politica e intellettuale di cui Macchiaroli è stato protagonista per il tempo pieno della sua vita. Ma poi, naturalmente, Gaetano era soprattutto se stesso, ironico su tutto e anche su se stesso e sulla sua generazio-ne, autocritico ma non fedifrago, di una ironia non distruttiva e capace di essere alla radice di tutto ciò che operava, im-pasto di precisione e levità, ma di mano pesante quando “ci voleva”, disteso in un idea del tempo che andava continuamente riconquistato all’esperienza e al fare. Altri potranno parlare, con più competenza di me e nei particolari, della sua produzione, di Macchiaroli editore colto, io ho voluto soltanto provare a restituire l’impressione che ho avuto aggirandomi fra i suoi libri, con lui ancora presente, era un mondo che andava via, sessant’anni di storia na-poletana che si chiudevano tuttavia nella fiducia che l’opera resta, qualunque essa sia, e questo è il modo laico per considerare non inutile quello che l’azione di ognuno riesce a inventare.

Gaetano Macchiaroli una grande

figuradi intellettuale

comunista napoletanoBiagio de Giovanni

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Le esigenze della vita hanno portato Giorgio Napolitano, ormai da molti anni, lontano da Napoli, ma questo non ha diminuito l’affetto che nutro per lui, un affetto che sento ri-cambiato e che si ravviva ogni qualvolta ci incontriamo. Anche per questi sentimenti la nomina a senatore a vita che Ciampi gli ha conferito mi ha riempito di gioia, insieme a tanti napoletani grati al Presidente per questa scelta, giusto riconoscimento ad uomo che ha dedicato tutta la vita alle istituzioni non solo a livello nazionale. Importante è stato anche il suo contributo al Parlamento Europeo dove ben presto è divenuto un punto di riferimento per tutti i parlamen-tari europei non solo italiani.

Ho conosciuto Giorgio Na-politano appena dopo la libera-zione. Era uno di quei giovani, di famiglia borghese, suo padre era uno dei più noti e stimati avvocati di Napoli, che avevano maturato il loro antifascismo partecipando al dibattito cul-turale del gruppo universitario fascista. Mi sono spesso chiesto perché nel periodo fascista molti personaggi che si iscrissero al PCI avevano un’estrazione cul-turale familiare liberale. Io stesso venivo da una famiglia borghe-se, come Amendola addirittura figlio di un ministro liberale. In passato mi sono dato una rispo-sta che oggi mi sembra riduttiva addebitandola all’immobilismo dei partiti liberal- democratici durante il fascismo. E’ però in-dubbio che il Partito Comunista Italiano si sia diversificato dagli altri partiti comunisti per questo

invaso di idee liberali, tanto da far dire secondo me giustamen-te che esiste una linea politico culturale che va da De Sanctis a Labriola a Croce fino a Gramsci, e Giorgio Napolitano è uno dei migliori interpreti di questo ar-ricchimento democratico che ha portato il PCI ad allontanarsi da posizioni massimaliste e a dive-nire uno dei pilastri fondamen-tali della crescita democratica nel nostro paese.

Ma queste posizioni che era-no poi di Amendola e di alcuni di noi “riformisti” tra i quali non posso non citare Chiaromonte, non sono state accettate per molto tempo all’interni del PCI, soprattutto dai compagni che avevano vissuto i momenti più duri della vita politica italiana. Penso che lo stesso Napolitano abbia pagato con la mancata elezione a segretario prima alla morte di Longo e poi a quella di Berlinguer, la sua vicinanza

alle posizioni di Amendola o per dir meglio a quelle di un comu-nismo liberale. A tal proposito sono molto curioso di leggere il libro autobiografico in cui Giorgio Napoletano non esita a definirsi un comunista liberale

Ho sempre condiviso la sua visione politica e questo ha rafforzato un rapporto umano ed un’amicizia che hanno avuto modo di prendere vigore quan-do entrambi per alcuni anni abbiamo vissuto porta a porta nello stesso edificio di via Toma. Ho così potuto apprezzare con una frequentazione quotidiana non solo gli aspetti noti a tutti del suo stile, della sua raffinata gentilezza, dei suoi modi sem-pre impeccabili, ma anche di un uomo pieno di humor, con quella capacita che è prerogativa dei napoletani di essere pronti a cogliere gli aspetti comici ed ironici della vita. Ricordo con un po’ di nostalgia gli incontri sulle nostre attigue terrazze da cui si godeva un panorama mozzafia-to, con in primo piano i giardini di villa Lucia e della Floridiana. Le cene d’estate con le nostre mogli Clio e Litza e i nostri ra-gazzi a scorrazzare tra i tavoli. Le discussioni anche accese fino a tarda notte ma sempre in un’at-mosfera gioiosa e cordiale.

Sono sicuro che ancor di più da senatore Giorgio continuerà ad impegnarsi per la salvaguar-dia di quei valori etico politici che sono da sempre presenti nella sua vita, esempio per chiunque voglia fare politica attiva intesa come servizio per lo sviluppo e il miglioramento di questo paese.

GIORGIO NAPOLITANO SENATORE A VITA

IL GIUSTO RICONOSCIMENTO AD UN UOMOCHE HA DEDICATO TUTTA LA SUA VITA

ALLE ISTITUZIONIMaurizio Valenzi

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GIANNI PITTELLAEuroparlamentare, Segretario Generale

delegazione italiana al PseRelatore Generale Bilancio UE 2006 al Parlamento Europeo

IVANO RUSSODirettore Centro Mezzogiorno Europa, Dottorando in Scienza Politica

e Storia delle Istituzioni in Europa, Università Federico II Napoli

Prefazione di PIERO FASSINO

Edizione Il Denaro libri

Un’analisi storico-politica dell’attuale fase di diffi-coltà del processo d’integrazione europeo. All’indomani del doppio referendum in Francia e Olanda, con cui è stato respinto il Progetto di Trattato Costituzionale, e del mancato accordo sulle nuove Prospettive Finanzia-rie, l’Unione vive il momento forse più delicato della sua cinquantennale storia. Il consumarsi della storica funzione di traino dell’asse franco – tedesco, il ruolo politico e geostrategico dei nuovi 10 Paesi del “grande allargamento”, il delicato tema dell’adesione della Tur-chia, le relazioni transatlantiche nel contesto della lotta al terrorismo internazionale, la crisi di competitività UE nei mercati globali: da quali risposte il Vecchio Conti-nente saprà offrire a tali complicati nodi, dipendono molte delle possibilità per l’Europa di affermarsi quale attore politico protagonista dello scenario globale.

Nella prima parte del volume si ripercorre quella che viene definita La grande illusione: dopo il 1989, con la riunificazione tedesca, la fine del bipolarismo mondiale Usa – Urss, l’avvio del processo di adesione dei PECO, il varo del Processo di Barcellona, molti credettero nella prospettiva di un mondo finalmente pacificato e in cui l’Unione avrebbe potuto giocare, in funzione anche del suo ruolo di grande Potenza Civile, un ruolo politico assolutamente primario nel ridisegno degli equilibri internazionali.

La seconda parte del volume è dedicata all’analisi

della tante difficoltà, intervenute a partire dalla metà degli anni Novanta, e di fronte alle quali non sempre l’Unione pare essere riuscita ad offrire risposte e ini-ziative convincenti. Dalle guerre balcaniche e fino alla recente crisi irachena, ci si sofferma sui limiti e le po-tenzialità di un’azione politica – soprattutto per quanto attiene alle relazioni internazionali e ai processi interni di riforme istituzionali – certamente non all’altezza della situazione.

L’ultima parte affronta invece, più nello specifi-co, i numerosi risvolti economici e politici del com-plesso negoziato sulle nuove Prospettive Finanziarie 2007 – 2013. Si tratta di un ulteriore banco di prova per testare la coesione dei 25 e l’incisività delle scelte di fondo dell’intera Unione su temi strategici quali la Politica di Coesione, la riforma strutturale del Bilancio comunitario, il rilancio della Strategia di Lisbona, il ri-pensamento critico della Pac, la centralità delle politiche per l’innovazione e la competitività.

Producendo un significativo sforzo volto ad ap-profondire e collegare dinamiche politiche attuali e ricostruzione storica delle principali linee di tendenza lungo le quali il processo d’integrazione, fin dal 1950, è andato via via delineandosi, gli autori hanno provato ad offrire almeno una delle tante chiavi di lettura, ispirata certamente da cultura federalista, su come Superare la crisi e rilanciare il progetto.

Superare la crisi, rilanciare il progetto

Europa al bivio

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Il 12 Novembre Gaetano Arfè compie 80 anni: auguri vivissimi di Mezzogiorno Europa!

Il 28 novembre, alle ore 16,30, presso l’Istituto Ita-liano di Studi Filosofici, Gerardo Marotta, antico sodale di Gaetano, con la collaborazione di Guido D’Agostino, storico e presidente dell’Istituto Campano di Storia della Resistenza, e Ciro Raia, curatore di una biografia oltre che conterraneo di Gaetano Arfé, tanti amici, compagni, studiosi ed allievi festeggeranno il professore Arfé, che nel ripercorrere il suo lungo cammino, è solito ripetere, “trovo errori che mi piacerebbe correggere ma non colpe di cui pentirmi”.

L’insigne storico ed uomo politico, solo da alcuni anni ritornato a vivere stabilmente a Napoli, ha attraver-sato, sempre da protagonista, gli ultimi cinquant’anni del “secolo breve”. Egli è stato, infatti, giovane parti-giano combattente in Valtellina, poi, tra gli animatori, a Napoli, del “Gruppo Gramsci” ed attore dei primi passi del ricostruito partito socialista; è stato, inoltre, senatore della Repubblica e parlamentare europeo, di-rettore dell’Avanti! per un decennio, docente di storia contemporanea negli atenei italiani. È autore di una preziosa “Storia dell’Avanti!” e di una “Storia del so-cialismo italiano”, senza, per questo, dimenticare gli innumerevoli saggi ed articoli che portano la sua firma e che riguardano personalità del mondo della politica e della cultura, episodi ed uomini della Resistenza, analisi storiche e contributi personali per la compren-sione della storia della classe operaia e dei partiti della sinistra italiana.

Arfé ha avuto maestri ed interlocutori privilegiati quali Croce e Chabod, Nenni e Saragat, Lombardi e don Milani, Pertini e Valiani. Per non parlare di Francesco De Martino, poi, autentico punto di riferimento sia per la comune origine nella città di Somma Vesuviana, sia perché “Francesco rappresenta il ricordo e la speranza dei vessilli rossi con la scritta “Giustizia e Libertà” e di quelli che, con parola oggi desueta, chiamavamo com-pagni, uniti dalla fede nella giustizia e nella libertà ”. Un unico maestro su tutti, però, fu il vero responsabile della formazione e delle scelte del giovane Gaetano, “fu

mio padre, che era originale per le sue idee e che mi ha trasmesso i valori dell’etica socialista e della soli-darietà tra le persone ed i popoli”.

Dopo anni vissuti a Firenze, a Parma ed a Roma, Arfé è ritornato nella sua Napoli, dove vive, sorretto da un’immarcescibile passione politica e culturale, animando con suoi scritti le palestre letterarie de “Il Ponte”, de “La Rinascita della sinistra” di “Italia Con-temporanea” o de “L’Acropoli”. Ma Napoli si è rivelata anche un po’ matrigna nei confronti di Arfé; per una serie, infatti, di incomprensioni, di disattenzioni o di difficili intese non è stato possibile trovare dimora alla preziosa e ricca biblioteca, che lo storico aveva donato alla città della Repubblica del 1799 e delle “Quattro giornate”. Così ben settemila volumi sulla storia della classe operaia e su quella del socialismo, dopo essere stati per qualche anno in naftalina presso l’Università di Napoli, hanno dovuto riprendere la strada per Firen-ze, città in cui, presso l’Istituto di Studi storici “Filippo Turati”, vive il fondo di Gaetano Arfé e che comprende l’archivio (con materiale fin dal 1918, raccolto dal padre Raffaele, fino ai nostri giorni) e la biblioteca con ben 12.000 volumi.

Allora l’appuntamento è a Palazzo Serra di Cassano, luogo in cui Pietro Lezzi, Antonio Lombardi, Andrea Geremicca, Fausto Corace, Ferdinando Imposimato, Maurizio degl’Innocenti, il sindaco di Napoli Iervolino, il presidente Bassolino, Valdo Spini, Marcello Rossi, Gilberto Marselli, Gianni Ferrara, Antonio Guizzi, Giu-seppe Avolio, Luigi Marino – insieme a tanti ed innu-merevoli amici che stanno assicurando la loro presen-za – faranno gli auguri ad Arfé, ad un maestro, perché, come ebbe a dichiarare il sindaco Iervolino, “In tempi difficili, come quelli che viviamo, gli esempi, le opere e le testimonianze degli uomini onesti valgono più dei libri, più dei proclami dei politicanti, più del fascino, pur sempre vivo, dei facili guadagni ”. E Gaetano Arfé è, senza ombra di dubbio, un uomo onesto, la cui testi-monianza e la cui opera sono una preziosa risorsa per questo paese così martoriato dai tanti mercanti entrati nel tempio della politica e della cultura.

Gli ottant’annidi Gaetano Arfè

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La crisi dell’Unione non si arrestaEURONOTES di Andrea Pierucci

Consiglio europeo informaledi Hampton Court

Niente da dire: una riunione piena di charme e di sorrisi, ma molto meno piena di risultati. Certo, bisogna premettere che si trattava di un Consiglio informale e, dunque, per definizione dedicato solo alla discussione. Ma, in una situazione di crisi, si era in diritto di attendere qualcosa di più. Invece, non fosse stato per il documento della Commissione sulla globalizzazione (vedi oltre), ci sarebbe stata ben poca carne al fuoco. Restano i commenti molto pesanti di alcuni leaders che, invece di cercare la pace, annunciano cipigli battaglieri. Schroeder e gli olandesi non vogliono cacciare un soldo di più per il bilancio; Chirac pone veti e controveti se, nel corso dei negoziati post-Doha sul commercio internazionale, si dovesse toccare la politica agricola; Berlusconi fa appello al deficit spending e dice che l’EURO ha ridotto del 50% la competitività dell’Italia (ma, mi pare, non dell’Europa) e lo stesso Blair si dichiara favorevole al fondo anti-globalizzazione proposto dalla Commissione, ma solo se esso sarà gestito fuori dal bilancio ordinario dell’Unione. E’ un vero peccato, perché la strettissima, quasi osmotica, cooperazione fra la Presidenza britannica e la Commissione avrebbe potuto produrre effetti straordinari; non è stato così. Chi rischia di più è la Commissione, poiché il Parlamento europeo non potrà prendersela che con lei.

Dunque, sfortunatamente, gli annunci di rilancio dell’Eu-ropa – in forme discutibili, ma delle quali, appunto bisognava discutere – fatti da Tony Blair sono rimasti tali. Mancano ancora due mesi alla fine della presidenza: speriamo che servano a risolvere qualche problema. Il Consiglio europeo di dicembre dovrebbe affrontare la questione delle prospettive finanziarie 2007-2013. Si tratta del nodo principale dopo quello della Costituzione. Come ha giustamente detto il Presidente Barroso (che ha fatto delle proposte delle quali riferiamo oltre), le prime vittime saranno i nuovi Stati membri e le regioni più deboli: un altro attacco alla credibilità dell’Unione da parte dei suoi maggiori leaders.

Un periodo difficile per l’Unione europea

Dopo i colpi subiti in primavera e in luglio dall’Unione, sarebbe tuttavia difficile preconizzare un periodo di grande tranquillità. Business as usual è una formula che non dovrebbe poter essere impiegata in questo momento, eppure è proprio su una simile di-chiarazione della Commissione che la Conferenza dei Presidenti dei gruppi politici del Parlamento europeo ha fortemente attaccato il Presidente Barroso. Bisogna, tuttavia, analizzare due aspetti della questione. Da un lato, come ho indicato in un articolo apparso sul numero precedente della Rivista, la Commissione non può non

insistere con vigore sulla strada della continuità: l’Unione esiste ed ha delle responsabilità che non può e non deve eludere. D’altro canto, ci sarebbe bisogno di idee e su questo punto siamo molto, molto in ritardo: il Parlamento europeo “vorrà bene” alla Commissione solo se quest’ultima lo spingerà fortemente verso un impegno sulle idee.. Se guardiamo ai recenti dibattiti, compreso a sinistra, sembra che la causa di tutti i mali sia il modello sociale europeo. Vi è chi lo vuol riformare, per esempio la sinistra di Tony Blair e altri. Tuttavia alcuni di loro, come per esempio lo stesso Blair, negano l’esistenza di un modello sociale europeo. In seno alla Commissione europea vi sono voci fortemente contraddittorie, se è vero che il Presidente sembra incerto sull’esistenza di un tale modello e il Commissario Ceco, il socialista Spidla, ne riafferma i valori. Gli unici, grazie al cielo, che rivendicano l’esistenza di un tale modello, sembrano essere gli indu-striali illuminati! Sembra ormai che il riavvicinamento della politica ai cittadini passi, ripeto anche per una buona parte della sinistra, per la riduzione delle pensioni o, in generale, per la compressione dello stato sociale. Poi, se tutto va bene, si creeranno di conseguenza nuova posti di lavoro. Bah! Fortunatamente dissonanti sembrano essere le voci che si levano dal Parlamento europeo, che, confermando il valore del modello sociale europeo, propone di affrontare come tale la crisi della costruzione europea.

In particolare, è in preparazione un rapporto di due eminenti parlamentari Duff (liberale britannico) e Voggenhuber (verde austria-co). I due relatori propongono che, alla fine del periodo di riflessione e di dialogo con i cittadini, abbia luogo una nuova Convenzione per rivedere alcuni aspetti della Convenzione e, mi par di capire, per evitare di riprodurre il testo dei Trattati. Mi sembra un’idea ragionevole, ma ci vuole dell’altro: in molti su questa rivista hanno sostenuto che ci vogliono idee e realizzazioni.

Anche la Commissione si è mossa su questo punto con due do-cumenti. Il primo, il “piano D” (come dialogo, democrazia e dibattito), incita le istituzioni europee e nazionali ad aprire un dibattito con il maggior numero possibile di cittadini per comprendere cosa questi ultimi attendono dall’Unione. L’interesse di questo documento risiede nella proposta che il dialogo si sviluppi a tutti i livelli, a partire dalle differenze che vi sono fra gli Stati membri, e che tenda ad arrivare ad una sintesi, per il 9 maggio 2006, affinché si possano poi prendere le deliberazioni conseguenti.

Infine, una reazione sensata alla globalizzazione!

Di grande interesse (forse si tratta del documento più interes-sante prodotto dalle istituzioni in questi giorni non proprio di sole) è il secondo documento, quello sulle conseguenze della mondializza-zione. Il documento non cede alla facile tentazione (ripeto fin troppo sostenuta anche a sinistra) di cercare la competitività con le econo-mie emergenti e con gli Stati Uniti demolendo le conquiste sociali

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[51]I N F O

o negando un ruolo dello Stato per il sociale. Sono particolarmente interessanti due aspetti. Il primo riguarda l’analisi. Nella sua prima parte, l’analisi avanza delle considerazioni assai benvenute. In primo luogo, sottolinea il dualismo fra un’Europa proiettata nel moderno, nell’innovazione, nelle grandi realizzazioni tecnologiche e l’Europa dei 19 milioni di disoccupati. Non si può, appunto, applicare una ricetta americana o asiatica, perché gli europei attendono dallo Stato molto di più di questi ultimi (si badi, quest’affermazione è presentata come un “vanto” e non come una disgrazia). La seconda è particolarmente interessante, perché era un po’ che non si sentivano cose del genere: il rallentamento della crescita è prima di tutto un problema sociale. Inoltre, l’Europa condivide dei valori comuni, pur nella diversità e, non solo, ma le sue politiche sostengono già oggi fortemente l’azione delle istituzioni nazionali ed il dialogo sociale. Fra le proposte, tutte tese all’innovazione, spicca quella della creazione di un fondo di adattamento alla globalizzazione per le imprese ed i lavoratori (una minoranza, secondo la Commissione) che fossero colpiti direttamente dal processo di globalizzazione. Per una Commissione tacciata di ultraliberismo è un cambiamento significativo, tant’è vero che, nel Parlamento europeo mentre la destra si è dimostrava piuttosto scioccata per questo documento, la sinistra tesseva le lodi della Commissione. Vedremo gli avveni-menti ed il seguito della vicenda: redenta sulla via di Damasco o opportunamente attenta a salvare un equilibrio che può concederle il mantenimento di una qualche maggioranza?

Prospettive finanziarie

Siamo di fronte ad un altro dossier di crisi, non risolto a Hampton Court: l’Unione non riesce a definire la spesa (e le grandi politiche) per gli anni 2007/2013, le così dette prospettive finanziarie. Il problema non è di poca importanza, né poco urgente. L’importanza è quasi evidente, poiché senza chiarezza di bilancio e di obiettivi l’Unione non va da nessuna parte, altro che riavvicinarsi ai propri cittadini! L’urgenza è dovuta al fatto che gli Stati membri e le regioni attendono la definizione delle nuove regole per i fondi strutturali (le attuali scadono a fine 2006) e la relativa dimensione finanziaria per fissare la loro programmazione. Questo vale per gli attuali Stati membri, specie per le regioni che sono al limite dei requisiti per rientrare nell’obiettivo uno (le regioni più povere) e che dunque non sanno se avranno o meno i fondi e vale, soprattutto per i nuovi che debbono lanciare la loro prima programmazione per un periodo così lungo. I governi fanno poco per risolvere il problema. Forse in novembre la presidenza britannica avanzerà qualche pro-posta per mettere termine alla crisi scoppiata al Consiglio europeo di luglio; se tutto va bene, si avrà una soluzione, sotto presidenza austriaca, nel primo semestre 2006 – tardi, ma sempre meglio che se anche la presidenza austriaca dovesse fallire in questo campo. La Commissione ha già annunciato che, comunque, se la decisione non sarà presa entro quest’anno, ci saranno dei danni. Per questo ha fatto due proposte. La prima, inviata con una lettera del Presidente

ai Capi di Stato e di Governo, è quella di concludere la vicenda al più presto senza mettere in causa le politiche esistenti (inclusa la politica agricola comune) e con alcune soluzioni tecniche – per esempio il finanziamento specifico fuori bilancio di alcune iniziative nuove. La Commissione avanza cinque proposte specifiche; speriamo che funzioni! Tuttavia non si deve dimenticare che la vicenda prospettive finanziarie coincide con la preparazione e la tenuta della riunione di Hong Kong sul commercio internazionale (seguito della grande con-ferenza di Doha), che implica una discussione su una riforma ulteriore dell politica agricola – intorno al 50% del bilancio dell’Unione con una ben nota sensibilità, in particolare francese. Questa situazione favorirà piuttosto la polemica che l’accordo.

La seconda riguarda la necessità di approvare, in linea di principio, gli atti legislativi di riforma dei fondi strutturali senza includervi i crediti considerati necessari, nell’attesa delle nuove proposte finanziarie. Il rischio che una soluzione non sia trovata è comunque alto, tant’è vero che si cerca di capire cosa succederà per il bilancio 2007 se non vi saranno le prospettive finanziarie entro fine 2006. il problema tecnico è risolubile, partendo dall’idea che, in ogni caso, il bilancio è annuale e, dunque, niente impedisce una sua approvazione anche se le prospettive finanziarie non ci sono. I problemi politici, invece, restano gravi. E’ difficile non considerare l’incapacità di definire le prospettive finanziarie come un inaspri-mento della crisi di un’Unione, a quel punto, incapace di intravedere cosa farà nel prossimo futuro e, peggio, incapace di mantenere gli impegni di solidarietà presi con i nuovi membri. Inoltre, si può facilmente immaginare il carattere drammatico di una battaglia sul bilancio – stavolta si potrebbe dire senza regole – fra Parlamento e Consiglio in assenza di un quadro politico di riferimento.

Comitato delle Regioni e Comitato economico e sociale europeo

I due Comitati, intanto, lavorano a ritmo normale. La notizia non è, per ora, fondamentale, ma è interessante notare che, forse incitati dalla crisi o, anche, dall’evoluzione di strategie allo studio da un certo tempo, i due Comitati tendono ad aprirsi maggiormente al contributo diretto della loro “base sociale”. Il Comitato delle Regioni ha organizzato un ben riuscita “setti-mana delle regioni delle città” che ha visto una forte presenza di dirigenti politici al livello locale e regionale, di membri della Commissione europea e di tecnici europei. Durante la riunione si è anche svolta un’accesa riunione ministeriale. Il “nemico” di turno è stato il signor Prescott, vice Primo Ministro britannico, che ha seriamente messo in discussione le politiche strutturali.

Il Comitato economico e sociale europeo terrà invece il 7 e l’8 novembre uno stakeholder forum (una grande riunione dei principali personaggi sindacali e padronali e delle associazioni) per affrontare i temi dell’economia europea e, in particolare della strategia di Lisbona.

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di Iniziativa Mezzogiorno EuropaN. 5 – Anno VI – Settembre/Ottobre 2005

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