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1 Il forum di bioetica vuole suscitare un interesse culturale sui principi fondanti della bioetica e aprire il dibattito sui dilemmi etici dell’epoca moderna INDICE: Principi e Dilemmi di Bioetica I disastri del Demonio i silenzi e le risposte di Dio, Paolo Rossi Il problema del male; Le teodicee: La teodicea biblica – Giobbe La persecuzione diabolica dell’innocente. Dio risponde La teodicea nella cultura cristiana Il silenzio di Gesù al centro della storia La catena d’oro delle beatitudini I disastri del Demonio i silenzi e le risposte di Dio Paolo Rossi La Sacra Scrittura parla del Demonio dal primo all'ultimo dei Libri rivelati, dalla Genesi all'Apocalisse. Nella parabola della zizzania il Signore afferma che la cattiva semente, il cui scopo è soffocare il grano, è stata seminata dal "nemico" (Mt 13,25). Nella parabola del seminatore «viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato» (Mt 13,19). Alcuni, con ottimismo superficiale, pensano che il male sia una mera imperfezione accidentale in un mondo che si evolve di continuo verso giorni migliori. Tuttavia la storia dell'uomo ha subìto !'influenza del diavolo. Ai nostri giorni vi sono segni di profonda malizia che il solo agire umano non basta a spiegare. Il demonio, in vario modo, causa stragi nell'umanità. Senza dubbio «tutta intera la storia umana è pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall'origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all'ultimo FORUM di BIOETICA NEWSLETTER n. 125 aprile - 2015

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Page 1: newsletter n.125 aprile 2015 · 4/10/2015  · dell'uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l'ha seminata

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Il forum di bioetica vuole suscitare un interesse culturale sui principi fondanti della bioetica e aprire il dibattito sui dilemmi etici dell’epoca moderna INDICE:  Principi e Dilemmi di Bioetica

I  disastri  del  Demonio   i  s i lenzi  e   le  r isposte  di  Dio ,  Paolo  Rossi  I l  problema  del  male ; Le   teodicee :    

La   teodicea  b ib l ica  –  G iobbe   -­‐ La  persecuzione  d iabol ica  del l ’ innocente .  Dio  r isponde  La   teodicea  nel la  cul tura  cr is t iana  

I l   s i lenzio  d i  Gesù  a l   centro  del la  s tor ia    La  catena  d ’oro  del le  beat i tudini  

 

 

I   d i sas t r i  de l  Demonio   i   s i l enz i   e   l e   r i spos te  d i  D io  

Pao lo  Ross i  

La Sacra Scrittura parla del Demonio dal primo all'ultimo dei Libri rivelati, dalla Genesi all'Apocalisse. Nella parabola della zizzania il Signore afferma che la cattiva semente, il cui scopo è soffocare il grano, è stata seminata dal "nemico" (Mt 13,25). Nella parabola del seminatore «viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato» (Mt 13,19). Alcuni, con ottimismo superficiale, pensano che il male sia una mera imperfezione accidentale in un mondo che si evolve di continuo verso giorni migliori. Tuttavia la storia dell'uomo ha subìto !'influenza del diavolo. Ai nostri giorni vi sono segni di profonda malizia che il solo agire umano non basta a spiegare. Il demonio, in vario modo, causa stragi nell'umanità. Senza dubbio «tutta intera la storia umana è pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall'origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all'ultimo

FORUM  di  BIOETICA  

NEWSLETTER  n.  125  

aprile - 2015

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giorno» 1. Pertanto «l'azione di satana certamente causa molti danni - di natura spirituale e indirettamente di natura anche fisica ai singoli e alla società» 2. Il demonio è un essere personale, reale e concreto, di natura spirituale e invisibile. A causa del suo peccato si è allontanato da Dio per sempre, «perché il diavolo e gli altri demoni furono creati da Dio naturalmente buoni; ma essi, da sé stessi si fecero cattivi. Questa "caduta", che presenta il carattere di rifiuto di Dio con il conseguente stato di "dannazione", consiste nella libera scelta di quegli spiriti creati, che hanno radicalmente e irrevocabilmente rifiutato Dio e il suo regno, usurpando i suoi diritti sovrani e tentando di sovvertire l'economia della salvezza e lo stesso ordinamento dell'intero creato. Un riflesso di questo atteggiamento lo si ritrova nelle parole del tentatore ai progenitori: "Diventerete come Dio" o "come dei" (Gn 3, 5). Così lo spirito maligno tenta di trapiantare nell'uomo l'atteggiamento di rivalità, di insubordinazione e di opposizione a Dio, che è diventato quasi la motivazione di tutta la sua esistenza» 3. È il "padre della menzogna" (Gv 8,44), del peccato, della discordia, della disgrazia, dell'odio e di quanto c'è di cattivo e assurdo in terra (Eb 2,14). È il serpente astuto e invidioso che porta la morte al mondo (Sap 2, 24), il nemico che semina il male nel cuore dell'uomo, è la zizzania che cresce in mezzo al grano. (Mt 13, 24-30). «Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l'ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. (Mt 13, 36-39). L’unico scopo del demonio nel mondo, al quale non ha rinunciato, è la nostra perdizione. E ogni giorno tenterà di perseguire questo scopo attraverso tutti i mezzi a sua disposizione. Di qui l’esortazione di papa Francesco: «la vita in Dio si deve difendere, si deve lottare per portarla avanti con forza e coraggio “per resistere e per annunziare”. Non è un semplice scontro, no, è un combattimento continuo. Sono tre “i nemici della vita cristiana: “il demonio, il mondo e la carne”, ovvero le nostre passioni, “che sono le ferite del peccato originale”. Certo, la salvezza che ci dà Gesù è gratuita, ma siamo chiamati a difenderla: “Da che devo difendermi? Cosa devo fare? ‘Indossare l’armatura di Dio’, ci dice Paolo 4, cioè quello che è di Dio ci difende, per resistere alle insidie del diavolo. Non si può pensare ad una vita spirituale, ad una vita cristiana, diciamo ad una vita cristiana, senza resistere alle tentazioni, senza lottare contro il diavolo, senza indossare questa armatura di Dio, che ci dà forza e ci difende”. San Paolo, sottolinea che “la nostra battaglia” non è contro cose piccole, “ma contro i principati e le potenze, cioè contro il diavolo e i suoi”. Ma a questa generazione – a tante altre – hanno fatto credere che il diavolo fosse un mito, una figura, un’idea, l’idea del male. Ma il diavolo esiste e noi dobbiamo lottare contro di lui» 5. Il demonio, quando tenta, usa l'inganno: infatti non può che proporre falsi beni e una felicità fittizia che si muta poi sempre in solitudine e amarezza. Al di fuori di Dio non esistono, né possono esistere, il bene e la felicità veri. Fuori di Dio ci sono solo l'oscurità, il vuoto e la tristezza più grandi. Il potere del demonio è, però, limitato: anch'esso è sotto il dominio e la sovranità di Dio, che è l'unico Signore dell'universo. Il demonio non può penetrare nella nostra intimità se noi non vogliamo (e neppure l'angelo custode). «Il demonio non può violentare la nostra libertà per inclinarla al male. «È chiaro dunque che nessuno può essere ingannato dal demonio, se prima non gli ha voluto dare il consenso della sua volontà» 6. Il santo Curato d'Ars dice che «il demonio è un grosso cane incatenato che importuna, che fa molto rumore ma che morde solo coloro che gli si avvicinano troppo» 7. D'altra parte «solo il potere divino riesce a superarlo e solo la luce divina può capire le sue astuzie. Per questo l'anima

1 Concilio Vaticano II, Cost. Gaudium et spes, 37. 2 Giovanni Paolo II, Udienza generale, 20 agosto 1986. 3 Concilio Lateranense IV,1251,Dz88(428). 4 “State dunque saldi: prendete la verità per cintura dei vostri fianchi; rivestitevi della corazza della giustizia; mettete come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace; prendete oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio.” (Efesini 6:14-17) 5 Papa Francesco, Omelia nella Messa a Santa Marta, 30 /10/ 2014 6 Cassiano, Conferenze spirituali, VII, 15. - 8. 7 Santo Curato D'Ars, Omelia sulle tentazioni.

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che deve vincerne la forza non lo potrà fare senza ricorrere alla preghiera, come del resto non potrà intenderne gli inganni senza umiltà e mortificazione» 8. Il demonio, però, continua a detenere un certo potere sul mondo, nella misura in cui gli uomini rifiutano i frutti della Redenzione. Ha potere su coloro che, in un modo o nell'altro, si donano volontariamente a lui, preferendo il regno delle tenebre al regno della grazia. Per questo non dobbiamo meravigliarci nell'assistere, in tante circostanze, al fatto che il male trionfi nel mondo, e che la giustizia venga lesa. Ci deve dare molta fiducia la consapevolezza che il Signore ci ha lasciato molti mezzi per vincere e per vivere nel mondo con la pace e l'allegria di un buon cristiano. Fra tali mezzi ci sono: l'orazione, la mortificazione, l'accostarsi con frequenza all'Eucaristia e alla Confessione, e la devozione alla Vergine: insieme alla Madonna siamo sempre al sicuro. Anche l'uso dell'acqua benedetta è un'efficace protezione contro l'influsso del diavolo: «Mi chiedi perché ti raccomando sempre, con tanto impegno, l'uso quotidiano dell'acqua benedetta. - Potrei darti molte ragioni. Ti basterà sicuramente questa della Santa di Avila: "Da nulla fuggono i demoni, e per non far ritorno, più che dall'acqua benedetta» 9.

Il problema del male Il male è dentro di noi e intorno a noi. Dal punto di vista fenomenologico, il male comprende le catastrofi naturali (tsunami, terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni), le patologie degli esseri viventi (malattie, handicap, incidenti, morte), le deficienze morali (peccato, vizio, tentazioni), i disordini sociali (ingiustizia, violenza, oppressione, guerra), le carenze e le deviazioni del pensiero (ignoranza, errore). Del resto, leggendo i giornali – o utilizzando internet o la tv o la radio – ogni giorno noi assistiamo a un film perverso sul male, che viene “girato” in ogni parte del mondo con sceneggiature sempre nuove e crudeli, come constatiamo dalle mille provocazioni del terrorismo internazionale. A questa razione giornaliera di male c’è da aggiungere il male che resta quasi invisibile, ma che esiste nelle sedi più impensate e che, paradossalmente, viene presentato come bene, come espressione del “progresso” dell’umanità. Si pensi, ad esempio, alle cliniche abortistiche, autentici mattatoi di esseri umani in boccio; ai laboratori dove si fabbrica, ad esempio, la Ru 486, la “pillola anticoncezionale del giorno dopo” o dove si manipolano gli embrioni umani, come fossero semplice materiale biologico; ai parlamenti delle nazioni cosiddette “civili”, dove si promulgano leggi contrarie alla natura dell’essere umano, come l’approvazione di matrimoni tra persone dello stesso sesso o l’eutanasia. Oltre all’abominevole terrorismo dei kamikaze, che occupa quotidianamente la nostra cineteca mediatica, c’è il cosiddetto “terrorismo  dal  volto  umano” 10 anch’esso quotidiano e altrettanto ripugnante, che viene subdolamente propagandato dai mezzi di comunicazione sociale, manipolando ad arte il linguaggio tradizionale, con espressioni che nascondono la tragica realtà dei fatti. Ad esempio, l’aborto viene chiamato interruzione volontaria della gravidanza e non uccisione di un essere umano indifeso; la clinica abortiva viene indicata con una espressione innocua, anzi attraente: centro di salute riproduttiva; l’eutanasia viene chiamata più blandamente morte con dignità. C’è poi un vero e proprio culto sacrilego del male presente nelle cosiddette sette sataniche: «Comunemente per “satanismo” si intende il   culto  di  Satana, che può essere inteso sia come divinità malefica a se stante, sia come avversario del Dio cristiano». 11 Di fronte a questa fenomenologia l’uomo ha sempre esercitato la sua ragione, per capire il significato e l’origine del male e per trovare soluzioni atte a limitarne la forza devastatrice per le singole persone e per le comunità.

8 San Giovanni Della Croce, Cantico spirituale, 3, 9. 9 J. Escrìvà, Cammino, 572. 10 Michel Schooyans en collaboration avec Anne-Marie Libert, Le terrorisme à visage humain, F.-X. De Guibert, Paris 2006. 11 Tonino Cantelmi – Cristina Cacace, Il libro nero del Satanismo, Abusi rituali e crimini, San Paolo, Cinisello B. 2007, p. 48.

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In concreto, il male lancia all’uomo una triplice sfida. Anzitutto una sfida esistenziale-pratica, provocandolo a prendere posizione con un atteggiamento o di rassegnazione passiva e di fatalismo, o di ribellione, o di disprezzo stoico, o di resistenza fiduciosa per vincere il male o attenuarne gli effetti. Considerazioni  filosofiche    Jean-Louis Bruguès, un arcivescovo francese, qualche anno fa diceva: «Tutti i grandi filosofi si sono occupati della difficilissima questione del “male radicale” per analizzarne i rapporti con la natura (Kant), con la libertà (Schelling), con la storia (Hegel). Tuttavia, fatta eccezione per E. Levinas, V. Jankelevitch e alcuni moralisti, il problema è oggi ignorato dalle varie filosofie contemporanee. Come se il male non esistesse più!». 12 Eppure – secondo Paul Ricoeur – ancora oggi l’onnipresenza del male in tutte le sue articolazioni costituisce una “sfida alla filosofia e alla teologia”. 13

Le  teodicee Si dà poi una sfida teorica, in quanto il male induce la ragione a ricercarne le spiegazioni. È questo, ad esempio, il problema della teodicea, che si propone di conciliare l’esistenza del male con quella della presenza di un Dio creatore, infinitamente buono e onnipotente. Teodicea, ovvero “dottrina della giustizia di Dio” (dal greco theos, dio e dike, giustizia) studia il rapporto tra la giustizia di Dio e la presenza nel mondo del male. Il termine "teodicea" fu coniato dal filosofo tedesco G. Wilhelm Leibniz (1646-1716) nell'opera “Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male”. Leibniz, tuttavia, utilizza il termine "teodicea" come significato generale per indicare la dottrina sulla "giustificazione di Dio per il male presente nel creato". Nella sua opera, Leibniz attribuisce il male del mondo alla libertà offerta da Dio alle sue creature, dimostrando, a suo dire, come la prescienza divina sia conciliabile con la libertà umana. La riflessione filosofica contemporanea considera la possibilità (che ritengo del tutto utopica) del superamento del male. La secolarizzazione ha portato al massimo la convinzione che l’uomo possa vincere il male con le sue conoscenze scientifiche, le sue conquiste tecniche e con la cooperazione internazionale globalizzata. Come se questi elementi pseudo-scientifici possano modificare la “natura” umana; i due dati appartengono a sfere del sapere profondamente diversi e soprattutto incomunicabili tra loro. Infatti, tale visione del tutto illusoria è contraddetta quotidianamente dall’egoismo, dalla cattiveria e dalla prepotenza degli individui e dei popoli. Ogni generazione, poi, sembra voler essere anch’essa protagonista del male, ripercorrendo le stesse strade che nel passato sono state disastrose. Infatti, nonostante il progresso in tutti i campi, nonostante le straordinarie conquiste della scienza, esistono ancora comportamenti “stabili” del male: guerre, odi, uccisioni, tradimenti, abusi, ingiustizie, conflitti. Il risultato è che il male appare come una patologia  strutturale  dell’umanità, la sua macchia nera, il suo punto debole. Di fronte al male la ragione sembra, quindi, impotente e i suoi giudizi risultano deficitari.

La  teodicea  biblica  -­‐  Giobbe  -­‐  La  persecuzione  diabolica  dell’innocente.    La prima dettagliata descrizione dei disastri causati da Satana la troviamo nel libro sapienziale di “Giobbe”. Il Libro inizia con una rappresentazione del mondo orientale, precisamente arabo, in cui il sultano si incontra con i propri dignitari, figli dello stesso sultano.  Nella trasposizione religiosa il sultano è la metafora di Dio e i suoi figli sono gli angeli. Nel corso della riunione appare Satana che viene a dialogare con il sultano-Dio come se fosse

12 Jean-Louis Bruguès, Dizionario di Morale Cattolica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1994, p. 219. 13 Paul Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993.

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uno dei dignitari, un evento in chiara contraddizione con la tradizione biblica della cultura sacerdotale: Satana non può confrontarsi con Dio e addirittura sfidarlo ad una scommessa. Nel libro di Giobbe invece Satana contraddice e si contrappone a Dio che crede e sa che Giobbe è un uomo integerrimo che continuerà ad aver fede in lui anche se privato dei suoi averi, al punto che da ricco com'è diverrà povero, o colpito nella sua stessa integrità fisica. Anzi Dio, che ha il potere su tutte le cose in quanto da lui create, addirittura metterà Giobbe nelle mani di Satana con l'unico obbligo di non ucciderlo. «Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche satana andò in mezzo a loro. Il Signore chiese a satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Da un giro sulla terra, che ho percorsa». Il Signore disse a satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male». Satana rispose al Signore e disse: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda di terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!». Il Signore disse a satana: «Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stender la mano su di lui». Satana si allontanò dal Signore. Ora accadde che un giorno, mentre i suoi figli e le sue figlie stavano mangiando e bevendo in casa del fratello maggiore, un messaggero venne da Giobbe e gli disse: «I buoi stavano arando e le asine pascolando vicino ad essi, quando i Sabei sono piombati su di essi e li hanno predati e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato io solo che ti racconto questo». Mentr’egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è attaccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato io solo che ti racconto questo». Mentr'egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I Caldei hanno formato tre bande: si sono gettati sopra i cammelli e li hanno presi e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato io solo che ti racconto questo». Mentr'egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo in casa del loro fratello maggiore, quand'ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti. Sono scampato io solo che ti racconto questo». Allora Giobbe si alzò e si stracciò le vesti, si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse:«Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!». In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla d’ingiusto. (Giobbe 1, 6-22) Giobbe rappresenta la contraddizione tra il giusto che soffre senza colpa e il malvagio che invece prospera: egli è la metafora di una ricerca della giustizia che dovrebbe colpire chi fa il male e assolvere e premiare chi fa il bene. Per gli ebrei (come per le popolazioni semitiche) l'amicizia con Dio dell'uomo giusto è portatrice di una ricompensa terrena. Il caso di un giusto colpito dalla sofferenza doveva essere ritenuto come un incidente limitato nel tempo da superare con la prudenza, la pazienza, le virtù del saggio che avrebbero portato alla fine del dolore e al premio immediato. Questo poteva accadere anche per il giusto che, forse inconsapevolmente, stava scontando l'effetto di azioni malvagie commesse dai propri padri. Questo quando Geremia (VII secolo a.C.), ma soprattutto Ezechiele (VI secolo a.C.), avevano invece in modo chiaro detto, in anticipo su il Libro di Giobbe, probabilmente del V secolo a.C., che i figli non pagano per le colpe dei padri e i padri non pagano per le colpe dei figli, ma ognuno paga per sé. (Ezechiele 14,14-16) «Ma Satana (nel secondo confronto) rispose al Signore: "Pelle per pelle! Tutto quanto possiede, l'uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi, di grazia, la tua mano e colpisci le sue ossa e la sua carne; vedrai se non ti maledirà in faccia!". Allora il Signore disse a Satana: "Eccolo in tuo potere! Soltanto risparmia la sua vita". Allontanatosi dalla presenza del Signore, Satana colpì Giobbe con una piaga maligna dalla pianta dei piedi fino alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e si mise seduto in mezzo alla cenere. Allora sua moglie gli disse: "Rimani ancora fermo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!". Ma egli rispose: "Parli come un'insensata! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?". In tutto questo, Giobbe non peccò con le sue labbra». (Gb 2, 4-10) Per Giobbe, queste disgrazie sono ancora più dolorose, proprio perché rendono indecifrabile la legge divina: nascono così le sue domande, prima fra tutte la seguente:

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"perché Dio mi calpesta così, e lascia invece nel benessere i rei e gli empi?" Tale domanda è solo una della lunga serie di quesiti che nascono dalla considerazione dell'esistenza del male nel mondo: "com'è compatibile l'esistenza di Dio e la sua bontà intrinseca con il male nel mondo, sia esso fisico, metafisico o morale?" Giobbe quindi viene colpito senza sapere il perché delle sue sofferenze. «Nel frattempo tre amici di Giobbe erano venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita, e si accordarono per andare a condolersi con lui e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano ma non lo riconobbero e, dando in grida, si misero a piangere. Ognuno si stracciò le vesti e si cosparse il capo di polvere. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore.» (Giobbe 2,11-13). Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno «Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere? Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare? Ora mi giacerei tranquillo, dormirei, ed avrei pace […] Perciò i gemiti sono il mio cibo, e i miei lamenti sgorgano come acqua; perché ciò che io temo, mi accade, e ciò che mi spaventa, mi sopraggiunge. Non ho tranquillità, non ho pace, non ho riposo, mi assale il tormento». (Giobbe 3,11-13, 24-26) I tre amici accorsi al capezzale dove Giobbe si trovava, sostengono che bisogna avere fiducia nella giustizia di Dio; che Dio è sapiente e buono Per tentare di "giustificare" quanto è appena accaduto, l'amico rievoca un principio teologico della religione ebraica, la giustizia retributiva: come il benessere e la felicità sono il premio che Dio assegna ai giusti, così la sofferenza è la punizione inflitta agli ingiusti (e questo avviene non nell'al di là, ma nella vita terrena). Dunque, la sofferenza di Giobbe è il segno che egli ha peccato, per cui Dio lo sta punendo. E gli amici lo rimproverano perché ha accusato Dio e cercano di spiegare il suo dolore affermando che la colpa è stata commessa dai suoi genitori, ed egli quindi sconta la pena per loro: questo però significa ammettere che Dio è ingiusto, in quanto sta punendo un innocente. Ma Giobbe respinge queste interpretazioni e riafferma la sua innocenza. «Ebbene, così siete ora voi per me: vedete che faccio orrore e avete paura. Vi ho forse detto: Datemi qualcosa? Oppure: Dei vostri beni fatemi un regalo? O vi ho chiesto: Liberatemi dalle mani del nemico? Oppure: Riscattatemi dal potere dei violenti? Istruitemi e starò in silenzio, fatemi conoscere in che cosa ho sbagliato. Sarebbero forse offensive le parole giuste? Ma che cosa provano i vostri argomenti? Forse voi pensate di criticare espressioni e parole che un disperato getta al vento? Ma voi gettereste la sorte anche su un orfano e vendereste anche un vostro amico. E, ora, degnatevi di volgervi verso di me: certo, non vi mentirò in faccia. Ricordatevi: basta con le ingiustizie! Ricredetevi: la mia giustizia è ancora qui! C'è forse iniquità sulle mie labbra o il mio palato non distingue più le sventure?». (Gb 6,21-30) E poi lo sfogo con Dio: «Preferirei essere soffocato e morire, piuttosto che avere queste mie pene! Sono sfinito, non vivrò più a lungo; lasciami, perché un soffio sono i miei giorni. Che cos'è l'uomo che tu ne fai tanto conto e a lui rivolgi la tua attenzione, così da scrutarlo ogni mattina e metterlo alla prova ogni istante? Perché non cessi di spiarmi e non mi lasci nemmeno inghiottire la saliva? Se ho peccato, che cosa ho fatto a te, scrutatore dell'uomo? Perché mi hai preso come bersaglio e ti sono diventato di peso? Perché non perdoni il mio peccato e non allontani la mia colpa? Giacché ben presto giacerò nella polvere; tu mi cercherai, ma io più non sarò». (Gb 7,15-21) Inutile lottare con Dio: «Anche se avessi ragione, non riceverei risposta, dovrei chiedere grazia al mio giudice. Anche se rispondesse al mio appello, non crederei che ascolti la mia voce, lui, che mi schiaccia nell'uragano e moltiplica senza ragione le mie ferite. Non mi lascia riprendere fiato, anzi mi sazia di amarezze. Se si tratta di forza, è lui il vigoroso; se si tratta di giudizio, chi lo farà comparire? Anche se fossi innocente, il mio parlare mi condannerebbe; se fossi giusto, egli mi dichiarerebbe colpevole. Sono innocente? Non lo so neppure io; detesto la mia vita! Però è lo stesso, ve lo assicuro: egli fa perire l'innocente e il reo!» (Gb 9,15-22)

L'amaro sfogo di Giobbe: «Sono nauseato della mia vita: voglio dare libero sfogo ai miei lamenti, parlare nell'amarezza del mio animo. Dirò a Dio: Non condannarmi! Fammi sapere il motivo della lite contro di me. Ti pare bello essere violento, disprezzare l'opera delle tue mani e favorire i

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progetti dei malvagi? Hai tu forse occhi di carne o vedi tu come vede un uomo? Sono forse i tuoi giorni come quelli di un mortale, e i tuoi anni come quelli di un uomo, perché tu debba indagare la mia colpa ed esaminare il mio peccato, pur sapendo che non sono colpevole e che nessuno mi può liberare dalla tua mano? Le tue mani mi hanno formato e modellato integro in ogni parte: vorresti ora distruggermi? Ricordati che mi hai plasmato come argilla e mi farai ritornare in polvere!» (Gb 10,1-9)

Il triste destino dell’uomo: «L'uomo, nato da donna, ha vita breve e piena di affanni, sboccia come fiore e appassisce, fugge come l'ombra e mai si ferma. E tu tieni aperti gli occhi su di lui e lo citi in giudizio con te! Chi può trarre il puro dall'immondo? Nessuno! Se i suoi giorni sono contati, se conosci il numero dei suoi mesi, se hai fissato un termine che non può oltrepassare, distogli lo sguardo da lui e lascialo stare, finché non abbia portato a termine la sua giornata come un salariato» (Gb 14,1-6) Giobbe replica ad Elifaz: «Ero sereno e Dio mi ha stritolato, mi ha afferrato la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà egli mi trafigge i reni, per terra versa il mio fiele, apre su di me breccia su breccia, infierisce su di me come un generale trionfatore» (Giobbe 16,12-14).

Nell’impossibilità di dimostrare verbalmente la sua innocenza, e nell’assenza di suggerimenti, da parte dei tre amici, che lo convincessero della giustizia di Dio, Giobbe vuole lasciare uno scritto in sua difesa, il racconto di quanto gli è capitato, affinché un giorno, le generazioni future, gli rendano giustizia alla memoria: «fossero impresse con stilo di ferro sul piombo, per sempre s’incidessero sulla roccia! Io lo so che il mio Vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!» (Gb 19,24-25) Egli testimonia di avere pure intuito l’esistenza della vita dopo la morte. Dice: «E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d’un altro, il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno! » (Gb 19 26-27). È sorprendente. Giobbe ha fede nella risurrezione e nell’immortalità dell’anima, lo Spirito Santo gli ha anticipato questa rivelazione che sarebbe divenuta una dottrina conclamata migliaia d’anni dopo. Dopo la risurrezione di Cristo. E Giobbe arriva a sperare di avere giustizia nell’altra dimensione della vita! Il successo dei malvagi «Perché han lunga vita i malvagi, giganteggiano, crescono in ricchezza? La loro prole è assieme a loro, stabile, riescono a vedere i propri discendenti. Le loro case non conoscono la paura, lo scettro divino non li minaccia» (Gb 21,7-10) Le parole di Giobbe risultano comprensibili alla luce di quanto detto: egli, mentre è in preda ad atroci dolori, si sente dire proprio dall'amico che tale sofferenza "se l'è meritata"; Giobbe, invece, sa di essere innocente, infatti egli è il simbolo della sofferenza innocente. Invano gli amici si ostineranno nel ricercare un peccato nella vita di Giobbe che possa giustificare quanto è accaduto. Giobbe protesta la sua innocenza: «Avevo stretto un patto con i miei occhi, di non fissare lo sguardo sulle ragazze. Qual è la sorte che Dio ha assegnato di lassù e l'eredità che l'Onnipotente ha preparato dall'alto? Non è forse la rovina per il perverso e la sventura per chi compie il male? Non vede egli la mia condotta e non conta tutti i miei passi? Ho forse agito con falsità, e il mio piede si è affrettato verso la frode? Mi pesi pure sulla bilancia della giustizia e Dio riconoscerà la mia integrità!» (Gb 31,1-6) La  sofferenza  come  prova.  Il solo fra gli amici di Giobbe in grado di dire qualcosa di nuovo è Elihu, il più giovane di essi. La sua posizione è diversa, perché dissocia la sofferenza dalla colpa: Jahve fa soffrire gli uomini per spingerli verso la salvezza. La sofferenza è una prova a cui Dio sottopone l’uomo con fine salvifico. Il discorso di Elihu si distacca, quindi, sia da Giobbe che dagli altri tre amici, sostenitori di Elifaz.  Ora   parla   il   Signore. Fino ad ora ha avuto la pazienza di ascoltare tutti quelli che si sono alternati nei loro discorsi; ora lo fa lui e con voce tuonante! Elihu stava dicendo cose stupende, ma per quanto noi uomini possiamo sublimare con i nostri pensieri l’Onnipotente, lui dice: “Oscurate i miei disegni!”. Quale responsabilità quando parliamo di Dio! Facciamo attenzione: possiamo oscurare i suoi disegni!

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Fino ad ora Giobbe si era appellato al giudizio di Dio: «Oh, avessi pure chi m’ascoltasse!... ecco qua la mia firma! L’Onnipotente mi risponda! Scriva l’avversario mio la sua querela, ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema! Gli renderò conto di tutti miei passi» (Gb 31:35-37). L’appello di Giobbe sembra una sfida, riteneva Dio suo avversario. Dio  risponde alla sua ribellione e lo fa senza dare alcuna spiegazione! Egli non deve dare spiegazioni ad alcuno, Giobbe dovrà solo dedurle e accettarle e lo farà! Ecco cosa fa il Signore: gli risponde con delle domande. Fa passare sotto i suoi occhi, come fosse un documentario inedito, le opere della creazione. La risposta di Dio è una specie d’interrogatorio ironico, cerca di suscitare in Giobbe una coscienza d’impotenza e ignoranza: «Cingiti i fianchi come un prode; io ti farò delle domande e tu, insegnami! Dov’eri tu quando io fondavo la terra? Dillo, se hai tanta intelligenza» (Gb 38:3-4); poi descrive poeticamente le meraviglie dello spuntare dell’alba: «Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all'aurora, perché essa afferri i lembi della terra e ne scuota i malvagi? Si trasforma come creta da sigillo e si colora come un vestito. È sottratta ai malvagi la loro luce ed è spezzato il braccio che si alza a colpire.» (Gb 38:12-15); poi ancora, chiede cosa sappia dell’immensità, delle dimensioni del cosmo e della morte: «Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell'abisso hai tu passeggiato? Ti sono state indicate le porte della morte e hai visto le porte dell'ombra funerea? Hai tu considerato le distese della terra? Dillo, se sai tutto questo! Per quale via si va dove abita la luce e dove hanno dimora le tenebre perché tu le conduca al loro dominio o almeno tu sappia avviarle verso la loro casa? Certo, tu lo sai, perché allora eri nato e il numero dei tuoi giorni è assai grande!» (Gb 38:16-21). Con tono ironico, il versetto 21 mette a nudo la realtà dell’uomo, limitato nell’intelletto, limitato nel tempo, e infinitamente piccolo nello spazio! La divina sapienza della creazione: «Conosci tu le leggi del cielo o ne applichi le norme sulla terra? Puoi tu alzare la voce fino alle nubi e farti coprire da un rovescio di acqua? Scagli tu i fulmini e partono dicendoti: “Eccoci!”»? (Gb 38:33-35) Giobbe è confuso e in silenzio: «Sarebbe capace di far sorgere il sole come fa Dio ogni mattina?». Quando l’uomo considera l’infinito, si sente piccolo, limitato, impotente! «Chi conosce le dimore della luce e delle tenebre, le vie seguite dall’una e dalle altre quando si ritirano dopo aver compiuto la loro missione?» Giobbe che ha discusso e battagliato con gli amici e ha accusato Dio d’ingiustizia ora tace, rinunzia a parlare. Alla luce di quello che Dio ha detto, riconosce che i suoi argomenti non hanno consistenza, che per lui, è più saggio tacere, si sente confuso e ha la sensazione d’aver peccato d’audacia e d’insolenza. E con questo tono, il Signore continua finché Giobbe crolla del tutto! Di fronte alla grandiosità, alla trascendenza dell’opera divina, resta senza fiato, senza poter replicare. È umiliato, annichilito; il risultato di questa situazione è una commovente e profonda conversione. Probabilmente, quelle parole deve averle dette tremando: «Ecco, io sono troppo meschino; …che ti potrei rispondere? …Io mi metto la mano sulla bocca. …Ho parlato una volta, ma non riprenderò la parola due volte, …non lo farò più» (Gb 40:4-5). Che lui non abbia potuto rispondere, non importa: egli finalmente ha sentito Dio vicino a sé, ha udito la sua voce, s’è incontrato con lui. Dio ha vinto la causa, ma Giobbe non l’ha persa; ha compreso che quello che Dio fa è perfetto in ogni caso! Le parole di Giobbe mostrano i segni di una vera conversione! «Allora Giobbe rispose al Signore e disse: «comprendo che tu puoi tutto, e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che senza aver scienza può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu istruiscimi. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono e perciò mi ricredo Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto. Perciò mi ricredo e mi pento sulla polvere e sulla cenere".» (Gb 42:1-6) Giobbe ha compreso la sua ignoranza e ora vuole essere istruito da Dio. In questa seconda confessione, Giobbe non solo riconosce le sue leggerezze e i suoi limiti, ma riconosce la sapienza e l’onnipotenza di Dio giungendo alla vera conoscenza, entrando così nella fede vera e sincera.

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Il libro di Giobbe testimonia come Dio si riveli progressivamente, e anche come un credente talvolta deve “lottare” per conoscere la verità e giungere ad una fede chiara e limpida. Dio poteva rivelarci tutto il mistero della vita umana e divina fin dal principio, ma in pratica, ha seguito una via ascendente, come il seme che si va sviluppando, a poco a poco, e ha percorso un cammino lungo e laborioso, rivelandosi progressivamente. Giobbe non è stato privato solo delle sue mandrie di buoi, delle sue greggi, dei suoi cammelli, dei suoi servi e dei suoi figli; non è solo stato ferito nella sua integrità fisica, dalla sofferenza e dalla malattia corporale; non ha solo subito l’incomprensione della moglie e degli amici. II dolore di Giobbe è stato molto più profondo, perché egli si è sentito abbandonato, soprattutto da Dio. Il dolore di Giobbe non è solo fisico, è di ordine metafisico, esistenziale.    Giobbe si dichiara vinto e viene riabilitato da Dio: «Dopo che il Signore ebbe rivolto queste parole a Giobbe, disse ad Elifaz il temanita: "La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette, come ha fatto il mio servo Giobbe. Ora prendete sette vitelli e sette montoni, andate dal mio servo Giobbe e offrite un olocausto per voi. Il mio servo Giobbe intercederà per voi, affinché io, per riguardo a lui, non punisca la vostra stoltezza, perché non avete parlato rettamente di me, come ha fatto il mio servo Giobbe". Andarono, dunque, Elifaz il temanita, Bildad il suchita e Zofar il naamatita, e fecero come aveva ordinato loro il Signore e il Signore ebbe riguardo di Giobbe. Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, perché egli aveva pregato per i suoi amici e gli rese il doppio di quanto aveva posseduto. Tutti i suoi fratelli, le sue sorelle, i suoi conoscenti di prima vennero a trovarlo e mangiarono con lui nella sua casa. Lo commiserarono e lo consolarono di tutte le sventure che il Signore gli aveva inviato e gli regalarono ognuno un pezzo d'argento e un anello d'oro. Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima. Possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Ebbe pure sette figli e tre figlie. Alla prima diede il nome di Colomba, alla seconda quello di Cassia e alla terza Fiala di stibio. In tutto il paese non c'erano donne così belle come le figlie di Giobbe e il loro padre le mise a parte dell'eredità insieme con i loro fratelli. Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli per quattro generazioni. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.» (Gb 42,7-16) Un vero e proprio lieto fine, indubbiamente. Ma Dio non spiega esattamente a Giobbe il perché di tutta la sofferenza che gli ha inflitto: il perché è, quindi, il problema all'origine della teodicea. È dal discorso di Elihu che nasce la teodicea, poiché il giovane amico di Giobbe tenta di giustificare la "condotta" di Dio. Come Elihu, tutti i filosofi ed i teologi della teodicea cercheranno di dare una spiegazione razionale alla presenza del male nel mondo. Non c'è una risposta univoca di fronte alla sofferenza degli innocenti. La più convincente è l’estensione della giustizia retributiva alla vita ultraterrena invocando con Isaia l’incommensurabilità della sapienza di Dio e l’imperscrutabilità del suo volere: Il  Deus  absconditus  (Is 45, 15-26) Un Dio che si rivela, pur restando nascosto nell’impenetrabilità del suo mistero. Nessun pensiero lo può catturare. L’uomo può solo contemplare la sua presenza nell’universo, quasi seguendone le orme e prostrandosi nell’adorazione e nella lode. Lo sfondo storico da cui nasce questa meditazione è quello della sorprendente liberazione che Dio procurò al suo popolo, al tempo dell’esilio babilonese. Chi avrebbe mai pensato che gli esuli di Israele potessero tornare in patria? Guardando alla Potenza di Babilonia essi avrebbero potuto solo disperare. Ma ecco il grande annuncio, la sorpresa di Dio, che vibra nelle parole del profeta: come al tempo dell’Esodo, Dio interverrà. E se allora aveva piegato con tremendi castighi la resistenza del faraone, ora si sceglie un re, Ciro di Persia, per sconfiggere la potenza babilonese e restituire la libertà a Israele. «Tu sei un Dio misterioso, Dio di Israele, salvatore» (Is 45,15). Con queste parole, il profeta invita a riconoscere che Dio agisce nella storia, anche se non appare in primo piano. Si direbbe che sta “dietro le quinte”. È lui il regista misterioso e invisibile, che rispetta la libertà delle sue creature, ma al tempo stesso tiene in mano le fila delle vicende del mondo. La certezza dell’azione provvidenziale di Dio è fonte di speranza per il credente,

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che sa di poter contare sulla presenza costante di Colui «che ha plasmato e fatto la terra e l’ha resa stabile» (Is 45,18). L’atto creativo, infatti, non è un episodio che si perde nella notte dei tempi, così che il mondo, dopo quell’inizio, debba considerarsi abbandonato a se stesso. Dio trae continuamente all’essere la creazione uscita dalle sue mani. Riconoscerlo è anche confessare la sua unicità: «Non sono forse io, il Signore? Fuori di me non c’è altro Dio» (Is 45,21). Dio è per definizione l’Unico. Nulla gli si può paragonare. Tutto gli è subordinato. Ne consegue anche il ripudio dell’idolatria, per la quale il profeta pronuncia parole severe: «Non hanno intelligenza quelli che portano un idolo da loro scolpito e pregano un dio che non può salvare» (Is 45,20). Come mettersi in adorazione davanti a un prodotto dell’uomo? Alla nostra sensibilità odierna potrebbe sembrare eccessiva questa polemica, come se prendesse di mira le immagini in sé considerate, senza avvertire che ad esse può essere attribuito un valore simbolico, compatibile con l’adorazione spirituale dell’unico Dio. Certamente, è qui in gioco la sapiente pedagogia divina che, attraverso una rigida disciplina di esclusione delle immagini, ha protetto storicamente Israele dalle contaminazioni politeistiche. La Chiesa, partendo dal volto di Dio manifestato nell’incarnazione di Cristo, ha riconosciuto nel Secondo Concilio di Nicea (787) la possibilità di usare le immagini sacre, purché intese nel loro valore essenzialmente relazionale. Resta tuttavia l’importanza di questo monito profetico nei confronti di tutte le forme di idolatria, spesso nascoste più che nell’uso improprio delle immagini, negli atteggiamenti con cui uomini e cose vengono considerati come valori assoluti e sostituiti a Dio stesso. Dal versante della creazione, l’inno ci porta sul terreno della storia, dove Israele ha potuto sperimentare tante volte la potenza benefica e misericordiosa di Dio, la sua fedeltà e la sua provvidenza. In particolare, nella liberazione dall’esilio si è manifestato ancora una volta l’amore di Dio per il suo popolo, e ciò è avvenuto in modo così palese e sorprendente, che il profeta chiama a testimoni gli stessi “superstiti delle nazioni”. Li invita a discutere: «Radunatevi e venite, avvicinatevi tutti insieme, superstiti delle nazioni» (Is 45,20). La conclusione a cui giunge il profeta è che l’intervento del Dio di Israele è indiscutibile. Emerge allora una magnifica prospettiva universalistica. Dio proclama: «Volgetevi a me e sarete salvi, paesi tutti della terra, perché io sono Dio, non ce n’è un altro» (Is 45,22). Così diventa chiaro che la predilezione con cui Dio ha scelto Israele come suo popolo non è un atto di esclusione, ma un atto di amore di cui tutta l’umanità è destinata a beneficiare. L’invito all’adorazione e l’offerta della salvezza riguardano tutti i popoli: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua» (Is 45,23). Leggere queste parole in ottica cristiana significa andare col pensiero alla rivelazione piena del Nuovo Testamento, che addita in Cristo «Il Nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9), cosicché «Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,10-11).

La  teodicea  nella  cultura  cristiana Nei primi secoli cristiani la Chiesa respinse la dottrina manichea, che aveva immaginato un principio malvagio contrapposto al Dio buono. Il Catechismo pone poi la domanda cruciale dello scandalo del male che contrasta con l’onnipotenza e la bontà di Dio: «Se Dio Padre onnipotente, Creatore del mondo ordinato e buono, si prende cura di tutte le sue creature, perché esiste il male? A questo interrogativo tanto pressante quanto inevitabile, tanto doloroso quanto misterioso, nessuna risposta immediata potrà bastare. È l'insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a tale questione: la bontà della creazione, il dramma del peccato, l'amore paziente di Dio che viene incontro all'uomo con le sue alleanze, con l'incarnazione redentrice del suo Figlio, con il dono dello Spirito, con la convocazione della Chiesa, con la forza dei sacramenti, con la vocazione ad una vita felice, alla quale le creature libere sono invitate a dare il loro consenso, ma alla quale, per un mistero terribile, possono anche sottrarsi. Non c'è un punto del messaggio cristiano che non sia, per un certo aspetto, una risposta al problema del male» (CCC 309).

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A proposito del male fisico si insegna: «Nella sua infinita potenza, Dio potrebbe sempre creare qualcosa di migliore. Tuttavia, nella sua sapienza e nella sua bontà infinite, Dio ha liberamente voluto creare un mondo “in stato di via” verso la sua perfezione ultima. Questo divenire, nel disegno di Dio, comporta, con la comparsa di certi esseri, la scomparsa di altri, con il più perfetto anche il meno perfetto, con le costruzioni della natura anche le distruzioni. Quindi, insieme con il bene fisico esiste anche il male fisico, finché la creazione non avrà raggiunto la sua perfezione» (CCC 310). A proposito, poi, del male morale si afferma: «Gli angeli e gli uomini, creature intelligenti e libere, devono camminare verso il loro destino ultimo per una libera scelta e un amore di preferenza. Essi possono, quindi, deviare. In realtà, hanno peccato. È così che nel mondo è entrato il male morale, incommensurabilmente più grave del male fisico. Dio non è in alcun modo, né direttamente né indirettamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene» (CCC 311).

Il  silenzio  di  Gesù  al  centro  della  storia  Quando si accenna al silenzio di Gesù, subito il pensiero corre al silenzio della passione. E difatti è qui che il silenzio ha raggiunto il punto più alto della sua forza espressiva. A volte il silenzio dice più della parola. Ma i Vangeli non parlano soltanto del silenzio della passione. C’è anche il silenzio dell’uomo che resta ammutolito di fronte a Gesù, o perché la sua parola lo riempie di meraviglia, o perché la sua verità lo infastidisce. E c’è il silenzio di Gesù di fronte alle domande pretestuose, o inutili, di chi finge di interrogarlo. E c’è il silenzio che Gesù impone a chi vorrebbe parlare di Lui prima di averne intravisto la novità, che è la Croce. Alla domanda posta da Gesù nella sinagoga di Cafarnao se fosse meglio di sabato, salvare una vita o perderla, i farisei, che lo stavano ad osservare, non risposero: «Ma essi tacevano». Non è il silenzio di chi non sa e si pone in ascolto, ma è il silenzio di chi osserva per accusare. È il silenzio dell’uomo il quale, non avendo ragioni da opporre a una verità che lo infastidisce, ricorre alla violenza per zittire il profeta che la pronuncia. E difatti l’episodio si conclude dicendo che «I farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio per farlo morire» (Mc. 3,6). È questo un silenzio ostinato, immobile, consapevole, frutto di un cuore indurito, che non intende per nessuna ragione lasciarsi inquietare dalla domanda che lo pone in questione. Un silenzio irritante, uno di quei pochi casi in cui gli evangelisti annotano l’indignazione di Gesù: «Guardandoli tutti attorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori». Indignato e rattristato: la rabbia e la compassione. Dietro l’ostinazione che suscita lo sdegno, Gesù scopre il vuoto di quelle persone, e ne prova pena. Un uomo che si chiude all’ascolto, si chiude alla vita. Di fronte alle domande insincere Gesù oppone il silenzio. Così di fronte ai farisei che gli chiedono "un segno dall’alto": «E lasciatili, risalì sulla barca e si avviò all’altra sponda» (Mc. 8,13). Dopo la purificazione del tempio pongono a Gesù una domanda importante («con quale autorità fai queste cose?»), ma insincera; ed egli non risponde. È inutile rispondere se non c’è la sincerità della ricerca. Commovente e maestoso è poi il silenzio di Gesù di fronte a Erode: «Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. C'erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato». (Lc. 23,8-11). Erode lo interroga "con molte domande". Ma sono domande curiose, superficiali, perché non sorgono dal desiderio della verità, ma dalla speranza di vedere qualche prodigio. E Gesù non risponde. Più degli altri Vangeli, quello di Marco ricorda in più occasioni che Gesù imponeva il silenzio a chi voleva divulgare la sua messianità. Non permetteva ai demoni di parlare, «perché lo

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conoscevano» «E Gesù lo sgridò: «Taci! Esci da quell'uomo». (Mc 1,25) Ordina al lebbroso di non dire niente a nessuno (Mc 1,44). Raccomanda con insistenza che nessuno venga a sapere della risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,43). Anche ai discepoli comanda severamente di non parlare a nessuno della sua messianità (Mc 8,30). Ma poi, di fronte al sommo sacerdote e al sinedrio, sarà Lui stesso a proclamarla apertamente: «Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». (Mc 14,61-62) Il fatto è che sono mutate le circostanze: prima la sua messianità correva il rischio di essere fraintesa, durante la passione non più. Il Messia non corre più il rischio di essere separato dalla Croce. Al contrario, è chiaro a tutti che la sua messianità va letta proprio a partire dalla Croce, sia per riconoscerla (Mc 15,39) come per rifiutarla. Non basta il coraggio dell’annuncio a fare un vero discepolo. Occorre anche lo spazio del silenzio necessario per cogliere la novità di Gesù. Altrimenti si parla di Lui senza comunicare quella novità che sorprende, di fronte alla quale non trova posto l’indifferenza (come sempre, invece, di fronte a ciò che è scontato), ma solo il sì e il no. Stupisce il silenzio di Gesù di fronte alla morte di Lazzaro (Gv. 11). Gesù lascia cadere nel silenzio la domanda delle sorelle: «Signore, ecco, il tuo amico è malato» (Gv 11,2). Gesù tace di fronte a una domanda che nasce dall’angoscia, a una domanda posta da una persona amata. Questo comportamento può sembrare sconcertante. In realtà è lo specchio   del  silenzio  di  Dio, un silenzio che lo stesso Gesù incontra nella sua preghiera nel Getsemani e nella sua domanda sulla Croce. Il racconto del Getsemani è apparentemente un dialogo. «Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po' innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell'ora. E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu». Tornato indietro, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un'ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Allontanatosi di nuovo, pregava dicendo le medesime parole. 40 Ritornato li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne la terza volta e disse loro: «Dormite ormai e riposatevi! Basta, è venuta l'ora: ecco, il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino». (Mc. 14,32-42) Gesù parla cinque volte, sempre rivolgendosi a qualcuno: ai discepoli o al Padre. Ma nessuno gli risponde, quasi fosse un monologo. Le cinque parole di Gesù cadono nel vuoto, persino la sua preghiera al Padre. L’esperienza  del  silenzio  di  Dio  non  dice  la  debolezza  della  fede,  ma  la  profondità  e  l’umanità  della  fede. e porta al centro dell’uomo e della storia, là dove Dio e l’uomo sembrano contraddirsi, dove Dio sembra assente o distratto, dove la morte sembra avere l’ultima parola sulla vita e la menzogna sulla verità. Ma se compreso nel mistero di Cristo, allora il silenzio di Dio appare nella sua realtà, cioè come un diverso modo di parlare. Difatti nel Getsemani il Padre ha parlato: non con il miracolo che libera dalla morte, ma con il coraggio di affrontare la morte, attraversandola. Se all’inizio Gesù è angosciato e impietrito, alla fine, dopo aver pregato, Egli è tornato sereno e pronto: «Alzatevi, andiamo! Colui che mi tradisce è vicino» (Gv 14,42). Il momento più espressivo del silenzio di Gesù è la passione. Qui il silenzio è veramente più denso delle parole. Nella passione Gesù parla poche volte, mai per difendersi, ma soltanto per spiegare la sua identità. Il silenzio è una parola importante per spiegare chi Egli è. Sollecitato dal sommo sacerdote a rispondere alle molte accuse, Gesù tace. «Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all'assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». (Mc. 14,60). È il silenzio di chi anche nell’umiliazione conserva intatta la sua dignità. È il silenzio di chi è lucidamente

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consapevole dell’insincerità dei giudici, che fingono un interrogatorio, in realtà avendo già deciso la condanna: inutile difendersi. La verità tace di fronte alla violenza, non perché non abbia nulla da dire, ma perché ha già detto tutto ed è inutile ridire. Soprattutto è il   silenzio  del  giusto, che di fronte alle accuse non si difende, perché ha posto interamente la sua fiducia nel Signore, che non abbandona. Di fronte agli uomini che lo condannano a motivo della sua giustizia, il silenzio del servo del Signore esprime dignità; e di fronte a Dio esprime accettazione e fiducia: «Ho annunziato la tua giustizia nella grande assemblea; vedi, non tengo chiuse le labbra, Signore, tu lo sai,«Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei tu che agisci» (Sl 39,10). Questo silenzio di Gesù è stato poi ripreso e interpretato in un inno della prima comunità cristiana: «Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia» (1 Pt 2,23).

Nei racconti della passione, accanto ai personaggi espressamente nominati, è sempre presente - apparentemente in ombra, ma in realtà luminosissima - la figura del Giusto sofferente, che Gesù rivive e ingigantisce. È una figura senza tempo, presente in ogni momento della storia e in ogni luogo. È la figura dell’uomo che annuncia la verità e proprio per questo è colpito. Come già notato, un tratto importante di questa figura è il silenzio. Non esprime indifferenza, ma dignità. Ed è un silenzio che parla più di molte parole. Il  processo  romano.  Anche nel racconto giovanneo del processo romano si fa menzione del silenzio di Gesù: «ed entrato di nuovo nel pretorio disse a Gesù: «Di dove sei?». Ma Gesù non gli diede risposta.» (Gv 19,9). Egli ha risposto alla domanda sulla sua regalità, persino indugiandovi per metterne in chiaro la diversità. La novità di Gesù non può fare a meno della parola che la spiega. Ma ha anche bisogno del silenzio. Gesù rimane in silenzio nei due momenti culminanti: quando la sua regalità è derisa: «Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora; quindi gli venivano davanti e gli dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi.» (Gv 19,1-3), e quando essa è mostrata in pubblico: «Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l'uomo!» (Gv 19,5). Proprio quando la sua regalità, derisa e rifiutata, aveva maggior bisogno di una parola o di un segno, Gesù non dice una parola, né compie un gesto.  Al vederlo i sommi sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo, crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui nessuna colpa». (Gv 19,6)  Ma l’annotazione esplicita del silenzio di Gesù Giovanni la riserva per la domanda più importante «Di dove sei?». Qui non è più in discussione semplicemente la sua regalità, ma il mistero più profondo della sua origine. E su questo Gesù tace. Non collabora, lasciando Pilato solo di fronte alla domanda che lo turba: o perché è inutile dire dal momento che tutto è già stato detto; o perché la risposta va cercata nei fatti che Pilato vede e non nelle parole che potrebbe sentire; o perché è una domanda alla quale può rispondere soltanto chi la pone. Di fronte al mistero che lo interpella e lo inquieta, ogni uomo deve trovare personalmente la risposta. È una decisione personale che non si può delegare a nessuno, una risposta che neppure Dio può dare al tuo posto. Attorno al Crocifisso sono in molti a parlare: i passanti, i sacerdoti, le guardie, i due ladroni. Tutti parlano di Gesù e contro Gesù, ma Lui tace. Rivolge una domanda al suo Dio: ‹‹Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?›› che cade nel silenzio. Muore con un grido senza parole: ‹‹Ma Gesù, dato un forte grido, spirò››. E sullo sfondo, più nitida che mai, la grande figura del Giusto sofferente, evocata dal Salmo 22. Il Padre parlerà, ma dopo, con la risurrezione. La Croce è il momento in cui tocca al Figlio manifestare tutta la sua fiducia nel Padre. Tocca al Crocifisso manifestare fino a che punto un Figlio di Dio condivide l’esperienza del silenzio che l’uomo incontra davanti al suo Dio. Tocca al Crocifisso rivelare fino a che punto giunge l’amore di Dio. Tutta questa sorprendente rivelazione è racchiusa nel silenzio di Gesù sulla Croce. Una rivelazione silenziosa domina anche il Salmo 18: il creato trasmette il messaggio del suo Creatore senza suoni udibili: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia

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il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (Sal 18, 2-5)

La  catena  d’oro  delle  beatitudini  David, senza curarsi di tutto quello che aveva sofferto, chiese a Dio la ricompensa soltanto per la maldicenza (insulti di Simei contro David mentre fugge da Gerusalemme inseguito alla rivolta guidata dal figlio Assalonne): «Lascia che maledica dice, perché glielo ha ordinato il Signore, affinché il Signore, veda la mia umiliazione e mi renda il contraccambio per la maledizione di questo giorno». (2 Sam 16, 7-8). E Paolo esalta non solo quelli che corrono pericoli e sono privati dei beni, ma anche costoro, dicendo così: «Richiamate alla memoria quei primi giorni nei quali dopo essere stati illuminati avete sopportato una grande e penosa lotta, ora esposti pubblicamente a insulti e tribolazioni» (Eb 10,32-33). Perciò Cristo ha indicato una grande ricompensa. Poi, perché non si dicesse: Non punisci quaggiù né chiudi la loro bocca, ma dai la ricompensa lassù?, ha presentato i profeti, mostrando che neppure in quel caso Dio ha punito. Se quando le ricompense erano a portata di mano, li incoraggiò con i beni futuri a maggior ragione lo farà ora, quando questa speranza è divenuta più chiara e più grande è la filosofia alla luce della sapienza cristiana. Osserva poi dopo quanti precetti ha presentato questo concetto. Non lo ha fatto senza motivo, ma per indicare che non è possibile affrontare queste lotte senza essere preparati e addestrati in tutte quelle beatitudini. Perciò aprendo sempre la via al precetto seguente partendo da quello precedente, ci ha ordito una  catena  d’oro. Difatti l'umile sarà senz'altro anche afflitto per i propri peccati; chi è afflitto sarà anche mite, giusto, misericordioso; chi è misericordioso, sarà giusto e compunto e certamente sarà anche puro di cuore; chi è così sarà anche operatore di pace. Chi avrà raggiunto tutti questi obiettivi, sarà anche pronto ad affrontare i pericoli e non rimarrà turbato se avrà cattiva fama e soffrirà innumerevoli mali. 14

14 Giovanni Crisostomo, Omelia 15,5-6.

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