n diploteca · del paese al primo posto. attaccata dai democratici e dai media statunitensi per...

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Il Brasile è fascista? IL FALLIMENTO DELL'UTOPIA ISLAMISTA di Hicham Alaoui – alle pagine 14 e 15 Pubblicazione mensile supplemento al numero odierno de il manifesto vendita abbinata con il manifesto 2 euro + il prezzo del quotidiano n. 11, anno XXV, novembre 2018 sped. in abb. postale 50% Sommario dettagliato a pagina 2 diploteca n n n Recensioni e segnalazioni ALLE PAGINE 22 E 23 n n n n Francia, il sadismo del manager ALAIN DENEAULT n Prime brecce nel libero scambio LORI M. WALLACH n Discordia nel golfo del Bengala SAMUEL BERTHET n Russia, il volto antisociale di Putin KARINE CLÉMENT n La maledizione del modello tunisino THIERRY BRÉSILLON n Referendum in Nuova Caledonia JEAN-MICHEL DUMAY n Regno unito, i conservatori e la Brexit AGNÈS ALEXANDRE-COLLIER n Fine delle ostilità tra Etiopia e Eritrea GÉRARD PRUNIER E siste un Paese ove, a differenza di quanto sta ac- cadendo in Brasile, i politici indagati per malver- sazioni e condannati a pene detentive sono ex presi- denti conservatori. Ove la destra, l’estrema destra e i fondamentalisti protestanti si sentono traditi da Donald Trump. Ove il presidente statunitense, in netto contra- sto con scelte come l’uscita dall’accordo di disarmo nucleare con l’Iran o la revoca del trattato sui missili a media gittata con la Russia, sembra deciso a venire a capo di un conflitto che nessuno dei suoi predecessori ha saputo risolvere. Neppure l’ultimo, pure insignito del Premio Nobel per la pace. Stiamo ovviamente parlando dell’Estremo Oriente; e la questione è indubbiamente troppo complessa per trovare il giusto spazio nella grande narrazione manichea che forma e deforma la nostra visione del mondo. Eppure, in una situazione planetaria quanto mai cupa, il discorso ottimista e volontarista di Moon Jae-in non dovrebbe passare inosservato: il presiden- te sudcoreano ha dichiarato, davanti all’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni unite, il 26 settembre scorso: «Nella penisola coreana è avvenuto un miracolo». Un miracolo? In ogni caso, un completo rivolgimen- to. Nessuno ha dimenticato la raffica di tweet furibon- di scambiati appena un anno fa tra Donald Trump e il presidente nord-coreano, con espressioni come «fuo- co e furia», il «gran pulsante nucleare» e via dicendo. L’ambasciatrice degli Usa all’Onu, Nikki Haley, ha rife- rito recentemente di aver agitato davanti al suo omo- logo cinese, il 2 settembre 2017, nientemeno che la minaccia di un’invasione statunitense della Corea del Nord, nell’intento di indurre Pechino a far pressione sui suoi vicini e alleati. Ora Trump saluta il «coraggio» del- l’«amico» Kim Jong-un. E durante un raduno repubbli- cano arriva persino a dire di provare «amore» nei suoi confronti! I coreani, a Nord come a Sud, avanzano a tappe for- zate, approfittando dell’allineamento astrale: la destra sudcoreana è a pezzi, e sembra che finalmente il regi- me di Pyongyang stia ponendo lo sviluppo economico del Paese al primo posto. Attaccata dai democratici e dai media statunitensi per l’avvicinamento alla Corea del Nord, giudicato im- prudente, la Casa bianca sarebbe certo restìa ad am- mettere che l’autoproclamato «maestro del negoziato» si sia lasciato infinocchiare da uno più smaliziato di lui. Comunque sia, qualora Washington scegliesse di riesumare i toni da «fuoco e furia», il rapido degrado dei suoi rapporti con Cina e Russia vieterebbe prati- camente a queste due potenze di seguire gli Usa su questo tema. In questo quadro generale, il disarmo nucleare della Corea non deve diventare una premessa all’attuazione degli altri punti del negoziato: sospensione delle ma- novre militari da ambo le parti, fine delle sanzioni eco- nomiche, trattato di pace. Anche perché Pyongyang non rinuncerà mai alla sua assicurazione sulla vita sen- za solide garanzie: Donald Trump non è eterno, come non lo è la clemenza dei suoi sentimenti… Una ragione in più, ancorché paradossale, per essere ottimisti sulla possibilità di veder risolto nei prossimi mesi un conflit- to che dura tra tre quarti di secolo. Schiarita in Asia SERGE HALIMI I MOTIVI DI UN TRACOLLO IL MITO DELL’ASSALTO ALL’EUROPA Le elezioni di ottobre 2018 in Brasile sono state segnate dalla breccia aperta da Jair Bolsonaro e dalla sua formazione di estrema destra, il Partito social-liberale (Psl). Bolsonaro, misogino, omofobo, razzista, circondato dai sostenitori di un ritorno al potere dei militari, è il simbolo di una corrente politica che, dalla fine delle dittature dell’America latina, ha mantenuto un basso profilo F ino a qualche mese fa, il Bra- sile sembrava pronto a vira- re a sinistra. Tutto lasciava supporre che Luis Inácio Lula da Silva (Partito dei lavoratori, Pt) vincesse agevolmente le presiden- ziali dell’ottobre 2018. Con il 40% delle intenzioni di voto, l’ex capo di Stato aveva un ampio distacco dagli avversari, pur in un contesto di instabilità che rendeva difficili le proiezioni. Eppure, l’11 settembre 2018, «Lula», condannato per cor- ruzione a seguito di un dubbio pro- cesso – caratterizzato da un’intran- sigenza che la giustizia ha invece risparmiato ai dirigenti di destra (1) –, ha dovuto ritirare la candidatura. Così, si è fatto strada un deputato di estrema destra, un uomo forte per il quinto paese più popoloso del pianeta, che promette di far piazza pulita del comunismo e di riportare l’ordine. I brasiliani sono forse di- ventati fascisti in poche settimane? In pochi sapevano dell’esistenza di Jair Bolsonaro (Partito social-liberale, Psl) prima della campagna elettorale del 2018. Le sue dichiarazioni sessi- ste, omofobe, favorevoli alla tortura o critiche sulla repressione troppo morbida del generale cileno Augusto Pinochet, sarebbero sicuramente sta- te dimenticate se fossero uscite dalla penna di uno degli editorialisti spe- cializzati in grandi scandali. Invece, hanno fatto il giro del mondo, fino a delineare il programma di un uomo che ha ottenuto il 46% dei voti al pri- mo turno delle presidenziali. I flussi di rifugiati in direzione dell’Unione europea hanno rag- giunto il livello più basso dall’inizio della «crisi migratoria» scatenata dalla guerra in Siria. Il numero di passaggi illegali delle frontiere del continente si è ridotto di nove volte, passando da 1,8 milioni nel 2015 a 204.219 nel 2017, secondo l’agenzia Frontex. Eppure, si continua a parlare molto di immigra- zione. Questo tema rischia di monopo- lizzare le elezioni europee della prima- vera 2019. Sicuramente è quanto auspicano sia Emmanuel Macron sia Viktor Orbán. Il primo ministro ungherese, che teme un’ «invasione», spiega: «Attualmente, in Europa, ci sono due fazioni. A capo delle forze politiche che sostengono l’immigrazione c’è Macron. A capo dell’altra ci siamo noi, che vogliamo bloccare l’immigrazione illegale». Or- mai, gli esponenti dell’estrema destra, forti dei sondaggi e dei buoni risultati ottenuti nelle ultime elezioni, si credo- no maggioritari in Europa. «Le nostre idee sono al potere in Polonia, in Au- stria, in Ungheria», si è rallegrata Ma- rine Le Pen, presidente del Rassem- blement national, il 16 settembre. Dal canto suo, Macron ha additato questi «nazionalisti» che «predicano parole di odio» come i principali avversari (29 agosto). Dipingere il presidente francese come il «capo di un partito filo-mi- granti» – parole di Orbán –, denota una cecità, la cui buona fede è fortemente sospetta. Con la legge per un’immigra- zione controllata, un effettivo diritto d’asilo e un’efficace integrazione (pro- mulgata il 10 settembre), ha esteso la durata della detenzione amministrati- va a novanta giorni (contro i quaranta- cinque di prima), anche per le famiglie con bambini, ha istituito la schedatura dei minori soli, ridotto le udienze per le domande d’asilo a banali videocon- ferenze, inasprito l’accesso al permes- so di soggiorno per i genitori di bambi- ni francesi, limitato il diritto dello ius soli a Mayotte, ecc. BENOÎT BRÉVILLE continua a pagina 16 RENAUD LAMBERT * s Immigrazione, un dibattito distorto MARIE LAURE VAREILLES della serie Tous pareils, tous pas pareils, 2016 continua a pagina 8 In Europa, la popolazione stagna e invecchia; sull’altra riva del Mediterraneo cresce e ringiovanisce. Molti desumono da questa constatazione che l’esplosione dei flussi migratori sia una conseguenza inevitabile. Quindi, bisognerebbe barricarsi oppure aprire le frontiere. Questa analisi non è forse eccessivamente fatalista? * L'articolo è stato scritto prima della vittoria alle elezioni presidenziali di Jair Bolsonaro in Brasile, il 28 ottobre scorso.

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Page 1: n diploteca · del Paese al primo posto. Attaccata dai democratici e dai media statunitensi per l’avvicinamento alla Corea del Nord, giudicato im-prudente, la Casa bianca sarebbe

Il Brasile è fascista?

IL FALLIMENTO DELL'UTOPIA ISLAMISTA di Hicham Alaoui – alle pagine 14 e 15

Pubblicazione mensile supplemento al numero odierno de il manifesto

vendita abbinata con il manifesto 2 euro + il prezzo del quotidiano

n. 11, anno XXV, novembre 2018 sped. in abb. postale 50%

Sommario dettagliato a pagina 2

diploteca

diploteca

n n n

Recensioni e segnalazioniALLE PAGINE 22 E 23

n n n

n Francia, il sadismo del manager ALAIN DENEAULT

n Prime brecce nel libero scambio LORI M. WALLACH

n Discordia nel golfo del Bengala SAMUEL BERTHET

n Russia, il volto antisociale di Putin KARINE CLÉMENT

n La maledizione del modello tunisino THIERRY BRÉSILLON

n Referendum in Nuova Caledonia JEAN-MICHEL DUMAY

n Regno unito, i conservatori e la Brexit AGNÈS ALEXANDRE-COLLIER

n Fine delle ostilità tra Etiopia e Eritrea GÉRARD PRUNIER

Esiste un Paese ove, a differenza di quanto sta ac-cadendo in Brasile, i politici indagati per malver-

sazioni e condannati a pene detentive sono ex presi-denti conservatori. Ove la destra, l’estrema destra e i fondamentalisti protestanti si sentono traditi da Donald Trump. Ove il presidente statunitense, in netto contra-sto con scelte come l’uscita dall’accordo di disarmo nucleare con l’Iran o la revoca del trattato sui missili a media gittata con la Russia, sembra deciso a venire a capo di un conflitto che nessuno dei suoi predecessori ha saputo risolvere. Neppure l’ultimo, pure insignito del Premio Nobel per la pace.

Stiamo ovviamente parlando dell’Estremo Oriente; e la questione è indubbiamente troppo complessa per trovare il giusto spazio nella grande narrazione manichea che forma e deforma la nostra visione del mondo. Eppure, in una situazione planetaria quanto mai cupa, il discorso ottimista e volontarista di Moon Jae-in non dovrebbe passare inosservato: il presiden-te sudcoreano ha dichiarato, davanti all’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni unite, il 26 settembre scorso: «Nella penisola coreana è avvenuto un miracolo».

Un miracolo? In ogni caso, un completo rivolgimen-to. Nessuno ha dimenticato la raffica di tweet furibon-di scambiati appena un anno fa tra Donald Trump e il presidente nord-coreano, con espressioni come «fuo-co e furia», il «gran pulsante nucleare» e via dicendo. L’ambasciatrice degli Usa all’Onu, Nikki Haley, ha rife-rito recentemente di aver agitato davanti al suo omo-logo cinese, il 2 settembre 2017, nientemeno che la minaccia di un’invasione statunitense della Corea del

Nord, nell’intento di indurre Pechino a far pressione sui suoi vicini e alleati. Ora Trump saluta il «coraggio» del-l’«amico» Kim Jong-un. E durante un raduno repubbli-cano arriva persino a dire di provare «amore» nei suoi confronti!

I coreani, a Nord come a Sud, avanzano a tappe for-zate, approfittando dell’allineamento astrale: la destra sudcoreana è a pezzi, e sembra che finalmente il regi-me di Pyongyang stia ponendo lo sviluppo economico del Paese al primo posto.

Attaccata dai democratici e dai media statunitensi per l’avvicinamento alla Corea del Nord, giudicato im-prudente, la Casa bianca sarebbe certo restìa ad am-mettere che l’autoproclamato «maestro del negoziato» si sia lasciato infinocchiare da uno più smaliziato di lui. Comunque sia, qualora Washington scegliesse di riesumare i toni da «fuoco e furia», il rapido degrado dei suoi rapporti con Cina e Russia vieterebbe prati-camente a queste due potenze di seguire gli Usa su questo tema.

In questo quadro generale, il disarmo nucleare della Corea non deve diventare una premessa all’attuazione degli altri punti del negoziato: sospensione delle ma-novre militari da ambo le parti, fine delle sanzioni eco-nomiche, trattato di pace. Anche perché Pyongyang non rinuncerà mai alla sua assicurazione sulla vita sen-za solide garanzie: Donald Trump non è eterno, come non lo è la clemenza dei suoi sentimenti… Una ragione in più, ancorché paradossale, per essere ottimisti sulla possibilità di veder risolto nei prossimi mesi un conflit-to che dura tra tre quarti di secolo.

Schiarita in Asia SERGE HALIMI

I MOTIVI DI UN TRACOLLOIL MITO DELL’ASSALTO ALL’EUROPA

Le elezioni di ottobre 2018 in Brasile sono state segnate dalla breccia aperta da Jair Bolsonaro e dalla sua

formazione di estrema destra, il Partito social-liberale (Psl). Bolsonaro, misogino, omofobo, razzista,

circondato dai sostenitori di un ritorno al potere dei militari, è il simbolo di una corrente politica che,

dalla fine delle dittature dell’America latina, ha mantenuto un basso profilo

Fino a qualche mese fa, il Bra-sile sembrava pronto a vira-re a sinistra. Tutto lasciava

supporre che Luis Inácio Lula da Silva (Partito dei lavoratori, Pt) vincesse agevolmente le presiden-ziali dell’ottobre 2018. Con il 40% delle intenzioni di voto, l’ex capo di Stato aveva un ampio distacco dagli avversari, pur in un contesto di instabilità che rendeva difficili le proiezioni. Eppure, l’11 settembre 2018, «Lula», condannato per cor-ruzione a seguito di un dubbio pro-cesso – caratterizzato da un’intran-sigenza che la giustizia ha invece risparmiato ai dirigenti di destra (1) –, ha dovuto ritirare la candidatura. Così, si è fatto strada un deputato di estrema destra, un uomo forte

per il quinto paese più popoloso del pianeta, che promette di far piazza pulita del comunismo e di riportare l’ordine. I brasiliani sono forse di-ventati fascisti in poche settimane?

In pochi sapevano dell’esistenza di Jair Bolsonaro (Partito social-liberale, Psl) prima della campagna elettorale del 2018. Le sue dichiarazioni sessi-ste, omofobe, favorevoli alla tortura o critiche sulla repressione troppo morbida del generale cileno Augusto Pinochet, sarebbero sicuramente sta-te dimenticate se fossero uscite dalla penna di uno degli editorialisti spe-cializzati in grandi scandali. Invece, hanno fatto il giro del mondo, fino a delineare il programma di un uomo che ha ottenuto il 46% dei voti al pri-mo turno delle presidenziali.

I flussi di rifugiati in direzione dell’Unione europea hanno rag-giunto il livello più basso dall’inizio

della «crisi migratoria» scatenata dalla guerra in Siria. Il numero di passaggi illegali delle frontiere del continente si è ridotto di nove volte, passando da 1,8 milioni nel 2015 a 204.219 nel 2017, secondo l’agenzia Frontex. Eppure, si continua a parlare molto di immigra-zione. Questo tema rischia di monopo-lizzare le elezioni europee della prima-vera 2019.

Sicuramente è quanto auspicano sia Emmanuel Macron sia Viktor Orbán. Il primo ministro ungherese, che teme un’«invasione», spiega: «Attualmente, in Europa, ci sono due fazioni. A capo

delle forze politiche che sostengono l’immigrazione c’è Macron. A capo dell’altra ci siamo noi, che vogliamo bloccare l’immigrazione illegale». Or-mai, gli esponenti dell’estrema destra, forti dei sondaggi e dei buoni risultati ottenuti nelle ultime elezioni, si credo-no maggioritari in Europa. «Le nostre idee sono al potere in Polonia, in Au-stria, in Ungheria», si è rallegrata Ma-rine Le Pen, presidente del Rassem-blement national, il 16 settembre. Dal canto suo, Macron ha additato questi «nazionalisti» che «predicano parole di odio» come i principali avversari (29 agosto).

Dipingere il presidente francese come il «capo di un partito filo-mi-

granti» – parole di Orbán –, denota una cecità, la cui buona fede è fortemente sospetta. Con la legge per un’immigra-zione controllata, un effettivo diritto d’asilo e un’efficace integrazione (pro-mulgata il 10 settembre), ha esteso la durata della detenzione amministrati-va a novanta giorni (contro i quaranta-cinque di prima), anche per le famiglie con bambini, ha istituito la schedatura dei minori soli, ridotto le udienze per le domande d’asilo a banali videocon-ferenze, inasprito l’accesso al permes-so di soggiorno per i genitori di bambi-ni francesi, limitato il diritto dello ius soli a Mayotte, ecc.

BENOÎT BRÉVILLE

continua a pagina 16

RENAUD LAMBERT *

s

Immigrazione, un dibattito distorto

MARIE LAURE VAREILLES della serie Tous pareils, tous pas pareils, 2016

continua a pagina 8

In Europa, la popolazione stagna e invecchia; sull’altra riva del Mediterraneo cresce e ringiovanisce. Molti desumono da questa constatazione che l’esplosione dei flussi migratori sia una conseguenza inevitabile. Quindi, bisognerebbe barricarsi oppure aprire le frontiere. Questa analisi non è forse eccessivamente fatalista?

* L'articolo è stato scritto prima della vittoria alle elezioni presidenziali di Jair Bolsonaro in Brasile, il 28 ottobre scorso.

Page 2: n diploteca · del Paese al primo posto. Attaccata dai democratici e dai media statunitensi per l’avvicinamento alla Corea del Nord, giudicato im-prudente, la Casa bianca sarebbe

Il progetto di reddito universale entusiasma alcuni, nella mag-gior parte dei casi spinti da uno slancio di equità e generosi-tà. Ma la loro aspirazione, nel momento in cui postula l’idea

di una «crisi del lavoro», che suggerisce che una parte sempre più numerosa della popolazione non troverà più un’occupazione, poggia su fondamenta solide? Con una crescita della produttività che si è stabilizzata su un livello storicamente basso dalla fine della seconda guerra mondiale, si potrebbe al contrario conclu-dere che gli umani non abbiano smesso di lavorare. Non sarebbe meglio fondare il ragionamento sull’individuazione di un’altra crisi: quella della mercificazione?

Il capitalismo, che ha la vocazione a trasformare tutto il mondo in merce, non può perseguire questo obiettivo senza minaccia-re l’umanità di collassare sia dal punto di vista economico, sia sociale, politico ed ecologico. Prendere atto di questa situazione conduce a raccomandare un altro tipo di reddito di esistenza, de-monetizzato. In altre parole: la gratuità, di cui occorre difendere l’estensione, poiché essa non è mai totalmente scomparsa. Red-dito universale o gratuità, così si riassume il dilemma: è meglio dare dei soldi ai cittadini o fornire loro dei servizi gratuiti?

Si possono individuare tre elementi per rispondere. Nel 2017, l’University College di Londra ha comparato il costo di un reddi-to universale di base con quello di una estensione della gratuità ai servizi universali elementari (vitto, alloggio, sanità, formazione, trasporti, servizi informatici, ecc.) nel Regno unito (1). La secon-da costerebbe 42 miliardi di sterline (circa 48 miliardi di euro), contro 250 miliardi per il reddito universale (circa 284 miliardi di euro). Da un lato, l’equivalente del 2,2% del Prodotto interno lordo (Pil) britannico; dall’altro, il 13%. Risultati simili si regi-strerebbero in Francia, suggerendo una prima constatazione: la gratuità sembra a priori economicamente più «realistica» del red-dito universale.

Oltre al suo costo, il reddito universale deve fare i conti con un altro ostacolo: la prospettiva di mantenere, ovvero di estendere, il meccanismo di comparazione di tutti gli aspetti della vita con una certa somma di denaro. Proporre di pagare i genitori per l’edu-cazione dei figli, gli studenti per le loro letture o i contadini per i servizi che rendono all’ambiente non contribuisce forse ad acuire la logica della mercificazione? Un ragionamento del genere ave-va condotto l’intellettuale André Gorz ad abbandonare l’idea del sussidio universale (che un tempo aveva considerato come «la migliore leva per redistribuire quanto più possibile allo stesso tempo il lavoro salariato e le attività gratuite») in favore della gratuità (2).

Anche i migliori progetti di reddito universale non arrivano che a metà strada: da una parte, niente garantisce che le somme elargite siano utilizzate per prodotti ecologici, sociali, democra-tici; dall’altro, il dispositivo manterrebbe la società in una logica di definizione individuale dei bisogni. Insomma, da società con-sumista.

Oltre a rispondere, contemporaneamente, a un’emergenza sociale ed ecologica, la gratuità offre il mezzo per sconfiggere i quattro cavalieri dell’Apocalisse che minacciano l’umanità e il pianeta: mercificazione, monetizzazione, utilitarismo ed econo-mismo. Essa si spinge al di là delle logiche di bisogni e scarsità.

La gratuità che dobbiamo difendere dipende da una costruzio-ne. Economica, innanzitutto: se la scuola pubblica è gratuita, è perché le imposte la finanziano. La gratuità libera il servizio dal prezzo, non dal costo. Culturale, in seguito: non si tratta di pro-mettere una indiscriminata libertà di accesso ai beni e ai servizi, ma di ancorarla a delle regole.

Prima regola: la gratuità non si limita ai beni e ai servizi che

permettono di sopravvivere, come l’acqua o l’alimentazione mi-nima. Si estende a tutti i domini dell’esistenza, quali il diritto ai parchi e ai giardini pubblici, ai campi da gioco, all’abbellimento delle città, alla sanità, all’alloggio, alla cultura, alla partecipazio-ne politica... La sfida è proprio quella di moltiplicare le isole di gratuità nella speranza che un domani formino degli arcipelaghi e dopodomani dei continenti.

Seconda regola: se tutto è destinato a diventare gratuito, ciò deve comportare un aumento di prezzo. Paradossale? Per niente: la gratuità avanza mano nella mano con la sobrietà. Un esempio. La gratuità di un bene come l’acqua risponde non soltanto a una preoccupazione sociale, ma anche all’allarme ecologico, invitan-do per esempio a costruire reti idriche più piccole per ridurre le perdite (stimate in più di un terzo), oppure ostacolando i siste-mi basati sul mercato secondo cui l’acqua serve una sola volta. Il riciclaggio delle acque grigie (provenienti dall’uso domestico) per il consumo è vietato in Francia per motivi sanitari. Eppure si sviluppa in altri paesi (Stati uniti, Giappone, Australia), dove non ci si ammala di più che in Francia. Ma immaginiamo che si possa pagare allo stesso prezzo l’acqua da bere e per riempire le pisci-ne. Non esiste una definizione scientifica, e ancor meno morale, dell’uso giusto o sbagliato dei beni comuni. Spetterà dunque ai cittadini – cioè ai processi politici – definire ciò che deve essere gratuito, rincarato, persino vietato. Lungi dal provocare lo sfrut-tamento, come vorrebbe la favola della «tragedia dei beni comu-ni» di Garrett Hardin (3), la gratuità contribuisce a rendere più responsabili i prelievi ambientali.

Terza regola: il passaggio alla gratuità presuppone di trasfor-mare i prodotti e i servizi preesistenti. Le mense scolastiche, per esempio, devono andare verso un alimentazione locale, rispetto-sa delle stagioni, meno ghiotta d’acqua, certo meno carnivora, preparata sul posto (4). Le mediateche attireranno nuovi lettori, ma modificandone i comportamenti, con molti meno prestiti con la tessera perché si uscirebbe dalla logica del consumo in cui cia-scuno ne vuole in rapporto al proprio denaro e prende in prestito

il massimo. Dei servizi funerari gratuiti, già autorizzati per leg-ge, possono fornire l’occasione di stabilire una cerimonia repub-blicana, o di legalizzare l’ecosepoltura (5) o la resomazione (6); in tutti i casi, mettono in opera delle politiche di sostegno sociale e psicologico delle famiglie.

L’esempio di città, laboratori della gratuità dei trasporti in comune urbani ed extraurbani, prova che si sbaglierebbe ad ac-contentarsi di eliminare le biglietterie: si tratta anche e soprat-tutto di far evolvere il servizio, di scegliere altre tecnologie e infrastrutture. La scelta non riguarda solo città piccole e medie, ma metropoli come Tallinn, la capitale estone, o, in certe ore, la città cinese di Chengdu, con i suoi quattordici milioni di abi-tanti. Nell’Île-de-France, il rapporto commissionato dalla presi-dente della regione, Valérie Pécresse, riconosce che la gratuità non porrebbe un problema di risorse finanziarie ma un rischio di saturazione della rete, a dimostrazione che il sistema di mercato non soddisfa il diritto alla città e non sa rispondere alla crisi eco-logica. È per questo che lo stesso rapporto sceglie l’impossibile auto «propria». In nessuno dei campi considerati la gratuità pro-voca un abbassamento della qualità del servizio, contrariamente alla diceria diffusa secondo la quale bisognerebbe scegliere tra gratuità e qualità. Lo dimostra l’esperienza: la gratuità non con-tribuisce né alla crescita degli atti incivili né a una recrudescenza del degrado; tutto il contrario.

Ciò nonostante alcuni credono che solo la mercificazione per-metterebbe di proteggere le risorse naturali: più il petrolio diven-terà raro, per esempio, più il suo prezzo aumenterà, inducendo a limitarne l’uso. Bollano quindi la gratuità come una forma di sfruttamento organizzato. Niente di più falso. Prendiamo il caso dell’energia: non si tratta di rendere tutta l’energia gratuita, ne-anche di raggiungere le nostre massime capacità di produzione. Tutti sanno ormai che la sopravvivenza dell’umanità impone di lasciare sotto terra buona parte del petrolio disponibile, poiché il suo uso aggraverebbe il riscaldamento climatico. Immaginare la gratuità dell’energia richiede di elaborare una transizione rapi-da e dolce da un modo di vivere energivoro a un modo di vivere sobrio. Una politica del genere si sposa perfettamente con lo sce-nario negawatt, fondato su una riduzione alla fonte dei bisogni in termini energetici partendo da diversi tipi di uso.

Il 1° ottobre 2018, l’appello «Verso una civiltà della gratuità», lanciato a partire dal libro-manifesto Gratuité versus capitali-sme, ha ricevuto il sostegno di un gran numero di personalità e di organizzazioni politiche di sinistra ed ecologiste. Esso oppone ciò che riguarda la gratuità di sostegno del sistema – quella delle tariffe sociali, destinata a «quelli che non ce l’hanno fatta», che non si trova mai disgiunta da paternalismo e stato di polizia – e ciò che ha a che fare con una gratuità di emancipazione – quella della scuola pubblica, del principio di sicurezza sociale così come espresso nel programma del Consiglio nazionale della resistenza (Cnr).

Emancipatrice, la gratuità costituisce un inno a «più godimen-to». Si possono formulare mille critiche alla società consumista; nondimeno essa riesce a sedurre invitando a consumare di più. Farla finita con questo «godimento del possesso» implica oppor-gliene un altro: quello dell’essere.

(1) Jonathan Portes, Howard Reed e Andrew Percy, «Universal basic services», Social Prosperity Network, Institute for Global Prosperity, Londra, ottobre 2017.(2) André Gorz, Miseria del presente, ricchezza del possibile, Manifestolibri, Roma 1998.(3) Garrett Hardin, «The tragedy of the commons», Science, vol. 162, n. 3859, Washington, DC, dicembre 1968.(4) Cfr. Une histoire politique de l’alimentation. Du paléolithique à nos jours, Max Milo, Parigi, 2016.(5) In humusation, trasformazione del corpo in compost (ndt). (6) Traduzione dell’inglese resomation (ndt), in francese promession: dissoluzio-ne del corpo nell’azoto liquido (ndr).(Traduzione di Valerio Cuccaroni)

NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto2

In questo numero novembre 2018

PAGINA 3

Se il manager tormenta i dipendenti, di Alain Deneault

PAGINE 4 E 5

Prime brecce nella fortezza del libero scambio, di Lori M. Wallach – Una sconcertante rinegoziazione, di Laura Carlsen

PAGINE 6 E 7

Venezuela, come uscire dall'impasse, di Temir Porras Ponceleón – Una moneta dal valore incerto (T.P.P.)

PAGINA 8

Il Brasile è fascista?, seguito dell'articolo di Renaud Lambert – Firmate, e sarete liberi, di Pierre Rimbert

PAGINA 9

I corridoi della discordia, di Samuel Berthet

PAGINA 10

Il volto antisociale di Vladimir Putin, di Karine Clément

PAGINA 11

La maledizione del modello tunisino, di Thierry Brésillon

PAGINE 12 E 13

Referendum fuori tempo in Nuova Caledonia, di Jean-Michel Dumay

PAGINE 14 E 15

Il fallimento dell'utopia islamista, di Hicham Alaoui

PAGINA 16

Immigrazione, un dibattito distorto, seguito dalla prima dell'articolo di Benoît Bréville

PAGINA 17

In Italia, una fronda antieuropea?, di Stefano Palombarini

PAGINE 18 E 19

La Brexit mette a nudo le divisioni dei conservatori britannici, di Agnès Alexandre-Collier

PAGINA 20

Diplò. Una singolarità condivisa

PAGINA 21

Fine delle ostilità tra Etiopia e Eritrea, di Gérard Prunier

PAGINE 22 E 23 

Tessere del domino capovolte, di Geraldina Colotti. Diploteca, recensioni e segnalazioni

PAGINA 24

Prostitute nigeriane vittime del «juju», di Mathilde Harel

www.ilmanifesto.it

A CURA DI Geraldina Colotti, tel. +39 06 68719545 [email protected] e-mail: [email protected] via Bargoni 8 – 00153 Roma

TRADUZIONI Alice Campetti, Valerio Cuccaroni, Marianna De Dominicis, Federico LopiparoRICERCA ICONOGRAFICA

Cristina Povoledo, Nora Parcu, Anna Salvati ISCRIZIONE ROC n. 23181 DIR. RESP. Norma Rangeri REALIZZAZIONE EDITORIALE Cristina Povoledo

PELLICOLE E STAMPA SIGRAF spa, via Redipuglia 77, Treviglio (Bg) RACCOLTA DIRETTA PUBBLICITÀ Roberto Fachechi Roma 00153, via Bargoni, 8 tel. +39 06 68719500 fax +3968719689 e-mail: ufficiopubblicità@ilmanifesto.it NUMERI ARRETRATI

tel. +39 06 39745482 e-mail: [email protected] DIFFUSIONE ABBONAMENTI

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Le Monde diplomatique

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FONDATORE Hubert Beuve-MéryDIREZIONE Serge Halimi, presidente, direttore pubblicazione e di redazione. Altri membri: Vincent Caron, Bruno Lombard, Pierre Rimbert, Anne-Cécile RobertRESP. ED. INTERN. Anne-Cécile RobertREDAZIONE 1, avenue Stephen-Pichon, 75013 Paris • tel. +33 153949601 fax +33 153949626 DIREZIONE Serge Halimi

CAPOREDATTORE Philippe Descamps VICE CAPOREDATTORE Benoît Bréville, Martine Bulard, Renaud LambertCAPO DELL’EDIZIONE Mona Chollet REDAZIONE Akram Belkaïd, Evelyne Pieiller, Hélène Richard, Pierre Rimbert, Anne-Cécile Robert SITO INTERNET Guillaume Barou, Thibault Henneton IDEAZIONE ARTISTICA E REALIZZAZIONE

Alice Barzilay, Maria Jerardi DOCUMENTAZIONE Olivier Pironet

il manifesto www.ilmanifesto.it

DIRETTORE RESP. Norma RangeriCONSIGLIO D’AMMINISTRAZIONE Benedetto Vecchi (presidente), Matteo Bartocci, Norma Rangeri

Chiuso in redazione il 7 novembre 2018. Il prossimo numero sarà in edicola il 13 dicembre

Elogio della gratuitàPAUL ARIÈS*

JOSE MANUEL CIRIA

* Politologo, direttore dell’Osservatorio internazionale della gratuità e autore di Gratuité vs capitalisme, Larousse, Parigi 2018.

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Le Monde diplomatique il manifesto NOVEMBRE 2018 3

Se il manager tormenta i dipendentiGLI EX DIRIGENTI DI FRANCE TÉLÉCOM PRESTO ALLA SBARRA

A una lettura distratta degli even-ti, si potrebbe pensare che que-sto sia un caso isolato, più che

un caso emblematico. A giugno scor-so, è stato deciso che nel 2019 la socie-tà France Télécom e il suo ex ammi-nistratore delegato Didier Lombard, insieme ai suoi vice, Louis-Pierre Wenès e Olivier Barberot, compari-ranno davanti a un giudice con l’accu-sa di mobbing. Dovranno rispondere del suicidio di decine di dipendenti alla fine degli anni 2000.

All’epoca, France Télécom cambia-va forma societaria. Dal 2004, più del 50% del suo capitale proviene da inve-stimenti privati, e l’intero settore delle telecomunicazioni si apre alla concor-renza. L’azienda entra così in una ge-stione di «governance», che si traduce in particolar modo nella «responsabi-lizzazione» del personale.

I subalterni, più «partner» diretti dell’azienda che dipendenti, impara-no a mostrarsi competenti ai diretti superiori a cui spetta la scelta della propria squadra di lavoro. Devono raggiungere obiettivi irrealizzabili, sviluppare metodi di vendita umi-lianti, seguire formazioni integrative, competere tra loro per trovare posto nei nuovi organigrammi, sviluppare nuove competenze, per non essere lasciati a piedi. Del resto, è proprio questo uno degli scopi della strategia: scoraggiare oltre ventimila di loro, mettendoli in condizione di lascia-re l’azienda senza doverli licenziare formalmente. Un’idea che il 20 otto-bre 2006 Lombard espone ai quadri di France Télécom, riassumendo il proprio punto di vista: «In un modo o nell’altro, i licenziamenti ci saranno, dalla finestra o dalla porta».

«Piccolo capo deviato e tossico»

Ed è riuscito nell’intento. Ne La So-ciété du mépris de soi, François Che-vallier si stupisce di come possa essere efficace la mancanza di un inquadra-mento del personale. Gli individui sottoposti a questa indeterminatezza amministrativa si lasciano convince-re che tutto dipenda da loro e che, in caso di fallimento, siano gli unici re-sponsabili. «Persone “maltrattate”, o che si percepiscono tali, non solo non si ribellano più contro quelli che li sminuiscono fino a distruggerli, ma sembrano dar loro ragione, facendo di se stessi, in breve tempo, quel che i superiori cercavano di fare per vie traverse: degli scarti (1).»

I metodi di France Télécom non si discostano molto da quelli utilizzati ancora oggi nelle grandi imprese. Per abituare la Francia a questa strategia, nell’agosto 2018, Air France-Klm ha nominato come amministratore dele-gato il canadese Benjamin Smith, un dirigente feroce con i propri dipenden-ti. Lo Stato, che detiene il 14,3% delle azioni della società, ha approvato la decisione con entusiasmo, tanto più che il partito presidenziale, La Répu-blique en marche, ha adottato senza ri-serve il vocabolario manageriale, fino a definirsi «azienda politica».

Un «sicario delle Ru [risorse uma-ne]» incontrato da due squadre di giornalisti (2) descrive in maniera par-ticolareggiata il metodo del «ranking forzato». Il suo mestiere consisteva

nello spingere sistematicamente e de-finitivamente verso la porta una deter-minata percentuale di dipendenti rite-nuti meno efficienti. «Sbattili fuori e assumi altre persone al loro posto. Se fai un buon lavoro, assumerai neces-sariamente persone migliori di loro»: la strategia padronale si può riassu-mere con queste parole d’ordine. Ma anche: «Bisogna licenziare regolar-mente delle persone», «non dare [loro] una seconda possibilità»; «Quando qualcuno non funziona, non funzione-rà per tutta la propria vita»…

Le cause di esclusione risultano es-sere approssimative o decisamente fit-tizie: l’assegnazione o meno di premi nel corso dell’anno, un vecchio errore estrapolato dal contesto e rispolverato dagli archivi, o un insieme di fatti in-dipendenti gli uni dagli altri. Se questo non basta, fioccano le minacce: «Non è il caso di lottare, perché la società sarà più forte di te». Un ex quadro, che si descrive come un «piccolo capo de-viato e tossico», spiega come il termi-ne «rilanciare», applicato alle azien-de, corrisponda semplicemente a un «codice, sinonimo di licenziare (3)». Tutti questi artifici lessicali derivano da una neolingua che terrorizza sub-dolamente il personale e rende insen-sibili i dirigenti.

I grandi manager e il versante poli-tico di riferimento, la «governance», vanno oltre le tecniche di divisione del lavoro perfezionate a suo tempo da Frederick Winslow Taylor (4). Il nuovo bersaglio è la divisione del soggetto. Quest’ultimo, spaccato, frammentato e frantumato in una serie di prescri-zioni manuali, cognitive, morali e psi-cologiche che finiscono per sfuggirgli, deve lasciarsi attraversare da impulsi produttivi senza nome architettati da un’organizzazione. Nell’era delle barbarie manageriali, le «enterprise architecture in integrazione funziona-le» e la «proprietà di processo» non rimandano tanto alla gestione degli ef-fettivi, quanto alla loro digestione (to process).

Concretamente, questo comporta la polverizzazione della coscienza dei la-

voratori e la loro rigida riconduzione a una serie di organismi, di requisiti, di funzioni, di rendimenti. La loro in-tegrità è compromessa da un’ideologia che impone sin dall’inizio alle perso-ne in cerca di lavoro la redazione di «lettere di motivazione» per avere la «possibilità» di «vendersi» sul «mer-cato del lavoro». Quando accedono all’iter dell’assunzione, vengono sot-toposti a una serie di esperienze dal senso e dal carattere a loro completa-mente ignoti. Dopo averli raggruppati in colloqui collettivi, degli specialisti analizzano il loro linguaggio del cor-po, individuano il loro tipo psicologico o annotano le manifestazioni del loro inconscio.

In questo contesto, i candidati non sanno più cosa gli venga chiesto né perché. Non ci si rivolge né alla loro coscienza né alla loro ragione, piutto-sto si elaborano misure a loro insaputa. Vengono proiettati in simulazioni che affrontano questioni estranee al lavoro di cui dovranno occuparsi. In una sce-na del film di Jean-Robert Viallet La

Mise à mort du travail (5), si chiede ai candidati di simulare una discussione in cui decidere la città dove il gruppo si recherà in vacanza. Ma questo lo si capisce solo in un secondo momento, nel corso della riunione conclusiva dei piccoli capi che analizzano queste finte chiacchiere informali: il metodo punta a selezionare i mediocri, i grega-ri che si piegheranno alle direttive sen-za fiatare e che saranno anche pronti a denunciare i colleghi per far carriera. Nessuno riceverà spiegazioni formali sul motivo della propria assunzione – né della propria esclusione.

Dopo l’assunzione, capita frequen-temente che i lavoratori vengano get-tati sul campo di battaglia dopo una misera formazione. Devono trovare da soli i metodi che permetteranno loro di realizzarsi. Non dimostrare creatività, iniziativa o responsabilità, contrariamente ai rumorosi proclami ufficiali, ma indovinare cosa il regime si aspetta da loro. Quest’ultimo non si assume più la responsabilità delle proprie direttive. I più zelanti ci arri-veranno a forza di umilianti sedute di valutazione e di autocritica.

Avendo stabilito di farne dei «part-ner» e dei «soci», piuttosto che dei dipendenti di cui farsi carico, è pos-sibile che si debbano pagare gli abiti e alcuni degli strumenti di lavoro. Il liberismo li presenta come individui autonomi impegnati nella costru-zione di un rapporto d’affari con l’a-zienda, che diventa, in questa orga-nizzazione mentale dei rapporti, un semplice appaltatore.

La situazione produce effetti psi-chici inediti. Ci si aspetta solo che il personale reprima i propri impulsi in ambito professionale, obbedendo all’implicito – o esplicito – comanda-mento: «Taci, io ti pago». Ma, ai ma-nager moderni non basta più questo lavoro che consiste nel tenere per sé rimostranze, obiezioni e frustrazioni. Oggi, i dipendenti devono impegnarsi positivamente nel proprio lavoro. L’au-torità non si accontenta di rinchiuderli in parametri coercitivi; esige che gli stessi lavoratori sposino freneticamen-te questi parametri e li trasformino in veri e propri oggetti di desiderio. Pensiamo alla sintomatica formazione filmata presso Domino’s Pizza dai re-gisti del film Attention danger travail, scandita da neologismi e anglismi manageriali e in cui il ricatto affettivo funziona a pieno regime (6). Lavo-ratori sottopagati devono desiderare ardentemente di essere «i numeri uno della pizza» perché da numero uno «si sta bene». Ecco che l’affiliato incita i proletari a «distruggersi» per la causa, insistendo sul fatto che i rappresentan-

ti della società devono essere assolu-tamente intercambiabili nei metodi e nell’aspetto, da Austin, a Parigi, a Bie-lefeld. Marie-Claude Élie-Morin ne La Tyrannie du bonheur ha citato l’omici-dio di una lavoratrice nell’azienda di vestiti canadese Lululemon per mano di una collega, che si era dovuta im-medesimare talmente nella formazio-ne e nei discorsi new age della società sulla formazione individuale e sulle tecniche di benessere, da perdere la ragione (7).

L'imposizione di regole assurde

Non si ha più coscienza delle proprie azioni! Farmacologi che si ammazza-no per sviluppare medicine destinate a malati immaginari dal forte potere d’acquisto. Rappresentanti di com-mercio che vendono a credito a una vecchia signora un po’ svampita dei mobili di cui non ha bisogno. Freelan-ce chiusi in casa a tradurre parti di un testo che non potranno mai leggere per intero. Impiegati di un negozio che devono vessare moralmente le cassie-re ritenute in sovrannumero dai diri-genti, inducendole a detestare loro il proprio lavoro. Ingegneri che cercano di programmare il malfunzionamen-to di una macchina per prevederne la sostituzione. Il controllo dell’attività professionale con strumenti informa-tici, ormai esteso tanto alle strutture sanitarie quanto ai piccoli bar di quar-tiere, riduce la minima operazione a variabile oggetto di studio. Gli stessi interessati sono presi alla sprovvista,

come testimonia la storia di un quadro della Société nationale des chemins de fer (Sncf) descritta nel documentario di Jacques Cotta e Pascal Martin Dans le Secret du burn-out (8). L’uomo era stato assunto come funzionario dalla società di Stato e ritenuto quindi ca-pace di mettere le proprie conoscenze al servizio della comunità. In realtà, era stato incaricato prevalentemen-te di ridurre le risorse, di accorpare i servizi e di ottimizzare l’efficienza, come nel settore privato, diventando il reietto della società, con suo sommo disappunto. La poesia manageriale ha creato un’espressione che descrive la capacità dei dipendenti di affrontare l’assurdità delle situazioni in cui ven-gono gettati: «mostrarsi tolleranti ver-so l’ambiguità».

Dai primi lavori del sociologo Luc Boltanski sui funzionari negli anni 1970, ai documentari appena citati, passando per Burocrazia di David Graeber (9), appare evidente come l’assenza di direttive chiare o l’adozio-ne di regole assurde e contraddittorie permettano ai padroni di non assu-mersi la responsabilità di quanto esi-gono. Graeber cita il caso di un gran-de ristorante. Il capo, sebbene ignori quel che è realmente accaduto durante un servizio andato male, scende per strigliare il primo malcapitato, il ca-posquadra o l’apprendista, poi torna nei propri uffici. È solo tra subalterni che viene successivamente chiarita la dinamica dell’errore, come giocatori di scacchi al termine di un torneo. Ai dirigenti non rimane che analizzare il rendimento dei migliori e presentarli come modello per tutti gli altri, co-stringendo ognuno a essere «perfor-mante».

L’ambito professionale e il diritto del lavoro rappresentano una stra-ordinaria situazione d’eccezione nell’ordine della sovranità politica. La maggioranza dei diritti costituzionali perde quota a vantaggio del diritto di un nuovo ordine, quello del lavoro e del commercio. In virtù dei principi di subordinazione e di insubordina-zione, la libertà di espressione subi-sce notevoli limitazioni, e quella di associazione si riduce alle sole leggi sulla sindacalizzazione. La reale ini-ziativa è proibita e le armi di ricatto acquistano un potere pressoché in-contrastato (10). In questa situazione blindata, potere politico e diritto di informare sono quasi assenti.

L’ondata di suicidi in France Télécom ha avuto come particolarità di essere più spettacolare e dramma-tica di altri casi. Questo ha permesso agli organi giudiziari, le cui nozioni in materia sono sommarie, di inqua-drare (parzialmente) i fatti. Ma che ne è delle vite distrutte poco alla volta da questi metodi frutto di strategie comuni?

(1) François Chevallier, La Société du mépris de soi. De L’Urinoir de Duchamp aux suicidés de France Télécom, Gallimard, Parigi, 2010.(2) Leila Djitli e Clémence Gross, «Didier Bille, le sniper des RH», «Les pieds sur terre», France Culture, 11 aprile 2018; Virginie Vilar e Laura Aguirre de Carcer, «“L’exécuteur”. Confes-sions d’un DRH», «Envoyé spécial», France 2, 8 marzo 2018.(3) Lucia Sanchez e Emmanuel Geoffroy, «Pe-tits chefs: les repentis», «Les pieds sur terre», France Culture, 18 gennaio 2018.(4) Frederick Winslow Taylor, L’organizzazio-ne scientifica del lavoro, Etas, Milano, 2004 (1a ed: 1911).(5) Jean-Robert Viallet, La Mise à mort du tra-vail. 2. L’Aliénation, Yami 2 Productions, Fran-cia, 2009.(6) Pierre Carles, Christophe Coello e Stépha-ne Goxe, Attention danger travail, CP Produc-tions, Francia, 2003.(7) Marie-Claude Élie-Morin, La Dictature du bonheur, VLB Éditeur, Montréal, 2015.(8) Jacques Cotta e Pascal Martin, Dans le se-cret du burn-out, France 2, 2016, 52 min.(9) Luc Boltanski, Les Cadres. La formation d’un groupe social, Éditions de Minuit, coll. «Le sens commun», Parigi, 1982; David Gra-eber, Burocrazia. Perché le regole ci persegui-tano e perché ci rendono felici, Il saggiatore, Milano, 2016. (10) Si legga Danièle Linhart, «Immaginare un impiego stabile senza subordinazione», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2017. (Traduzione di Alice Campetti)

ERWIN WURM

È uno strano paradosso quello del lavoro dipendente. Il contratto di lavoro, moderno Graal, costituirebbe un presupposto per l’emancipazione: non dovrebbe assicurare i mezzi di sussistenza? Per molti, vivere equivale a timbrare il cartellino. Ma, spesso, all’ingresso nel mondo aziendale si affianca un assoggettamento a vincoli legati all’ossessione della produttività. In altri termini, un intralcio alla vita stessa

ALAIN DENEAULT *

* Professore al Collège international de philo-sophie, autore di Governance. Il management totalitario, Pozza, Vicenza, 2018.

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Prime brecce nella fortezza

NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto4

CANADA, STATI UNITI E MESSICO FIRMANO

Dopo tredici mesi di trattative, il 30 settembre scorso è stata pubblicata la versione riveduta

dell’Accordo nordamericano per il li-bero scambio (Nafta) (1). Nessuno sarà sorpreso che i governi dello statuni-tense Donald Trump, del canadese Ju-stin Trudeau e del messicano Enrique Peña Nieto abbiano confermato il mo-dello commerciale che prevale dall’i-nizio degli anni 1990 e che favorisce le aziende a scapito delle popolazioni. Tuttavia, il nuovo testo contiene fon-damentali passi avanti che, ammesso siano ratificati dal Congresso nel 2019, potrebbero porre fine ad alcuni gravi e persistenti danni causati dal preceden-te trattato a milioni di cittadini norda-mericani (2). Per chi da un quarto di secolo combatte il libero scambio, al fianco di sindacalisti ed ecologisti, sarebbe già una grande vittoria, le cui conseguenze si estenderebbero ben ol-tre il sottocontinente.

Il Nafta, firmato nel 1992, ha rap-presentato la rampa di lancio per un processo cinico: l’utilizzo di trattative commerciali per dare nuovi diritti e poteri agli investitori, favorire alcu-ni settori in situazione di monopolio, mettere in discussione le norme sa-nitarie e le misure di protezione dei consumatori e dell’ambiente, ecc. – insomma, per intervenire in ambiti che poco hanno a che vedere con gli scambi commerciali, presentandolo all’opinione pubblica come «accordo di libero scambio».

Questo modello, più volte imita-to, si è diffuso in tutti i continenti (si legga l’articolo a pagina 11), pur con denominazioni diverse (accordo di partenariato economico, partenariato per il commercio e gli investimenti...).

Quando gli Stati uniti lo hanno messo in discussione, è arrivato un segnale forte al resto del mondo. Il riesame dell’accordo riflette anche l’evoluzio-ne dei partiti politici statunitensi sulla questione del libero scambio. Per una lunga fase, le critiche più virulente sono giunte da sinistra, in prima linea nella lotta contro il Nafta nel 1994 o nella «battaglia di Seattle» contro l’Or-ganizzazione mondiale del commercio (Omc) nel 1999. Poi, gli attacchi sono giunti dal campo repubblicano, a cui si deve la morte del Partenariato trans-pacifico (Tpp), strenuamente difeso da Barack Obama. Ne è conseguita la riapertura del cantiere Nafta.

Un intervento di Ronald Reagan

Per raggiungere la presidenza, Trump ha sfruttato al massimo la rabbia delle classi popolari contro il dumping so-ciale, le delocalizzazioni, la deindu-strializzazione. Contrario al Nafta da lunga data, ha sempre promosso una lettura nazionalista di questo tratta-to; niente a che vedere con le critiche progressiste mosse da Bernie Sanders durante le primarie democratiche del 2016. Secondo Trump, il Nafta, il «peggior accordo mai firmato» dagli statunitensi – definizione che, tut-tavia, applica a tutti gli accordi che vuole modificare... –, sarebbe andato a esclusivo vantaggio dei messica-ni, smaniosi di sfruttare la debolezza degli Stati uniti. Ad ascoltare lui, si potrebbe credere che sia stato conce-pito a Città del Messico per nuocere ai lavoratori statunitensi. Naturalmente è falso. Il Nafta è un’invenzione del presidente Ronald Reagan che com-pletò la sua prima versione nel 1988 con il Trattato di libero scambio tra Stati uniti e Canada (Fta). Il Messico è sceso in campo grazie al presidente repubblicano George H. W. Bush, fir-

matario del testo del 1992. E il demo-cratico William Clinton si è prodigato per la sua approvazione al Congresso (3). Contrariamente alle affermazio-ni di Trump, che puntano ad aizzare i lavoratori del nord contro i propri pari messicani, il Nafta è un accordo made in America, pensato come una macchina da guerra scagliata contro i lavoratori di entrambi i paesi.

La nuova denominazione – Accordo Stati uniti, Messico e Canada (Usm-ca) – non modifica l’elemento fonda-mentale: il trattato continua a inserirsi nel rigido ambito che inquadra i 164 membri dell’Organizzazione mondia-le del commercio (Omc), tra cui i tre paesi firmatari. Eppure, su alcuni ar-gomenti importanti prende le distanze dai modelli precedenti. Per questo, po-trebbe rappresentare un punto fermo da cui avviare una critica delle politi-che commerciali su scala mondiale.

Innanzitutto, un notevole passo avanti è determinato dalla drastica ri-duzione del campo di applicazione del meccanismo di risoluzione delle con-troversie tra investitori e Stati (Isds), che permette alle aziende di far inter-venire i tribunali arbitrali contro i go-verni che abbiano adottato misure pe-nalizzanti rispetto ai loro profitti (4). Viene completamente annullato nei rapporti tra Stati uniti e Canada. Ot-tawa e i militanti ecologisti festeggia-no perché, da venticinque anni e con un’unica eccezione, tutti i risarcimenti versati alle aziende in procedimenti ambientali erano frutto di denunce di società statunitensi contro le politiche pubbliche canadesi (5).

Per quanto riguarda il Messico, il meccanismo Isds lascia il posto a un nuovo approccio. Insieme al diritto di investire, sono spariti anche i grandi principi di cui i governi dovevano farsi garanti – uguaglianza di trattamento delle società estere e delle società na-zionali, sicurezza degli investimenti, libertà per le imprese di trasferire il proprio capitale. Mentre la risoluzione dei contenziosi nel Nafta permetteva agli investitori di eludere i tribuna-li nazionali grazie alla possibilità di ricorrere all’arbitrato, il nuovo di-spositivo impone a investitori e Stati innanzitutto il tentativo di discutere i propri contenziosi davanti alle giuri-sdizioni e agli enti amministrativi dei paesi coinvolti. Solo dopo aver percor-so tutte le strade locali, o se non sia stato possibile ottenere una decisione nell’arco di due anni e mezzo, gli in-vestitori potranno chiedere un risarci-mento davanti al tribunale arbitrale. E questo, solo nel caso in cui la querela verta sul fatto che un «un investimento è nazionalizzato o direttamente espro-priato attraverso un trasferimento formale di titoli o un sequestro puro e semplice». O in caso di azioni «di-scriminanti» contro un investimento già realizzato. Del resto, gli investitori saranno indennizzati solo per danni di cui presentino le prove, mentre sa-ranno esclusi quelli «intrinsecamente speculativi». Un modo per porre fine ai risarcimenti astronomici versati in passato per compensare una perdita presunta di presunti utili.

Alla luce di queste misure, la lob-by padronale statunitense Business Roundtable, il think tank ultraliberi-

sta American Enterprise Institute e il comitato editoriale del Wall Street Journal hanno definito il nuovo testo «peggio» del precedente (6). Eppu-re c’è un punto debole: un provvedi-mento che protegge le nove società statunitensi che si sono divise tredici contratti in occasione della parziale privatizzazione del settore petrolifero e del gas decisa dal governo Peña Nie-to. Stabilisce che queste multinaziona-li continuino a usufruire del dispositi-vo Isds qualora il Messico prorogasse altri accordi commerciali garantiti da questo meccanismo.

Al di là di questa eccezione, il colpo inferto ai tribunali arbitrali segna un significativo declino del potere degli investitori sugli Stati. Dal momento che quest’attacco arriva da un gover-no particolarmente devoto alle azien-de – come testimoniano le sostanziose riduzioni delle imposte concesse da Trump –, difficilmente i futuri presi-denti statunitensi riusciranno a tor-nare indietro. E i molti paesi che da anni cercano di sottrarsi al regime Isds potranno trovarvi una fonte di ispira-zione.

Tuttavia, non c’è niente che proibi-sca veramente alle multinazionale di continuare a delocalizzare gli stabi-limenti, a versare stipendi da fame ai messicani o a liberarsi dei propri ri-fiuti tossici nella natura. Per porvi un freno, nell’accordo dovrebbero essere inserite delle clausole sociali e am-bientali forti, applicabili rapidamente e incontestabili. Non è questo il caso. Sebbene siano state migliorate alcune norme – il Comitato consultivo sul lavoro, composto da sindacati, parla di progressi «modesti ma significativi (7)» –, mancano gli strumenti per ap-plicarle o sono estremamente appros-simativi.

L’Usmca contiene nuove garanzie sul diritto di sciopero, sulla violenza contro i sindacalisti e sui lavoratori immigrati. Mentre nel Nafta le nor-me sociali e ambientali erano relegate nell’addendum e non avevano caratte-re vincolante, oggi figurano nel corpo del testo – acquisendo teoricamente un carattere vincolante –, come in tut-ti i trattati firmati dagli Stati uniti dal 2007. Tuttavia, sebbene necessaria, l’esistenza di meccanismi di coercizio-ne non basta. Negli ultimi dieci anni, le amministrazioni democratiche e repubblicane non hanno mai utilizzato

LAURA CARLSEN *

Una cosa è certa: il 1° ottobre 2018, la firma dell’accordo Stati uniti-Messico-Canada (Usmca), che ha concluso la rinegoziazione

dell’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta), è stata accompagnata da quattro sospiri di sollievo – quelli dei dirigenti coinvolti.

Donald Trump aveva bisogno di una vittoria pri-ma delle elezioni di medio termine a novembre. Du-rante la campagna presidenziale, aveva promesso di migliorare o di «demolire» il Nafta e sperava di raggiungere dei risultati prima dell’inasprimento della guerra commerciale contro la Cina. Il primo ministro canadese Justin Trudeau, tagliato fuori dall’ultima serie di incontri tra Messico e Washing-ton, sentiva l’urgenza di raggiungere il tavolo delle trattative prima che il processo si frammentasse in colloqui bilaterali e che Trump paventasse la mi-naccia dei dazi doganali nel settore automobilisti-co. Dal canto suo, il presidente messicano Enrique Peña Nieto, la cui popolarità ha toccato livelli tanto bassi da far passare François Hollande per un ido-lo, sognava di ostentare un successo, di qualsia-si tipo, prima di lasciare la carica. Contestato per essersi inchinato a Trump in un paese dove l’av-versione per i presidenti statunitensi è ormai sport nazionale, voleva dimostrare che la strategia del lustrascarpe può dimostrarsi efficace. Il successo-re Andrés Manuel López Obrador, auspicava la fir-ma di un accordo prima del proprio insediamento

in dicembre per non dover subire l’incertezza dei mercati.

Ma cosa dice il testo? Il cambio di nome va ben oltre il semplice ritocco di facciata. La nuova de-signazione cancella i termini «libero scambio» e «nordamericano», due baluardi dell’«ultra» destra del Partito repubblicano che ha fomentato la pro-pria base operaia sostenendo che il Nafta minava la sovranità nazionale e attentava ai posti di lavo-ro statunitensi. Il 1° ottobre, alla Casa bianca, an-nunciando la nascita dell’impronunciabile Usmca, Trump ha ripetuto: «Non si tratta di un Nafta bis, ma di un nuovo accordo!» Nella neolingua del pre-sidente – non particolarmente a disagio per l’insi-stente autocompiacimento –, l’Usmca è diventato «il più moderno ed equilibrato accordo commer-ciale della storia [degli Stati uniti]» (1). L’editoriali-sta di Fox News Christian Whiton, invece, si è ral-legrato di un testo che «rivoluziona il commercio internazionale» e annuncia l’avvento di un «nuovo ordine mondiale del commercio» (2).

Nella realtà, l’accordo mette insieme indubbi progressi e clausole dagli effetti potenzialmente devastanti, diffondendo il caos tra gli osservatori. L’Usmca riflette la crescente preoccupazione per la sovranità nazionale: riconosce esplicitamente il diritto delle parti di decidere le politiche da attua-re. Un simile provvedimento potrebbe offrire alle due parti minori, Canada e Messico, un margine di manovra più ampio. Un considerevole passo avanti è già stato fatto: la soppressione pressoché totale del capitolo 11 sulla risoluzione delle con-troversie tra investitori e Stati (si legga l’articolo sopra).

Una sconcertante

* Direttrice del Center for international policy (Cip).

Era una delle grandi promesse di Donald Trump: diventato presidente, avrebbe fatto a pezzi l’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta), sostituendolo con un nuovo trattato. Il testo rinegoziato, reso pubblico a fine settembre, comprende alcuni passi indietro preoccupanti, ma anche diversi progressi sociali. Un primo tradimento all’ordine commerciale internazionale

LORI M. WALLACH*

* Direttrice di Public Citizen’s Global Trade Watch, Washington, DC.

impegno

GUERNICA. ICONA DI PACE. Serena Baccaglini (a cura di)

Silvana Editoriale, 2018, 25,50 euro

Se la bianca colomba di Picasso è il simbolo universalmente noto della pace e di quel grande movimento pacifista di cui oggi la memoria sem-bra affievolita, Guernica – per molti il suo capo-lavoro – rappresenta una straordinaria denuncia dei drammi, dei dolori e dell’orrore che le guer-re hanno sempre causato e continuano ancora oggi a causare al genere umano. La contempo-ranea esposizione nella sala Zuccari del Senato del grande cartone di Guernica e di una mostra celebrativa dei settanta anni della Costituzione repubblicana ha un profondo e solenne significato etico e po-litico. L’articolo 11, col quale la Repubblica italiana, prima fra le Costituzioni europee, «…ripudia la guerra come stru-mento di offesa alla libertà de-gli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» pone il sugello a quella condanna della guerra che Guernica esprime in modo unico e irripetibi-le. L’elegante volume curato dalla professoressa Serena Baccaglini autrice, dopo anni di ricerche, della riscoperta del grande cartone che nasce dall’olio di Guernica (oggi parte della collezione permanente del museo Reina Sofia di Madrid) de-scrive con appassionata perizia i molteplici conte-nuti simbolici del capolavoro picassiano. Guerni-ca, ideato e realizzato in soli trentatré giorni, dopo il bombardamento che rase al suolo il paese basco da cui il celebre dipinto prende il nome, è dive-nuto da simbolo della resistenza agli orrori delle guerre nazifasciste manifesto di condanna di ogni

guerra, un’icona di pace e una guida per la tessitu-ra dell’arazzo esposto all’Onu. L’opera, come ri-corda Serena Baccaglini, è forse la più documen-tata della storia della pittura, perché la talentuosa fotografa Dora Maar, a quei tempi la compsgna di Picasso, ha documentato con oltre 3.000 scatti la nascita e l’intera realizzazione di una tela che, per le sue dimensioni, costrinse Picasso a indivi-duare un ampio locale dove potesse lavorarvi. Il grande cartone, opera autonoma rispetto al quadro esposto a Madrid, è il primo di una serie che ha costituito la base per l’allestimento di 26 arazzi commissionati dal magnate Nelson Rockefeller a Picasso e a Jacqueline Dürrbach, una straordinaria tessitrice che godette della fiducia incondizionata sia di Rockefeller che di Picasso. Il volume è im-preziosito da un corredo di immagini che si riferi-scono sia ad artisti impegnati come Picasso con-

tro I disastri della guerra (primo fra tutti Goya) sia ad altri capolavori del Maestro. Arricchito dalle firme di prestigiosi studiosi ed esperti d’arte, il volume collettaneo offre al lettore «sensibile al potere dell’arte» una forte sollecitazione all’impegno ci-vile contro I focolai di guerra che insanguinano tanti paesi. Una guer-ra divenuta “assoluta e totale” che – come ricorda Fabrizio Battistelli,

Presidente dell’Istituto di Ricerche Internazionali, nel saggio che chiude il volume – «incontra sem-pre meno limiti oggettivi nella potenza distruttiva degli armamenti a disposizione e nessun limite soggettivo nel rispetto delle consuetudini e del-le leggi che può violare impunemente», spesso nell’inerzia colpevole e talora nella connivenza dell’Onu. Dando ragione così ad Albert Einstein che, come ricorda Serena Baccaglini, ebbe ad affermare «il mondo è pericoloso non a causa di quelli che fanno del male, ma a causa di quelli che guardano e lasciano fare».

CARLO AMIRANTE

plusdiploteca

ALEXANDER CALDER , Tank Trap, 1975

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Le Monde diplomatique il manifesto NOVEMBRE 2018 5

del libero scambioUNA NUOVA VERSIONE DEL NAFTA

questi strumenti a loro disposizione, neanche per le violazioni più eclatan-ti delle norme del lavoro o ambientali. Attualmente, i sindacati riflettono a un modo per far rispettare questi ob-blighi alle autorità. Contro ogni attesa, hanno come alleato il rappresentante per il commercio statunitense, Robert Lighthizer, un repubblicano conserva-tore noto per aver criticato aspramente il Nafta.

A differenza dei sindacati che han-no cercato di influenzare le trattative, i militanti ecologisti sono rimasti ai margini. Visto l’atteggiamento provo-catorio con cui Trump dimostrava il proprio disinteresse sull’argomento, sapevano che i loro tentativi sarebbero stati destinati al fallimento. Un presi-dente climatoscettico non avrebbe cer-to accolto richieste che lo stesso Oba-ma aveva respinto durante le trattative del Tpp: rendere vincolante l’accordo di Parigi, tassare i prodotti importati proporzionalmente alle loro emissioni di gas serra... E non hanno avuto torto.

Il nuovo trattato non contiene alcun riferimento al cambiamento climatico, una notevole omissione in una fase in cui l’argomento trova ampio spazio nel dibattito pubblico. L’Usmca, sul modello del Tpp, e contrariamente a quanto ottenuto dai rappresentanti de-mocratici negli ultimi quattro accordi firmati da George W. Bush, non im-pone agli Stati coinvolti l’adozione, la tutela o l’applicazione di leggi nazio-nali conformi ai sette principali accor-di multilaterali sull’ambiente. L’unica norma citata è la convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (Cites), ma le nuove clausole impongono pochi vin-coli reali.

I rari progressi in ambito ecologico più che la volontà di proteggere il pia-neta dimostrano quella di ripristinare una forma di sovranità. Così, sono state cancellate le misure contenute nel Nafta sull’obbligo degli Stati di esportare le proprie risorse naturali, sebbene questi implorassero di tenerle per sé. Lo stesso è accaduto per l’ob-bligo di garantire il libero accesso alla rete stradale del nord America a tutti i camion messicani, statunitensi e ca-nadesi, a dispetto degli aspetti legati alla sicurezza e all’ambiente. Nel corso degli anni 2000, gli Stati uniti avevano tentato di limitare l’accesso al proprio territorio dei camion immatricolati in

Messico. Così, un tribunale del Nafta aveva autorizzato il Messico ad adot-tare delle ritorsioni, sotto forma di dazi doganali applicati a 2,4 miliardi di dollari di esportazioni statunitensi (8). Il trattato rinegoziato ripristina il diritto dei paesi a scegliere le norme che regolano l’accesso alle proprie strade.

Vince l'industria agroalimentare

Ma è senz’altro nel mondo del lavo-ro che il nuovo testo si mostra più innovatore. Una clausola subordina l’accesso ai vantaggi del trattato com-merciale alle esigenze sulla remunera-zione dei lavoratori: affinché i veicoli siano ammissibili nel mercato auto-mobilistico nordamericano, il 40-45% del loro valore dovrà essere prodotto da operai pagati almeno 16 dollari (14 euro) all’ora. Più in generale, il 75% del valore dei veicoli dovrà essere pro-dotto in nord America – il Nafta fis-sava questa quota al 62,5% e il Tpp al 45%. In mancanza di dati, non sappia-mo se e in quale misura questi criteri comporteranno un aumento dei salari o il trasferimento della produzione, né se saranno coinvolte le filiere. Comun-que vada, il Comitato consultivo sul lavoro ha ritenuto che queste misure fossero positive per il progresso del-la produzione e dell’occupazione. Ma bisogna soprattutto evidenziare che, per la prima volta, come chiedono i

sindacati da molto tempo, i salari sono indirettamente toccati dalle «regole di origine» che le merci devono rispetta-re per essere esonerate dal pagamento dei dazi doganali.

Se si escludono questi e alcuni altri progressi, il nuovo trattato riprende molte delle misure contenute nel Naf-ta. Conferma diverse regole inique in vigore nell’Omc, inasprendole in alcu-ni casi, soprattutto in merito alla tutela dei consumatori. La potentissima in-dustria agroalimentare è riuscita a far passare le proprie esigenze principali, tranne una, fallita grazie a un’energica controffensiva delle associazioni: proi-bire agli Stati di avvisare i cittadini sull’elevato contenuto di zucchero in alcuni prodotti. Potremmo anche cita-re i diritti di monopolio riconosciuti ai laboratori farmaceutici (si legga l’ar-ticolo sotto), o ancora le nuove regole sul «commercio digitale» che proibi-scono agli Stati di esigere un’archivia-zione locale dei dati, solo un esempio tra i molti altri problemi. Queste rego-le potrebbero vanificare gli sforzi dei poteri pubblici per proteggere la priva-cy e la sicurezza dei cittadini. Inoltre, le misure sul copyright impongono al Canada un’estensione di vent’anni del-la durata prevista.

L’Usmca, combinazione di misure audaci e di difesa dello status quo, sarà discussa dal Congresso statuni-tense nel 2019, e la sua attuale ver-sione potrebbe essere modificata.

Un’eventuale vittoria dei democratici al Senato o alla Camera dei rappre-sentanti alle elezioni di metà mandato del 6 novembre offrirebbe loro l’occa-sione di porre delle condizioni prima di accordare il sostegno al testo. Così, potrebbero tentare di colmare le lacu-ne più eclatanti. In ogni caso, dovreb-bero prendere atto del miglioramento di alcune norme sociali, dell’introdu-zione di clausole salariali, della neu-tralizzazione dei tribunali arbitrali: questi progressi potranno servire come base per battaglie future e non solo nel nord America.

In quest’ottica, opporsi automa-ticamente ai progressi della rinego-ziazione dell’accordo per il solo fatto che sono avvenuti sotto la presidenza Trump, sarebbe un errore politico. Rafforzerebbe le posizioni dei sosteni-tori dello status quo neoliberista, che mettono nello stesso calderone la re-voca isolazionista dell’accordo di Pa-rigi sul clima e l’opposizione al libero scambio. Verrebbe inoltre avvalorata l’idea che la difesa del Nafta sia l’u-nica alternativa al nazionalismo eco-nomico di Trump, compromettendo così venticinque anni di lavoro svolto dai militanti progressisti e sindacali. Il modello commerciale elaborato all’i-nizio degli anni 1990 non è mai stato così vulnerabile. Tanto vale dargli il colpo di grazia.

LORI M. WALLACH

(1) «United States-Mexico-Canada Agreement text», Ufficio del rappresentante per il commer-cio statunitense, Washington, DC, 30 settembre 2018, www.ustr.gov(2) Si legga «Miraggi del libero scambio», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 2015.(3) Si legga Serge Halimi, «Triomphe ruineux pour l’administration démocrate», Le Monde diplomatique, dicembre 1993.(4) Si legga Benoît Bréville e Martine Bulard, «Tribunali per rapinare gli Stati», Le Monde di-plomatique/il manifesto, giugno 2014.(5) «What does Nafta 2.0 mean for Investor-State dispute settlement?», Public Citizen’s Global Trade Watch, Washington, DC, ottobre 2018.(6) «Half a Nafta», The Wall Street Journal, New York, 27 agosto 2018.(7) «Report on the impacts of the renegotiated North American free trade agreement», Ame-rican Federation of Labor - Congress of Indu-strial Organizations (Aflcio), Washington, DC, 27 settembre 2018.(8) «Mexico slaps tariffs on US goods in tru-cking spat; Obama vows swift response», Brid-ges, vol. 13, n. 11, Ginevra, marzo 2009.

(Traduzione di Alice Campetti)

I principali progressi riguardano la normativa sul lavoro. Quest’ultima era trattata in un addendum al Nafta, aggiunto all’ultimo minuto nel 1993 per compiacere il reticente Congresso statunitense. Questa nuova clausola impone alle parti di aderire alle norme stabilite dall’Organizzazione internazio-nale del lavoro (Ilo). Comprende anche un annesso che elenca dettagliatamente le misure per blocca-re i sindacati messicani detti di «protezione», legati ai datori di lavoro, e per instaurare dei processi di contrattazione collettiva a sud del Rio Bravo.

Il testo stabilisce che una quota dal 40% al 45% del valore dei veicoli inseriti nell’accordo dovrà es-sere prodotta da lavoratori pagati almeno 16 dolla-ri (14 euro) l’ora, ossia circa quattro volte più dello stipendio di un dipendente del settore automobili-stico messicano. È difficile nel prossimo futuro che le aziende con sede nel paese – prevalentemente statunitensi – quadruplichino gli stipendi o si tra-sferiscano da un giorno all’altro negli Stati uniti, ma l’idea di livellare questo divario salariale tra i due paesi segna un progresso degno di nota. Questo provvedimento porterà a un aumento degli stipen-di in Messico e a frenare il dumping salariale? Mol-to dipenderà da López Obrador, le cui promesse elettorali coincidono in parte con le misure conte-nute nell’accordo.

Già da ora, tra i perdenti possiamo annoverare i piccoli agricoltori dei tre paesi. I grandi produttori caseari statunitensi registrano una vittoria relativa ottenendo un migliore accesso al mercato cana-dese. Il Canada, infatti, ha un sistema di gestione dell’offerta casearia che punta a mantenere prez-zi equi per i produttori e che limita l’importazione.

L’accordo lascia intatto questo sistema, ma facilita l’aumento delle importazioni. L’industria casearia canadese ha parlato di una «morte per lacerazione (3)». Il testo, inoltre, apre la strada al mercato mes-sicano per i giganti del Midwest (come Cargill o Ar-cher Daniels Midland), senza tuttavia stimolare le aziende agricole statunitensi a conduzione familia-re. L’Istituto per la politica agricola e commerciale ha ricordato che i coltivatori «da decenni chiedono a gran voce un altro tipo di accordo commerciale. Vogliamo delle regole che difendano i sistemi soli-di, sostenibili ed equi, e le economie rurali. Questa nuova versione non permetterà di raggiungere gli obiettivi prefissati» (4).

La stessa preoccupazione attanaglia i piccoli contadini messicani, grandi sconfitti del Nafta, a causa del quale il loro paese era stato invaso dai prodotti statunitensi. La coalizione Plan de Aya-la, che si batte in difesa dell’agricoltura familiare, lamenta la mancanza di regole sulla circolazione delle merci strategiche e sulla proprietà intellettua-le delle pratiche tradizionali, e la promozione degli organismi geneticamente modificati (Ogm). Ernesto Ladron, portavoce della coalizione ci spiega: «Il te-sto è incentrato soprattutto sulla difesa dei grandi produttori statunitensi. Il nostro obiettivo è l’auto-sufficienza alimentare, ma questo accordo ci mette su una strada che va nella direzione opposta».

Un altro tema su cui si registra un notevole pas-so indietro è quello del diritto di accedere a farmaci dal prezzo contenuto. Gli Stati uniti hanno ottenuto l’estensione a dieci anni dei brevetti sulle moleco-le biologiche, oltre alla possibilità di modificare e rinnovare brevetti in scadenza. Gli azionisti delle

società farmaceutiche statunitensi possono già prepararsi per ricevere nuovi gruzzoli.

Non sorprende che l’Usmca tralasci gran parte de-gli aspetti che i progressisti avrebbero voluto modifi-care. Perché l’integrazione della regione funzioni, bi-sogna porre l’attenzione sul cambiamento climatico, sulle disuguaglianze, sull’estrattivismo, sui paradisi fiscali, sulla speculazione finanziaria... I termini «cam-biamento climatico» e «immigrazione» non compa-iono neanche nel nuovo testo, mentre gli sforzi per agevolare la mobilità del capitale, limitando quella delle persone, spingono le persone a spostamenti che la criminalizzazione non riuscirà a contenere.

L’accordo a cui si è giunti, infine, non elimina neanche i dazi doganali statunitensi sull’acciaio e sull’alluminio canadesi e messicani. Questo sug-gerisce che l’integrazione per come la concepisce Washington rispecchia più una preoccupazione per i propri scambi, che per il «libero» scambio. Le vittorie di Pirro di Città del Messico e di Ottawa non modificano i rapporti di forza tra partner...

LAURA CARLSEN

(1) Donald Trump, conferenza stampa alla Casa bianca, Wa-shington, DC, 1° ottobre 2018.

(2) «Trump has just revolutionized global trade by replacing Nafta with USMCA», Fox News, 2 ottobre 2018, www.foxnews.com

(3) Janyce McGregor, «Dairy industry fears “death by 1,000 cuts” through new trade deal», CBC News, 2 ottobre 2018, www.cbc.ca

(4) «“New Nafta” falls flat for farmers, food advocates», Institute for Agriculture and Trade Policy, Minneapolis, 1° ottobre 2018.

(Traduzione di Alice Campetti)

rinegoziazione

Inversione di ruoli

«È un grande passo avanti, e sono contento che i tre paesi abbiano lavorato insieme per raggiungere un accordo. La mia priorità è bloccare la delocalizza-zione dei posti di lavoro dell’Ohio e analizzerò il nuovo accordo det-tagliatamente proprio in quest’ot-tica. Abbiamo ancora del lavoro da fare, prima della ratifica [da parte del Congresso] e continuerò a collaborare con il governo per definire l’ambito di applicazione del nuovo Nafta.»

Sherrod Brown, senatore democratico dell’Ohio,

1° ottobre 2018

«Per decenni, il Nafta ha con-tribuito a ridurre i salari dei la-voratori e a spostare all’estero le mansioni con retribuzioni miglio-ri. L’accordo finale deve eliminare gli incentivi alla delocalizzazione, aumentare le retribuzioni dei la-voratori statunitensi e includere delle norme ambientali e sociali forti, con l’applicazione di misure coercitive (...). Ho apprezzato gli sforzi effettuati nel corso dei ne-goziati da parte del rappresentan-te per il commercio statunitense Robert Lighthizer per contrastare alcuni di questi problemi. (...) Nelle prossime settimane, il Congresso dovrà pronunciarsi e decidere se quest’accordo è in grado di mi-gliorare la vita dei lavoratori in nord America. Se questo criterio non sarà soddisfatto, l’accordo dovrà essere respinto.»

Rosa DeLauro, rappresentante democratica del

Connecticut, 31 agosto 2018.

«Tra gli aspetti negativi, ri-scontriamo un fortissimo aumen-to delle misure protezioniste. Una clausola impone che il 75% del valore delle automobili sia pro-dotto in nord America, in caso contrario non potranno usufruire dell’esenzione dei dazi doganali. I prezzi della componentistica delle automobili sono già aumen-tati a seguito della guerra com-merciale che il presidente Trump ha intrapreso contro la Cina. Si alzeranno ulteriormente se gli industriali saranno obbligati a utilizzare parti fabbricate in loco, importabili a basso costo. Inoltre, una clausola prevede che una quota significativa di macchi-ne sia prodotta da operai pagati 16 dollari l’ora. Gli Stati uniti dovrebbero imporre un salario minimo per tutto il nord Ameri-ca nel settore automobilistico. L’amministrazione Trump supera addirittura le rivendicazioni del-la sinistra più audace.»

FreedomWorks, lobby conservatrice e libertariana,

9 ottobre 2018

«Contrariamente alle affer-mazioni del presidente Trump, con il nuovo trattato si fanno gravi passi indietro, a causa delle restrizioni imposte che pregiudicheranno il commercio e gli investimenti, con il rischio di soffocare la crescita. Nel set-tore automobilistico, l’accordo apporta delle innovazioni ma in maniera perversa: è il primo ac-cordo di libero scambio negozia-to dagli Stati uniti che inasprisce le barriere al commercio e agli investimenti invece di ridurle. Appesantisce le imprese con nuove normative da rispettare per ottenere l’esenzione dai dazi doganali – che produrranno si-curamente un aumento dei prez-zi delle automobili e una riduzio-ne dei posti di lavoro in questo settore nel nord America.»

Peterson Institute for Inter-national Economics, think tank

neoliberista di Washington, 2 ottobre 2018.

ALEXANDER CALDER, Molluscs, 1955

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Venezuela, come

NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto6

LA STRATEGIA DEL GOVERNO MADURO

Il periodo in cui Hugo Chávez ha sovrinteso alle sorti del Venezue-la (1999-2013) è stato segnato da

incontestabili successi, specialmente nell’ambito della riduzione della po-vertà. Il chavismo si è avvalso di risul-tati più che dignitosi nei settori meno scontati, come la crescita economica: il prodotto interno lordo (Pil), per esempio, si è quintuplicato tra il 1999 e 2014 (1). Senza dubbio, questo spiega i suoi molti successi elettorali e la dura-ta della sua egemonia politica. Questo contesto ha permesso di rifondare del-le istituzioni sclerotizzate attraverso un processo costituente aperto e par-tecipativo, ricorrendo al contempo e in maniera sistematica al voto popolare – tanto che l’ex presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha affermato che in Venezuela «ci sono sempre del-le elezioni, e quando non ce ne sono, Chávez se le inventa». In ambito re-gionale, la rivoluzione bolivariana ha contribuito a rendere possibile l’«onda rossa» che ha invaso la regione nel pri-mo decennio del secolo (2), portando al potere le forze progressiste median-te elezioni, spesso per la prima volta nella storia di paesi che sembravano determinati a porre fine alla condizio-ne di «cortile di casa» degli Stati uniti.

Tuttavia, la morte di Chávez (a 58 anni, nel marzo 2013) e la transizione politica che ha portato al potere il suo successore designato Nicolás Maduro, con le elezioni presidenziali anticipate del 14 aprile 2013, hanno inaugurato un nuovo periodo. E hanno cambiato le carte in tavola.

Dal 2014, il Venezuela ha attraver-sato la crisi economica più grave della propria storia, che non solo ha provo-cato una situazione di emergenza so-ciale, ma ha anche contribuito ad ag-gravare la polarizzazione politica che da due decenni caratterizza il paese. È

stato raggiunto il punto di rottura tra il governo e l’opposizione, tanto da com-promettere, nel 1999, il funzionamen-to delle istituzioni.

Il controllo dei tassi di cambio

Il carattere eccezionale di questa crisi dipende sia dalla sua durata sia dalla sua entità. Nel 2018, il Venezuela do-vrebbe chiudere il quinto anno con-secutivo di recessione economica con una contrazione del Pil che potrebbe raggiungere il 18%, dopo un calo tra l’11% e il 14% nel 2017. Lo Stato vene-zuelano non pubblica più dati macro-economici dal 2015 e alcuni suggeri-scono che le istituzioni internazionali, come il Fondo monetario internazio-nale (Fmi) o le grandi istituzioni fi-nanziarie private, stiano complicando la situazione a causa di pregiudizi ide-ologici. Alcune cifre fornite dal go-verno confermano tuttavia il calo del Pil del 16,5% nel 2016 (3). Tra il 2014 e il 2017, la contrazione accumulata dall’economia si attesterebbe almeno al 30% (4), un crollo paragonabile a quello degli Stati uniti dopo la crisi del 1929 che ha dato origine alla Grande depressione.

Le cause iniziali del rallentamento economico, rilevato a partire dal 2014, sono evidenti. Nel giugno di quell’an-no, i prezzi internazionali del petro-lio, che rappresenta il 95% del valore delle esportazioni venezuelane, hanno raggiunto l’apice prima di sprofon-dare, passando da 100 a 50 dollari in sei mesi, fino ai 30 dollari del genna-io 2016. Ma, diversamente da quanto suggerito dalla saggezza popolare, le stesse cause non producono automati-camente gli stessi effetti: tutto dipen-de dalle strategie messe in atto. In un contesto di shock esogeno, estrema-mente violento, quelle scelte dalle au-torità venezuelane destano non poche perplessità. Tanto più che l’economia dava già segni di fragilità ben prima del crollo dei prezzi del greggio.

Nonostante il livello d’inflazione strutturalmente elevato (5) (che in tempi «normali» si attesta su due ci-

fre), il governo del presidente Maduro ha deciso di mantenere una politica di controllo dei tassi di cambio che im-poneva una parità fissa della moneta nazionale, il bolivar, sul dollaro statu-nitense. Niente di meglio per alimen-tare la bramosia di alcuni, che hanno capito molto presto come il meccani-smo avrebbe permesso loro di acqui-stare un attivo sicuro (la moneta statu-nitense) a un prezzo molto inferiore al suo valore reale. La politica dei tassi di cambio del governo, favorendo la fuga dei capitali, ha trasformato il paese in un’immensa centrifuga per dollari (7).

Fino al 2014, le entrate generate dal petrolio sono sempre state elevate. Ma il valore delle importazioni (spesso strapagate) continuava ad aumentare, perché alimentava la strategia di accu-mulazione comune a tutte le borghe-sie dei paesi petroliferi, che consiste nel trasformare le riserve petrolifere in dollari, nell’utilizzare questi dol-lari per dopare la moneta nazionale e quindi il potere d’acquisto della popo-lazione, nell’aumentare le vendite del settore delle importazioni, pilotato dall’élite. Così, il prezzo del petrolio ha iniziato a vacillare...

Lo Stato ha deciso di finanziare il deficit pubblico (la differenza tra il va-lore delle sue entrate e delle sue usci-te), ricorrendo alla famosa macchina stampa soldi, e di ridurre le importa-zioni limitando la vendita dei dollari sul mercato ufficiale... doppia deci-sione ha segnato l’inizio delle diffi-coltà a reperire le merci (8) e scatenato tendenze inflazioniste, presto fuori controllo: data la crescente massa mo-netaria (il numero di biglietti in circo-lazione) disponibile per una quantità di beni e servizi in calo, l’impennata dei prezzi era inevitabile.

Al mercato nero è esplosa la quota-zione del biglietto verde, prezioso sia per gli importatori sia come valuta rifugio. Presto, nelle strade, il valore del dollaro «parallelo» è diventato un riferimento per determinare il prezzo di beni e servizi. Mentre l’aumento dei prezzi intaccava rapidamente i salari e i conti pubblici, lo Stato ha tentato di sostenere il potere d’acquisto met-tendo in circolazione sempre più ban-conote. Tra il 2014 e il 2017, la massa monetaria è aumentata dell’8.500%.

C’erano tutti gli ingredienti per far entrare in iperinflazione l’economia. Non sorprende che l’indice dei prez-zi al dettaglio (una comune misura dell’inflazione) sia passato da 300% nel 2016 a 2.000% nel 2017. Per il 2018, le stime variano da 4.000% a 1.300.000%. In quest’ultimo caso li-mite, un prodotto acquistato il 1° gen-naio 2018 al valore di 1.000 bolivar, il 31 dicembre ne costerebbe 13.000.000.

Sopraggiunge un’ulteriore compli-cazione: il 2016 e il 2017 sono state due importanti scadenze per il rimborso del debito. Nonostante la caduta libera delle entrate provenienti dal petrolio, e sulla scia della dottrina di Chávez, il governo Maduro ha rispettato scrupo-losamente i propri impegni. Almeno fino al dicembre 2017. Durante un di-scorso televisivo, il presidente ha allo-ra annunciato che tra il 2014 e il 2017 il paese aveva rimborsato la colossale ci-fra di 71,7 miliardi di dollari di debito.

Ancora una volta, la strategia del potere per rispondere alle difficoltà suscita diverse domande perché il rim-borso dei crediti ha imposto di «mo-netizzare» degli attivi della nazione, ossia di utilizzarli come garanzia, o di venderli, per raccogliere le somme di cui lo Stato aveva bisogno. Nel corso di questa fase, il Venezuela ha usato sia l’oro monetario delle riserve inter-nazionali, sia i propri diritti speciali di prelievo (Dsp) al Fmi (9). Quando non ha direttamente contratto debiti con le compagnie petrolifere dei paesi al-leati, come il russo Rosneft, offrendo come garanzia il 49,9% delle azioni di uno dei suoi patrimoni più preziosi, la compagnia di raffinazione Citgo, che ha sede e opera negli Stati uniti.

Nel settembre 2016, la compagnia petrolifera nazionale Petroléos de Venezuela Sa (Psvsa) ha proposto ai propri creditori uno scambio di obbli-gazioni che, per estendere di (appena) tre anni la scadenza di una serie di ti-toli (dal 2017 a 2020), offriva come ga-ranzia il rimanente 50,1% del capitale di Citgo, mettendo così in pericolo il controllo di questa società da parte di Pdvsa in caso di mancato pagamento. Questa operazione di parziale rifinan-ziamento, l’unica sotto la presidenza Maduro, ha attirato prevalentemente fondi speculativi allettati dall’ipotesi

di un’insolvenza che avrebbe permes-so di mettere le mani sulla raffineria statunitense.

Denuncia delle manovre dell’«impero»

Tuttavia, viene da chiedersi perché lo Stato si sia sentito in dovere di pagare il proprio debito entro i tempi limite e fino all’ultimo centesimo, se dal 2014 le entrate stavano collassando. Non dovendo neanche dichiarare la propria insolvenza, perché non ha cercato di procedere a una rinegoziazione gene-rale con i propri creditori? Man mano che la situazione peggiorava, l’acces-so ai mercati di capitali diventava più ristretto e costoso, ma rimaneva pos-sibile l’apertura di trattative, per esem-pio collaborando con la Cina, partner finanziario chiave del Venezuela, che ha continuato ad approvvigionarlo di denaro fresco (purtroppo in quantità insufficiente) fino a oggi.

Stranamente, solo dopo che l’am-ministrazione statunitense ha impo-sto delle sanzioni finanziarie contro il governo venezuelano e Pdvsa, nell’a-gosto 2017, Maduro ha annunciato la propria volontà di rinegoziare i termini del debito, contratto preva-lentemente con grandi fondi pensio-nistici statunitensi. Ora, le sanzioni di Washington miravano a impedire alle società statunitensi di partecipare al finanziamento di Caracas. In altri termini, il Venezuela ha aspettato che l’opzione scomparisse, prima di pren-derla in esame. Nel dicembre 2017, di-chiarava un default selettivo, cessando di pagare o pagando con molto ritardo alcuni interessi del proprio debito.

Paradossalmente, questa situazio-ne sarebbe di secondaria importanza se la produzione petrolifera non fosse crollata, passando da quasi tre milio-ni di barili al giorno nel 2014, a meno di un milione e mezzo nel 2018. Come nel caso dell’inflazione, la contrazione della produzione petrolifera ha posto il paese al centro di una spirale inferna-le: la produzione crolla per una grave mancanza di capitali necessari agli in-vestimenti, ma questo crollo riduce le entrate del paese, gravando sulle pro-spettive della produzione petrolifera...

Il governo, con le spalle al muro, denuncia una «guerra economica» fo-mentata dal capitale privato, nazionale e internazionale – che in tutta eviden-za non nutre alcuna simpatia né ammi-razione per Caracas. L’individuazione di un colpevole può dare un senso po-litico alle difficoltà, ma aiuta in qual-che molo a risolverle?

Durante il primo mandato, Maduro, impegnato a denunciare le manovre dell’«impero» e dei «controrivoluzio-nari», si è rifiutato di adottare una stra-tegia propriamente macroeconomica in risposta alle sfide che il paese affronta-va. Mentre l’aggravarsi della crisi offri-va alla destra, nel dicembre 2015, una maggioranza di due terzi all’Assemblea nazionale, all’inizio del 2016 veniva no-minato a capo della squadra economica del governo il giovane professore di so-ciologia Luis Salas, il quale è diventato famoso per aver sostenuto che «l’infla-zione non è una realtà».

Supponendo quindi che l’inflazione derivi da uno sforzo volto a creare pe-nuria, ritirando dei prodotti dal merca-to e/o gonfiandone i prezzi – ossia, un progetto di sabotaggio economico –, il governo ha concentrato tutti i propri sforzi sul controllo dei prezzi. Con una legge sui «prezzi giusti» ha addirittura limitato al 30% i margini di guadagno autorizzati per ogni attore delle catene di produzione e di distribuzione. Una simile azione non prende in considera-zione il fatto che l’inflazione è frutto di meccanismi macro-sociali estrema-mente difficili, se non impossibili da arginare facendo leve sugli individui – almeno, finché non verranno corret-te le basi macroeconomiche che pro-ducono l’aumento dei prezzi. Perché dunque regolare quello di un prodotto molto richiesto, di un farmaco impor-

* Diplomato all’École nationale d’administra-tion (Ena, promotion Senghor). Ex consigliere del presidente Hugo Chávez in materia di politi-ca estera (2002-2004), ex direttore di gabinetto del presidente Nicolás Maduro (2007-2013) ed ex viceministro degli esteri (tra le altre respon-sabilità all’interno dei governi venezuelani tra il 2002 e il 2013). Professore invitato a Sciences Po Paris.

Il Venezuela, faro della notte neoliberista degli anni 2000, sta attraversando una grave crisi. Oltre due milioni di persone, su una popolazione totale di trentuno milioni, avrebbero lasciato il paese. La crisi, dapprima interna, ha assunto dimensione internazionale a seguito dell’attivazione delle sanzioni statunitensi. Queste ultime impediscono di individuare soluzioni adeguate alle difficoltà del paese

TEMIR PORRAS PONCELEÓN*

militanti

LA FEDE E LA RAGIONE Orazio Barbieri Antonio Fanelli (a cura di)

Olschki, 2018, 22 euro

Messe insieme, fede e ragione, preci-sando che si tratta di “Ricordi e rifles-sioni di un comunista”: sono motivi forti per attrarre il lettore. Motivi politici fuo-ri del tempo? Nient’affatto, perché il li-bro contiene pensieri dei quali il bisogno si sente ancora.

Vengono dall’autobiografia di un pro-tagonista politico fuori del comune. Tale egli era, e lo è ancor più oggi. Come se non bastasse, la copertina del libro reca una bella fotografia di Pal-miro Togliatti in compagnia dell’autore, scattata allo sto-rico comizio di Firenze, al giardino di Boboli, nel 1945: la città era stata liberata il 18 agosto dell’anno prima e viveva ancora il clima della lotta partigiana.

La vita descritta è quella di un militante: l’inizio col Partito comunista d’Italia, gli anni della dittatura, il carce-

re nel 1929, la condanna del Tribunale speciale l’anno dopo, l’armistizio, la lotta clandestina, i gap (gruppi di azio-ne patriottica), gli scontri armati, gli scioperi del 1944, la ripresa dell’attività politica regolare nel Pci dopo la libera-zione. Tutti momenti dei quali l’autore è stato un protagonista. La ricostruzione nazionale sarà vissuta come una ripresa della normalità e come un’occasione di grande attivismo politico. Vengono quindi le pagine dedicate ai congressi del Partito comunista italiano, dei quali Barbieri è un protagonista, l’esperienza parlamentare per tre legislature, la scuo-la di partito alle Frattocchie (Istituto di studi comunisti). Un intero capitolo è dedicato al “grande amore” per l’Unione Sovietica, che infiamma l’autore e tanti

militanti comunisti del tem-po. Un momento importante della vita politica dell’autore fu l’esperienza decennale di sindaco a Scandicci (Firen-ze), e quella di deputato per tre legislature. Postfazione di Giuseppe Vacca. Arricchi-scono il volume 29 fotografie molto significative del tem-po, fuori testo.

NICO PERRONE

plusdiploteca

VENEZUELA. Murale

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uscire dall’impasseVISTA DA UN EX CONSIGLIERE DI HUGO CHÁVEZ

tato, per esempio, se l’esponenziale aumento della massa monetaria farà si che vi siano compratori al mercato nero e a un prezzo molto superiore?

Quando si scatena il processo infla-zionistico, la paura scaturita mette in movimento una dinamica indiavolata per cui ognuno, volendosi proteggere contro l’aumento preventivo dei prez-zi, aggiusta il proprio e, così facendo, contribuisce in definitiva a gonfiare i cartellini. Una logica devastante: i prezzi non vengono più fissati sul costo di produzione, ma a partire da quello che si suppone di dover sborsa-re per produrlo nuovamente in futuro, o dai margini necessari a preserva-re il potere d’acquisto in un generale contesto di iperinflazione. I grandi commercianti e industriali venezue-lani, nel tentativo di preservare i pro-pri margini di guadagno a scapito dei consumatori, contribuiscono all’am-plificazione di un’ondata speculativa. Tuttavia saremmo fuori strada se attri-buissimo solo a loro la responsabilità della situazione, che sarebbe material-mente impossibile senza un’irraziona-le espansione della massa monetaria.

Il presidente Maduro si era mostrato scettico sull’opportunità di stabilire un cambio di rotta in materia economica. Nel discorso pubblico davanti a dei produttori agricoli, ha denunciato«gli economisti che vogliono darci delle le-zioni ma che non hanno mai piantato un pomodoro in vita loro», per poi pre-cisare che la rivoluzione bolivariana «non segue i dogmi né le prescrizioni dei macro-economisti convinti di sa-pere tutto» (12 settembre 2017).

All’attacco di un simbolo

È un segno di salute quando i respon-sabili politici esprimono la propria indipendenza intellettuale da un certo economicismo che molto spesso esige un monopolio tecnocratico sulla con-duzione della politica. Per altro, deci-dere gli orientamenti macroeconomici di un paese facendosi beffe di ogni sti-ma tecnica è spesso la strada più rapi-da verso la catastrofe.

Combattere l’ossessione del pa-reggio di bilancio? Una giusta causa che, tuttavia, non comprende quei di-savanzi superiori al 20% del Pil per quattro anni consecutivi, soprattutto se l’obiettivo è che questi siano privi di impatto – anzi, al contrario – sul rilan-cio dell’attività, sul potere d’acquisto o sulla ripartizione tra capitale e lavoro dei frutti auspicati da questa politica. Aumentare gli stipendi per proteggere la classe operaia dall’impatto negati-vo dell’inflazione sul potere d’acqui-sto? Una soluzione encomiabile, ma solo se è stata messa al tappeto l’idra inflazionista che divora ogni incre-mento nominale dei salari. Certo, per altri aspetti, l’audacia dimostrata dal governo bolivariano per svincolarsi dalle formalità con cui vengono desi-gnati gli alti funzionari provocherebbe l’invidia di molti militanti di sinistra; ma può essere interpretata anche come una forma di disinvoltura se porta alla sostituzione per due volte in meno di due anni del presidente della Banca centrale, laddove l’unica continuità tra i destinatari dell’incarico è la totale inesperienza.

Si è dovuto aspettare la rielezione di Maduro, il 20 maggio 2018, perché un piano di riforme economiche ve-nisse annunciato, e ulteriori tre mesi, il 17 agosto scorso, perché ne venisse rivelato il contenuto. Con una svolta di 180°, il presidente ha riconosciuto l’esistenza di radici macroeconomiche nel fenomeno dell’inflazione, prima di annunciare l’imposizione da parte dello Stato di una disciplina di ferro, dandosi come obiettivo un disavanzo di bilancio pari a zero. Altro radicale cambio di rotta: la moneta nazionale è stata svalutata, e il suo iniziale va-lore in dollari è stato fissato al tasso del mercato nero, un tempo definito «dollaro criminale». Il valore del nuo-vo «bolivar sovrano», che sostituisce

la vecchia moneta eliminando cinque zeri, progredirà a parità fissa con una criptomoneta chiamata «petro», il cui prezzo dovrebbe seguire quello del ba-rile (si legga la scheda).

A garanzia del nuovo orientamento di apertura economica, il governo ha abrogato la legge relativa alle «tran-sazioni valutarie illecite». Nella stessa occasione, è stata annunciata la libera convertibilità del «bolivar sovrano», sebbene nella pratica sia irrealizzabile per lo stato di grave anemia delle riser-ve internazionali di moneta. I privati e le aziende possono ormai scambiarsi valuta fuori dai mercati regolamenta-ri, ma devono rispettare il tasso fissato dalla Banca centrale, riaprendo le por-te a un mercato nero in cui il dollaro si scambia a tassi superiori.

Il salario minimo reale, crollato da 300 a quasi 1 dollaro al mese in quattro anni, è stato pompato del 3.000% per raggiungere circa 30 dollari al mese. Del resto, il governo ha annunciato che sarà indicizzato sul prezzo del pe-tro, nella speranza di tutelare il suo po-tere d’acquisto. Ma, senza che queste modalità pratiche dell’indicizzazione fossero ancora esplicitate, aveva già perso il 50% del proprio valore dopo appena due mesi dall’aumento. Il go-verno, prevedendo un forte impatto sui prezzi, si è impegnato a farsi cari-co dell’aumento dei salari nel settore privato per tre mesi. Strano provve-dimento: ha solo rimandato l’impatto del suo costo sui prezzi al consumo e, pertanto, sull’inflazione. Per aiutare i lavoratori a sbarcare il lunario, tra la data degli annunci e il primo giorno di paga, è stato riconosciuto un bonus pari a 10 dollari a tutti i possessori del-la «carta della patria», un documento di identità legato a un database con-trollato dalla presidenza, necessario per beneficiare dei programmi sociali di punta del governo, come i panieri alimentari a basso prezzo.

Sul versante delle entrate, il governo

ha elevato l’imposta sul valore aggiun-to (Iva) di quattro punti percentuali e adottato diverse misure tecniche per riscuotere più agevolmente l’imposta sulle società. Ma, senza una ripresa della crescita, difficilmente queste so-luzioni saranno sufficienti. È eviden-te, del resto, che questo programma fortemente espansivo è in totale con-traddizione con l’obiettivo dichiarato di «disavanzo zero». In realtà, a metà settembre 2018, meno di un mese dopo gli annunci di Maduro, la base mone-taria aumentava ancora al ritmo del 28% alla settimana.

Al di là del dibattito sulla coerenza e sull’efficacia delle misure annunciate, resta da capire se un programma eco-nomico, qualunque esso sia, possa da solo rimettere in sesto il Venezuela. In realtà, un paese che in cinque anni ha perso oltre la metà della produzione petrolifera e più di un terzo del Pil, è in grado di invertire la tendenza quando le sanzioni statunitensi gli impedisco-no di usufruire del finanziamento in-ternazionale? Ha senso cercare di ras-sicurare gli investitori proclamando la propria adesione al dogma del pareg-gio di bilancio, quando la sospensione del Parlamento getta forti dubbi sulla stessa legalità del bilancio o di conces-sioni e contratti stabiliti dall’esecuti-vo?

Tra la sua elezione, nell’aprile 2013, e il crollo del prezzo del barile, nel 2014-2015, Maduro era padrone del proprio destino: la principale difficoltà a cui aveva dovuto far fronte era quel-la della inadeguatezza della propria politica economica. Dopo la sconfitta alle elezioni legislative del dicembre 2015 e la sospensione di un Parla-mento determinato a deporlo, la crisi istituzionale ha aperto la strada a una radicalizzazione delle azioni dell’op-posizione, innanzitutto sul fronte in-terno, con la violenza insurrezionale, poi sul piano internazionale con la strategia dell’isolamento diplomatico e lo strangolamento finanziario. Nell’a-

gosto 2017, dopo sei mesi di violenze e l’insediamento di un’Assemblea na-zionale costituente fedele a Maduro, le sanzioni di Washington – accompa-gnate da manovre a favore di un golpe a Caracas (10) – hanno complicato il rebus.

La discesa agli inferi venezuelana si è verificata nel momento in cui il continente americano affrontava un profondo cambiamento politico. Tra il 2015 e il 2017, i principali bastioni del progressismo sudamericano, a cominciare da Argentina e Brasile, sono caduti nelle mani di coalizioni di destra. Questi governi conservato-ri, mossi da spirito vendicativo, hanno non solo manipolato la giustizia per spedire dietro le sbarre gli avversari di sinistra, ma anche coordinato le azioni a livello regionale per sconfiggere un simbolo: la «rivoluzione bolivariana» intrapresa da Chávez.

L’Organizzazione degli Stati ameri-cani (Osa), braccio esecutivo del pro-getto «panamericano» di Washington, un tempo relegata in secondo piano, schiacciata dall’«onda rossa» che ha travolto il continente all’inizio del XXI secolo, si è riappropriata del pro-prio tradizionale ruolo su sollecitazio-ne di un uomo inatteso. Luis Almagro, che aveva appena lasciato il proprio incarico di ministro degli esteri di un governo progressista in Uruguay (11), ne è diventato segretario generale nel maggio 2015, grazie al sostegno di una sinistra latinoamericana all’epoca an-cora maggioritaria. In breve tempo, si è sentito investito del ruolo di difenso-re della democrazia continentale, ma sembra aver individuato delle minacce solo tra gli ex amici politici. Svinco-landosi dalla prudenza diplomatica, che in condizioni normali avrebbe do-vuto rendere possibile una mediazio-ne, ha preso le difese dell’opposizione venezuelana, arrivando a incoraggiare la violenza insurrezionale nel corso del 2017.

Sulla delicata questione cubana, attorno a cui nel 2009 era emerso un blocco regionale contro gli Stati uni-ti, per metter fine all’ostracismo ai danni dell’isola dai tempi della guer-ra fredda, Almagro si è affrettato ad abbracciare la linea delle destre sta-tunitense ed europea. In mancanza di una maggioranza dei due terzi, ne-cessaria all’avvio di una procedura di sospensione del Venezuela dall’Osa, il diplomatico uruguaiano ha soste-nuto la creazione di una coalizione di governi conservatori che, sotto il nome di Gruppo di Lima, ha tentato di proiettare l’immagine di un consenso regionale sulle posizioni più ostili nei confronti di Maduro. Alcuni membri del gruppo hanno anche chiesto di citare in giudizio il presidente vene-zuelano alla Corte penale internazio-nale (Cpi). L’insediamento di Donald Trump ha fatto luce sullo spettacolare voltafaccia di Almagro: il suo accordo

con l’inquilino della Casa bianca risul-ta essere strettissimo, tanto che egli è l’unico responsabile latinoamericano a sostenere l’idea di un intervento mi-litare, avanzata dal presidente repub-blicano.

Questo salto in avanti regionale, in-vece di avvicinare gli attori venezue-lani alla ricerca di una soluzione poli-tica, li ha allontanati. Un consistente numero di dirigenti dell’opposizione, ormai, ha scelto o subito l’esilio; hanno a propria disposizione solo strategie internazionali, i cui progetti sembrano attualmente limitarsi all’inasprimento delle sanzioni o all’intervento militare. Le prime offrono ottime probabilità di conservare uno status quo politico a cui si aggiungerebbe un grave stato di penuria; le seconde scatenerebbero la catastrofe.

Se è necessario che la direzione economica del Venezuela ritrovi un percorso di razionalità, la crisi tuttavia perdurerà in mancanza di una regola-mentazione dei contenziosi politici. Nessun piano avanzato dalla squadra al potere – per quanto pertinente possa essere – consentirà la fine delle san-zioni o il reintegro delle garanzie giu-ridiche. Il dialogo, in vista di un accor-do di coesistenza politica fra governo e opposizione, offrirebbe il mezzo più semplice (e più pragmatico) per impe-dire al paese di sprofondare nell’abis-so. Invece di attizzare le divisioni, la «comunità internazionale» dovrebbe orientare tutti i suoi sforzi in questa direzione.

TEMIR PORRAS PONCELEÓN

(1) Passando da 98 miliardi a 482 miliardi di dollari.(2) Si legga William I. Robinson, «Le vie del socialismo latinoamericano», Le Monde diplo-matique, novembre 2011.(3) Questa cifra è stata resa pubblica indiret-tamente attraverso il questionario «18-K» sot-toposto nel dicembre 2017 dal governo vene-zuelano all’autorità dei mercati finanziari degli Stati uniti (Sec), in quanto emittente sul mercato statunitense. (4) Anabella Abadi, «4 años de recesión económica en cifras», 28 dicembre 2017, www.prodavinci.com(5) L’inflazione strutturale in Venezuela si spie-ga con la sua propensione a riciclare la crescita economica in importazioni più che in sviluppo dell’apparato produttivo (ossia la capacità di produrre quel che consuma).(6) Questo meccanismo, oltre al contesto gene-rale che ha portato alla crisi, è trattato da Re-naud Lambert, «Venezuela, le ragioni del caos», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2016.(7) Si legga Anne Vigna, «Fare la spesa a Ca-racas», Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre 2013.(8) «Le DTS est un actif de réserve internatio-nal, créé en 1969 par le FMI pour compléter les réserves de change officielles de ses pays membres» (sito del Fmi).(9) Nicholas Casey e Ernesto Londoño, «US met Venezuela plotters», The New York Times, 10 settembre 2018.(10) Quello del presidente José «Pepe» Mujica (2010-2015) e della coalizione Frente Amplio.(Traduzione di Alice Campetti)

Una moneta dal valore incerto

Il petro, creato nel 2017, è un «cripto-attivo» emesso dallo Stato vene-zuelano. Il suo valore sarebbe garantito dall’equivalente di cinque mi-

liardi di barili di petrolio che giacciono nel sottosuolo di un grande blocco situato nella cintura dell’Orinoco, la maggiore riserva di petrolio del piane-ta. Chi compra un petro acquisirebbe al contempo i diritti su un barile di petrolio del suddetto blocco.

Il progetto pone due problemi. Prescindendo dai neologismi legati al mondo della criptomoneta – di moda negli ultimi anni –, il petro assomiglia stranamente a una banale emissione di debito sovrano. Per essere legale, qualsiasi nuova emissione richiede l’approvazione dell’Assemblea nazio-nale, con cui il governo venezuelano si trova in aperto conflitto da quando è passata nelle mani dell’opposizione. Inoltre, la produzione petrolifera segue una curva discendente che non mostra segni di ripresa; si compli-ca così la stima del valore di un petrolio ancora sotto terra, la cui futura estrazione richiederebbe pesanti investimenti che Caracas attualmente non può permettersi. Il blocco Ayacucho 1, garanzia del petro, nella prati-ca, non produce niente.

T. P. P.

VENEZUELA. Murale

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Il Brasile è fascista?

NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto8

I MOTIVI DI UN TRACOLLO

È fuori discussione che esistano bra-siliani di estrema destra. Ma è possi-bile che abbiano raggiunto quota nove milioni, tanti sono gli elettori di Bol-sonaro? O forse, come suggerisce Juan Jesús Aznarez, editorialista del quo-tidiano spagnolo El País, dovremmo attribuire il risultato dello scrutinio all’«analfabetismo politico di buona parte dell’America latina», una regio-ne popolata da «milioni di analfabeti in termini di democrazia» (2)? In altre parole, è possibile applicare al succes-so di Bolsonaro in Brasile il ragiona-mento utilizzato dai grandi editoria-listi per spiegare l’elezione di Donald Trump negli Stati uniti e il voto a favo-re dell’uscita del Regno unito dall’U-nione europea?

Una terza analisi si basa sul senso di esclusione comune a molti brasi-liani. Ancora qualche anno fa, il loro paese suscitava speranze e ammira-zione. Durante la riunione del G20 di aprile 2009, il presidente statuni-tense Barack Obama interrompeva un discorso per precipitarsi verso «Lula», appena attivato: «Lo ammiro: il dirigente politico più popolare del mondo!» Alcuni mesi dopo, la coper-tina del settimanale britannico The Economist celebrava il «decollo» del Brasile, un’ascesa spettacolare, il cui simbolo è la statua del Cristo reden-tore che, dalla cima del Corcovado, si staglia su Rio de Janeiro.

Mentre la stampa celebrava la sinistra «ragionevole» di «Lula» – contrapposta a quella troppo «rossa», del presidente venezuelano Hugo Chávez –, Brasilia stravolgeva la gerarchia delle relazioni internazionali. Nel maggio 2010, men-tre l’Europa scopriva l’entità della crisi in Grecia e in Irlanda, il Brasile registra-va spudorati risultati economici, per-mettendosi anche un piccolo lusso a mo’ di rivincita: un prestito di 14 miliardi di dollari al Fondo monetario interna-zionale (Fmi). Lo stesso anno, Brasilia e Ankara bypassavano le cancellerie occidentali e raggiungevano un accor-do con Tehran sul nucleare iraniano. Il mondo sembrava ribaltato, con il Brasi-le in un ruolo di primo piano...

Dall’emergenza sociale all’emergenza repressiva

Meno di dieci anni dopo, il paese suscita disappunto. Gli sceneggiato-ri della serie statunitense House of Cards, pur ricca di intrighi bizantini, ammettono di essere stati superati in creatività dagli scandali di corruzione brasiliani. Questi illeciti, messi sot-

to i riflettori da media trasformati in forza di opposizione a un Pt troppo a lungo egemonico, hanno screditato il sistema politico. La violenza dei rap-presentanti politici nei confronti delle istituzioni trova riscontro in quella che opprime la popolazione nelle strade: si arriva a contare una media di un omi-cidio ogni dieci minuti, per un totale di oltre mezzo milione di morti violente tra il 2006 e il 2016. Nell’alta classe media, numerosissime famiglie hanno lasciato il paese.

Alla vigilia del voto, il Brasile ver-sava in una situazione insostenibile. A partire dagli anni 2010, il crollo delle esportazioni (sia in termine di volume sia di valore) ha provocato una grave recessione. Le decine di milioni di persone uscite dalla povertà grazie alle politiche del Pt non avevano in-tenzione di sprofondarvi nuovamente. Nel corso degli «anni Lula», avevano assaporato progresso e speranza, a cui nessuno rinuncia facilmente. L’oligar-chia, invece, titolare di un debito inter-no il cui rimborso monopolizza quasi la metà del bilancio federale, esigeva costanti attenzioni. Brasilia, a corto di risorse, non poteva soddisfare richie-ste così contraddittorie. La strategia di conciliazione dell’ex sindacalista Lula da Silva, che gli aveva permesso di dar respiro alle favelas e di incantare la Borsa al tempo stesso, era giunta a esaurimento.

Nel 2013, scoppiano manifestazioni in cui si rivendicano maggiori servizi pubblici. Rapidamente, i media privati ne travisano le motivazioni, presen-tandole come una reazione alla preva-ricazione, denunciata pressantemen-te sulle prime pagine. L’operazione funziona perfettamente, offrendo alle classi medie la possibilità di esprimere – finalmente – un’esasperazione spes-so taciuta, causata dall’erosione dei propri privilegi a opera delle politiche sociali del Pt. «Bisogna capire che, fino a qualche anno fa, gli aeroporti erano luoghi distinti, ci spiegava una rappresentante della borghesia di San Paolo nel 2013. Con il miglioramen-to della qualità di vita dei poveri, le classi medie si trovano a fare la coda insieme persone che considerano pez-zenti.» E che dire della decisione del Senato, nel 2013, di dare ai domestici gli stessi diritti degli altri lavorato-ri? Un’umiliazione inaccettabile, che portava il virus della lotta di classe nell’universo ovattato delle famiglie altolocate (3).

Agli occhi di questa parte della po-polazione, la corruzione non si limita all’arricchimento illecito dei dirigenti politici ma rientra anche nei program-mi sociali destinati alle classi popola-ri, diventati sempre più insopportabili con l’aumento delle tensioni economi-che. Nelle strade, gli slogan cambiano. L’emergenza non è più sociale, ma re-

pressiva. L’obiettivo diventa la libera-zione del paese dai «comunisti», dal Pt al potere, i cui dirigenti sono accusati di essere due volte ladri: in primo luo-go perché riempiono le proprie tasche, in secondo luogo perché alimentano la pigrizia dei propri elettori.

La crisi economica prende una pie-ga politica quando la destra approfit-ta della situazione per destituire la presidente Dilma Rousseff, nel 2016. L’accusa di corruzione è infondata ma l’operazione funziona. Giunto al pote-re senza passare dalle urne, il gover-no di Michel Temer, del Movimento democratico brasiliano (Mdb, destra), districa la situazione economica in cui versa lo Stato, tagliando le spese, flessibilizzando il mercato del lavoro ed erodendo le pensioni. Temer, fatto a pezzi dagli scandali, privato di ogni legittimità, discredita ulteriormente lo Stato. La sua popolarità non va oltre il 3%. Nelle strade, sempre più insicure, lo Stato di diritto è scomparso; sembra aver abbandonato anche i ministeri. Alcuni chiedono il ritorno dei militari. La crisi politica poco alla volta si è tra-sformata in crisi istituzionale.

In un simile contesto, la nuova can-didatura di «Lula», per un’ampia coa-lizione interclasse, rappresentava una speranza: quella di un ritorno al fasto-so periodo degli anni 2000, quando la crescita permetteva di tenere a freno le contraddizioni della società; o, in altre parole, l’ambizione di rafforzare la giovane democrazia brasiliana sen-za modificare lo status quo. Secondo lo storico Fernando López D’Alesan-dro, questo progetto poteva contare sul sostegno «dei settori più lucidi del padronato, in sintonia con [l’ex presi-dente] Fernando Henrique Cardoso, il Psdb [Partito della socialdemocrazia brasiliana] e con un’ala del Pt ansio-sa di ricostruire un patto sociale (4)». Dopo tutto, quando circolano i soldi, la corruzione – ben radicata nel cuo-re delle istituzioni brasiliane (5) – dà meno fastidio. Il rombo degli elicotteri che trasportano i milionari di gratta-cielo in grattacielo può anche far so-gnare chi ha appena comprato la sua prima macchina. Un simile progetto poteva essere realista? Lula da Silva, dalla sua cella, non potrà più farsene portavoce né aiutare nell’impresa il proprio erede designato, Fernando Haddad. La speranza si trasforma in stallo: «Il Pt senza “Lula” non è nien-te e, senza “Lula”, l’idea di un nuovo patto sociale perde le proprie poten-zialità», conclude López D’Alesandro.

Sbarrando la strada all’ex dirigen-te, la destra tradizionale pensava di aprirsi la strada per la presidenza. In-vece, si è data la zappa sui piedi. Con il sostegno della giustizia e dei media, ha convinto il popolo che l’unica mis-sione dello Stato era svuotare le tasche della gente. Gli elettori hanno capito

che il Pt non era il partito più corrotto. Pur essendosi ridotta la sua influenza, rimane la prima formazione in Parla-mento (56 seggi contro 69). La destra, invece, subisce un tracollo. Il Pmdb (poi diventato Mdb), chiave di volta della maggior parte delle alleanze al Congresso dal ritorno della democra-zia, nel 1985, perde quasi la metà dei seggi (che passano da 66 a 34). Quanto al Psdb, scivola da 54 a 29 deputati. Al primo turno delle presidenziali, i voti ottenuti dai candidati dei due grandi partiti conservatori raggiungevano a fatica il 6%.

Bolsonaro, sostenuto dagli evan-gelici (6) e, per ora, risparmiato dagli scandali, è apparso come una risorsa in un sistema sofferente. A prescinde-re dall’adesione o meno degli elettori alle sue idee. «Date le condizioni at-tuali, preferisco un presidente omo-fobo e razzista a un presidente ladro (7)», ammette un funzionario intervi-stato dalla British broadcasting corpo-ration (Bbc).

Aumento di povertà e disuguaglianza

La «soluzione» Bolsonaro si differen-zia in tutto e per tutto da quella pre-sentata da «Lula». Tra la difesa dello status quo e la democrazia, l’uomo ha già scelto da un pezzo. A ogni tappa, la sua formula poggia sul principio che i più deboli debbano fare delle conces-sioni. La difesa della sicurezza indi-viduale e della proprietà privata, che preoccupa non solo le classi popolari ma anche le altre, implicherà il sacri-ficio di vittime innocenti. Per ripristi-nare le gerarchie sociali, restituendo i vecchi privilegi alle classi medio alte, alcune categorie della popolazio-ne (per lo più operaie e nere) saranno relegate al rango di plebe subalterna. Il sostegno alle aziende porterà per esempio a porre il ministro dell’am-biente sotto l’egida di quello dell’agri-coltura e ad abbandonare l’accordo di Parigi. E la difesa degli interessi dei mercati (garantiti dai buoni consigli dell’ex banchiere Paulo Guedes, da cui Bolsonaro sembra essere ormai diven-tato inseparabile) avrà come effetto un aumento di povertà e disuguaglianze.

«Sfortunatamente, le cose cambie-ranno solo scatenando una guerra civile, dichiarava il deputato di estre-ma destra nel 1999. Bisogna portare avanti il lavoro a cui aveva rinuncia-to il regime militare [1964-1985]: uc-cidere circa trentamila persone. E se muoiono degli innocenti, è il prezzo da pagare (8)». Per ora, i carri armati sonnecchiano ancora nelle caserme, anche se alcuni militanti del Psl han-no ritenuto che il successo ottenuto li autorizzasse ad aggredire fisicamente i militanti di sinistra, gli omosessuali o gli oppositori. Tuttavia, le manovre della destra e dei media contro «Lula» hanno reso possibile quello che fino a poco tempo fa era impensabile: rende-re accettabile agli occhi di una parte del paese la politica che Bolsonaro in-carna.

RENAUD LAMBERT

(1) Si legga Anne Vigna, «Brasile, lo scandalo Odebrecht », Le Monde diplomatique/il manife-sto, settembre 2017.(2) Juan Jesús Aznarez, «La solución libertici-da», El País, Madrid, 9 ottobre 2018.(3) Si legga «Au Brésil, la trahison des dome-stiques», in «Travail. Combats et utopies», Ma-nière de voir, n. 156, dicembre 2017 - gennaio 2018.(4) Fernando López D’Alesandro, «Con los días contados», El País, Madrid, 27 luglio 2017.(5) Si legga Lamia Oualalou, «Brasile, “trecen-to ladri dottori”», Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre 2015.(6) Si legga Lamia Oualalou, «Gli evangelici alla conquista del Brasile», Le Monde diploma-tique/il manifesto, ottobre 2014.(7) «Brasil: ¿por qué voto a Bolsonaro? “Pre-fiero un presidente homofóbico o racista a uno que sea ladrón”», Bnc News Mundo, Londra, 8 ottobre 2018.(8) Fernanda Trisotto, «O dia que Bolsonaro quis matar FHC, sonegar impostos e declarar guerra civil», Gazeta do povo, Curitiba, 10 ot-tobre 2017.(Traduzione di Alice Campetti)

È una piccola frase che si perde in un mare di discorsi, alcune parole, quasi niente, eppure rivela i retrosce-

na di una solida struttura, quella del dibattito pubblico. Il 17 ottobre, la deputata di Parigi Danièle Obono rispon-de alle domande di Mediapart. L’intervista, trasmessa in video, procede tranquillamente quando la giornalista Pauline Graulle, all’improvviso, si rivolge alla parlamen-tare: «Su tre giornali, Mediapart, Politis e Regards, è stato lanciato un appello, contenente molte firme, in-nanzitutto di intellettuali, di componenti della società ci-vile e poi di politici. Credo che [la deputata] Clémentine Autain sia stata la sola de La France insoumise a firmare l’appello. Perché lei non l’ha firmato? Poi, faccia quel che le pare. Ma perché non ha firmato questo appello?» Obono si stupisce che Mediapart la interpelli su questo «Manifesto per l’accoglienza dei migranti» lanciato da Mediapart. La giornalista insiste: «Visto l’argomento, ci stupisce che lei non abbia firmato».

Obono, da sempre impegnata sul campo, in prima linea all’Assemblea nazionale nella battaglia contro la legge sull’immigrazione discussa nella scorsa primave-ra, ha difeso la causa dei migranti con più tenacia di molti autori della mozione. «Il lavoro di mesi non può essere ridotto al fatto che si firmi o meno una petizio-ne», si difende. Oltretutto questo testo, che ai suoi oc-chi è «insufficiente», non denuncia le responsabilità del governo. Eppure, per il fatto di non averlo firmato, «ci siamo trovati a essere associati, anche da Mediapart, a quella che giornalisti e opinionisti hanno chiamato “si-nistra antimigranti”. È stato un attacco molto violento!».

L’intervistatrice, allora, ribatte con un argomento di-sarmante: «Se lei avesse firmato l’appello, non ci sa-rebbe stato tutto questo clamore».

In altre parole, per far cessare questo tormento, sa-rebbe bastato che la deputata si piegasse all’agenda politica del sito di informazione. Ricapitoliamo: insieme ad altri giornali, Mediapart lancia una petizione piena di buone intenzioni, ma abbastanza vaga (1) da racco-gliere il sostegno di una serie di «intellettuali, creativi, militanti associativi, sindacalisti e cittadini, prima di tutto» dalle diverse sensibilità. Successivamente, la stampa istigatrice ha pubblicizzato la propria iniziativa, trasformandola in attualità: così, la petizione, raggiunto il cuore del dibattito pubblico, si è diffusa tramite tweet, post e prese di posizione che hanno spettacolarizzato un antagonismo tra firmatari e non firmatari. Per finire, sono stati invitati i riluttanti a giustificare la propria scel-ta, insinuando trame di oscuri legami per quanti rifiu-tavano di allinearsi. «Quelli che firmano l’appello sono esonerati dalle proprie responsabilità», riassume Obo-no, mentre, «per diverse settimane, siamo stati pratica-mente accusati di esser scivolati a destra!».

Se lei avesse ottemperato alle intimazioni a sotto-scrivere l’appello, «non ci sarebbe stato tutto questo clamore»... Firmate o per voi non ci saranno riguardi: questo giornalismo assume toni da comando di polizia.

PIERRE RIMBERT

(1) Si legga l’articolo di Benoît Bréville alle pagine 1 e 16, e Frédéric Lordon, «Appels sans suite (2)», La pompe à phynance, 17 ottobre 2018, http://blog.mondediplo.net.

segue dalla prima pagina

Firmate e sarete liberi

RIO DE JANEIRO, BRASILE, 28 OTTOBRE 2018. Festeggiamenti dei sostenitori di Bolsonaro per la sua elezione alla presidenza della repubblica.Foto LaPresse

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Le Monde diplomatique il manifesto NOVEMBRE 2018 9

I corridoi della discordiaCINA, INDIA E GIAPPONE INVESTONO NEL GOLFO DEL BENGALA

Lontano dai radar occidentali, il golfo del Bengala settentrionale è teatro di un’intensa rivalità per

il controllo delle rotte. La competizio-ne ruota intorno alle nuove «vie della seta», che appaiono ben diverse dalle immagini romantiche del XIX secolo. Il momento di svolta è stato il 2013, quando il governo cinese ha lanciato l’iniziativa «una cintura, una strada», prima conosciuta con la sua sigla in-glese Obor (One Belt, One Road), poi diventata Bri (Belt and Road Initiati-ve), un programma di investimenti per le infrastrutture e i trasporti. Sessan-totto i paesi interessati. Il costo dei progetti potrebbe superare i 10.000 miliardi di dollari, con l’ambizione di riconfigurare le vie di comunica-zione fra Asia, Medioriente, Africa ed Europa (1). Questo insieme di in-vestimenti – accompagnati da parte-nariati strategici – comporta spesso una dimensione militare. Del resto, il finanziamento cinese della costruzio-ne di porti sull’oceano Indiano, come Gadwar (Pakistan) e Colombo (Sri Lanka), viene percepito da New Delhi come una strategia di accerchiamento del suo spazio, chiamato «collana di perle».

Nell’intersezione fra la «via della seta» terrestre del Sud-Ovest e la «via della seta» marittima, nel golfo del Bengala settentrionale, è in corso un braccio di ferro fra Cina, India, Giap-pone e i rispettivi alleati. Alcuni parla-no di «grande gioco», richiamando la storica rivalità fra l’Impero britannico e l’Impero russo in Asia nel XIX se-colo. Uno degli obiettivi principali è il controllo dell’accesso al golfo, a parti-re dalla regione di Chittagong, primo porto del Bangladesh, e dello Stato di Arakan (Birmania), nel quale si tro-vano in particolare i rohingya. L’anno scorso, la loro persecuzione ed espul-sione hanno conosciuto una radicale accelerazione.

Nell’aprile 2015 il governo del Ban-gladesh, benché vicino a Pechino, ha optato per un progetto giapponese di costruzione di un porto in acque pro-fonde a Matarbari, distretto di Cox’s Bazar, poco a sud di Chittagong, per un valore di 4,6 miliardi di dollari e a condizioni di prestito estremamente vantaggiose (tasso di interesse dello 0,1% su trent’anni per i quattro quinti della somma). È compresa la realiz-zazione di quattro centrali a carbone, di una stazione di transito per il gas naturale liquefatto e di un corridoio industriale completo di autostrade e ferrovie. La costruzione della prima centrale di 1.200 megawatt è iniziata, ma finora nessun piano è ancora stato rivelato nei dettagli (2).

Il progetto giapponese è stato quindi preferito a quello di un conglomerato cinese, in un primo tempo ipotizzato per lo sviluppo di un porto dello stesso tipo un po’ più a sud, a Sonadia. Diffi-cile non ravvisarvi un insuccesso per il progetto della «via della seta» (3), e la prova di una competizione intensa. Le regioni di frontiera fra il nord-est dell’India, il Bangladesh, la Birmania e la Cina si trovano ai confini dell’Hi-malaya e delle catene di ripide colline (Patkai Hills), coperte da una fitta ve-getazione. Aree che, malgrado la loro topografia, fino al XX secolo sono state percorse da reti commerciali molto attive. In seguito, i nuovi Stati hanno introdotto un regime molto re-strittivo alle loro frontiere, oggetto del resto di accese dispute. Ancor oggi, in

queste regioni si trovano guerriglie au-

tonomiste, è forte la presenza di mili-tari – spesso dotati di poteri discrezio-nali – e si registra un’intensa attività di contrabbando.

Il porto di Chittagong e la sua regio-ne tornano in primo piano per l’acces-so che offrono al golfo del Bengala, le cui coste occidentali hanno un mare privo di grandi fondali. I progetti di costruzione di porti in acque profonde corrispondono alla volontà di organiz-zare collegamenti in uno spazio che collega il sud-ovest della Cina, la parte orientale dell’altipiano himalayano, il nord-est dell’India e la Birmania.

Spostamenti di popolazione

Sul lato indiano, il progetto di traspor-to multimodale intorno al fiume Ka-ladan (Kaladan Multi-Modal Transit Transport Project) e quello dell’auto-strada che collega India, Birmania e Thailandia (India-Myanmar-Thailand Trilateral Highway) sono sulla carta e rimangono ampiamente virtuali. È all’ordine del giorno, senza che se ne conoscano i dettagli, lo sviluppo di un corridoio fra il porto di Sittwe, ad Arakan (Birmania) e lo Stato di Mizo-ram (India). Ma Sittwe si trova proprio nelle immediate vicinanze di un porto e di una zona franca sotto controllo ci-nese (Kyaukpyu), e dei giacimenti di gas naturale di Shwe, che un gasdot-to collega alla provincia cinese dello Yunnan – dal maggio 2017, quest’ul-tima già riceve petrolio non raffinato grazie a un oleodotto costruito mal-grado le resistenze dei rappresentanti locali, in particolare contadini shan e arakani, attualmente sfollati.

Con la collaborazione del regime birmano, l’attivismo della Cina nella regione ha surclassato quello dell’In-dia. Certamente il Giappone ha ripor-tato una vittoria con il suo progetto di porto in Bangladesh. Ma basterà a controbilanciare l’influenza di Pechi-no su questa riorganizzazione dei flus-si nel golfo?

Che si tratti delle «vie della seta» cinesi o dei paralleli progetti cinesi o indiani, la nuova circolazione delle materie prime e dei beni si declina at-traverso corridoi, hub e zone franche che ignorano le popolazioni locali, in-tensificando i conflitti e determinando massicce espropriazioni. In Bangla-desh, Birmania e Sri Lanka, questi investimenti, pilotati da conglomerati in collegamento con i paesi che li fi-nanziano e li controllano, si sviluppa-no d’accordo con le autorità statali, all’interno delle quali l’esercito ha un ruolo di primo piano. Molto spesso, questa collaborazione va a scapito del-la stabilità delle popolazioni locali, o addirittura della loro stessa presenza.

Così, i militari giocano un ruolo preponderante nel trasferimento della proprietà fondiaria e nella messa in sicurezza di queste enclavi interna-zionali create sui territori nazionali, come l’oleodotto della China Natio-nal Petroleum Corporation (Cnpc) a Sittwe (4). Lo sviluppo di questi gran-di progetti si avvale dell’ingegneria territoriale e sociale ereditata dalla colonizzazione britannica. Questa sanciva la suddivisione etnica e con-fessionale a scapito delle minoranze e delle identità miste. In Birmania, il controllo degli spostamenti e questa ingegneria sociale sono il contesto nel quale avviene l’espulsione violenta dei rohingya, una popolazione musulma-na al tempo stesso arakanese e bengali per cultura e lingua (5). Una parte di questa comunità ha le proprie origini

nella manodopera agricola, forzata o incitata, a seconda dei casi, a stabilirsi nell’Arakan prima dagli stessi sovrani locali (dal XV secolo al 1692) (6), poi da Londra, quando l’ex regno fu unito amministrativamente all’India sotto il dominio britannico (1824-1937). Oggi, le loro terre hanno un’altra valenza.

Questa tragedia e l’instabilità che ne deriva si ripercuotono sul Bangladesh, che è già uno dei paesi più densamente popolati al mondo. Pesanti le conse-guenze per tutte le popolazioni della regione di Chittagong, in particolare sulle colline, dove dopo l’indipen-denza il rapporto di forze fra tribù di origine arakanese, buddhiste, e i mu-sulmani delle pianure si era invertito. Ogni persecuzione delle comunità musulmane nell’Arakan indebolisce ulteriormente la posizione delle po-polazioni di origine arakanese sul lato del Bangladesh. Lungo le frontiere di questa regione, l’esercito controlla e filtra i passaggi. L’allestimento e la messa in sicurezza di campi in luo-ghi ritenuti strategici giustificano un potere eccezionale sulla proprietà dei terreni, autorizzando lo spostamento di interi villaggi. Questo potere (così come la delimitazione dei territori) è un retaggio del regime coloniale bri-tannico, come nei distretti collinari di Chittagong, dove l’esercito lo utilizza per facilitare l’insediamento di popo-lazioni delle pianure o l’appropriazio-ne di terre a fini privati. L’esodo dei rohingya birmani aumenta ulterior-mente la pressione sulle popolazioni tribali, che costituivano nel 1947 la quasi totalità degli abitanti mentre oggi ne rappresentano meno del 35%. Anche nelle regioni costiere vicine, poco industrializzate, dove vivono popolazioni bengalesi già economica-mente fragili, la pressione sulle risorse è drammaticamente aumentata.

Gli spostamenti forzati e gli acca-parramenti fondiari aggravano la ten-sione fra identità religiose, in una re-gione frontaliera che fino alla metà del XX secolo era caratterizzata da una popolazione culturalmente e religio-samente composita. I recenti conflitti forniscono una giustificazione ulte-riore alla militarizzazione di tutta la regione, in nome della messa in sicu-rezza delle frontiere. L’appropriazione fondiaria è dunque al tempo stesso motivo e conseguenza delle violenze religiose.

Un grosso traffico di schiavi

La situazione è particolarmente cri-tica in Bangladesh, dove nel 2010 il governo ha deciso la creazione di ses-santasei progetti di zone economiche – cinquantacinque pubbliche e undi-ci private –, in particolare nelle zone costiere (7). Da solo il sub-distretto dell’isola di Maheshkhali, vicinissimo alla città di Cox’s Bazar, ne conta sette, se si comprendono quelle (Dholghata, Ghotibhaga e Sonadia) che appar-

tengono allo stesso insieme di isole e penisole. Così, nel settembre 2017, il governo ha concesso trecento ettari di terreno al gruppo privato bangladese Super Control Petrochemical (Pvt) Ltd per il raffinamento e lo stoccaggio del propano a Dholgata (8).

Inoltre, la regione di Cox’s Bazar è percorsa da un traffico umano im-portante che in genere passa sotto si-lenzio. Ogni anno, fra due monsoni, oltre cinquantamila fra bangladesi e Rohingya vengono imbarcati come schiavi sui pescherecci verso Malaysia e Thailandia (9).

Questi corridoi e le zone franche industriali pesano gravemente sul futuro delle comunità che si trovano all’intersezione fra bacini linguistici diversi e suddivisioni politiche; come i Rohingya, gli abitanti delle colline di Chittagong, ma anche le popolazio-ni sfavorite delle aree costiere. Pesa-no anche sul futuro di un ecosistema fragile, nel quale la pesca rappresenta una risorsa alimentare e finanziaria essenziale per una popolazione che non dispone di altre possibilità lavo-rative.

Attualmente, le grandi potenze re-gionali (Cina, India, Giappone) raffor-zano il ruolo degli eserciti del Bangla-desh e della Birmania (10), e talvolta quello di gruppi armati dissidenti che sostengono un’ideologia identitaria, per ottenere il loro beneplacito, ne-cessario alla buona riuscita dei grandi progetti. I nazionalismi si ritrovano confortati, a detrimento delle identità culturali e religiose fortemente ibride derivate da secoli di scambi marittimi e terrestri nel golfo del Bengala setten-trionale. All’opposto risultano indebo-liti i sostenitori di un approccio politi-co e negoziale ai conflitti.

(1) James Griffiths, «Just what is this One Belt, One Road thing anyway?», Cable News Net-work (Cnn), 12 maggio 2017, https://edition.cnn.com(2) Dwaipayan Barua, «Matarbari port to be turned into a deep-sea port», The Daily Star, Dacca, 7 gennaio 2018.(3) Natalie Obiko Pearson, «Japan beating Chi-na in race for Indian Ocean deep-sea port», Blo-omberg, New York, 23 giugno 2015.(4) Giuseppe Forino, Jason von Meding e Tho-mas Johnson, «Religion is not the only reason Rohingyas are being forced out of Myanmar», The Conversation, 12 settembre 2017.(5) Ibid.(6) Stephan Egbert Arie van Galen, «Arakan and Bengal: The rise and decline of the Mrauk U kingdom (Burma) from the fifteenth to the seventeenth century Ad», università di Leyde (Paesi bassi), 2008.(7) Bangladesh Economic Zones Authority, www.beza.gov.bd(8) «TK Group to set up refinery, LPG termi-nal» The Daily Star, 11 settembre 2017.(9) Emran Hossain e Mohammad Ali Zinnat, con Martin Swapan Pandey, «Slave trade bo-oms in Dark Triangle», The Daily Star, 4 mag-gio 2015.(10) Saibal Dasgupta, «China’s huge Rakhine investment behind its tacit backing of Myanmar on Rohingyas», The Times of India, New Delhi, 26 settembre 2017.(Traduzione di Marianna De Dominicis)

La necessità di infrastrutture nei paesi del golfo del Bengala stimola gli appetiti. La partita si gioca fra Giappone, India e Cina, che ha rilanciato la concorrenza con le sue «vie della seta». I progetti, poco preoccupati delle conseguenze ecologiche, prevedono spesso il coinvolgimento dei militari, a scapito delle popolazioni locali cacciate dalle loro terre, come i rohingya

SAMUEL BERTHET *

* Storico, visiting professor alla Shiv Nadar University, India.

Nuove «strade della seta»Corridoio economico terrestre

Rotta marittima

«Perla» della strategia cinese

Principali pipelines

Estrazione di gas o di petrolio

Porto per containerProgetto giapp. di porto

Minoranza rohingya

Progetto Kaladan

Via d’acquaVia terrestre

Fonti: Mercator Institute for China Studies (Merics), giugno 2018; Engineers Indian Ltd (Eil); www.iocl.com; www.searates.com; «India’s North East opens: The gateway to prosperity», www.masterbuilder.co.in

Agnès Stienne

Calcutta

Dacca

Sittwe

Rangoon

Colombo

Hambantota

Madras

Tuticorin

STATODI ARAKAN

YUNNAN

Naypyidaw

Bangkok

MandalayCox’s BazarMatarbari

Maheshkhali

Kyaukpyu

INDIA

INDIA

BANGLADESH BIRMANIA

CINA

THAILANDIA

SRILANKA

Golfo del

Bengala

Shwe

0 400 km

Nellore

Haldia

MIZORAM

Chittagong

STATO SHAN

VersoNew Delhi

VersoBombay

VersoKunming

Jatani

Visakhapatnam

Kakinada

Hyderabad

IsoleAndaman

(India)

Isole Cocos(Birmania)

IRINA KOLESNIKOVA, ZigZag

Page 10: n diploteca · del Paese al primo posto. Attaccata dai democratici e dai media statunitensi per l’avvicinamento alla Corea del Nord, giudicato im-prudente, la Casa bianca sarebbe

Il volto antisociale di Vladimir Putin

NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto10

RUSSIA, UNA DURA RIFORMA DELLE PENSIONI

A metà giugno 2018, mentre ini-ziavano i mondiali di calcio, in Russia i sostenitori di una rifor-

ma draconiana del sistema pensioni-stico hanno avuto la meglio. Contan-do sull’esultanza sportiva per sviare l’attenzione, il primo ministro Dmitri Medvedev ha annunciato la decisione del governo: lavoro per le donne fino a 63 anni anziché a 55; per gli uomini fino a 65 anziché 60.

Vladimir Putin ha cercato di tenersi fuori dalla mischia, ma la sua popola-rità è scesa dall’80 al 63%. Centinaia di azioni di protesta in tutto il paese lo hanno obbligato a rivolgersi di-rettamente al paese in televisione. Il presidente russo, e non può certo sor-prendere, ha ammorbidito il proget-to di legge, soprattutto fissando l’età pensionabile a 60 anni per le donne; e ha promesso una forte rivalutazione delle pensioni: 1.000 rubli (13 euro) all’anno in media su sei anni. Ma l’o-perazione di comunicazione è riuscita solo a metà. La mobilitazione nelle strade si è smorzata, ma il governo ha subito battute d’arresto elettorali. Nel mese di settembre, agli scruti-ni regionali, quattro candidati (tutti governatori uscenti) in quota Russia unita, partito di maggioranza, hanno dovuto sottoporsi al ballottaggio – un fatto non abituale in Russia. Nelle re-gioni di Vladimir e Khababarovsk, l’opposizione nazionalista (Partito liberal-democratico di Russia, Ldpr) ha addirittura vinto. Inoltre, di fronte all’avanzata dei comunisti nelle regio-ni di Primorye e Khakassia, il governo ha manovrato per annullare o rinviare lo scrutinio.

A confronto con le politiche condot-te in altri paesi, la riforma del sistema pensionistico russo colpisce per l’am-piezza e il ritmo sostenuto. Da qui al 2029, per ottenere la pensione gli at-tivi dovranno lavorare cinque anni in più, al ritmo di sei mesi aggiuntivi ogni anno. Nel 1998, anche il governo sudcoreano ha posticipato di cinque anni l’età della pensione, prevedendo però una progressione più lenta (tre mesi in più ogni anno). In Germania e in Francia, la soglia è stata alzata ri-spettivamente di uno e due anni (fino a 67 e 62 anni), in ragione di due mesi all’anno.

Gli argomenti dei difensori della riforma riecheggiano quelli ascoltati

altrove. In primo luogo: l’invecchia-mento della popolazione. Nel 2017, secondo le statistiche ufficiali dell’a-genzia di Stato Rosstat, si contavano 36,5 milioni di pensionati per circa 83 milioni di attivi, ovvero 2,3 attivi per ogni pensionato, mentre nel 2002 la proporzione era di 3 a 1. Tuttavia, si tratta di una situazione transitoria, perché la generazione dei caotici anni 1990 sarà presto raggiunta sul merca-to del lavoro da quella più numerosa nata negli anni 2000, un periodo di forte crescita economica e demografi-ca. Secondo argomento demografico: l’età pensionabile è rimasta la stessa dal 1932, mentre la speranza di vita da allora è cresciuta molto: secondo le cifre di Rosstat riprese da Medvedev, all’inizio degli anni 1930 era intorno ai 35 anni, contro i 72,7 di oggi. Tuttavia, prendere a riferimento un’epoca nella quale sulla media incideva l’elevatissi-ma mortalità infantile, consente di far apparire come un successo una delle speranze di vita più basse d’Europa… E soprattutto, nel 1932 solo una mino-ranza di anziani godeva della pensio-ne. Questa fu generalizzata a tutti gli abitanti delle città nel 1956, e ai conta-dini e ai lavoratori delle aziende agri-cole collettive nel 1967. A quell’epoca, un neonato poteva sperare di vivere fino a 69,3 anni, solo tre anni meno di adesso. Nel 2018, gli uomini in parti-colare hanno di che preoccuparsi: l’età alla quale potranno andare in pensio-ne supera di un anno e mezzo la loro aspettativa di vita attuale (66,5 anni, contro i 77 per le donne).

Obiettano gli economisti liberali: non è la speranza di vita alla nascita a con-tare, ma il numero di anni che vivranno i pensionati. Uno studio realizzato dalla Scuola di alti studi in scienze econo-miche (1), spesso citato dai giornalisti e dai difensori della riforma, sotto-linea che le persone arrivate all’età della pensione, anche se posticipata, possono aspettarsi di vivere anco-ra 13,4 anni (gli uomini) e 21,7 anni (le donne). Ma il demografo Anato-li Vichnevski ricorda che dagli anni 1960 questo indicatore è in realtà au-mentato a malapena, e potrebbe dimi-nuire in caso di allungamento dell’età lavorativa (2).

Altro problema sollevato di fre-quente: il ruolo sociale tradizional-mente giocato dalle donne che usci-vano dal mercato del lavoro a 55 anni. Per la sociologa Elena Zdravomyslova, le pensionate più giovani appartengo-no a quella «generazione sandwich

(3)» che assicura un doppio ruolo di cerniera: si occupano al tempo stesso dei nipotini, per permettere alle gio-vani di lavorare, e degli anziani, dei quali le strutture statali non si curano. Quali soluzioni alternative propone il governo per facilitare la vita profes-sionale delle madri con figli piccoli, e soprattutto per prendersi cura dei più anziani?

Lodare il «popolo semplice»

Ecco poi l’argomento economico: la-vorare più a lungo permette di innal-zare il livello delle pensioni, che tanto i sostenitori della riforma che i suoi oppositori ritengono insufficiente. Allo stato attuale, la pensione media è pari a 13.300 rubli al mese (circa 175 euro), ovvero il 34% del salario mini-mo. Di conseguenza, il 40% degli uo-mini e il 66% delle donne continuano a lavorare nei cinque anni successivi all’ottenimento della pensione. La pratica esisteva in proporzioni quasi equivalenti nell’Unione sovietica, ma allora i pensionati godevano di una copertura sociale superiore – nel 1976, la media delle pensioni assegnare rap-presentava il 52% del salario (5) – e un sistema sanitario più accessibile.

Le donne andate in pensione di re-cente continuano soprattutto a lavora-re nei settori tradizionalmente «fem-minili» e sottopagati, come insegnanti o negli ospedali, nei servizi sociali e nella cultura. Gli uomini, dal canto loro, accettano «lavoretti» poco remu-nerativi. Nel suo discorso televisivo, Putin ha promesso una pensione me-dia di 20.000 rubli da qui al 2024. Una promessa meno generosa di quanto non appaia: se l’inflazione si mantie-ne al ritmo osservato negli ultimi sei anni, l’aumento permetterà appena di compensare la perdita del potere d’ac-quisto…

Il presidente russo ha un’immagine

di statista desideroso di ripristinare la verticalità del potere. Durante i suoi primi due mandati (2000-2008), il go-verno ha ripreso il controllo di settori economici strategici che erano stati accaparrati da oligarchi, in particola-re quelli degli idrocarburi; e il ritorno alla crescita economica ha consentito di riprendere a pagare con regolarità salari e pensioni. In tal modo la popo-larità di Putin presso le classi popolari e medie, il «popolo semplice» che egli non smette di lodare, si è consolidata. Ma molti osservatori trascurano il fat-to che, da quando è entrato al Crem-lino, il presidente ha messo mano allo Stato sociale, per «modernizzarlo», frenando le spese pubbliche e introdu-cendo una fiscalità favorevole alle im-prese e ai redditi elevati. Ha introdotto un regime di imposta sul reddito ad aliquota unica, al 13% (2001), ha rifor-mato i sistemi sanitari e scolastici sot-toponendo il finanziamento federale (decurtato) a criteri di efficacia e ren-dimento (2006-2012), e ha fatto adot-tare un nuovo codice del lavoro che favorisce il datore di lavoro (2002).

Il sistema pensionistico non è sta-to risparmiato. Nel 2002, il governo introduce un sistema di contributi decrescenti particolarmente ingiusto, tuttora in vigore: la stragrande mag-gioranza dei dipendenti versa il 22% della remunerazione lorda al sistema pensionistico statale, ma quelli che guadagnano oltre 67.900 rubli (900 euro) nel 2018 – ovvero, all’incirca, il 15% dei lavoratori meglio remu-nerati – al di sopra di quella soglia versa solo il 10%. Nello stesso anno, le autorità ancorano all’architettura esistente un sistema pensionistico a capitalizzazione obbligatoria. Da al-lora in poi, il 6% dei contributi pen-sionistici alimenta non la previdenza o il finanziamento delle pensioni in essere, ma intermediari finanziari o fondi pensione privati.

Nel 2005, un primo granello di sab-bia inceppa il cammino delle riforme. Un movimento di protesta senza pre-cedenti nella Russia post sovietica si oppone alla «monetizzazione dei van-taggi sociali», che mira a ridurre gli aiuti sociali in natura (trasporti, cure mediche ecc.) dei quali godono ampis-sime categorie di popolazione. Il go-verno è costretto a rivedere la riforma. Segnali di cambiamento sono alcune misure annunciate a gran voce e rese possibili dall’impennata dei prezzi degli idrocarburi, in particolare l’in-troduzione del capitale materno – una sostanziosa allocazione versata alle madri a partire dal secondo figlio – e il lancio di programmi federali nel cam-po dell’educazione, della salute e degli alloggi. Misure che si accompagnano, almeno per un periodo, a una migliore remunerazione degli insegnanti e del personale medico, e a un aumento dei finanziamenti statali per la ristruttura-zione di immobili.

La crisi economica mondiale del 2008 determina l’abbandono di que-ste politiche. In seguito, la recessione che si consolida in Russia a partire dal 2014, a causa della diminuzione

dei corsi del petrolio e delle sanzioni occidentali seguite all’annessione del-la Crimea, porta il governo a rilancia-re una politica di austerità di bilancio sacrificando in primo luogo le spese sociali, educazione e sanità. Molti aiu-ti e crediti d’imposta sono assegnati alle imprese più grandi, in particolare alle compagnie petrolifere, che pure sono fra le più redditizie (6), e le san-zioni fruttano una riduzione d’imposta a quei miliardari ai quali è impedito il soggiorno in Occidente (7) – quelli che appartengono alla ristretta cerchia del presidente. Secondo la Corte dei conti, questi vantaggi fiscali si traducono in un mancato incasso di 11.000 miliardi di rubli (145 miliardi di euro) per il bi-lancio federale, i cui redditi per l’anno 2018 si limiterebbero così a 15.000 mi-liardi di rubli (200 miliardi di euro) (8).

Aumento dell’imposta sul valore aggiunto (Iva) – dal 18 al 20% –, au-mento annunciato dell’aliquota – sem-pre unica – dell’imposta sul reddito: le riforme in corso rafforzano la genera-le tendenza a ridurre i contributi e la tassazione sul capitale aumentando invece l’imposizione fiscale sui red-diti da lavoro, soprattutto per i salari modesti. Il governo chiede alla popo-lazione di fare sacrifici in nome del prestigio internazionale della Russia. Eppure, altre fonti di finanziamento consentirebbero di mantenere l’età pensionabile attuale e rivalutare le pensioni, soprattutto in un paese in cui esse rappresentano solo il 7% del pro-dotto interno lordo (Pil), contro il 14% in Francia, Portogallo e Austria. La Corte dei conti raccomanda di limitare le deroghe accordate alle grandi im-prese pubbliche desiderose di ridurre il volume dei dividendi che versano alle casse dello Stato azionista. E a ra-gione: questo tipo di introiti si è diviso per quattro nel 2017, anno in cui è stato pari a 667,6 miliardi di rubli (9,5 mi-liardi di euro). Il deputato Oleg Cheine (che è più a sinistra del partito di cen-trodestra Russia giusta nelle cui file è stato eletto), principale portavoce delle cause sociali alla Duma, reclama la lotta contro i paradisi fiscali, un’ali-quota contributiva unica, e misure di ritorsione contro le imprese che fro-dano o nascondono al fisco il numero di lavoratori davvero in servizio – se-condo le sue stime, oltre 35 milioni di persone lavorano in nero.

Il potere d’acquisto della popolazio-ne si è ridotto di circa il 10% rispetto al 2014 (9), ma il governo preferisce preservare la buona salute delle gran-di fortune. Anche se la promulgazione della legge ha avuto l’effetto di smobi-litare i manifestanti, il governo non ne esce indenne. «L’invocazione dei “va-lori tradizionali della maggioranza” e della “unione spirituale” per saldare la società intorno al suo leader non sono di alcun aiuto di fronte a una misura così impopolare», fa notare Ilya Boudraitskis, storico e militante politico di sinistra. Per molti sosteni-tori di Putin, convinti fino a oggi dalla sua immagine di protettore del popolo, esiste ormai la prova che gli interessi delle classi popolari pesano poco ri-spetto a quelli delle élite economiche e finanziarie. In questo senso, l’estate 2018 ha segnato la fine dell’euforia se-guita all’annessione della Crimea.

(1) «Il contesto demografico dell’innalzamento dell’età pensionabile» (in russo), Higher School of Economics, Mosca, 28 giugno 2018, www.hse.ru(2) «L’innalzamento dell’età pensionabile: ar-gomenti e contro-argomenti demografici» (in russo), Demoscope Weekly, n. 775-776, 18 giu-gno - 31 luglio 2018, www.demoscope.ru.(3) The Village, 8 marzo 2016, www.the-villa-ge.ru(4) Rosstat, Mosca, 2016.(5) Hélène Yvert-Jalu, «Les personnes âgées en Union soviétique», Population, n. 6, Parigi nvembre dicembre 1985.(6) Novye Izvestia, Mosca, 6 settembre 2018, www.newizv.ru(7) Rbk Tv, 17 marzo 2017, www.rbc.ru.(8) Conclusioni della Corte dei conti della Fede-razione russa sull’esecuzione del bilancio fede-rale dell’anno 2017, www.ach.gov.ru.(9) «La situazione economica e sociale della Russia» (in russo), Rosstat, 2018.(Traduzione di Marianna De Dominicis)

* Sociologa.

Le autorità russe hanno deciso di allungare l’età pensionabile di diversi anni. In piena crisi economica, il governo ha dunque scelto di aiutare i portafogli delle grandi imprese, rendendo evidente la priorità accordata agli interessi dell’élite economica. Al punto che i successi internazionali di Mosca non bastano più ad assicurare la popolarità del presidente

KARINE CLÉMENT*

spunti

L’EROE NEGATO Francesco Gnerre Rogas, 2018, 22,70 euro

Diciotto anni dopo la prima sua prima pubblicazione, Francesco Gnerre, docente di teoria della letteratura e redattore di ri-viste storiche del movimento gay italiano quali Babilonia e Pride, ripropone un sag-gio “classico” della letteratura omosessuale italiana L’Eroe Negato, Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano. Quando fu pubblicato per la prima volta, nel 2000, L’Eroe Negato diventò in breve tempo un testo fondamentale degli studi LGBT del nostro Paese perché Gnerre fu il primo stu-dioso ad affrontare in maniera scientifica ed esaustiva il “pantheon” della letteratura gay del Novecento italiano, rintracciando in maniera puntuale e corretta inferenze e gan-ci significativi tra dati della biografia e crea-zioni letterarie. Lo stesso autore, d’altronde, precisa nell’introduzione all’opera che la

riedizione del testo nasce dalla richiesta di molti lettori che negli anni mi hanno scritto chiedendomi come procurarsi il libro, ormai irreperibile nell’edizione 2000. In effetti, come consapevolmente riconosce lo stesso Gnerre nella prefazione, quello de L’Eroe Negato è un progetto molto ambizioso di una lettura che in qualche modo desse conto del difficile e accidentato percorso dell’o-mosessualità attraverso tutta la letteratura del secolo, dalle censure e autocensure di Saba, Palazzeschi e Gadda e di altri scrittori della prima parte del secolo alla consapevo-lezza di sé di autori contemporanei che da-gli anni Ottanta del Novecento, al di là delle rivendicazioni di diritti negati, sembravano aver trovato modi e forme per raccontare una realtà finora inedita. La galleria degli autori che Gnerre propone in questo volume è molto ampia e la discussione intorno alla loro opera e al modo in cui l’identità omosessuale ha influenzato e ali-mentato l’immaginario e la creati-

vità di questi autori ha il pregio di essere al tempo stesso puntuale e rigorosa dal punto di vista epistemologico ma anche godibile e piacevole per la ricchezza e l’abbondanza di spunti di riflessione in grado di restituire al lettore una prospettiva nuova e interes-sante da cui osservare alcuni passaggi cru-ciali della civiltà letteraria contemporanea. Rispetto all’edizione del 2000, è d’uopo segnalare la presenza di aggiornamenti relativi, per esempio, all’opera di Mario Fortunato e Walter Siti, aggiornamenti che si aggiungono alla vastissima selezione di autori che va da Saba a Comisso, da Penna

a Patroni Griffi, passando per Pa-solini, Tondelli, Testori, Arbasino e tanti altri, tra cui anche qualche “dimenticato” come il fiorentino Piero Santi, autore dichiarata-mente omosessuale che, a metà Novecento, visse e rappresentò la sua omosessualità senza sensi di colpa, pagando con l’oblio la sua sincerità.

CLAUDIO FINELLI

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MOSCA. Senzatetto trovano cibo e riparo in una chiesa Russa ortodossa. Foto Ap

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Le Monde diplomatique il manifesto NOVEMBRE 2018 11

La maledizione del modello tunisinoUNA DEMOCRATIZZAZIONE POLITICA SULLA QUALE PESA IL MARASMA ECONOMICO

Nella notte fra il 2 e il 3 giugno, un piccolo peschereccio affondava a cinque miglia nautiche dalle iso-

le Kerkennah, al largo di Sfax. A bordo, 180 passeggeri che speravano di arrivare sulle coste italiane; solo 68 i sopravvis-suti. Le vittime erano in maggioranza tunisine. Un sintomo, oltre che una tra-gedia: la Tunisia diventa, per i suoi gio-vani, una terra senza speranza. Nell’ul-timo anno, le partenze clandestine verso l’Europa sono aumentate. Il disincanto colpisce anche le classi relativamente più agiate. Secondo il segretario generale dell’ordine generale dei medici, il 45% dei nuovi iscritti ha lasciato il paese nel 2017, contro il 9% nel 2012 (1).

Mentre c’è chi fugge, altri cercano an-cora di far ascoltare la propria voce nel paese. L’Osservatorio sociale tunisino registra l’insieme delle proteste, indi-viduali e collettive, i blocchi stradali, i presidi, gli scioperi… La febbre è sali-ta e non accenna a scendere: sono state contate 5.000 proteste nel 2015, oltre 11.000 nel 2017, 4.500 per i primi quat-tro mesi del 2018. La democratizzazione non riesce a convertire il pluralismo dei partiti, le libertà politiche e la responsa-bilità istituzionale in una nuova proposta economica suscettibile, se non di offrire soluzioni nell’immediato, almeno di de-lineare un orizzonte di riferimento.

Dal 2011, lo Stato non ha altra solu-zione che quella di comprarsi la pace sociale a breve termine. La pubblica amministrazione ha fatto assunzioni di massa, in primo luogo per reintegrare i beneficiari dell’amnistia generale dei prigionieri politici, decretata nel feb-braio 2011, poi per regolarizzare i circa 50.000 lavoratori delle imprese presta-trici di opera per lo Stato; e, in generale, per riassorbire la disoccupazione. Fra il 2011 e il 2017, i funzionari pubblici sono aumentati di quasi 200.000 unità, portando la massa salariale dal 10,8 al 15% del prodotto interno lordo (Pil) (2); uno choc senza precedenti e un tasso fra i più elevati al mondo. Per smorzare le ripetute fiammate di protesta, il gover-no ha fatto ricorso anche ai «cantieri», ad assunzioni in ditte «ambientali» o di giardinaggio, impieghi il cui unico meri-to è distribuire magri salari (meno di 100 euro al mese) alle famiglie povere.

Ma queste spese, anziché fornire solu-zioni reali alla questione sociale, hanno al contrario asfissiato la capacità di inve-stimento dello Stato e innescato un ciclo di grave crisi delle finanze pubbliche. La Tunisia ha moltiplicato le richieste di prestiti, dunque il suo debito ha preso il volo, passando da 25,6 miliardi di dinari nel 2010 (13,5 miliardi di euro al tasso di cambio dell’epoca) a 76,2 miliardi nel 2018 (24 miliardi di euro), 46 miliardi dei quali costituiscono il debito estero. Ormai, lo Stato deve destinare ai credi-tori oltre il 20% del proprio bilancio.

Inoltre, l’aumento dei salari e del prez-zo del petrolio, insieme all’incremento della massa monetaria in circolazione per via della reiterata generosa distribu-zione di crediti bancari e dell’espansione dell’economia informale (probabilmen-te oltre la metà del Pil), hanno creato le condizioni per una spirale inflazionisti-ca. Il potere d’acquisto dei tunisini crol-la. Nel bacino minerario di Gafsa, con-testo di una lunga sollevazione nel 2008 – una specie di prova generale di quella del dicembre 2010 – , la crisi sociale si perpetua. L’estrazione annuale di fosfati, una delle principali fonti di valuta estera per il paese, è ferma a quattro milioni di tonnellate, la metà rispetto a prima del 2010. E il doppio choc della rivoluzione del 2011 e dell’ondata di attentati terro-

ristici nel 2015 ha ridotto la crescita ai minimi storici.

Inflazione, disoccupazione, inde-bitamento, riduzione delle riserve in valuta… Per uscire da questo circolo vizioso, i governi che si sono succeduti hanno fatto appello al Fondo monetario internazionale (Fmi). Una prima volta nel 2012, per un prestito di 1,74 miliardi di dollari, accordato nel giugno 2013 per due anni; una seconda volta nel 2016, per un prestito di 2,9 miliardi di dollari su quattro anni. In contropartita, ovvia-mente, di un piano di «riforme». La Tu-nisia deve risanare i conti pubblici e per farlo deve aumentare alcune imposte, ridurre la massa salariale nella pubblica amministrazione, aumentare il prezzo dei carburanti ogni trimestre per alleg-gerire il costo dei sussidi, riformare il sistema pensionistico…

Ha già dovuto adottare, nell’aprile 2016, il principio dell’indipendenza della Banca centrale, con la priorità al con-trollo dell’inflazione rispetto al sostegno allo sviluppo economico. Risultato, a partire dalla primavera del 2017: si è pas-sati da 1,9 dinari per un euro nel 2011 a oltre tre dinari oggi. La misura dovrebbe rendere le esportazioni più competitive e ricostituire le riserve di cambio, sce-se sotto la soglia dell’equivalente di tre mesi di importazioni. In realtà, per ora il deprezzamento alimenta soprattutto l’inflazione e danneggia ulteriormen-te i consumatori. Per spezzare questa dinamica, e su raccomandazione del Fmi, la Banca centrale ha lanciato i tassi d’interesse all’inseguimento del tasso di inflazione, che galoppa intorno all’8% all’anno, in modo da proporre tassi reali positivi ai risparmiatori e disincentivare il ricorso al credito per limitare la do-manda.

In teoria, queste misure draconiane devono ristabilire i conti pubblici e resti-tuire allo Stato i margini necessari agli investimenti, stimolare le esportazioni e dunque la crescita. Ma lo scenario che tutti temono assomiglia piuttosto a un rallentamento brutale dell’economia: austerità di bilancio, aumento dei prezzi, riduzione degli investimenti e dei consu-mi, aumento dei prelievi...

Tenendo conto del processo politico in corso, l’Fmi è stato piuttosto accomo-dante nel corso dei primi anni seguiti alla deposizione di Zine el-Abidine Ben Ali, nel 2011. Ma dallo scorso maggio, le revisioni del programma, preventi-ve rispetto allo sblocco delle tranche di credito, da semestrali sono diventate trimestrali e, a leggere i comunicati, il tono si è fatto intimidatorio, mentre gli indicatori si deteriorano (se si esclude un leggero miglioramento in tema di cresci-ta e bilancia commerciale). Il massimo di pressione sarà esercitato sull’Unio-ne generale tunisina del lavoro (Ugtt), la storica centrale sindacale, sempre in prima linea nella difesa degli impiegati pubblici. I prossimi mesi di dicembre e gennaio, un periodo che è diventato l’appuntamento annuale delle ondate di protesta sociale, si annunciano pieni di tensione, soprattutto per l’avvicinarsi delle elezioni legislative e presidenziali previste nel dicembre 2019. Un vero col-lo di bottiglia economico, sociale e po-litico dal quale nessuno sa come uscire. L’ipotetico sblocco della produzione di fosfati e il ritorno dei turisti, già in cor-so, daranno forse un po’ di respiro, ma non abbastanza da guarire la malattia tunisina.

Questa malattia è una crisi di model-lo, ma alla fine, qual è il modello? In-tanto, l’apparato produttivo del paese è collocato nella fascia bassa della scala di valore nella divisione internaziona-

le del lavoro. La Tunisia ha fatto questa scelta negli anni 1970, per compensare il fallimento dello Stato sviluppista. La sua competitività, nei settori nei quali si era posizionata, per esempio il tessile, si è rapidamente erosa; per mantenere le posizioni il paese si è lanciato allora nel dumping sociale, adottando un regime di incentivi fiscali; investitori con pochi scrupoli ne hanno approfittato aumen-tando il livello di precarietà dei propri salariati. Anche il turismo ha avviato una corsa al ribasso, a scapito della qua-lità. Durante la presidenza di Ben Ali, le banche pubbliche avevano l’ordine di non esigere il rimborso dei crediti per mantenere vivace questo settore strate-gico e preservare anche gli interessi dei clan protetti dal potere, proprietari di ho-tel. Così, la gestione dei debiti inesigibili continua oggi a penalizzare un settore bancario del quale Fmi e Banca mondia-le continuano a esigere la riforma.

Malgrado la liberalizzazione, avviata a partire dagli anni 1980, l’economia e la politica erano in realtà fortemente in-trecciate. «Le privatizzazioni sono state un’occasione unica di predazione per i “clan”, ma anche di distribuzione di vantaggi e rendite alla borghesia tradi-zionale», faceva notare nel 2011 la Rete euro-mediterranea dei diritti umani (3). Lo Stato manteneva diverse possibilità di intervento mediante le restrizioni do-ganali, le procedure di autorizzazione alle attività, le assegnazioni di terre e l’accesso ai finanziamenti. La liberaliz-zazione senza una vera concorrenza era l’espressione economica dell’esercizio autoritario del potere.

Quest’economia politica della dittatu-ra si inscrive di fatto nella continuità del-la costruzione dello Stato tunisino. La

sua storia è quella del dominio da parte di Tunisi e delle élite – élite prodotte pri-ma di tutto dall’Impero ottomano, e in seguito dal protettorato francese – sulle popolazioni e sulle tribù dell’interno. L’indipendenza, nel 1956, non invertì la tendenza. Al contrario. Habib Bourghi-ba, originario di Monastir, città sahelia-na, si alleò con quelli di Tunisi portando loro una base popolare, ma privilegiò i saheliani nell’assegnazione dei posti di potere, come testimoniava la scelta dei governatori e dei direttori generali dell’amministrazione e la stessa com-posizione dei governi. «Ma i saheliani dovevano costruire la base economica del loro dominio politico. La crearono attraverso l’orientamento della spesa pubblica a loro vantaggio e la loro ca-pacità di bloccare gli imprenditori del-le altre regioni grazie a un modello di economia iper-amministrata al servizio della protezione delle rendite», ritiene Sghaier Salhi, autore di un’opera molto documentata intitolata La colonisation intérieure et le développement inéquita-ble (4).

Questo dominio si è adattato ai cam-biamenti economici e politici, e resiste alla democratizzazione (5). Per Sghaier Salhi, «parlare di frattura regionale fra la costa e le regioni dell’interno non significa che le due parti del paese funzionino in parallelo. In realtà, è un sistema unificato: all’economia domi-nata dalla costa, l’interno e il sud del paese forniscono manodopera a buon mercato, prodotti agricoli, fosfati, ac-qua... Si tratta di una forma di confi-sca». La ricercatrice Béatrice Hibou parla, dal canto suo, di una «formazio-ne asimmetrica dello Stato» che con-danna una parte dei tunisini alla subal-ternità sociale e politica (6).

Per garantire la pace sociale nelle regioni dominate, delle cui solleva-zioni la storia tunisina è disseminata, il governo continua a «governare con l’aspettativa», secondo l’espressione di Hamza Medeb, in particolare con la distribuzione di lavori precari e gli aiu-ti sociali ai disoccupati (7). «Lo Stato dovrebbe dedicare molti più mezzi alla risoluzione delle difficoltà delle regio-ni subalterne; preferisce delegarne la gestione (…) alle strutture del partito di governo, alle reti claniche che assi-curano la redistribuzione e l’accesso a benefici economici in modo clientela-re», ritiene il sociologo. In questo sen-so, lo sviluppo del commercio informa-le nelle regioni frontaliere denota, più che un’assenza dello Stato, la scelta di lasciare che questa parte del territorio si integri da sola nell’economia mondiale e realizzi un’accumulazione di capitale propria.

Questo sistema, che per decenni era riuscito a produrre stabilità politica, è entrato in crisi a partire dal 2008. Con-tro il suo carattere sempre più ingiusto si è sollevata la gioventù delle zone in-terne, dapprima nel bacino minerario e poi nel 2010, prima che del corso della rivoluzione si impadronissero le éli-te politiche. Prive di immaginazione, queste ultime hanno come unico punto di riferimento la disciplina di bilancio preconizzata dall’Fmi, e come unico orizzonte da proporre la conclusione di un accordo di libero scambio comple-to e approfondito (Aleca) con l’Unione europea. Un accordo che obbligherà la Tunisia ad adottare le leggi dell’Ue e che avrà l’effetto di «creare un merca-to tunisino esclusivamente riservato ai prodotti europei (8)», secondo l’econo-mista Mustafa Jouili. Con il rischio di aggravare l’iniquità di base del modello tunisino.

(1) Wafa Samoud, «Le nombre de médecins quittant le pays double d’une année à une au-tre», HuffPost Maghreb, 14 febbraio 2018.(2) Dati tratti da Mahmoud Ben Romdhane, La Démocratie en quête d’État, Sud Éditions, Tu-nisi, 2018.(3) Béatrice Hibou, Hamza Meddeb e Moha-med Hamdi, «La Tunisie d’après le 14 janvier et son économie politique et sociale. Les enjeux d’une reconfiguration de la politique européen-ne», Rete euromediterranea dei diritti umani, Copenhagen, giugno 2011. (4) Cfr. «La transition bloquée: corruption et régionalisme en Tunisie», International Crisis Group, rapporto Medioriente e Africa del Nord 177, Bruxelles, 10 maggio 2017.(5) Irene Bono, Béatrice Hibou, Hamza Med-deb e Mohamed Tozy, L’État d’injustice au Maghreb. Maroc et Tunisie, Karthala, coll. «Recherche internationale», Parigi, 2015.(6) Ibid.(7) Béatrice Hibou e Hamza Meddeb, «Tunisie: la “démocratisation” ou l’oubli organisé de la question sociale», Aoc.media, 29 gennaio 2018.(8) Marco Jonville, «En Tunisie, “l’Aleca, c’est la reproduction du pacte colonial de 1881”», Mediapart, 1° ottobre 2018.(Traduzione di Marianna De Dominicis)

* Giornalista, Tunisi.

Nel 2019, i tunisini si recheranno alle urne per eleggere il presidente della Repubblica e rinnovare l’Assemblea dei rappresentanti del popolo. In un contesto economico e sociale teso, i dibattiti e le polemiche si incentrano più sulle persone che sulle idee. Tanto che non figura fra le priorità nemmeno la riduzione delle gravi disparità di sviluppo fra la Tunisia costiera e quella dell’interno

THIERRY BRÉSILLON *

sponde

PER LA MACROREGIONE DEL MEDITERRANEO OCCIDENTALE Renato D’Amico e Andrea Piraino (a cura di)Franco Angeli Edizioni, 2018, 33 euro

Per superare la crisi di legittimità dell’U-nione europea e riconquistare la fiducia di cittadini e lavoratori, è indispensabile ripartire dal basso, seguendo l’esempio di regioni virtuose che da tempo sperimen-tano il nuovo strumento macroregionale (come la Macroregione Adriatico-Jonica o del Mediterraneo Centrale, ad esempio). Il Trattato di Lisbona del 2007, per raffor-zare le azioni transfrontaliere e rilanciare cooperazione transnazionale e coesione economico-sociale, punta sulla sinergia fra le Regioni. Aree territoriali contigue, accomunate da bisogni ed esigenze analo-ghe, divengono protagoniste di azioni con-certate, realizzando il doppio vantaggio di economie di scala e di infrastrutture e ser-vizi più convenienti ed efficaci. Il volume collettaneo a cura di Renato D’Amico e Andrea Piraino, che raccoglie gli atti di un importante convegno internazionale orga-nizzato dall’Università Telematica Pegaso

e svoltosi a Palermo nel luglio scorso, pro-pone l’istituzione di una Macroregione del Mediterraneo occidentale, rilanciando gli obiettivi del Progetto di Barcellona. Una unione euromediterranea tradita dai grandi dell’Ue (Germania e Regno unito in testa) e sacrificata all’espansione dell’Ue verso paesi e mercati dell’Est, ritenuti più sicuri e vantaggiosi. I risultati di queste scelte – si pensi agli interventi armati e all’elimi-nazione del Colonnello Gheddafi, leader dell’Unione africana – sono stati dramma-tici e destabilizzanti per i popoli delle due sponde del Mediterraneo. Mentre i signori della guerra e le lobby affaristiche hanno ricavato enormi profitti sia dai conflitti armati che dal business della pacificazio-ne e ricostruzione. L’esodo biblico verso i paesi europei è dunque la conseguenza di strategie neocoloniali condivise purtroppo anche dal nostro Paese. Perciò, la nascita di una Macroregione del Mediterraneo occidentale, mentre potrebbe rappresentare un efficace antidoto a conflitti che acuiscono odi e terrorismi, risul-terebbe estremamente vantag-giosa per l’area meridionale del nostro Paese dove clientelismo, corruzione e mala economia han-

no spesso impedito di fruire delle risorse messe a nostra disposizione dall’Ue. Ciò consentirebbe un rilancio di investimenti transregionali idonei a valorizzare agricol-tura, turismo e settori museale e culturale. Non meno importante, il rilancio dei tra-sporti, dell’ambiente, della ricerca scienti-fico-tecnologica e della formazione, sfide comuni e irrinunciabili per impedire fughe di cervelli e spopolamento di territori. Si tratta, secondo gli autori, «di considerare i Paesi della sponda sud non solo come destinatari passivi dell’aiuto dell’Europa all’Africa, ma come partner importanti nel contesto di una politica dello sviluppo bicontinentale». Consolidare e rafforzare perciò i rapporti fra città, università e ter-ritori che in Sicilia, Campania e Maghreb stanno già producendo effetti positivi, significa passare da quel conflitto di civil-

tà, culture e religioni, all’origine di povertà, gap culturale e sociale ed emergenza terroristica, a forme di cooperazione e intese che favorisca-no il benessere comune dei popoli delle due sponde del Mediterraneo, nello spirito di Fernand Braudel, che il prossimo Forum Internazionale di Napoli si propone di far rivivere.

CARLO AMIRANTE, DARIO CATENA

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BCHIRA TRIKI BOUAZIZI

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Récifs d’Entrecasteaux

Costa ovest

Grande Laguna nord

Ouvéae Beautemps-Beaupré

Costa norded est

Grande Laguna sud

Poum

Bélep

Koumac

Kaala-Gomen

Voh

KonéPouembout

PoyaBourail

MoindouLa Foa

SarraméaFarino

Boulouparis

PaïtaGrande Numea

Dumbéa

Numea

Yaté

Thio

Canala

Houaïlou

Ponérihouen

Poindimié

TouhoHienghène

Pouébo

Ouégoa

Fayaoué

Tadine

MARÉ

LIFOU

OUVÉA

GRANDETERRA

ISOLA DEI PINI

Vao

TIGA

Kouaoua

Mont-Dore

ISOLE BÉLEP

Paici-Camuki

Djubéa- Kaponé

Hoot Ma Waap

Drehu

Nengone

Iaai

Ajië-Aro

Xârâcùù

Koniambo

Vale Goro

Doniambo

PROVINCIA DELLE ISOLE DELLA LEALTÀ

PROVINCIANORD

PROVINCIASUD

O C E A N O PA C I F I C O

Mar del Corallo

Baia di Santal

Baiadi Harcourt

Canale della Havannah

Fonti: governo della Nuova Caledonia; Atlas de la Nouvelle-Calédonie,Istituto di ricerca per lo sviluppo (Ird), 2013; Agenzia per lo sviluppo rurale e il riassetto fondiario (Adraf);delegazione Ifremer della Nuova Caledonia; Istituto di statistica e studi economici Nuova Caledonia (Isee). CÉCILE MARIN

Limite dell'area consuetudinaria

20.00010.000

2.000600

Popolazione kanak

Principali risorse

Statuto fondiario delle terre

Consiglio consuetudinario

Parte dellapopolazione kanak

I con�ni dei comuni sono tracciati in bianco.

Zona lagunarePatrimonio mondialedell’Unesco

Miniera Estrazione di nickel

Fabbrica di trattamento

Terre demaniali

Terre private

Terre comunitarie Zona di altitudinesuperiore a 500 m

Industria dei gamberetti

Turismo

Incubatoio, acquacolturaFabbrica di condizionamentoo trasformazione

Scalo di navi da crociera

180.000

Popolazione comunale

Con�ne di provincia

0 50 100 km

Europei

27%(74.200)

Wallisianie Futuniani

8%

Comunitàplurime 9%

Altre comunità 17%

Kanak 39%(105.000)

Popolazione della Nuova Caledonia Categorie socioprofessionali268.800 abitanti Europei Kanak

0,7

In percentuale della popolazione attiva occupatadi più di 15 anni in ciascuna comunitàFonte: Isee, censimento 2014.

6,5 Contadini

15,1 3,9Artigiani, commerciantie imprenditori

19,6 2,7Quadri e professioniintelletuali superiori

31,9 14,8Professioniintermedie

22,5 35,8Impiegati

10,2 36,4Operai

16.730 km

Parigi

Numea

Referendum fuori tempo

A Lifou, la maggiore delle isole Loyauté, grandi battelli gettano l’ancora ogni gior-no nella baia di Santal. Vi sbarcano cen-

tinaia di turisti, essenzialmente australiani, presi in carico da un comitato di accoglienza: acqua di cocco o succo di graviola, laboratori di ceste-ria, visite guidate, danze tradizionali kanak. C’è attesa, a tre settimane dal referendum? «Non ci fa né caldo né freddo, confessa con aria quasi desolata Betty Kaudre, del comitato di sviluppo del Wetr, il distretto tradizionale. Ce la caviamo già da soli. Il 4 novembre per noi sarà un gior-no come tutti gli altri.» Aggiusta il tiro il giovane grande capo Jean-Baptiste Ukeinesö Sihaze, 36 anni, discreto ma potente (molto più di un eletto della Repubblica francese, perché qui non si fa nulla senza il suo consenso, frutto degli accordi fra le tribù): «L’indipendenza è importante. Biso-gna andare a votare. Noi non dimentichiamo che in passato i nostri vecchi furono massacrati».

Da diversi mesi, i sondaggi danno vincente il «no», anche oltre il campo dei lealisti. Non solo la demografia è sfavorevole alla comunità ka-nak (il 39% dei 268.000 abitanti), ma c’è un fatto strano: elettori indipendentisti… non andranno a votare per l’indipendenza. Trent’anni fa, i mi-litanti morivano per quest’idea. Come si spiega quest’evoluzione?

«Forse avremmo dovuto votare vent’anni fa»

Occorre intanto tener presente che tre decenni di trasferimenti irreversibili di competenze, dopo gli accordi di Matignon-Oudinot (1988) e di Nu-mea (1998), hanno cambiato profondamente la situazione. Assicurando al territorio, e più preci-samente alle sue tre province, un’ampia autono-mia di gestione. Si è verificato così un riequilibrio a favore del Nord e delle isole, principalmente abitate da kanak (1). Sono sorte strade, sono stati costruiti acquedotti, elettrodotti, scuole superiori, ospedali. La proporzione di laureati si è quintuplicata e, grazie a un programma di for-mazione specifica, 1.700 neocaledoniani sono diventati funzionari pubblici.

E poi, in molti si fanno delle domande. Fra l’autonomia all’interno della Repubblica france-se, sostenuta dai partiti non indipendentisti, e l’indipendenza-associazione, attualmente so-stenuta dal Fronte di liberazione nazionale kanak e socialista (Flnks, indipendentista), la differenza appare poco percepibile e le parole d’ordine giu-sto suggestive.

Eppure, nel 2013, quest’ultima strada sembra-va imporsi come «una delle ipotesi principali» scaturite dall’accordo di Numea (2). I non indi-pendentisti cercano di far paura: «L’indipenden-za significa finire come Vanuatu» – il vicino per il quale l’emancipazione, nel 1980, si è rivelata costosa in termini di potere d’acquisto. Il cam-po opposto cerca di rassicurare, ricorrendo al metodo Coué o dell’auto suggestione cosciente: «Prima o poi bisogna decidere e buttarsi».

Sul lato caldoche (la popolazione di origine eu-ropea o meticcia), Gérard Bernière, capocantiere a Bourail, al centro dell’isola, si chiede: «Perché vogliono altro?» Dice che sua figlia Aurélie, un’in-segnante di 32 anni che ha studiato in Francia, «non riconosce più il suo paese» da quanto si è sviluppato: «Siamo davvero viziati, dice. E tutto questo processo è lungo e faticoso». Sul lato kanak, Léopold Hnacipan, insegnante e poeta della tribù di Tiéta nel municipio di Voh, riassu-me lo spirito di molti: «La gente, qui, è “Kanaky calculée”». Cioè: il loro cuore batte per una Nuo-va Caledonia indipendente; ma, siccome riten-gono che il paese non sia pronto, non vogliono fare nulla che possa mettere a repentaglio quan-to hanno ottenuto. Secondo le statistiche delle Nazioni unite, il prodotto interno lordo (Pil) per abitante a parità di potere d’acquisto è sì inferio-re del 29% a quello della metropoli, ma è undici

volte quello di Vanuatu, tre volte quello delle Fiji e otto volte quello di Papua Nuova Guinea.

A eccezione del Partito laburista (estrema si-nistra), che suggerisce di «andare a pesca» il giorno della consultazione elettorale, tutte le for-mazioni sottolineano l’importanza del processo stabilito con l’accordo di Numea, organizzato intorno al «destino comune»: una parola totemi-ca che, per far crescere una cittadinanza neoca-ledoniana, precondizione per una possibile na-zionalità, esorta tutte le etnie a guardare avanti, dimenticando i momenti bui del passato. La metà della popolazione attuale non ha vissuto la quasi guerra civile degli anni 1980, indicata pu-dicamente con il termine «événements». Il paese ha bisogno di tranquillità, e lo statu quo sembra convincere gli indecisi.

Chiarisce Élie Poigoune, uno dei fondatori del Partito di liberazione kanak (Palika), punta di lancia della rivendicazione indipendentista, già di ispirazione marxista-leninista: «In questi ulti-mi trent’anni, caldochi, kanak e altre comunità hanno trovato posizioni comuni per far sì che il paese evolvesse nel buon senso, nel vivere in-sieme, per rendere la società più armoniosa». All’avvicinarsi del referendum, Poigoune, che è presidente locale della Lega per i diritti umani (Ldh), ha visitato scuole e programmi televisivi insieme ad altri «saggi» per predicare la con-cordia. È stato uno dei primi kanak a diplo-marsi, negli anni 1960. E ricorda che, all’epoca in cui egli era un giovane insegnante, sui muri comparivano scritte del genere: «Non vogliamo scimmie per insegnare ai nostri figli». Egli dice di essere «molto legato ai valori della Repubbli-ca». Naturalmente, voterà sì all’indipendenza, ma precisa subito: una vittoria del no non avreb-be niente di tragico. Sulla base degli accordi, si potranno organizzare due altri referendum: nel 2020 e nel 2022. E poi, «non si possono taglia-re i rapporti con la Francia, dice. Guardiamo la carta geografica, in confronto alle grandi nazio-ni siamo un granello di polvere. Ci sono compi-ti che non possiamo esercitare». Assicura: «Lo sguardo dello Stato francese sulle popolazioni locali è cambiato dopo il massacro di Ouvea [di-ciannove morti fra i militanti indipendentisti e sei fra i gendarmi nell’aprile-maggio 1988]».

Non tutti condividono quest’analisi. Si avanza-no diverse ragioni per spiegare quello che, per gli indipendentisti, potrebbe essere un primo ap-puntamento mancato. La stanchezza, in primo luogo, di fronte a questa lancinante questione istituzionale che, rimasta in sospeso, sclerotizza la vita politica locale da trent’anni. Il voto sembra arrivare fuori tempo. «Forse avremmo dovuto indire questo referendum venti anni fa, confida, uscendo da una riunione elettorale di quartiere, Roch Wamytan (Union calédonienne), che nel 1998, come presidente del Flnks fu fra i firmatari dell’accordo di Numea. Lo avremmo perso, pro-babilmente, ma questo non ci avrebbe impedito di negoziare l’accordo.»

Alcuni si lamentano per la vacuità della cam-pagna, mentre il giornale satirico locale, Le Chien bleu, prende in giro la classe politica per la sua età e per l’assenza di rinnovamento dall’e-poca degli «événements». Agli occhi di un buon numero di elettori incontrati, i politici sono trop-po anziani, invischiati in battaglie di tipo perso-nalistico, troppo divisi. E in più, nel caso degli in-dipendentisti, troppo imborghesiti e lontani dalla realtà sul campo.

Negli anni, le riforme hanno creato incarichi, assegnato automobili di servizio, stipendi, viag-gi completamente spesati in Francia, posizioni di privilegio. «Rentiers della lotta», riassume Pa-scal Hébert, ex segretario generale della Fede-razione delle opere laiche (3). Pierre Gope, re-gista kanak, li ha stigmatizzati nella sua ultima opera, Moi… je vote «blanc», dove invita tutti a partecipare al voto. «I nostri politici sono deboli, dice, precisando di non sapere ancora per chi votare. Non ci sono più leader in grado di gui-dare. I nostri vecchi sono vecchi, e sono prima di tutti eletti della Repubblica che non si vedono più nelle tribù.» Nella sua opera, per constatare il degrado, ha convocato una figura intoccabile

del pantheon kanak: Yeiwéné Yeiwéné, braccio destro del leader storico del Flnks, Jean-Marie Tjibaou; entrambi furono assassinati nel 1989.

«Siamo intrappolati in questa questione dell’in-dipendenza. Che nervi!» esclama Alcide Ponga, sindaco (Le Rassemblement – Les Républicains) di Kouaoua, sulla costa orientale, membro di una famiglia kanaka lealista da lunga data. Puntua-lizza: «Non è la classe politica a invecchiare, ma le questioni politiche che si ripropongono!». Nel quartiere del Sixième Kilomètre, a nord di Nu-mea, Kevin Rolland, 30 anni, cassiere precario, non la pensa diversamente. Artista squattrinato, usa come nome d’arte Kidam, il poeta rap che, in un videoclip improvvisato fra amici, canta De-main, un futuro che mette al centro meticciato e solidarietà: «Con voi ma non senza di noi». Per lui, «le persone se ne frega-no [del referendum, al quale egli stes-so non parteci-perà], e prima di tutto si fanno domande re-lative alla vita quotidiana».

Una realtà che ogni mat-tina alimenta sfoghi rabbiosi alla radio: il costo della vita (il 33% più cara che nella metropoli, il 73% quanto ai pro-dotti alimentari [4], quando i salari minimo e medio sono del 20% più bassi); l ’ i n t ro duz io -ne, da ottobre, di una tassa generale sul consumo (Tgc) (simile alla tassa sul valore aggiunto Tva), ritenuta infla-zionistica perché ci sono commercianti che la aggiungono ai prezzi anziché sostituir-la alle tasse in vigore; le difficoltà scolastiche, l’a-nalfabetismo (il 33% della popolazione ha difficoltà nella lettura [5]). Ma anche l’accesso ad alloggi e trasporti, e ai posti di responsabilità (solo tre kanak su un centinaio di avvocati alla camera pe-nale di Numea, tre insegnanti-ricercatori su un centinaio all’università), la mancanza di senso civico, l’insicurezza…

Una mattinata al tribunale penale, dove la giu-stizia è bianca e l’imputato quasi esclusivamente non bianco, dà un’idea dei flagelli che colpiscono le tribù e i quartieri poveri della città (il 40% dei kanak vive oggi nel Grand Numea e rappresen-ta un quarto della popolazione urbana): violenze contro le donne, automobili della polizia prese a sassate, minacce a mano armata in stato di ubriachezza… Ogni anno, oltre cinquemila ver-bali per ubriachezza in luogo pubblico, pari al 20% del totale individuato dalla polizia nella me-tropoli. Nei supermercati, in alcuni giorni e ore, gli scaffali degli alcolici sono tenuti chiusi a chiave.

«La prossima rivoluzione sarà sociale»

La piccola delinquenza alcolizzata, «cannabi-sizzata», diffusamente raccontata sui giornali, presente in ogni conversazione, incredibilmente visibile lungo le strade, disseminate di veicoli ab-bandonati o carbonizzati, mina la vita della col-lettività. I furti con scasso e quelli di automobili sono il doppio della media francese per abitante. Nella penisola di Nouville, il centro penitenziario Camp Est, sovraffollato, registra una presenza di kanak pari al 95%, soprattutto minori. Attacchi a dispensari, locali pubblici, negozi riempiono le cronache. Non mancano le sparatorie contro gli autoveicoli a notte fonda. Tutto questo nutre il timore di violenti disordini dopo il referendum.

Gli assistenti sociali rivelano un altro aspetto del contesto: disoccupazione (11,6% nel 2017), assenza di dispositivi per l’inserimento dei giova-ni e per interventi sociali tipo il reddito di solida-rietà attiva (Rsa), salvo a favore dei disabili e, di recente, degli anziani. Le disuguaglianze sociali qui si sovrappongono alle divisioni etniche. Le

disuguaglianze di reddito sono due volte supe-riori rispetto alla metropoli; il 10% più ricco ha un livello di vita 7,9 volte superiore al 10% più pove-ro (6). «Con simili differenze, dice Muriel Guillou, c’è un malessere percepibile. I poveri non sono riconosciuti, si sentono discriminati. Ciascuno ha difficoltà a riconoscere il posto dell’altro.» A Numea, quelli che camminano in ciabatte lungo la via per tornare agli «squats» (bidonville) hanno tutti la pelle dello stesso colore. Questo fa dire a Poigoune: «La prossima rivoluzione non sarà nazionalista ma sociale».

«Il sistema capitalistico perpetua quello coloniale»

«Finché la scuola sarà una macchina di riprodu-zione sociale, i kanak non potranno pretendere l’eguaglianza», afferma l’economista Samuel Gorohouna, 36 anni, uno dei pochi docenti ka-

nak all’università di Nuova Caledonia. Nella sua tribù di Poindah, a Koné, la capitale della provincia Nord, dove pullulano i cantieri ur-bani e dove nel 2019 aprirà una sede univer-sitaria distaccata, mostra i resti della barac-ca di argilla e lamiera nella quale è cresciuto

con i suoi fratelli. E racconta la sua vita quotidiana da bambino: niente tavolo, una lanterna per l’illuminazione, nien-

te acqua corrente fino agli anni 1990, la prima televisione per i mondiali di calcio del 1994… e adesso, Facebook e la 3G! «Lo si dimentica, os-serva, ma veniamo da molto lontano.»

«Non si eliminano le conseguenze della colo-nizzazione in una generazione!», avverte Nicolas Kurtovitch, scrittore ed ex direttore del liceo pri-vato protestante Do Kamo, a Numea. La città è sempre più meticcia, i cambiamenti sociali enor-mi. La dinamica è buona.» Invita a osservare la diversità nelle strade, nelle scuole, nei cinema: «A Do Kamo, nel 1989 non c’era un solo pro-fessore kanak; oggi sono quindici su cinquan-ta». All’Alto Commissariato della Repubblica ri-

NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto12

UNA SOCIETÀ ANZITUTTO PREOCCUPATA

«Volete che la Nuova Caledonia acceda alla piena sovranità e diventi indipendente?» È la domanda rivolta, il 4 novembre, a un corpo limitato di elettori del territorio, nel primo referendum per l’autodeterminazione previsto dall’accordo di Noumea. Ma la questione dell’indipendenza, in sospeso da trent’anni, importa meno dei mali della società, ai quali i politici tardano a dare risposta

dal nostro inviato speciale JEAN-MICHEL DUMAY *

* Giornalista. L'articolo è stato scritto prima del referendum del 4 novembre che ha detto no all'indipendenza dalla Francia.

Page 13: n diploteca · del Paese al primo posto. Attaccata dai democratici e dai media statunitensi per l’avvicinamento alla Corea del Nord, giudicato im-prudente, la Casa bianca sarebbe

Récifs d’Entrecasteaux

Costa ovest

Grande Laguna nord

Ouvéae Beautemps-Beaupré

Costa norded est

Grande Laguna sud

Poum

Bélep

Koumac

Kaala-Gomen

Voh

KonéPouembout

PoyaBourail

MoindouLa Foa

SarraméaFarino

Boulouparis

PaïtaGrande Numea

Dumbéa

Numea

Yaté

Thio

Canala

Houaïlou

Ponérihouen

Poindimié

TouhoHienghène

Pouébo

Ouégoa

Fayaoué

Tadine

MARÉ

LIFOU

OUVÉA

GRANDETERRA

ISOLA DEI PINI

Vao

TIGA

Kouaoua

Mont-Dore

ISOLE BÉLEP

Paici-Camuki

Djubéa- Kaponé

Hoot Ma Waap

Drehu

Nengone

Iaai

Ajië-Aro

Xârâcùù

Koniambo

Vale Goro

Doniambo

PROVINCIA DELLE ISOLE DELLA LEALTÀ

PROVINCIANORD

PROVINCIASUD

O C E A N O PA C I F I C O

Mar del Corallo

Baia di Santal

Baiadi Harcourt

Canale della Havannah

Fonti: governo della Nuova Caledonia; Atlas de la Nouvelle-Calédonie,Istituto di ricerca per lo sviluppo (Ird), 2013; Agenzia per lo sviluppo rurale e il riassetto fondiario (Adraf);delegazione Ifremer della Nuova Caledonia; Istituto di statistica e studi economici Nuova Caledonia (Isee). CÉCILE MARIN

Limite dell'area consuetudinaria

20.00010.000

2.000600

Popolazione kanak

Principali risorse

Statuto fondiario delle terre

Consiglio consuetudinario

Parte dellapopolazione kanak

I con�ni dei comuni sono tracciati in bianco.

Zona lagunarePatrimonio mondialedell’Unesco

Miniera Estrazione di nickel

Fabbrica di trattamento

Terre demaniali

Terre private

Terre comunitarie Zona di altitudinesuperiore a 500 m

Industria dei gamberetti

Turismo

Incubatoio, acquacolturaFabbrica di condizionamentoo trasformazione

Scalo di navi da crociera

180.000

Popolazione comunale

Con�ne di provincia

0 50 100 km

Europei

27%(74.200)

Wallisianie Futuniani

8%

Comunitàplurime 9%

Altre comunità 17%

Kanak 39%(105.000)

Popolazione della Nuova Caledonia Categorie socioprofessionali268.800 abitanti Europei Kanak

0,7

In percentuale della popolazione attiva occupatadi più di 15 anni in ciascuna comunitàFonte: Isee, censimento 2014.

6,5 Contadini

15,1 3,9Artigiani, commerciantie imprenditori

19,6 2,7Quadri e professioniintelletuali superiori

31,9 14,8Professioniintermedie

22,5 35,8Impiegati

10,2 36,4Operai

16.730 km

Parigi

Numea

in Nuova Caledoniamangono prudenti. È difficile parlare di «fusione sociale» per l’insieme del territorio. Il razzismo permea le reti sociali. E possono ripetersi episo-di di tensione fra le comunità; come a Ouegoa, nel nord della Grande Terra, agli inizi di ottobre, quando i caldoche hanno impedito lo svolgersi di una riunione del Flnks.

«In effetti, continua Kurtovitch, il retaggio co-loniale è diventato una problematica sociale. A fare la differenza non è il colore della pelle, ma il potere d’acquisto.» È d’accordo Roch Apikaoua, prete kanak e vicario generale della diocesi di Numea: «Molte cose sono cambiate in trent’an-ni, ma i capitali sono rimasti dalla stessa par-te!». E poi: «Il nostro modo di nutrirci, di vestirci [all’occidentale] ci mantiene nel sistema. E per-ché uscirne se ci si sta così bene? È il sistema capitalistico a perpetuare il sistema coloniale». Davanti all’hotel Le Méridien di Numea, i militanti dell’Unione sindacale dei lavoratori kanak e degli sfruttati (Ustke), i quali rivendicano l’accesso di kanak a incarichi di responsabilità, non possono che approvare.

Constatava poco prima della sua morte Mi-chel Levallois, alto funzionario che rappresenta-va la memoria storica degli ultimi cinquant’anni: «In realtà, a favore della dinamica del “destino comune” dell’accordo di Numea è stata avviata una politica di rafforzamento dell’autonomia del territorio che non ha preparato all’accesso ad una sovranità piena. C’è stato un consolidamen-to della situazione coloniale a vantaggio dei non kanak (7)». Di fatto, la provincia Sud dove vivo-no i tre quarti della popolazione, a maggioranza bianca, ampiamente soddisfatta dell’autonomia accordata dall’accordo di Numea, mantiene il controllo del territorio.

La «strategia nickel» del Flnks, legata al prez-zo fluttuante del metallo, sceso con la crisi del 2007, non è riuscita a convincere appieno. Poi-ché l’isola metallifera ha il 10% della produzione e, potenzialmente, dal 10 al 30% delle riserve mondiali, gli indipendentisti hanno puntato sulla

costruzione di impianti metallurgici concorren-ziali a livello internazionale (sul territorio, in Corea del Sud e in Cina) per finanziare l’indipendenza. Il settore miniere-metallurgia (fra il 5 e il 10% del Pil, e il 14% dei posti di lavoro) ha trainato quello delle costruzioni e dei lavori pubblici e ha portato dinamismo nella provincia Nord. Ma è innega-bile la difficoltà a sviluppare attività esportatrici durevoli ad alto valore aggiunto (salvo l’espor-tazione dell’olio di sandalo), e soprattutto non si può nascondere il peso, nell’economia, dei trasferimenti pubblici netti dalla metropoli, pari al 13% del Pil (8). Lo Stato francese paga 6.700 funzionari, in primo luogo nell’istruzione. In caso di indipendenza, secondo l’Alto commissariato, occorrerebbe raddoppiare la fiscalità locale per assicurare lo stesso livello di servizi.

«I kanak dovrebbero essere al centro»

Peraltro, nel dibattito pubblico alcuni argomenti importanti sono poco presenti – o in ogni caso lo sono meno della piccola delinquenza: la con-centrazione delle attività economiche nelle mani di una decina di grandi famiglie, gli oligopoli che gonfiano i margini di profitto, la porosità fra il mondo politico e quello degli affari… Ma l’Autori-tà per la concorrenza, appena nata, indipenden-te, potrebbe portare trasparenza. Si parla anche delle quote d’importazione, che producono ca-renze e fanno salire i prezzi, e la remunerazione eccessiva dei funzionari dello Stato, estesa alla funzione pubblica locale, anch’essa inflazioni-stica, che acuisce le disuguaglianze (a Numea i salari sono 1,73 volte quelli della metropoli, nell’interno 1,94) (9). Senza contare la fiscalità, che non è progressiva e pesa sui più poveri. Alla procura di Numea, ci si stupisce anche che le autorità non trasmettano alcun dossier relativo a frodi.

«Il significato dell’indipendenza non è più lo stesso nella sua portata simbolica, emotiva, af-fettiva, analizza l’antropologo Benoît Trépied (10). I bianchi non se ne andranno, la questione coloniale rimarrà. E un’indipendenza bianca non risolverebbe nulla.» Per questo, molti rimangono scettici: che cosa migliorerebbe con l’indipen-denza? L’identità e il ruolo dei popoli autoctoni sarebbero forse più rispettati?

L’accordo di Numea voleva risolvere la que-stione con il concetto di «destino comune» e l’introduzione di un Senato consuetudinario, consultivo, portando la consuetudine nel cuore delle istituzioni. In questo quadro, il Flnks pen-sava di poter convincere le «vittime della storia» – i discendenti dei condannati, e le etnie dell’A-sia e del Pacifico arrivate nel periodo coloniale, ammessi a partecipare al processo di autode-terminazione – ad aderire al progetto indipen-dentista, intorno al popolo originario kanak. Ma purtroppo, il partito che oggi ha il vento in pop-

pa è Calédonie ensemble (non indipendentista, destra moderata), la cui diversità risulta eviden-te dalle fotografie degli aderenti. La sua dina-mica è tutt’altra: pluriculturale, a maggioranza bianca, aperta al meticciato e al mosaico delle comunità (11).

Il risultato è la frustrazione. «Non siamo rico-nosciuti al 100%, lamenta Pierre Gope. Il popolo kanak doveva essere al centro e non lo è. Le ter-re, le miniere: niente lo avvantaggia davvero. E sono le tasse, ogni giorno, che gli impediscono di emanciparsi.» Il direttore dell’Agenzia per lo sviluppo della cultura kanak, Emmanuel Tjiba-ou, uno dei figli di Jean-Marie Tjibaou, ricorda quanto le violenze fatte al suo popolo, alla sua famiglia, siano presenti nei ricordi. Suo nonno aveva dieci anni quando i membri della sua tri-bù furono bruciati e fucilati nel corso delle rivol-te del 1917. Suo padre aveva dieci anni quando fu abolito il codice dell’indigenato, che privava i «sudditi francesi» delle libertà e dei diritti politici. Fa notare Tjibaou: «Usiamo la loro lingua [quella dei francesi e dei loro discendenti], ci adattiamo. Ma, al contrario, loro come manifestano oggi il riconoscimento della nostra cultura?». Gli sco-lari non studiano nella lingua materna. I libri di storia non parlano sempre degli «événements». «Come è possibile che la nostra storia non sia nemmeno raccontata nei libri?»

Per un popolo che attribuisce valore sacro al rapporto con la terra e alla cultura dell’igname, la questione delle norme (francesi od occidentali) si pone sempre. Le «leggi del paese», adottate dal Congresso, l’assemblea territoriale delibe-rante, sono spesso copiate sulle leggi metropo-litane. E, fa notare Hamid Mokaddem, filosofo e docente all’Istituto di formazione dei maestri, «pochi insegnanti si sforzano di applicare una pedagogia differenziata per allievi che hanno categorie diverse quanto al tempo, allo spazio, al rapporto con gli altri»: «Per esempio, i kanak non sono affatto interessanti alla competizione per il successo, la loro cultura li spinge piutto-sto a lavorare con gli altri. Bisogna spedirli dallo psicologo infantile se sono svogliati?». Rincara la dose Bernard Buzzi, direttore delegato all’inse-gnamento tecnologico e professionale del liceo Michel-Rocard a Pouembout: «Continuiamo ad andare avanti con un modello educativo che tra-scura la loro cultura».

«La mentalità coloniale non è finita!», insiste Pascal Sawa, trentenne sindaco (Union calédo-nienne) di Houaïlou, sulla costa est, dove dove più che altrove, fra gli alberi e sui ponti, svento-lano bandiere e stendardi di Kanaky. «La Fran-cia continua a condurre il gioco e non si riesce a costruire un “destino comune”. Dunque noi, in quanto popolo, abbiamo il diritto all’autodeter-minazione.» E continua: «Ciò che abbiamo otte-nuto è sempre stato frutto di lotte politiche. La destra locale si è sempre opposta».

E tuttavia, «la classe politica kanak non ha

avviato quel cambiamento di direzione che per-mette di precisare in che senso l’indipendenza potrà essere kanak o espressione dell’identità kanak», secondo Raphaël Mapou, portavoce del Palika dal 1989 al 1998. Militante per l’indi-pendenza dalla traiettoria ondivaga, da tempo ha abbandonato l’idea per la quale occorreva «ancorarsi alla lotta delle classi per cambiare la società e decolonizzarsi». Ha riorientato la sua azione verso un’altra traiettoria: quella dell’au-toctonia, cioè il riconoscimento dei diritti dei po-poli autoctoni; vi si ispirano, ad esempio, gli Inuit del Canada. La dichiarazione sui diritti degli au-toctoni adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 2007 (e sostenuta dalla Francia) riconosce in particolare il loro diritto all’autode-terminazione, alle risorse naturali che si trovano sui loro territori, a non subire espulsioni, a deter-minare liberamente il loro sviluppo economico e sociale, ecc.

«Desiderio di riorientarsi verso l’autoctonia»

Mapou, consigliere speciale del Senato consue-tudinario fino a settembre 2018 e novello dotto-re in legge, ha cercato invano, con l’appoggio di giuristi metropolitani, di rafforzare il potere di quest’istituzione. Nel 2014, è stata adottata una Carta del popolo kanak, frutto delle riflessioni delle autorità delle otto aree consuetudinarie, base possibile di una nuova Costituzione. Il Con-gresso non l’ha mai riconosciuta. I partiti politici, compresi quelli indipendentisti, hanno in seguito preferito una Carta dei valori neocaledoni (12). «La classe politica pensa di poter decolonizzare solo attraverso i partiti e le istituzioni repubblica-ne. Non basterà», ritiene Mapou.

«In che modo si può essere nazionalisti in un paese nel quale si è minoritari?, si chiede dal canto suo Fara Caillard, figura del femminismo della Nuova Caledonia. Si sente il desiderio di riorientarsi verso l’autoctonia, uno strumento per resistere.» In quest’ondata di autoctonismo, alcuni comitati locali insorgono contro i disa-stri minerari, le devastazioni del territorio e la scarsa ricaduta sulle popolazioni. Quest’estate, a Kouaoua, un collettivo ha fatto archiviare un progetto di sfruttamento su un «sito tabù», ricco di eucalipti autoctoni ed essenze rare. I membri del collettivo bloccano con il loro accampamen-to l’entrata alle miniere, opponendosi al tempo stesso ai politici e alle autorità consuetudinarie che avevano dato il via libera il progetto: «Niente da fare. Bisogna rispettare la parola dei vecchi che tanto tempo fa ci hanno detto che là non si deve andare». In città, i giovani del collettivo Maintenant c’est nous, espressione della «ge-nerazione Matignon» nata dopo gli accordi, so-gnano una società «più giusta e solidale». Là, fra i pini araucaria e gli alberi di cocco, c’è molto da smuovere.

JEAN-MICHEL DUMAY

(1) Si legga Alban Bensa ed Eric Wittersheim, «In Nuova Caledonia, la società in ebollizione, la decolonizzazione in sospeso», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2014.

(2) Jean Courtial e Ferdinand Mélin-Soucramanien, «Réfle-xions sur l’avenir institutionnel de la Nouvelle-Calédonie», rapporto al primo ministro, La Documentation française, Pa-rigi, ottobre 2013.

(3) Cfr. Pascal Hébert e Ulysse Rabaté, «Référendum en Kanaky Nouvelle-Calédonie: déjà le goût amer d’un rendez-vous manqué...», Aoc, 17 ottobre 2018, https://aoc.media

(4) Istituto di emissione d’Oltremare (Ieom), Parigi.

(5) Osservatorio sulla riuscita educativa in Nuova Cale-donia.

(6) Istituto di statistica e studi economici Nuova Caledonia (Isee), Numea, 2008.

(7) Michel Levallois, De la Nouvelle-Calédonie à Kanaky. Au coeur d’une décolonisation inachevée, Vents d’ailleurs, La Roque-d’Anthéron, 2018.

(8) Catherine Ris, Alain Trannoy ed Étienne Wasmer, «L’éco-nomie néo-calédonienne au-delà du nickel», nota del Consi-glio di analisi economica, n. 39, Parigi, marzo 2017.

(9) Jean-Christophe Gay, La Nouvelle-Calédonie, un destin peu commun, Ird Éditions, coll. «Focus », Marsiglia, 2014, e Séverine Bouard, Jean-Michel Sourisseau, Vincent Géronimi, Séverine Blaise e Laïsa Roí (a cura di), La Nouvelle-Calédonie face à son destin. Quel bilan à la veille de la consultation sur la pleine souveraineté?, Karthala, coll. «Hommes et sociétés», Parigi, 2016.

(10) Cfr. Christine Demmer e Benoît Trépied (a cura di), La Coutume kanak dans l’État. Perspectives coloniales et post-coloniales sur la Nouvelle-Calédonie, L’Harmattan, coll. «Cahiers du Pacifique Sud contemporain», hors-série no 3, Parigi, 2017.

(11) Cfr. Catherine C. Laurent, Calédoniens, Ateliers Henry Dougier, coll. «Lignes de vie d’un peuple», Parigi, 2017.

(12) Christine Demmer, «Un peuple calédonien? Le référen-dum d’autodétermination en Nouvelle-Calédonie», La Vie des idées, 29 mai 2018, https://laviedesidees.fr, e François Féral, «L’adoption de la Charte du peuple kanak de Nouvel-le-Calédonie», www.legitimus.ca.

(Traduzione di Marianna De Dominicis)

Le Monde diplomatique il manifesto NOVEMBRE 2018 13

PER IL COSTO DELLA VITA E LE DISUGUAGLIANZE

165 anni di presenza francese1853. La Francia prende possesso del

territorio. 1863. La Nuova Caledonia viene dichiarata

colonia penitenziaria (fino al 1931). 1878. Insurrezione dei kanak e morte del

grande capo Ataï, decapitato. 1887. Regime dell’indigenato (fino al 1946).1917. Rivolte nella Grande terra. 1969-1975. Boom del nickel.1969. Creazione dei Foulards rouges,

associazione politica di studenti kanak che contestano l’autorità della metropoli.

1975. Il festival Melanesia 2000, animato da Jean-Marie Tjibaou, afferma l’identità kanak.

1977. L’Union calédonienne si schiera per l’indipendenza.

1984. Creazione del Fronte di liberazione nazionale kanak e socialista (Flnks).

1984-1988. Periodo chiamato degli «événements» («i fatti», oltre settanta morti), che sfocia nella presa di ostaggi e nell’assalto a Ouvéa.

1988. Accordi di Matignon-Oudinot.1998. Accordo di Numea. La Nuova

Caledonia diventa una collettività specifica della Repubblica francese dotata di un’autonomia progressivamente ampliata.

4 novembre 2018. Referendum.

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Il fallimento

NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto14

UN’IDEOLOGIA COMPROMESSA

Fino al crepuscolo dell’Impero ottomano (1299-1924), che è stato l’ultimo califfato islamico

significativo (1), i musulmani hanno costruito la loro identità su una dualità di religione e politica incarnata dalla umma. Questo termine designava la comunità dei credenti e allora com-prendeva la totalità dell’islam e delle sue realizzazioni umane. Era un insie-me atemporale che si estendeva in tut-to il mondo conosciuto, rappresentan-do il passato e il futuro dei musulmani senza limiti spaziali o frontiere. Non era né uno Stato né una teocrazia, ma una collettività basata sulla fede.

Questa visione del mondo è cambiata radicalmente con l’affermazione delle ambizioni egemoniche occidentali e la caduta dell’Impero ottomano, che ha portato all’abrogazione del califfato da parte della Grande Assemblea turca nel 1924. Attraverso l’imperialismo e la guerra, i modi di pensare occidentali sono penetrati in profondità nel mondo musulmano, soprattutto nei paesi del Medio oriente. Così gli ottomani, ormai in declino, hanno fatto propri i modelli militari europei, mentre i territori colo-nizzati sono stati integrati nei circuiti di produzione economica occidentale. Le tradizioni giuridiche europee, artico-late in regole circoscritte e costruzioni legali sistematiche, si sono aggiunte alla tradizione della sharia islamica, che all’epoca lasciava ampio spazio all’adattamento, come spina dorsale co-stituzionale dei nuovi Stati-nazione. In questa nuova era, la umma e una certa fluidità religiosa e politica hanno fatto posto a istituzioni codificate e a confini territoriali.

Un punto di convergenza

Reagendo al declino del mondo isla-mico (inhitat) e alle insistenti pres-sioni dell’Occidente, alcuni pensatori musulmani di fine Ottocento hanno reinterpretato la propria fede e i testi coranici in vista di una rivitalizzazio-ne della loro religione. Ad esempio, Jamal al-Din al-Afghani e Muham-mad ’Abduh hanno tentato un’esegesi dell’islam proponendo un adattamento della vita musulmana alle norme do-minanti della modernità economica e politica. Questi teologi riformatori non si sono mai definiti «salafiti», ter-mine di cui alcuni ricercatori occiden-tali in seguito avrebbero abusato. Per loro si trattava soprattutto di promuo-vere una riforma religiosa attraverso cambiamenti dottrinali, tornando alle fonti che erano state trascurate e dif-fondendo nuove terminologie (2).

Nel tentativo di «salvare» l’islam, questi riformisti, che si inscrivevano nel movimento politico, culturale e religioso della Nahḍa («rinascita»), l’hanno involontariamente decentrato. Le verità canoniche di questa religio-ne, e più ancora la umma, hanno smes-so di essere dei punti di riferimento obbligatori. L’islam è stato giudicato unicamente in base alla sua capacità di emulare i risultati occidentali. L’esi-genza di un adattamento della religio-ne musulmana a uno standard europeo è stata accompagnata dalla creazione di nuove entità statali in tutto il Medio oriente post-ottomano. I regimi repub-blicani o monarchici emersi all’epoca non erano dei nuovi esempi di leader-

ship islamica, ma piuttosto delle repli-che del dispotismo occidentale milita-rizzato del diciannovesimo secolo.

Il decentramento dell’islam dai suoi parametri di riferimento iniziali ha la-sciato un segno importante. All’inizio del ventesimo secolo, la religione mu-sulmana costituiva un punto di conver-genza per gli oppositori dell’influenza occidentale che rifiutavano i progetti di riforma e di adattamento alla mo-dernità. Questa politicizzazione dell’i-slam ha trasformato la fede in uno strumento di lotta antimperialista. Ha altresì spinto una nuova generazione di militanti a pensare che l’islam, lun-gi dall’essere al traino dell’Occidente, dovesse costituire un contro-modello in grado di liberare i musulmani dalla loro presunta arretratezza, diventando il loro scudo contro l’influenza della cultura occidentale. Un motivo in più, a loro avviso, per studiare i testi sacri.

Questo sviluppo ha dato origine all’i-slamismo, un’ideologia che mescolava religione e politica in un modo molto più pronunciato rispetto al classico ca-none islamico da cui sosteneva di trarre ispirazione. Contrariamente alla rela-zione fluida tra religione e politica che esisteva nell’islam dei primi secoli, i movimenti islamisti, incarnati in parti-colare dai Fratelli musulmani egiziani, hanno imposto un ideale rigido. Sotto la loro bandiera, i fedeli non si chiedevano più che tipo di musulmani dovessero essere; rifiutando le tradizioni intro-spettive e filosofiche dell’islam origina-le, si sono dovuti accontentare di saper distinguere tra il musulmano e il non-credente. Termini come jihad («sforzo per migliorare sé stessi», «guerra giu-sta») e takfir («scomunica»), concetti sepolti nella giurisprudenza islamica, sono stati dissotterrati e reinventati per giustificare la resistenza e la lotta in un mondo binario caratterizzato dall’op-posizione tra islam e Occidente (3). Gli islamisti non vedevano più la loro religione come un’entità atemporale e senza confini, rappresentante l’insieme della sovranità di Dio e della sua crea-zione umana. Al posto di tutto questo, il loro obiettivo, liberato da ogni ambi-guità, è diventato la conquista del pote-re politico.

La forte diffusione dell’islamismo nella seconda metà del ventesimo se-colo è stata resa possibile dal declino del nazionalismo arabo come ideologia

dominante. La sconfitta della coalizio-ne araba durante la guerra del 1967 contro Israele ha inferto un duro colpo agli ideali nazionalisti e unitari, men-tre la rivoluzione iraniana del 1979 li ha relegati definitivamente in secondo piano: la caduta dello scià ha dimostra-to che dei militanti mossi da credenze religiose potevano abbattere potenti regimi autoritari sostenuti dalla più grande potenza occidentale.

Oggi si può dire che l’islamismo non sia riuscito a realizzare la sua promes-sa utopica. I suoi movimenti nel mon-do arabo, tranne in alcuni paesi come la Tunisia, sono stati neutralizzati o sono in crisi. La guerra civile algeri-na degli anni 1990 è stata la prima di diverse sconfitte, come quelle seguite alla «primavera araba» del 2011. In Egitto, i Fratelli musulmani hanno governato il paese in modo disastroso prima di essere rovesciati nel luglio del 2013 da un colpo di Stato militare (4) seguito da una repressione ininter-rotta contro i membri della fratellan-za. In Iraq, in Siria e nello Yemen, le forze islamiste hanno svolto un ruolo marginale nella promozione della de-mocrazia e hanno dovuto nascondersi dietro alla lotta contro l’estremismo violento. In Marocco, in Giordania e nel Kuwait, i partiti islamisti legali hanno riportato successi elettorali, ma operano in parlamenti addomesticati e si sono trasformati in forze politiche innocue che agiscono all’ombra di mo-narchie potenti, ancora detentrici di un potere assoluto.

Il fallimento del modello islamista

si manifesta in tre modi. Innanzitutto, i suoi movimenti non sono riusciti a escogitare soluzioni sociali ed econo-miche significative che vadano al di là dei meri slogan. Proclamare «L’islam è la soluzione e il Corano la nostra Costituzione» è poca cosa rispetto all’innovazione e alla proposta di poli-tiche pubbliche finalizzate a risolvere i problemi che i regimi autoritari non sono stati in grado di affrontare: au-mento della povertà, disoccupazione di massa, sistemi educativi inefficien-ti, corruzione endemica. In Marocco, ad esempio, il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Pjd), come i Fratelli mu-sulmani egiziani quando sono stati al potere, persegue strategie economiche elaborate da tecnocrati soggetti alle pressioni delle istituzioni finanziarie internazionali. Questo dimostra che la dottrina islamista non ha una propria teoria della produzione e, di conse-guenza, una visione del ruolo che lo Stato dovrebbe svolgere nella ristrut-turazione dell’economia.

In secondo luogo, i partiti islamisti, a eccezione della Tunisia, non hanno sa-puto portare avanti politiche inclusive e democratiche. L’obiezione secondo cui non avrebbero mai potuto governare davvero e dimostrare la loro apertura non regge. In Egitto, i Fratelli musul-mani sono sembrati più attaccati al pro-prio potere incontrastato che al plurali-smo e il loro ostracismo nei confronti delle personalità che raccomandavano la preservazione di uno Stato laico ha fornito all’esercito, che non aspettava altro, un pretesto per rovesciare il pre-sidente Mohamed Morsi.

Terzo, gli islamisti di tutto il mon-do hanno dimostrato di non essere al di sopra delle manovre politiche. Lad-dove hanno costituito gruppi di oppo-sizione legale, si sono a volte alleati con correnti autoritarie, decisione che ha appannato la loro immagine di for-mazioni antisistema. In Egitto, dopo la caduta del presidente Hosni Mubarak nel febbraio 2011, i Fratelli musulma-ni hanno coltivato i loro rapporti con l’esercito, rifiutandosi di discutere con tutti gli altri attori politici. In Maroc-co, il Pjd è più interessato ad avere buoni rapporti con la monarchia – che gli garantisce nuove risorse e visibilità politica – che a reclamare la riforma del regime. Dopo la sua vittoria alle elezioni legislative del 2011, il partito ha dimostrato di subordinare il suo discorso religioso alle esigenze del potere, rispolverando principi come la nasiha («buon consiglio») e la ta’a («obbedienza come virtù»). I principi fondamentali a cui si richiamava pre-cedentemente, come la difesa dei di-ritti umani e la libertà di espressione, sono stati relegati ai margini. Inoltre, il Pjd non può propugnare un cam-biamento democratico e delle riforme costituzionali evitando però di con-

testare il diritto supremo del sovrano a deliberare su certe questioni. Oggi, l’alleanza con la casa regnante; doma-ni, forse, con l’esercito reale; infine con i fulul (i sostenitori del passato regime autoritario in Egitto). Soddi-sfatto del suo consistente peso eletto-rale, il Pjd, da partito di opposizione, è diventato un partito di governo. La politica marocchina, tuttavia, è rima-sta la stessa.

Ormai gli islamisti sono profonda-mente coinvolti nelle divisioni geo-politiche e nei conflitti settari che infiammano il mondo arabo. Di con-seguenza, la loro aspirazione a tenersi al di fuori delle contingenze quotidia-ne della modernità postcoloniale, so-stenendo al contempo la visione puri-ficata di una prospera indipendenza, risulta sempre meno credibile.

Bigotteria di Stato

Questo problema è ben illustrato dal caso del Libano. In Libano Hezbollah è apparso come il braccio armato del-la rivoluzione iraniana, intenzionato a portare avanti una politica radica-le caratterizzata da una prospettiva ideologica sciita. Poco dopo la sua fondazione, questo partito si è trasfor-mato in un movimento nazionalista in lotta per liberare il territorio libanese dall’occupazione militare israeliana. Allora lo si poteva considerare come un movimento islamista tra gli altri, con una sua base popolare. Oggi, con il patrocinio iraniano, Hezbollah so-stiene ancora di combattere in nome della nazione libanese, ma in pratica è impegnato a combattere in Siria con-tro le forze sunnite, di qualsiasi prove-nienza esse siano (5). In questo paese, il «partito di Dio» ha assunto il ruolo di combattente sul campo di battaglia dell’apocalisse. Pertanto, più che un movimento islamista preoccupato per il futuro politico ed economico del Libano, Hezbollah è un’entità transna-zionale che desidera accompagnare il mahdi (salvatore atteso dai musulma-ni) in terra straniera.

Gli islamisti si presentano spesso come vittime dell’oppressione occi-dentale o dell’ostracismo dei regimi autoritari. Ma, allo stesso tempo, invi-tano i fedeli a rimediare a questi mali in modo aggressivo, diffondendo il credo islamista per conquistare il po-tere politico. Di fatto, sono il prodotto degli Stati autoritari cui sostengono di opporsi. E il loro discorso teologi-co relativo al governo democratico o allo sviluppo economico ha poco peso rispetto agli slogan sulla necessità di punire i miscredenti o di creare lo Sta-to islamico perfetto.

La Tunisia è l’unico caso di un paese arabo in cui l’esperienza degli islami-sti al governo sia stata un successo – un successo relativo, se si tiene conto della crisi economica (si legga l’arti-colo a pagina 11), dell’emigrazione, delle adesioni allo jihadismo, ecc. In questo paese, il movimento Ennahda e i suoi omologhi laici, come il partito Nidaa Tounes, hanno collaborato per garantire la pace e preservare la demo-crazia (6). Ennahda è una forza islami-sta importante, con un’ampia base po-polare e una leadership forte, mentre Nidaa Tounes e alcuni altri partiti non religiosi mettono insieme le correnti di sinistra e quelle nazionaliste, i rappre-sentanti del mondo degli affari e quel-lo che resta del regime del presidente decaduto Zine El-Abidine Ben Ali.

Ma il caso tunisino è l’eccezione che conferma la regola. Ennahda ha potuto avere successo solo beneficiando di un contesto particolare e mettendo a volte da parte il suo orientamento islamista. Dopo il gennaio 2011, la democratiz-zazione della Tunisia e l’inserimento di Ennahda nel gioco politico sono sta-ti accompagnati da un forte sostegno internazionale. Il partito di Rashid Ghannushi, a cui da decenni era im-pedito di presentarsi alle elezioni, si è evoluto assorbendo nuove idee esterne al canone islamista. Le sue vittorie

* Ricercatore associato presso l’università di Harvard (Stati uniti), autore di Journal d’un pince banni. Demain, le Maroc, Grasset, Pari-gi 2014. Questo testo si ispira a una conferenza tenuta dall’autore presso l’università della Cali-fornia, a Berkeley, il 10 ottobre scorso.

I movimenti che intendono fare dell’islam l’unica fonte in materia di legislazione non sono riusciti a conquistare il potere in modo duraturo. Combattuti da regimi autoritari interessati a loro volta a sfruttare il desiderio di religiosità, tali movimenti hanno perso credito cedendo ai giochi della politica e fallendo nell’elaborare delle misure economiche all’altezza delle sfide sociali

HICHAM ALAOUI *

PAUL KLEE, Hammamet e la sua moschea

PAUL KLEE, Kairouan

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Le Monde diplomatique il manifesto NOVEMBRE 2018 15

dell’utopia islamistaDALL’ESERCIZIO DEL POTERE

nelle elezioni legislative del 2014 e in quelle municipali del 2018, lungi dal portare a un dominio ideologico, sono state caratterizzate da un indeboli-mento delle esigenze religiose del par-tito in materia di norme costituzionali e politiche pubbliche. Imparando a se-parare il proprio messaggio religioso dalla vita politica e a lavorare gomito a gomito con formazioni non islamiste, Ennahda si è in un certo senso secola-rizzata, tanto più che ogni suo tentati-vo in senso contrario è stato arginato da un’ondata di opposizione popolare. Il disastroso contro-modello del colpo di Stato egiziano ha contribuito a in-centivare questa tendenza al compro-messo e alla prudenza.

In Tunisia, gli islamisti hanno finito per ammettere che le scelte dei rappre-sentanti eletti in materia di politica na-zionale ed estera non possono essere determinate da alcuna interpretazione dell’islam. Dal canto loro, gli eletti hanno capito che non si può ostacolare la pratica pacifica della religione, an-che nella sfera pubblica. L’islamismo può quindi percorrere la strada di que-sta doppia tolleranza, come già fanno altre religioni diverse dall’islam; ma a tal fine è essenziale che rinunci alle sue esigenze più intolleranti, lasciando che tutte le voci partecipino alla vita pubblica (7).

Queste dinamiche basate sul com-promesso, pur essendo respinte da molti islamisti, esistono fin dai primi tempi della civiltà musulmana. Seb-bene i testi coranici fossero conside-rati sacri, la loro interpretazione e la loro applicazione erano viste come atti umani che dovevano essere rego-larmente interrogati, discussi e rein-terpretati per favorire l’inclusione di tutti. È questo dialogo tra il sacro e il profano, tra l’umano e il divino, che incarna la dualità religiosa e politica dell’islam, non l’insistere sulla neces-sità di distruggere l’altro.

Se la soluzione non è nell’islamismo, dove la si può cercare? La «primavera araba» ha fornito una prima risposta sotto forma di politiche democratiche, sovranità popolare e rivendicazione di dignità. Con il ritorno di gran par-te della regione sotto il giogo dell’au-toritarismo, è diventato chiaro che gli islamisti non potevano svolgere il ruo-lo dei salvatori. La loro grande utopia, quella che prometteva la salvezza in cambio di un’adesione incondiziona-ta, è fallita. Ma anche l’altra utopia, quella democratica della «primavera araba», non ha trionfato.

I cittadini arabi hanno mantenuto il loro attaccamento alla fede, ma sono diventati «anticlericali» nel senso che respingono le autorità che pretendono di interpretarla. In effetti, si sentono alienati dalla strumentalizzazione del sacro e dall’idea che certe personalità – come i sovrani –, certi gruppi politici – tra cui gli islamisti stessi – e alcune istituzioni come il consiglio degli ule-

ma (esperti di giurisprudenza islami-ca), nominati dallo Stato, beneficino di uno status sacralizzato e reclamino a tale titolo obbedienza e rispetto. Que-sto rifiuto popolare indica non solo l’esaurimento dell’eredità della rivo-luzione iraniana, ma anche la fine del momento di gloria dell’islamismo.

I regimi, di conseguenza, hanno modificato le loro strategie finalizzate al mantenimento del potere. Attual-mente stanno cercando di colmare il vuoto causato da tre pressioni simul-tanee venute dal basso: in primo luo-go, il rifiuto anticlericale della propa-ganda islamista; in secondo luogo, il persistente desiderio di libertà demo-cratica nato dalla «primavera araba»; infine, l’attaccamento alla religiosità nella vita quotidiana. I regimi hanno quindi investito questo spazio norma-tivo imponendo le proprie interpreta-zioni della morale e della fede. Negli ultimi anni, sia nel Maghreb che in Medio oriente, i comportamenti fon-damentalisti si sono moltiplicati, che si tratti dell’obbligo di digiunare nello spazio pubblico durante il ramadan o del ruolo delle donne nella società.

Promulgando queste regole sociali in modo discrezionale, le autocrazie vanno incontro al conservatorismo più o meno dichiarato di ampi settori del-la società, reprimendo al tempo stesso il desiderio di emancipazione dei più giovani. Ma, sottomettendo gli spazi religiosi al potere dello Stato, questi regimi stanno ripetendo l’errore degli islamisti.

Tali interventi nella sfera religiosa comportano profonde implicazioni a lungo termine che non riguardano solo la religione, ma anche il futuro della democrazia e la stabilità della regione. Molti Stati hanno avuto tra i propri obiettivi la diffusione del loro islam ufficiale all’estero. Fino a poco tempo fa, il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), al potere in Turchia dal 2002, utilizzava la propria forza spirituale, tratta in parte dal movimen-to alleato di Gülen, per consolidare il proprio potere ed esportare la propria visione dell’islamismo (8). Da quan-do l’Akp ha dichiarato il movimento fuorilegge, la politica e l’ideologia del regime ruotano maggiormente attor-no alla figura del presidente Recep Tayyip Erdoğan.

Anche le monarchie stanno andando in questa direzione. L’Arabia saudita e il Marocco sono due esempi opposti di questa tendenza. Nel primo caso, i media hanno parlato diffusamente delle iniziative economiche e politiche del principe ereditario Mohammad bin Salman («MBS»). Sono in atto anche delle riconfigurazioni religio-se, sebbene meno visibili. Fino a poco tempo fa, l’alleanza tra la casa saudita e gli ulema wahhabiti, che incarnano un’ideologia salafita conservatrice, assicurava al regno un equilibrio isti-tuzionale: la monarchia conservava

la supremazia politica e avallava una struttura religiosa che in cambio go-deva di una preminenza teologica in campo giuridico e in materia di dottri-na islamica (9).

La nuova visione islamica del regi-me saudita ha rotto questo equilibrio. Sotto la guida del principe ereditario, il governo vuole controllare i wahha-biti e le decisioni religiose. Questo richiamo all’ordine ricorda la coopta-zione dell’Università al-Azhar da par-te dello Stato egiziano nel ventesimo secolo, su iniziativa di diverse ditta-ture militari. Eliminando l’autonomia dei religiosi, i leader sauditi fanno coincidere l’ambito islamico con quel-lo dell’apparato statale. Paradossal-mente, questo è uno dei pochi successi di bin Salman. Il suo tentativo di mo-dernizzare l’economia del paese tarda a produrre gli effetti desiderati, men-tre le sue imprese politico-militari in Qatar, Libano e Yemen stanno suben-do gravi battute d’arresto (10). Inoltre, l’omicidio, avvenuto ai primi di otto-bre, del giornalista Jamal Khashoggi non costituisce solo una terrificante violazione dei diritti umani, ma anche un fiasco in materia di politica estera.

Da parte sua, il Marocco cerca di te-nere la religione sotto il controllo dello Stato attraverso un approccio più mor-bido. Nel quadro della sua diplomazia religiosa, il potere politico marocchi-no ha una visione dell’islam basata su un asse nord-sud. Il primo obiettivo

è l’Europa, di cui Rabat si assicura il sostegno diffondendo il messaggio di un islam moderato, in grado di com-battere il radicalismo e il terrorismo. Il Marocco, ad esempio, forma una parte degli imam francesi. Il secondo obiettivo è fare del regno sceriffiano un nuovo centro di gravità economica e politica nel continente africano, con-trastando in questo modo l’influenza algerina.

Pressioni dai consolati

Il terzo obiettivo della diplomazia reli-giosa di Rabat è controllare meglio sul piano politico le comunità marocchine sparse per l’Europa. Così le istituzioni religiose, oltre a occuparsi di questio-ni legate alla fede, subiscono pressio-ni da parte dei consolati diplomatici marocchini e dei servizi di sicurezza interessati a influenzare chi vive fuori dal paese. Ma mentre all’estero viene data un’immagine di «moderazione», nel paese il bigottismo di Stato regna incontrastato. Con il pretesto di pro-teggere la morale pubblica, i consigli islamici ufficiali monopolizzano il di-battito religioso e combattono tanto la blasfemia quanto l’ateismo. Al colmo dell’ipocrisia (nifaq), reprimono anche l’adulterio e l’omosessualità.

Al di là di questi tre obiettivi im-mediati, la funzione ultima di questa strategia è rafforzare le basi dell’auto-

ritarismo tradizionale. L’islam maroc-chino attribuisce grande importanza alla posizione costituzionale del Capo dei credenti come massima autorità religiosa. Tuttavia questa istituzione, incarnata dal re, ha anche un obietti-vo politico: mantenere lo status quo attraverso il controllo dei religiosi e la neutralizzazione di quei movimenti democratici che intendono contestare lo Stato partendo dal basso.

Tutte queste configurazioni politi-co-religiose si scontrano però con tre ostacoli fondamentali. Innanzitutto, la prova dell’economia. In mancanza di una redistribuzione delle ricchezze, non ci si può aspettare una cieca ob-bedienza da parte degli attori sociali. In secondo luogo, queste articolazio-ni costituiscono un assemblaggio di idee religiose tenuto insieme solo dal potere politico; potranno quindi esse-re contestate in qualsiasi momento da persone competenti nella storia dell’i-slam e dotate di conoscenze teologiche coerenti. Non è una questione di seco-larizzazione, ma di monopolio dello spazio religioso. Infine, nel caso del Marocco, l’insistenza con cui Muham-mad VI cerca di proiettare un’imma-gine non tradizionale e personale è in aperta contraddizione con questa stra-tegia.

La nozione stessa di «moderazione» è intrinsecamente autocratica, perché richiede di dettare i limiti del discor-so religioso. Il vero obiettivo non do-vrebbe essere un islam moderato, ma un islam illuminato. E questa luce ha bisogno di un pensiero critico, che è il vero nemico di ogni autoritarismo.

HICHAM ALAOUI

(1) Tutte le note sono della redazione. Cfr. Na-bil Mouline, Le Califat. Histoire politique de l’islam, Flammarion, coll. «Champs Histoire», Parigi 2016.(2) Cfr. Mohammed Arkoun, Essais sur la pensée islamique, Maisonneuve et Larose, Pa-rigi 1973. (3) Cfr. Rudolph Peters, Jihad in Classical and Modern Islam: A Reader, Markus Wiener Pu-blishers, coll. «Princeton Series on the Middle East», Princeton 1996.(4) Si legga Alain Gresh, «En Égypte, la révolu-tion à l’ombre des militaires», Le Monde diplo-matique, agosto 2013. (5) Si legga Marie Kostrz, «Hezbollah: i libane-si che guidano il gioco», Le Monde diplomati-que/il manifesto, aprile 2016.(6) Si legga Pierre Puchot, «Le consensus pour sortir de la crise», in «Le défi tunisien», Ma-nière de voir, n° 160, agosto-settembre 2018.(7) Cfr. Alfred Stepan, «Tunisia’s translation and the twin toleration», Journal of Democracy, vol. 23, n.

2, Baltimora, aprile 2012.

(8) Cfr. per esempio Gabrielle Angey, «La re-composition de la politique étrangère turque en Afrique subsaharienne. Entre diplomatie publi-que et acteurs privés», nota dell’Istituto france-se per le relazioni internazionali (Ifri), Parigi, marzo 2014. (9) Cfr. Natana J. Delong-Bas, Islam wahhabi-te, Erick Bonnier, coll. «Encre d’orient», Parigi 2018.(10) Si legga Gilbert Achar, «Crisi della strate-gia saudita in Medioriente», Le Monde diplo-matique/il manifesto, marzo 2018.(Traduzione di Federico Lopiparo)

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PAUL KLEE, Tunisia

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Immigrazione, un dibattito distorto

NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto16

IL MITO DELL’ASSALTO ALL’EUROPA

In questa baraonda, la sinistra radi-cale sembra spaccata tra chi sostiene l’apertura delle frontiere e chi pro-muove provvedimenti di lotta contro le cause di trasferimento di queste po-polazioni (1). Un obiettivo irreale, ri-battono i primi, poiché lo sviluppo dei paesi del sud, invece di ridurre i flussi migratori, contribuirà ad alimentarli.

Questa obiezione va incontro a un crescente successo da quando, nel febbraio scorso, è stato pubblicato un saggio di Stephen Smith che predice un «assalto» all’Europa da parte della «giovane Africa» e una «africaniz-zazione» del Vecchio continente (2). Facendo riferimento a una serie di numeri e di statistiche, la dimostrazio-ne di questo giornalista, passato per Libération, Le Monde e Radio France Internationale (Rfi) sembra inesorabi-le. L’Africa sarebbe schiacciata da un «rullo compressore demografico» ali-mentato dall’elevata fecondità a sud del Sahara. Secondo alcune stime delle Na-zioni unite, la sua popolazione passerà da 1,2 miliardi di abitanti nel 2017 a 2,5 miliardi nel 2050, fino ai 4,4 miliardi del 2100. In quest’arco di tempo, il con-tinente andrà incontro a un importan-te sviluppo economico, i redditi degli abitanti aumenteranno, e un numero crescente di loro disporrà «dei mezzi necessari per andare a cercare fortuna altrove». Bisogna quindi aspettarsi una «fuga in massa» dal continente e un aumento della popolazione europea di origine africana in trent’anni, che rap-presenterà tra il 20% e il 25% del totale (contro l’1,5% - 2% nel 2015).

Con simili previsioni, Smith temeva di «generare passioni e polemiche». Il suo libro, tradotto o in corso di tradu-zione in inglese, in tedesco, in spagno-lo e in italiano, ha ricevuto il premio della Revue des deux mondes, un rico-noscimento dell’Académie française e il premio Brienne come miglior libro geopolitico assegnato dal ministero degli esteri, grazie al quale sarà espo-sto nelle librerie con una fascetta rossa con il timbro del Quai d’Orsay. Men-tre il filosofo Marcel Gauchet vorreb-be rendere la sua lettura «obbligato-ria per tutti i responsabili politici» (L’Obs, 27 giugno), Macron considera che egli abbia «descritto perfettamente (…) questa demografia africana che è una vera e propria bomba» (15 aprile). Per sei mesi, a eccezione dell’antropo-logo Michel Agier, in un’intervista in-crociata (3), non una voce si è levata a contraddire Smith.

Il desiderio di tentare la fortuna

Finalmente, a settembre è arrivato il primo attacco concertato a firma di François Héran. In una nota dell’In-stitut national des études démographi-ques (Ined), poi in un articolo di ampia diffusione (4), questo professore del Collège de France, titolare della catte-dra migrazioni e società, ha ricordato che il 70% degli emigrati africani ri-mane nel proprio continente, una ci-fra stabile dagli anni 1990. Contesta soprattutto il metodo e i dati utilizzati da Smith. Servendosi del database bi-laterale delle migrazioni istituito dalla Banca mondiale, dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dall’Organiz-zazione per la cooperazione e lo svi-luppo economico (Ocse), ha calcolato che verso il 2050 gli africani e i loro discendenti rappresenteranno dal 3% al 4% della popolazione europea, «ben lontano dal temuto 25%».

Héran non mette in discussione l’idea di una «fuga in massa» dall’A-frica; semplicemente, considera che non avverrà prima del 2050. Smith, per determinare l’entità delle future migrazioni africane, ha utilizzato i parametri di movimenti di popolazio-ne precedenti, in particolare la grande migrazione transatlantica – nel corso della quale cinquanta milioni di euro-pei, nel XIX secolo, si sono trasferiti in America – e l’emigrazione dei mes-sicani verso gli Stati uniti tra il 1970 e

il 2015. Denunciando la mancanza di rigore di questo metodo, Héran obiet-ta: «Se poniamo l’indice di sviluppo umano su una scala da 1 a 10, la mag-gior parte dei paesi subsahariani si colloca a 1, il Messico è a 6, la Francia a 9 e gli Stati uniti a 10. Mentre le mi-grazioni dal livello 6 al livello 10 sono da considerarsi di massa (25 milioni di persone nelle diaspore in oggetto), quelle che vanno dal livello 1 al livello 9 o 10 sono limitate (meno di 2,3 mi-lioni). È lecito supporre che alla sca-denza del 2050 l’Africa subsahariana abbia bruciato le tappe dello sviluppo per equiparare l’attuale posizione re-lativa del Messico?» Altrimenti detto, nei tre decenni che verranno, l’Africa sarà ancora troppo povera per fare le valige e partire.

Al di là delle divergenze persona-li, Smith e Héran condividono una diagnosi comune: le popolazioni dei paesi molto poveri si spostano poco e lo sviluppo economico, invece di frenare l’emigrazione, la incoraggia. «Lei manda in frantumi una delle no-stre certezze più radicate», si stupisce Alain Finkielkraut intervistando il primo (5). Il filosofo sembra scopri-re un fenomeno solidamente attesta-to fin dal 1971. Prima di questa data prevaleva un modello «neoclassico»: si riteneva che a un minore divario di livello economico tra i paesi di par-tenza e quelli di arrivo corrispondes-sero meccanicamente flussi migratori più contenuti. Questo schema è poi stato messo in discussione dal geo-grafo Wilbur Zelinsky, che per la pri-

ma volta ha avanzato l’ipotesi di una «transizione nella mobilità», sempre più spesso chiamata transizione mi-gratoria, di cui individua diverse tappe (6). Man mano che i paesi più poveri si sviluppano, il loro tasso di morta-lità, in particolare quella infantile, si riduce; la popolazione ringiovanisce e il tasso di emigrazione aumenta. Solo una volta raggiunto un certo livello di ricchezza le partenze degli abitanti di-minuiscono e aumentano gli arrivi di stranieri – tranne in circostanze stra-ordinarie (guerra, tracollo economico, crisi politica...) che possono modifica-re radicalmente la situazione.

Dopo quarant’anni, molti studi di caso hanno confermato questo mo-dello. Quelli che un tempo erano stati paesi di emigrazione, l’Italia, la Spa-gna, la Grecia, l’Irlanda, la Corea del sud, la Malesia o ancora Taiwan, han-no concluso questo ciclo e sono diven-tati paesi di immigrazione. Altri, come la Turchia, l’India, la Cina o il Maroc-co, potrebbero seguire la stessa strada nei prossimi decenni. Più in genera-le, gli economisti Michael Clemens e Hannah Postel hanno constatato che tra il 1960 e il 2010, il tasso di emi-grazione era aumentato in 67 dei 71 Stati che da paesi a basso reddito sono diventati paesi a reddito medio (7). Il fenomeno, indipendentemente dai luo-ghi e dai periodi, è tanto frequente da sembrare quasi naturale. A meno che l’Africa non costituisca l’eccezione alla regola, la crescita economica po-trebbe provocare un aumento spetta-colare dell’emigrazione, specialmente nella fascia subsahariana. «Il sostegno allo sviluppo, con cui si pensava di trattenere gli africani nelle proprie terre e a cui spesso ci si è appellati, si

è ritorto contro i paesi ricchi», affer-ma affranto Finkielkraut.

Per spiegare questo fenomeno, i ri-cercatori hanno avanzato diverse ipo-tesi. Una di queste, l’unica accettata da Smith e la più diffusa, riguarda l’al-leggerimento dei vincoli economici. Emigrare costa caro; bisogna pagare il visto, il viaggio, le spese per il tra-sferimento: un freno per i più poveri. L’aumento dei redditi permette auto-maticamente a un numero maggiore di individui di disporre dei mezzi neces-sari per lanciarsi nell’avventura mi-gratoria e il bacino di candidati all’e-spatrio è cresciuto proporzionalmente all’aumento del numero dei giovani.

Ma se la mancanza di risorse eco-nomiche può ostacolare il progetto migratorio, dobbiamo comunque in-terrogarci sul perché delle popolazio-ni vogliano abbandonare un paese in piena crescita. La risposta offerta dai ricercatori è semplice: negli Stati più poveri, lo sviluppo economico non è sinonimo di una prosperità estesa a tutti. L’aumento della produttività agricola trasforma il mondo rurale e lascia per strada un’abbondante ma-nodopera, spesso giovane, sempre più istruita, che l’emergente economia in-dustriale e urbana non riesce ad assor-bire a causa della mancanza di posti di lavoro qualificati. Gli emarginati, bloccati nelle campagne o ai confini delle città, sono tenuti a distanza da chi protegge i propri interessi e bene-ficia dei vantaggi del consumo. In un contesto caratterizzato da un migliore

accesso all’informazione, questo di-vario alimenta il desiderio di tentare la fortuna altrove, che è reso possibile dall’aumento dei redditi.

In molti casi, ormai, lo sviluppo economico si coniuga inoltre con l’in-staurazione del libero scambio, i cui effetti sui movimenti della popolazio-ne sono stati ampiamente dimostrati. A tal riguardo, il Messico rappresenta un caso esemplare. L’accordo norda-mericano di libero scambio (Nafta), firmato nel 1992, venne presentato alla popolazione come uno strumen-to per limitare i flussi migratori. «I messicani non avranno più bisogno di emigrare nel nord per cercare la-voro: lo troveranno qui», prometteva all’epoca il presidente Carlos Salinas de Gortari (8). L’economista Philip L. Martin, invece, prediceva un effet-to inverso (9), e i fatti gli hanno dato ragione. Gli Stati uniti, liberi dai dazi doganali, hanno sommerso il proprio vicino di mais finanziato e prodotto dall’agricoltura intensiva. Il calo dei prezzi ha destabilizzato l’economia rurale, gettando in mezzo a una strada milioni di campesiños che non trova-vano impiego sul posto né nelle nuove fabbriche aperte a ridosso della fron-tiera. In meno di dieci anni, il numero dei clandestini messicani negli Stati uniti è aumentato del 144%, passando da 4,8 milioni nel 1993 a 11,7 milioni nel 2002. Allo stesso modo, dopo la firma degli accordi di libero scambio con una trentina di paesi africani nel 2014, l’Unione europea potrebbe aver alimentato l’immigrazione che affer-mava di combattere.

Smith non è mai entrato nel meri-to del carattere iniquo della crescita,

degli effetti delle logiche di mercato, dei processi di accumulazione del ca-pitale e di accaparramento delle terre da parte dei grandi proprietari che di-struggono l’economia contadina intro-ducendo un’organizzazione incentrata sul lavoro dipendente (10). Se gli studi sulla transizione migratoria giungono tutti alle stesse conclusioni è indub-biamente perché prendono in esame lo stesso tipo di sviluppo, basato non sulla ricerca della piena occupazione e della riduzione delle disuguaglianze, ma sul libero scambio, sulle privatiz-zazioni, sulla flessibilità del mercato del lavoro, sull’ottimizzazione dei «vantaggi comparati» per attirare gli investimenti diretti stranieri.

Divisione delle classi popolari

In realtà, non è lo sviluppo a provocare l’emigrazione, ma lo squilibrio tra l’of-ferta e la domanda occupazionale, in particolare per i giovani. «Tutti i dati indicano che un rigido mercato del la-voro nei paesi di origine scoraggia le partenze (11)», sottolinea l’economista Robert Lucas, mentre Clemens e Po-stel precisano: «C’è indubbiamente un rapporto negativo tra il tasso di occu-pazione dei giovani e l’emigrazione. Nei paesi con un tasso di occupazione dei giovani superiore al 90%, il tasso di emigrazione è dimezzato rispetto a quello dei paesi in cui solo il 70% dei giovani ha un impiego (12)». Il pro-fessore Hein de Haas, invitando a non confondere correlazione e causalità,

sottolinea come una demografia di-namica non sia necessariamente all’o-rigine di una forte emigrazione. «Le persone non migrano a causa della crescita demografica, ripete. Migrano solo se la crescita della popolazione si accompagna a una crescita econo-mica lenta e a un elevato tasso di di-soccupazione. (…) Quando una forte crescita demografica coincide con una forte crescita economica, è il caso della maggior parte delle monarchie petrolifere del Golfo, l’emigrazione si mantiene a livelli bassi (13).»

Nel Vecchio continente è ancora ampiamente diffusa l’idea che decine di milioni di africani, spinti dalla man-canza di prospettive, dalle guerre, dal cambiamento climatico, possano pren-dere la via dell’esilio. I guerrafondai del panico identitario si appigliano a questa teoria per invocare maggiori restrizio-ni – «L’Europa non intende diventare africana», giustifica Finkielkraut. Al-tri, giunti a conclusioni più fataliste, esigono la libertà di circolazione e l’a-pertura delle frontiere. «È utopia pen-sare che si possano contenere o, ancor meno, interrompere i flussi migratori. (…) Nei decenni futuri, le migrazioni si estenderanno, in forma volontaria o coatta. Arriveranno alle nostre coste, e il nostro paese, come oggi, avrà i pro-pri espatriati. I rifugiati spinti dalle guerre e dalle catastrofi climatiche sa-ranno più numerosi», precisa per esem-pio il «Manifesto per l’accoglienza dei migranti» lanciato da Politis, Regards e Mediapart.

Sarebbe possibile un’altra strada che, tuttavia, non prendono in esame. È decisamente più irta e presuppone la critica del modello economico do-

minante per rendere le loro società attraenti per le popolazioni. Auspicare per il sud un futuro segnato da crisi e miseria non tradurrebbe forse un certo pessimismo?

Non è automatico che nei paesi di accoglienza si sviluppi risentimento. Questo nasce in contesti di austerità generalizzata, di destabilizzazione della previdenza sociale, di indebo-limento dei servizi pubblici, di scelte politiche che mettono in competizione fra loro i poveri, il pubblico e il privato, gli attivi e i pensionati, i lavoratori con un salario minimo interprofessionale e i disoccupati, per ottenere un aiuto, una casa popolare o un posto all’asilo nido. In queste circostanze, l’arrivo dei migranti appare come un’ulteriore pressione su risorse sempre più rare, su cui fa leva l’estrema destra seguen-do una strategia di divisione delle clas-si popolari. «Io, scelgo di privilegiare i francesi perché penso che la solida-rietà nazionale vada rivolta a loro, e mi ripugna l’idea che si accolgano in maniera indiscriminata e irrespon-sabile migliaia di migranti lasciando i senza tetto in mezzo a una strada», esclama Le Pen (14). Ma, anche in questo caso, un’altra strada è possi-bile. Questa non passa dalla firma di proclami o dalla richiesta di aprire le frontiere, per cui è facile prevedere un rifiuto, ma si basa su un paziente lavo-ro politico per spingere al potere una forza realmente capace di modificare il corso degli eventi.

BENOÎT BRÉVILLE

(1) Si legga «A sinistra disagio sull’immigra-zione», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2017.(2) Stephen Smith, Fuga in Europa. La giovane Africa verso il nuovo continente, Einaudi, Tori-no, 2018. Salvo caso contrario, le citazioni sono tratte da questo saggio.(3) «La jeunesse africaine est-elle un danger pour l’Europe?», L’Obs, Parigi, 18 febbraio 2018.(4) François Héran, «L’Europe et le spectre des migrations subsahariennes», Population et So-ciétés, n° 558, Parigi, settembre 2018; «Com-ment se fabrique un oracle», 18 settembre 2018, www.laviedesidees.fr(5) «Répliques», France Culture, 17 marzo 2018.(6) Wilbur Zelinsky, «The hypothesis of the mobility transition», Geographical Review, vol. 61, n° 2, New York, aprile 1971.(7) Michael A. Clemens e Hannah M. Postel, «Can development assistance deter emigra-tion?», Center for Global Development, Wa-shington, DC, febbraio 2018.(8) Carlos Salinas de Gortari, intervento al Mas-sachusetts institute of technology (Mit), Cam-bridge, 28 maggio 1993.(9) Philip L. Martin, «Trade and migration: The case of Nafta», Asian Pacific Migration Journal, vol. 2, n° 3, Thousand Oaks (Califor-nia), settembre 1993.(10) Douglas S. Massey, «Economic deve-lopment and international migration in com-parative perspective», Population and De-velopment Review, vol. 14, n° 3, New York, septembre 1988.(11) Robert E. B. Lucas, International Migra-tion and Economic Development: Lessons from Low-Income Countries, Edward Elgar Publi-shing, Northampton, 2005.(12) Michael A. Clemens e Hannah M. Postel, «Can development assistance deter emigra-tion?», op. cit.(13) Hein de Haas, «Migration transitions: A theoretical and empirical inquiry into the de-velopmental drivers of internation migration», International Migration Institute, università di Oxford, gennaio 2010.(14) Rtl, 16 gennaio 2017.(Traduzione di Alice Campetti)

segue dalla prima pagina

MARIE LAURE VAREILLES della serie Tous pareils, tous pas pareils, 2016

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Le Monde diplomatique il manifesto NOVEMBRE 2018 17

In Italia, una fronda antieuropea?LE CONTRADDIZIONI DI UN’IMPROBABILE ALLEANZA DI GOVERNO

Dall’avvento al potere della co-alizione formata dalla Lega e dal Movimento 5 stelle (M5S),

il primo giugno, l’Italia preoccupa i commentatori politici europei. Men-tre alcuni si allarmano per la durezza delle politiche migratorie del mini-stro dell’interno Matteo Salvini, altri criticano alcune scelte economiche che infrangono le regole dell’Unione europea. «Populista», «fascistoide», «alleanza di partiti estremisti»: nella maggior parte dei media, l’accoppia-ta Lega-M5S è messa alla gogna. La sinistra, combattuta tra la denuncia delle derive autoritarie e xenofobe del governo e una certa simpatia per la sua fronda contro Bruxelles, si trova in una posizione delicata. Il fatto che un grande paese come l’Italia decida di ignorare le ingiunzioni della Commis-sione europea non dovrebbe rallegrare tutti gli oppositori dell’austerità? Parte della risposta si può rintracciare nella natura del compromesso raggiunto dai due partiti di maggioranza, che condi-vidono il potere nonostante non fosse-ro destinati a governare insieme data la divergenza delle loro basi sociali e dei loro programmi.

La vita politica italiana, come quella di molti paesi europei, ha visto a lun-go opporsi un blocco di sinistra e un blocco di destra. Il primo gruppo ri-univa principalmente impiegati pub-blici, intellettuali, operai e lavoratori poco qualificati; il secondo metteva insieme piccoli e grandi imprenditori, artigiani, commercianti e lavoratori autonomi. A partire dalla metà degli anni 1990, queste alleanze compo-ste da classi sociali differenti hanno sperimentato una crescente instabili-tà, in gran parte legata alla difficoltà di conciliare l’adesione al progetto di costruzione europea (forte tra le classi medie e alte) e le attese dei gruppi più poveri (1). Il blocco di sinistra è scop-piato nel 2007, con la creazione del Partito democratico dalle rovine della sinistra comunista e della Democrazia cristiana. Quello di destra è andato in pezzi nel 2010, con la rottura tra Silvio Berlusconi (Forza Italia) e Gianfranco Fini (Alleanza nazionale).

In un contesto di crisi sia politica che economica, si è affermato il pro-getto di una nuova coalizione «al di là della destra e della sinistra»: un «bloc-co borghese» in grado di aggregare le classi medie e alte, cementato dal loro sostegno incondizionato alla costru-zione europea. Il suo certificato di na-scita coincide con una lettera inviata nel 2011 dalla Banca centrale europea (Bce), in cui si dettavano a Roma le linee guida della sua politica econo-mica. Questa lettera ha determinato la caduta del quarto governo Berlusconi e l’arrivo alla presidenza del consiglio del tecnocrate Mario Monti, che pre-cedentemente era passato per la banca d’affari Goldman Sachs. Così il blocco borghese si è stabilito per sette anni alla testa dell’Italia, rappresentato suc-cessivamente dai volti di Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Il fallimento di questa al-leanza spiega la vittoria della Lega e del M5S. Mentre tra il 2008 e il 2017 il prodotto interno lordo (Pil) a prezzi costanti dell’Italia è crollato del 10%, la precarietà e l’impoverimento di una parte importante della popolazione hanno aperto uno spazio di opposizio-ne che queste due formazioni si sono affrettate a occupare. Si tratta di uno

spazio ampio e socialmente eteroge-neo, al cui interno si esprimono aspet-tative differenti e in parte contraddit-torie.

Nessuna abolizione del Jobs Act

I gruppi che si oppongono al blocco borghese possono essere schematica-mente divisi in due categorie. Da una parte, l’elettorato popolare penalizzato dalle terapie di Bruxelles, che spesso si lascia sedurre dal tono sociale del programma del M5S: operai, dipen-denti poco qualificati, lavoratori pre-

cari, disoccupati, pensionati che vivo-no al di sotto della soglia di povertà. Dall’altra, le classi medie – artigiani, commercianti, piccoli imprenditori, quadri intermedi del settore privato, liberi professionisti… – che hanno sposato il neoliberismo per le sue pro-messe di promozione sociale e conti-nuano malgrado tutto ad aderirvi, ma che rischiano il declassamento. Questi elettorati si combinano all’interno del-la base sociale del M5S e della Lega in proporzioni diverse.

La vittoria di questi due partiti non è il risultato di una strategia globale e coerente in materia di politica econo-mica, che nessuno dei due movimenti ha mai elaborato. Dopo le elezioni del marzo 2018, il M5S si era dichiarato di-sponibile a governare con qualsiasi par-tito (compreso il Partito democratico), a eccezione di Forza Italia… con cui la Lega è alleata dagli anni ’90 – un’alle-anza che non è mai stata ufficialmente rotta e che continua a governare tutte le regioni settentrionali del paese. Riuni-ti in una coalizione poco naturale e in assenza di una strategia condivisa, il M5S e la Lega ostentano un’unità che si fonda su compromessi continuamente rinegoziati. Solo l’immigrazione sfug-ge a questa regola: la linea dura della Lega, che consiste in modo particolare nel combattere le organizzazioni non governative (Ong) operanti nel Medi-terraneo, è raramente contestata dal M5S, nonostante il suo programma fos-se molto meno repressivo.

L’azione del governo, tuttavia, mo-stra molto chiaramente che lo spazio del possibile compromesso tra il M5S e la Lega si situa all’interno della tra-iettoria neoliberista che l’Italia segue

dagli anni ’90. La volontà di abolire il Jobs Act di Renzi (2), espressa dal M5S durante la campagna elettorale, è rapidamente scomparsa: non si parla più di ritornare sul contratto a tempo indeterminato a «tutele crescenti», che prevede, in caso di licenziamento sen-za giustificato motivo, un indennizzo corrispondente a due mesi di retribu-zione per anno di anzianità e non più, come prevedeva l’articolo 18 dello sta-tuto dei lavoratori, l’obbligo di reinte-grare il lavoratore. Anche l’obiettivo di limitare i contratti precari è stato rivi-sto al ribasso. Approvato dal consiglio dei ministri durante il periodo estivo, su richiesta del M5S, il «decreto di-gnità» ha certamente ridotto – da tre a due anni – il periodo all’interno del quale è consentito di rinnovare i con-tratti a tempo determinato. Ha inoltre reintrodotto l’obbligo per il datore di lavoro di indicare il motivo del ricor-so a un contratto a tempo determinato, anche se – e questo è decisivo – solo in caso di rinnovo. Come ha rilevato la Confederazione italiana sindacati lavoratori (Cisl), questa limitazione potrebbe paradossalmente aumentare la precarietà (3): invece di giustificare la propria decisione, molti datori di la-

voro potrebbero in effetti scegliere di assumere nuovi dipendenti.

L’indietreggiamento in materia di lotta alla precarietà si osserva anche dalla reintroduzione dei voucher. Que-sti buoni prepagati destinati alla remu-nerazione dei lavoratori occasionali si sono diffusi durante gli anni di Renzi in seguito al Jobs Act. Al fine di evi-tare un referendum abrogativo, il go-verno Gentiloni aveva abolito questo sistema nel marzo del 2017. Grazie alla Lega e al M5S, i voucher hanno fatto il loro ritorno in settori importanti come l’agricoltura e il turismo.

Anche nella lotta contro le delo-calizzazioni, uno dei temi principali della campagna elettorale del M5S, il «decreto dignità» rimane a metà del guado. Obbliga le imprese che hanno ricevuto dei sostegni pubblici a rim-borsarli se, nei cinque anni successivi al loro ottenimento – il testo iniziale, prima che si raggiungesse un com-promesso, prevedeva dieci anni –, trasferiscono le loro attività in un altro paese. La misura può sembrare auda-ce, ma riguarda solo gli aiuti versati a titolo di «investimenti produttivi», mentre la maggior parte degli aiuti è destinata alla ricerca e allo sviluppo. Nel complesso, la Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil) ha giudicato il «decreto dignità» in modo critico. Delusa dalla «grande distanza tra gli annunci e le decisioni prese», la Cigl lamenta una «mancanza di co-raggio» e «l’assenza di un progetto complessivo di riorganizzazione della legislazione sul lavoro» (4).

Anche la misura di punta del M5S in materia di protezione sociale, il

«reddito di cittadinanza», ha subito qualche trasformazione. In primo luo-go nella sua portata: il finanziamen-to previsto non supera i 9 miliardi di euro, mentre in campagna elettorale si era parlato di 17 miliardi. Poi nella sua natura: presentata inizialmente come un reddito di base incondizio-nato, questa allocazione assomiglia in effetti al reddito universale di atti-vità avviato da Emmanuel Macron in Francia. Il provvedimento non solo unificherà tutti gli aiuti già esistenti, ma aumenterà anche la pressione sui disoccupati: se i beneficiari rifiuteran-no tre offerte di lavoro, saranno privati del sostegno. Il leader del M5S, Luigi Di Maio, ha spiegato che non si tratta di «distribuire denaro a chi passa le giornate sdraiato su un divano», ma di «formare i cittadini in modo tale che possano lavorare» (5).

Se, nel breve termine, questa inden-nità aumenterà il potere d’acquisto dei più svantaggiati, costringerà anche i disoccupati ad accettare condizioni lavorative degradate, pena la perdita dell’aiuto sociale. Nel medio termine, si assisterà quindi a una compressione dei salari. Ulteriore segno di sfiducia

nei confronti delle classi popolari, il reddito sarà accreditato su una carta il cui utilizzo verrà controllato per evita-re che gli aiuti siano spesi «in sigarette o gratta e vinci». Nel momento in cui svelava i contorni di questa misura in fin dei conti non tanto universale, il governo annunciava un’altra riforma, voluta dalla Lega: un condono fiscale finalizzato a risolvere le controver-sie entro un limite di 500.000 euro (100.000 euro per anno di imposizione nel periodo 2013-2017).

Sostenere con urgenza le persone con bassi redditi, prolungando allo stesso tempo la tendenza neoliberi-sta degli anni precedenti: questo è il compromesso su cui si basa la legge di bilancio presentata il 15 ottobre. Per giustificare questo modo di procedere, il governo sottolinea la sua volontà di rilanciare la domanda e quindi la cre-scita; tuttavia gli investimenti pubblici (3,5 miliardi), che in questa prospet-tiva sarebbero molto più efficaci, im-pallidiscono davanti ai trasferimenti di reddito. Oltre al reddito di cittadi-nanza (9 miliardi), la legge di bilancio prevede una riforma delle pensioni dal costo di 7 miliardi di euro. Il suo scopo è correggere in parte l’impopolare leg-ge Fornero anticipando l’età pensiona-bile da 67 a 62 anni per chi ha versato almeno trentotto anni di contributi.

Come il reddito di cittadinanza, questa riforma va incontro alla do-manda di sostegno materiale della parte più povera dell’elettorato, ma allo stesso tempo fornisce alle impre-se una manodopera precaria e a basso costo. Infatti, senza l’abrogazione del Jobs Act, l’abbassamento dell’età pen-sionabile consentirà ai datori di lavoro

di sostituire i dipendenti con maggiore anzianità, che percepiscono alti sti-pendi e sono soprattutto tutelati dal vecchio contratto a tempo indetermi-nato e dall’articolo 18, con lavoratori più «flessibili». Un altro motivo per cui i datori di lavoro possono ralle-grarsi: la legge di bilancio prevede una riduzione dell’imposizione fiscale, attualmente limitata ai lavoratori au-tonomi e alle piccole e medie impre-se (Pmi), ma destinata a estendersi, secondo il meccanismo della flat tax (aliquota unica), a tutte le imposte sul reddito delle società, avvantaggiando principalmente i redditi più alti.

Una legge i bilancio in linea con le precedenti

Per finanziare le sue tre misure prin-cipali (reddito di cittadinanza, riforma delle pensioni e abbassamento delle tasse), il governo ha annunciato delle privatizzazioni (6) che nel 2019, in-sieme al condono fiscale, dovrebbero generare 8 miliardi di euro, e una di-minuzione della spesa sociale per 7 miliardi di euro (7). Ma queste ricette non bastano a coprire le nuove spese e così il bilancio del 2019 presenta un deficit del 2,4%, tre volte più alto degli impegni presi dal precedente governo e delle raccomandazioni di Bruxelles.

Questo aumento del debito pubblico monopolizza l’attenzione dei media, secondo una narrazione che fa como-do sia alla Lega e al M5S, interessati a valorizzare la loro «rottura» con il pe-riodo precedente, sia al Partito demo-cratico, sempre pronto a denunciare la presunta irresponsabilità del nuovo governo. Gli elementi di continuità, invece, vengono rilevati più raramen-te. Tuttavia, il deficit previsto per il 2019 è in linea con quello degli anni precedenti (2,5% nel 2016, 2,3% nel 2017). Questa tendenza risale a venti anni fa ed è dovuta interamente al peso del debito (3,8% del Pil). Se si esclude il debito, infatti, le entrate fiscali su-perano la spesa pubblica dell’1,4% del Pil. Il governo italiano non può quindi essere accusato di aver compromesso con un bilancio gonfiato una politica altrimenti espansiva. Inoltre, l’idea di proseguire con le privatizzazioni in cambio della possibilità di lasciar an-dare il deficit (fino al 2,9% per cinque anni consecutivi) era già stata propo-sta da Renzi nel luglio 2017.

È possibile che il deficit italiano pro-vochi una crisi all’interno dell’Unione europea? L’aumento dei tassi di inte-resse avvenuto in seguito agli annunci del governo svaluta i titoli del debito pubblico. Questi titoli rappresentano una parte importante dell’attivo delle banche italiane, che potrebbero essere costrette a ricapitalizzare su un mer-cato in tensione, con ripercussioni in tutto il continente. Inoltre l’Italia, ter-za potenza economica della zona euro, non è la Grecia; la sua messa sotto tutela farebbe vacillare l’intera Unio-ne, soprattutto nel momento in cui si sta negoziando la Brexit. In questa prospettiva, Bruxelles avrebbe tutto l’interesse ad attuare una politica di distensione. Ma la Commissione euro-pea, che ha appena bocciato la prima versione della legge di bilancio pre-parata da Roma, sceglierà la via della ragione? Considerata la storia recente, non possiamo esserne sicuri.

(1) Cfr. Dalla crisi politica alla crisi sistemica, Franco Angeli, Milano 2003.(2) Serie di leggi adottate tra il 2014 e il 2015 per liberalizzare il mercato del lavoro italiano. Si legga Andrea Fumagalli, «”Jobs Act”, le grand bluff di Matteo Renzi», Le Monde diplo-matique/il manifesto, luglio 2016.(3) Andrea Gianni, «Decreto dignità, tagliati 6mila contratti», Il Giorno, Milano, 17 ottobre 2018.(4) «Commento al “decreto dignità”», Cgil, Modena, 8 marzo 2018, www.cgilmodena.it(5) Luigi Di Maio, conferenza stampa a Milano, 14 marzo 2018.(6) L’ammontare derivante dalle privatizzazio-ne nel corso degli anni 2019-2021 dovrebbe oscillare tra i 10 e i 15 miliardi di euro.(7) La ripartizione dei tagli alle spese sociali al momento non è ancora nota.(Traduzione di Federico Lopiparo)

* Economista e autore, con Bruno Amable, di L’Illusion du bloc bourgeois. Alliances sociales et avenir du modèle français, Raisons d’agir, Parigi 2017.

L’Italia ha strappato alla Grecia il posto di cattivo studente dell’Unione europea. Ponendo al centro le spese sociali, la sua legge di finanza per il 2019 contravviene al dogma dell’austerità. La Commissione minaccia di prendere severi provvedimenti e grida al populismo. Questa chiave di lettura, comoda per screditare ogni forma di disobbedienza, non consente di comprendere gli orientamenti del nuovo governo della penisola

STEFANO PALOMBARINI*

LUCIANO FABRO L'Italia dell'emigrante

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La Brexit mette a nudo

NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto18

CONTO ALLA ROVESCIA

Il posto di dirigente del Partito con-servatore è stato a lungo il più am-bito della vita politica britannica.

Questo partito, fondato negli anni 1830, è stato al potere per due terzi del XX secolo. Per molti candidati, dirigerlo rappresenta quindi la strada più rapida alla volta del numero 10 di Downing Street, sede del potere ese-cutivo in una monarchia costituziona-le dove la regina non ne ha alcuno.

Al vertice di una struttura pirami-dale, il leader à stato a lungo designa-to dai propri pari in maniera opaca. All’alba degli anni 1960, le cose cam-biano poco a poco. Nel 1965, la nomi-na avviene per votazione dei deputati. A partire dal 1998, questo processo viene allargato agli iscritti, che sono invitati a esprimersi sugli ultimi due candidati selezionati dai parlamentari. Questa progressiva democratizzazio-ne porta a un’evoluzione sociologica. Edward Heath, eletto nel 1965, provie-ne da un ambiente operaio – è la prima volta. Alcuni anni dopo gli succederà, John Major, a sua volta di estrazione modesta (1990-1997).

Dopo una traversata nel deserto dell’opposizione durante i governi New Labour inaugurati nel 1997 da Anthony Blair, l’elezione di David Ca-meron a capo del partito nel dicembre 2005 segnala un doppio cambiamento. L’uomo ha appena 39 anni e, sostenu-to dagli iscritti interessati a dotarsi di un dirigente identificabile come più moderno, non ha ottenuto un aperto sostegno dei deputati. Cameron, lega-to all’élite aristocratica e proveniente dal sistema ultraselettivo delle public schools (scuole, in realtà private e one-rose) e di «Oxbridge» (termine che designa le università di Oxford e Cam-bridge), diventa rapidamente il promo-tore di una fazione minoritaria: i mods promuovono un liberismo economico e culturale, la difesa della parità di genere e la divisione dei compiti, la protezione dell’ambiente, la depena-lizzazione delle droghe leggere e il riconoscimento delle coppie omoses-suali; di fronte a loro, i rockers difen-dono i valori tradizionali e autoritari del partito. Tuttavia, Cameron si vanta di compiere una sintesi da cui dipende il ritorno al governo, un obiettivo con-diviso da alcuni pezzi grossi, tra cui una certa Theresa May. Quest’ultima, durante il congresso del 2002, aveva denunciato il «nasty party» («partito cattivo») che i conservatori sembra-vano essere diventati agli occhi degli elettori.

«Correre in un campo di grano»

Colei che dall’opposizione dichiarava: «All’interno del gabinetto fantasma, ci sono più uomini di nome David (1) che donne (2)», fa carriera al fianco di Cameron. Partecipa alla riforma della selezione dei candidati al Parlamento e sostiene una migliore integrazione delle donne e delle minoranze, arri-vando a esibire la maglietta «Ecco a cosa assomiglia una femminista». Eppure, dopo la nomina al ministero dell’interno nel governo di coalizione di Cameron (2010-2015), modificherà radicalmente le proprie priorità. La nuova generazione di deputati tories mostra un volto nuovo: tra avvocati e

dirigenti d’azienda, il numero di don-ne così come di rappresentanti delle minoranze etniche è aumentato e han-no frequentato le scuole pubbliche in numero maggiore. Analogamente a Sajid Javid, attuale ministro dell’inter-no di origine pakistana, astro nascente del partito, la stragrande maggioranza dei conservatori con alle spalle una storia di immigrazione è composta da thatcheriani radicali. Sono favorevoli all’uscita dall’Unione europea (Bre-xit), motivandola con il diverso trat-

tamento tra l’immigrazione europea e l’immigrazione «storica» proveniente dai paesi del Commonwealth (3).

Il referendum del 23 giugno 2016 sulla Brexit stravolge le regole di fun-zionamento interno del partito per l’elezione del suo leader. Le dimissio-ni di Cameron (al tempo, sostenitore della permanenza nell’Unione) segna l’inizio di una campagna quasi shake-speariana tra i potenziali candidati alla sua successione, Boris Johnson e Mi-chael Gove, oltre a Andrea Leadsom, molto presente nei dibattiti televisivi. Tutti e tre si sono fatti conoscere per il coinvolgimento attivo a favore della Brexit. Si sono autodefiniti Brexiteers e ammiccano ai «bucanieri» (bucane-ers) e ai «moschettieri» (musketeers) che difendono una visione romantica e idealizzata del paese.

La loro posizione radicale, parados-salmente, ha contribuito all’elezione di May, candidata della moderazione e del compromesso. Ma la sua fragi-lità non tarda a emergere. Non è stata eletta attraverso la tradizionale proce-dura adottata nel 1998, poiché, essen-do l’unica candidata in lizza dopo le

la delibera dei deputati, non ha avuto bisogno dell’approvazione della base, il che inficia la sua legittimità. A intri-gare è la personalità di questa figlia di pastore, anglicana praticante, amante della cucina e del cricket. I media con-dannano la sua indecisione («Theresa forse si o forse no») e la sua mancanza di empatia: il primo ministro si è rifiu-tato di incontrare le vittime dell’incen-dio della Grenfell tower il 14 giugno 2017 o di esprimere la benché minima compassione verso i lavoratori a basso reddito. Per esempio, a un’infermiera che le spiegava le difficoltà ad arrivare alla fine del mese, rispondeva: «Il de-naro non piove dal cielo!» In un paese per cui i motti di spirito sono un tesoro nazionale, questa mancanza di pron-tezza salta agli occhi come durante il congresso del partito nel 2017 allorché May si mostra interdetta quando un at-tore interrompe il suo discorso per ten-derle un documento in cui le comunica il licenziamento. O quando un gior-nalista le chiede di confessare la più grande stupidaggine mai commessa

e May risponde: «Correre in un cam-po di grano». Il suo avversario Boris Hohnson, percepito come più spirito-so, metterà insieme parecchi burloni.

A questa mancanza di humour si aggiunge un deficit di lungimiranza politica. Nell’aprile 2017, May an-nuncia le elezioni anticipate (che si svolgono due mesi dopo), pensando di rafforzare la propria posizione in Parlamento. Ma la premier non si cura della campagna elettorale, contraria-mente all’avversario laburista, Jeremy Corbyn. Rifiutando di battere il paese per incontrare gli elettori e di parteci-pare ai dibattiti televisivi – si fa sosti-tuire senza preavviso dalla ministra dell’interno Amber Rudd, che ha ap-pena perso il padre –, lascia tutti con l’amaro in bocca. Gli australiani Mark Textor e Lynton Crosby nel 2017 sono i suoi due responsabili della campagna elettorale e, persuasi che convenga in-centrare la comunicazione sulla May, infatti, la strutturano attorno allo slo-gan «Un governo forte e stabile». Il messaggio, però, ripetuto a oltranza, soffoca i candidati locali. May, nave ammiraglia del Partito conservatore, è oggetto di critiche per l’atteggiamento

distaccato e per la mancanza di spon-taneità: presto, si inizia a parlare di «Maybot», il «robot May».

Le elezioni sono rovinose. Gli acca-demici Tim Bale e Paul Webb spiega-no come la selezione degli elettori sia stata effettuata senza alcun criterio logico, sulla base della compilazione di dati (più che di sondaggi locali), mandando i militanti a bussare alla porta di famiglie dalle irremovibili idee anticonservatrici (4). Il proseliti-smo destinato a convincere gli eletto-ri indecisi era destinato al fallimento. Il voto indebolisce ulteriormente la premier in Parlamento, dove non di-spone più della maggioranza assoluta e deve stringere una discutibile alle-anza con il piccolo partito unionista nord-irlandese (Democratic unionist party, Dup), ultraconservatore sulle questioni morali e sostenitore della ferma lealtà dell’Irlanda del nord verso la corona. Questo legame complica la riflessione sullo status dell’Irlanda del nord e sulla frontiera che la separa dal-

la Repubblica d’Irlanda, nel contesto della Brexit.

Ma una delle principali difficoltà cui deve far fronte May è l’eteroge-neità ideologica del partito, una delle sue fondamentali caratteristiche. Per i conservatori, che nel 1861 il filoso-fo liberale John Stuart Mill definiva il «partito più stupido (5)», le parole chiave sono pragmatismo e capacità di adattarsi alle circostanze. Il che mo-stra delle contraddizioni strutturali tra il rifiuto di un riferimento ideologico ritenuto un dogma inaccettabile e l’e-sistenza, nella pratica, di principi e va-lori tanto radicati da portare a tensioni inconciliabili. Esiste una continuità storica nel modo in cui certe divisioni strutturano il partito. Secondo il do-cente universitario Timothy Heppell (6), queste ruotano attorno a tre que-stioni fondamentali: il liberismo eco-nomico, il liberalismo culturale e la sovranità nazionale.

L’ossessione dell’immigrazione

Il dibattito sul liberismo economico risale alle origini del partito, quando le leggi sul grano del 1846 divideva-no i sostenitori di una politica di li-bero scambio che cancellava le tasse per l’esportazione dei cereali, riuniti attorno a Robert Peel, e i protezionisti intenzionati a difendere gli interessi dell’aristocrazia fondiaria, seguaci di Benjamin Disraeli. Le divergenze sul ruolo dello Stato nell’economia hanno successivamente alimentato il plurali-smo, e le divisioni. Negli anni 1980, i wets (letteralmente «bagnati»), soste-nitori di un interventismo ponderato dello Stato, si contrapponevano ai dri-es («secchi»), ultraliberisti guidati da Margaret Thatcher (primo ministro dal 1979 al 1990). Le tensioni sulla questione europea, che emergono nello stesso periodo, sono andate a lungo di

pari passo con un’analoga contrapposi-zione tra sostenitori di un’Europa delle nazioni, intergovernativa e liberista, quella degli spazi aperti, che rifiuta di essere ricondotta al solo continente e di attenersi al «diktat» di Bruxelles, e gli europeisti, inclini ad accettare i vincoli e l’appartenenza a quella che un tempo era la Comunità economica europea (Cee), senza tuttavia accettare l’idea di un’Europa federale.

All’inizio degli anni 1990, dopo l’epoca della Thatcher, gli euroscet-tici tentano di impedire la ratifica del trattato di Maastricht sull’Unione eu-ropea, considerato il punto di partenza di un’inaccettabile federalizzazione dell’Europa e sinonimo di condanna a morte della sovranità nazionale. Ma anche i grandi temi sociali – come quello dell’omosessualità – lacerano la formazione tory, specialmente con l’elezione di Cameron a capo del par-tito o, più recentemente con i gravi conflitti tra modernizzatori – si pensi a Elizabeth Truss – e tradizionalisti, come il deputato Jacob Rees-Mogg, ultrarealista, cattolico praticante e pa-dre di sei figli, contrario all’aborto e al matrimonio omosessuale.

La crisi finanziaria del 2008 stra-volge gli equilibri di potere. Di fronte ai malfunzionamenti dei paesi della zona euro, la questione della sovranità nazionale, in particolare la volontà di «riprendere il controllo» sull’immi-grazione, diventa centrale, tanto da provocare un ripensamento genera-le sulla questione della permanenza all’interno dell’Unione europea. Se il 51,9% degli elettori, collocati per lo più in Inghilterra (soprattutto nel nord-est) e nel Galles, si pronuncia-no per l’abbandono, solo il 60% dei deputati dichiara di aver votato per la Brexit, alcuni per convinzione, altri per lealtà al governo. Tuttavia, all’in-domani del referendum, tutti accet-tano il verdetto popolare. Quando il 29 giugno 2017, il deputato laburista Chuka Umunna (critico nei confronti di Corbyn) presenta un emendamento sostenuto dal proprio partito sulla ne-cessità che Londra rimanga all’interno del mercato unico, incassa il rifiuto di tutti i deputati tories, compresi i più fi-loccidentali.

Ma, ecco comparire una nuova linea di rottura. Da un lato, i sostenitori di una «Brexit morbida», tra cui i depu-tati Kenneth Clarke, Nicky Morgan o Anna Soubry, raggiunti dal cancelliere dello Scacchiere (ministro dell’econo-mia e delle finanze) Philip Hammond e affiancati da molti deputati laburisti, sperano che il paese mantenga un le-game con l’Unione europea attraverso un insieme di accordi di cooperazione. Dall’altro, i sostenitori di una «Brexit dura», attorno a Johnson, Rees-Mogg o Stephen Baker, prendono in esame anche un’uscita senza accordo qualora fallissero i negoziati. La preferenza di questi ultimi va a un accordo di libe-ro scambio simile a quello che lega il Canada all’Unione europea, più ido-neo alle riforme ultraliberiste auspi-cate. Ora, il piano della premier, detto «piano dei Chequers», propone la per-manenza del paese nel mercato unico per le merci e una specifica conven-zione doganale per l’Irlanda del nord, un drappo rosso sventolato davanti ai Brexiteers.

Al di là delle questioni europee, l’immagine di May diverge da quella che l’ha resa popolare durante la presi-denza del partito. La modernizzatrice femminista ha lasciato il posto a una conservatrice tradizionalista ossessio-nata dal controllo dell’immigrazione, di cui prevede la limitazione ad alcu-ne migliaia di nuovi arrivi l’anno – si pensi che il Regno unito è passato da 177.000 ingressi nel 2012 a 282.000 nel 2017. Inoltre, caldeggia il ritorno alle grammar schools, scuole pub-bliche, ma selettive, simbolo di una meritocrazia che rivendicava anche Thatcher.

Alle elezioni del 2017, il manifesto del partito, firmato da May, era stato redatto dalla sua testa pensante, Ni-

* Docente di civiltà britannica all’Université de Bourgogne-Franche Comté, attualmente ricer-catrice alla Maison française d’Oxford. Autrice, con Emmanuelle Avril, del saggio Les Partis politiques en Grande-Bretagne (Armand Colin, Parigi, 2013).

Per capire, almeno in parte, la Brexit, un fulmine a ciel sereno nel panorama internazionale, bisogna indagare le discussioni interne al Partito conservatore, dalle motivazioni che hanno spinto l'ex primo ministro David Cameron a organizzare un referendum, alle strategie adottate da Theresa May, sua erede, durante le trattative. Il campo tory, che ama presentarsi come «il partito naturale di governo», ha sempre più le sembianze del partito della discordia

AGNÈS ALEXANDRE-COLLIER *

MANCHESTER, OTTOBRE 2017. Manifestazione contro la Brexit. Foto LaPresse

LONDRA. DOWNING STREET. NOVEMBRE 2018. Manifestanti contro la Brexit,davanti alla residenza ufficiale del primo ministro. Foto LaPresse

Page 19: n diploteca · del Paese al primo posto. Attaccata dai democratici e dai media statunitensi per l’avvicinamento alla Corea del Nord, giudicato im-prudente, la Casa bianca sarebbe

Le Monde diplomatique il manifesto NOVEMBRE 2018 19

le divisioni dei conservatori britanniciPER IL REGNO UNITO

cholas Timothy, figlio di un operaio siderurgico di Birmingham e prove-niente dalle «working-class Tories», conservatori di estrazione popolare. Si presenta come una perfetta sintesi tra un discorso securitario e un conserva-torismo sociale che mira a recuperare quelle tute blu conservatrici sedotte dal Partito per l’indipendenza del Re-gno unito (Ukip) (6). Questo consi-gliere, in cui alcuni vedono la «mente» di May, incita la candidata a riabbrac-ciare la tradizione sociale che fu di Disraeli, la cosiddetta one-nation, a tratti interventista, schierata contro gli eccessi del sistema bancario, e auspica il ritorno a un capitalismo più etico e responsabile.

Donatori ultraricchi

L’idea conservatrice – autoritaria e dirigista – si pone agli antipodi di quella – liberista in ambito economico e liberale in quello culturale – di Ca-meron, incarnazione di un’élite privi-legiata vicina agli ambienti finanziari, il «Notting Hill set», club dei quartieri chic di Londra con cui May non si è mai sentita a proprio agio. Nel 2017, il partito cresce altrove, tra gli operai e i dipendenti del settore privato, e in sei circoscrizioni laburiste favorevoli alla Brexit del nord-est dell’Inghilterra. Alcuni ex membri dell’Ukip, come il tesoriere della campagna del «Leave» («uscire», a favore della Brexit), Arron Banks, hanno anche tentato di inserir-si tra le sue fila. Parallelamente, i tori-es recuperano tredici seggi in Scozia, grazie alla popolarità della dirigente locale del partito, Ruth Davidson, anti-Brexit, omosessuale e star mediatica.

Nonostante i molti sondaggi che, in caso di nuove elezioni, preannun-ciavano la vittoria del rivale laburi-sta, il partito resta ancorato al potere. Ma le divisioni sembrano scoraggiare sempre più i militanti. All’inizio degli anni 1980, con 1,5 milioni di iscritti, i conservatori rappresentavano uno dei maggiori partiti dell’Europa occiden-tale. In base alle ultime stime, quasi mai rese pubbliche, oggi si assestereb-bero attorno ai 124.000 membri, poco più del Partito nazionalista scozzese (118.000 circa), mentre il Partito labu-rista conta 550.000 iscritti, molti dei quali sedotti da Corbyn (7). Nonostan-te gli sforzi di Cameron per tentare di abbassare l’età dei propri membri, attraverso i social network e le nuo-ve tecnologie (da cui il soprannome di «primo ministro Blackberry»), la grande difficoltà per il Partito conser-vatore sta nella loro incapacità di atti-rare i giovani: l’età media degli iscritti è elevata – 57 anni –, e più di uno su due ha già spento sessanta candeline.

Nelle circoscrizioni elettorali, le sezioni locali subiscono un’emorragia che le priva di un vivaio sufficiente per portare avanti delle campagne sul ter-ritorio, mentre il Partito laburista ha a propria disposizione militanti giovani e attivi. Per ovviare a questa mancan-za, i tories hanno fatto ricorso a due

strategie. Una tradizionale, consiste nello spostare in pullman i militanti dalla sede londinese; l’altra, attuata nel 2015, prevede il reclutamento di sim-patizzanti che non sono membri del partito ma sono pronti a titolo volon-tario a subentrare ai militanti che sal-dano la propria quota (25 sterline, cir-ca 29 euro, per l’iscrizione standard). Questa seconda pratica tuttavia è stata macchiata da due scandali che hanno messo fine all’esperienza e che hanno portato alla luce gravi irregolarità nel-lo svolgimento della campagna eletto-rale del 2015. Il responsabile di questa, che, battezzata Road-Trip, mobilitava militanti e simpatizzanti, è stato ac-cusato di violenza sessuale, e un rap-porto della commissione elettorale ha riscontrato la mancata dichiarazione di cifre consistenti, legate soprattutto al trasporto dei simpatizzanti.

Nel Regno unito, i partiti non sono retti da un sistema generale di sovven-zione. Nei casi in cui vi siano contri-buti, questi riguardano soprattutto i partiti di opposizione, per permettere loro di compiere le missioni parlamen-tari. L’erosione della base militante ha accentuato la dipendenza del Partito conservatore da un’élite privilegiata proveniente dagli ambienti degli affa-ri, della finanza e del settore bancario. I tories, infatti, si reggono su una rete di potenti donatori, che ricorrono a donazioni dirette o a fondi speculativi (hedge funds), che, nel 2015, raggiun-gevano i 32,8 milioni di sterline su un totale di 41,8 milioni (stando ai dati più recenti forniti dalla commissione elettorale) (8). Lo stesso anno, i labu-risti hanno realizzato incassi superiori – 51,1 milioni di sterline –, prevalente-mente grazie alle partecipazioni indi-viduali (9).

I media continuano a essere uno strumento efficace. Dalla comparsa

di News international (poi diventata News Uk), il gruppo del magnate Ru-pert Murdoch, che domina l’insieme del mercato, la stampa britannica è una delle più potenti d’Europa (con tirature superiori al milione e mezzo di copie per ognuno dei due principali tabloid). Essa rimane in larga parte vicina al Partito conservatore, ad eccezione del Daily Mirror e del Guardian. dal 2015, il mercato è dominato da tre quotidia-ni: The Sun, The Daily Telegraph e The Daily Mail. Apertamente euroscettici, sostengono attivamente i tories. The Ti-mes e The Financial Times, più mode-rati, difendono l’idea di una coalizione con i liberaldemocratici.

Dall’ascesa di Alastair Campbell, l’ex spin doctor (consigliere per la co-municazione) di Blair, i primi ministri hanno l’abitudine di assoldare degli ex giornalisti della stampa cosiddetta «popolare» come responsabili della comunicazione. Ma, sul fronte conser-vatore, la nomina di Andrew Coulson, giornalista della testata News of the World, coinvolto in uno scandalo sulle intercettazioni telefoniche, ha intac-cato l’immagine di Cameron, che nel 2011 l’ha sostituito con un altro uomo della televisione, Craig Oliver. Oggi, il sostegno della stampa si cataliz-za attorno a figure conservatrici più mediatiche, a cui i giornali lasciano volentieri spazi sulle proprie pagine, anche con cadenza regolare. È il caso dell’ex cancelliere dello Scacchiere di Cameron, George Osborne, diventa-to nel 2016 il caporedattore del Lon-don Evening Standard, e soprattutto di Johnson, che ha iniziato la propria carriera come giornalista. Nel luglio 2018, subito dopo aver dato le dimis-sioni dal governo, Johnson ha firmato un contratto di un anno con The Daily Telegraph. Secondo The Independent, questo nuovo ruolo lo condurrà a fare «più danni con la sua rubrica settima-

nale di quanti ne abbia mai fatti da mi-nistro degli esteri (10)».

Tra i potenti mezzi in mano ai tories, troviamo anche i think tanks che, dalla loro nascita fin alla grande espansio-ne degli anni 1980, continuano ad ali-mentare il partito, si pensi all’Institute of economic affairs o al Centre for po-licy studies, storicamente legati all’av-vento del thatcherismo. Altri, più re-centi, come Policy exchange o Bright blue, sono nati sulla scia delle riforme intraprese da Cameron. Anche l’espe-rienza macroniana sembra aver avuto qualche seguito oltremanica, con un gruppo definitosi Onward («avan-ti»; che si potrebbe anche leggere «en marche»…). Fondato dal deputato Neil O’Brien nell’autunno 2017, cerca al contempo di attirare gli elettori del nord dell’Inghilterra e quelli, più co-smopoliti e liberali della capitale.

Verso un voto di sfiducia

Ma, dal referendum del giugno 2016, l’intero dibattito politico, e quindi della rete dei think tanks che formano l’intelaiatura ideologica del partito, sembra dominato dalla Brexit. Open Europe, per esempio, ha assunto un ruolo centrale presso i partigiani di una Brexit più discreta possibile. I de-putati più euroscettici, riuniti attorno all’European research group, fonda-to all’inizio degli anni 1990 dai loro precursori per far fallire la ratifica del trattato di Maastricht, si divertono a immaginare una fronda di ottanta de-putati, abbastanza potente da imporre un voto di fiducia e destituire May, che sognano di veder scalzata da Johnson.

Secondo un sondaggio realizzato da ConservativeHome, un blog molto seguito dalla base del partito (11), un

crescente numero di militanti e di elet-tori conservatori (il 35% degli iscritti al partito) considera che solo Johnson, nonostante la propria inconsistenza, l’apparente disinvoltura e le numerose gaffe, possa gestire la realtà e le con-traddizioni del paese. C’è di più, l’ec-centricità dell’uomo, profondamente attaccato alle istituzioni e biografo Winston Churchill, lo erigerebbe a incarnazione delle molte sfaccetta-ture del Regno unito, in particolare dell’Inghilterra. Ne è testimonianza l’adulazione dimostratagli al Congres-so di ottobre 2018, e il fervore di cui continua a godere sui social network vicini al partito. Nell’ipotesi di un voto di sfiducia contro May – che potrebbe essere richiesto qualora quarantotto deputati facessero richiesta scritta –, l’elezione Johnson a capo del partito non è più uno scenario fantastico, nel-la misura in cui, dal 1998, l’iter è nelle mani degli iscritti.

Tuttavia, per una maggioranza dei conservatori, l’uomo dalla pazza ca-pigliatura è ancora troppo eccentrico e marginale, come l’aristocratico Jacob Rees-Mogg. May, in queste condizio-ni, rimarrebbe la «meno peggio» delle figure importanti del partito. Fino a quando?

AGNÈS ALEXANDRE-COLLIER

(1) Nel Regno unito, i gruppi dell’opposizione formano dei governi paralleli, detti «fantasmi».(2) Citato da Virginia Blackburn, Theresa May: The Downing Street Revolution, John Blake Pu-blishing, Londra, 2016.(3) «“Less stale, only slightly less male, but over - whelmingly less pale”: The 2015 new Conservative Brexiters in the House of Com-mons», Parliamentary Affairs, Oxford, 15 giu-gno 2018.(4) Tim Bale e Paul Webb, «“We didn’t see it coming”: The Conservatives», in Jonathan Ton-ge, Cristina Leston-Bandeira e Stuart Wilks-Heeg, Britain Votes 2017, Oxford University Press, coll. «Hansard Society», 2018.(5) John Stuart Mill, Considerazioni sul gover-no rappresentativo, 1861.(6) Timothy Heppell, «Cameron and liberal conservatism: Attitudes within the parliamen-tary Conservative Party and Conservative mi-nisters», The British Journal of Politics and International Relations, vol. 15, n° 3, Londra, agosto 2013; Timothy Heppell et al., «The Con-servative Party leadership election of 2016: An analysis of the voting motivations of Conserva-tive Parliamentarians», Parliamentary Affairs, vol. 71, n° 2, aprile 2018.(7) Si legga Owen Jones, «Rabbia sociale e voto a destra», Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 2014.(8) Si legga Allan Popelard e Paul Vannier, «Ri-nascita dei laburisti nel Regno unito», Le Mon-de diplomatique/il manifesto, aprile 2018.(9) Alistair Clark, Political Parties in the UK, Palgrave Macmillan, Londra, 2018 (2a edizio-ne).(10) Il sistema di finanziamento, regolato dalla legge del 2000 Political Parties, Elections and Referendums Act (Ppera), obbliga i partiti a dichiarare, per le donazioni superiori a 7.500 sterline, l’origine del dono e lo status fiscale del donatore. (11) Will Gore, «Boris Johnson will do more damage writing his weekly column than he ever did as foreign secretary», The Independent, Londra, 16 luglio 2018.(12) Paul Goodman, «Our survey. Next Tory leader. Johnson stretches his lead at the top of the table», 6 settembre 2018, www.conservati-vehome.com(Traduzione di Alice Campetti)

SlowfoodConsigli per il pesce

Naturalmente!Cosa sono le terre rare

GIORGIO NEBBIA PAGINA7

CiclostileButta l’auto, usa la bici

ROTAFIXA PAGINA7

MICHELA MARCHI PAGINA2

ALTERNATIVE

L’Alveare,l’economiasolidalemodelloUber

ARTEEDECOLOGIA

Florenceexperiment,lepiantesiemozionano

SUPPLEMENTOAL NUMERO ODIERNO

NUMERO 8ANNO II

DEL MANIFESTODEL MANIFESTOSETTIMANALE ECOLOGISTANUMERO 11

ANNO ISUPPLEMENTOAL NUMERO ODIERNO

Il cantoIl cantoLe cicale sono la colonna sonora

dell’estate. La loro esistenzaè ancora un mistero: trascorrono

gran parte della loro vitain attesa di diventare adulte.

Poi durano lo spazio della stagione più calda.

Con i cambiamenti climatici, il loro frinire ormai durada maggio a settembre.

Con qualche defaillance a pagina 5

delle

Con qualche defaillance a pagina 5

cicaleIIMartinaReha27anni, una laurea inAgra-ria e un lavoro da ricercatrice nell'ambitodell'agricoltura biologica. A luglio 2018 staraccogliendoleadesioniper il suoAlveare,ungruppodi personeche si riunisce virtualmen-teper compraredirettamenteda agricoltori eartigiani. LUCA MARTINELLI ALLE PAGINE 2,3

All’interno

II Le piante respirano senza polmoni, sinutrono senza bocca, digeriscono senzastomaco: sono così lontane da noi animalida apparirci comequalcosa di radicalmen-te diverso, con cui sarebbe impossibile in-tessere un rapporto.LUCA ATERINI A PAGINA 6

spilloLamanodell’uomo

che rende il paesaggiobanale

«Ai nostri giorni quasi ogni cosiddettomiglioramento a cui l’uomo possa pormano,come la costruzione di case e l’abbattimento diforeste e alberi secolari, perverte in modoirrimediabile il paesaggio e lo rende sempre piùaddomesticato e banale»

Henry David Thoreau«Credo che avere la terra e non rovinarla sia lapiù bella forma d'arte che si possa desiderare»

Andy Warhol

paroleparoleSenza

LE GIORNATE DEL CINEMA MUTO DI PORDENONE (6-13 OTTOBRE) UNA MEMORABILE EDIZIONECON LE SCOPERTE E LE INTEGRAZIONI DI PELLICOLE CHE CONTRIBUISCONOA COLMARE SPAZI VUOTIDELLA STORIA DEL CINEMA, E COMPLETARE LE FILMOGRAFIE DEI MAESTRI

LucieKhahoutianAnnecyStefanoSavonaMAVIFrankCancianMatteoTortoraStefanoCasini

SerialrussiGuidaallaMoscaribelle

MartyBalin, ilricordoCumbiasonidera

SABATO 6 OTTOBRE 2018 ANNO21 N.40 INSERTO SETTIMANALE DE IL MANIFESTO

di LUCA CRESCENZI

Una classica tesi, avan-zata ormai quasi qua-rant’anni fa dal gran-destoricoReinhartKo-selleck, vede nell’Ot-tocento il secolo dellavelocizzazione, delladefinitiva uscita

dell’umanitàoccidentaledall’or-dinediun’esistenzaregolatadal-la natura e dai suoi immutabiliritmi: la successione di giorno enotte, l’alternanza delle stagio-ni, i cicli lunari. Lemasse accolteinmisura crescente dametropo-li piccole e grandi abbandonaro-nounavoltapersempreleformedivitaereditatedai loroaviecon-divise ancora fino a poco tempoprima da una civiltà prevalente-mente legata alla terra, la tecni-ca assecondò e favorì le necessa-rie trasformazioni e le ultimeesplorazionidella storia restitui-ronodelmondoun’immagineri-stretta e affollata, chiusa e privadi romanticismo, in cui le realtàdelpericoloedell’avventuraave-vano perduto il loro antico fasci-no e, nel peggiore dei casi, pote-vano proporsi solo nelcontesto,sempre più tecnologico anch’es-so, della guerra.

Sorprendenti cortocircuitiErnst Jünger, in quel capolavorod’ironia che è il romanzo Giochiafricani, poté racchiudere pocopiùtardiilsignificatodelsuoten-tativo di fuga nella legione stra-niera in una sola frase del suo di-silluso legionario Benoit: «Vai fi-no alla fine delmondoe alla finescopri che ovunque c’è già statoqualcuno». L’avvicinamentoall’ignotosiritiranelladimensio-nedell’interiorità,làdoveèanco-rapossibile incontrare il silenzioe la solitudine. E per reazione aun’esistenza generalmente uni-formataeintensificatacomincia-noasvilupparsiformedivitacon-templativa e isolata in cui si pro-ducono sorprendenti cortocir-cuiticherendonoindistinguibiliiconfinifraluoghiuntempolon-tanissimi. Accade, in questomo-mento, cheuncarcere, unmani-comio, un laboratorio scientifi-co o una biblioteca possano di-ventare per poco omolto tempouna sola identica cosa.La storia che Simon Winche-

ster racconta in Ilprofessoree ilpazzo (traduzione di Maria Cri-stina Leardini, Adelphi, pp. 262,e 19,00) traendola da un paio diarchiviedainonmoltissimivolu-michehannoricostruitolevicen-de della nascita dello Oxford En-glish Dictionary, orgoglio dellalessicografia britannica otto-no-vecentesca, assume, nei limiti diqueste premesse, valore esem-plaree finisceperportarealla lu-ce qualcosa che, probabilmente,non era nelle sue intenzioni de-scrivere.Il proposito dichiarato del li-

brodiWinchesterrisponde,inef-fetti, a un progetto ambizioso,manonnuovo:cogliere,attraver-soil «tormentatocasoumanodeldottor Minor», la possibilità di«osservare la storia più grande eancorpiùaffascinantedellalessi-cografiainglese»,ovveroriscrive-

re questa storia a partire da unavicendastranaevagamentenoircapace di renderla interessanteper un pubblico non necessaria-mente attratto dalle sue lunghee tortuose vie.A questo scopo la storia di Mi-

nor, inseparabile da quella di Ja-mesMurraycheful’animadeldi-zionario di Oxford, possiede lastessa efficacia che già ebbe nelmomentoincuiuscìperlaprimavolta nel 1915.

Il gusto della digressioneLa cronaca vuole infatti che unodeipiùefficientieproduttivi col-laboratori del dizionario (cheper venire al mondo ebbe biso-gno della collaborazione dimol-tissimi ricercatori dilettanti oesperti reclutati in maniera al-quanto empirica dai professoridiOxford),unodeipiùacuticorri-spondenti e interlocutori in ma-teria di lessicografia del leggen-dario Murray fosse un medicoamericanoariposo,costrettonelmanicomio di St. Elizabeth a

Crowthorne,acausadiunomici-dio commesso poco dopo il suoarrivoaLondraeperseguitatodafantasie paranoiche che non loavrebbero lasciatoper tutta lavi-ta.Il racconto di questa storia si

elevabenal di sopra e al di là del-la narrazione aneddotica, graziealla capacità diWinchesterdi in-trecciarlaaunaricostruzionesto-rica di ampio respiro che uniscela rappresentazionedella perife-ria londinese di fine ottocentoagli orrori della guerra di seces-sione americana, le vicende del-laPhilologicalSocietydiLondraallestoriepersonali di vari umiliati eoffesi dellamodernitào la vitadiSamuel Johnsonalladescrizionedelle regole di detenzione neimanicomi inglesi in un disegnounitario, mai eccessivo e, biso-gnaammettere,tenutosottocon-trollo da un’abilissima capacitàcostruttiva.La densità è tale che si vorreb-

be concedere aWinchester il be-neficiodidivagazionipiùampie.

AdesempiovienedaconsiderarechelastoriadiMinorèefficacee,per certi versi, perfino commo-vente o traumatica: ma che diredi quella di Fitzedward Hall, al-tro grandissimo collaboratoreamericano del dizionario – cuiWinchester è costretto a dedica-re poche righe – il quale speditodalla famiglia aCalcutta in cercadiunfratellopocoprimadientra-re a Harvard, sopravvive al nau-fragiodella suanave, iniziaastu-diare il sanscrito con tale succes-sodaricevere l’offertadiunacat-tedra all’università di Benares,combatte congli inglesi durantelarivoltadeisepoyeapprodainfi-ne a Londra, al King’s College eall’incaricodi bibliotecariopres-so il ministero dell’India, soloperdimettersidaentrambele in-combenze poco dopo e ritirarsipermotivimisteriosiinunosper-dutovillaggiodelSuffolkasegui-todi una furiosa lite conunaltrosanscritista austriaco di nomeTheodor Goldstücker? Sembrachegli insospettabili lessicografi

offrano a ogni piè sospinto tra-me da romanzo.Ilrischio, inquestamolteplici-

tà di oggetti della narrazione diWinchester, è casomai quello diperdere di vista quello che do-vrebbe essere il tema del libro,cioè la storia del dizionario diOxford. Ma il guadagno premiala perdita. Sono infatti gli acco-stamenti inaspettati del raccon-to a suggerire la necessità di rie-splorarei luoghidell’isolamentoottocenteschi.

Negli spazi della inazioneComedimostranoletesidiKosel-leck,cisiamoattardatiaconside-rare l’Ottocentosoloalla lucedeisuoi aspetti più macroscopici,deisuoimiti (primofratuttiquel-lodelprogresso)odiquei risulta-ticheancoracondizionanoleno-strevite: la velocità, la tecnica, lametropoli, la massa. E di conse-guenza consideriamo ancoratroppo poco quanto, il XIX seco-lo, sia popolato dauna schiera dipersonaggi ritirati negli intersti-

zi dell’inazione, dell’ascesi,dell’erudizione, del puro e sem-plice pensiero.Anche Minor, come Fitzed-

ward, è un ex soldato, portato al-la follia, forse, dall’esperienzadella guerra. E anche lui riesce atrovare scampo dalla storia solonel confronto con la realtà silen-ziosa dei libri. Dalla sua ritiratasolitudinescaturisceilgrandedi-zionario;mamille altre solitudi-ni più libere della sua – quella diNietzscheèforsesololapiùfamo-sa – hanno dato al nostro tempolasuavisionedelmondo.Perque-stodovremmoforse considerareanche i luoghi della reclusioneforzata e della segregazione co-me il rifugio di alcuni. E restitui-relaparolaaiBenoitdelXIXseco-lo, che come l’idealista disincan-tato di Jünger potrebbero dire:«Hopassatomesinegliospedalienelle prigioni. Ho conosciuto ilcafarde lanoia.Maaquel temponon sapevo che si possono tap-pezzare i muri coi pensieri. Permenon ci sono più prigioni».

Tennessee Williams,mostra a New York,Morgan Library

FRANCO FERRARI 9STEFANO CHIODI

Walter Siti, Searle,Ferraris: variazionisul tema del denaro2 Utopia e potere,

come leggere Platone5Il nuovo Cavazzoni:sul pianeta Terracomandano gli alieni

Illessicoragionatodiunparanoico

James Augustus Henry Murray con lo staff dell’Oxford English Dictionary

Dal «tormentato caso umano del dottor Minor» alla genesidell’Oxford English Dictionary, una vicenda paradigmatica:«Il professore e il pazzo» di Simon Winchester, da Adelphi

TOMMASO MOZZATI

11 «Per una fotografianon autoritaria»

J.-F. CHEVRIER

CANGIANO, MAZZEO

Critica dove sei:quinta puntatadi un dibattitoNICCOLÒ SCAFFAI4 GRAZIELLA PULCE8

MARIO VEGETTIInserto settimanalede "il manifesto"

20 maggio 2018anno VIII - N° 20

la quotidianitàOltrecon

c’è di più.

IL SETTIMANALE ECOLOGISTA

ARTI , MUSICA, FUMETTI , OZIO

SABATO

GIOVEDÌ

DOMENICAIL MEGLIO DELLA

CRITICA LETTERARIA

LONDRA. NOVEMBRE 2018. Foto Afp

Page 20: n diploteca · del Paese al primo posto. Attaccata dai democratici e dai media statunitensi per l’avvicinamento alla Corea del Nord, giudicato im-prudente, la Casa bianca sarebbe

Lanciando un sondaggio tra i suoi lettori a vent’anni dal precedente, la squadra del mensile voleva conoscere meglio una po-

polazione che nel frattempo si è molto rinnova-ta. Nel giugno del 2014, il calo delle nostre ven-dite, che ci preoccupava da una decina di anni, si è interrotto. Alcuni mesi più tardi, le vendite si sono riprese in modo significativo, nonostante la crisi che sta attraversando la carta stampata, accentuata dalla grande abbondanza di infor-mazioni gratuite e dalla sensazione ampiamen-te condivisa di «non avere più tempo». Il nostro numero dell’agosto scorso ha registrato un livello di diffusione che non conoscevamo da quindici anni. Il bilancio finanziario del giornale testimonia questi risultati.

Per ragioni di comodità legate all’estrapola-zione delle risposte, il nostro questionario non è stato indirizzato ai lettori delle trenta edizioni internazionali di Le Monde diplomatique. Tutta-via, tali lettori rappresentano una percentuale decisiva del nostro pubblico nel mondo e un intermediario indispensabile per diffondere le nostre idee e i nostri valori all’estero.

Le risposte al questionario pubblicato nell’e-dizione francese e su Internet lo scorso mag-gio hanno disatteso tutte le nostre previsioni su un punto essenziale: il loro numero. In meno di un mese, 14.713 persone hanno compilato il modulo online e 2.040 persone quello su car-ta. Inoltre, 12.432 persone hanno compilato il questionario di valutazioni e commenti liberi. Questa dimostrazione di interesse è ancora più significativa se si considera il nostro previo av-vertimento: «Le vostre risposte non modifiche-ranno la nostra linea editoriale». A quanto pare, è esattamente quello che vi auspicate… Al fine di presentare dei risultati dettagliati che fossero il più possibile rappresentativi e non solo relati-vi ai lettori più fedeli, le risposte sono state pon-derate a partire da caratteristiche note in anti-cipo (1), come ad esempio il pubblico femminile (30%), gli abbonati (63%), gli stranieri (21%, ma questa percentuale comprende solo i lettori dell’edizione francese del mensile, non quelli delle edizioni internazionali) o i membri dell’as-sociazione degli amici del giornale (2,3%).

Lettori laureati, maschi, di sinistra

In primo luogo, è emerso che negli ultimi anni i nostri lettori non hanno subito una trasforma-zione significativa: sono in gran parte di genere maschile (come accade per tutte le pubblicazio-ni che si occupano di geopolitica), hanno molto spesso una laurea ed esercitano professioni in-tellettuali. Tuttavia, tra i nostri abbonati e acqui-renti si conta una percentuale non trascurabile di impiegati (7,5%) e di occupazioni intermedie (10,5%) e un numero di lavoratori dipendenti del settore privato pari a quello dei dipendenti del settore pubblico. Se negli ultimi vent’anni il pub-blico è invecchiato, come la popolazione fran-cese, i lettori di Le Monde diplomatique sono però più giovani della media francese. L’unica fascia d’età sovra-rappresentata è quella dai 25 ai 34 anni (si veda il grafico 1).

Come vent’anni fa, la grande maggioranza dei nostri lettori risulta essere di sinistra, una tendenza probabilmente accentuata dal tipo di persone, senza dubbio più militanti, che han-no scelto di rispondere al questionario. In ogni modo, la destra e il centro sono poco rappre-sentati (solo il 5,4% degli interpellati si sente vicino a tali aree politiche); una parte signifi-cativa dei lettori della nostra edizione francese preferisce non schierarsi politicamente (7,5%) o non si sente vicina ad alcuna corrente (12,6%). Il crollo del partito socialista che si è potuto osservare in occasione delle recenti elezioni nazionali si riflette anche nei nostri lettori, con l’aumento del numero di coloro che si dichiara-no vicini a La France Insoumise. Molto rappre-sentate sono anche le correnti situate ancora più a sinistra (si veda il grafico 3).

I lettori e le lettrici attribuiscono una grande importanza all’indipendenza del giornale, come è attestato dal ruolo che svolge il passaparola nella scoperta della testata. Sembrano anche, di conseguenza, poco interessati ai molti me-dia associati al potere politico o ai grandi ca-pitali. Un abbonato su due all’edizione france-se non legge quotidiani online o su carta; per quanto riguarda gli altri, il quotidiano più citato è Le Monde (39%), seguito a grande distanza da Libération, un quotidiano regionale, L’Hu-manité e Le Figaro. Un abbonato su tre non leg-ge nessuna delle riviste più popolari in Francia; gli altri scelgono Le Canard enchaîné, Courrier international e Télérama.

Le pubblicazioni indipendenti, come Al-ternatives économiques (25%), o impegnate, come Fakir (21,5%), fanno la parte del leone, così come Mediapart, i siti di critica dei media come Acrimed e Arrêt sur images e quelli che si occupano principalmente di ecologia come Reporterre o BastaMag. Anche la trasmissione «Là-bas si j’y suis» è stata menzionata, in modo spontaneo, in più occasioni. Sebbene il nume-ro dei nostri lettori online sia in aumento, quasi i due terzi degli intervistati consultano solo la versione cartacea del giornale. Chi ci segue online (una minoranza) lo fa in primo luogo at-traverso Facebook (un quarto delle risposte) e poi attraverso la newsletter «Info-Diplo».

Un plebiscito in favore dell’obiettività

Il tempo che ci dedicate è considerevole: più di due persone su tre dichiarano di leggere alme-no cinque articoli del mensile e il 38%, più di dieci. I due articoli pubblicati in prima pagina (in genere, un’inchiesta e un’analisi) sono, com’era prevedibile, i più letti di ogni numero. Lo stesso vale per gli editoriali. I vostri giudizi, almeno re-lativamente agli intervistati, evidenziano soddi-sfazione o quantomeno indulgenza. Interrogati su un certo numero di critiche rivolte frequente-mente ai giornali di informazione politica (arti-coli ripetitivi, difficili da leggere, inutilmente lun-ghi, dogmatici, con troppe cifre, senza punti di riferimento, imprecisi, ecc.), la maggior parte di voi le ha scartate, spesso in proporzioni mas-sicce. Solo un quarto delle persone che han-no risposto al nostro questionario dice di non capire «di tanto in tanto» alcuni articoli, cosa che ci incoraggia a continuare a chiarire i con-cetti e gli avvenimenti meno noti e identificare i personaggi un po’ dimenticati. Nei moltissimi commenti, i lettori sottolineano in primo luogo il loro attaccamento a Le Monde diplomatique per la «qualità» della sua produzione editoriale, un termine che ritorna 3.469 volte, e per la sua «obiettività». Inoltre, si ritrovano nel trattamento privilegiato accordato alla politica internaziona-le, alla globalizzazione, all’ecologia e alle que-stioni sociali e apprezzano la nostra scelta di fornire altre chiavi di lettura del mondo e di af-frontare temi poco discussi altrove. Ogni mese

«ci si ferma, si riflette» per trovare nuovi argo-menti e in alcuni casi si cambia anche idea. Quasi otto lettori su dieci conoscono la nostra pubblicazione tematica bimestrale Manière de voir, ma più dei due terzi ignorano ancora la possibilità di ascoltare il giornale online. Il 15% ha già regalato l’abbonamento a un amico e il 22% pensa di farlo. Questo sostegno può an-che essere accompagnato da un’adesione agli Amici del Le Monde diplomatique, che, ogni mese, mette in luce i temi e valori del giorna-le organizzando decine di dibattiti in Francia e all’estero.

In ultima analisi, la soddisfazione dei nostri lettori può essere interpretata più come l’attac-camento ostinato a un punto di riferimento che come il riflesso del lavoro sempre perfettibile della nostra piccola squadra. Nel vortice intellet-tuale, tecnologico, politico e culturale che esal-ta la mobilità, l’immediatezza e il cambiamento permanente, Le Monde diplomatique coltiva una costanza incrollabile, una singolarità intellettuale e un certo classicismo. È questa forma di resi-stenza che voi ci incoraggiate a perseguire.

(1) Alla fine il campione è di 15.970 individui. L'elaborazione dei dati è stata effettuata da Ensai Junior Consultant, junior-company della National School of Statistics e Information Analysis di Rennes.

(Traduzione di Federico Lopiparo)

Una singolarità condivisa

«LE MONDE DIPLOMATIQUE» E I SUOI LETTORI

NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto20

Risultati del 2017

Nel 2017, il fatturato di Le Monde di-plomatique (12.301.000 euro) è di-

minuito del 2,7% rispetto all’anno prece-dente (12.645.000 euro). Ma il 2016 era stato caratterizzato dalla pubblicazione del Manuale di economia critica, che ave-va generato un volume d’affari di 748.600 euro. A perimetro costante, il fatturato è quindi aumentato del 6,3%. La diffusione complessiva del mensile è stata in media di 161.273 copie nel 2017, rispetto alle 156.585 del 2016, con un aumento del 3%. Solo in Francia, questo aumento è stato del 4,3%.

Dal 2014, il miglioramento della nostra situazione finanziaria è dovuto principal-mente agli abbonamenti, che, con una media di 94.864 copie fornite, nel 2017 sono aumentati del 7,7% rispetto al 2016. Gli abbonamenti digitali sono aumentati del 24,2% e gli abbonamenti all’edizione cartacea del 4,9%. L’eccellente tenuta del-la nostra edizione cartacea (abbonamenti, ma anche vendite di numeri singoli) è una particolarità del Le Monde diplomatique. Le altre pubblicazioni che resistono al declino generale della carta stampata de-vono quasi sempre tale risultato alla sola distribuzione digitale.

Questo risultato è a nostro avviso anco-ra più soddisfacente dal momento che le vendite hanno continuato a risentire della chiusura delle edicole e del cambiamento delle abitudini di lettura. Nonostante tutto, noi manteniamo la nostra presenza nelle strade (punti vendita e affissioni).

Il numero degli abbonati agli archivi di-gitali ha continuato a crescere, raggiun-gendo una media di 34.744 nel 2017. Nel settembre 2018 erano 41305.

Manière de voir, il nostro bimestrale, con la sua nuova impaginazione e le sue inchieste documentarie, ha trovato un nuovo pubblico. In Francia, le vendite degli ultimi due numeri dell’anno sono state su-periori del 25% rispetto a quelle dei quat-tro numeri precedenti.

Le altre entrate derivano principalmen-te dai diritti di riproduzione (264.000 euro registrati nei nostri bilanci nel 2017) delle nostre edizioni internazionali – molte del-le quali sono in grandi difficoltà e spes-so faticano a pagarci – e dalle donazioni (194.000 euro) – il cui ammontare è note-volmente diminuito da quando abbiamo interrotto le nostre campagne di finanzia-mento. Infine, i contributi alla stampa pre-visti per le pubblicazioni con scarse inser-zioni pubblicitarie sono diminuiti del 5% (308.600 euro). Con un importo di 107.000 euro, i proventi pubblicitari rappresentano lo 0,9% del fatturato del giornale.

Nel 2017, gli utili sono diminuiti del 16,1% rispetto all’anno precedente, un dato sto-ricamente eccezionale. Restano comun-que elevati. Abbiamo scelto di destinarli nuovamente a un fondo che consentirà di garantire, grazie a voi, la stabilità finanzia-ria e l’indipendenza del giornale.

Le Monde diplomatique non ama né i sondaggi né gli studi di mercato. Definisce la sua linea editoriale senza cercare di piacere a qualcuno. Cosa che lo differenzia dalla maggior parte delle altre testate. A rischio di non piacere, appunto

8,2 8,7

Anarchici

8,7 7,5

Estrema sinistra

4,7 3,5

Partito comunista

35,2 % 28,9 %

La Franceinsoumise

4,3 4,8

Partito socialista

7,8 7,5

Altre correntidi sinistra

4,4 3,6

Verdi

2,8 3

Altre correntiecologiste

2,9 4

La Républiqueen marche

0,9 2,3

Altre correntidi destra o di centro

0,5 0,6

Estrema destra

10,9 15,2

Nessuno in particolare

7,1 8

Non risponde

Quale partito o movimento politico sente più vicino a lei?

3

0,6

3,4

2,7

10,8

29,3

40,5

13,3%

0,8

4,9

2,9

13,1

30

37,7

10,9%

Scuola primaria

Scuola secondariainferiore

Diploma tecnicoo professionale

Scuola secondariasuperiore

Laurea triennaleo quadriennale

Master

Dottorato

Qual è il suo livello di istruzione? 2

Insieme della popolazione francese dai 15 anni in su

15

25

35

50

65

100anni

14,5

14,5

23,7

23,5

23,9 %

8,2

23,1

20,7

24

23,8%

15,9

24,1

19,3

22,1

18,3%

Quanti anni ha? 1

Chi è?Non abbonato Abbonato

PABLO PICASSO Bottle of Vieux Marc, Glass and Newspaper

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Le Monde diplomatique il manifesto NOVEMBRE 2018 21

Fine delle ostilità tra Etiopia e EritreaI RETROSCENA DI UN’INATTESA FRATERNIZZAZIONE

Una rivoluzione pacifica stravol-ge i rapporti tra Etiopia ed Eri-trea. I due paesi, dalla guerra

degli anni 1998-2000 (1), coabitano, fatte salve alcune scaramucce, come l’intervento militare di Addis Abeba in Somalia, nel 2006, contro gli alleati di Asmara. Nelle due capitali, l’autorita-rismo al potere ha fatto spesso temere la possibilità di un nuovo conflitto con il vicino.

L’Etiopia è stata il motore del cam-biamento, che ha preso forma il 6 aprile 2018 con la nomina a primo ministro di Abiy Ahmed, un perfetto sconosciuto. Questo dirigente dell’In-formation Network Security Agency, il sistema nazionale di controllo di Internet e delle telecomunicazioni, discende dall’etnia oromo, della quale molti membri si dichiarano secessioni-sti. Per arginare il declino del regime erede del Fronte democratico rivolu-zionario del popolo etiope (Eprdf), ha avviato immediatamente una serie di riforme: liberazione dei detenuti po-litici, apertura dei media, riconosci-mento dell’opposizione.

Nella storia etiope ogni evento va visto sotto una particolare luce. Trat-tandosi dell’unico paese del continen-te a non essere mai stato colonizzato, rappresenta un simbolo per l’Africa in-tera (2). Dopo la destituzione dell’im-peratore Hailé Selassié, nel 1974, è stato retto da un regime militare sta-linista, guidato da Menghistu Hailè Mariàm, fino al 1991 (3). L’Eprdf, fon-dato da Meles Zenawi, prende il pote-re al termine di quindici anni di guerra civile. Questa coalizione di partiti su base etnica, che professa un neo-mar-xismo riformista e autoritario, è domi-nata dal Fronte popolare di liberazione del Tigrè (Tplf). La dimensione ditta-toriale del regime, mascherata a lungo da un discreto dinamismo economico (una crescita media del 7% dal 2005), emerge a seguito della morte del pro-prio fondatore, nel 2012. Il governo dell’Eprdf inizia a scricchiolare sotto la pressione degli squilibri regionali. I funzionari etno-regionalisti del re-gime giocano la carta della democra-tizzazione per attirarsi il favore della «comunità internazionale», senza tut-tavia riuscire a celare la propria reale intenzione: sfruttare i benefici di un’e-conomia in piena crescita. Dal canto loro, gli adulatori occidentali del «mi-racolo economico etiope» chiudono gli occhi su quel che lo stesso Zenawi aveva definito un sistema «bonaparti-sta».

Il tentativo di espansione del peri-metro urbano di Addis Abeba dà fuo-co alle polveri, provocando una serie di rivolte nella popolazione oromo che vive ai margini della metropoli. I contadini di questa etnia temono che la speculazione immobiliare generi benefici solo per i politici tigrini del Tplf. A partire dal novembre 2015, i disordini si estendono a tutta la re-gione dell’Oromia, in cui vive il 35% della popolazione. Le violenze prose-guono nonostante le centinaia di morti e le migliaia di arresti. Si sospetta che gli oromo abbiano fomentato l’attenta-to del 23 giugno 2018 ad Addis Abeba, a cui è scampato per un soffio il primo ministro ma che ha causato la morte di due persone e il ferimento di oltre cen-tocinquanta.

Questa recrudescenza nelle tensioni coincide con lo scoppio di una grave crisi finanziaria. Se gli investimenti diretti esteri (Ide) sono passati da 1 a 4

miliardi di dollari tra il 2012 e il 2018, tuttavia, nello stesso periodo, il deficit commerciale è aumentato, passando da 3 a 14 miliardi. All’origine, uno «sviluppismo» disordinato e costoso, caratterizzato da progetti sproposi-tati, come le dighe sul Nilo azzurro. Inoltre, esorbitanti investimenti han-no aggravato il deficit commerciale con un conseguente incremento delle importazioni. Il regime Eprdf si sgre-tola lentamente; quando Abiy arriva al potere, ad aprile scorso, la sua stessa sopravvivenza è a rischio.

Insieme alle riforme interne, il nuo-vo primo ministro lancia un’offensiva diplomatica sulle due questioni più calde dell’area: lo sfruttamento delle acque del Nilo e la pace con l’Eritrea, la cui indipendenza, ottenuta nel 1993 e confermata con la guerra del 1998-2000, ha provocato l’isolamento del paese. Il 10 giugno, promette al presi-dente Abd al-Fattah al-Sisi di non ri-vendicare la propria quota delle acque del vitale fiume egiziano (4). Questo gesto segna lo slittamento di Addis Abeba, fino ad allora vicina al Qatar, verso l’asse Arabia saudita-Emirati arabi uniti, di cui il Cairo è un atto-re centrale (5). Cinque giorni dopo, Mohammed bin Zayed al Nahyane, principe ereditario degli Emirati arabi uniti, conferma l’offerta di 3 miliardi di dollari all’Etiopia.

Scaramucce e violenze armate

La normalizzazione dei rapporti con l’Eritrea è ancor più stringente per ar-ginare l’ascesa dell’indipendentismo nella regione del Tigrè, posta sulla frontiera tra i due paesi. Addis Abeba teme una ripresa del secessionismo tigrino che aveva avuto una contra-zione con l’indebolimento del regime. Asmara, invece, teme un attacco da parte delle popolazioni tigrine resi-denti nelle province eritree del Serae, dell’Amasien e dell’Acchelè-Guzai. Abiy e il presidente eritreo Issayas Afeworki, forti di questo interesse comune a riaffermare l’autorità sui rispettivi territori, mettono in scena la riconciliazione lungo la frontiera comune nel corso del capodanno etio-pe, l’11 settembre 2018. La loro pas-seggiata simbolica, in abiti militari, ha lo scopo di stroncare le tentazioni indipendentiste tigrine. Nel 1991, alla caduta di Menghistu, per quasi un anno aveva regnato l’incertezza sulla scelta finale della vittoriosa guerriglia del Fplt, divisa tra il progetto autono-mista e l’accesso al potere nazionale. L’influenza di Meles ha spostato l’ago della bilancia a favore del centralismo.

A fine luglio 2018, sulla scia del trionfo diplomatico della riconcilia-zione con l’Eritrea – i due paesi hanno firmato un accordo di pace il 9 luglio –, Abiy si reca negli Stati uniti, dove invita l’importante diaspora etiope a unirsi al tiliq tehadiso («grande cam-biamento»), appena lanciato ad Addis Abeba. Al suo ritorno, il 7 agosto, firma un accordo con il Fronte di li-berazione Oromo (Olf), principale responsabile degli scontri che insan-guinano il sud del paese. Il primo ministro, anch’egli oromo, cerca di delegittimare un nazionalismo etnico potenzialmente secessionista e, al con-tempo, di assicurare alla popolazione della propria etnia dei vantaggi, frut-to del «grande cambiamento». Adotta questa posizione acrobatica fino al paradosso: l’accordo viene firmato ad Asmara, capitale di uno stato nato dal-la secessione dell’Etiopia. Il motivo? È in Eritrea che il presidente dell’Olf,

Dawud Ibsa Ayana, ha trovato rifugio e vive in esilio da diciotto anni sotto la protezione del presidente Issayas. Ma l’accordo potrebbe non avere futuro, poiché Dawud controlla solo una par-te del proprio movimento, che risiede prevalentemente nell’Oromia etiope.

Mentre in Etiopia è suonata l’ora delle riforme, l’Eritrea aspettava que-sto segnale per uscire dall’isolamento. Il paese, dal suo intervento militare in Somalia nel 2006, che l’ha visto op-porsi ad Addis Abeba, è andato incon-tro a sanzioni economiche internazio-nali. Asmara aveva scelto di sostenere l’Unione delle corti islamiche (Uci), al potere a Mogadiscio, che aveva dichia-rato la jihad contro l’Etiopia. Quest’ul-tima, sostenuta dagli Stati uniti, che considerano l’Uci vicina ad al Qaeda, era riuscita a cacciare gli islamisti dal-la capitale somala. L’Eritrea, paese già poverissimo, paga il prezzo di questo errore di schieramento: rimasta priva di Ide e praticamente di ogni aiuto, si ritrova esangue. Ecco perché Issa-yas si è avvicinato all’Arabia saudita e ha anche accettato che gli Emirati arabi uniti, suoi alleati, costruissero un porto militare e una base aerea ad Assab, subito utilizzate nel conflitto yemenita. Il presidente eritreo spera che la pace con l’Etiopia gli assicuri la cancellazione delle sanzioni, senza per questo dover lasciare la presa sul paese per compiacere la «comunità in-ternazionale».

Sembra allontanarsi il rischio di una guerra con Addis Abeba. Anche i ribelli etiopi del Ginbot 7, protetti dall’Eritrea e fulcro di tutte le azio-ni contro il paese, non nascondono la reticenza ad affrontare Abiy, al quale riconoscono una grande popolarità. Per la popolazione tigrina dell’Eritrea, la riconciliazione potrebbe favorire la ripresa degli scambi commerciali, fermi da quasi vent’anni. Ma, soprat-tutto, potrebbe portare all’abolizione del servizio militare, che riguarda la popolazione di entrambi i sessi tra i 20 e i 45 anni. Questa misura è all’origi-ne dell’esilio di molti eritrei. Eppure l’incognita permane: la riconciliazione con l’Etiopia porterà a una liberalizza-zione del regime o è solo un modo per una dittatura inflessibile di nascon-dersi dietro una facciata diplomatica?

In attesa che la politica di Abiy dia i suoi primi frutti, si inaspriscono le rivalità etniche, minacciando un «grande cambiamento» che si presenta come pacifico. L’acutizzazione degli attriti proviene da coloro che potrem-mo definire gli «orfani dell’articolo 39». All’epoca della rivoluzione di

Menghistu, nel 1974, l’estrema sinistra rivoluzionaria civile, sulla questione etnica, si era opposta ai militari stali-nisti. L’Etiopia, impero multiculturale, era sempre stata dominata da uno dei propri popoli costituenti. Nel 1991, la vittoriosa guerriglia Tplf, aveva im-posto la creazione di un federalismo etnico, con la ripartizione dell’autorità tra le popolazioni di ogni regione. Ma questo «equilibrio rivoluzionario» era illusorio: dietro all’egualitarismo uffi-ciale, se la vecchia élite amhara si tro-vava emarginata, a trarne vantaggio era la componente tigrina, predomi-nante. Il federalismo etnico sul piano giuridico aveva permesso alle regioni di staccarsi (articolo 39 della Costitu-zione). Questo provvedimento, reso inefficace dal dominio del Tplf, è di-ventato rapidamente il simbolo della menzogna di Stato e dell’inaccessibi-le sogno di autogestione delle piccole etnie. L’equazione risulta di difficile soluzione nella misura in cui cinque o sei grandi gruppi etnici dominano settanta tribù. Un federalismo etnico assoluto porterebbe immancabilmente alla disgregazione dello Stato-nazione verso cui propende l’Etiopia.

Con l’indebolimento dello Stato centrale, colpito dalla frantumazione del partito-Stato Eprdf, diversi gruppi della popolazione cercano tirare ac-qua al proprio mulino assumendo il controllo di posizioni-chiave nell’am-ministrazione territoriale (scuola, polizia locale, imposte territoriali...), sfruttando al massimo le possibilità offerte dalla Costituzione. Da qui de-rivano scaramucce e violenze armate causa di decine di morti, e anche – nel caso della milizia locale somala, detta «Liyu Police», nella regione dell’Oga-den – l’incerta organizzazione della marcia per la secessione. «Il federali-smo etiope, ricorda il primo ministro Abiy al Parlamento, il 18 settembre, è concepito per affrontare grandi con-traddizioni, ma non è fatto per tratta-re la proliferazione dei conflitti locali minori.»

Queste iniziative, che si basano sul-la contestazione dello storico autorita-rismo del governo, rimangono limitate alle dinamiche locali, ma sono foriere di un pericolo di caos generalizzato. In realtà, il potere centrale non sa come lottare contro questa «iperdemocra-zia» disgregante, sorta dalla decompo-sizione dello Stato. Sebbene l’esercito incarni ancora l’unità nazionale, è a sua volta attraversata da tensioni et-niche. In questo periodo di passaggio, nessuno sembra pronto ad assumersi il rischio di ripristinare l’ordine in nome di una Costituzione che più nessuno

riesce a interpretare in maniera con-vincente. Dal canto suo, la «società civile», ancora embrionale, non può costituire un punto di svolta.

Le sfide sono considerevoli, non solo per l’Etiopia, ma per tutto il Cor-no d’Africa, regione in cui si sono propagati i conflitti che lacerano il mondo arabo. Le conseguenze di una degenerazione violenta del regime di Addis Abeba andrebbero ben oltre le frontiere nazionali. Una sua evoluzio-ne positiva, al contrario, costituirebbe un passo avanti fondamentale per la stabilità del continente.

(1) Si legga Jean-Louis Peninou, «Éthiopie-Érythrée, une paix en trompe l’oeil», Le Monde diplomatique, luglio 2000.(2) La breve occupazione italiana (1936-1941) deve essere letta come uno strascico della se-conda guerra mondiale piuttosto che un capitolo della storia coloniale dell’Africa. L’Eritrea, co-lonizzata nel 1882, rivendica una storia a parte all’interno dell’«Abissinia».(3) Cfr. Christopher Clapham, Transformation and Continuity in Revolutionary Ethiopia, Cambridge University Press, coll. «African Studies », 1988.(4) Si legga Habib Ayeb, «Chi capta le acque del Nilo?», Le Monde diplomatique/il manife-sto, luglio 2013.(5) Si legga «Corno l’Africa e guerra in Ye-men», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2016.(Traduzione di Alice Campetti)

* Consulente indipendente, membro dell’Atlan-tic Council.

Nella sorpresa generale, Etiopia ed Eritrea hanno intrapreso, nell’estate 2018, uno straordinario avvicinamento. Il 16 settembre, hanno persino firmato un accordo di pace sotto l’egida dell’Arabia saudita. Dalla fine della guerra, nel 2000, le due dittature vivevano in una precaria condizione di pace armata. La stabilità dell’intero Corno d’Africa dipende dalla tenuta di questa riconciliazione

GÉRARD PRUNIER*

Bahr el Djebel

(Nil Blanc)

(Nilo Bianco)

Bahr el Djebel

Aw

ash

Atbara

Nilo A

zzurro

Nilo

Nilo B

ianco

Sobat

Sobat

Scebeli Fafen

Giuba

LagoTana

LagoAbbé

LagoMargherita

LagoTurkana

MarRosso

Golfodi Aden

OceanoIndiano

Gallacaio

Burao

Hargeisa

Baidoa

Port SudanAbu Hamed

Berbera

Garoe

AssabAden

Dolo

Gimma

Dire Daua

Dessiè

GondarMacallè

Sa’da

Wajir

Debra Markos

Harar

GobaAuasa

MassauaKeren

Stretto di Bab el-Mandel

Isole Dahlak

Asmara

Gibuti

Mogadiscio

Sana’aKhartum

AddisAbeba

Kampala

Giuba

ARABIA SAUDITA

SUDAN

KENYA

ETIOPIA

GIBUTI

Somali land

TIGRÈ

OROMIAOGADEN

SOMALIA

SUDSUDAN

UGANDA

YEMENERITREA

Puntland

0 250 500 km

Oromo

Tigrini Zona di guerra

Stati uniti

Principali gruppi etnici Conflitti e tensioni

Amhara

Somali

Altri gruppiAfar

Zona di forti tensioni

Francia Emirati arabi unitiCina

CÉCILE MARIN

Basi militari straniere

Fonti: The Armed Con�ict Location & Event Data Project (Acled); Jacques Leclerc,«L’aménagement linguistique dans le monde», università di Laval.

Mosaico etnico in una zona di tensioneAttoriFronte democratico rivolu-zionario del popolo etiope (Eprdf). Coalizione di quattro partiti politici: il Fronte popola-re di liberazione del Tigrè (Tplf), l’Organizzazione democratica del popolo oromo (Odpo), il Mo-vimento democratico nazionale amhara (Andm) e il Movimento democratico dei popoli del sud Etiopia (Sepdm). Di stampo mar-xista-leninista, si oppone alla dit-tatura di Menghistu Hailé Mariàm in Etiopia. Conquistato il potere nel 1991, sotto la guida di Meles Zenawi, si è man mano trasfor-mato in una socialdemocrazia autoritaria.

Fronte popolare di liberazione del Tigrè (Tplf). Creato nel 1975, di impostazione marxista-lenini-sta, si batte per l’indipendenza del Tigrè. È il movimento più in-fluente dell’Eprdf.

Fronte di liberazione oromo (Olf). Dalla metà degli anni 1970, lotta per l’autodeterminazione del popolo oromo in Etiopia. Si avva-le di un braccio armato: l’Esercito di liberazione oromo.

Ginbot 7. Organizzazione etiope creata nel 2008. Il Ginbot 7, ac-cusato dal governo di un tentato colpo di Stato e di attività terrori-stiche, si presenta come un «mo-vimento per la giustizia, la libertà e la democrazia». La sua sede ufficiale è ad Alexandria (Virginia, Usa).

Date chiave1° marzo 1896. Battaglia di Adua:

l’Impero etiope respinge il ten-tativo di conquista lanciato dall’Italia. Gibuti (Francia), Eri-trea e Somalia (Italia e Regno unito) sfuggono al suo controllo.

1941. L’Eritrea è amministrata dal Regno unito, che ha sconfitto l’Italia.

1952. Le Nazioni unite creano una federazione tra Etiopia e Eritrea.

1962. Annessione dell’Eritrea da parte dell’Etiopia. Inizio della guerriglia del Fronte di liberazio-ne eritreo (Elf).

24 maggio 1993. Proclamazione dell’indipendenza dell’Eritrea.

1998-2000. Guerra tra l’Eritrea e l’Etiopia.

2000. Accordo di pace di Algeri, anche in assenza di rapporti tra i due paesi.

Luglio 2018. Ripresa dei rappor-ti diplomatici e riapertura della frontiera.

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NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto22

forza

L’ORDINE IMPERFETTO La prima indagine della commissaria Bardi Maria Letizia Gross

Giunti, 2018, 9,90 euro (anche in ebook)

Oggi il romanzo giallo è molto diffuso, forse perché viviamo in una società che ha molte cose da spiegare e poca volontà politica di spiegarle, una situazione cioè di troppo domande e scarse risposte. Se, come diceva Sciascia, non si farà mai luce su fatti delittuosi legati al potere, possiamo ricorrere solo al giallo o piuttosto al noir che mette a fuoco uno spaccato di società? Sembra che l’inquietudine e i disagi che scandiscono l’epoca della mondializzazio-ne liberista trovino una risposta efficace proprio nel noir, con cui il crimine s’infil-tra in tematiche sociali, ambientali e urba-ne. Interessante è che le numerose scrittrici contemporanee, presenti nel genere, in-seriscono problematiche legate all’essere donna e ai relativi rapporti di forza che attraversano la società. Così le investiga-

trici diventano delle «sensibili guerrie-re» – prendendo spunto dalla figu-razione tratteggiata da alcune studiose femministe – nel senso che il concetto di forza e di capacità d’agire, tradizional-mente legato all’uo-mo, viene connesso

con la femminilità. La forza o meglio la possibilità di essere forti non viene riferi-ta né alla fisicità né alla violenza, né alla distruttività, ma è della stessa stoffa della debolezza per le donne che vogliono uscire da uno schema preimpostato, in un corpo a corpo con il destino femminile nell’oggi. La commissaria Bardi, protagonista del li-bro, si colloca in questo filone, è una donna indipendente fra problemi del quotidiano, che però vuol «fare pulizia» e «giustizia» nel mondo della speculazione e della cor-ruzione fiorentina, tra infrazioni, pressioni politiche, evasioni fiscali, illeciti finanzia-ri, norme di sicurezza disattese nei cantie-ri con la conseguente morte di un operaio marocchino. È una non-eroina che s’in-terroga sul sé, le relazioni sentimentali, il rapporto madre-figlia, che si demoralizza «sulle patrie e cittadine sorti» ma non ri-nuncia a cercare di fare «ordine» nella cit-tà, nella consapevolezza di non poter scon-figgere crimini e corruzione per sempre.

CLOTILDE BARBARULLI

rappresentanza

POPULISMO PROGRESSIVO Una riflessione sulla crisi della democrazia europea Pasquale Serra

Castelvecchi, 2018, 22 euro

Non è scopo di questo libro riproporre il populismo argentino come un modello pos-itivo per l’Europa, il cosi detto populismo di sinistra o progressivo, che pure, scrive Pasquale Serra, «significa qualcosa», ma quello di spingere l’Europa e il suo pensie-ro politico, prosegue l’autore, «a confron-tarsi con esso, perché dietro la crisi della rappresentanza democratica in Europa, quella scissione drammatica che qui da noi si è venuta a configurare tra sistema della rappresentanza e masse eterogenee, sem-

pre più centrali, e sempre meno omogeneizzabili e integrabili nei quadri delle comunità nazionali, vi è il fatto storico, enorme, della eterogeneità sociale, su cui la politica argentina, da Germani a Laclau, ha riflettuto a lungo, e che oggi riguarda tutti e in modo speciale il pensiero europeo». Il nodo teorico e politico in gioco, in questa discussione, è rela-tivo alla possibilità o meno di definire una unità politica nel mondo contemporaneo e in quale forma definirla. Ossia: se e come questa società radicalmente eterogenea è capace di essere soggetto di un’azione po-litica, di agire politicamente, e dunque di trasformarsi in una unità politica. Poli in-discussi di questo dibattito, in Argentina, sono stati il sociologo Gino Germani e il fi-losofo Ernesto Laclau, autori presi in con-siderazione in questo volume. Problema della democrazia per Germani, per Laclau, invece, il populismo è una sua componente essenziale, la sua premessa fondamentale. Laclau, sostanzialmente, radicalizza la rif-lessione di Germani e, ciò facendo, la porta nel cuore delle nostre società: eterogenee, appunto, dove le masse disponibili non si identificano più soltanto con gli operai del sociologo italiano, ma coprono e occupano l’intero spazio della società. Radicalizza Germani e supera Gramsci: dalla classe, appunto, al popolo, ricollocando al centro la questione cruciale del nazionale-popo-lare, e fondandola, per così dire, con una nuova filosofia della praxis.

Su questo punto, come ha sostenuto lo stesso Laclau, le democrazie latinoameri-cane, seppure oggi in crisi, possono rappre-sentare un importante punto di riferimento per le democrazia europee. Mentre il per-onismo si stava trasformando in una vari-ante latinoamericana della socialdemocra-zia europea, l’Europa, invece, passava dalla socialdemocrazia al populismo e alla critica della democrazia che questo popu-lismo ha incorporato dentro si sé. Un popu-lismo che ha come principali nemici, ha scritto Torcuato Di Tella, «non le classi agiate, o la borghesia grande, media o pic-cola, ma soprattutto il popolo e le sue or-ganizzazioni politiche e culturali». Come mai prima d’ora, dall’America latina può venire qualche indicazione per l’Europa di oggi, perché in America Latina, conclude Di Tella, «il populismo, o meglio i nazional populisti trovano appoggio, fondamental-mente, nelle classi popolari, ed è ancora da lì che l’Europa di oggi deve ripartire».

MARIA CHIARA MATTESINI

sincretismo

DISCRIMINATI Loretta Emiri

Seri Editore, 2018, 10 euro

Discriminati si compone di dieci rac-conti brevi nati in momenti diversi e di un racconto lungo che li precede e, di fat-to, contiene tutti gli altri. Ma l’originalità dell’opera, derivante dall’esperienza di vita dell’autrice, sta nel fatto che l’universo amazzonico funge da struttura di storie famigliari. Nono-stante la narrazione giri apparente-mente lontana dal Brasile, intorno all’Umbria, alle Marche, al Piemon-te e i fatti raccontati, a volte, siano accaduti molto prima che l’autrice nascesse e vivesse la sua esperienza fra gli indigeni yanomami, denota, a più tratti, una sorta di originale sincretismo tra culture che, a primo

impatto, appaiono distanti e non sovrapponibili.

Loretta Emiri ha trascorso diciotto anni della sua vita in America latina, soprattutto tra le comunità indigene del nord del Brasile, una specie di missione etica di difesa culturale di que-ste popolazioni durante la quale si è dedicata, quasi esclusiva-mente, all’assistenza sanitaria e

all’alfabetizzazione degli adulti nella loro lingua. Questa sua esperienza, centrata sul costante impegno perché partorissero in quei contesti vere forme di “educazio-ne indigena” purgate dai richiami mer-cantili che il capitalismo, soprattutto per i contatti scaturiti attraverso operazioni di accaparramento territoriale, ha prova-to a seminare nelle comunità, ha rimesso al centro della quotidianità i diritti degli indigeni, il concetto di ricchezza della di-versità culturale come elementi strutturali di una identità che il cosiddetto progresso cominciava seriamente a minare. E così i racconti contenuti nel volume diventano un interessante prodotto narrativo, un’altra forma di dialogo interculturale, nella quale il parlare della propria famiglia, delle sto-rie – spesso minime – del proprio vissuto, rappresenta una maniera ellittica di parlare di se stessa e delle sue radici culturali dal punto di vista della cultura yanomami: la cultura indigena nel lavoro di ricostruzione e di riappropriazione di un personale vissu-to famigliare. Per definire l’opera a tutto tondo possiamo citare un passaggio della postfazione di Tullio Bugari: «Dalla terra umbra al mondo yanomami, per noi remo-to ma nel quale lei ha vissuto una parte im-portante della sua vita. E così è lo stesso sguardo yanomami che attraverso Loretta accompagna quei racconti, cesellandoli con una saggezza naturale, nel senso di una millenaria esperienza di vita che si tramanda senza perdersi, e ci aiuta a de-scrivere e comprendere le trame universali più profonde dei caratteri umani».

ENZO DI BRANGO

nitore

AL MONDO Radclyffe Hall

Fandangolibri, 2018, 15 euro

Assai sorprendente: Al mondo, opera incompiuta di Radclyffe Hall. L’autrice, dopo un lungo soggiorno, in Italia, rientra-ta a Londra, lavora a questo bel romanzo di impianto ottocentesco, ma la malattia che la porterà alla morte nel 1943, lo interrom-pe. Ritrovato di recente, in una università americana, e proposto per la prima volta nel nostro paese da Fandango (benemeri-ta) che sta rilanciando tutto il corpus del-la scrittrice, lascia i lettori, ma anche gli amanti di Radclyffe Hall, a bocca aperta. Il romanzo anticipa due prototipi dell’u-niverso narrativo della scrittrice inglese: due personaggi queer, strani, due esclusi, specchi di Stephen Gordon del “Pozzo del-

la solitudine” e della impos-sibilità di andare in guerra. Un uomo e una donna in un viaggio intorno al mondo: un bancario londinese e la segretaria di un uomo d’af-fari, alla ricerca di “cosa si nasconde sotto la coscien-za”.

Al mondo è elegante, di-vertente, ma anche tenero e romantico e Radclyffe Hall si conferma tra le autrici più

significative del se-colo scorso. Sempre perfetto e ineccepi-bile, sia dal punto di vista narrativo che da quello visuale.

Al mondo è un romanzo da leggere e rileggere. Oltre ai protagonisti, indi-menticabili anche alcuni personaggi secondari: come il vec-chio e coriaceo Weinsberg o la ciarliera Mrs. Meredith, per non parlare di certe albe, o ancora della descrizione del merca-to dell’Avana. Il nitore formale e l’afflato poetico sono resi assai bene dal traduttore Claudio Marrucci. Noi lettori aspettiamo gli altri libri di Radclyffe Hall, soprattutto lo scandaloso Il pozzo della solitudine.

ANTONIO VENEZIANI

acredine

QUESTI SONO I NOMADI E IO SONO BEPPE CARLETTI Beppe Carletti

Mondadori 2018, 19 euro

Il 12 giugno 2018 è uscito il libro Que-sti sono i Nomadi e io sono Beppe Carlet-ti. Tutto nasce a Novellara, piccolo paese della provincia di Reggio Emilia dove si svolge gran parte della vita di questi gio-vani ribelli “i Nomadi” e dove ancora oggi si festeggia, con un raduno annuale, il mito di questo gruppo. Il libro parte da un imperdibile spaccato della storia musica-le di questo paese dai primi anni sessanta fino ai giorni nostri ed è ricco di ricordi e testimonianze sin dall’ esordio, il 45 giri “Donna la prima donna” (1965) che ha sa-puto dare emozioni e a cui faranno seguito altri lavori. L’autore in molte parti del libro cita la scomparsa di Augusto Daolio, leader carismatico ma soprattutto simbolo stes-so del nomadismo. Un libro per chi vuole abbandonarsi ai ricordi piacevoli, all’Ita-lia beat dagli anni 60 in poi, di cui vengo-no citati anche molti artisti e compagni di viaggio come ad esempio Zucchero, Lu-ciano Ligabue, Laura Pausini e tanti altri... A tratti, il libro può risultare irritante tal-mente è pervaso da un senso continuo di acredine verso tut-ti, che sembra fatto apposta per creare disagio. Sembra costruito per con-trobattere ad anni di critiche e alla fine aggiunge po-chissimo alla storia. È tutto un ribadire l’ovvio, e raccontare quanto la musica e il progetto siano più importanti di tutto il re-sto. Inoltre a un certo punto, Carletti raccon-ta come “Io Vagabondo” non venisse più eseguita dal vivo e come poi sia stata rilan-ciata dal Karaoke di Fiorello solo nel ‘92. Beppe Carletti, nato a Novi di Modena il 12 agosto del 1946, storico fondatore dei Nomadi è l’unico membro rimasto della formazione originaria. Nel 1972, con lo pseudonimo di Nemo, incise due 45 giri da solista. Per un certo periodo il gruppo di Beppe fu pubblicizzato come I Nomadi e Capitan Nemo; nel 2011 venne pubblicato il suo primo album intitolato “L’altra metà dell’anima” e composto per intero da pezzi strumentali. Una lettura comunque interes-sante perché rappresenta uno spaccato di storia raccontata.

SILVANA GRIPPI

diploteca

Se ci fermassimo alle apparenze, una “storia dei lupi” rientrerebbe a pieno

titolo nella pubblicistica minore. Sbaglie-remmo però a relegare questo testo tra le stranezze editoriali. Riccardo Rao – pro-fessore di Storia medievale all’Università di Bergamo – è d’altronde noto per i suoi studi sul paesaggio medievale. Questa originale storia dei lupi consente all’au-tore non solo di raccontare una vicenda particolare, ma di ricostruire un contesto, quello del rapporto tra uomo, società e ambiente nel medioevo, che rappresenta la forza specifica di un lavoro come que-sto. Anzitutto l’oggetto. Dei lupi possiamo leggere spesso nella letteratura trascurabi-le e divulgativa; possiamo, al contrario, af-fidarci a testi specialistici di biologia o zo-ologia. Una ricerca svolta secondo i criteri metodologici propri delle scienze storiche è però cosa rara da incontrare. L’autore risponde dunque a una lacuna, tenendosi lontano dal mero divertissement disimpe-gnato, ma adoperando criteri rigorosi, pri-

mo fra tutti un accurato utilizzo delle fonti, che contribuiscono a fare di questo lavoro uno strumento scientificamente valido alla comprensione di taluni problemi di storia medievale. Il “pretesto” da cui origina il libro è subito dichiarato: i lupi stanno tornando in Europa e, significativamente, in Italia. E lo stanno facendo in seguito a specifiche cause. In primo luogo, nono-stante una certa vulgata sensazionalistica, dal secondo dopoguerra ad oggi le foreste sono cresciute in tutta Europa, soprattutto in Italia, Francia e Spagna. Il motivo va individuato nel progressivo spopolamen-to delle aree montane. Uno spopolamento che ha creato quello che Rao – sulla scorta del noto lavoro di Gilles Clément – defi-nisce il «terzo paesaggio», un paesag-gio dell’abbandono, dove al lento ritiro dell’uomo risponde una riproposizione dell’incolto, della natura aspra e selvaggia, in cui trova dimora anche il lupo. L’intui-zione, suffragata da una solida interpreta-zione delle fonti medievali, è che tale pa-

esaggio, «naturale e incontaminato», non costituisca un semplice “ritorno al pas-sato”, quanto una connotazione propria del presente. Rao infatti – soprattutto nel suo precedente lavoro, I paesaggi dell’I-talia medievale – da tempo combatte una battaglia comune al resto della congrega medievalista ma purtroppo succube del-la vulgata stereotipata vigente sull’età di mezzo, secondo la quale l’incolto, la natura selvaggia, siano caratteri propri dei secoli bui, segnatamente del medio-evo. Niente di più falso. La natura del medioevo era costituita da paesaggi pro-fondamente antropizzati, al tempo stesso collettivi e locali, in grado di plasmare un ambiente rurale ma controlla-to, “umanizzato”: un ambiente sociale ed equilibrato. Diver-samente, il “terzo paesaggio” dell’abbandono è frutto del disinteresse e della ritirata dell’uomo da ampie zone la-sciate all’incuria. Tornando all’oggetto del libro, obiettivo dell’autore è quello di svelare i caratteri culturali del rappor-to tra uomo e lupo, attraverso una storia che dal medioevo giunge alla contemporaneità, fatta di miti e leggende, storie

vere e inventate, che hanno contribuito in maniera decisiva alla complessità di que-sta relazione, prodotto di timori concreti e paure immotivate. Al testimone odierno di questo «ritorno dei lupi» l’autore la-scia in eredità tre insegnamenti. Il primo, «uomini e lupi non sono mai stati grandi amici, ma sono diventati acerrimi nemici soltanto nei momenti in cui l’uomo è sen-sibilmente intervenuto sull’ambiente […] rompendo alcuni fondamentali equili-bri»; il secondo, che «la nostra paura nei confronti dei lupi è amplificata da alcuni processi culturali che si sono sviluppati a partire dall’inizio del medioevo e per tut-ta l’età moderna: è dunque un sentimento

esagerato, che eccede i limiti del ragionevole timore»; il terzo in-segnamento problematico è che «il lupo non è uguale a se stesso nel tempo, ma cambia a seconda del contesto socio-ambientale in cui vive». Tre avvertenze che svelano un certo modo di fare ricerca storica oggi per lo più dimenticato (o peggio ancora banalizzato), e che pongono Ric-

cardo Rao sulla scia di Robert Darnton e della sua storia cul-turale.

ALESSANDRO BARILE

SAGGI

Il regno dell'incoltoPIEGHE

Nel 2016, L’uomo del futuro, sulle strade di don Lorenzo è uno dei romanzi in pole position per il premio Strega. Ma Eraldo Affinati evidentemente non aveva finito di scandagliare fra le pieghe della biografia di don Milani e ci torna ancora, questa volta per i lettori

più giovani, scrivendo un libro polifonico in cui i “ragazzi di Barbiana di oggi”, spesso immigrati, fanno da contraltare al narratore e con le loro intuizioni e le loro domande lo aiutano a comporre un ritratto non agiografico, profondamente calato nella vita. Il sogno di un’altra scuola, uscito per Piemme (Battello a Vapore) è, infatti, un mosaico di esperienze tenute insieme da un filo speciale: Lorenzo Milani, ricco rampollo di una famiglia ebrea di Trieste, prima studente poco brillante, poi pittore dilettante e infine ministro di dio dalla parte davvero dei più poveri, fin da quando – era il 9 novembre del 1943 – entrò nel Seminario Maggiore di Cestello, sulle rie dell’Arno. Da prete, voleva che le parole del catechismo fossero comprese da tutti, anche da chi non avesse studiato e fosse analfabeta, prese posizioni poco ortodosse anche di fronte alla guerra e in seguito avversò il servizio di leva (fu accusato di esaltare l’obiezione di coscienza e condannato). Il suo ruolo di educatore in una contro-scuola che non lasciasse indietro nessuno è storia nota. Ma il racconto di Affinati si snoda insieme ad alcuni bambini che fanno da contrappunto e dipanano la matassa di una biografia così particolare in maniera interattiva. Tanto da dare l’impressione di essere sempre di fronte a un testo aperto, così come lo fu la vita di don Milani. Tra le figure con cui fare amicizia questo autunno c’è anche Harvey Milk: scritto in prima persona, il libro di Piergiorgio Paterlini Il mio amore non può farti male (Einaudi Ragazzi) comincia dalla fine quando – in un ipotetico racconto impossibile, da morto – Harvey vede arrivare la prima pallottola delle cinque che lo colpiranno fino a ucciderlo.Era il 1978 e da qualche anno si era trasferito con il suo compagno a san Francisco e aveva aperto un negozio di fotografia. Era diventato attivista per i diritti dei gay, poi consigliere comunale, infine una celebrità che riusciva a far uscire allo scoperto tutti gli omosessuali vessati al puritanesimo Usa.Dopo il film di Gus van Sant in cui uno strepitoso Sean Penn vestiva i panni di Milk, era difficile tornare sul personaggio, ma Paterlini ha scelto la via giusta: niente agiografie, molta quotidianità e l’altalena della vita tra sconfitte e vittorie in un affastellarsi di pensieri che toccano l’amore, la politica, le profezie, il desiderio. “Non sono mai riuscito a pensarmi dopo i cinquant’anni. Lì, era come una barriera, un’altra coltre di nebbia, era come se la mia immagine svanisse, evaporasse”. Non ci arrivò mai: a 48 anni fu freddato da Dan White, il consigliere conservatore che sparò anche al sindaco.Non c’è solo l’America omofoba che calpesta Harvey Milk: sempre Einaudi Ragazzi ha mandato in libreria per la collana “Semplicemente eroi” Franco Basaglia, il Re dei Matti, per la penna di Davide Morosinotto (già autore di Peppino Impastato). Per avvicinarsi alla Trieste che rinchiudeva in angusti manicomi le persone strane, il narratore sceglie una storia potente, quella di Lisa e sua madre Adele, che tutti dicevano impazzita a causa della bora e che se ne stava prigioniera al san Giovanni, trasferita al reparto Agitate, il peggiore, dove nessun parente poteva entrare. Lisa spesso riesce a eludere il guardiano del manicomio ma non sempre le va bene e incontra sua madre, anzi spesso deve tornare a casa in preda a pensieri cupi. Fino a quando arriva il nuovo direttore. Franco Basaglia è affabile, gira in bici e ha idee strane: vuole smantellare quel posto orribile. A Lisa viene quasi da ridere, però lui non le sbarra la strada, l’aiuta a parlare con sua mamma e quindi va bene così. Anzi, spingerà sua zia ad accogliere la sorella malata nel suo buffet, per farla lavorare e piano piano guarire dal suo isolamento. “Il vento non ci ha tradito”, dice Adele dopo una sua fuga a sua figlia sul molo, “Lo vedi? Ti ha appena riportato da me”.

ARIANNA DI GENOVA [email protected]

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IL TEMPO DEI LUPI Riccardo Rao Utet 2018, 18 euro

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BLOCK THE BOX. LOGISTICA, FLUSSI, CONFLITTI Zapruder maggio-agosto 2018, 12 euro

Migrante, spesso occupante di case, rifugiato politico e richiedente asilo, quasi sempre iscritto a un sindacato conflittuale: le caratteristiche del lavoratore-tipo della logistica costituiscono una serie di criticità, rispetto alle

correnti linee del capitalismo e della politica neoliberista. Allo stesso tempo, rappresentano anche i fronti più avanzati di una lotta che, almeno nella sintesi offerta dal settore della movimentazione merci, non arretra, anzi procede. E vince. Singole battaglie e non la guerra in generale, magari, ma vince. Rara avis, ai giorni nostri. La schiavitù nel comparto della logistica è ufficialmente terminata, per quanto non ovunque: i lavoratori hanno conquistato l’inserimento in un sistema contrattuale quantomeno moderno – e non medievale – i sindacati conflittuali hanno una piena, forse esclusiva, agibilità nei magazzini (mentre quelli confederali sono “recintati” alla

busta paga delle associazioni padronali), le vertenze hanno un repertorio di azione che risponde alla logica del “danno economico” (nei confronti del padrone), vale a dire non scendono mai sotto il livello del picchetto e del blocco delle merci, i rappresentanti delle lotte e i delegati sindacali hanno conquistato il pieno accesso al tavolo delle trattative, partendo da una condizione nella quale venivano umiliati, a volte persino picchiati. È stato facile ottenere tutto questo? No, è dovuto scorrere sudore e sangue. È stato raggiunto il paradiso del lavoratore? Ovviamente no, c’è sempre molto da fare ma – nell’attuale contesto in cui la logistica plasma la polity delle città e incide sulla politics degli Stati – è lecito affermare come i lavoratori del comparto rappresentino l’avanguardia di chi lotta per la propria dignità e per l’emancipazione. Non solo: quegli stessi lavoratori, non a caso, adesso “escono” dai magazzini e osservano cosa succede nel mondo del lavoro “di fuori”, trovando notevoli affinità con le dinamiche lavorative conosciute “là dentro”. È stato premiante, in tal senso, il sapere politico ottenuto nel momento in cui le esperienze derivanti dalle multi-

appartenenze (rifugiato, occupante, lavoratore) si sommano e non si elidono, né si pongono in contraddizione, smentendo – quindi – l’assunto, in voga anche in una sinistra dalle corte vedute, per cui il lavoratore straniero inevitabilmente causerà dumping sociale e nocumento alle condizioni lavorative degli italiani. Non quando il lavoratore straniero viene organizzato e si auto-organizza, non quando è il primo a rifiutare compromessi e accordi a ribasso, non quando percepisce quella “condizione di classe” che troppo spesso oggi consideriamo irrimediabilmente perduta. Si pone, adesso, un’altra questione: come raccontare tutto ciò? Per farlo, ci affidiamo nuovamente alla Zeta di Zapruder, nello specifico del numero della rivista di Storie in Movimento dedicato alle lotte nella logistica e all’analisi dell’economia dei flussi. I curatori Niccolò Cuppini, Mattia Frapporti e Ferruccio Ricciardi confezionano un fascicolo “geometrico”, con il quale puntano direttamente al quartier generale,

vale a dire la presunta a-storicità del sistema globale, «dove si realizzerebbe finalmente la grande fantasia del rapporto sociale di capitale, ossia la sua completa autonomizzazione dal lavoro» (p.2). Niente di più falso, sostengono i nostri Autori, dal momento che proprio il campo della logistica restituisce sincerità al «soggiacente conflitto storico tra lavoro e capitale» basandosi su condizioni sociali “produttive” che si pongono come complementari alle innovazioni tecnologiche dell’industria 4.0, esattamente come il sudore e la fatica che albergano nei magazzini sono la “coscienza sporca” di un mondo che parla il linguaggio dei big data e che domani sposterà le merci mediante capsule “sparate” da un meccanismo gravitazionale. La linea delle contraddizioni capitalistiche continua, appunto, attraverso

la metafora dei flussi, terribilmente regolati da barriere e confini fisici, con la gestione delle migrazioni progressivamente colonizzata proprio dai dispositivi e dal lessico

della logistica; quest’ultima, poi, ha un padrone nuovo, l’Algoritmo, ma una storia antica, che oggi accomuna mastodontici container a esili rider, foglie al vento nella Città. Fino ad arrivare alla discrasia che esalta l’orgoglio operaio: lì dove abbiamo magazzini isolati e lavoratori “reietti”, troviamo un movimento di lotta che supera le frontiere, si muove in una naturale simultaneità e mette in ginocchio i padroni. E vince. Ma vince anche Zapruder, ancora una volta, per la capacità incredibile e “inattuale” di trovare un equilibrio tra militanza e ricerca, rifiutando le imposizioni accademiche ma stando pienamente dentro le scienze sociali. Viene in mente Giuliano Della Pergola del 1974 (Diritto alla città e lotte urbane, p.8): «L’intellettuale è testimone e narratore dei fatti collettivi che lo circondano: nell’insegnarli agli altri risiede la sua, almeno parziale, capacità di partecipazione e ri-comprensione: fermo restando, però, il fatto che la lotta sociale si esprime sempre “fuori” dell’Accademia, con altri soggetti storici e con criteri alternativi all’istituzione universitaria».

LUCA ALTERI

Le Monde diplomatique il manifesto NOVEMBRE 2018 23

L’enorme quantità di esperienze che la lotta di classe ha prodotto in Italia fra gli anni Ses-santa e Settanta non cessa di causare strani

effetti sulla dimensione ambigua e malconcia della riflessione collettiva. Il passato viene rievocato qua-si sempre sotto forma di mitologie corrive e addo-mesticate dal senno del poi. Il presente consuma la merce-memoria a distanza di sicurezza, allestendo infiniti tour del Novecento destinati a saziare la sete innocua di simboli ed emozioni tipica dell’ignavia contemporanea.

È difficile eludere questo meccanismo. Anche perché esiste pure una complicità del silenzio e della sottrazione che, a suo modo, finisce per rafforzare e confermare i dispositivi culturali prevalenti. Chi ha praticato il mondo per cambiarlo, esponendo-si senza sconti o paracaduti alle conseguenze del-le proprie azioni, conosce bene questi problemi. È una contraddizione che, a un certo punto, chiede di essere risolta di getto. Il passato esiste nei nostri racconti, nel nostro modo di far parlare le carte, nel refertare finanche nella maniera più sobria i nudi documenti dell’azione collettiva.

Qui non ti aiuta nessuno. Qui, volente o nolente, tenti di fare storia e di creare ponti. La tua sera ha ben poco in comune con il crepuscolo in cui spicca il volo la civetta di Hegel. Ma la tua verità è degna di essere pronuncia-ta, ed è ancora e in ogni caso un gesto di lotta e una forma estrema di parresia.

Questo per dire che bisogna comprare e leggere con attenzione La critica radi-cale in Italia. Ludd 1967-1970, uscito da poco per le edizioni Nautilus. Si tratta del primo volume di una trilogia curata dal Progetto Critica Radicale, che intende dar conto del percorso e della influenza delle correnti situazioniste e consiliariste nel lungo Sessantotto italiano. Il secondo volume sarà intitolato Comontismo e coprirà il pe-riodo 1971-1974. Il terzo andrà dal 1975 al 1981 e si chiamerà Insurrezione.

Quando si parla di situazionismo, in Italia e an-che altrove, l’intellettuale si lecca i baffi e inizia a snocciolare collane di parole brillanti davanti a un uditorio complice e soddisfatto. Ma il merito prin-cipale di Ludd sta proprio nel restituire realtà ad esperienze che non ebbero nulla di narcisistico, e si pensarono e vollero come parti di un movimento il cui primo e più importante risultato era stato quello di ridare senso alla parola rivoluzione nei paesi a ca-pitalismo avanzato.

Le lotte degli operai e degli studenti erano infatti interpretate dai situazionisti e dai consiliaristi come l’espressione di una tendenza diffusa all’insubordi-nazione da collocare nello specifico del capitalismo maturo e potenzialmente in grado di far saltare il tappo di ogni gerarchia. La fabbrica, la scuola, il carcere divenivano luoghi in cui sperimentare l’a-zione in senso eminente, intesa come produzione infinita di libertà collettive e individuali.

La critica di ogni trascendenza e di ogni sepa-ratezza evolveva pertanto in critica feroce della forma partito e delle burocrazie cristallizzate o in gestazione nella vecchia e nella nuova sinistra. Un bisogno lucido e disperato di coerenza rendeva in-trinsecamente provocatorie queste posizioni. Non c’era terzomondismo. Non si rendeva ossequio a Le-nin, a Mao o a Guevara. Gli stessi riferimenti agli anni Venti, a Pannekoek, a Görter, alla Luxemburg, presentavano un connotato “operaio” che finiva per stare stretto a una idea polimorfa di proletariato de-stinata a entrare in rotta di collisione anche con le tesi dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia.

Il fascino delle esperienze del comunismo liberta-

rio sta tutto qui. Come scrive Paolo Ranieri nel lun-go saggio contenuto in Ludd, si trattava di un irco-cervo. Si trattava di porsi davanti, con un massimo di esposizione teorica ed esistenziale, «al fatto che non è mai possibile agire senza disporre di un pote-

re adeguato». Da questo punto di vista, la tra-iettoria di marginalizzazione presto conosciu-ta da tutto l’ambiente consiliare e situazionista nella vicenda dell’estrema sinistra italiana può anche produrre strane forme di orgoglio e ma-linconia. Ma la lingua difficile dei documenti che Ludd propone al lettore può essere decifra-ta. E le parole e le azioni tornano a scintillare. Per chi vuole vivere adesso.

Il libro verrà presentato a Roma (presso Zazie nel Metrò, via Ettore Giovenale, 16), lunedì 19 no-vembre.

GERALDINA COLOTTI

diplotecaEL MOVIMIENTO DE TRABAJADORXS DESOCUPADOS EN BAHÍA BLANCA Pablo Ariel Becher Ed. Acercándonos-CEISO, 600 pesos

Una delle buone notizie, nell’Argentina neoliberale che non offre tregua, è la tenuta della produzione accademica ed editoriale che cerca di recuperare la storia dei movimenti di resistenza operaia e popolare. Un buon esempio

è il recente primo libro del giovane storico Pablo Becher. Nel suo percorso al dottorato in Scienze Sociali, Becher ha fatto della carriera accademica un’opzione militante. Ha concentrato l’attenzione sugli anni ‘90, quando il neoliberismo stava espellendo migliaia di persone condannandole alla disoccupazione, e in uno scenario particolare: Bahía Blanca.La città in cui si laureato Becher ha la sua rilevanza. Ancoraggio territoriale della destra argentina più conservatrice, Bahía Blanca ha consegnaoto l’identità operaia legata al porto, il più importante del paese, all’installazione delle transnazionali petrolchimiche sulle sue coste. Nel frattempo, il programma economico in corso gettava nella disoccupazione centinaia di suoi abitanti. Ben presto è diventata uno dei primi punti del paese in cui sono emersi movimenti di resistenza di lavoratori che avevano perso il lavoro.Il libro si concentra su quest’esperienza, con un’altra particolarità: la metodologia di ricerca scelta dall’autore.. quella che il campo accademico definisce qualitativa, che rende centrale la consultazione delle testimonianze dei protagonisti. In questo modo, lo studio diventa un canale per le voci della memoria popolare.Le pagine di questo lavoro conducono attraverso i percorsi delle diverse modalità adottate dalla militanza sociale nella Bahía Blanca dell’epoca: partiti politici che hanno allargato la loro militanza organica per lavorare nei quartieri, gruppi di base che difendevano la conduzione dei loro sindacati di fronte alle burocrazie, spazi cattolici che si avvicinavano ai territorio o progetti autogestiti in cerca di un inserimento, alla fine fallimentare, nel mercato. Il libro non raccoglie solo l’approccio politico e sociale di ogni spazio e le sue proposte di azione. Aggiunge anche la disputa del settore nel suo insieme per inserire i suoi problemi urgenti nell’agenda pubblica. Inoltre, somma il racconto di divergenze interne, dibattiti, vittorie, regressioni e limitazioni con le quali le diverse forme di organizzazione e lotta si sono incontrate. Sempre dalla voce dei suoi protagonisti.Alcune di queste situazioni e discussioni hanno anticipato quelle degli anni venuti immediatamente dopo, quando sono sorte decine di aziende recuperate dai loro lavoratori, dopo la crisi del 2001, o gli anni di Mauricio Macri, nei quali il neoliberismo torna a perseguire il futuro della classe lavoratrice argentina.Due decenni dopo, le esperienze del libro sembrano tanto lontane quanto vicine. Che un accademico ne faccia oggetto di studio ha un significato militante. Offre uno strumento alla memoria collettiva. Buone notizie, in tempi in cui le buone notizie non sono molte.

DIEGO KENIS

LA CRITICA RADICALE IN ITALIA LUDD 1967-1970 Nautilus, 2018, 25 euro

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l'altra roma

ERRICO MALATESTA Un anarchico nella Roma liberale e fascista F. Bertolucci, R. Carocci, V. Gentili, G. Sacchetti

BFS edizioni, 2018, 18 euro

Gli atti di un convegno svoltosi nello spazio occu-pato del nuovo cinema Palazzo nel 2016, sono stati raccolti in questo interessante volume curato da Ro-berto Carocci, docente all’università Roma Tre, che da anni si occupa di storia del movi-mento operaio anarchico e socialista. Errico Malatesta ebbe con Roma un lungo rapporto sin dai tempi dell’elezione dell’Urbe a capi-tale del novello Regno d’Italia, rapporto che si manterrà solido e che porterà quello che fu uno dei più importanti riferimenti dell’anar-chismo non solo italiano a stabilirvisi pro-prio in coincidenza con l’ascesa al potere del fascismo. Dimora che durerà per tutto il pe-riodo del consolidamento della dittatura, fino al giorno della sua morte, nell’estate del ’32. Quattro relazioni che affrontano a tutto tondo la complessa fi-gura di Malatesta quasi come summa del suo pensiero e della sua azione, dall’esperienza nella I Internazio-nale agli anni dell’avvento del fascismo, passando per l’analisi della peculiare realtà politica e sociale della Roma tra la fine dell’Ottocento ed i primi anni del No-vecento.

Le attività del giovane movimento operaio romano, mai indagate approfonditamente come fossero ele-

menti insignificanti della storiografia militante, il non sempre compreso rapporto tra anarchismo e violenza, l’internità alle attività degli Arditi del popolo e la re-sistenza al fascismo rappresentano la linea ideale del racconto storico cui si aggiunge una interessante ap-pendice sulla storia della rivista Pensiero e volontà con i relativi indici. Questa rivista può essere considerata un testamento politico collettivo del movimento anar-chico ai tempi della dittatura di Mussolini, non solo un esempio di resistenza tout-court, bensì un tentativo di riorganizzazione del pensiero e dell’azione anarchica e rivoluzionaria nel quadro di un mutato contesto poli-

tico e di potere. Gli anarchici romani, grazie anche alla forte vocazione unitaria di Errico Malatesta, tenteranno, con le enormi difficol-tà di azione sotto un regime che poco o nulla consente al dissenso e con le mai celate diffi-denze di comunisti e socialisti, di raccogliere intorno ad ogni possibile opportunità di lotta i ceti popolari privati dei classici riferimenti politici. «La ricomposizione in chiave antifa-scista – scrive Carocci nell’introduzione – dei diversi ed eterogenei segmenti degli ambienti rivoluzionari» è il compito primario cui non si

può prescindere dal momento che il contesto non con-sente alternative praticabili e, con tale consapevolezza, rimane di attualità necessaria la pratica violenta contro un potere che della violenza quotidiana tenta di farne un’esclusiva del fascismo. Un’ottima lettura propedeu-tica, speriamo, ad ulteriori approfondimenti sull’“altra” Roma che, in quel periodo, non fu solo “piazza Vene-zia” e “basilica di San Pietro” come certa storia ha ten-tato di tramandare.

ENZO DI BRANGO

lavoro

L’ERA MARCHIONNE Maria Elena Scandaliato

Mimesis,2018, 15 euro

La scomparsa del manager Sergio Marchionne, da 14 anni alla guida di Fiat e poi di Fiat Chrysler Automobiles, ha suscitato innumerevoli pa-negirici. Le voci dissonanti, che hanno ricordato le conseguenze delle sue azioni sui lavoratori e sul tes-suto produttivo, hanno avuto poco peso. Da Torino a Detroit, il manager con il maglioncino è stato celebra-to come l’uomo della provvidenza, l’uomo del futuro. Ma il destino di chi e per quali interessi? Il volume di Maria Elena Scandaliato, L’Era Marchionne, pubbli-cato da Mimesis, analizza in questa chiave la figura del manager, nel percorso che ha portato la Fiat “dalla crisi all’americanizzazione”. Un’inchiesta giornalistica che spinge i suoi meriti oltre il genere. Con ritmo teso, profondo e alfabetizzante, l’autrice offre ampi spunti di analisi per situare nel quadro globale la progressi-va distruzione delle vecchie relazioni industriali, la delocalizzazione della produzione e la trasformazione dell’Italia in paese di servizi: un paese senza peso, pre-da di scorrerie e appetiti. Il libro – precisa Scandaliato nell’introduzione – è stato scritto sette anni fa, sull’on-da della “rivoluzione Marchionne”. La sua attualità, però, resta intatta. La strategia di Marchionne chiude l’epoca apertasi nel 1969, quando la classe operaia si considerava portatrice di un mondo incompatibile con quello imposto dallo sfruttamento del capitale sul lavo-ro. Il mondo della grande fabbrica e delle spinte radicali che hanno prodotto la stagione dei diritti, smantellata dal sistema di compatibilità imposto dalle ristruttura-zioni degli anni ‘80 e dai governi che lo hanno sostenu-to. Marchionne, fautore del toyotismo e della “qualità totale”, rappresenta il «detonatore della crisi della de-mocrazia italiana», dice in un’intervista Giorgio Cre-maschi, che invita a «far saltare il banco». Il volume si chiude con la frase di Mao: «Grande è il disordine sotto il cielo. La situazione, dunque, è eccellente». E con una poesia di Sante Notarnicola, tratta dal libro La nostal-gia e la memoria, dedicata a «colui che per primo/ mi chiamò terrone/ e m’insegnò poi/ che fare il crumiro/ era il crimine più grande».

GE. CO.

Nickalive

Page 24: n diploteca · del Paese al primo posto. Attaccata dai democratici e dai media statunitensi per l’avvicinamento alla Corea del Nord, giudicato im-prudente, la Casa bianca sarebbe

Prostitute nigeriane vittime del «juju»

NOVEMBRE 2018 Le Monde diplomatique il manifesto24

GIOVANI DONNE INGANNATE DA CONNAZIONALI ADULTE

In Francia. la prostituzione nigeria-na è un fenomeno massiccio, e negli ultimi trent’anni non ha fatto che

crescere. Molte giovani donne, talvol-ta minorenni, originarie della regione di Edo, e in particolare dalla città di Benin City o dei villaggi circostanti, soccombono alle sirene dell’Europa.

Spesso sono donne nigeriane come loro, «zie», «amiche di famiglia», che già vivono nella terra promessa, a far loro balenare possibilità di studio, di un lavoro ben pagato, a volte di ma-trimonio. Nella regione, le chiamano pudicamente sponsor. Si tratta gene-ralmente di ex prostitute diventate mezzane e incaricate dello sfrutta-mento delle nuove leve africane.

All’inizio degli anni 2000, il nume-ro delle donne nigeriane arrivate in Europa era già stimato in oltre qua-rantamila. La cifra non ha smesso di aumentare, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim). In Italia, l’80% delle prostitute ver-rebbe dalla Nigeria, mentre in Francia l’importanza di questa filiera supera quella delle reti provenienti dalla Cina e dall’Europa dell’Est.

Le giovani donne provengono in gran parte da ambienti molto precari; hanno una famiglia a carico o sono madri nubili messe al bando dalla comunità. Altre sognano semplice-mente un futuro migliore all’estero, una speranza contrastata dall’assenza quasi totale di politica migratoria in Nigeria. Vanessa Simoni, responsabile del progetto «Tratta degli esseri uma-ni», dell’associazione Les amis du bus des femmes, che lavora per le persone prostitute, vede negli sponsor della prostituzione i «detentori di un certo monopolio locale dell’emigrazione il quale di fatto pone in una situazione di forte dipendenza le donne che desi-derano emigrare, a maggior ragione quelle che partono per l’Europa per prostituirsi (1)».

Paura del malocchio

Avviate verso l’Europa via mare o via terra, spesso costrette alla prosti-tuzione durante il viaggio, dovranno lavorare in Europa fino a quando non avranno rimborsato il proprio debito, il cui ammontare può raggiungere i 70.000 euro: 50.000 euro in media per il trasporto – in realtà finanziato in gran parte dalle stesse ragazze e co-stato in genere poche migliaia di euro –, ai quali si sommano, con l’arrivo in Francia, altre spese per le ragazze e per i responsabili della trasferta: cibo, abiti, alloggio, varie ed eventuali, ad esempio per gli aborti in caso di gra-vidanza. Le mezzane potranno anche aiutarle a ottenere documenti scriven-do per loro una storia stereotipata da raccontare – naturalmente evitando qualsiasi accenno all’attività di pro-stituzione –; diverse altre centinaia di euro di costo.

Lo sfruttamento è fondato su mec-canismi sorprendentemente abili. Un rito praticato davanti a testimoni ne costituisce l’avvio, il vettore e il ga-rante. Tutto comincia alla vigilia della partenza verso l’Europa, nel corso di una cerimonia alla quale partecipano la ragazza, la sua famiglia, i vicini, la mama (o madam) che si prenderà cura di lei all’arrivo in Europa e un rappre-sentante delle credenze tradizionali: il medico tradizionale (traditional

doctor) o l’officiante (chief priest) di un tempio, spesso associato al culto di Ayelala, l’antenato mitico diviniz-zato, la cui autorità ha un grande peso nello svolgimento della cerimonia. In effetti, come ricorda Bénédicte Lavaud-Legendre, ricercatrice del Centro nazionale per la ricerca scien-tifica (Cnrs), «gli atti rituali praticati nel tempio Ayelala sono dotati di una legittimità reale nella società di Benin City. Hanno una dimensione para-

giurisdizionale e para-istituzionale nient’affatto trascurabile (2)».

Seguendo un protocollo scrupolo-samente codificato, nel corso della cerimonia si confeziona un piccolo og-getto chiamato juju, prelevando dalla ragazza capelli, peli, ritagli di unghie e talvolta anche sangue mestruale. Un tempo utilizzato come «assicurazione sulla vita» o portafortuna, simboleg-gia oggi l’impegno preso con la mama e dà una consistenza tangibile al con-tratto che la lega alla «figlia».

Successivamente, quest’ultima vie-ne spogliata, lavata e avvolta in un lenzuolo bianco. Possono anche essere praticate scarificazioni, abituali nella medicina tradizionale del paese, a sim-boleggiare l’ingresso nel corpo dello spirito che accompagnerà la giovane nella sua nuova vita – se necessario ri-chiamandola al proprio dovere. Infine,

il contratto viene sancito con la decla-mazione degli impegni: lavorare, non parlare dell’accordo con altre persone, obbedire, pagare. Le conseguenze di una rottura del contratto vanno ben oltre le semplici rappresaglie: il juju si incaricherà di rendere giustizia alla mama lesa, scagliando sulla ragazza o sui suoi familiari la maledizione del-la follia, della sterilità, dell’incidente, della malattia o della morte.

La frontiera fra consenso e coerci-zione è labile: alcune ragazze si sot-topongono volontariamente al rito, come in passato chi partiva per un lungo viaggio; altre lo rifiutano; altre ancora pagheranno il debito pur senza credere del tutto agli effetti reali della maledizione. Il rito, vi si creda o no, trae il proprio potere di convincimento dall’eco potente che trova in un insie-me di norme ampiamente interiorizza-te, nelle quali prevalgono la deferen-za verso gli antenati, il rispetto della

parola data e la cultura del sacrificio. Non è raro, infatti, che in Nigeria un apprendista, in qualunque tipo di atti-vità, non solo accetti di lavorare gra-tis, ma ricompensi anche la persona che gli ha generosamente consentito di trovare lavoro. Le reti della prosti-tuzione sfruttano dunque una pratica radicatissima.

Più in generale, in queste pratiche che intrecciano contrattualizzazione e spiritualità vudù, affiora la natu-ra stessa del rapporto fra individuo e gruppo: «Il gruppo domina l’indivi-duo, dettandogli i suoi doveri, spiega Inès de la Torre in un’analisi del vudù in Africa occidentale. In cambio lo protegge e lo esonera da responsa-bilità. Essere membro di un gruppo garantisce alla persona la sicurez-za fisica e la pace dello spirito (3).» Una pace certo precaria per le giovani donne costrette a prostituirsi, ripor-

tate alla realtà della loro condizione fin dai primi giorni del soggiorno in Europa, dove in effetti la dipendenza economica, la confisca del passaporto, il ricorso alla violenza e il manteni-mento di relazioni impari con la mama giocheranno il ruolo preponderante nel processo di sfruttamento. Eppure, per molte ragazze il ricordo del rito ha attraversato il Mediterraneo con loro e pesa con forza sulla nuova vita.

Non tutte ignorano quello che le aspetta in Europa. Ma in genere, per queste donne provenienti da una cul-tura nella quale lo stesso termine «prostituzione» è ancora tabù, la re-altà dello sfruttamento si svela troppo tardi. Alloggi precari, ritmi di lavoro insostenibili, sistematica confisca del denaro guadagnato, sorveglianza continua organizzata dall’entourage maschile della mama: si fa di tutto af-finché la quasi totalità del tempo sia dedicata all’attività di prostituzione

– e per minimizzare le spese a cari-co dello sponsor. Il rapporto di quasi vassallaggio che lega queste persone e che si fonda su un abile miscuglio di protezione e costrizioni, contribuisce a mantenere la dipendenza economica e sociale che il rito del juju consacra e giustifica sul piano spirituale.

L’angoscia legata alle rappresaglie che la rottura del giuramento potrebbe scatenare non può essere bollata come paura irrazionale, immotivata. Piut-tosto, è spesso legata a un forte senti-mento di depressione nato dalle cattive condizioni di lavoro, e si rafforza man mano che aumenta la sofferenza psico-logica e fisica. Così, le giovani donne possono essere portate a considerare malattie, disturbi psicosomatici, in-sonnie, ansia come manifestazioni del juju, e questa interpretazione giustifi-ca a posteriori i loro timori, alimentan-doli.

Come hanno potuto constatare le associazioni che aiutano le persone prostitute, questa credenza tradizio-nale continua a produrre effetti anche quando la giovane viene presa in ca-rico, e in certi casi può portare a un ritorno volontario all’interno delle reti, nella speranza di sfuggire ai ful-mini della maledizione e dello sper-giuro. Numerose ragazze si vedono non come vittime, ma come traditrici, colpevoli di non aver saputo rispettare la parola data. È allora essenziale por-tarle a rinunciare da sole all’attività di prostitute, senza rinnegare l’esistenza del contratto. «Non posso consigliar loro di smettere di pagare, spiega Pa-tricia Kouaku, mediatrice culturale

nigeriana dell’associazione Accom-pagnement, lieux d’accueil, carrefour éducatif et social (Alc - Accompagna-mento, luogo di accoglienza, crocevia educativo e sociale), che accoglie e protegge le vittime della tratta. Sono consapevole del fatto che ci sono mi-nacce alle famiglie, incendi, uccisioni. (...) Penso a una giovane che ha stu-diato all’università e che è confinata nella prostituzione a causa del juju. Le suggerisco di rinegoziare: invece di 1.000 euro ogni dieci giorni, 200 euro al mese. Era arrivata con la promessa che avrebbe gestito un’impresa. Per aiutarla a uscire dalla sua situazione, le spiego che le hanno mentito e che dunque il rito è invalidato. Spesso fun-ziona (4).» Decostruire il rito, sottrar-gli il potere di coercizione equivale a fargli perdere la sacralità della quale era ammantato e, alla fine, riportarlo nell’ambito degli affari terreni.

Primo processo

Negli ultimi tre anni la questione ha cominciato a interessare i tribunali. A Toulouse, Bordeaux e Montpeiller si sono svolti processi per casi che coin-volgevano reti nigeriane di prossene-tismo. Il delitto di tratta degli esseri umani è sempre più spesso preso in considerazione, e va ricordato che il legame di una mama con la «figlia», sancito o no da un rito ancestrale, si configura sempre come un dominio fondato sul commercio e sullo sfrutta-mento delle persone. Si definisce trat-ta degli esseri umani «il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapi-mento, frode, inganno, abuso di pote-re o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il con-senso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende, come mini-mo, lo sfruttamento della prostituzio-ne altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato o prestazio-ni forzate, schiavitù o pratiche ana-loghe, l’asservimento o il prelievo di organi (5)».

È in particolare grazie al primo pia-no di azione nazionale contro la trat-ta degli esseri umani (2014-2016) che i poteri pubblici sono intenzionati a reprimere le reti di prostituzione ni-geriane. Nel maggio 2018 si è aperto a Parigi il processo chiamato delle «Authentic Sisters», dopo lo smantel-lamento di una rete di prostituzione nigeriana di ampiezza inusuale: quin-dici persone, fra le quali dodici donne, sono state condannate per prostituzio-ne aggravata e tratta di esseri umani. Hanno avuto pene fra i due e gli undici anni di carcere, oltre a multe pesanti. La mediatizzazione di queste vicende dovrebbe permettere una maggiore conoscenza del fenomeno in Francia come in Nigeria, dove sono partite le prime campagne di sensibilizzazione per allertare le potenziali candidate sulla realtà che si nasconde dietro il juju.

(1) Vanessa Simoni, «“I swear an oath”. Ser-ment d’allégeances, coercitions et stratégies migratoires chez les femmes nigérianes de Be-nin City», in Bénédicte Lavaud-Legendre (a cura di), Prostitution nigériane. Entre rêves de migration et réalités de la traite, Karthala, coll. «Hommes et sociétés», Parigi, 2013.(2) Bénédicte Lavaud-Legendre, «Autonomie et protection des personnes vulnérables: le cas des femmes nigérianes se prostituant en Fran-ce», Centre de droit comparé du travail et de la sécurité sociale (Centro del diritto comparato del lavoro e della sicurezza sociale), Bordeaux, 2012.(3) Inès de la Torre, Le Vodu en Afrique de l’Ouest. Rites et traditions, L’Harmattan, coll.«Connaissance des hommes», Parigi, 1991.(4) Patricia Kouakou, «Au Nigeria, les filles portent le poids des familles», intervista di Prostitution et Société, n.191, Parigi, gennaio-marzo 2017.(5) «Protocollo delle Nazioni Unite sulla pre-venzione, soppressione e persecuzione del traf-fico di esseri umani, in particolar modo donne e bambini», articolo 3: «Terminologie», primo comma, New York, 15 novembre 2000.(Traduzione di Marianna De Dominicis)

* Docente associata di storia, École normale supérieure Paris-Saclay.

In Francia, le reti della prostituzione nigeriana superano ormai quelle delle filiere cinesi o dell’Europa dell’Est. Le giovani prostitute, presenti in tutta Europa, sono in genere attirate da compatriote adulte che fanno loro balenare il miraggio di una vita migliore. Quando viene il momento di partire, se ne assicurano la docilità confezionando un oggettino dotato di poteri magici: il «juju»

MATHILDE HAREL *

Concorso per studenti 2018L’associazione Les Amis du Monde diplomatique (Amd), formata dai let-

tori del mensile (1), ha organizzato quest’anno il sesto concorso destinato agli studenti, con un premio di 1.000 euro. La giuria, presieduta da Denise Decournoy (direttrice editoriale) e formata da Mireille Azzoug (professo-ressa associata, già direttrice dell’Istituto di studi europei dell’università Paris-VIII), Philippe Leymarie (già giornalista a Radio France Internatio-nale, animatore del blog Défense en ligne, sul sito del mensile) e Mathieu O’Neil (ricercatore, collaboratore del Monde diplomatique), ha preso in esame diverse decine di reportage e inchieste. L’articolo della vincitrice è pubblicato in questa pagina. La data limite per la consegna delle pro-poste di articoli relativamente alla prossima edizione è il 15 giugno 2019.

(1) www.amis.monde-diplomatique.fr.

NIGERIA. In fuga da Boko Haram