modelli di interazione fra debito pubblico e mercato finanziario · meno del 4 per cento ad oltre...

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111 1 E. GIOVANNINI, Fabbisogno pubblico, politica monetaria e mercati finanziari, Milano, 1993, p. 15. Tavola rotonda Modelli di interazione fra debito pubblico e mercato finanziario di FRANCESCO BALLETTA Premessa 1. Il modello. Prima di elencare i modelli di interazione fra debito pubbli- co e mercati finanziari, è opportuno chiarire cosa intendiamo con le tre parole chiavi che compongono il titolo della nostra relazione. Un modello, per sua natura, implica una selezione delle variabili che sono presenti nell’economia, le quali assumono maggiore rilevanza quando si tratta di mercato finanziario 1 . Pertanto, ci proponiamo di esaminare le variabili che influiscono sulle altre due componenti dell’economia e tra quelle cercheremo di individuare la più impor- tante, cioè quella che ha un maggiore peso sull’andamento del debito pubblico e sul mercato finanziario. 2. Il debito pubblico. L’obiettivo che ci proporremo nell’esaminare il debito pubblico è quello che bisogna mantenere l’indebitamento nei giusti limiti del fabbisogno dello Stato, in modo da non eccedere nel rastrellare risparmio, influendo negativamente sul buon funzionamento dei mercati finanziari, che rimarrebbero anemici, sottraendo capitali agli imprenditori per il rinnovo della loro attività. L’indebitamento dello Stato dovrebbe essere circoscritto al vincolo di bilancio intertemporale, cioè se in certi periodi lo Stato spende più di quanto incassa e si indebita, in altri periodi dovrebbe aumentare gli incassi, derivanti dai tributi e dai contributi sociali, in modo da superare le spese e determinare un avanzo da utilizzare per coprire l’ammortamento del debito. Ciò significa, come spiega Ignazio Musu, che “il valore attuale delle spese deve sempre essere uguale al valore attuale delle entrate. In altri termini, in un singolo anno, il bilancio pubblico può registrare un disavanzo o un avanzo, a livello intertem-

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1 E. GIOVANNINI, Fabbisogno pubblico, politica monetaria e mercati finanziari, Milano, 1993,p. 15.

Tavola rotonda

Modelli di interazionefra debito pubblico e mercato finanziario

diFRANCESCO BALLETTA

Premessa

1. Il modello. Prima di elencare i modelli di interazione fra debito pubbli-co e mercati finanziari, è opportuno chiarire cosa intendiamo con le tre parolechiavi che compongono il titolo della nostra relazione. Un modello, per suanatura, implica una selezione delle variabili che sono presenti nell’economia, lequali assumono maggiore rilevanza quando si tratta di mercato finanziario1.Pertanto, ci proponiamo di esaminare le variabili che influiscono sulle altre duecomponenti dell’economia e tra quelle cercheremo di individuare la più impor-tante, cioè quella che ha un maggiore peso sull’andamento del debito pubblicoe sul mercato finanziario.

2. Il debito pubblico. L’obiettivo che ci proporremo nell’esaminare il debitopubblico è quello che bisogna mantenere l’indebitamento nei giusti limiti delfabbisogno dello Stato, in modo da non eccedere nel rastrellare risparmio,influendo negativamente sul buon funzionamento dei mercati finanziari, cherimarrebbero anemici, sottraendo capitali agli imprenditori per il rinnovo dellaloro attività. L’indebitamento dello Stato dovrebbe essere circoscritto al vincolodi bilancio intertemporale, cioè se in certi periodi lo Stato spende più di quantoincassa e si indebita, in altri periodi dovrebbe aumentare gli incassi, derivantidai tributi e dai contributi sociali, in modo da superare le spese e determinareun avanzo da utilizzare per coprire l’ammortamento del debito. Ciò significa,come spiega Ignazio Musu, che “il valore attuale delle spese deve sempre essereuguale al valore attuale delle entrate. In altri termini, in un singolo anno, ilbilancio pubblico può registrare un disavanzo o un avanzo, a livello intertem-

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2 I. MUSU, Il debito pubblico, Bologna, 1998, p. 33.3 Ibidem, pp. 34-35.

porale il vincolo del bilancio pubblico deve essere sempre in pareggio: se cisono anni in cui il bilancio pubblico è in disavanzo, ce ne devono essere altri,in futuro, in cui il bilancio manifesta un avanzo”2.

Ecco un elenco dei modelli che possiamo considerare dal punto di vistadella crescita del debito pubblico: 1) le neutralità del debito pubblico; 2) lapolitica monetaria che influenza il debito pubblico; 3) le variazioni dei saggi diinteresse relative al debito pubblico.

3. Il mercato finanziario. Ciò che terremo in considerazione per il mercatofinanziario italiano sono le ragioni della mancata sua crescita e assenza di tra-sparenza. Pertanto i modelli che possiamo prendere in considerazione rifletto-no la presenza di alcuni fattori, che, direttamente, influiscono sui mercatifinanziari: 1) politica fiscale; 2) scarsa trasparenza dei bilanci societari; 3) vigi-lanza sul mercato finanziario, compresa la posizione della Banca d’Italia; 4)caratteristica della struttura industriale italiana; 5) influenza del debito pubbli-co. Quest’ultimo fattore, comunque, rimane legato ai modelli per il debito.Dall’analisi condotta riteniamo che quella del debito pubblico fu una influenzadeterminante, perché legata alla evoluzione della politica monetaria italiana.

1. Modelli di interpretazione del debito pubblico

A. Modello che sostiene la neutralità del debito pubblico. Nel dibattito fragli economisti, che si tenne negli anni ’90 del Novecento, fu introdotta la “teo-ria della neutralità del debito pubblico”, la quale utilizza come concetto base il“vincolo di bilancio intertemporale”. I sostenitori di tale modello ripresero unconcetto riportato da Davide Ricardo, nell’Ottocento, per cui il “debito pub-blico non costituisce in effetti una ricchezza finanziaria per i cittadini”. Cioé, incaso di bisogno di maggiori entrate – per esempio per finanziare una guerra –lo Stato può ricorrere a una imposta straordinaria, oppure al debito pubblico.Nei due casi vi è sempre un aggravio tributario per il cittadino, aggravio che,nel primo caso, è immediato e, nel secondo, rinviato, per cui il valore attualedelle maggiori imposte future è uguale alle maggiori imposte che si sarebberodovute riscuotere al presente3. Perché si possa realizzare la teoria della “neu-tralità” occorrono due condizioni. La prima è che, nell’intero periodo di coper-tura della spesa, con l’emissione del debito, il gettito fiscale e il finanziamentocon moneta coprano sia gli interessi sul debito che le spese. Ovviamente, la dura-ta della restituzione del debito, legata al “vincolo di bilancio intertemporale”,dipende dalla dimensione e dalla distribuzione nel tempo delle maggiori spese,

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“quanto più protratti nel tempo sono i disavanzi, tanto più sarà lontano, neltempo, il realizzarsi del vincolo di bilancio”4. La seconda condizione è che iltasso di crescita del Prodotto Interno Lordo sia superiore al saggio di interesse.Nel Novecento, in molti paesi industrializzati, questa situazione si verificò. Ilcapovolgimento dei rapporto si ebbe nei periodi di crisi economica, quando ilreddito ristagnava. In Italia, nel secondo dopoguerra, fino all’inizio degli anni’80, cioè per quaranta anni, si ebbe un tasso di crescita del reddito superiore alsaggio di interesse, ciò “spiega perché – scrive Maria Teresa Salvemini – nessu-na delle previsioni catastrofiche fatte dagli economisti circa le conseguenze dielevati debiti pubblici si sia verificata”5. Il primo passo verso l’aggravio deldebito degli anni ’80 fu fatto, all’inizio degli anni ’70, allorché i governanti tra-mutarono il finanziamento della spesa corrente in deficit. Fra il 1970 d il 1975,la percentuale del debito pubblico sul PIL crebbe dal 41 al 60 per cento. Inquesto periodo, il fabbisogno complessivo dello Stato crebbe da meno del 6 percento al 13 per cento, cioè raddoppiò, mentre il fabbisogno primario crebbe dameno del 4 per cento ad oltre il 9 per cento, cioè fu più che doppio, mentre laspesa per interessi salì, da meno del 2, a circa il 4 per cento, cioè si ebberominori aumenti. In effetti, dall’analisi dei dati raccolti da P. Paesani e G. Pigarisulta che “la forte crescita del disavanzo primario sia il risultato combinato diuna scarsa capacità di incremento della tassazione a fronte di una crescentespesa corrente”6.

La situazione, in Italia, mutò profondamente, quando, nel 1983-84, il sag-gio di interesse superò il tasso di crescita del PIL, per cui il problema del debi-to pubblico si aggravò7. In pratica, il governo dopo avere deciso di servirsi deldebito pubblico per finanziare la spesa pubblica, non avrebbe dovuto aggrava-re il carico fiscale, invece fu costretto ad aumentare i tributi per pagare il servi-zio del debito (cioè gli interessi). Ciò significa che il risparmiatore non devepensare che lo Stato, dopo avere aumentato il debito, rinuncia alle tasse, “unindividuo razionale non considererà l’aumento del debito pubblico da lui sot-toscritto come un aumento della propria ricchezza”8. In effetti, i governanti,alla metà degli anni ’80 – quando l’economia cresceva e l’inflazione stava dimi-

4 M.T. SALVEMINI, Le politiche del debito pubblico, Roma-Bari, 1992, p. 201.5 Ibidem, pp. 201-202.6 P. PAESANI-G. PIGA, Cause e gestione del debito pubblico in Italia, dal 1970 al 1990, in

“Politiche macroeconomiche, gestione del debito pubblico e mercati finanziari”, Bologna, 2002,pp. 220-221.

7 G. GALLI-F. GIAVAZZI, Tassi di interesse reali e debito pubblico negli anni Ottanta: interpre-tazioni, prospettive, implicazioni per la politica di bilancio, in “Ente Einaudi, Il disavanzo pubbli-co in Italia: nauta strutturale e politiche di rientro”, Bologna, 1992; Tassi di interesse e debito pub-blico. Una analisi del caso italiano, a cura di A. Giannola e U. Marani, Napoli, 1990.

8 I. MUSU, Il debito pubblico, cit., p. 35.

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nuendo –, non seppero avvantaggiarsi della “evoluzione favorevole del ciclo perridurre la distruzione del risparmio nazionale causata dai ricorrenti deficit dibilancio”9.

B. Modello che sostiene l’importanza della politica monetaria, in particolaredell’inflazione. Se una parte del debito pubblico viene acquistato dalla Bancad’Italia, il disavanzo del bilancio dello Stato viene coperto con l’emissione dinuova moneta. Cioè, l’emissione di moneta sostituisce l’aumento della pressio-ne tributaria. In questo caso, se l’economia si trova in una situazione di pienoutilizzo delle capacità produttive o di piena occupazione, l’eccesso di moneta,non potendo utilizzarsi con l’aumento degli scambi, crea inflazione. A questoeffetto bisogna aggiungere la crescita dell’economia, anche se parziale. L’au-mento dei prezzi, causato dall’emissione di moneta, porta alla riduzione delpotere di acquisto della moneta che si presenta “come una vera e propria impo-sta, per questo motivo essa è anche chiamata imposta da inflazione”10.

Il potere di emettere moneta spetta allo Stato, potere che viene, spesso, tra-sferito alla banca centrale. Quando lo Stato chiede nuova emissione di monetaper finanziare il disavanzo di bilancio, l’operazione è detta signoraggio11. Si trat-ta di una imposta che non viene decisa dal governo o dal Parlamento, bensì dalTesoro, con la collaborazione della banca centrale, che, acquistando titoli pub-blici sul mercato aperto, determina la crescita della base monetaria e quindil’inflazione. La imposta da inflazione ha in sé un elemento di autoalimentazio-ne, perché lo Stato, per realizzare i servizi, deve spendere di più per la crescitadei prezzi, per conseguenza, l’aumento della spesa porta all’emissione di altramoneta con ulteriore crescita dell’inflazione. Il circolo vizioso che si crea con laspirale disavanzo pubblico – emissione di moneta – inflazione si frenerà solo seil Tesoro sospende la copertura delle spese con l’emissione di cartamoneta,oppure se la Banca d’Italia si rifiuta, come responsabile della politica moneta-ria, di soddisfare le richieste di nuova moneta da parte del Tesoro. Tale dipen-denza della Banca d’Italia dalla politica del Tesoro è stata rotta, in Italia, soloall’inizio degli anni ’8012.

In effetti, la politica monetaria della banca centrale è costituita da un insie-me di provvedimenti diretti sia a regolare l’offerta di moneta sia ad influenzarela domanda. La Banca d’Italia effettuò con difficoltà una politica monetarialegata al fabbisogno dell’economia, poiché la creazione di moneta si ebbe attra-verso due tecniche: il Tesoro prelevava somme dal conto corrente che teneva

9 Ibidem, pp. 35-38.10 Ibidem, p. 22.11 M.T. SALVEMINI, Le politiche del debito pubblico, cit., p. 181.12 I. MUSU, Il debito pubblico, cit., pp. 22-24.

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con la Banca d’Italia, oppure acquistando titoli pubblici. Esaminiamo le duetecniche.

Il Tesoro apre un conto corrente presso la Banca d’Italia, nel quale entranotutti gli incassi dello Stato, compresa la restituzione dei debiti. In tale sistema,il Tesoro prima spende, effettuando prelievi dal conto corrente, poi versa nelconto attraverso il ricavato della vendita dei titoli. In questo modo, il Tesoroprima si indebita e poi spende. Poiché non c’è sincronia fra i flussi di entrate eil flusso di spese è necessario, per il Tesoro, creare una scorta di moneta. In talemodo, il Tesoro ritira somme allo scoperto. La legge, fino agli inizi degli anni’70, consentiva un ritiro massimo del 14 per cento della spesa del bilancio sta-tale. Successivamente, per l’aumento del fabbisogno dello Stato, la percentualecrebbe, rapidamente, fino all’inizio degli anni ’80, allorché superò di poco il 35per cento della spesa statale e, nel 1990, si avvicinò al 50 per cento13. In altripaesi, pur essendovi lo stesso sistema, non è consentito superare i limiti fissati.In Italia, la banca centrale fu costretta ad emettere cartamoneta su richiesta delTesoro, senza alcun legame con il fabbisogno dell’economia. Per queste strade,il Tesoro, attingendo denaro dal conto corrente e facendo crescere l’inflazione,influì sul costo del denaro, con conseguenze sul costo del debito dello Stato14.

Con la crescita dell’inflazione, si ebbe un aumento del risparmio delle fami-glie, per conseguenza una riduzione del saggio di interesse reale. “Che l’inflazio-ne abbia determinato un aumento del risparmio – sostengono Giannola e Mara-ni – tanto più rilevante quanto più esso è tenuto in forma liquida, è un fenomenoche trova conferma non per il solo caso italiano” ed è un fenomeno “del tuttocoerente con il comportamento razionale degli operatori”15, maggiormente dellefamiglie. Con l’uso che il Tesoro italiano fece delle richieste di emissione di mone-ta, la Banca d’Italia non perse il controllo della politica monetaria, poiché larichiesta fu sempre inferiore alla base monetaria complessiva.

La seconda strada che porta alla emissione di moneta è l’acquisto, sul mer-cato aperto, dei titoli pubblici da parte della Banca d’Italia. Con tali acquisti, laBanca, oltre ad emettere moneta, regola la liquidità bancaria. Si tratta di duediverse ottiche, ma con lo stesso obiettivo: “regolare l’offerta di moneta in rela-zione all’insieme degli obiettivi che la banca centrale si pone nella sua gestionedella politica economica”16. Dal dopoguerra al 1989, gli acquisti, sul mercatoprimario, di titoli pubblici da parte della Banca d’Italia per la creazione dimoneta venivano controbilanciati da vendite sul mercato secondario. Fino al1981, ciò avvenne in misura molto ampia. Per conseguenza, la forte presenza

13 M.T. SALVEMINI, Le politiche del debito pubblico, cit., pp. 142-144.14 Ibidem, p. 145.15 Tassi di interesse, cit., p. 13.16 M.T. SALVEMINI, Le politiche del debito pubblico, cit., p. 148.

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della Banca d’Italia impedì la formazione di un mercato trasparente dei titolipubblici, con operatori specializzati e ampie contrattazioni. Poiché, nel 1975, laBanca d’Italia aveva preso un impegno con il Tesoro che avrebbe sempre acqui-stato tutti i BOT rimasti invenduti all’asta, anche per la Banca si trattava di unimpegno troppo oneroso, che non riusciva a rispettare. Così, nel 1981, il Mini-stro del Tesoro rimosse quell’impegno e la Banca riacquistò la sua autonomiasul controllo dell’offerta di moneta17. Contemporaneamente, dopo quello che fudefinito il “divorzio” fra Banca e Tesoro, si ebbe una maggiore capacità opera-tiva del mercato dei titoli; “le tecniche di gestione della liquidità delle aziendedi credito si affina[rono]; and[ò] emergendo un ruolo di intermediari specializ-zati nella compravendita di titoli pubblici; la banca centrale innov[ò] notevol-mente le sue tecniche di rifinanziamento e di controllo”18. Anche per il Tesoroil “divorzio” fu favorevole, poiché dovette preoccuparsi di stabilire, con piùattenzione, la quantità e il prezzo dei titoli che emetteva e il relativo interesse;inoltre, doveva controllare il disavanzo, poiché le aste risentivano subito, in ter-mini di costo, delle variazioni di offerte dei titoli19. “Dopo il divorzio – rilevaMaria Teresa Salvemini – è emerso con chiarezza che, se gli obiettivi di conte-nimento dell’inflazione, della difesa del cambio, e della stabilità finanziaria nonvengono perseguiti con politiche economiche coerenti, ma solo con politichemonetarie restrittive, l’effetto sui tassi di interesse e, alla lunga, sulla stessa sta-bilità finanziaria del sistema può essere dirompente”20.

Nonostante il divorzio fra la Banca d’Italia e il Tesoro, rimanevano ancorastretti legami fra le due istituzioni, poiché avevano bisogno, reciprocamente,l’uno dell’altro: la Banca, per le sue relazioni con i mercati finanziari e la suaspecializzazione dell’economia monetaria; il Tesoro, perché doveva attuare lapiù generale politica economica del governo e dei rapporti con la classe politi-ca. La Banca d’Italia, comunque, non poteva disinteressarsi delle caratteristichedel debito pubblico e del suo peso sul totale delle attività finanziarie e della ric-chezza complessiva, l’entità delle intermediazioni finanziarie che si muoveattorno agli strumenti che compongono il debito, la difficile separazione di que-sta attività di intermediazione dalla tradizionale attività bancaria. In conclusio-ne, la Banca d’Italia non può usare la politica monetaria e la politica creditiziaper facilitare i finanziamenti del Tesoro, può solo contribuire alla buona collo-cazione e alla gestione del debito del Tesoro21. Quello che si ebbe negli anni ’70non si riuscì a ripetere negli anni ’80. Pertanto possiamo dividere il secondo

17 Ibidem, p. 174.18 Ibidem, p. 176.19 Ibidem.20 Ibidem, p. 178.21 Ibidem, p. 180; G. VACIAGO, Intervento, in “La politica economica italiana negli anni

Ottanta” (a cura di G. Acquaviva), Venezia, 2005, p. 89.

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dopoguerra in due parti, prima e dopo il “divorzio” fra Banca e Tesoro. Cioèfino agli anni ’70, i mercati finanziari furono dominati dalla politica monetaria,fu la Banca d’Italia a determinare l’evoluzione del mercato finanziario, ancheperché, all’epoca, il mercato finanziario italiano era ancora “troppo primitivo”per consentire altre modalità di controllo. Negli anni Ottanta, invece, dopo ildivorzio, con la crescita dei mercati si ebbe la selezione dei portafogli in base aisaggi di interesse22.

Mantenendo la distinzione fra gli anni ’70 e ’80, nel primo periodo, il disa-vanzo del bilancio fece aumentare il debito pubblico favorendo l’emissione dimoneta, con la conseguenza di fare accrescere le disponibilità liquide sul merca-to, assieme ai depositi e alle riserve bancarie23. “Si osservava anche – scrive Salve-mini – un immediato aggiustamento del portafoglio del pubblico al crescere dellamoneta – messa in circuito dal Tesoro, e in conseguenza di ciò una perdita delcontrollo sull’offerta di base monetaria”24. In realtà, ciò accadde raramente, erauna “tesi che nasceva dall’osservazione di un semplice parallelismo; quando cam-bia la politica monetaria, il parallelismo si rompe, e non solo viene messa in dub-bio la stabilità della relazione tra disavanzo e moneta, ma il segno”25.

Negli anni Settanta, fu attuata una politica monetaria con compiti di corre-zione della politica fiscale, cioè una politica che correggeva ex post – come siespresse Musu – le conseguenze di una politica fiscale diretta a mantenere ildisavanzo del bilancio dello Stato26.

Negli anni Ottanta, dopo il divorzio, la politica monetaria della Banca d’Ita-lia riacquistò la sua funzione originaria, cioè di stabilizzazione della moneta, daattuare in forma preventiva, cioè ex ante. In concreto, la Banca d’Italia non sidoveva impegnare, con la politica monetaria, a correggere le disfunzioni del “cre-dito totale” interno, bensì doveva tenere sotto controllo la base monetaria27.

Negli anni Ottanta, l’alto livello dei saggi di interesse fu attribuito alla mag-giore autonomia acquisita dalla banca centrale in seguito al divorzio con il Teso-ro. In un momento in cui aveva importanza rilevante la stabilità monetaria e delcambio, la Banca d’Italia, assieme alle altre banche centrali dei paesi occidenta-li, compresi gli Stati Uniti, reagì dando alle restrizioni monetarie il compito diportare i saggi di interesse a livelli alti al punto “da determinare i desideratiaggiustamenti nei portafogli del pubblico e delle banche”28. Secondo Tullio Jap-

22 M.T. SALVEMINI, Le politiche del debito pubblico, cit., p. 180.23 Ibidem, p. 184.24 Ibidem, p. 184.25 Ibidem, p. 184.26 I. MUSU, Il debito pubblico, cit., pp. 102-103.27 Ibidem, pp. 102-103.28 M.T. SALVEMINI, Le politiche del debito pubblico, cit., pp. 183-184.

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29 T. JAPPELLI, Risparmio, tassi di interesse e politica fiscale: l’esperienza italiana, in “La spi-rale del debito pubblico”, a cura di Augusto Graziani, Bologna, 1988, pp. 91-107.

30 L. SPAVENTA, La crescita del debito pubblico: sostenibilità, regole fiscali e regole monetarie,in “La spirale del debito pubblico”, cit., pp. 21-49.

31 I. MUSU, Il debito pubblico, cit., p. 104; M. VISAGGIO, Politiche di bilancio, cit., p. 150; G.VACIAGO, Intervento, cit., p. 89.

32 M.T. SALVEMINI, Le politiche del debito pubblico, cit., p. 185.33 P. GAWRONSKI, Il Patto di stabilità, in “Politiche macroeconomiche, gestione del debito

pubblico e mercati finanziari”, a cura di M. Bagella e L. Paganetto, Bologna, 2002, p. 187.

pelli, nel periodo 1962-1984, in Italia, all’aumento di un punto percentuale deldisavanzo di parte corrente, corretto per l’inflazione, corrispose un aumento diun punto anche nel saggio di interesse29. Secondo Luigi Spaventa, tenendofermo il saggio di interesse, la quota del finanziamento monetario del disavan-zo quanto più è alto tanto minore è la crescita del debito tanto più basso è ilsaggio di interesse. Cioè fra finanziamento monetario del disavanzo e debito vi èuna correlazione inversa, mentre fra debito e saggi di interesse vi è una correla-zione diretta30.

In conclusione, il crescente rapporto fra debito pubblico e PIL, negli anniOttanta, sarebbe dipeso anche dalla politica monetaria della Banca d’Italia, laquale, a sua volta, agì sul livello dei saggi di interesse. Infatti, la Banca d’Italiacontinuò ad acquistare titoli pubblici senza che fosse costretta31. D’altra parte,secondo Maria Teresa Salvemini, “una politica monetaria permissiva non è nem-meno in grado di tenere permanentemente bassi i tassi di interesse nominali, per-ché gli operatori domandano rendimenti che incorporano le aspettative inflazio-nistiche; né è in grado di tenere bassi i tassi reali, perché anche questi possonoessere influenzati da aspettative di inflazione crescente”32: In pratica, non si puòpensare di affidare alla politica monetaria il compito di indurre mutamenti nellapolitica delle entrate e delle spese dello Stato. Ciò può avvenire solo se vi è unalimitazione imposta dall’esterno, come è stato stabilito con gli accordi di Maastri-cht, dove, con il patto di stabilità, si è fissato, per il debito pubblico, un limite del60 per cento del PIL. Ciò nonostante, si tratta di un limite fissato solo per il set-tore pubblico, perché, comunque, la stabilità monetaria “continuò a dipendere inmaniera crescente dai comportamenti di tutti gli agenti, inclusi i privati, dallepolitiche macro e micro–economiche, e dalla capacità di supervisione del sistemaeconomico–finanziario da parte delle autorità”33. Comunque, avere consideratoalmeno il settore pubblico è già molto, tenuto conto del forte indebitamento dimolti stati che aderirono alla Unione Europea (oggi, 2005, per l’Italia il rapportodebito pubblico – PIL è del 106 per cento e tende a salire), di alcune previsionidi aumento di spese sociali che possono farsi per l’invecchiamento della popola-zione, delle conseguenze fiscali che possono derivare dalla globalizzazione ecomunque dalle tensioni che si sono verificate in seguito alla guerra in Iraq.

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34 Tassi di interesse, cit., p. 9; E. GIOVANNINI, Fabbisogno pubblico, cit., p. 7.35 Tassi di interesse, cit., p. 10.36 I. MUSU, Il debito pubblico, cit., p. 14.

C. Il modello che mette in primo piano le variazioni del saggio di interesse.Un altro modello rilevava che la lievitazione dei saggi reali di interesse influenzòin misura determinante il rapporto fra debito pubblico e PIL, con conseguenzepesanti per l’andamento degli acquisti di titoli azionari e sulla concessione dicrediti. La dimensione del debito pubblico e le modalità del finanziamentoadottato sarebbero la “causa principale di quella evoluzione dei tassi che hascatenato la componente di spese interessi”34.

La posizione della Banca d’Italia comprende due fasi parallele: la prima èl’influenza che l’emissione del debito pubblico esercita sui saggi di interesse,pertanto si avrebbe “uno spiazzamento” del settore privato; parallelamente, ladinamica del debito determina la “instabilità” dei mercati finanziari. A chiari-mento, va aggiunto che, in seguito alla emissione di debiti, lo Stato non miglio-ra i servizi o per lo meno non in proporzione al costo, per cui il debito causa unrallentamento del PIL. “Tali fenomeni determinano congiuntamente, – secondoGiannola e Marani – le condizioni per l’innalzamento esplosivo del rapporto frastock di debito e il PIL, acuendo il differenziale tra il tasso di interesse reale eil tasso di crescita del Prodotto Interno Lordo”35.

Importante, ai fini del chiarimento del rapporto fra debito pubblico e saggidi interesse, è la scadenza del debito. In proposito va ricordata l’esistenza di tretipi di titoli. Il primo è costituito dai Buoni Ordinari del Tesoro (BOT) conbreve scadenza, inferiore all’anno, che vengono acquistati al valore di emissio-ne, inferiore al valore nominale, e rimborsati al valore nominale. A questa cate-goria di titoli a breve possiamo assimilare i Buoni Postali, la cui scadenza puòessere a breve o a lungo termine. Il secondo tipo è dato dai Certificati di Cre-dito del Tesoro (CCT) con scadenza medio-lunga e gli interessi vengono pagaticon una cedola, il cui valore è legato al rendimento dei titoli a breve, proprioper invogliare i risparmiatori all’acquisto, poiché questi titoli furono emessi, inItalia, nella seconda metà degli anni Settanta, cioè in un periodo di forte infla-zione, quando il risparmiatore era restio a concedere credito allo Stato. Al terzotipo appartengono i Buoni del Tesoro Poliennali (BTP) con una cedola fissa econ una durata superiore a un anno36.

Per i tre tipi di prestiti, saggi di interesse variano a seconda della scadenza.Considerati nello stesso momento, quelli a breve dovrebbero avere un saggio piùbasso e quelli a lungo un saggio più alto. I saggi dei BOT erano molto vicini aisaggi dei depositi bancari e ai saggi postali a breve. Esiste una relazione inversa trail saggio di interesse di ciascun tipo di titoli del debito pubblico e il prezzo dimercato del titolo stesso, cioè aumentando il saggio di interesse del titolo emesso,

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37 Ibidem, p. 14.38 Tassi di interesse, cit., p. 11.39 Ibidem, p. 11.40 Ibidem, p. 12.41 M.T. SALVEMINI, Le politiche del debito pubblico, cit., p. 146.42 Tassi di interesse, cit., pp. 12-13.

il risparmiatore vende il titolo precedente e compra il nuovo; cioè un aumento delsaggio di interesse comporta una caduta del prezzo di mercato dei titoli37.

Con l’emissione dei BOT, che può considerarsi uno strumento monetarionuovo, tenuto conto della brevità della scadenza, il risparmiatore è portato asostituirli ai depositi bancari. Una sostituibilità, che, dagli anni ’70 in poi, fuelevatissima ed influì sulla stabilità dei saggi di interesse38.

L’elevato saggio praticato richiamò, in Italia, capitali dall’estero, che, all’i-nizio degli anni ’80, servirono a coprire il disavanzo della bilancia dei paga-menti. Tale afflusso di capitali rese, dal versante del debito pubblico, la gestio-ne del saggio “del tutto indipendente la dinamica del fabbisogno e la conse-guente crescita dello stock di debito dall’andamento effettivo del deficit al nettodegli interessi”39.

Intanto, la sostituibilità tra depositi e titoli pubblici, oltre ai BOT, si allargòai CCT, cioè a titoli a più lunga scadenza. Ciò si ebbe, indipendentemente, dallaentità del saggio di interesse. Pertanto, si rileva che le variazioni dei saggi diinteresse, a breve termine, erano separati dalla dinamica del debito pubblico,cioè non era il debito pubblico a influire sui saggi, bensì erano i saggi che influi-vano sull’entità del debito40. Questa interpretazione di Giannola e Marani fucompletata dalle ricerche di Maria Teresa Salvemini, che rivelò come più volteil Tesoro manovrò l’entità del debito pubblico per influire sulle variazioni deisaggi di interesse. “Lo spazio di manovra è assai limitato – scrive Salvemini -, ele aspettative del mercato sui tassi sono influenzate anche dalla percezione dellasituazione di liquidità del Tesoro”41.

Tornando alle ipotesi che furono i saggi di interesse ad influire sull’entitàdel debito, fu il saggio sui BOT che influì sulle varie componenti del debitopubblico, al quale va aggiunto che vi era una crescita del fabbisogno comples-sivo dello Stato per coprire le spese.

Il trasferimento dei depositi bancari ai BOT e ai CCT fu anche favorito dalfatto che si operava in un contesto inflazionistico che aiutava la crescita delrisparmio e una conseguente flessione del saggio di interesse reale. L’inflazione,che favorisce la formazione del risparmio liquido, è un comportamento razio-nale degli operatori, in particolare delle famiglie42.

In conclusione, in base all’analisi di Giannola e Marani, per ridurre il debi-to pubblico non basta ridimensionare le spese dello Stato, perché la riduzione

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43 Ibidem, p. 16.44 F. BARBIELLINI AMIDEI-C. IMPENNA, Il mercato azionario e il finanziamento delle imprese

negli anni Cinquanta, a cura di F. Cotula, vol. VII, Serie contributi delle “Ricerche per la storiadella Banca d’Italia”, Bari, 1999, pp. 685-686.

45 F. TARTAGLIA, Fisco e mercato finanziario in Italia (1914-1945), Napoli, 2000.

non influisce sul costo del denaro e quindi non garantisce il calo del debitopubblico. Occorre fare diminuire il saggio di interesse per ridimensionare ildebito pubblico43. Dimostrazione immediata fu la presenza dei BOT e dei CCTe le manovre sui saggi di interesse, che favorirono la crescita del debito pub-blico, anche in periodo di inflazione, causando il dirottamento del risparmiodai titoli azionari ai titoli pubblici, con conseguente ulteriore asfissia del mer-cato finanziario italiano.

2. I modelli di interpretazione del mercato finanziario italiano.

Considerando la capitalizzazione di borsa in relazione al Prodotto InternoLordo, nel secondo dopoguerra, l’Italia registrò uno dei valori più bassi neiconfronti del rapporto non solo degli Stati Uniti e del Giappone, ma anchedella Germania, della Francia e del Belgio. A questo indice se ne potrebberoaggiungere altri, il numero limitato delle società quotate, la facile volatilità dellequotazioni, i bassi volumi trattati. Era un mercato asfittico ed anemico. Perspiegare la ragione della mancata crescita delle borse italiane, possiamo rifarcia diversi modelli, ciascuno dei quali mette in risalto alcuni fattori e ne tralasciaaltri. Eccone alcuni: a) il fisco; b) le carenze informative e legislative; c) lecarenze della vigilanza sulle borse, d) la poca efficienza del sistema; e) le carat-teristiche del sistema produttivo italiano; f) la presenza del debito pubblico.

a) Fattore fiscale. Con questo modello venne messo in primo piano il “fat-tore fiscale”, per cui l’eccesso di leva tributaria sul reddito delle imprese e suidividendi non favorì l’emissione di nuove azioni per aumenti di capitale; lastessa nominatività dei titoli azionari non ne favorì l’acquisto, nel timore che ilfisco rincarasse il peso del prelievo44. Ciò si ebbe, nella prima metà del Nove-cento45, principalmente dagli anni ’60 in poi, quando, con la nazionalizzazionedell’energia elettrica, si temettero addirittura falcidie dei patrimoni privati.

I provvedimenti fiscali più significativi che influirono, negativamente, sulmercato azionario, per il periodo della ricostruzione, dal 1947 al 1953, riguar-darono l’aumento delle addizionali sulle imposte dirette (1952 e 1953),l’“imposta di negoziazione” (1952) sul “valor venale” dei titoli azionari e obbli-gazionari. Inoltre, le società industriali e commerciali erano tenute a pagare

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46 F. BARBIELLINI AMIDEI-C. IMPENNA, Il mercato azionario, cit., pp. 766-767.47 P. BAFFI, Aspetti e problemi del mercato azionario in Italia, in “Credito popolare”, 1977,

n. 4.48 N.F., Economia e finanza in Italia, in “Rivista di politica economica”, a. 1962, p. 1337; F.

BALLETTA, Capitali, borsa e assicurazioni in Italia nella seconda metà del Novecento, Napoli, 1997,pp. 35-36.

49 G. GABELLA, Le borse valori italiane nel 1962, in “Il Sole” del 3 gennaio 1963.

l’imposta sui redditi di Ricchezza Mobile di Categoria B. Il costo delle diverseforme di finanziamento alle quali potevano attingere le imprese – calcolato daBarbiellini Amidei e Impenna – fra il 1948 e il 1952, incideva sulle emissionidelle azioni dal 10 all’11 per cento, quello delle obbligazioni dall’8 all’11 percento, mentre per i mutui degli istituti di credito speciali (ICS) i costi erano dipoco superiori all’8 per cento. L’incidenza del carico fiscale, sempre per lo stes-so periodo, per le azioni fu superiore al 30 per cento e per le obbligazioni creb-be dall’8 al 28 per cento. In questa situazione, l’industria veniva spinta a finan-ziarsi o con mutui agevolati degli ICS, oppure con l’autofinanziamento, oppureattraverso “i circuiti finanziari interni, caratterizzati da scarsa trasparenza neiconfronti del fisco e degli stessi azionisti di minoranza”46. Il peso del fisco sulmercato finanziario venne sottolineato da Paolo Baffi: “il fattore fiscale e l’e-stensione delle operazioni di indebitamento a tasso agevolato hanno inciso inmisura rilevante nella scelta della forma di finanziamento esterno …. Questodivario tende a forzare la composizione della ricchezza finanziaria a vantaggiodella componente indebitamento”47.

Nel 1962, si ebbe un consistente calo delle quotazioni alla Borsa di Milano,dovuto alla inaugurazione del governo di centro–sinistra, alla nazionalizzazionedelle imprese produttrici di energia elettrica e alla introduzione di una impostacedolare di acconto che gravava, con un’aliquota del 15 per cento, sui dividen-di dei titoli azionari. A questi provvedimenti si aggiunse l’inasprimento dellealiquote di Ricchezza Mobile e dell’imposta complementare48. In conseguenzadi questa politica fiscale “l’annata testé conclusasi – si legge su “Il Sole” del 3gennaio 1963 – è da annotare tra quelle più difficili del dopoguerra: il mercato,infatti, è stato talora costretto ad esprimere valutazioni in contrasto con le indi-cizzazioni congiunturali e con le stesse realtà aziendali”49.

b) Carenze informative e legislative. Un secondo modello di riferimento, perchiarire l’asfissia del mercato borsistico italiano, va ricercato nelle carenze dellaregolamentazione delle società, compresa la “scarsa trasparenza” dei loro bilanci.La chiarezza della legislazione e dei bilanci delle società costituisce un elementofondamentale per convogliare capitali verso le imprese quotate in borsa. Neglianni Cinquanta, il diritto societario italiano presentava numerose carenze nellapolitica dei dividendi, perché lasciata alla volontà degli amministratori; nell’ecces-

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sivo potere dei consigli di amministrazione nei confronti dell’assemblea degli azio-nisti; nelle limitazioni del diritto di opzione per gli aumenti di capitale sociale;nella poca chiarezza dei bilanci, molto spesso accompagnati da una seconda con-tabilità e dall’esistenza di “casse nere”50. Ciò significò che gruppi ristretti di capi-talisti o amministratori avevano la possibilità di controllare le società con un siste-ma di frantumazione del capitale e la formazione di complesse “piramidi societa-rie” o la partecipazione incrociata fra i soci51. Altre forme di controllo nelle azien-de con capitale “minimo” derivavano dalle clausole statutarie delle società: clau-sole di gradimento per i possessori di azioni; l’esistenza di azioni con voto pluri-mo; la disponibilità di deleghe per le votazioni nelle assemblee degli azionisti;parti di prelazione. Comunque, il disinteresse dei piccoli azionisti per la gestionedelle società favoriva la concentrazione in poche mani o il monopolio della stes-sa52. Inoltre, la poca trasparenza dei bilanci, spesso, consentiva le registrazioni dioperazioni false con frode per lo Stato e per gli azionisti di minoranza53.

Le carenze della legislazione societaria – denunciate anche da Cesare Mer-zagora54 – vennero chiaramente avvertite fin dagli anni dei governi De Gasperi,tanto che furono presentanti interessanti progetti di legge, come quello predi-sposto da Tullio Ascarelli55, ma che non si ebbe il coraggio di tradurlo in legge.“In conclusione – secondo Barbiellini Amidei e Impenna – il ritardo istituzio-nale nel ridefinire la disciplina delle società emittenti [azioni] costituì un altrolimite strutturale per lo sviluppo della domanda e dell’offerta di azioni”56.

c) Carenze nella vigilanza sulle borse. Rimanendo nell’ambito delle carenzelegislative, mentre per le banche, nel 1926 e nel 1936, erano state predisposte

50 M. ONADO, la lunga rincorsa: la costituzione del sistema finanziario, in “Storia economi-ca d’Italia. 3. Industrie, mercati, istituzioni, a cura di P. Ciocca e G. Toniolo”, Bari-Roma,2004, pp. 426 e sgg.

51 T. ASCARELLI, I problemi delle società anonime per azioni, in “Rivista delle società”, 1956.52 F. BARBIELLINI AMIDEI-C. IMPENNA, Il mercato azionario, cit., pp. 833-836; MINISTERO PER

LA COSTITUENTE, Rapporto della Commissione Economica, vol. II, Industria, Appendice alla Rela-zione, Tomo III, Roma, 1946, p. 160; G. PILUSO, Un centauro metà pubblico e metà privato. LaBastogi da Alberto Beneduce a Mediobanca (1926-1969), in “Annali della Fondazione Einaudi”,Torino, 1992, p. 35.

53 M. PAGANO, Commento alla Relazione di F. Barbiellini Amidei e C. Impenna, in “Stabilitàe sviluppo negli anni Cinquanta”, cit., p. 881.

54 Cesare Merzagora. Il presidente scomodo, a cura di N. De Ianni e P. Varvaro, Napoli, 2004,p. 66.

55 T. ASCARELLI, La riforma delle società per azioni, la legislazione anticonsortile e lo strumentofiscale, in “AA.VV., La lotta contro i monopoli”, Bari, 1955; S. MACCARONE, Orientamenti in tema diriforma delle società per azioni, in “Bancaria”, n. 11, 1966; P. MARCHETTI, Diritto societario e discipli-na della concorrenza, in “Storia del capitalismo italiano”, a cura di F. Barca, Roma, 1997.

56 F. BARBIELLINI AMIDEI-C. IMPENNA, Il mercato azionario, cit., p. 383.

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57 Ibidem, pp. 808-809.58 Ibidem, pp. 811-812.59 F. BALLETTA, Capitali, borsa e assicurazioni in Italia nella seconda metà del Novecento,

Napoli, 1997, p. 139.60 F. BARBIELLINI AMADEI-C. IMPENNA, Il mercato azionario, cit., p. 808.

norme sulla vigilanza delle loro attività e la Banca d’Italia si fece carico diattuarle, non altrettanto accadde per le borse. Quelle operanti erano dieci(Bologna, Firenze, Genova, Milano, Torino, Trieste, Venezia, Roma, Napoli ePalermo), ciascuna gestita con proprie norme derivanti dalle camere di com-mercio locali. La vigilanza era affidata a quattro diversi organismi: il Ministerodel Tesoro, che assicurava il buon funzionamento delle borse attraverso propriispettori, incaricati di controllare la trasparenza delle contrattazioni; le cameredi commercio con generica funzione di vigilanza sulle borse locali; le deputazio-ni di borsa con il compito di sorvegliare la formazione del listino delle quota-zioni e il rispetto delle leggi e i regolamenti; il Comitato Direttivo degli agenti dicambio, con funzioni di vigilanza sull’attività degli stessi agenti e di denunciadelle infrazioni alle deputazioni57. La legge organica, che regolava l’attività delleborse, fu emanata solo nel 1913 e, fino agli anni ’50, vi si erano sovrappostemodifiche che ne avevano appesantito il buon funzionamento. Vi era “disomo-geneità nei regolamenti [delle dieci borse], un insufficiente coordinamento tra idiversi organi preposti al loro controllo, in ultima analisi minori garanzie difunzionalità del mercato e minore capacità di innovazioni istituzionali”58. Lecarenze istituzionali favorivano il mantenimento delle rendite di posizioni degliagenti di cambio, che dominavano il mercato, spesso influendo anche sui prov-vedimenti di politica economica. Tenuto conto della numerosità delle borse,con scarse attività, si avvertiva la necessità di un organismo centrale di control-lo. Organismo che, dopo i diversi tentativi di introduzione, fu creato, solo nel1974, con una Commissione nazionale per le società e le borse (Consob). Orga-nismo che, dopo un periodo di rodaggio, cominciò a funzionare con efficienzasolo dieci anni dopo59. “Il grave ritardo istituzionale – osservano BarbielliniAmadei e Impenna – costituì un freno decisivo per lo sviluppo della domandae dell’offerta di investimenti mobiliari. Il mercato era così destinato ad operarein condizioni di bassa trasparenza ed efficienza nelle fasi più favorevoli”60.

d) Efficienza del sistema bancario. Un altro modello di influenza negativasull’attività delle borse derivava dall’efficienza del sistema bancario. Le carenzeistituzionali non consentivano alle banche di svolgere attività di intermediazio-ne mobiliare. Intermediazione, che era stata più volte denunciata dagli studiosie in particolare da Ugo Caprara (La banca. Principi di economia delle aziende dicredito) fin dal 1946, che faceva dipendere la efficienza delle borse anche dalla

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possibilità delle banche di collocare i titoli azionari. Ecco come FrancescoCesarini riportava il pensiero di Caprara: “A suo giudizio la banca non può enon deve limitare la sua attività al credito a breve termine, ma deve intervenirein modo diretto e consistente nel finanziamento dell’impresa e soprattutto deveassisterla nel collocamento dei titoli sul mercato azionario anche assumendoquote di capitale. Infatti, la banca, data la profonda conoscenza che ha delmondo economico, può frazionare i rischi dell’investimento e contribuire allastabilizzazione del corso dei titoli”61. Nell’ambito delle carenze istituzionali, unprimo piano va dato all’inerzia della Banca d’Italia nei confronti del cattivo fun-zionamento delle borse. All’epoca dei governi di De Gasperi e successivamen-te, la Banca d’Italia (dal 1947 al 1960) ebbe come governatore Donato Meni-chella, che si dimostrò favorevole alla crescita del mercato finanziario, perchériteneva che facesse parte della stabilità monetaria. Egli sosteneva che la leggebancaria del 1936 aveva soffocato l’attività degli investimenti a lungo terminedelle banche, e che dovevano essere le borse a farsi carico di quei finanziamen-ti, cioè riteneva “essenziale lo sviluppo di un mercato dei capitali in grado diaccogliere cospicue emissioni azionarie e obbligazionarie delle imprese indu-striali e degli Istituti di Credito Speciali (ICS)”62. Anzi, Menichella voleva chepassasse abbondante risparmio per il mercato al fine di “riuscire anche a mode-rare le tendenze moderne dell’industria – come riferisce nelle conclusioni dellarelazione finale della Banca d’Italia per l’anno 1954 – ad autofinanziarsi conmargini fra costi e ricavi piuttosto che attingendo a fonti esterne alle economieaziendali”63. Nonostante questa sua convinzione, Menichella non svolse un’a-zione decisa a sostegno delle borse, si limitò ad arginare l’invadenza dei crediticoncessi dagli Istituti di Credito Speciali e sostenne la riduzione del disavanzodel bilancio dello Stato al fine di limitare le emissioni di titoli pubblici, consi-derati in diretta concorrenza con le emissioni delle imprese64. Comunque,Menichella sosteneva che fosse importante il servizio delle banche per il collo-camento delle azioni industriali sul mercato, anche perché i risparmiatori guar-davano con maggiore fiducia ai titoli che passavano per gli intermediari finan-ziari, poiché, in tale modo, ricevevano la “certificazione” delle buone qualità.Pertanto, un “fattore fondamentale di crescita del mercato finanziario, in parti-colare azionario, doveva essere il sistema bancario: non solo astenendosi da unapolitica aggressiva verso i depositi, ma anche favorendo l’avvicinamento della

61 F. CESARINI, Introduzione al volume “U. Caprara, Il credito industriale e mobiliare. LaBorsa Valori”, Torino, 1991, p. XIII.

62 F. BARBIELLINI AMADEI-C. IMPENNA, Il mercato azionario, cit., p. 839.63 BANCA D’ITALIA, Assemblea Generale ordinaria dei partecipanti, per l’anno 1954, Roma,

1955, p. 27.64 F. BARBIELLINI AMADEI-C. IMPENNA, Il mercato azionario, cit., pp. 850-852.

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65 Ibidem, pp. 860-861; v. anche G.F. CALABRESI, Alcuni problemi bancari nella concezione enell’opera di Donato Menichella, in “Donato Menichella. Testimonianze e studi raccolti dallaBanca d’Italia”, Bari, 1986, pp. 233 e sgg.

66 R. CALDUCCI, Capitale finanziario e struttura industriale, in “Capitale industriale e capita-le finanziario”, a cura di F. Vicarelli, Bologna, 1979; G.M. GROS-PIETRO – M. BONI, La concen-trazione industriale in Italia, Torino, 1967; P. PALAZZI, Alcune considerazioni sulla concentrazioneindustriale in Italia, in “Studi Economici”, 1975, n. 2.

67 F. PARRILLO, Finanziamento alle piccole e medie imprese, in “Rivista di politica economi-ca”, febbraio 1971; G. ALBERTO-M. TRAPANESE, La politica bancaria negli anni Cinquanta, in“Stabilità e sviluppo negli anni Cinquanta”, a cura di F. Cotula, vol. 3, vol. VIII della Collana“Serie Contributi delle Ricerche storiche della Banca d’Italia”, cit., pp. 58 e sgg.

68 G. ALBERTI-M. TRAPANESE, La politica bancaria negli anni Cinquanta, cit., p. 59.

propria clientela all’investimento azionario. Il governatore [Menichella] consi-derava infatti un maggiore impegno delle banche nell’assistenza al collocamen-to dei titoli la chiave per lo sviluppo e la diffusione dell’investimento azionario,pur nel rigoroso rispetto della separazione tra aziende dei credito e impreseindustriali …. Il governatore svolgeva opera di moral suasion sulle banche per-ché non ostacolino prima, sostengano poi, lo sviluppo del mercato finanziario.Su questi temi emerge una intesa con Siglienti e con lo stesso Mattioli”65.

e) Caratteristiche del sistema produttivo italiano. Un ulteriore modello cheavrebbe influenzato, in senso negativo, l’attività delle borse è costituito dallecaratteristiche della struttura industriale italiana. Si trattava di un sistema conscarsa presenza di medie imprese, con un processo di concentrazioni di pochee grandi imprese e la diffusa presenza di piccole aziende familiari. Una struttu-ra produttiva “bipolarizzata” nella quale le piccole imprese, che operavano neisettori produttivi nuovi (specie del settore meccanico), realizzando una mode-sta autonomia finanziaria, riuscivano a sopravvivere in una fase di sviluppo del-l’economia66. I settori produttivi tradizionali (sarti, falegnami, industrie delcotone, ecc.) non riuscivano ad avvantaggiarsi della congiuntura favorevole eda modificare la sottodimensionata struttura produttiva67. Basterà considerare,in base al censimento industriale del 1951, che il numero delle aziende conmeno di 10 dipendenti rappresentava circa il 31 per cento delle imprese e se siaggiungevano quelle comprese fra 11 e 100 addetti si avvicinava al 50 percento, mentre le aziende con oltre 1000 addetti erano il 26 per cento e quelleche potremo definire medie, fra 101 e 1000 addetti, erano il 23 per cento. Diecianni dopo, la situazione non era mutata, anzi, quelle fino a 100 addetti arriva-rono al 53 per cento, scesero al 21 per cento le grandi imprese e salirono solodi 2 punti quelle medie. La maggior parte delle piccole imprese, durante ilgovernatorato Menichella, avevano nel credito bancario, concesso da istitutilocali, la loro unica fonte di finanziamento68. Per potere attivare il finanzia-

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69 G. ZANETTI-E. FILIPPI, Finanza e sviluppo della grande industria in Italia, Milano, 1965.70 C. SCOGNAMIGLIO, Il finanziamento delle attività industriali, in “Stato e industria in Euro-

pa: l’Italia”, a cura di F.A. Grassini e C. Scognamiglio, Bologna, 1979, pp. 116 e sgg.; F. BAR-BIELLINI AMIDEI-C. IMPENNA, Il mercato azionario, cit., p. 692.

71 A. CARLI, Le aziende italiane? Il controllo è di famiglia, in “Corriere della Sera” del 31luglio 2005, p. 21.

72 F. BARBIELLINI AMIDEI-C. IMPENNA, Il mercato azionario, cit., p. 805.

mento delle imprese, per mezzo del mercato borsistico, ci sarebbe voluta unacrescita delle imprese medie. Ciò non avvenne e sembra che si sia configura-to, a detta di Zanetti e Filippi, “una zona critica” nel passaggio dimensionaledalle medie alle piccole imprese69. Pertanto, negli anni ’50 e ’60, pochissimefurono le nuove aziende quotate in borsa, pur trattandosi di un periodo dicrescita dell’economia. Anzi, fra il 1950 e il 1965, si ebbe addirittura un lievecalo (da 200 a 195) e il numero delle azioni quotate alla Borsa di Milanopassò da 131 a 12970. Dopo quaranta anni, nel 2005, la situazione non eragranché mutata. Secondo un’indagine condotta dalla Banca d’Italia, per lamaggiore parte, si trattava di piccole aziende a carattere familiare. Oltre il 40per cento era controllato dai proprietari, che non avevano nessuna intenzionedi fare entrare capitali di estranei nelle loro aziende. Le privatizzazioni delleaziende a partecipazione privata, che si ebbero negli anni Novanta del ‘900,non crearono public company, ma si trattava di un passaggio dalle mani delloStato alle mani di pochi capitalisti finanziari. L’unica novità, con le privatiz-zazioni, fu la presenza del capitale estero, che controllò alcune aziende.Comunque, per le operazioni speculative che si effettuavano in borsa, gli ita-liani erano sempre poco disposti ad investire in capitali di rischio, ma prefe-rirono operazioni oculate71. La caratteristica del sistema industriale italiano siè tradotta “in effetto e causa dello sviluppo di un mercato finanziario incom-pleto e consolidato nel comparto dei valori industriali prima e sbilanciatoverso l’intermediazione poi”72.

f) Influenza del debito pubblico e della politica monetaria. L’ultimo modelloche consideriamo e che riteniamo il più attendibile, rispetto ai precedenti, ful’influenza del debito pubblico, che attirò gran parte del risparmio verso loStato, lasciando ben poco alle borse e quindi alle imprese. Fin dal 1947-48, conEinaudi e De Gasperi al governo, fu tenuto in gran conto il riequilibrio delbilancio dello Stato. Alla fine degli anni Cinquanta, si accentuò l’interventodello Stato nell’economia con una politica keynesiana sempre più spinta e creb-be il collocamento, fra i risparmiatori, dei titoli emessi con scadenza a lungotermine. All’inizio degli anni Cinquanta, si riuscì a ridurre il disavanzo delbilancio dello Stato, tanto che, nel 1952, le spese si avvicinarono molto alleentrate e la situazione durò fino al 1960-61; inalterato rimase il disavanzo in

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conto capitale. Le spese dello Stato vennero, pertanto, coperte con le emissionidei titoli ed obbligazioni in conto del Tesoro. Con la stabilizzazione del 1947-48 si ebbe una ripresa di fiducia nei titoli pubblici da parte dei risparmiatori eil Tesoro rastrellò una buona parte (28 per cento) dei fondi, che affluirono sulmercato mobiliare. Una flessione nelle emissioni si ebbe solo fra il 1953 e il1957, poi si ebbe una ripresa73. Al risparmio privato, oltre allo Stato, attingeva-no gli Istituti di Credito Speciale con la emissione di obbligazioni e le casse dirisparmio postali74.

Dal punto di vista del debito pubblico, che, durante la guerra, fu elevatoassieme alle emissioni di moneta, il periodo 1947-1963 va diviso in due parti:1947-1950 e 1950-1963. Durante il primo periodo, con al governo Einaudi e lalotta all’inflazione per la stabilizzazione della lira, furono, emessi titoli a brevetermine, acquistati, prevalentemente, dalle banche. Quelli a lungo termine ser-virono, principalmente, per la realizzazione di infrastrutture. Non si fece ricor-so allo strumento monetario perché due decreti, del 1947 e del 1948, limitaro-no il ricorso alle anticipazioni del Tesoro.

Durante il periodo 1950-1963, gli anni del miracolo economico, grazie allimitato disavanzo del bilancio dello Stato, il debito pubblico emesso scese dal45 al 30 per cento del PIL. I titoli a breve continuarono ad esser acquistati dallebanche e quelli a lungo termine furono utilizzati, prevalentemente, per le infra-strutture75. Si creò, così, un “modello italiano” del mercato finanziario, caratte-rizzato dall’asfissia del mercato borsistico, dalla specializzazione dell’attivitàbancaria e da una estesa sovrapposizione “fra l’attività di finanziamento deldeficit pubblico e dei disavanzi finanziari delle imprese”76. A queste caratteri-stiche bisogna aggiungere un crescente controllo degli organi di governo suimercati finanziari. Si tenne il mercato finanziario sempre sotto controllo, spe-cialmente per il timore che la svalutazione della moneta potesse avere riflessi suititoli azionari e ancora più sui titoli pubblici77.

L’adozione della politica monetaria come strumento di governo, affidataalla Banca d’Italia, aveva effetti sull’attività bancaria, sulle imprese, sul rispar-mio e sui consumatori, cioè “su tutto il sistema economico che è il vero supercliente della banca centrale”78; in proposito Bresciani-Turroni, in un articolo su

73 Ibidem, pp. 685-686.74 M. ONADO, La lunga rincorsa, cit., pp. 416-426.75 I. MUSU, Il debito pubblico, Bologna, 1994, pp. 80-85.76 C. SCOGNAMIGLIO, Il finanziamento delle attività industriali, in “Stato e industria in Euro-

pa: l’Italia”, a cura di F.A. Grassini e C. Scognamiglio, Milano, 1979, pp. 115-116.77 A.A., Pella farà domani la sua relazione, in “Il Nuovo Corriere della Sera” del 21 settem-

bre 1949.78 A. PREDIERI, Il potere della banca centrale: isola o modello?, Città di Castello, ….(?), p. 55.

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“Il Nuovo Corriere della Sera” del settembre 1949, riferendosi ad una fase dideprezzamento della lira, scriveva: “Sia convinto il pubblico che la politicamonetaria è fortemente guidata dal nostro governo”79 presieduto da De Gaspe-ri. Infatti, nel 1949, in seguito alla svalutazione della sterlina, il governo, e inprimo luogo il ministro delle Finanze, Vanoni, fece ogni sforzo per ridurre alminimo le ripercussioni che si temevano potesse causare la svalutazione dellalira80. La stabilità economica era legata alla stabilità politica ed era un dato sem-pre presente a De Gasperi. “In altre parole – si legge su “Il Nuovo Corrieredella Sera” –, la stabilità politica all’interno è legata alla stabilità dei prezzi e alpotere di acquisto dei salari. Una politica accorta, secondo De Gasperi, devepotere assicurare questa stabilità e, nello stesso tempo, non lasciare chiudere leporte alle nostre esportazioni”81.

Il peso dello Stato influì sui circuiti finanziari sia per la raccolta di mezzifinanziari – l’autorizzazione del Comitato interministeriale per il credito e ilrisparmio per prestiti superiori ai due miliardi e buona parte dei titoli emessinon veniva collocata fra i risparmiatori, bensì veniva acquistata dalle imprese apartecipazione statale – che per l’impiego in attività industriali (infatti, lo Statosovvenzionava, direttamente, le industrie trainanti e gli istituti speciali, comeISVEIMER, CREDIOP, ecc.)82.

Il periodo 1963-1970 può considerarsi come un periodo con bilancio delloStato “neutrale” dal punto della redistribuzione della ricchezza nazionale. Sonogli anni dei primi governi di centrosinistra, nei quali la componente di sinistraavrebbe voluto una consistente crescita delle spese sociali, del Welfare State,mentre i governi di centro sostennero il pareggio del bilancio con un conteni-mento delle entrate dello Stato. In questo periodo, il debito pubblico, rispettoal PIL, crebbe al ritmo di circa un punto all’anno, passando da circa il 34 percento, nel 1963, al 46,6 per cento nel 197183. La crescita moderata delle spesesociali fu finanziata con l’azzeramento graduale dell’avanzo corrente; invece idisavanzi in conto capitale, che in effetti coincidevano con i disavanzi totali,furono finanziati con l’emissione di titoli pubblici84.

Il periodo 1971-1980 fu di crisi dell’economia italiana per l’aumento del

79 G. BRESCIANI-TURRONI, Il governo considera con ottimismo le reazioni del mercato alla sva-lutazione, in “Il Nuovo Corriere della Sera” del 21 settembre 1949.

80 A.A., Si ritiene che non verrà raggiunta la quota massima di 650 per il dollaro, in “Il NuovoCorriere della Sera” del 22 settembre 1949.

81 Ampia relazione di Pella al Consiglio dei ministri. Il governo mantiene immutate le diretti-ve di politica economica e monetaria, in “Il Nuovo Corriere della Sera” del 23 settembre 1949.

82 C. SCOGNAMIGLIO, Il finanziamento delle attività industriali, cit., pp. 119-121.83 M. VISAGGIO, Politiche di bilancio, cit., p. 116.84 M. ONADO, La lunga rincorsa, cit., pp. 426-437; M. VISAGGIO, Politiche di bilancio, cit.,

pp. 99 e sgg.

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prezzo dei prodotti energetici, accompagnato all’aumento della disoccupazione. Igoverni di questi anni effettuarono una politica di forte aumento delle spese so-ciali, specie quelle sanitarie e per la previdenza. Tale aumento non fu controbi-lanciato dalla crescita delle entrate, per cui fu abbandonata la politica di pareggiodel bilancio e si entrò in una fase di disavanzi strutturali. Tali disavanzi vennerocoperti, in larga misura, dalla crescita del debito pubblico. Si trattò di una politi-ca definita “consociativa”, poiché comportava un aumento delle spese socialivoluto dalla maggioranza di governo e appoggiata dall’opposizione. Maggioranzae opposizione consentirono la lievitazione delle spese per acquisire consenso elet-torale. Il risultato di tale politica fu la lievitazione del debito pubblico, che, dal1971 al 1981, crebbe da circa il 47 la 60 per cento del PIL85.

Nel periodo 1981-1991, fu interrato l’accordo che c’era fra la Banca d’Italiae il Tesoro dello Stato, per cui la Banca d’Italia era obbligata a sottoscrivere tuttii titoli pubblici che non assorbiva il mercato, con conseguente crescita dell’infla-zione. Il “divorzio”, come fu definito, fra Banca d’Italia e Tesoro, favorì il calodell’inflazione e il superamento della politica di finanziamento del disavanzoaccomodante. Tuttavia, il governo, per potere meglio collocare i titoli pubblici sulmercato, fu costretto ad aumentare i saggi di interesse, il che comportò un ulte-riore aumento delle spese dello Stato e un aumento del debito pubblico. La cre-scita fu aggravata dall’assenza di coordinamento fra Tesoro e Banca d’Italia. “Inconclusione – scrive Mauro Visaggio – la politica fiscale opportunista [cioè diret-ta a fare crescere le spese sociali, per acquisire consenso elettorale] dei governi dicentrosinistra succedutisi durante gli anni Ottanta si caratterizza per una miopiacongenita che impedisce l’avvio di una politica di stabilizzazione, in grado di con-trastare e disattivare il principale meccanismo di crescita del debito pubblico, ecioè le spese per interessi”86. La conseguenza di tale politica fu la crescita deldebito pubblico dal 61 per cento del PIL, nel 1981, al 104 per cento nel 199187.

Dal 1992 al 1995, fu finalmente attuata una politica di rientro del debitopubblico. La crisi politica, che mise a nudo le irregolarità commesse dai partitidi governo e l’avvio di quella che fu definita “Tangentopoli”, comportò, dalpunto di vista monetario, pericolose operazioni speculative sulla lira. La Bancad’Italia non riuscì a sostenere le oscillazioni dei cambi e l’Italia fu costretta aduscire dal Sistema Monetario Europeo (SME), dove era entrata nel 1978 percercare di mantenere stabili i cambi88.

85 R. ARTONI-S. BIANCINI, Il debito pubblico, cit., pp. 355 e 371; M. ONADO, La lunga rin-corsa, cit., pp. 438-447; M. VISAGGIO, Politiche di bilancio, cit., pp. 121-136.

86 R. ARTONI-S. BIANCINI, Il debito pubblico, cit., pp. 355 e 371-373; M. VISAGGIO, Politichedi bilancio, cit., p. 147.

87 Ibidem, p. 136.88 M. ONADO, La lunga rincorsa, cit., pp. 447-454.

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Occorreva un intervento esterno per porre un freno alla crescita del debi-to pubblico. Prodigioso fu il Trattato di Maastricht, stipulato nel 1992, con ilquale per entrare nella Unione Monetaria Europea ed adottare la moneta unicaeuropea, occorreva che il debito pubblico scendesse al 60 per cento del PIL eil disavanzo di bilancio al 3 per cento dello stesso PIL. Fra il 1991 e il 1995, igovernanti – sostenuti dai governatori della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciam-pi e Antonio Fazio –, effettuando una politica di contenimento delle spese, riu-scirono a ridurre il disavanzo. Contemporaneamente, diminuì il saggio di inte-resse e l’inflazione. Solo il debito pubblico continuò a crescere fino a circa il125 per cento del PIL nel 1994. Solo nel 1995 si ebbe un primo segnale positi-vo di riduzione, allorché scese al 124 per cento. Comunque, la crescita del debi-to era causata anche dalla crescita delle spese per interessi e dalla incapacità deigovernanti a contenere le spese ordinarie89.

89 R. ARTONI-S. BIANCINI, Il debito pubblico, cit., pp. 355 e 371-373; M. VISAGGIO, Politichedi bilancio, cit., pp. 154-168.

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