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http://www.yoganostress.it SWAMI KRISHNANANDA UN’INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA DELLO YOGA 1

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SWAMI KRISHNANANDA

UN’INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA

DELLO YOGA

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PREFAZIONE

La prima volta che ebbi occasione di stare alla presenza di Swami Krishnananda fui subito investito da una serie di domande: “Chi sei, da dove vieni, perché sei qui?”. Le risposte sembravano ovvie: “Mi chiamo Stefano, sono italiano, e sono qui per praticare la meditazione”. “E perché vuoi meditare?”, mi sentii rispondere. Già, perché volevo meditare? Sapevo di sentire uno stimolo interiore all’evoluzione, ma perché la meditazione e a cosa volevo arrivare attraverso di essa? Vediamo, lasciatemi pensare un attimo: “Perché voglio arrivare a Dio”, mi sembrò la risposta che meglio potesse esprimere i miei sentimenti e le mie intenzioni. “E perché vuoi arrivare a Dio?”, mi chiese Swami Krishnananda, “Pensi forse che Dio sia simpatico?”. A questo punto mi trovavo perso: mi rendevo conto di avere un’idea piuttosto approssimativa non solo delle ragioni che mi conducevano alla ricerca, ma anche della meta che volevo raggiungere attraverso il metodo che avevo scelto.

Io, come forse la maggior parte degli occidentali che affrontano lo Yoga con una preparazione prevalentemente autodidattica, mi affacciavo alla ricerca da quel punto di vistameccanicistico e determinista — in senso scientifico — che caratterizza la Weltanschauungoccidentale. Per dirla in parole povere, ero convinto che bastasse conoscere il metodo giusto per dare la scalata al regno dei cieli, mentre in realtà stavo confondendo la mappa col territorio. Non mi rendevo ben conto della complessità del problema che volevo affrontare: in fondo stavo tentando di penetrare l’essenza stessa di ciò che regge i fili dell’universo intero e di me medesimo, e questo richiede ben più che qualche ora seduto a gambe incrociate e qualche esercizio di concentrazione. Avevo letto gli Yogasutra di Patanjali e credevo che bastasse seguire le indicazioni del grande rishi come se si trattasse di un manuale d’istruzioni all’uso dello spirito, senza preoccuparmi di operare quell’inversione di marcia nel modo stesso di pensare che è il presupposto indispensabile per poter interiorizzare dei precetti la cui essenza resterebbe, altrimenti, barricata in un ermetismo fuori dalla portata della logica comune.

Yoga, com’è risaputo, vuol dire unione, e il suo obiettivo finale è quello di far emergere il nostro spirito in uno stato di comunione col Tutto. È evidente che nessun altro strumento se non la totalità del nostro essere, integrato nelle sue varie componenti e concentrato su quest’unico obiettivo, potrebbe essere adeguato ad un proposito così enorme. Ma come integrare tutti i diversi e complessi aspetti che compongono la nostra personalità e dirigerli all’unisono verso un obiettivo che in fondo sfugge alla nostra comprensione? Come amare qualcosa che non si comprende? E come comprendere qualcosa che non si riesce ad amare per via di una carenza di insight, di visione interiore? Lo Yoga sostiene la possibilità di realizzare ciò che il moderno pensiero filosofico ed epistemologico dell’Occidente è venuto fin qui negando: la fusione del soggetto con la cosa in sé. Lo spirito liberato può conoscere il noumeno dal suo interno, ma perché ciò si renda possibile è necessario un impulso proveniente dal più profondo di un’anima incondizionatamente convinta della fattibilità di una simile impresa. È chiaro che per giungere ad

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interiorizzare una visione della realtà così distante sia dalle nostre dottrine che dai resoconti quotidiani della mente e dei sensi, si rende indispensabile una completa riconversione del nostro attuale modo di pensare a partire dal concetto stesso di realtà fenomenica.

Una chiara visione filosofica è il requisito di base per chiunque tenti di intraprendere un qualsiasi cammino d’ascesi o, come vuole lo Yoga, si accinga al Sadhana. In mancanza di solide fondamenta razionali edificate con l’indispensabile collaborazione dei nostri più profondisentimenti, cosa saremo in grado di rispondere ai nostri desideri quando si ribelleranno allanostra volontà con tutta la forza delle nostre abitudini? Dove andremo a cercare le nostre certezze quando gli inevitabili ostacoli sul sentiero ci faranno sentire di aver imboccato un vicolo cieco? È in momenti come questi che la filosofia oltrepassa la funzione di musa della nostra ragione per trasformarsi in un vero e proprio strumento di battaglia, una delle frecce più accuminate all’arco di Arjuna. Questa breve opera di Swami Krishnananda, nella quale vengono esposti e sintetizzati con semplicità maieutica i punti essenziali del complesso universo speculativo che sta alla radice dell’Ashtanga Yoga, vuole appunto essere uno strumento nelle mani di coloro che si preparano ad intraprendere il sentiero spirituale e non una semplice dissertazione di carattere teorico. La profonda conoscenza della filosofia occidentale consente inoltre all’autore di rendere accessibile al nostro pensiero dei concetti che ci sembrerebbero quantomeno astrusi se non venissero spiegati in termini a noi accettabili, trasformando così un universo speculativo piuttosto distante dal nostro in uno strumento della nostra evoluzione. Come Swami Krishnananda è solito dire, la filosofia è simile ad una tigre che ci salta addosso in un sogno: benchè sia fatta della stessa sostanza evanescente dei sogni, ha il potere di svegliarci.

I capitoli che costituiscono il corpo di questo volume sono parte di un ciclo di conferenze dato dall’autore in occasione del corso inaugurale della Yoga-Vedanta Forest Accademy presso la Divine Life Society, in Muni-Ki-Reti, Rishikesh (India). Gli studenti che partecipavano a questo corso, il primo offerto dall’Accademia dopo la sua inaugurazione formale, non avevano molta dimestichezza col retroterra di base della pratica dello Yoga, con i suoi fondamenti filosofici, le sue implicazioni epistemologiche ed i suoi presupposti psicologici. Si rendeva perciò necessario presentare un tema così complesso in una forma abbastanza colloquiale, come lezioni scolastiche piuttosto che conferenze formali, in modo da poterlo adattare alle esigenze di studenti che si stavano appena avvicinando a questo genere di studi. Quel certo tono di informalità e familiarità tra insegnante e alunni permette quindi una lettura più scorrevole di quel vasto e complesso argomento che è la filosofia dello Yoga.

Swami Krishnananda è Segretario Generale della Divine Life Society, un’organizzazione presente in diversi Paesi che fu fondata dal suo Maestro, Sri Swami Shivananda, con lo scopo di riscattare l’essenza dello spirito religioso e diffonderlo in maniera olistica attraverso libri, conferenze, scuole di Yoga,

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opere di assistenza ai poveri e agli infermi, e di tutto ciò che è in grado di innalzare lo spirito dell’uomo attraverso la propria opera. Universalmente considerato un Brahmanistha, ossia un Maestro che oltre ad aver percorso il sentiero e raggiunto la liberazione è anche in grado di trasmettere questa conoscenza tanto attraverso il contatto che attraverso la parola, Swami Krishnananda viene anche stimato come una tra le maggiori autorità viventi in materia di Vedanta. Tra le sue opere si annoverano i commentari alle maggiori Upanishad (Katha, Mandukya, Chhandogya, Brhadaranyaka, ed altre) e a diversi testi classici quali il Panchadasi, la Bhagavad Gita e gli Yogasutra di Patanjali, oltre a molti scritti divulgativi sullo Yoga e il Vedanta in generale. Dell’autore sono già stati pubblicati in italiano i titoli Breve storia del pensiero filosofico e religioso dell’India (Ed. Mediterranee, Roma) e Lo Yoga della meditazione (Ed. Il Punto d’Incontro, Vicenza).

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UN DISCORSO PRELIMINARE

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Noi tutti siamo qui con un certo proposito. Non è detto però che abbiamo tutti un’opinione concorde su quale sia questo proposito. Si presume che siate andati a scuola, e che siate passati attraverso vari gradi d’istruzione. Siete persone colte, magari anche erudite sotto diversi aspetti. Vi siete applicati ai vostri studi, avete vissuto nel mondo, e siete ora giunti in un altro posto per studiare qualcos’altro. Ed è quindi probabile che la maggior parte di voi nutra l’idea che stiamo per intraprendere un nuovo ‘corso di studi’, cosí come già avete studiato qualcos’altro prima. “Oggi studio fisica qui, imparerò la chimica in qualche altro posto, e per la biologia andrò in un terzo”: potrebbe essere questa l’idea che molti di voi si fanno, e cioè che ci troviamo qui per studiare un qualche argomento sul quale fino ad oggi non eravamo ancora ben informati. Potrebbe trattarsi per esempio di Yoga, un termine piuttosto diffuso di questi tempi. Potrebbe trattarsi di Vedanta, oppure di religione, o anche di spiritualità, o potrebbe essere l’arte di vivere in grazia di Dio, o chissà cos’altro ancora. Ed eccolo trasformato in un ennesimo argomento tra i tanti utili alla gente per un verso o per l’altro.

Tanto per cominciare si rende necessario decondizionare le nostre menti prima di poter intraprendere qualcosa di positivo, che valga davvero la pena. Non ci stiamo accingendo allo studio di nessun argomento nel senso comune del termine. Non siamo qui per studiarefilosofia, ché questa può essere studiata in qualsiasi altro posto, in una scuola superiore oun’università. E non sarebbe difficile, dal momento che non sono certo professori e uomini di scienza che vi mancano. Ma non siamo qui per avere ragguagli su una branca del sapere, se è questa la vostra definizione di cultura. Si tratta invece di una cosa completamente diversa, di carattere unico, della quale in passato molte grandi anime, tanto in Oriente come in Occidente, ebbero una visione. Il più recente esempio di questa categoria, almeno secondo me, fu Swami Shivananda, il fondatore di questa istituzione.

Non si può certo dire che queste non fossero persone istruite, ma la loro cultura era differente da quella alla quale di solito la gente viene iniziata in qualità di persone erudite, conferenzieri, professori, etc. Dobbiamo riorientare con un certo sforzo il nostro modo di pensare, se vogliamo capire a fondo le intenzioni di questi maestri. E lo sforzo è inevitabile, perché siamo nati in un mondo affetto da certi pregiudizi duri a morire. Lo scopo delle sessioni che abbiamo intenzione di tenere in questa sede è di scavalcare questi binari preconcetti di pensiero, lo scopo è di effettuare un’inversione di marcia nell’arte stessa di pensare. Potremmo più propriamente dire che stiamo tentando di apprendere un modo di pensare che si distacca un poco dall’ottica consueta del mondo. Il modo di pensare normale lo conosciamo bene: io sono un americano, io sono un indiano, io sono un uomo, io sono una donna, io sono un uomo d’affari, io sono un insegnante, io sono ricco, io sono povero, io sono felice, io sono infelice, questo è buono, quello è cattivo — sono tutti punti di vista abituali nella vita di chiunque.

Ecco, dunque, l’atmosfera in cui ci troviamo immersi nel mondo e nella quale lavoriamo sodo ogni giorno, qualunque sia il lavoro che svolgiamo nei vari campi della vita, per adattarci a questa cosa caotica che ci si presenta davanti e che chiamiamo appunto col nome di vita. Tutta la vostra giornata

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trascorre nel venire a compromessi con le condizioni del mondo. Se fa freddo, vi mettete il cappotto. Se fa caldo, vi togliete la giacca. Se avete fame, vi concedete un pasto. Se siete stanchi, vi sdraiate. Se siete arrabbiati, mostrate i denti. Tante cose diverse generano differenti condizioni nelle nostre menti — le cosiddette circostanze psicologiche — e si rende perciò necessario da parte nostra un adattamento a queste fonti d’afflusso delle condizioni ambientali. Lo sforzo è tutto qua: adattarci in qualche modo alle condizioni del mondo, che si tratti di circostanze geografiche, politiche, sociali o familiari. E lavoriamo sodo: ognuno di voi lavora sodo. Ma per che cosa? In che direzione? Con che scopo? È un particolare impulso proveniente dal nostro interno che ci stimola a lavorare; e se non lo facciamo sentiamo dentro di noi una pulsione subconscia minacciare d’estinzione la nostra stessa esistenza. Potremmo morire se non lavorassimo: la nostra stessa esistenza potrebbe venir soppressa dalle poderose condizioni della vita là fuori.

I compromessi ai quali si giunge con la vita là fuori variano da persona a persona. Ecco perché ciò che io faccio può non essere ciò che voi fate nel corso della vostra giornata, e ciò che voi fate può non essere ciò che altri fanno. Il fatto che ciascuno faccia qualcosa non implica necessariamente che tutti facciano la stessa cosa, nello stesso modo, ovunque nel mondo. La necessità di fare qualcosa è, ad ogni buon conto, comune a tutti. Ciascuno sente il bisogno di fare: che sia in una fabbrica o una cappella, in un tempio o un negozio, ognuno fa qualcosa. La varietà nel fare sorge per via del fatto che esiste varietà nelle condizioni psicologiche in cui ci si viene a trovare. Le vostre azioni dipendono dalla vostra struttura mentale, e le varie attività si trovano quindi strettamente associate alla psicologia. Ciascuno è attivo, ma con modalità differenti. La necessità d’essere attivo può essere spiegata solo in termini di un impulso proveniente dalla propria struttura psicologica. Studiando la vostra mente potrete apprendere qualcosa circa il bisogno che sentite di lavorare nel mondo.

Perché dovreste fare un qualche lavoro? Lo sapete benissimo, e ciascuno ha una propria risposta. È un mondo di duro lavoro quello che ci sta di fronte, e noi dobbiamo per forza muoverci di pari passo con le sue leggi. Non possiamo considerarlo come uno sconosciuto, un estraneo, come qualcosa che non ci riguarda. Le nostre pene non sono altro altro che i nostri cattivi compromessi col mondo, con la vita, con tutto. L’emendamento di tali inadeguatezze viene tentato attraverso il lavoro, l’attività, l’iniziativa, il progettare, pianificare, etc. Tutti questi piani e progetti d’ogni genere rappresentano dei metodi di personale adattamento alle pressioni del mondo circostante. Farò qui cenno ad alcuni fattori importanti che devono essere presi in considerazione prima che tentiamo di scoprire cos’è in fin dei conti che ci si aspetta da noi, che ragione abbiamo d’esistere, perché respiriamo e mangiamo e tiriamo avanti, in un modo o nell’altro, in questo mondo. Qual’è lo scopo a monte di tutto ciò?

C’è qualcosa che ci mantiene irrequieti ed ansiosi, qualunque sia l’attività che stiamo svolgendo. L’esercizio delle nostre vocazioni si fonda su una certa psicologia, ed ecco perché c’è varietà nelle circostanze della vita, ecco perché abbiamo di fronte questo pittoresco mondo di colori e suoni e movimenti che evoca differenti tipi di emozioni e di reazioni in ciascuna singola persona. La vita è attività, è lavoro. Nel momento stesso in cui pensate al vostro

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vivere nel mondo, state pensando di fare qualcosa. E questo fare a sua volta, come ho accennato, ha un rapporto vitale con i bisogni della vostra personalità interiore, la mente, se così la volete chiamare. Cercheremo di concentrare la nostra attenzione su cosa questa mente sia, in maggior dettaglio, un po’ più avanti. Per il momento accontentiamoci di definire questa cosa chiamata mente, con la quale abbiamo una certa familiarità, come quella cosa che pone un freno e che dà forma alle nostre attività. Le attività hanno una psicologia alle loro spalle, ed ogni azione di qualsiasi genere ha una condizione mentale a precederla.

Perché mai, ci si potrebbe chiedere, la mente deve pensare nel modo in cui pensa e condurci in una certa direzione, verso il compimento di un determinato lavoro, impegnarsi in una data attività? Il come dell’attività della mente è chiamato psicologia. Come funziona? Quali sono le varie diramazioni del movimento della psiche? Psicologia è lo studio dettagliato delle multiformi trame e attività della mente. Un soggetto molto vasto, lo studio della mente. A meno che lo conosciate a fondo, non potrete avere piena dimestichezza con le tecniche dell’attività nel mondo, e vi ritrovereste perciò a fare delle cose che non sortiscono risultati adeguati. Le attività risulterebbero in una serie di buchi nell’acqua, di imprese inutili, un vagare attraverso vicoli ciechi, senza alcuna idea su ciò che il futuro ci tiene in serbo, a meno che vi sia una cognizione corretta del retroterra di tali attività, ossia della psicologia umana. A meno che voi conosciate la vostra mente, non potrete conoscere la natura delle opere che avete da compiere né il fine verso cui tali opere sono dirette.

Ma perché la mente lavora in questa maniera? Perché io dovrei pensare nel modo in cui proprio adesso sto pensando? Perché voi pensate nel modo in cui pensate? Cos’è questo demone che opera dentro di noi, separando l’uno dall’altro e pretendendo che uno debbapensare in un certo modo e un altro in maniera diversa? Perché mai dev’essere così? Perchétu devi pensare in quel modo ed io in questa maniera? Perché non pensare assieme nello stesso modo? In che consiste l’impedimento? Questo perché solleva un problema che va al di là del campo conosciuto come psicologia.

Di solito questo settore è conosciuto come filosofia: il perché di una cosa viene studiato in filosofia, il come di una cosa è studiato in psicologia, e il cosa è l’effettiva pratica giornaliera dell’attività. Al prendere in esame qualsiasi cosa, anche il minor dettaglio, anche la più apparentemente insignificante appendice della nostra vita, dobbiamo mantenere un approccio scientifico. E cosa significa essere scientifici? Prendere la prima cosa per prima e la seconda per seconda, senza mischiarle l’una con l’altra. Non dovreste cominciare con la seconda mentre la prima rimane ignorata: essere capaci di concepire le serie consecutive di qualsiasi tipo di processo vuol dire essere scientifici.

Ma se vi mostrate incuranti delle serie e mancate un anello nella catena di sviluppo del pensiero e dell’attività, in tal caso non sareste scientifici. Ed è praticamente la stessa cosa cheessere logici: essere logici è anche essere scientifici, benchè vi sia una piccola differenza nelsignificato di questi due termini, sulla quale possiamo per il momento sorvolare. Essere sistematici, essere pazienti, essere osservatori, essere disponibili alla rettifica, tendere verso formulazioni sempre più generalizzate d’idee, sforzarsi di oltrepassare le limitazioni del corpo, della comunità, dell’individualità, etc.: sono queste alcune caratteristiche di un atteggiamento

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scientifico, l’approccio logico alle cose. La filosofia è lo studio della vita con riferimento alle cause prime, e non soltanto agli immediati antecedenti.

Siamo qui per fare alcune serie considerazioni sui caratteri essenziali di ciò che in termini generali possiamo chiamare vita, e che condizionano le molteplicità esteriori con le quali siamo connessi. Le peculiarità esteriori sono espressioni delle essenzialità interiori. Il tipo di alimento che io mangio dipende dal tipo di fame che ho, oltre che dal modo in cui operano gli organi fisiologici, da come funzionano il fegato, il pancreas, gli intestini, etc. Altrettanto succede nel caso di qualsiasi inclinazione interiore di genere mentale o psicologico. Un serio atteggiamento contemplativo dev’essere rivolto a quei fattori che vanno a costituire la struttura della nostra vita nel suo insieme, nella quale si trovano inclusi vari aspetti come il geografico, l’astronomico, il politico, il sociale, il personale, ed altri ancora. Vi renderete conto di essere connessi a diversi fattori anche mentre state qui, seduti al vostro tavolo. Siete seduti qui con un tavolino di fronte, e siete al tempo stesso molte cose in questo esatto momento. Siete un americano, un inglese, un maschio, un professore, un uomo affamato, provate un’ansia rispetto al vostro futuro, un desiderio di realizzare qualcosa, e molte altre cose analoghe, che voi stessi neppure immaginate, vi stanno condizionando. Questo non significa che voi pensiate costantemente “io sono un tedesco, o un indiano, o un americano” e così via; ma l’idea in sé non è stata estirpata dalla mente. Sta lì, tra le quinte.

Come potete dimenticare che siete una donna o un uomo o che venite da un certo posto, che siete cittadini del tal Paese? Potreste non star costantemente rimuginando su simili idee, ma si trovano là, al fondo di ogni tipo di pensiero generato dalla vostra mente e di ogni approccio o punto di vista che essa possa concepire riguardo alla vita. Allora, cos’è che siete veramente venuti a cercare? Non certo lo studio di filosofia, psicologia o scienze economiche inteso nel senso tradizionale del termine. State piuttosto cercando di andare alle più profonde radici delle varie branche di studio che chiamate scienze economiche o psicologia o filosofia, o sia quel che sia, che sono poi tutte espressioni esteriori di un bisogno interiore.

Tutto il nostro sforzo sembra consistere, dopotutto, nel liberarci dai ceppi che ci incatenano come prigionieri tra le quattro mura. Voi sapete di cosa son fatti questi ceppi. Ciascuno di voi conosce la propria schiavitù. Si tratta d’un tipo di catena che vi ridona la libertà solo a condizione che abbiate sufficiente consapevolezza del modo in cui siete incappati nella vostra prigionia. Voi avete problemi di visto e di passaporto, di condizioni economiche, relazioni familiari e limitazioni corporali: tutte queste sono catene, e non ve ne potete liberare tanto facilmente. Ma cosa ci ha messo in questa situazione di sofferenza e ci mantiene sempre irrequieti ed ignari del futuro? Ci sentiamo tormentati dal passato, inquieti nel presente e ansiosi per il futuro. Risulta allora ovvio che non siamo qui semplicemente come studenti di una qualche branca del sapere che ci consenta di guadagnarci il pane quotidiano. Siamo piuttosto alla ricerca di qualcosa che ci mantenga sobri di mente, che ci dia pace, se così la volete chiamare, in ogni circostanza. Quello che ci manca non è tanto il pane quanto la pace dello spirito.

Questo non vuol dire che una persona che ha da mangiare in abbondanza sia una persona dotata di sobrietà o pace dello spirito; né è vero che una persona che soffre

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fisicamente la fame non possa godere della pace dello spirito. Ciò di cui siamo alla ricerca èdel tutto diverso da ciò che la gente generalmente pensa di cercare nel mondo della quotidianità. Anche noi apparteniamo al mondo del quotidiano, è vero. Non stiamo fuori dal mondo: siamo sulla terra, ma stando sulla terra, stando al mondo, siamo seriamente impegnati nella ricerca di qualcosa che non è semplicemente pane e un tetto e una confortevole vita sociale e corporale. Questi sono solo accessori di qualcos’altro, di cui in realtà siamo alla ricerca. Si presume che non siate nella condizione di chi muore di fame: non siete dei mendicanti. Avrete una soluzione adeguatamente soddisfacente per il vostro pasto quotidiano, un posto decoroso per dormire di notte, e dei vestiti per coprirvi. Suppongo che tali faccende, che sono appunto le realtà fisiche della vita, non rappresentino per voi delle serie difficoltà. Ma cos’è che non avete? È quello l’importante.

C’è qualcosa dentro di noi che parla col linguaggio dell’ansia. C’è qualcosa che non va esattamente come dovrebbe, nonostante abbiate tutto in termini fisici o sociali. Siete persone socialmente rispettabili, avete una situazione finanziaria indipendente: va tutto bene a quanto sembra, ma voi non siete felici, concretamente parlando, per una qualche ragione che non avete ancora trovato il tempo di approfondire.

Siamo così occupati con l’enorme piena delle condizioni atmosferiche là fuori che sembra ci venga impedito persino di trovare il tempo per pensare. E non parliamo poi della capacità stessa di pensare: essere o no capaci di pensare è tutt’un altro paio di maniche. Ma avete almeno il tempo per pensare? Anche questo manca. Siamo veramente persone molto occupate, ognuno di noi. E sorge quindi il bisogno d’imparare anche l’arte di trovar tempo per pensare nel modo corretto, perché la vostra vita non è altro che una vita mentale e se la vita mentale viene ignorata non sarà la vostra vita fisica e sociale a rendervi liberi. Sapete bene quanto la vostra mente sia importante: non c’è quindi bisogno di stare molto a dissertare sulla natura della mente e l’importanza del suo funzionamento.

Nonostante tutte le comodità e gli splendori della vita fisica, a che serve tutto lo sfarzo di questa terra se la mente non trova pace? Potreste essere un re o una regina: che bello, una meraviglia. Ma supponiamo che la mente non vi funzioni: che ne direste? Capite bene cosaquesto significhi, e non può esistere inferno peggiore. Mettiamo invece che la mente sia allavoro, ma nella direzione sbagliata: disgraziata condizione anche questa. Ciò che cercate è, in effetti, qualcosa che si caratterizza come prerequisito ai vostri bisogni fisici e alle vostre relazioni sociali. Oggetto delle nostre sessioni di studio sarà dunque una serie di approcci in direzione alle cause di quegli effetti che le nostre vite interiori ed esteriori costituiscono.

La nostra vita, tanto interiore che esteriore, consiste di una sequenza. non è una sostanza solida. La nostra esistenza non è come dura pietra, immobile ed immutabile. È un flusso, una serie di tendenze, movimenti, iniziative, etc. che si biforcano in pratica nelle fasiinteriori ed esteriori. La vita in sé non è né interiore né esteriore. È ovunque. Ma percomodità la suddividiamo in interiore ed esteriore, così come diciamo che stiamo dentro quando ci troviamo nella stanza. Quest’idea del dentro sorge per via dei muri intorno. Se non ci fossero i muri, non diremmo che stiamo dentro: ci considereremmo semplicemente sulla superficie della terra. Ma

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siccome esiste una consapevolezza dei muri ai quattro lati, c’è anche la consapevolezza di un dentro e, all’inverso, la consapevolezza di un fuori. Non esiste in realtà qualcosa come la vita interiore e la vita esteriore, così come in realtà non esiste nessun interno o esterno, a meno che ci sia un muro a separare l’interno dall’esterno. Ma noi parliamo sempre di una vita interiore e una esteriore come se esistessero realmente. Questa biforcazione, o golfo altrimenti detto, tra la nostra vita interiore e quella esteriore si deve ad un muro che sembra ergersi tra ciò che chiamiamo interno e ciò che chiamiamo esterno. E anche questo muro dev’essere preso in considerazione, e visto per quello che è.

Abbiamo qui dei muri fatti di mattoni: ma cos’è questo muro che ci dà l’impressione di avere una vita interiore come distinta da una esteriore? Tutto dev’essere messo in chiaro prima che ci accingiamo ad intraprendere una qualsiasi cosa. Si: dobbiamo assicurarci che tuto sia chiaro, e che non ci siano dubbi ed ossessioni nella mente. Ho cominciato col dire che vi dovreste decondizionare ed abbandonare gli abiti mentali preconcetti. Non dite “ho già letto le Upanishad”; dimenticate le Upanishad per il momento, dimenticate la Gita, dimenticate la Bibbia, dimenticate la vostra nazionalità, dimenticate d’essere qualunque cosa al mondo. Ma ricordatevi che siete spiriti in cerca di soluzioni a certi seri problemi che tormentano le menti di tutti in modo unanime. I problemi di base sono gli stessi dappertutto, per quanto differenti possano essere le loro espressioni esteriori.

Le difficoltà quotidiane che affrontiamo nella nostra vita non sono sempre le stesse. Ma si dovrà prendere atto che la causa fondamentale che sta alla loro radice è in fondo una sola, e sempre la stessa. Noi pensiamo come esseri umani, ed è questo in essenza il nostro modo dipensare. Esteriormente uno può pensare come un uomo e un’altra come una donna; unopensa come un professore, un altro come un contadino tra i campi, e così via. Queste non sono altro che forme estrinseche di modi di vedere il mondo. Ma esiste invece quello che può essere definito come il comun denominatore del pensiero normale, che è poi il modo di pensare umano. Noi non pensiamo come un cane o un gatto, e non ci muoviamo come un albero verso il sole. Noi non pensiamo come le specie non umane. Noi pensiamo esclusivamente come esseri umani, e non ci è dato di pensare in altro modo. E questa è di per sé una grossa restrizione al nostro pensiero.

Ho prima accennato ad alcune delle limitazioni che ci impediscono il pensiero generalizzato, ma il modo di pensare umano è in sé stesso una schiavitù. Ecco perché vi è stato più volte ribadito che l’intelletto è una barriera. Dovete aver già sentito dire che l’intelletto è un ostacolo ad occupazioni superiori, e questo perché l’intelletto è una dote dell’essere umano. Non è presente nel lombrico o nel millepiedi: essi hanno altri istinti a loro propri. E noi abbiamo una struttura peculiare al nostro interno che chiamiamo col nome di intelletto, ragione, etc. Ci è stato ripetuto centinaia di volte che questo è un ostacolo. Ma perché mai dovrebbe essere un’ostacolo quando in definitiva è l’unica facoltà che abbiamo? È un ostacolo perché è presente solo in un essere umano e non può essere riscontrata altrove. Il modo di pensare, l’ottica di altre specie sarà differente. E al fine di renderci possibile l’accesso a una visione della vita d’ordine più generale non dovremmo essere troppo attaccati a questa nostra dote chiamata intelletto. Benchè ci sia d’aiuto, non è però sufficiente.

L’intelletto è sì una prerogativa speciale della razza umana, ma le verità 12

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della vita non sono unicamente umane. Ci sono tante altre cose al mondo che travalicano i valori umani, e noi non dovremmo soggiacere all’idea di essere degli dèi, signori di questo pianeta. Noidimostriamo, a volte, un orgoglio che ci esalta e ci fa sentire come angeli che camminano suquesta terra e abbassano il loro sguardo su delle creature subumane. Sono tutte nullità al nostro confronto, come se non esistessero affatto. Noi siamo i padroni. Il mondo ci appartiene. La Terra è proprietà dell’essere umano. Al provare simili sentimenti diciamo: “Questa terra è mia!”. Ma come fa ad appartenervi? Dio solo lo sa! E nonostante tutto avete la sensazione che sia vostra: l’uomo che è in noi opera in maniera imperiosa. Così quell’umanità in noi, mentre è una grande virtù per tanti versi, finirà coll’essere un grosso impaccio in ultima analisi. Il nostro carattere umano è solo un anello della catena di sviluppo delle varie specie di vita del Creato. Esistono anche facoltà più elevate, superiori alla ragione umana, che appartengono a regni superumani di esistenza.

Sapete che il mondo non è fatto di soli esseri umani: ve ne sono altri al di sotto e al di sopra di noi. Noi stiamo a metà, sospesi in qualche punto della corda tesa tra la terra e il cielo. Stiamo facendo un lungo viaggio. Non siamo a questo mondo in pianta stabile come possessori permanenti di proprietà. Non siamo proprietari di nulla. Siamo in un flusso che si muove, come ho già detto. Il nostro è un perpetuo viaggio in avanti e noi non possiamo, come disse un grande maestro, entrare nella stessa acqua del fiume al momento successivo, perché nel momento successivo entriamo in un’acqua diversa dello stesso fiume. Così pure nell’attimo seguente non stiamo vivendo la stessa vita. Ci troviamo ad ogni momento in una nuova vita nella quale incessantemente entriamo, e la cosiddetta continuità della nostra personalità, che ci fa sentire oggi gli stessi di ieri con la speranza che saremo domani esattamente quello che oggi siamo, è dovuta ad una limitazione nel modo in cui opera la mente, al ritrovarci vincolati ad un insieme di caratteri peculiari nell’ambito di questo movimento. L’abitudine della mente è di guardare attraverso un piccolo foro, una stretta fessura. L’enorme distesa della vita, della quale siamo una minima parte, resta fuori dalla portata della nostra percezione a causa di certi difetti strutturali della mente.

Ecco perché sentiamo di essere la stessa persona ogni giorno, inconsapevoli del fatto che ci andiamo trasformando ad ogni nuovo istante mentre ci dirigiamo verso qualcosa di completamente differente, fino a che non avverrà un cambiamento catastrofico nel corso delquale la mente saprà che un mutamento reale ha avuto luogo. E quella catastrofe è chiamatamorte. Noi muoriamo ad ogni istante, ma non ne siamo consapevoli per via della capacità della mente di adattarsi un istante dopo l’altro a questo piccolo cambiamento. E forse se la nostra mente fosse in grado di adattarsi anche a quel tale cambiamento chiamato morte, noi non sapremmo di star morendo. Non ci renderemmo neanche conto che qualcosa è successo, proprio come non ci rendiamo conto d’essere oggi differenti da come eravamo ieri. Ma la mente non è fatta così: è talmente condizionata a questo corpo che la scissione da esso le appare come una completa separazione dall’esistenza stessa.

C’è una continuità, che è poi la vita, della quale facciamo parte, e noi non siamo semplicemente Tizio, Caio o Sempronio qui seduti: non è tutto qua. Se apriamo gli occhi alla verità dei fatti ci accorgeremo con sorpresa d’aver vissuto fino ad oggi una vita sconsiderata,ed è ormai giunta l’ora d’essere seri con noi stessi. Il tempo a nostra

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disposizione è breve e c’è così tanto da imparare, e altrettanto da realizzare. Gli ostacoli sono troppi e non abbiamo tempo per distrarci, dormire o ammazzare il tempo come se avessimo davanti a noi l’eternità. Non possiamo prendere le cose con leggerezza. La vita è preziosa, non possiamo prenderla per scherzo. Ogni attimo di tempo è oro, perché ogni istante che passa non è altro che una piccola diminuzione di quel lasso di tempo che è la nostra vita. Ogni tocco di campana ci ricorda che abbiamo un’ora in meno. Certo queste non sono cose piacevoli da sentirsi dire: tenace dev’essere quindi il nostro sforzo per penetrare sempre più a fondo in ciò di cui siamo alla ricerca.

Siate umili. Siate pazienti. Non cercate di farvi grandi, ma fatevi piccoli, fino a diventare quasi una nullità, che è meglio per voi che essere una grossa cosa in mezzo al mondo, un centro d’attrazione di tutti gli sguardi. Una speranza c’è, e abbiate quindi semprela certezza che otterrete ciò di cui avete bisogno. Ricordate sempre tre cose:

1) Siate chiari rispetto a ciò che volete;

2) Siate sicuri che ciò che volete l’otterrete; non siate tittubanti.Affermate: “Si, l’otterrò certamente”, e

3) Date inizio a quello sforzo in questo stesso momento. Non dite “domani”.

Asserite: “Adesso che tutto mi è chiaro, mi metterò al lavoro”.

Se farete in modo di tener sempre presenti queste tre norme a vostra guida, avrete sempre successo, e con qualsiasi cosa.

L’INTRICATA SITUAZIONE UMANA

Fate tre colonne: 1, 2, 3. Nella prima scrivete: ‘Cosa voglio?’. Nella seconda: ‘Posso ottenerlo?’. E nella terza: ‘In che modo ottenerlo?’.

Prendete ora la prima proposizione: cosa volete? Di cosa siete alla ricerca? Cos’è che vorreste conoscere? Vi è sempre all’incirca la stessa istanza implicita in tutte queste domande, alle quali si cerca di dare una risposta nel sistema di studi comunemente noto come filosofia. Tutto questo entra a far parte della colonna nr. 1, che va sotto la voce filosofia.

Viene poi la seconda colonna: siete in grado di raggiungere la meta alla quale conoscenza, ricerca, aspirazione e questionamento sono diretti? L’analisi delle vostre particolari capacità nel perseguire ciò di cui siete alla ricerca, ciò che volete, rientra nell’area di competenza della psicologia. E questo va sotto la colonna nr. 2.

E veniamo infine alla terza sezione: qual’è il mezzo? Dando per scontato che possediate la capacità, gli strumenti e le doti necessari, che metodo adottare? Questo è l’aspetto pratico della vostra ricerca. Vi sono quindi un aspetto filosofico, un aspetto psicologico e un aspetto pratico da prendere in esame, tanto per suddividere a grandi linee il nostro approccio a tutta la questione della vita nel suo insieme.

L’oggetto dell’indagine filosofica propriamente detto è la natura della 14

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Verità, della Realtà. È del tutto ovvio che non è di irrealtà, di fantasmi, né di alcunché di transitorio che siamo alla ricerca. È di qualcosa di sostanziale, di permanente che abbiamo bisogno. E cosa può essere? Cosa intendete quando dite che una cosa è permanente, che è poi lo stesso che dire che è reale? Argomento della filosofia è appunto la ricerca della Realtà.

Passiamo quindi al secondo punto in discussione: la natura individuale, la struttura della nostra personalità, l’indole delle nostre doti. Sono le varie branche della psicologia, incluso ciò che chiamiamo psicoanalisi, ad effettuare un’analisi complessiva della struttura interna di cui siamo dotati in quanto individui alla ricerca di una qualsiasi cosa. Le sintetizzeremo tutte nella categoria generale che potremmo denominare analisi interna dell’individuo.

Prendiamo adesso il terzo punto nella terza colonna: la via al raggiungimento di questo ideale, la Realtà. Il metodo da seguire, la sua applicazione, è ciò che qui fondamentalmente ci interessa, ed è ciò a cui di solito ci si riferisce quando si parla di Yoga. Yoga è pratica, sebbene preceduta da certi studi e discussioni d’ordine filosofico e psicologico.

Che cos’è dunque questa Realtà di cui andiamo alla ricerca? Che cosa intendiamo quando parliamo del Reale? Ebbene, se la domanda viene posta in modo generico ad un profano, la risposta sarà immediata: “Ciò che vedo con i miei occhi è reale”. E cos’è che ‘vedo con i miei occhi’? “Il mondo”. Ecco la realtà. Il mondo in cui viviamo è ciò che veramente esiste, ossia l’oggetto che noi consideriamo come reale. È un oggetto permanente: “Stava lì prima che io nascessi, è lì adesso, e probabilmente sarà lì anche quando io non ci sarò più. Il mondo è la mia realtà, e non mi è dato d’immaginare un’altra qualsiasi realtà”.

Per quanto riguarda invece la sezione psicologia, se vi pongo la domanda “Chi siete voi?”, ne verrà fuori una risposta semplice. “Io sono Tal dei Tali”, “Così e cosà”, “Unapersona”, è la risposta che di solito s’ottiene. Se vi viene chiesto “Chi siete voi?”, già sapete che tipo di risposta darete, inevitabilmente. Potreste tutt’al più dare per implicito, come sottinteso di fondo alla vostra risposta, il fatto che possediate una mente, un intelletto, una ragione, una capacità di pensiero — e questo è tutto. Uno non può andare al di là di queste semplici definizioni di sé stesso. E se vi viene chiesto “Cos’è che dovreste fare, qual’è l’aspetto pratico della vostra vita?”, anche in questo caso la vostra sarà una risposta molto semplice, sbrigativa: “Dobbiamo lavorare”, per il nostro proprio sostentamento, per mantenere le relazioni col mondo, nel contesto della società umana, e per svariate altre ragioni.

E questo è appunto l’approccio banale e ingenuo della persona comune ai problemi della vita, ai suoi doveri e valori; ma tutto ciò sfiora la questione solo in superficie, così come appena una diagnosi inadeguata e antiscientifica può derivare dal mero osservare il corpo di una persona o dal semplice passarvi sopra la mano, senza andare ad indagare le complicazioni interne che hanno dato origine al disagio della malattia. Noi veniamo stimolati alla ricerca di cose per via d’un certo disagio che proviamo nella vita. In caso contrario, nessun impulso alla ricerca sorgerebbe rispetto a nulla.

Si guarda perciò all’insoddisfazione come alla madre di tutta la filosofia. La filosofia è figlia di un riconoscere le inadeguatezze che la vita reca con sé. Ci sono molti tipi d’insoddisfazione. Si potrebbe scrivere un libro intero sul significato dell’insoddisfazione, siccome praticamente tutto ci lascia insoddisfatti. È difficile immaginarsi soddisfatti di qualcosa in modo permanente, od anche per un periodo di tempo prolungato. L’estate non ci

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soddisferà per molto tempo; l’inverno non ci farà a lungo contenti. Nessuna situazione sarà in grado di soddisfarci per un tempo durevole, lasciando allora spazio alle nostre interminabili lamentele. Per strano che possa sembrare, c’è una componente d’insoddisfazione insita nella struttra stessa del nostro modo di stare al mondo. Come mai continuiamo inquieti e bramosi per tutta la durata della nostra vita? Ognuno di voi, solo per qualche istante, contempli mentalmente la propria vita dal momento della nascita, per lo meno da quando riuscite a ricordare. Siete mai stati soddisfatti? Siete sempre andati in cerca di qualcosa e, una volta ottenutola, avete cominciato a desiderarne un’altra. E in caso riusciate ad ottenere quest’ultima, ne vorrete una terza, e così via.

Insomma, dov’è che questo carosello andrà a parare? Ci sarà mai qualcosa in grado di lasciarci soddisfatti? Com’è che ci troviamo in pugno al demone dell’eterna ricerca, perennemente a caccia di qualcosa di cui non abbiamo una chiara nozione? Sono innumerevoli le cose alle quali aspiriamo, in una quantità di modi diversi, costantemente, per tutta la vita, dato che non abbiamo ancora chiaro in mente ciò che in fin dei conti vogliamo. Stiamo solo sperimentando delle situazioni: “Forse è questo che voglio, forse è quello”. Ma quando finalmente ci arriviamo, ci rendiamo conto che non sono quelle le cose che cercavamo di ottenere.

È come fare esperimenti con varie medicine, per poi scoprire che nessuna fa al caso della nostra malattia. Abbiamo fatto esperimenti con persone, cose, professioni, e tutte le altre varie sfaccettature dei nostri desideri. Nessuna ci ha soddisfatto. Anche oggigiorno non siamo soddisfatti, né voi, né io, né nessun altro. È impossibile immaginare una situazione di completa soddisfazione, nella quale non avremmo nulla da dire, nella quale forse non avremmo neanche nulla da pensare, nella quale tutto sia compiuto per sempre. Lo stato di compimento di tutte le cose è, in verità, al di là della nostra stessa capacità immaginativa. Non possiamo neanche immaginare se un tale stato, l’avere cioè tutto ciò di cui abbiamo bisogno, sia mai possibile.

Ci sembra, a volte, che il nostro destino sia di passar a miglior vita sconsolati con tutto. Se potessimo leggere nella storia delle menti umane, sempre ammesso che una storia della psicologia umana come tale possa essere tracciata, dovremmo constatare con sorpresa come sia impossibile individuare anche un solo essere umano che abbia lasciato questo mondo con genuina soddisfazione, a parte quei pochi che sono il sale della terra. C’è sempre stato un vuoto, un qualcosa d’incompiuto che ognuno s’è dovuto lasciare alle spalle. Ciascuno va via lasciando qualcosa d’incompleto, che non sarà mai portato a termine. Ecco il lato sgradevole delle cose, l’aspetto infelice della vita, ritratto apparente di questo mondo che ci sta dipinto innanzi.

Ma esiste in noi anche una certa intima essenza, confortante e appagatoria, che però sfugge costantemente alla nostra presa. C’è qualcosa dentro di noi, in ognuno di noi, che invariabilmente si sottrae alla nostra osservazione. Non ci riesce di visualizzarlo nonostante tutti i nostri sforzi, eppure persiste in noi quel misterioso e tremendo qualcosa che continua a farci confidare in un modo o nell’altro nella possibilità di un successo finale. Un qualcosa di speciale, che ci fa continuare a sperare positivamente nella praticabilità delle nostre imprese nella vita, fiduciosi in una vittoria ultima — ecco il vanto della nostra personalità.

L’uomo è rimasto nel mondo quello sventurato essere sofferente di sempre, è vero; ma è anche qualcosa di splendido, un maestoso ed

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incomprensibile mistero, una combinazione di due contrari, se così si può dire, che costituisce appunto il miracolo dell’uomo. Ogni essere umano è in sé stesso un miracolo. Non è possibile arrivare a conoscersi in modo completo: se ciò fosse possibile non staremmo a correre in giro di qua e di là alla ricerca di cose. Esiste un certo sfuggevole impedimento, in ragione del quale ci troviamo ad inseguire le cose e tuttavia incapaci d’ottenerle: nonostante tutto il nostro darci da fare, sembra che alla fine nulla ce ne venga. Eppure non possiamo esimerci dal cercare, ed è questa un’altra peculiarità. Da un certo punto di vista sembra che non otterremo mai nulla, dal momento che nulla abbiamo ottenuto fino adesso, dopo tanti anni di tribolazioni. Se dopo gli ultimi venticinque, trenta o quarant’anni di ricerca e di sforzi ci sembra di non essere approdati a nulla, che garanzia abbiamo di giungere a qualcosa di soddisfacente in altri dieci anni? Forse trascorreranno anch’essi nello stesso modo, se ne andranno come gli ultimi venticinque o trenta. “Impermanente e privo di gioia, in verità, è questo mondo” (anityam asukham lokam ).1

È veramente un quadro molto deprimente quello che ci si presenta. Ma forse questo non è tutto, ci dice una voce che viene da dentro: altrimenti non staremmo qui seduti ad ascoltare gente che parla in una lingua stramba, alla ricerca di cose tanto vagheggiate per foreste, colline e valli, in monasteri, templi, biblioteche, e chissà dove altro ancora. C’è qualcosa dentro di noi che è senza dubbio differente da ciò che scorgiamo con i nostri occhi. È questo il nostro mistero, il nostro splendore, la nostra realtà e il nostro conforto. Questo mistero che è in noi ci rende in qualche modo felici, a dispetto di tutta l’infelicità della vita. Da una parte siamo terribilmente infelici; dall’altra c’è una tendenza nascosta ad una possibilità di successo e felicità permanenti che ci fa cenno da una remota distanza. Questo scenario intrigante, che è poi la forma in cui la vita ci si presenta, è materia d’osservazione e studio della filosofia. Se l’argomento fosse semplice come una mela che cade dall’alto non ci sarebbe stato bisogno di ricerche, studi ed investigazioni. Si tratta invece di una mescolanza di elementi contrastanti e fattori enigmatici, ed è quindi necessaria un’intensa preparazione d’ordine tecnico se vogliamo scandagliare le profondità di questi misteri.

Contemporaneamente ci si presenta un altro dilemma: abbiamo in noi la capacità, siamo dotati degli strumenti necessari ad affrontare queste indagini? O siamo solo degli eccentrici senza speranza impegnati in una ricerca che non ha alcuna possibilità di riuscita? Il problema sembra essere così imponente, e la nostra individualità così piccina, da apparirci il più delle volte come un’impresa disperata.

Ci fu un grande filosofo che elaborò un sistema di pensiero innovatore, e che si pose tre domande nelle quali assommò ogni problema della vita:

1) Ch e cosa ci è dat o di con oscere? Cosa siamo nella condizione di poter conoscere, nelle circostanze in cui ci troviamo?2) Nelle circostanze di cui sopra, cosa dov remm o f are?

3) Una volta risposto alle prime due domande, i n c o sa p o t re m m o s p e r a re alla luce dei fatti? Quale potrà essere il nostro fato, il nostro destino, il nostro futuro?

Questi tre quesiti comprendono ogni altro genere di domanda che 17

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possa venir formulata. Che cosa siamo in grado di conoscere? Cosa dovremmo fare? In cosa ci è dato sperare? Tre grandi volumi furono scritti da quel filosofo in risposta a queste tre domande. Siamo sufficientemente equipaggiati per investigare il problema dell’esistenza? E in questo caso, che metodi dovremmo adottare? Questi ultimi andrebbero a costituire l’aspetto tecnico o anche tecnologico della pratica.

Così come, prima di dare il via alla costruzione di un grande edificio, un tempio, una cappella o un palazzo, uno ha di fronte a sé un determinato progetto da eseguire — non si comincia accumulando estemporaneamente del materiale in un posto qualsiasi: prima di tutto si conduce un’osservazione e uno studio sulla natura del suolo, del terreno, di che tipo di terra si tratta, qual’è la sua inclinazione, e così via; l’area che dev’essere coperta, la profondità a cui bisogna scavare, il materiale necessario, il personale richiesto allo scopo, il tempo che occorrerà per terminare il lavoro, etc. — allo stesso modo il metodo dell’indagine filosofica è costituito da svariati argomenti di studio tra loro attinenti. L’intera disciplina implica, al tempo stesso, lo scopo a monte di tutte queste procedure, ovvero la ragione per cui si costruisce l’edificio. Ed essa si trova tra le quinte della mente durante l’intera esecuzione dell’attività, nel caso specifico la costruzione dell’edificio. Noi pure abbiamo uno scopo in mente, in quanto turisti che viaggiano da un posto all’altro, o come studenti, o qualunque altra cosa ci consideriamo. Agiamo perché abbiamo uno scopo, un proposito, lo perseguiamo e lavoriamo per la sua realizzazione.

Uno studente occidentale col quale ho avuto occasione di parlare mi diceva che in Occidente non ci si pone mai simili domande. “Noi non ci soffermiamo affatto su quale sia il nostro scopo. Tiriamo avanti giorno dopo giorno: abbiamo un trantran quotidiano che ci fasvolgere di corsa la nostra routine, i nostri doveri, funzioni e vocazioni. Ma qual’è lo scopo ditutto ciò, alla fine dei conti? Certe domande non ce le poniamo: sono cose che non vengono mai in mente alla gente”. “Può darsi che non vengano poste coscientemente”, dissi io, “ma sono presenti come componenti della radice basilare della vostra personalità. Altrimenti il livello conscio non potrebbe operare in maniera sistematica”. Che altro è il sistema, la logica, l’approccio scientifico se non la concordanza della nostra attività conscia con delle più profonde aspirazioni? Qualora si venisse a determinare un’incongruenza tra le nostre attività conscie e le nostre mete interiori, ci riveleremmo presumibilmente antiscientifici, illogici e antisistematici. Quando esiste un’armonia tra lo scopo e l’approccio effettivo, questo processo va sotto il nome di scienza, logica e sistema.

1 Cfr. Bhagavad Gita - 9 : 33 (N.d.T.)

Dobbiamo anzitutto gettare le fondamenta delle nostre ricerche, ed evitare eccessivi entusiasmi senza che prima vi sia la sicurezza d’aver dato il passo giusto al momento giusto, in modo ben saldo, con chiarezza e completezza. Come già si è accennato, i nostri studi si andranno gradualmente assottigliando dalla filosofia alla psicologia, e dalla psicologia alla pratica. Non entreremo in dettagli pratici giusto all’inizio, così come non s’entra in una casa prima d’averla costruita. La dobbiamo prima costruire,

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dopodiché potremo entrarvi e rilassarci nel nostro salotto.Non si dovrebbe essere troppo impazienti d’intraprendere esercizi di

respirazione o concentrazione od altro senza aver prima gettato le fondamenta di queste ben note pratiche. Sono cose molto semplici, a patto che la loro essenza venga compresa. Si sente tanto parlaredi respirazione, meditazione, asana, etc., che finiscono col suonare come bizzarrie all’orecchiodi una persona comune, e comunque cose di difficile esecuzione; e tutto perché le loro fondamenta non sono state edificate in maniera appropriata. Ci precipitiamo a praticare asana o meditazioni, o allo studio di elevate letture, oppure ci ritiriamo in isolamento, senza esserci preparati in maniera adeguata allo scopo. Se ci veniamo poi a trovare impreparati, torniamo indietro insoddisfatti.

Dobbiamo andarci piano, non c’è nulla di sbagliato nell’andar piano, purchè siamo sicuri d’essere riusciti a dare per lo meno un passo. Anche se è un unico passo che siamo riusciti a muovere in questa vita, non ha importanza, sempre che ciò sia stato fatto con efficacia e che non ci vediamo costretti un giorno a ritornare sui nostri passi. Non c’è senso nel fare un salto in avanti di cento passi per poi avere la disavventura d’essere costretti a tornare indietro a causa d’una spinta retrograda dovuta al nostro sprovveduto avventurismo. Muoviamoci quindi con calma e prudenza, tenendo bene a mente ogni passo con la fermezza della fiducia in noi stessi.

Abbiamo cominciato col dire che fondamento del pensiero è la nitidezza con cui mettiamo a fuoco la natura della realtà della quale siamo alla ricerca. Parliamo di realtà perché è ovvio che non siamo interessati a nulla d’irreale; sembra un po’ un luogo comune, di sin troppo facile comprensione. Ma, nonostante la risposta alla domanda “cos’è ciò che chiamiamo Realtà?” sembri sorgere immediata e semplice, ci renderemo conto che le nostre risposte risultano ingannevoli al momento di andare un po’ più a fondo nella natura di ciò che vediamo con i nostri occhi.

Ci sono solo due cose che vediamo in questo mondo: il mondo e noi stessi. Non vi è null’altro. Se ci guardiamo attorno scorgiamo il vasto universo dei fenomeni astronomici e delle estensioni geografiche, e noi siamo qui, dei piccoli individui circondati da un mondo imponente. Cos’altro possiamo vedere? “Io sono qui e il mondo è là”. L’individuo e il mondo sono le realtà. Potremmo forse dire, in modo generico, che concepiamo due realtà. Se questo è il nostro concetto di ciò che è reale, e non c’è dubbio che noi siamo alla ricerca di realtà, da una simile risposta o definizione ne consegue che siamo in cerca o del mondo, o di noi stessi. Dev’essere così per logica deduzione, perché come abbiamo detto esistono solo due cose: ci siamo noi e c’è il mondo. Se noi esistiamo in quanto realtà, o il mondo esiste in quanto realtà, noi siamo alla ricerca dell’uno o dell’altro, oppure d’entrambi. Ma poi, in effetti, non siamo riusciti a far nostri né l’uno né l’altro. Per quanto possiamo rincorrerlo, il mondo mai ci apparterrà. Noi non siamo padroni del mondo, e questo è evidente. Il mondo non ci appartiene. E così cercando d’avere il mondo non l’abbiamo ottenuto; e cercando noi stessi sembra che non siamo riusciti ad ottenere un pieno controllo neanche sulla nostra stessa persona. La morte è un esempio palese della nostra incapacità di renderci proprietà di noi stessi. Nessuno voterebbe volontariamente il proprio corpo alla distruzione: ci imbattiamo piuttosto in un potere che ci coglie di sorpresa privandoci del nostro stesso corpo, attraverso quel fenomeno chiamato morte.

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Benché vi siano diverse altre evenienze a conferma della nostra mancanza di dominio su noi stessi, questa è la prova decisiva, che sta lì con la sua luce abbagliante a dirci che non abbiamo alcun diritto neanche sul nostro stesso corpo. Che dire allora dei diritti sulle altre cose del mondo?

Dunque, nel nostro andare in cerca di questo o quell’altro, esternamente o internamente, non abbiamo ottenuto nulla — né il mondo né noi stessi. Ci dev’essere, evidentemente, un errore intrinseco alla ricerca stessa da noi intrapresa. Se la nostra definizione di realtà è corretta, e se è altrettanto vero che è esclusivamente di realtà che siamo in cerca, resta inesplicabile il perché dovremmo uscire sconfitti da questa ricerca, che è purtroppo quello che invece è successo. La conclusione alla quale quest’analisi ci porta non può essere che una: abbiamo imboccato la strada sbagliata. La nostra idea di realtà non è corretta, ed è per questo che la nostra ricerca della cosiddetta realtà s’è andata sviluppando nella direzione sbagliata. Non ci siamo mossi nel modo giusto perché non abbiamo compreso cosa in effetti sia la realtà.

Il nostro edificio filosofico va in frantumi, crolla e cade a pezzi nel caso che la nostra ricerca della realtà, che è indagine filosofica, affondi le sue radici in un’idea fondamentalmente sbagliata della realtà stessa. Esistono, sulla base del tipo di analisi che abbiamo fin qui condotto, due modi d’approccio alla realtà: quello esterno e quello interno, l’oggettivo e il soggettivo, come vengono chiamati. L’approccio oggettivo è in genere quello della scienza: la fisica, la chimica, la biologia, l’astronomia, etc. sono tutti esempi di un’indagine esteriore della realtà. La ricerca interiore è stata fin qui prerogativa degli psicologi, degli psicoanalisti e, infine, dei mistici di tutto il mondo: sono gli scandagliatori dell’interiorità, piuttosto discosti dall’investigatore esterno del tipo scientifico.

Al punto in cui siamo, cos’è che abbiamo scoperto con tutte queste analisi esteriori e tutti questi approcci interiori? Cosa ci dice la scienza dopo aver percorso il mondo in lungo e in largo in cerca della realtà, e cosa ci dicono gli psicologi? Oggi come oggi ci si presentano di fronte solo questi due canali d’indagine. Nell’approccio esterno, che è poi quello scientifico, possiamo includere anche gli studi letterari, le scienze politiche, e poi storia, sociologia, estetica, etica, scienze economiche ed altre analoghe discipline. Non che queste siano esterne nel senso in cui lo sono la fisica o la chimica, ma lo sono in quanto studi oggettivi condotti attraverso l’esperimento e l’osservazione. Nel momento in cui impieghiamo la tecnica dell’osservazione e dell’esperimento, stiamo procedendo col metodo dell’approccio esterno alla realtà.

Dobbiamo dunque prendere atto di entrambi gli approcci. E questi si sono rivelati esaudienti, o si sono trovati di fronte un muro oltre il quale non hanno potuto procedere? Tutti questi metodi d’approccio, tanto interiori che esteriori, si sono poi conclusi con una rispostadefinitiva a tutte le domande che la vita ci pone? O ci hanno piuttosto portato in un vicolocieco, per lasciarci all’oscuro dopo averci condotto fino ad un certo punto? Se le cose stanno davvero così, qualche errore dev’essere stato commesso anche in questi approcci, esterni o interni che siano. Dobbiamo allora darci il tempo di approfondire almeno per sommi capi l’indagine su questi metodi d’approccio alla realtà, in modo da poter fare il punto della nostra situazione.

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ALLE SOGLIE DELL’INDAGINE

Torniamo al punto in cui c’eravamo fermati, cioè ai metodi che vengono usati per sondare la realtà. Esistono per noi a quanto pare solo tre vie, o meglio tre strade maestre, lungo le quali conduciamo le nostre osservazioni, e non ci riesce di pensare ad un quarto metodo. Guardiamo fuori e proviamo a vedere cosa abbiamo intorno; guardiamo dentro e tentiamo di scoprire cosa c’è al nostro interno; spesso guardiamo anche verso l’alto e ci chiediamo cosa c’è al di sopra di noi. È sempre stata questa l’impostazione di tutti i ricercatori, nell’ambito scientifico come in quello filosofico o religioso.

Abbiamo avuto occasione di constatare l’esistenza di un certo abituale approccio oggettivo da parte della scienza, le cui attuali conquiste sono senz’altro considerevoli, e che passa più o meno per vangelo. Vediamo fino a che punto ha dato buoni risultati, prima di prendere in considerazione altri metodi e vie d’approccio. Cosa sta facendo la scienza? Qual’è il modo di procedere dello specialista nel campo dell’osservazione e dell’esperimento? Chiunque cerchi di scoprire la verità attraverso l’osservazione e l’esperimento può essere definito uno scienziato, ed è anche quello che noi stessi cerchiamo di fare nel nostro piccolo con l’atteggiamento che assumiamo verso le cose del mondo. Gettiamo allora uno sguardo sul mondo: cos’è che vediamo? Le nostre faccende nella vita sono in massima parte oggettive, esteriori, materiali. Vediamo gli oceani, vediamo i venti soffiare ed il sistema stellare, vediamo i cinque elementi — Terra, Acqua, Fuoco, Aria, Etere. Cos’altro vediamo? Ci fu un tempo in cui i nostri specialisti in materia conclusero che il mondo consiste di cinque elementi, oltre ai quali null’altro ci è dato di vedere. Nuovi progressi, come sappiamo, sono stati compiuti in seguito, e sono andati ad aggiungersi a queste osservazioni di base sui cinque elementi primordiali.

Siamo oggi partecipi dei grandi passi avanti della fisica nell’indagare a fondo la struttura della materia, termine che sta oggi a significare per noi l’insieme di tutti e cinque gli elementi— Terra, Acqua, Fuoco, Aria, Etere. Tutti insieme, essi costituiscono la materia nella sua essenza, e la fisica ne esplora la struttura. Di cos’è fatta la materia, di cosa si compone?Inizialmente si pensava che la materia fosse composta dei cinque elementi soltanto, maulteriori esperimenti hanno poi dimostrato che la solida terra, per esempio, è in realtà porosa, un dato di fatto che ci è oggi ben noto. La terra non è una massa indivisibile; l’acqua è porosa, l’aria è porosa, ed anche il fuoco si configura come una sequenza di processi energetici. Nessuno dei quattro elementi visibili è in effetti quella cosa dura o indivisibile che appare: sono

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tutte sostanze composte, e non elementari. Una sostanza elementare è indivisibile, un composto è divisibile. Gli elementi sono quindi frazionabili, e non sostanze inscindibili: ecco ciò che è stato in seguito scoperto.

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Allora la nostra osservazione iniziale, che esistano cioè degli elementi solidi, non era esatta. E se la materia è divisibile, in cosa si divide? La si può scomporre in molecole, che vanno a formare le sostanze chimiche. Queste, a loro volta, comprese quelle che compongono i nostri stessi corpi, sono riducibili a certi elementi chimici. Tutto ciò che vediamo sono fasci di molecole chimiche ai quali i nostri corpi, così come qualsiasi altra cosa sulla faccia della terra, possono essere ridotti. Le molecole posseggono proprietà chimiche, e sono anch’esse costituite da particelle più sottili dette atomi, un po’ più difficili da penetrare di quanto non lo siano le sostanze chimiche. Scienziati e filosofi hanno dato in passato le più svariate opinioni circa la natura degli atomi. C’era chi pensava che gli atomi dell’elemento Terra fossero differenti da quelli dell’elemento Acqua, e gli atomi dell’elemento Acqua lo fossero a loro volta da quelli di Fuoco o di Aria. Abbiamo avuto anche in India alcune scuole di pensiero che credevano nella struttura atomica della materia, ed esse ritenevano appunto che gli atomi differissero l’uno dall’altro, che l’atomo dell’elemento Terra fosse diverso dall’atomo dell’elemento Acqua, e così via. La ricerca non si sarebbe però esaurita qui: è oggi risaputo che non esiste differenza intrinseca tra un atomo e un altro. L’apparente differenza non va attribuita alla qualità intrinseca dell’atomo, ma piuttosto all’ordinamento dei suoi componenti. Così la Terra è diversa dall’Acqua, l’Acqua dal Fuoco, e così via non perché la loro essenza atomica muti, ma perché sono costituzionalmente ordinati in differenti strutture.

Ma tutto questo fa parte della fisica classica, ossia della fisica che ci ha accompagnati fino all’epoca di poco posteriore alla cosiddetta ‘era newtoniana‘, momento in cui la fisica classica raggiunse il proprio apice e fu deciso, una volta per tutte, che la materia era contenuta nello spazio, il quale veniva considerato come ricettacolo del contenuto materiale. La grande scoperta fatta da Newton fu la legge di gravità, la tensione esistente tra segmenti di materia fra loro relazionati a causa della reciproca massa e distanza.

Oggi però, sul finire del ventesimo secolo, veniamo inevitabilmente a confrontarci con scoperte ancor più rilevanti che ci costringono a formarci un quadro ben strano del mondo della materia, di fronte al quale lo stesso Newton resterebbe sorpreso se si trovasse a vivere ai giorni nostri. Ecco che neppure gli atomi sembrano più esistere. C’è solo un flusso continuo di energia che non ci permette demarcazioni nette tra terra, acqua, fuoco, aria ed etere. Ma non siamo qui per discutere di scienza, ed un accenno a tutto questo è stato fatto solo come una specie d’introduzione preliminare alle modalità con le quali la scienza si è andata muovendo nella sua ricerca della realtà. Il nostro interesse in materia è d’ordine filosofico.

A cosa ci conduce infine tutto ciò? A che punto siamo dopo tutte queste scoperte? Siamo più edotti oggi sulla natura della verità di quanto lo eravamo all’epoca in cui ci veniva detto che tutto si compone di soli cinque elementi nella loro forma fondamentale? Stiamo meglio oggi dal punto di vista sociale, filosofico, religioso, etico o spirituale per il semplice fatto di aver scoperto un continuum di energia nell’universo al posto dei cinque elementi primordiali? Il punto cruciale della questione continua ad eludere la nostra presa. Le nostre ricerche non sono dirette a scoprire ciò di cui la materia è costituita: non è questo che in realtà ci interessa. Non ci è di nessun aiuto sapere ciò che un altro possiede: voi potreste possedere qualsiasi cosa, e a

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me cosa dovrebbe importare? Perché mai dovrei stare ad indagare sulle vostre proprietà, il vostro conto in banca, le vostre relazioni sociali e tutto il resto? Nulla me ne verrebbe, chiunque voi siate, a meno che esista tra queste informazioni e la mia vita un qualche nesso sul quale io stia investigando.

Che vantaggi ricaviamo da queste scoperte? Se il mondo è un continuum di energia, a noi cosa ne viene? Stiamo forse meglio? Sappiamo bene che siamo oggi nelle stesse condizioni, per quanto riguarda le nostre vite personali e sociali, le nostre aspirazioni e esigenze, nelle quali si devono essere trovati i nostri antenati secoli addietro. E allora, dov’è il nocciolo della questione? Ecco un punto che è stato per qualche motivo trascurato. È questo il difetto di un approccio puramente scientifico di tipo sperimentale, mentre il vantaggio delle scoperte scientifiche consiste invece nel rapido sviluppo tecnologico dell’epoca in cui viviamo. Abbiamo aereoplani velocissimi, sofisticati sottomarini e aggeggi d’ogni sorta: sono tutte scoperte, invenzioni che derivano dalle nozioni oggi acquisite sui componenti della materia. Ma tutto ciò, in fin dei conti, non ci dispensa dal vivere in uno stato d’infelicità e di ansia, per via del fatto manifesto che le nostre essenze non trovano connessione con queste scoperte. Esiste, per dirla in maniera più tecnica, come un abisso epistemologico tra il conoscitore e il conosciuto. Il modello conoscitivo resta lo stesso, oggi come qualche migliaio di anni fa. E qual’è il modello conoscitivo al quale ci stiamo riferendo? È qui che lo studioso deve concentrare la sua attenzione, dato che si tratta di un tema un po’ insolito e forse di difficile comprensione, ed è qui che si trova il nocciolo di tutta la questione.

La nostra vita è inseparabile dalla nostra esperienza. Ciò che chiamiamo vita non è altro che esperienza, ed è questo un punto importante da ricordare. E l’esperienza, di qualunque natura essa sia, è inseparabile dalla consapevolezza di quell’esperienza. Non esiste esperienza senza la relativa consapevolezza: siamo consci di andare soggetti ad un processo o di trovarci in uno stato di esperienza. Se la consapevolezza non è presente, non possiamo dirci in uno stato qualsiasi d’esperienza: l’assenza di esperienza è assenza della consapevolezza di ciò che sta accadendo. Ora, essendo la nostra vita equivalente all’esperienza conscia, e volendo basare la nostra ricerca della realtà sull’osservazione e l’esperimento alla maniera della scienza, è nostro compito scoprire in che modo lo scenario esteriore della Natura, così come si presenta ai nostri occhi dal punto di vista della ricerca scientifica, è connesso alla nostra vita personale.

Il mondo è altrettanto ingovernabile oggi di quanto lo era tanti anni fa. Col semplice affermare che esiste nell’universo un continuum di energia, invece che cinque elementi, nonabbiamo di certo migliorato le cose: significa in fin dei conti la stessa cosa. E perché maidovrebbe voler dire la stessa cosa, perché non fa differenza? Perché la nostra incongruenza col mondo rimane oggi la stessa di ieri. Il nostro tormento è dovuto al fatto di trovarci defraudati delle cose che definiamo reali o realtà. La terra e l’acqua, il fuoco e l’aria non si trovano sotto il nostro controllo; e l’immensità dello spazio ci lascia senza fiato.

Allo stesso modo non siamo oggi in grado di controllare gli atomi, gli elettroni, le energie o le forze che dir si voglia, perché ci troviamo al di fuori

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di essi. La nostra vita, per ricordarlo nuovamente, è funzione della coscienza, e nella misura in cui la nostra coscienza non è in rapporto con la realtà di cui siamo alla ricerca, noi non ci troviamo in possesso di tale realtà; e nella misura in cui non ne siamo in possesso, non abbiamo praticamente nulla a che fare con essa. È come un tesoro che appartiene a qualcun altro, del quale abbiamo solo informazioni teoriche e col quale non esiste, in pratica, nessuna relazione. La nostra separazione dalla realtà — e accontentiamoci per il momento della definizione scientifica di realtà in quanto oggetti esterni, il mondo che vediamo — è proporzionale alla nostra debolezza. La nostra forza aumenta coll’intensificarsi del nostro controllo sulla realtà, del nostro possesso della realtà.

Quanto più ci troviamo in possesso della realtà, tanto maggiore è il potere che siamo in grado di esternare. E cosa s’intende per possesso? Possedere un oggetto, possedere qualcosa a tutti gli effetti pratici, significa essere ad esso costantemente collegati, in maniera inseparabile. Vi farò un esempio di ciò che significa potere, e di ciò che non significa. Noi esercitiamo un dominio sugli arti del nostro corpo: io posso sollevare la mia mano a mio piacimento, senza alcuna difficoltà. Pur essendo la zampa di un elefante molto pesante, l’elefante è in grado di sollevare la propria zampa. L’elefante può issare il proprio corpo intero, nonostante il fatto che un centinaio di persone non bastino a sollevare un elefante. Può darsi che io non sia capace di sollevare il vostro corpo, ma voi lo potete; e voi potreste non riuscire ad alzare il mio, ma io lo posso. Cos’è questo mistero? Da dove viene questa forza con la quale io sono in grado di sollevare il mio corpo e farlo camminare? Il motivo risiede nel fatto che la mia consapevolezza è tutt’uno con la mia realtà, che è poi questo corpo: non si trova al di fuori. E voi non potete sollevare il mio corpo, né io il vostro, perché la vostra consapevolezza non è collegata al mio corpo, né la mia al vostro. L’analogia è chiara e semplice quanto basta.

Tutto si spiega col fatto che il potere equivale all’unione della consapevolezza col suo oggetto. Il contenuto della coscienza non dovrebbe trovarsi al di fuori della coscienza stessa, se è un dominio effettivo quello che si vuole esercitare. Finchè il contenuto resta all’esterno, lacoscienza non ne può assumere il controllo. Non c’è scienziato, dunque, che possa controllarel’universo o instaurare con esso una relazione sufficiente o cospicua che sia, poichè lo scienziato rimane un burattino in mano a quegli stessi poteri che viene a scoprire, e dei quali si rende oggi conto d’essere parte inseparabile. Ma nonostante tutti i suoi possibili difetti, la scienza ci ha risvegliato ad un’importante verità: conoscere il mondo significa conoscere noi stessi. C’è da restar sorpresi che sia proprio la scienza a metterci di fronte ad una simile realtà. Eppure è proprio così: in qualche modo, potremmo dire per caso, è andata ad inciampare su questo dato di fatto.

Non ci è dato di conoscere l’universo a meno di conoscere noi stessi. Mentre questa è una verità, lo è anche al tempo stesso il suo contrario: non possiamo veramente conoscere noi stessi a meno che conosciamo l’universo intero. Una cosa equivale all’altra. Ma com’è che la scienza ci porta ad una simile conclusione? Il segreto sta nella scoperta di un indivisibile continuum in Natura, al di fuori del quale nessun individuo, né cosa alcuna, può esistere. Il continuum spazio-temporale del cosmo della relatività, di cui gli scienziati

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oggi parlano, include voi stessi, me stesso, e tutte le cose. Nessuno può starne al di fuori. Non siamo che un mulinello in quest’oceano di forza chiamato continuum spazio-temporale : come potremmo conoscerlo se non conoscendo anche noi stessi, dal momento che ne siamo parte integrante? E questo diviene ancor più evidente se pensiamo al fatto che conoscere significa avere una consapevolezza dell’accadimento; e la consapevolezza è un fattore essenziale del nostro essere. Il nostro essere e la nostra consapevolezza d’essere sono la stessa cosa, e non due cose distinte.

Nel momento stesso in cui affermiamo d’esistere, diamo per implicito d’essere consapevoli della nostra esistenza. L’esistenza delle cose è inseparabile dalla coscienza dell’esistenza delle cose. Visto che abbiamo stabilito che l’esistenza consiste d’un flusso ininterrotto, intimamente inscindibile, senza alcuna soluzione di continuità, conoscere l’universo vorrebbe dire essere consci dell’universo. Ma in che maniera? Non si tratta qui del tipo di consapevolezza del mondo che abbiamo attualmente: l’essere consapevoli, ad esempio, dell’esistenza di una montagna di fronte a noi. Non è questa la consapevolezza alla quale ci stiamo qui riferendo.

Come abbiamo detto, la coscienza non può essere separata dall’esistenza delle cose, e visto che l’esistenza delle cose è stata definita come equivalente ad un flusso continuo ed onnicomprensivo di processi ed energie, questa rivelazione approda ad una conclusione così sorprendente da lasciarci sconcertati: ne consegue che la conoscenza di una qualsiasi cosa equivarrebbe all’essere cosmicamente consapevoli. Non possiamo conoscere una sola cosa al mondo a meno che la nostra coscienza si risvegli all’universalità. Non possiamo conoscere noi stessi, né un granello di sabbia sulla riva del fiume, a meno d’essere onniscienti. E ciò che la religione chiama Dio non è null’altro che questo stato di coscienza, nel quale conoscere è uguale ad essere. Non è di questo argomento che si occupano la scienza in generale o la fisica in particolare, eppure ci hanno fatto approdare volenti o nolenti a questa conclusione per via d’una forza matematica di deduzione logica. Ecco uno dei grandi vantaggi che la scienza ci offre, a fronte di tutti gli orrori che le sue aberrazioni tecnologiche hanno invece generato.

Ma ciò che la scienza ci può suggerire non si esaurisce qui, dato che finora abbiamo parlato solo di fisica, e la fisica non rappresenta certo l’intero panorama scientifico. Chi studia scienze sa che c’è dell’altro: esiste ciò che viene chiamato vita. Gli esseri viventi sono diversi dalla materia inanimata. Il mondo della fisica e della chimica è diverso da quello della vita e degli esseri viventi. Oltre all’astronomia, alla fisica e alla chimica, che si occupano più che altro di materia inorganica, vi sono le scienze biologiche che studiano gli organismi viventi e cercano di capire cosa sia la vita.

Abbiamo qui una cosa di raro interesse da osservare. Cos’è la biologia? Cos’è lo studio della vita, degli esseri viventi, e perché viene definito come scienza? Lo definiamo così perché siamo soliti identificare la scienza col processo di osservazione ed esperimento. E su cos’è chei biologi hanno condotto le loro osservazioni ed esperimenti? Le funzioni della vita: questo è illoro campo di ricerca. La vita in sé non può essere però osservata. Non posso vedere con i miei occhi la vita nelle persone che mi stanno sedute di fronte: posso solo vedere movimenti e sintomi della presenza della vita. E così anche la biologia, in quanto scienza, è stata capace di spingersi solo fino al punto in cui possono essere osservati i sintomi dell’esistenza della vita, ma

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non la vita in sé. Non ci è dato di vedere la vita con alcun tipo di apparecchio o strumento.

Ma come facciamo a sapere che un corpo vivo è differente da uno morto, che un albero è diverso da una pietra? Lo sappiamo per via di certi indizi della presenza di vita in ciò chedefiniamo un corpo vivente, e che non sono presenti in ciò che chiamiamo materia inerte. Ciimbattiamo qui, di nuovo, in un difetto del procedimento scientifico: ci ritroviamo ad aver già standardizzato i sintomi della vita. Solo nel caso che il tale processo venga osservato, la qualifica di vita viene attribuita. Abbiamo preso per buono questo criterio di valutazione: abbiamo concluso che, per considerare una cosa come vivente, essa deve possedere determinate caratteristiche. Se queste non sono presenti, quella cosa viene da noi considerata

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inorganica. Questo però non è altro che un preconcetto del metodo scientifico, e ne è appunto il difetto.

Perché mai dovremmo standardizzare i sintomi della vita? Questa standardizzazione ci si ripresenta in continuazione, condizionata com’è da certe definizioni che noi stessi formiamo nella nostra mente. La mera constatazione dell’esistenza di determinati movimenti nel mondo della materia non può venir equiparata alla scoperta del segreto della vita. Prendiamo la questione di come la vita abbia avuto origine, una domanda vecchia quanto il mondo. Geologi e astronomi ci dicono che questa Terra ha avuto origine dal Sole, cosa che viene praticamente accettata come un dato di fatto, e che probabilmente è un fatto vero. C’era un tempo in cui la Terra non esisteva. La Terra è un frammento della rovente massa del Sole, staccatosi a causa del movimento centrifugo del Sole, come ritengono alcuni, o con la tremenda frizione creatasi nella massa solare per via della prossimità di un’altra stella che passava lì vicino, secondo altri; ed è così che si suppone che questo pianeta si sia venuto a formare. Due sono, insomma, le ipotesi che sono state avanzate. Una ritiene che il Sole abbia subìto una digressione nel movimento ad una velocità tremenda, durante la quale se n’è staccato un frammento. La seconda sostiene che una trazione gravitazionale esercitata da un’altra stella che transitava nelle vicinanze del Sole ne abbia fatto staccare una porzione, che s’è scagliata nello spazio a grande velocità con la sua massa ardente, fuoco nella sua essenza. Il fuoco s’è poi andato raffreddando in liquido, che gradualmente s’è solidificato in terra: e la storia è tutta qua.

Ma in tutto ciò la vita dov’è? Non scorgiamo esseri viventi nel quadro che ci viene proposto, solo fuoco e acqua e terra inanimata. Ci dicono allora che la vita dev’essere giunta a noi da qualche altro pianeta. D’accordo, ma sembra tanto la vecchia storia dell’uovo e lagallina: quale dei due sarà nato prima? E la nostra domanda resta: come ha avuto origine lavita? Dicendo semplicemente che è venuta da un altro pianeta non abbiamo risposto alla domanda, dal momento che ne sorgerebbe subito un’altra: “... e come ha avuto origine la vita lì?”. Potremmo dire che è venuta da un terzo pianeta, e così via. Nessuno sa come la vita abbia avuto origine: è a tutt’oggi un mistero.

Come possono degli esseri viventi scaturire dalle masse roventi delle stelle? Si sentono raccontare casi di germi che si autogenerano da acque stagnanti, insetti che sorgono da cumuli di letame, e cose del genere. Com’è possibile? Si dice che gli scorpioni siano stati generati dalletame, o almeno questa è una teoria. Be’, gli scorpioni sono dotati di vita, e il letame no.Come può la vita derivare dalla non-vita? E così la biologia si trova infine davanti uno schermo scuro, e la scoperta della vita finisce in un modo o nell’altro col diventare un’inferenza piuttosto che un’osservazione.

C’è gente che pensa che la biologia non sia una scienza esatta, mentre la fisica e la chimica lo sono. La biologia non sarebbe una scienza esatta perché i suoi procedimenti comportano una certa dose di inferenza, dato che gli esperimenti e le osservazioni da soli non sembrano essere sufficienti. Ma di che genere di inferenza si tratta? Ci addentriamo qui nel profondo della biologia. Dobbiamo comunque ricordarci che argomento della nostra discussione è l’approccio oggettivo della scienza, per cercare di capire fin dove ci ha condotti e a che punto ci costringe a fermarci, quali sono i suoi eventuali difetti e perché in ultima analisi non può esserci d’aiuto.

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La fisica, la chimica e l’astronomia ci hanno lasciati a metà strada, e pare che anche la biologia non possa far altro che lasciarci in sospeso da qualche parte, non essendo in grado di condurci oltre perché la vita è imperscrutabile. Noi non sappiamo cosa significhi vita. Quando diciamo “io sono vivo”, cos’è che vogliamo dire in realtà? Forse vogliamo dire che ci muoviamo. Possiamo dire che un carro di buoi è un essere vivente solo perché si muove? Un’automobile è forse viva? Col termine vita vogliamo dunque intendere qualcosa di ben diverso dalla semplice locomozione.

È assai difficile rispondere alla domanda “cos’è la vita?”. Se dico “io vivo, io sono vivo”, voglio intendere una cosa del tutto diversa dalla semplice locomozione del corpo. Qual’è allora il punto cruciale nella ricerca biologica? Giungiamo qui ad una svolta del tutto imprevista nel nostro approccio, e ci vediamo costretti ad accettare il fatto che la vita corrisponde ad un’intenzionalità nell’essere: essere vivi significa essere teleologicamente consapevoli. Noi ci distinguiamo per dei movimenti intenzionali, e non soltanto per dei movimenti meccanici come nel caso di un’automobile o di un carro di buoi, che vanno in qualunque direzione li si mandi e in un modo qualsiasi. I nostri movimenti sono intenzionali, guidati, pregni di uno scopo, ed è questo che s’intende per movimento teleologico. Ora, che anche questa sia una risposta non del tutto soddisfacente lo si noterà nel sottoporre la questione ad ulteriori considerazioni.

Quando dico “sono vivo perché ho un’esistenza intenzionale, e non solo un moto meccanico”, devo spiegare cosa intendo per intenzionalità. È interessante notare come entriamo, passo dopo passo, in difficoltà di volta in volta maggiori. Che cosa intendiamo per esistenza intenzionale? Starebbe a significare, almeno a grandi linee, la consapevolezza della meta che uno ha di fronte a sé. Ed ecco che intravediamo in che direzione ci stiamo, di nuovo, pericolosamente muovendo. Abbiamo cominciato dalla scienza, e a che siamo giunti? Alla conclusione che l’essere consci d’una meta di fronte a noi significa essere intenzionali. Ecco che la vita risulta, ancora una volta, inseparabile da uno stato di coscienza. E anche la biologia, alla fine dei conti, ci lascia allo stesso punto in cui la fisica ci aveva abbandonati.

Per quanto ci possiamo provare, non riusciamo a sfuggire al postulato secondo cui la nostra esistenza non può andare disgiunta dal principio fondamentale della coscienza, che ci si ripropone in qualsiasi cosa noi facciamo, in qualunque direzione ci muoviamo. Le scienze di base — astronomia, fisica, chimica e biologia — hanno dopotutto una cosa da dire in comune. In fin dei conti ci dicono tutte la stessa cosa, e attraverso l’enunciazione di una verità che sta al di là della loro giurisdizione esse, in quanto scienze, eccedono i propri limiti. La scienza diventa allora filosofia.

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LA RICERCA INTERIORE

È il caso di tornare a sottolineare, perché lo si tenga ben presente, che i nostri studi non devono ridursi ad un’accozzaglia di informazioni saccheggiate dai libri. Non siamo collegiali che si comportano da studenti nell’aula e da animali fuori: il nostro obiettivo è ben altro. Non prendiamo neppure in considerazione l’eventualità di vivere come animali che si avventano l’uno contro l’altro, dal momento che non facciamo abbastanza neanche vivendo semplicemente da esseri umani. Non c’è bisogno che vi dica che non dovremmo vivere come animali, ma è bene che vi rammenti che vivere da semplici esseri umani non è sufficiente.

Facciamo sempre una certa distinzione tra la nostra vita di laboratorio e la nostra vita pubblica: siamo scienziati nei laboratori ma persone comuni nei negozi, nelle stazioni ferroviarie, alle fermate degli autobus. Per conseguenza i nostri studi nelle varie scuole,università e istituzioni finiscono col farci sentire stanchi di questo tipo di vita, qualunque sia laposizione che ci troviamo ad occupare, ed ecco la ragione per cui cerchiamo, quando possibile, di trovare un po’ di tempo per pensare in maniera differente. Niente di più facile che studiare. Esistono innumerevoli scuole al mondo, ma sembra poi che il risultato di tanti studi sia il riversarsi di una marea di emozioni e sentimenti nelle menti delle persone, da cui nasce per conseguenza una specie di stato di guerra permanente che minaccia ad ogni momento di deflagrare, tanto che riesce difficile imbattersi in una sola persona che possa dormire sonni tranquilli, libera dall’ansia. Ce ne siamo già accorti, lo sappiamo benissimo, eppure continuiamo a vivere immersi in quest’atmosfera. Ma ne abbiamo fin sopra ai capelli: ci rendiamo conto che c’è un qualche errore fondamentale alla base del nostro modo di vivere e di pensare, ed esso rende futili tutti i nostri studi, attraverso i quali non siamo purtroppo approdati a nulla.

Per scoprire dove risiede l’errore non è alle Upanishad o alla Bibbia che ci dobbiamo rivolgere. Possiamo tornare a leggere le sacre scritture centinaia di volte, ma resteremo sempre le stesse persone, nulla andrebbe a modificare le nostre personalità. Non è lo studio in quel senso che stiamo qui considerando. Sappiamo di gente che ha studiato più che molti di noi, ma sono studi che non hanno sortito alcun effetto desiderabile, tranne quello di sobbarcarci col fardello d’una quantità di informazioni, e spesso d’un mucchio di spazzatura, che non fanno altro che tenerci in uno stato di pingue egoismo e anima vuota.

Se non siamo capaci di essere seri rispetto a noi stessi, come possiamo 30

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esserlo col mondo che ci circonda? Chi mai si butterebbe di propria iniziativa nell’abisso dell’inferno? Ma è proprio quello che potrebbe succederci nel malaugurato caso che il significato reale della vita che conduciamo ci sfugga. Torniamo ad un esempio empirico: cos’è che vediamo? Vediamo della gente intorno a noi. Vediamo la gente così come chiunque altro la vede? Anche un maiale vede la gente là fuori, come noi. Ma esiste una differenza tra come il porco vede e come noi vediamo? Se non ci fosse differenza sarebbe ridicolo definirci persone raffinate e colte. Se è vero che i nostri occhi sono fatti come quelli di un porco e se nessuna trasformazione di valori ha avuto luogo nel corso dei nostri studi, se ci troviamo a vivere in modo uguale a chiunque altro, allora è giunta l’ora di ripercorrere i nostri passi dal momento dell’approccio ai nostri cosiddetti studi e tracciare una panoramica retrospettiva dei nostri errori. Non dovremmo però metterci in testa che sono i nostri studi ad essere inadeguati, e che è per questo che non riusciamo ad essere felici. Può darsi che siano stati eccellenti, nessuno lo nega, ma in essi evidentemente non c’era quel significato, quel proposito, quella sostanza che ci sono indispensabili.

Dopo aver fatto il bagno a un elefante, avremo lo stesso elefante di prima meno la sporcizia che è stata lavata via. È altrettanto ovvio che il panorama della vita non possa cambiare, e quanto sia difficile che cambi, finchè guardiamo con gli occhi di sempre e non con altri. Se ci fosse possibile vedere le cose con occhi completamente diversi da quelli che veniamo usando fin dall’infanzia, allora forse i nostri tentativi potrebbero dare frutti di un qualche valore e significato. Ma se ci ostiniamo a guardare con gli stessi occhi, vedremo ovviamente le stesse cose; se usiamo sempre lo stesso telescopio o microscopio, vedremo sempre le stesse cose. Ma ci è poi dato di cambiare questo telescopio o microscopio che sia, e vedere le cose diversamente, come realmente sono, e non nel modo in cui appaiono agli strumenti dei nostri occhi? Dobbiamo essere onesti con noi stessi, ché ingannarsi è facile. Può essere un po’ più difficile ingannare gli altri, ma è facile che a noi stessi succeda di uscir di carreggiata, dato che la mente ha una propensione naturale a vagheggiare.

I nostri studi, per risultare degni d’essere intrapresi, hanno uno scopo ben diverso da quelli ai quali la gente di solito si applica su libri di testo o nelle aule delle tante istituzioni che si dedicano alle varie arti e scienze del mondo. La nostra può sembrare un’aula dal punto di vista strutturale, ma non vuole limitarsi a questo. Si presume che dovremmo alzarci da qui con spirito rinnovato. Ma se lo spirito ne esce uguale a quello che è entrato qui un’ora fa — languido, abbattuto e lamentoso, incapace di scorgere attorno a sé altro che bruttura, ostilità e tutte le disparità comuni alla percezione umana, la quale contiene in sé tendenze sotterranee a valori che sono anche animali — allora è con noi stessi, e non col mondo, che dovremmo prendercela.

È questo un aspetto che abbiamo già sottolineato in precedenza: dovremmo essere vigili in relazione a noi stessi, e non stare semplicemente attenti a ciò che accade nel mondo là fuori. Esiste in noi una certa incapacità di adattamento connessa ad uno sconvolgimento delsenso dei valori, cosa che ci lascia in una posizione non esattamente invidiabile. Siamo allaricerca di fatti, di verità, di realtà, e non abbiamo trovato nulla di simile. Tutto è in movimento, tutto passa, tutto cambia, ed anche le nostre idee rispetto alle cose cambiano. Ma in ultima analisi non abbiamo scoperto nulla al mondo che abbia un effettivo valore o che si possa definire reale.

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Abbiamo fatto del nostro meglio per sondare la natura delle cose del mondo là fuori e non abbiamo visto nulla, ci siamo trovati davanti solo muri contro i quali battere la testa. Ciò che ci resta di fronte è un mondo fatto di pietre e alberi, privo di valori degni di considerazioneche ci facciano del bene nel vero senso della parola.

Come abbiamo avuto modo di notare, l’indagine esteriore ci conduce in definitiva ad un insuccesso, per la semplice ragione che le cose che vediamo sono a noi esterne. Una cosa che sia veramente esterna non potrà mai venire in contatto con noi, perché l’abbiamo già classificata come estranea. Una cosa che ci sia esterna non potrà mai diventare parte della nostra conoscenza.

Cosa s’intende per conoscenza? S’intende un’assimilazione dell’oggetto nella consapevolezza. Se io ti assimilo nella mia coscienza ti conosco, ma se resti fuori di me come uno straniero, come un oggetto da me completamente segregato, non posso conoscerti. Ogni conoscimento è partecipazione al contenuto. La partecipazione implica la nostra capacità d’entrare nella natura dell’oggetto e la capacità intrinseca dell’oggetto d’entrare a far parte della natura del nostro essere, della nostra conoscenza. Si tratta d’una reciproca assimilazione della natura delle cose. Se io fossi totalmente al di fuori di te e tu completamente al di fuori di me, non esisterebbe convergenza tra noi due: io non potrei conoscerti e tu non potresti conoscere me.

Ed è proprio quello che è successo con le moderne osservazioni scientifiche: se la scienza non è che un’osservazione di oggetti, considerati come oggetti che nulla hanno a che fare col soggetto che li osserva, allora la scienza non può darci conoscenza. Può darci di un oggetto solo informazioni descrittive, la lunghezza e la larghezza, il peso e la massa, la forma e il colore, etc. Io non posso conoscerti pur conoscendo la tua altezza, peso e circonferenza, il tuo colore e forma, le tue fattezze o persino la struttura chimica del tuo corpo. Potrei essere a conoscenza di tutto questo, eppure non conoscerti affatto.

Conoscersi fisicamente, chimicamente e biologicamente non vuol dire conoscersi, poichè dal punto di vista fisico, chimico e biologico uno è uguale a tutti gli altri. La stessa sostanza la si ritrova in ogni persona, in ogni cosa: Terra, Acqua, Fuoco, Aria ed Etere sono gli elementi che compongono il corpo fisico d’ogni e ciascun individuo al mondo, di modo che studiare un corpo equivale a studiarne qualunque altro. Perché allora ci sono molte persone e molte cose, se tutto si equivale in termini di struttura fisica? L’osservazione scientifica può essere temporaneamente d’aiuto alla nostra vita fisica e sociale, ma non è conoscenza reale, con essa nulla può essere realmente conosciuto, neppure un atomo, fintanto che esso resta al di fuori.

Il mondo là fuori è un mondo fantastico. Possiede un peso tremendo, spaventoso, dato che ogni cosa che sta là fuori è una potenziale fonte di paura, di ansia e insicurezza. Una grande massima delle Upanishad afferma che la paura sorge a causa della dualità. La nostra paura è generata dal fatto che c’è qualcos’altro al di fuori di noi, e in quanto un altro esiste noi saremo costretti ad uno stato d’afflizione generato dalla paura. E la paura nasce dal fatto che esiste qualcosa che è indipendente da noi, che ci contende la realtà e che rivendica una condizione pari alla nostra. Potrebbe trattarsi anche di un solo granello di sabbia, ma noi non possiamo tollerarne la presenza qualora si trovi al di fuori di noi. Ci sentiamo infastiditi dal solo fatto che esista

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qualcosa a noi totalmente alieno.Fate conto di stare nel mezzo di un gruppo di persone a voi totalmente

estranee: vi sentireste a disagio, sareste spinti ad uscire da quell’ambiente per ritrovarvi in una cerchia di gente che vi sia più congeniale. A voi piace stare in amicizia, e non con ‘tipi strani’. E che s’intende per amicizia? È una tendenza all’assimilazione dell’uno nell’altro. Amicizia è un termine sociale, una parola che sta ad indicare la tendenza di un individuo ad entrare a far parte dell’essere di un altro. Non siete mai effettivamente entrati nell’essere di qualcun altro, non c’è dubbio, ma esiste per lo meno una tendenza a farlo, ed è appunto quella che viene chiamata amicizia. Abbiamo una propensione ad entrare nei nostri simili; potremmo non aver ancora mosso il primo passo, eppure proviamo il desiderio di dare quel passo che ci porti ad entrare a far parte dell’essere dell’amico. Questo è amore, questo è affetto, questa è amicizia. Ma se quella tendenza è assente, non vogliamo altro che distogliere il nostro essere da quello degli altri. E questo è l’opposto dell’amore, dell’affetto e dell’amicizia. La tendenza all’amicizia è anche tendenza ad unirsi all’oggetto di percezione desiderato.

Ogni tipo d’amore anela all’unione del soggetto con l’oggetto. In realtà quest’unione non arriva mai a realizzarsi, ed ecco perché gli amori, nelle più svariate circostanze, finisconoin frustrazione. Non ci è possibile giungere all’unione con nulla, in definitiva, e tuttavia sussiste il desiderio di trovarci uniti alle cose. Quel desiderio è ciò che chiamiamo amore e altruismo. Quel desiderio di far traboccare il nostro essere nella sfera d’esistenza di un altro è amore. Non vogliamo restare rinchiusi nei nostri corpi: l’altruismo è il desiderio di uscire dai nostri corpi ed entrare nei corpi altrui.

Non è cosa facile da realizzare. Non ci è permesso di entrare nel corpo di cosa alcuna, eppure ne sentiamo il desiderio. Questo desiderio è ciò che chiamiamo amore, e l’esistenza stessa dell’amore indica la possibilità, in determinate circostanze, di una simile unione. In certe condizioni l’unione effettivamente si concretizza, e questo è quanto ci accingiamo a studiare. In quali condizioni l’unione tra noi e le cose diviene possibile? In circostanze normali non sarebbe una cosa fattibile, poichè la struttura del mondo fisico è tale da non permettere una simile unione. Vi è ciò che chiamiamo spazio a non permettere l’unificazione di due oggetti differenti; c’è il fattore tempo, la causalità, ci sono pregiudizi sociali e ambizioni personali, tutte cose che ci scavano il terreno sotto ai piedi ancor prima di cominciare.

Ma del fatto che ciò sia possibile al di là d’ogni dubbio ne sono prova i nostri slanci interiori ed il nostro intenso desiderio di concretizzare questo obiettivo. Abbiamo fatto del nostro meglio per conquistare la Natura, per conoscerla, per diventare un tutt’uno con essa,per mettere le briglie ai suoi poteri e per trovarci con essa in armonia. Ci ha provato la scienza ma non c’è riuscita perché, malauguratamente, la Natura ha sempre trovato il modo di restare un oggetto estraneo all’osservatore scientifico. Come l’orizzonte che s’allontana quanto più gli andiamo incontro, così gli oggetti degli scienziati — chiamateli elettroni o come altro volete — si fanno sempre più lontani, sottraendosi alla presa dell’osservatore. Ancora oggi nessuno ha capito cosa sia un elettrone, dal momento che lo si colloca al di fuori, e chi potrebbe mai conoscerlo?

Dell’approccio oggettivo della scienza tutto quello che ci resta sono delle ricerche inconcludenti. Non abbiamo trovato la realtà nella scienza, e non l’abbiamo trovata in nessun luogo al mondo. Ma allora, abbiamo o no una via d’uscita? Come già si è detto, possiamo vedere le cose da tre angolazioni:

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possiamo guardare al di fuori; possiamo guardarci dentro; possiamo guardare in alto. Ecco i tre diversi modi di guardare alle cose. Al di fuori abbiamo già guardato e non abbiamo trovato nulla, o almeno nulla di soddisfacente.

Proviamo allora a guardare dentro, e vediamo cosa troviamo. È l’approccio soggettivo, diametralmente opposto al metodo oggettivo della scienza. Cosa vediamo quando rivolgiamo lo sguardo all’interno? Vediamo noi stessi. Chiudiamo gli occhi, e osserviamo cosa c’è lì dentro. Non possiamo vedere nulla di ciò che sta fuori; scorgiamo invece la nostra personalità e cominciamo a chiederci di cosa sia fatta. Cosa sono io? Cercare una risposta a questa domanda è ciò che si propone la psicologia col suo approccio soggettivo.

Vediamo adesso cosa ne esce fuori da questa indagine. Ci ritroveremo ad approdare alla stessa infelice situazione in cui ci aveva lasciato l’approccio esteriore, o ne verrà fuori qualcosa di diverso? Ci guardiamo dentro e vediamo il corpo: ne vediamo la strutturaanatomica e fisiologica, la pelle e le ossa, la carne e il midollo, il sangue e tutte le variestrutture biologiche del corpo fisico.

Quando vi viene chiesto “chi siete?”, rispondete “sono il figlio o la figlia di Tal dei Tali, il fratello o la sorella di Tizio e Caio”, o con qualche altra definizione del genere che possa servire da descrizione di voi stessi. Definendovi così volete solo dire che siete un corpo, e questo è tutto. Non vuol dire null’altro. Come potreste altrimenti essere il figlio o la figlia di qualcuno?2Non ha altro significato se non quello di affermare che siete un corpo. Ma vediamo se il nostro sguardo sa spingersi solo fin qua, e non un poco oltre.

Siamo davvero vivi solo in quanto corpi, e nulla più? Proviamo a dare al corpo tutto ciò di cui ha bisogno e vediamo se siamo soddisfatti. Concediamoci una buona colazione, pranzo e cena, e poi un buon sonno. Che altro può desiderare il corpo? Mettiamo che tutte queste coseci vengano date, cibo e vestiti e una casa dove vivere. Sono queste le cose necessarie alcorpo, e il corpo è soddisfatto. E a noi basterà così poco per dirci contenti? No, non è semplicemente di questo che la gente ha bisogno: non è solo cibo, vestiario e un tetto quello che ci serve. Sono esigenze del nostro corpo, e saranno senza dubbio delle necessità, ma non è tutto qui.

Chi tutte queste cose le ha, sta pur sempre alla ricerca di qualcos’altro. Ci sono persone, da noi definite benestanti, che godono di tutti questi agi e ciò nonostante sono sempre alla ricerca di qualche nuovo strumento di benessere. È che il mero sollievo dei loro bisogni fisici non li soddisfa, per la semplice ragione che non sono solo corpi fisici. C’è qualcos’altro dentro di loro che richiede pure un certo tipo di alimento, così come il corpo necessita di cibo materiale.

Che altro siamo, allora, oltre che corpi? A volerci addentrare nei meandri dei nostri corpi non vi troveremmo nulla che non sia struttura fisica. Un’amputazione o un’operazione sul corpo fisico non ci mostreranno null’altro che strati di materia fisica. È invece esplorandoun differente stato della nostra esistenza, nel quale ci veniamo quotidianamente a trovare, chepotremo scoprire degli elementi della nostra personalità diversi dal corpo fisico: stiamo parlando del sogno. Nei sogni il nostro corpo non interviene, eppure in essi noi sperimentiamo un’esistenza indipendente, proprio come nella condizione di veglia. E allora, esistevamo o no nel sogno? Sì, certo che

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esistevamo. E cos’è che vi si trovava? Non certo il corpo fisico. E cos’altro allora? Bene, qualcos’altro c’era, e questo qualcosa era la sola mente.

Che esistevamo nel sogno in quanto mente è cosa ovvia, non richiede molte spiegazioni o commenti. Provavamo gioie e dolori nel sogno, simili a quelli che sperimentiamo nello stato di veglia. Eravamo nel sogno esattamente gli stessi che siamo da svegli, a tutti gli effetti pratici dell’esperienza. Vedevamo cose, c’imbattevamo in vari fenomeni, eravamo felici o tristi, nello stesso modo che ci capita di sperimentare nella condizione di veglia. Ciò significa che possiamo provare, indipendentemente dal corpo, gli stessi tipi di esperienze che provavamo col corpo, attraverso il corpo, in termini di corpo. L’esistere o non esistere corporalmente non determina un divario con le esperienze di un altro strato della nostra personalità, che è dotato di vita propria e col quale ci possiamo identificare.

Il fenomeno onirico sta a dimostrare che noi siamo qualcosa di più che un corpo, e che possiamo esistere senza di esso. Nel sogno esistevamo senza alcuna connessione col corpo, e passavamo attraverso tutte le esperienze dello stato di veglia in maniera indipendente dal corpo. Il corpo veniva usato solo come uno strumento, ma non era la nostra vera personalità.

Che cosa siamo, in realtà? Che cosa scopriamo quando ci sprofondiamo dentro noi stessi? Ci rendiamo conto d’essere una mente piuttosto che un corpo. È questa la ragione per cui non siamo soddisfatti neanche avendo denaro a profusione, cibo e vestiti in abbondanza, vasti giardini e sontuosi palazzi. Tutti questi agi materiali non riescono a soddisfarci, perché noi non siamo semplicemente un corpo fisico, un figlio, una figlia, o altro del genere. Siamo una mente: ed è per questo che siamo infelici. 2 Nell’originale: some body = qualche corpo, gioco di parole con somebody = qualcuno. (N.d.T.)

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Non è il corpo ad essere infelice o insoddisfatto: ha tutto, mangia bene, dorme bene, che problemi dovrebbe mai avere? Perché mai dovremmo continuare a sentirci infelici?

L’infelicità deriva dalla mente e non dal corpo. Le nostre sono difficoltà mentali, piuttosto che fisiche. La vita mentale dell’uomo assume un carattere così rilevante che le comodità materiali, al confronto, sembrano cose di poco conto. Se la nostra mente èsoddisfatta non avremo molto interesse per i piaceri fisici. Esistono vari canali di appagamentomentale capaci di sopraffare persino le esigenze del corpo fisico: a conferma di ciò non occorrono approfonditi studi o analisi, dal momento che ognuno di noi sa di cosa stiamo parlando. Se ci troviamo ad essere immensamente felici per qualche ragione capace di farci innalzare al di sopra del livello fisico, ci dimentichiamo di colazione, pranzo e sonno, e di qualsiasi altra cosa. La soddisfazione è uno stato mentale.

Noi ci sentiamo felici per qualche ragione che non è materiale, ed è allora un altro mondo quello in cui ci veniamo a trovare. È un mondo psicologico, nel quale a regnare è la mente. Se la mente si trova appagata, il mondo fisico perde per noi di consistenza. Siamo tutti, di fatto, in cerca di qualcosa di psichico, intellettuale, emozionale, volitivo, razionale. Se la nostra ragione è soddisfatta, i bisogni fisici ammontano più o meno a zero; ma pur circondati da tutti i lussi, qualora la ragione resti insoddisfatta, essi tornano a valere zero. Siamo esseri razionali, piuttosto che corpi materiali.

È questa un’interessante considerazione alla quale giungiamo andando più a fondo nelle nostre personalità: siamo menti, siamo intelletti, siamo emozioni, siamo volontà e siamo ragioni. Fino a quando la nostra natura psichica non si senta soddisfatta nelle sue esigenze, ilmondo materiale con tutte le sue ricchezze non potrà mai renderci felici. Nulla che siamateriale può darci completa soddisfazione. La soddisfazione materiale viene azzerata in un istante dall’insoddisfazione mentale. È del tutto inutile stare tanto a ricamare sulle necessità materiali, suggestionati dall’idea che siano esse la causa delle nostre afflizioni. Non sono le condizioni materiali la fonte dei nostri affanni: è la nostra struttura mentale a non trovarsi appagata nei suoi bisogni, nelle sue esigenze. La mente anela a qualcosa, così come il corpo sente bisogno di qualcosa: e i bisogni mentali sono più significativi, più importanti di quelli corporali.

Parte integrante di questo mondo psichico è ciò che chiamiamo ego. Il nostro senso dell’esistenza individuale non è un senso fisico: è piuttosto un centro psichico. “Io sono così e cosà”, “io sono questo e quello”: questo tipo di asserzione non è un atto fisico, non è il corpo afare quest’affermazione. Quando siete irritati dite: “Lei non sa chi sono io!”. Guardate al vostro avversario con aria di sfida: “Chi ti credi di essere?”. Queste frasi arroganti non provengono dal corpo: sono pretese che scaturiscono dall’interno della nostra individualità psichica come da un vulcano in eruzione, che rivendica il diritto al proprio cibo allo stesso modo in cui il corpo chiede pane. Cibo per l’ego: è questo che la gente vuole, e l’ego non può ottenerlo attraverso qualsivoglia alimento fisico o materiale di cui uno possa godere. L’ego ha fame, e noi ci sentiamo infelici.

L’uomo vorrebbe ingurgitare il mondo intero, se ciò fosse possibile. Osservate la sfrontatezza di un dittatore, di un despota che sparge terrore, o di una persona autoaffermativa ed egoista fino al midollo. La gente il cui ego è all’apice vorrebbe masticare il mondo e digerirlo, in modo da

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esistere solo loro e nessun’altra cosa al loro confronto. Il desiderio dell’ego è di distruggere il mondo, poichè l’affermazione dell’ego equivale a un’intolleranza nei confronti della presenza di altri ego. Un ego non può essere amico di un altro ego: desidera annientarlo con ogni mezzo, ed è per questo che uno si sente infastidito, molto agitato nell’incontrare un altro simile a sé. Vorrebbe piegare quell’altro, per amore o per forza. Non può tollerare un individuo pari a sé stesso. L’altro dev’essere sempre inferiore: ecco la vorace esaltazione dell’ego.

Possiamo non percepire in modo conscio l’esistenza dell’ego, ma esso rimane presente nella forma di un impulso segreto. Ci resta adesso da vedere perché l’ego opera in questa maniera. Perché funziona in modo tale da non poter tollerare un altro da sé? Cos’è questodemone che opera al nostro interno? Che male c’è se anche qualcun altro esiste? Eppurequell’esistenza si rende inaccettabile per qualche importante ragione che si trova fuori dalla portata dell’osservazione comune. Per qualche strano motivo l’ego non sopporta la vista di altri ego. Non può sopportare nemmeno la stessa presenza del mondo là fuori: vuole controllarlo e sottometterlo e farlo suo, dettar legge ed essere lui il padrone. È questo il desiderio degli autocrati, dei governanti dominatori, dei despoti: l’apoteosi dell’ego.

Abbiamo un mondo tremendo dentro di noi, un universo che non è affatto semplice come può apparire. Noi non siamo le piccole persone che sembriamo a prima vista: c’è unintero cosmo sommerso nascosto dentro le nostre personalità. Dico questo per tracciare unrapido profilo del mondo psichico che è la nostra area di funzionamento, e del quale in effetti siamo cittadini. Noi non siamo cittadini esclusivamente di questo mondo fisico: siamo anche abitanti del mondo psichico. È soprattutto un relazionamento psichico quello che intercorre tra noi ed altri individui, per via del quale ci troviamo ad avere rapporti in questo o quel modo con questa o quella persona, in maniera positiva o negativa, con gioia, dolore o indifferenza.

Noi siamo abitanti di un mondo psichico e non semplicemente di un habitat sociale composto da indiani e americani, russi e giapponesi, e tutti gli altri. Ci veniamo a trovare in un mondo differente nel nostro intimo, ed è un mondo reale quanto quello fisico, se non di più. Egià con la scarna analisi fin qui condotta ci possiamo rendere conto di come il mondo materialesia, in confronto a questo mondo psichico, di gran lunga meno significativo del credito che gli viene concesso. Se tutto è a posto nel mondo psichico, quello materiale si assesta di conseguenza. I valori materiali perdono molto del loro significato di fronte a quelle istanze che sono psichiche, razionali, intellettuali ed emozionali. Percezione, inferenza, dubbio, memoria, amore, odio, attaccamento alla vita, paura della morte, sono tutte funzioni dell’individualità psichica.

Ci si presenta qui un aspetto della psicologia che viene alla luce nell’analizzare noi stessi più a fondo di quanto la nostra personalità fisica consenta. Il corpo fisico è composto dai cinque elementi: Terra, Acqua , Fuoco, Aria ed Etere. Tutti lo sono, io lo sono così come ciascun altro; perfino un albero si compone di questi cinque elementi, ed anche una pietra. Tutto non è altro che i cinque elementi. Per questo, materialmente o fisicamente, non si può osservare alcuna differenza tra le cose. Ma lo si può tra le persone, e questo va attribuito non alle fattezze dei corpi, bensì alle menti

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che variano da individuo a individuo. Io non penso come te, e tu non pensi come me: ecco cosa ci rende due persone differenti. È nella materia prima psichica che risiede tutta la differenza, ed essa è responsabile persino per le diversità fisiche.

La differenza non sta nel corpo fisico, dal momento che i corpi sono identici nella loro struttura. La stessa carne, lo stesso sangue, gli stessi componenti chimici sono presenti in ogni corpo; ma c’è una differenza nella struttura del pensiero, il turbinio della mente guizza in direzioni diverse a seconda dei casi, il flusso della corrente mentale muta da individuo a individuo per via dell’intenzionalità con la quale le menti si muovono — una considerazione questa che è già stata fatta rispetto ai corpi viventi — e ciò è addirittura in grado di trasformare la natura stessa dei componenti fisici. L’intenzionalità, quell’impulso veemente che sorge dal profondo della psiche di un individuo, è ciò che lo distingue dagli altri e dalla materia inanimata.

Esiste una finalità anche dietro il modo in cui un albero cresce, muovendosi in una particolare direzione, retto da uno scopo. Ogni essere vivente possiede un intento nello svolgere le proprie funzioni, e nella misura in cui questo intento varia da individuo a individuoesistono differenti individui. Siamo persone differenti perché siamo menti differenti. E perchésiamo menti differenti? Perché una mente non è altro che un particolare schema di pensiero. Col variare dello schema muta la mente, e con essa le persone. E cos’è questo schema di pensiero? È una particolare direzione che la psiche prende, proprio come farebbe un fiume.

Per via delle molteplici direzioni nelle quali la psiche si muove esiste una differenza nell’intenzione. Direzione ed intenzione sono praticamente la stessa cosa, poichè quando l’intenzione è di un tipo particolare la mente si muove in quella certa direzione. E perché c’è differenza nell’intenzione? Perché mai non pensano tutti allo stesso modo, nel mondo intero?

Perché dobbiamo pensare ognuno in maniera diversa? Che bisogno c’è? Che male ci sarebbe se pensassimo tutti nello stesso identico modo? Eppure ciò non è possibile per quello stesso motivo che rende l’ego di ciascuno intollerante nei confronti di tutti gli altri ego. L’ego che opera in maniera affermativa, intollerante della presenza di altri ego, è al tempo stesso la ragione che induce la psiche ad una pluralità nelle intenzioni, e fa sì che tutto resti sempre separato. Io sono io, tu sei tu. Io mi faccio gli affari miei, tu ti fai gli affari tuoi. E così va il mondo. Esiste una soluzione, una cura per questa malattia?

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PSICOLOGIA DELLA CONOSCENZA

Abbiamo avuto modo di notare come il mondo interiore sia fatto di psiche, un mondo mentale, e come questo sia il mondo al quale realmente apparteniamo, del quale siamo cittadini in prima istanza. Ci possiamo più propriamente definire abitanti di un mondo psichico piuttosto che di un mondo fisico composto da individui sociali. Il nostro apparato psichico consta di una struttura complessa, dal momento che è collegato con pressoché qualunque cosa al mondo. È come un quadro di comando centrale. Noi non siamo tanto isolati dalle cose quanto sembra: esiste un rapporto sotterraneo tra i nostri contenuti interiori e l’intero cosmo al di fuori. Nel momento in cui cominciamo ad addentrarci sul terreno delle pratiche Yoga, cominciamo anche a produrre effetti sulle nostre relazioni cosmiche. Questa è una cosa importante da ricordare. Al momento attuale siamo convinti d’essere individui isolati senza la minima connessione con gli altri. Ma la meditazione è un’avventura che ci apre nuove vedute e ci sorprende, rivelandoci delle relazioni che non erano manifeste nella nostra vita cosciente di tutti i giorni.

La nostra mente non è composta da alcuna sostanza di base: è un processo piuttosto che un’entità. La si può comparare all’energia elettrica, volendo fare un paragone con qualcosa a noi noto. Non si può dire che sia una sostanza, o un corpo, o qualcosa che si trova in un determinato luogo: è più simile a un fluido. In questo momento tutto il nostro corpo ne è pervaso. Ecco perché il nostro pensiero è connesso ad ogni parte del corpo: è come se il corpo intero pensasse, permeato com’è dalla mente. Questa mente, che non è un’entità né una sostanza al pari degli oggetti fisici ma piuttosto un processo in movimento, è la nostra capacità operativa interiore. Noi viviamo una vita che è psichica, piuttosto che fisica. Le nostre gioie e i nostri dolori sono psichici, e non fisici. Le nostre attività sono anch’esse psichiche: le attività fisiche cessano d’essere attività se vengono svuotate del loro contenuto psichico. Se ne conclude inevitabilmente che la mente è tutto.

Il mondo intero non è altro che mente in azione per vie misteriose, attraverso le sue straordinarie connessioni dalle più svariate sembianze. La psicologia occidentale distingue in particolare tre aspetti della psiche: ragione, volontà e sentimento. All’interno della psicologia orientale si è voluto invece effettuare un’ulteriore distinzione. Nonostante abbia infinite varietà d’espressione, si può affermare a grandi linee che la nostra psiche consiste di determinate funzioni, col variare delle quali le si attribuiscono nomi

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differenti. Termini quali ragione, volontà o sentimento servono a definire differenti funzioni esercitate dalla medesima psiche.

Quando la psiche decide attraverso una cognizione nitida rispetto ad una determinata circostanza, diciamo che effettua un atto di comprensione. E l’affermazione conseguente alla decisione che viene presa in base alla comprensione della circostanza è detta volontà. Avvienepoi qualcosa di ancor più significativo: al comprendere che una cosa sta in una certa maniera,e nel decidere d’agire rispetto a tale situazione in un particolar modo, il nostro intero essere reagisce in misura proporzionale. Quella reazione è emozione. È un erompere della nostra intera personalità verso la situazione esistente all’esterno. Cominciamo a sentire, e non solamente a volere o capire. Ora, questa attività della psiche in forma di ragione, volontà e sentimento ha le sue radici in ciò che di solito è conosciuto come principio di egoità. L’ego è la capacità di autoasserzione, di autoaffermazione. Di fatto, esso precede tutte le altre funzioni. Prima d’essere in grado di capire, volere o sentire dobbiamo essere sicuri che esistiamo: questa certezza del fatto di esistere come individui rappresenta l’attività dell’ego. Il termine ego viene comunemente adoperato in contesti diversi. Quando definiamo in maniera generica una persona come egoista possiamo voler intendere, per esempio, che è orgogliosa. Ma ego non significa né deve necessariamente significare ‘orgoglio’; l’orgoglio ne è solo una grossolana espressione esteriore. La sua essenza è qualcosa di sottile, molto meno visibile di quanto lo sia l’espressione esteriore nella forma del cosiddetto orgoglio dell’individuo. L’ego è senso dell’esistenza individuale, la nostra certezza d’esistere come individui indipendenti da altri individui. La sicurezza consapevole in noi di essere individui isolati, completamente differenti dagli altri sotto ogni aspetto, rappresenta il principio dell’ego nella sua essenza.

Cos’è quindi, in sintesi, l’ego? È la consapevolezza della nostra esistenza individuale, isolata da altri individui. E quest’autoaffermatività trova consistenza a vari livelli della nostra vita. Esistono diversi tipi di ego. C’è un ego metafisico; c’è l’ego psichico puramente volitivo; c’è l’ego sociale che, alla fine, si manifesta nell’ego politico. Tutte queste sono espressioni di un singolo impulso interiore ad affermarsi in quanto distinti dagli altri, a dominare sugli altri, ad assorbire gli altri in sé stessi. Questo desiderio di distinguersi dagli altri è la malattia che affligge l’uomo. È un male primario, e la psicologia yoga chiama questo principio d’egoità Ahamkara. Questo termine, Ahamkara, ha un’interessante etimologia: in sanscrito Aham vuol dire io, e Kara vuol dire qualcuno che fa. Uno che provoca eventi in modo da percepire che esiste: questo è l’ego. È ciò che si sviluppa dal senso di autoconsapevolezza.

L’ego non si accontenta di una semplice affermazione di sé. Diventa sempre più tangibile a misura che opera nella vita esterna, fino a raggiungere la più concreta delle sue espressioni.

L’ego si configura in origine come un principio di consapevolezza, la semplice coscienza che uno ha di esistere. È questo che viene chiamato ego metafisico. Esso semplicemente è, ma è in quanto distinto dagli altri. La consapevolezza che io sono è l’empirico primordiale, edè l’ego filosofico. Poi questo semplice principio di autoaffermazione nella sua primaria capacitàd’isolamento comincia ad operare in forma di psiche che inizia a pensare gli oggetti esterni. Non pensa più meramente sé stesso in quanto essere isolato: adesso è qualcosa di peggio. All’inizio si accontentava del solo essere

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consapevole di sé stesso, ora vuole avere coscienza che gli altri sono. Si viene così a determinare un’ulteriore conseguenza che fa seguito all’affermazione di sé stesso: se io sono, anche gli altri sono, in quanto distinti da me. La distinzione tra sé stessi, o un ego, e gli altri trova espressione come distinzione tra personalità fisiche. L’ego fisico è l’ego corporale che si identifica con la guaina del corpo.

Sentire che io sono non è mera consapevolezza del mio essere. È al tempo stesso coscienza che gli altri sono. È un’affermazione specifica di questo corpo in quanto me, ed una delimitazione tracciata tra questo ed altri corpi.

Ci sono poi le varie distinzioni sociali, che potremmo andar catalogando quasi all’infinito. Non si può neanche calcolare quante distinzioni sociali esistano. È grande la varietà di demarcazioni che tracciamo tra gli uni e gli altri nell’ambito della nostra vita sociale,e non c’è bisogno di andarle a vedere in dettaglio perchè sono tutte ovvie. Esiste poi la formapeggiore di ego, quella che cerca d’esercitare autorità, potere attraverso manovre politiche che possono cominciare con la gestione della propria famiglia e finire col desiderio di governare il mondo da soli, fino a raggiungere il limite estremo in cui si cerca di affermare sé stessi ad esclusione degli altri. Un’importante caratteristicha dell’ego è di andare oltre la semplice autoaffermazione e distinzione di sé stesso dagli altri, per giungere al risentimento nei confronti della presenza di altri sé.

È questa una conseguenza diretta della struttura dell’ego: l’autoaffermatività dell’ego è satura di un impulso profondo diretto alla sopravvivenza di sé stesso a scapito di qualsiasi altra cosa al mondo. Se diamo credito alla dottrina della sopravvivenza del più forte, l’ego dice “io sono il più forte e perciò solo io devo sopravvivere e nessun altro”. Com’è naturale, se ogni ego è imbevuto di questa sensazione d’essere lui il più forte e nel caso che ciascuno sia il più forte, il risultato è battaglia, e tutte le guerre che la storia ricorda. Queste guerre non sono altro che il conflitto tra i vari ego, ognuno cercando d’affermare sé stesso come il più forte, tanto che si tratti di un ego individuale come di un gruppo di ego. Ciò crea una serie di avvenimenti caotici, e se qualcuno volesse prendersi la briga di penetrare fino al nodo segreto dei dolori della vita capirebbe che tutti hanno radice nel principio di egoità. L’intendere, il volere, il sentire e le altre operazioni psicologiche sono irradiazioni dell’ego, che è il padre di tutte queste manifestazioni.

Abbiamo sentito dire che Yoga è unione, una definizione che viene comunemente data in tutti i libri di testo. Ma unione con che cosa, e chi è che si deve unire con quale sostanza o realtà? È una cosa che non può risultare chiara a meno di conoscere le basi sulle quali questa definizione si fonda. Dal nostro studio sul mondo oggettivo abbiamo concluso che un’analisi dell’universo esteriore portata alle sue estreme conseguenze ci mette faccia a faccia col dato di fatto per cui colui che percepisce si viene a trovare coinvolto con l’oggetto percepito, dal che si deduce che la biforcazione tra l’osservatore e l’osservato è estranea alla struttura della Natura. La Natura nella sua interezza potrebbe non essere neanche consapevole del fatto che esiste qualcosa come un osservatore e un oggetto osservato, allo stesso modo come non si può dire che all’interno del proprio corpo la mano destra sia l’osservatore della sinistra, o la sinistra della destra. Simili qualifiche non

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sarebbero adatte ad un’organizzazione di elementi che appartengono a un tutto unico, in maniera inscindibile.

Alla luce del fatto che in definitiva una separazione tra l’osservatore e l’oggetto osservato non può venir tracciata, per il semplice motivo che una tale distinzione non esiste, ed in considerazione di quell’altro fatto per cui una distinzione tra l’osservatore e l’oggetto osservato viene invece realmente effettuata nella vita di tutti i giorni, si viene a determinare una contraddizione tra la vita pratica e la vita così com’è in realtà. Il nostro modo di vivere odierno è ben lontano dalla verità della vita nella sua essenza. Noi marchiamo una netta distinzione tra l’osservatore e l’oggetto osservato, per via del modo d’operare del nostro apparato psichico. La mente pensa l’oggetto, l’oggetto è esterno alla mente, il che significa che l’oggetto visto è differente dalla mente che lo vede. Noi siamo assolutamente sicuri che le cose stiano così, e operiamo nel mondo con la convinzione che il mondo stia al di fuori della mente, che l’osservatore sia completamente separato dall’oggetto osservato.

Ma non è questa la conclusione finale alla quale giungiamo, se vogliamo passare ad un’ulteriore analisi della più profonda struttura della vita. La realtà è del tutto diversa da ciò che vediamo con i nostri occhi od anche da ciò che pensiamo con le nostre menti. Ciò che vediamo con i nostri occhi non è realtà, e non lo è neanche ciò che pensiamo e ciò che comprendiamo. E dunque lo Yoga, se viene definito come unione, dovrebbe evidentemente essere inteso come unione dell’osservatore con l’osservato, dal momento che l’osservatore e l’osservato non possono venir isolati. Se essi fossero realmente differenti non potrebbe esistere conoscimento dell’oggetto osservato da parte dell’osservatore. Esiste a questo proposito un’importante questione dibattuta nei circoli filosofici, nota come teoria della conoscenza.

Come giungiamo a conoscere il mondo? Come facciamo ad essere consapevoli dell’esistenza delle cose? È questo un argomento molto vasto, che ci porta a navigare in acque profonde. Non possiamo facilmente spiegarci come mai siamo consapevoli che il mondo esista affatto. Questa consapevolezza ci coglie di sorpresa, tutt’a un tratto ci accorgiamo che il mondo sta là. Il modo in cui ci rendiamo consapevoli del mondo può essere paragonato al modo con cui ci svegliamo dal sonno. Eccoci profondamente addormentati, ignari di qualsiasi cosa al mondo; e nel momento in cui ci svegliamo abbiamo solo una coscienza generica del fatto che ci siamo svegliati. Ci rendiamo conto di non essere più in uno stato di sonno, il sonno è svanito, e subentra uno stato conscio generico senza dettagli di questo o quel fatto particolare. Dopodiché lo stato conscio generico si va consolidando, e cominciamo a capire che esistiamo, diveniamo consci di noi stessi, ma non ancora ben coscienti delle cose al di fuori di noi, come il tavolo, la sedia, etc.; non distinguiamo bene la porta dalla finestra quando ci siamo appena svegliati dal sonno. A volte non troviamo nemmeno l’uscita, tanto profondo era il sonno: c’è gente che cade in un sonno così profondo da sbattere la testa alla finestra scambiandola per la porta.

Ebbene, il punto è che diveniamo coscienti prima di noi stessi, e solo in seguito delle cose al di fuori di noi. Dopo esserci resi conto che le cose stanno lì fuori, ci rendiamo anche conto di cosa esse siano. Da una consapevolezza generica delle cose passiamo al loro conoscimento specifico: “Non sono oggetti confusi in un’anonimità priva di connotati quelli che ho di

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fronte, ma questa è una sedia, questo è un tavolo, questo è un orologio da parete, questa è una persona”. A questo punto la consapevolezza si fa più specifica: “Questo è mio figlio, questa è mia figlia, questo è il mio amico, questo è Tal dei Tali”, e cosí via. Poi essa trova espressione ancor più definita nella forma di un impulso all’azione rispetto alle cose viste. E questo è anche, in un certo qual modo, il processo di creazione del mondo.

Ciò che è accaduto su scala cosmica dev’essere stato qualcosa di simile a questo fenomeno individuale nel quale incorriamo quotidianamente al nostro risveglio dal sonno. Il punto in discussione è: in che modo diveniamo coscienti del mondo? Diveniamo coscienti del mondo attraverso un’espansione della nostra coscienza che procede per gradi dai nostri sé esteriori. E cos’è questo esterno ? Il cosiddetto esterno è il mondo, empiricamente parlando. Il mondo non è costituito da montagne e alberi, da esseri umani, vacche e asini. Non sono queste le cose che formano il mondo. Il mondo è uno stare al di fuori delle cose, è l’esternalità, una cosità (se così si può dire) implicita in tutte le cose, una particolare separazione di una cosa dall’altra che va di pari passo con l’assumere questa percezione come contenuto della nostra coscienza. La consapevolezza dell’esternalità è il mondo. Se non esistesse esternalità, il mondo non esisterebbe.

Se non esistesse spazio tra me e voi non ci potremmo scorgere a vicenda, e spazio e tempo vanno in coppia. Se c’è l’uno, c’è anche l’altro. Dunque, la struttura spazio-temporale è il mondo. Ciò che noi chiamiamo mondo non è altro che spazio-tempo. Se questo non esistesse non ci sarebbe esternalità di percezione, e senza esternalità non esisterebbe esperienza sensibile. Sperimentare il mondo equivale ad esternalizzare l’esperienza. Se potessimo in qualche modo liberarci di ogni tipo di coscienza dell’esternalità, ci troveremmo ad‘entrare’ nel mondo all’istante, e il mondo ‘entrerebbe’ in noi. Tutto il problema è costituito dall’esternalità dello spazio-tempo, e ci vengono date a questo proposito, nelle teorie della conoscenza elaborate dalle varie scuole filosofiche, una quantità di informazioni sul come diveniamo consapevoli delle cose al di fuori di noi. Le cose non stanno veramente al di fuori, questo è il punto. Che esse non si collochino al di fuori dovrebbe risultare evidente da un’analisi della Natura stessa. Le cose formano un insieme organico: non possiamo sostenere che la nostra gamba stia al di fuori del nostro corpo, nonostante il fatto che la vediamo. Il semplice fatto di vedere le cose non può venir considerato prova della loro esternalità, dato che io posso ben scorgere le mie dita, ma non per questo dico che stanno al di fuori di me.

L’esternalità di una cosa sorge per via di una distinzione che viene fatta tra la coscienza dell’osservatore e l’esistenza dell’oggetto osservato: cominciamo a percepire che la nostra coscienza è in qualche modo distinta dall’esistere degli altri. Quando parliamo della distinzionetra l’osservatore e l’oggetto osservato, ciò che vogliamo intendere è una distinzione tra esserinella loro essenza. Ma come fa uno a sapere che un altro esiste? Il concetto di spazio o di tempo che intercorre tra noi non può essere causa di tale percezione. Si rende qui necessaria una corrente sottesa di coscienza. Se non esistesse un nesso segreto di coscienza tra me e voi, io non potrei sapere che voi state seduti di fronte a me. Il vento che mi soffia sul viso attraverso il movimento del ventilatore non può essere considerato causa della mia consapevolezza che voi esistete. Non c’è nulla, praticamente, tra me e voi: solo spazio vuoto. Come so che voi state lì? È proprio uno strano

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fenomeno. I miei occhi, fatti di sostanza fisica come sono, si trovano spazialmente scissi dalla vostra esistenza fisica: voi non state seduti dentro ai miei occhi. Come so che voi esistete, e come fate voi a sapere che io sono qui? Nulla che sia visibile allo sguardo può essere considerato causa della percezione di un oggetto.

C’è la mente, mi direte, e ci troveremmo infine ad approdare a questo aspetto del nostro essere. È la mente che pensa che voi esistete. Ma allora, dov’è la mente? Dov’è situata? Generalmente si pensa che stia all’interno del nostro corpo. La mia mente è dentro ilmio cervello, o per lo meno nei limiti del mio corpo, non può stare al di fuori. Ora, se la miamente sta dentro il mio corpo, non può ovviamente essermi di alcun aiuto nel sapere che voi esistete: voi state fuori di me, ad almeno qualche metro di distanza, e la mente sta dentro il mio corpo, non è uscita. Ma se diciamo che forse è la mente ad uscire e toccare i corpi degli altri, ed è così che diviene consapevole, dovremmo constatare con sorpresa che la mente può eccedere i limiti del corpo. E perché limitarci alle persone che ci sono di fronte: io so perfino che c’è un sole che splende nel cielo, a 93 milioni di miglia da me. Questo significa forse che la mente si estende per 93 milioni di miglia fuori dal mio corpo? Se accettiamo l’ipotesi secondo cui la percezione dell’oggetto è dovuta all’operato della mente, e la mente debba toccare quel determinato oggetto in modo da poterne divenir consapevole, allora la mente dovrebbe poter raggiungere le stelle, che distano svariati anni-luce. E questa è veramente una rivelazione.

Se questo è un dato di fatto, la mente non è soltanto la nostra mente: è una mente che raggiunge l’immensità dello spazio, le stelle, o qualunque altra cosa. Se non accettiamo questa tesi, restiamo senza una spiegazione del come siamo consapevoli che le stelle brillano in cielo. Si può dare così una risposta provvisoria a questa pressante questione pragmatica. Ma ancora più importante è ciò che ne consegue. Cos’è la mente? Com’è che la mente è capace di sapere che le cose esistono al di fuori? Abbiamo parlato tanto della mente, ma cos’è in effetti? Di cosa è fatta? Accettando provvisoriamente come valido l’assioma secondo cui è la mente a conoscere gli oggetti, dobbiamo dotare la mente di un qualche tipo di consapevolezza; e questo perché conoscere un oggetto è lo stesso che essere consapevoli di quell’oggetto, e se la mente è consapevole dell’oggetto allora è dotata di coscienza. Non può essere una sostanza inerte.

La mente dev’essere pregna di alcun tipo di coscienza, magari allo stesso modo in cui un filo di rame è carico d’elettricità, per fare un esempio prosaico. Non per questo diciamo che filo ed elettricità siano la stessa cosa: sono due cose totalmente distinte. Ma il filo èimpregnato del flusso d’elettricità, ragion per cui viene chiamato filo elettrico. Senza elettricitàdiventa un filo comune, buono per stendere dei panni bagnati. Bisogna convenire che la mente dev’essere dotata di una qualche coscienza: se neanche questo viene concesso, la possibilità di conoscere una qualsiasi cosa viene a mancare. Ne consegue che la mente è connessa in maniera inseparabile alla coscienza. Dev’essere pervasa di consapevolezza, e dunque il mio essere cosciente che voi mi siete di fronte è dovuto al movimento della coscienza verso di voi, cosa che avviene anche nello spazio intermedio tra voi e me.

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La conclusione che la coscienza non si limita al corpo ma esiste anche al di fuori di esso può essere inoltre inferita da un altro interessante argomento. Alla coscienza non può venir posto un limite. Non possiamo affermare che la coscienza è qui e non è lì, perché per essere coscienti dei limiti della coscienza questa si deve trovare in egual misura al di fuori del limite in questione. Chi è che percepirebbe che la coscienza è limitata? È la coscienza stessa a conoscere. La percezione della limitazione nel percepire è essa stessa una funzione della percezione. E così la barriera che viene provvisoriamente eretta di fronte allo stato di percezione risulta facente parte della percezione stessa. Uno non può essere cosciente che esiste un limite alla coscienza, a meno che la coscienza abbia oltrepassato quel limite. Immaginare che esista una divisione tra due diverse parti della coscienza significherebbe presumere che esiste della coscienza anche a metà strada tra le due presunte parti di coscienza. Altrimenti, chi sarebbe a percepire che esiste un intervallo tra le due parti di coscienza? La percezione di un intervallo tra due porzioni di coscienza è essa stessa percezione, e non può quindi sussistere un’interruzione nella coscienza, il che significa che la coscienza è indivisibile.

Se la coscienza non ha partizioni ed è indivisibile, è anche onnipervasiva. È infinita nella sua natura. La presenza dell’infinità della coscienza è la ragione a monte della percezione degli oggetti da parte della mente. Ma dove entra in gioco la questione di un fuori, se tutte lecose sono pervase dalla coscienza? L’errore consiste nel fatto di percepire un’esternalità nellecose. Se la coscienza conoscitrice delle cose è indivisibile, ed esiste dappertutto come soggetto e oggetto, dev’esserci evidentemente un qualche errore insito nel nostro vedere o intendere le cose come se fossero a noi esterne. Questo malinteso si viene ad introdurre nella nostra percezione ad opera dello spazio e del tempo.

La meditazione è l’arte di trascendere lo spazio e il tempo. Nel momento in cui ciò si avvera, facciamo il nostro ingresso in un’infinitudine di coscienza. Attraverso le diverse tecniche di meditazione scavalchiamo la barriera che si viene a creare tra noi e gli oggetti ad opera dello spazio-tempo. Nell’atto di pensare ad un oggetto, noi lo pensiamo come esistente nello spazio e nel tempo: i sistemi di Yoga sono metodi per resistere all’azione dello spazio- tempo ed effettuare l’unione tra il soggetto e l’oggetto, tra l’osservatore e l’oggetto osservato, nella loro essenza. Nel loro aspetto esteriore le cose appaiono distinte, i nomi e le forme sono differenti, ma nella loro essenza non sono poi così diverse. Il contenuto non cambia, cambia solo la forma. Perciò nello svolgere qualsiasi pratica Yoga è uno solo il fine al quale si mira: l’unione della coscienza con l’essere.

Esiste un unico Yoga, in fin dei conti, che assume forme diverse a seconda dei differenti modelli strutturali delle menti. Così come uno può preferire un piatto dolce e un altro un piatto salato, ma questo nulla toglie al fatto che tutti condividono il cibo con uno stesso intento, allostesso modo l’essenza che si nasconde dietro i vari tipi di meditazione è la stessa, nonostante venga focalizzata in maniere differenti per soddisfare i bisogni delle menti di individui che si trovano in differenti stadi evolutivi. Sì, lo Yoga è unione: è l’unione necessaria a guardare le cose in faccia così come sono in realtà e disfarsi dell’erronea nozione che ci fa percepire l’apparente dualità delle cose. Le nostre debolezze, fisiche o psicologiche che siano, sono il risultato della nostra dissociazione dalle cose.

La forza giunge come conseguenza necessaria all’unione di noi stessi con 45

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le cose. L’energia abbonda in Natura: l’universo è pieno di forza, le sue risorse sono infinite. Non conosce miseria, è sempre opulento. Non esiste penuria nel mondo visto nella sua veranatura. Siamo noi invece a scoprirci bisognosi sotto l’aspetto sociale, fisico, mentale, sottoogni aspetto. Siamo esseri miseri e indifesi. Questa è una situazione che nasce dal fatto di aver bloccato le principali vie d’accesso della Natura a noi, tramite l’attività dei nostri organi sensoriali. I sensi sono i nostri nemici, se mai nemici esistano, poichè ci gratificano con un’immagine del mondo che in realtà non esiste. Gli amici e i nemici che vediamo nel mondo sono macchinazioni dell’ego e degli organi sensoriali. I cinque elementi che vediamo sono anch’essi specchio dei resoconti che ci provengono dai cinque sensi. Non esistono affatto cinque elementi, c’è un solo elemento dappertutto, che si manifesta con diverse densità d’espressione.

Il mondo viene visto e conosciuto in cinque differenti maniere per via delle cinque modalità con cui lavorano i sensi. Per fare un esempio, l’energia elettrica è dappertutto uguale. Ma quando passa attraverso un frigorifero, raffredda; quando passa attraverso un fornello, riscalda; quando passa attraverso una locomotiva, genera moto. Le varie funzioni dell’energia elettrica si devono agli strumenti attraverso i quali viene fatta operare, e altrettanto succede in Natura. Non esite suono, né tatto, né colore, né gusto, né odore: non ci sono cose del genere in Natura. Ma i nostri sensi astraggono certe caratteristiche della Natura e divengono poi ricettori di queste caratteristiche specifiche, così che un senso ci dice che è odore, un altro che è colore, e un terzo qualche altra cosa. Se avessimo cento organi di senso, percepiremmo forse un centinaio di cose diverse al mondo. Ma, grazie a Dio, siamo dotati solo di cinque sensi, e ci è dato di vedere solo cinque cose. Se avessimo solo un senso, vedremmo una cosa sola. Gli organi di senso creano una percezione quintupla, laddove esiste solo una realtà uniforme.

In primo luogo i sensi ci inducono a credere che le cose si trovino all’esterno. Interviene poi un ulteriore inganno che consiste nel convincersi che esistano cinque oggetti differenti. Che gli oggetti si trovino al di fuori è già un abbaglio abbastanza grosso; che poiesistano cinque diversi tipi di cose là fuori ne è una forma peggiorativa. Nelle nostre pratichenote come Yoga dobbiamo, quindi, affrontare tanto gli organi di senso, che moltiplicano la percezione in un’attività pentadimensionale, quanto la mente che ci suggerisce che il mondo è al di fuori di noi. Tutto lo Yoga è imperniato sull’azione da esercitare sui sensi e sulla mente, in maniera tale da permetterci di sopraffare la nozione di esternalità e la quintupla percezione sensoriale che ne deriva. Il lavoro può venir intrapreso sia in forma diretta che in ordine inverso, come meglio si crede.

Lo Yoga ci induce quindi a un tipo di operazione che non è meramente individualistica. È una faccenda comune a tutti. Non esiste qualcosa come ‘il mio Yoga’ o ‘il tuo Yoga’. Siamo tutti nella stessa barca, i nostri problemi sono patrimonio comune, abbiamo tutti le stesse difficoltà e dobbiamo cercare un rimedio comune. Lo Yoga è un bisogno collettivo che ciascun individuo sente. Non è una religione né un credo: è un bisogno vitale, come l’aria che respiriamo. Yoga è la scienza dell’esistenza. Non appartiene né all’Occidente né all’Oriente. Non è né indù, né cristiano, né mussulmano. Non è alcun tipo di religione. È il dato di fatto nel quale s’inquadra la struttura essenziale dell’esistenza umana.

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PREPARAZIONE ALLO YOGA

Avrete probabilmente già sentito dire che esistono diversi generi, diversi tipi di Yoga. L’idea che esistano vari Yoga sorge di conseguenza al modo selettivo di pensare nel quale ci siamo cacciati a forza, come risultato

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della nostra struttura mentale. Non esistono in effetti molti Yoga, così come non si può dire che esistano tanti diversi raggi di sole, nonostante così sembri per via d’una particolare struttura proiettiva insita nel meccanismo di quest’emanazione.

Abbiamo notato che c’è un modo di pensare oggettivo ed uno soggettivo, il nesso tra i quali è ciò che chiamiamo conoscenza, o percezione. La nostra conoscenza del mondo, e peraltro la conoscenza di qualsiasi cosa, consiste in una reazione che si viene a determinare tra soggetto e oggetto. A meno che i due si trovino giustapposti non si avrà conoscenza, non occorrerà alcun tipo d’esperienza. Ogni esperienza è una reazione tra il soggetto percepiente e l’oggetto percepito, sia la natura dell’oggetto fisica o altra.

Ora, noi pensiamo fondamentalmente in tre modi e si presume così che esistano basicamente tre Yoga, i ben noti sistemi che vanno sotto il nome di Karma (azione), Bhakti (devozione) e Jñana (conoscenza), nell’ambito dei quali si annoverano scuole come quelle del Kundalini Yoga, del Tantra Yoga, del Japa Yoga, ed anche il sistema Yoga di Patanjali, nonché vari metodi di autoanalisi.

Dobbiamo richiamare alla nostra memoria il dato per cui, quando scendiamo al fondo di noi stessi, ci troviamo di fronte esttamente la stessa cosa che veniamo a trovare al fondo di qualsiasi altra cosa situata al di fuori di noi. Ciò che troviamo nel profondo di noi stessi si trova anche nel profondo di qualsiasi altra cosa al mondo. Proprio come al fondo di un’onda dell’oceano troviamo lo stesso flusso oceanico che sta alla base d’ogni altra onda, avremo ugualmente modo di scoprire come una realtà comune sia situata al fondo di ogni individualità. C’è una sostanza, presente in maniera equanime, che funge da retroterra dei particolari, e lo Yoga è il processo di graduale rimozione della coscienza dai particolari agli universali, fino a raggiungere il ‘massimo comun denominatore’. L’attenzione particolarizzata che la coscienza presta a qualsiasi cosa dev’essere rimossa in direzione al più ampio retroterra della cosa stessa, e più la si avvicina al retroterra generale, più la coscienza si va approssimando all’ideale dello Yoga. Tornando a ripetere ciò che abbiamo già osservato, questo meccanismo di ritrazione può seguire un percorso sia interiore che esteriore od anche trascendente.

Esistono tre tipi di ritrazione. Ma com’è possibile ritirare la propria conspevolezza in tre diverse maniere? Siamo in genere abituati all’idea che ritirarsi significhi dirigersi all’interno di sé stessi nel senso individuale; il significato non deve però essere necessariamente questo. Ci si può anche ritirare all’interno di un oggetto per mezzo di un particolare assetto della coscienza, e attraverso tale tecnica di ritrazione oggettiva fare in modo che l’oggetto cessi di essere oggetto. La coscienza assume qui una posizione differente grazie ad un modo del tutto insolito di relazionarsi all’oggetto. Lo Yoga è in pratica un tentativo graduale da parte della coscienza di convertire ogni oggetto in un soggetto, e più successo abbiamo nel trasformare l’oggetto in soggetto, tanto più si può dire che stiamo progredendo nello Yoga.

Il maggior problema della vita è il coinvolgimento nell’oggettività, nell’esternalità, l’atteggiamento condizionato della mente col quale essa si scinde da tutte le cose che pensa o visualizza. Il mondo degli oggetti è un insieme interconnesso, ed è su questo principio che si fonda la dottrina dello Yoga. Il mondo non è costituito da parti isolate così come appare ai sensi di percezione, orientati come sono verso l’esterno. Il riconoscimento di questo concatenamento intrinseco di cose in forma d’universo è ciò che che lo Yoga si

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sforza di ottenere. Visto che siamo abituati a pensare solo in termini di oggetti e non riusciamo a pensare in altra maniera, dobbiamo per prima cosa assumere il punto di vista dell’oggetto, e questo è il metodo che viene usato nel Karma Yoga, nel Bhakti Yoga, ed in parte anche nello Yoga di Patanjali e nelle fasi iniziali del Jñana Yoga. Tutto prende il via dalla concezione dell’oggetto, e solo la nozione di quest’ultimo varia a seconda dei diversi sistemi di pratica, ampliandosi poi per gradi in proporzione ascendente.

Prima di dare seriamente inizio a un qualsiasi tipo di pratica che miri allo Yoga, dobbiamo trovarci al passo con una certa indispensabile preparazione. Le conquiste dello Yoga sono risultato di una graduale evoluzione, sono un progresso sistematico e non un balzo repentino. Non stiamo preparando una rivoluzione: non esiste alcun processo rivoluzionario in Natura. Ogni cosa cresce lentamente, grado per grado, senza saltare neanche un anello nella catena evolutiva, così come noi ci siamo sviluppati dall’infanzia allo stato adulto. Non è una meraviglia la crescita di un albero dal seme? E quanti anni ci vogliono? Non succede certo con un salto improvviso dal seme al frutto.

Lo Yoga è dunque un graduale processo evolutivo che incammina la nostra personalità nel suo insieme verso la conquista dello stato di Esistenza Totale. Dobbiamo perciò assicurarci che vengano completati i necessari preparativi. Non è possibile ottenere una visione immediata della meta finale, senza prendere in considerazione le fasi preparatorie. Oltre alle tecniche, alle quali faremo cenno più in là, è necessario porre l’accento su cinque requisiti in particolare, tra tanti altri: 1) il luogo; 2) il tempo; 3) il metodo; 4) la regolarità; e infine 5) dedicarsi all’ideale con tutta l’anima.

Dovete avere un posto che sia adatto alla pratica. Dovete anche avere un tempo prestabilito per la pratica. Dovreste avere pure un metodo e adottarlo con costanza, senza starlo a cambiare in continuazione. La pratica poi dovrebbe essere regolare e senza interruzioni. Ed infine, cosa che ne è forse l’aspetto più importante, dovete nutrire un intenso amore per la pratica. Nelle scritture Yoga è detto che uno ama lo Yoga come la madre ama il proprio figlio, lo pensa costantemente giorno e notte, e non ha altro pensiero in mente al di fuori di quello. “Come posso ottenerlo”?: questo struggimento ardente che scaturisce dal profondo del cuore rappresenta di per sé metà del successo nella pratica, e tutto il resto viene dopo.

La collaborazione da parte dei vostri più profondi sentimenti: ecco in cosa consiste l’affetto che nutrite per lo Yoga. Ad esso non ci si accosta con dubbi o sospetti in mente. Il fatto che raggiungerete la meta finale è assolutamente indiscutibile, e questa convinzionedovrebbe essere presente in ogni momento. Se i calcoli sono corretti, il problema matematicodovrebbe fornire il risultato che ci si aspetta. Non potete nutrire dubbi sul fatto che i calcoli producano o meno il risultato: il sistema matematico è così esatto da non lasciare spazio ad alcun dubbio.

Lo Yoga è una materia altamente tecnica e sistematica, e posto che i metodi adottati siano corretti non dovrebbe sussistere il minimo dubbio riguardo alla possibilità di raggiungerne lo scopo. Il tempo che vi sarà necessario a raggiungere la meta finale dipenderà dal grado d’intensità della pratica e dall’enfasi che le sarà data dai vostri sentimenti, dalla misura in cui vi

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troverete in comunione con l’ideale che state cercando di contemplare.

Prendiamo in considerazione, per prima cosa, la scelta del luogo. Tutti sanno cosa questo comporta: ci si deve fermare in un luogo che sia di sostegno alla pratica. Ora, cosa significa ‘di sostegno alla pratica’? Ci sono alcuni criteri — di ordine geografico, climatico, sociale, politico, fisico etc. — che vanno applicati alla scelta di un luogo. Ottimi suggerimenti ci vengono dati a questo proposito in scritture quali la Svetashvatara Upanishad, per esempio, ed anche nella Bhagavad Gita e nello Yogavasishta. Il luogo dovrebbe risultare gradito allo stato d’animo introspettivo della ricerca spirituale. Dovreste trovarvi nobilitati dall’atmosfera stessa nella quale vi venite a trovare. È questa la ragione per cui la gente va a rifugiarsi in posti isolati: più lontani sarete da quei centri caratterizzati da un’atmosfera di collisione tra le varie personalità ed ego, più vi troverete in armonia con la Natura.

Quando andate a fare una passeggiata, andate da soli e non accompagnati. Vi sentirete più felici camminando da soli che non con un’altra persona; altrimenti non avreste altro chedue ego che camminano insieme. E un ego non va mai completamente d’accordo con un altroego. Potete anche essere amici intimi, ma ciò nonostante restate pur sempre due persone distinte, e non una sola. Il fatto stesso che siate due persone indica l’esistenza di due ego, e questo fa sì che l’uno si debba adattare in maniera artificiosa alla presenza dell’altro. Non potete essere naturali in presenza di un’altra persona. Non potete pronunciare una sola parola che non aggradi all’altro; non potete fare un solo gesto che non risponda al gusto dell’altro. Ma stando soli sotto un albero potrete fare qualsiasi cosa, perché l’albero non è dotato di ego come gli esseri umani. Gli uccelli, gli animali non hanno un ego come gli uomini, a loro non importa quello che fate, quello che dite, cosa pensate. Scegliete un posto che sia libero dalle tensioni generate dalla presenza di altri ego. È proprio per questo che ce ne andiamo in monasteri, templi, conventi ed altri luoghi sacri del genere. Si dice anche che le località di montagna siano più indicate di altre, per via delle influenze elettromagnetiche che le alte quote si suppone esercitino. Le cime delle montagne sono ritenute particolarmente idonee. Luoghi vicini ad ampi bacini d’acqua, o vicini all’oceano, sono dotati di maggiori stimoli elettromagnetici, cosa di cui gli antichi saggi erano già a conoscenza. È stato anche constatato come il tempo nuvoloso si riveli più adatto alla meditazione di un cielo limpido, per via di quelle forze elettriche che si producono in cielo nel corso degli spostamenti delle nubi. Questi sono dettagli minori, cose di poco conto, ma sono pur sempre particolari da tener presenti e che possono risultare d’aiuto.

I momenti che funzionano da stimolo ad una ritrazione spontanea della mente dalle attività esterne vanno privilegiati. La notte è in genere, e per ovvie ragioni, un momento propizio durante il quale la mente avverte una tendenza naturale a ritirarsi nella soggettività. Quando si parla di tempo nella pratica dello Yoga, ossia della meditazione, ciò che in effetti s’intende non è semplicemente un’ora del giorno, come le otto o le nove, ma piuttosto uno spazio di tempo fisso. Scorgiamo un movimento ciclico in ogni cosa in Natura, e questo meccanismo di cicli in rotazione non riguarda solamente il mondo esterno degli astri ma anche il mondo interno della psiche. Se cominciamo a consumare i nostri pasti ad una certa ora del giorno e continuiamo a farlo a quella stessa ora, cominceremo ad avere appetito a quell’ora e non a un’altra,

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per via di un certo naturale effetto ciclico che di solito s’accompagna al modo di pensare ed agisce in maniera simpatetica sulle funzioni fisiologiche.

È quindi necessario che venga stabilito un determinato orario da dedicare alla contemplazione, allo studio, alla pratica in genere, qualunque ne sia la natura; non serve che uno cominci a meditare oggi di mattina, domani di sera e il giorno dopo a mezzanotte. L’irregolarità finirebbe col provocare una sorta di effetto dissonante invece di rendere un contributo armonico alla pratica. Si dovrebbe stabilire un tempo fisso, qualunque sia l’orario prescelto. Ci sono persone preoccupate coll’alzarsi molto presto al mattino: si costringono a svegliarsi in uno stato di coscienza meditativo che immaginano venga a determinarsi ad una certa ora, che è poi quella che viene suggerita in più d’una scrittura. Ma questa è un’attitudine che potrebbe non sortire l’effetto desiderato. Nessun tipo di forzatura dovrebbe venir esercitato sulla mente. Può anche darsi che il primo mattino risulti conveniente per certi motivi, ma all’inizio uno non sarà capace d’adattarsi a quell’orario dal momento che non è abituato a quel certo tipo di vita. È meglio prendere le cose con tranquillità, come un’arte piuttosto che una specie di fatica o di obbligo imposto alla mente. Pietra di paragone della pratica dovrebbe essere una sensazione di gioia, piuttosto che di disagio, dolore o risentimento.

Lo Yoga è un processo che si svolge in piena letizia. Non è sofferenza. È un movimento attraverso la felicità: da uno stato gioioso passiamo ad un nuovo stato di gioia. Non è che lo Yoga cominci tra i tormenti o sia una specie di prigione nella quale ci sentiamo gettati. Abbiamo a volte la sensazione che lo Yoga sia una tortura, una sofferenza se confrontato con la vita normale dell’uomo. Sadhana è una parola che fa paura, sinonimo di una serietà innaturale. Ed è spesso così perché si è venuta a creare intorno allo Yoga un’aura di severità e austerità, un’impressione di cosa dell’altro mondo, in contrasto con quelle che sono le naturali disposizioni degli esseri umani. I nostri desideri sono, senza dubbio, degli ostacoli allo Yoga; ma sono i nostri desideri, ce lo dobbiamo ricordare, non quelli di qualcun altro. E allora ci dobbiamo svezzare gradualmente da questi desideri, non fare come se ci stessimo strappando la pelle di dosso. Passi drastici di questo tipo non vanno dati, e non rientrano nei propositi dello Yoga.

Dovete stendere un programma sistematizzato: che fare per prima cosa, cos’è che viene dopo, qual’è la terza cosa a cui dedicarsi, e così via; non si dovrebbe fare oggi quello che andrebbe fatto, ad esempio, fra tre giorni. Organizzate un programma graduale di pratica che risponda alle vostre capacità. Sto dando qui un suggerimento generico che non intende essere una direttiva particolare rivolta a ciascuno indiscriminatamente, dato che gli interessi variano da persona a persona. Sarebbe bene conservare un vostro diario spirituale, per metterla alla maniera di Swami Shivananda Maharaj: il vostro diario personale rifletterà i vostri bisogni e capacità, lo stadio della vostra evoluzione mentale, gli studi che avrete svolto, la perspicacia della vostra mente, la tecnica che adotterete, etc. Abbiate un atteggiamento positivo nei confronti della pratica.

Così come una persona malata si sente felice entrando in un processo di guarigione, anche lo Yoga, in quanto processo di crescimento da una condizione d’infermità verso sempre più salutari condizioni della personalità,

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c’incammina ad uno stato di felicità. Quando unocomincia ad essere più sano, diventa anche più felice. Mettiamo il caso che abbiate una febbrealta, e che la temperatura si vada gradualmente abbassando: mano a mano che va diminuendo sentirete maggior sollievo, una certa sensazione di soddisfazione che sorge da dentro, libera e spontanea. La stessa cosa succede con lo Yoga. È vostra madre, non vi torturerà. Si prenderà cura di voi. Neppure la migliore delle madri potrebbe uguagliare lo Yoga nell’affetto col quale bada al proprio figlio. E uguale all’affetto che lo Yoga nutre per voi dovrebbe essere l’affetto che voi sentite per lo Yoga.

E perché mai lo Yoga dovrebbe nutrire per voi tanto amore? A cosa è dovuta tutta questa considerazione che lo Yoga ha per voi, vi potreste chiedere: lo Yoga in fondo non è unessere umano. Sì, è vero, ma è più che un essere umano. Lo Yoga non va ridotto ad unaparola qualsiasi: è qualcosa che ci si schiude davanti come una sorprendente rivelazione. Quella grande cosa chiamata Yoga è Dio in persona così come noi lo concepiamo nelle nostre menti, a modo nostro; e il nostro amore per lo Yoga non è altro che l’amore per Dio, l’amore per la Realtà, per l’Assoluto, per Ciò che è. Se non è quell’essere ad amarci, chi altro si prenderà cura di noi? Neanche tutti gli uomini messi insieme possono essere così solleciti nei nostri confronti quanto questa grande realtà. Essa ci vuole più di quanto noi la vogliamo. Non è concepibile una cosa pari all’affettuosa reazione positiva che questo grande Mistero esercita in noi ad ogni istante che passa.

Sentitevi felici: “Sto nella posizione giusta rispetto alla Realtà. Dio mi vede”. E questo è un dato di fatto. Che Dio vi veda non è puro catechismo: è una verità, e non potrebbeesserci verità più grande. Ogni atomo vi osserva. Il mondo intero è all’erta e consapevole diquello che sta succedendo. Il mondo è fatto d’amore e non di ostilità, odio o distacco; è del più puro affetto che il mondo è fatto. Amore, e null’altro, è ciò che esiste qui.

L’amore è l’essenza delle cose. Voi volete le cose, ed ogni cosa vi vuole. Sentitelo, asseritelo. Cantate i mantra, recitate gli sloka, leggete le scritture, che allertano la vostra coscienza al divino amore esuberantemente presente in ogni cosa, anche nell’aria cherespirate, nel sole che splende, nella pioggia che cade, nell’atmosfera che vi circonda, nellagente intorno a voi. Sono tutti centri d’affetto, in realtà. Assumono a volte un aspetto differente a causa di un’interpretazione errata e di una valutazione equivoca dei fatti che ha luogo nella nostra percezione.

Il mondo è quindi di per sé stesso Yoga; le cose sono in uno stato di Yoga anche in questo esatto momento, e sempre lo saranno. Uno non fa altro che approssimarsi alla comprensione di questa verità. Ci ridestiamo ad una presenza che è già preesistente, piuttosto che elaborare lo Yoga coll’andar del tempo come nostra creazione. Non è che lo Yoga non sia qui ed ora, e sia invece un accadimento che avrà luogo nel corso del tempo. Non è un prodotto artificiale che l’opera dell’uomo possa fabbricare. Lo Yoga è una verità eterna. Il grande Assoluto centrale è eternamente presente: non era differente prima, non lo è adesso, e non lo sarà in futuro. Dobbiamo solo svegliarci dal sonno e vedere quello che c’è da vedere.

Dunque, lo Yoga non è creazione di qualcosa che in questo momento non

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c’è e che col tempo si dovrà concretizzare. È piuttosto una consapevolezza nella quale sfociamo, come quando ci svegliamo dal sonno profondo e diveniamo coscienti del mondo esterno. Quando ci svegliamo dal sonno non siamo noi a creare il mondo esterno, sta già lì; ci accorgiamo invece della sua esistenza, fatto del quale durante il sonno non eravamo consapevoli. Quando si dice che lo Yoga è un processo di sviluppo graduale si vuole intendere uno sviluppo e un incremento in termini di coscienza della realtà, un accrescimento nel modo profondo d’essere coscienti delle cose ed una diminuzione di quel divario che sembra esistere tra noi e il mondo.

Importante è, insomma, che abbiate un posto fisso, e sarebbe bene che vi fermaste in uno stesso luogo per un periodo di alcuni anni. Nella fase iniziale potrebbe trattarsi di uno, due o tre anni; in seguito potrebbe essere pure per tutta la vita. Non vagabondate di posto in posto come turisti: non è questa la via dello Yoga. Dovete restare in uno stesso posto per un lungo periodo di tempo, quanto più a lungo possibile.

Anche il tempo va scelto in maniera adeguata. Avrete un orario a voi conveniente, che non dev’essere necessariamente le quattro del mattino. Se le quattro del mattino sono un’ora adatta, molto bene; se così non fosse, le sei vanno altrettanto bene. Qualunque sia l’orario da voi scelto, dovrete essere confortevolmente svegli dal sonno e liberi da altri impegni.

Qual’è il momento migliore da dedicare allo Yoga? È un certo lasso di tempo durante il quale la vostra attenzione non venga distratta da altre attività della vita. Mettiamo che dobbiate prendere un treno mezz’ora dopo: quello non sarebbe un momento adatto allameditazione, perché sareste distratti. Oppure supponiamo che dobbiate incontrare qualchefunzionario di governo, o che vi aspetti un processo in tribunale: tutte queste sarebbero circostanze inadatte.

Almeno per le tre ore successive all’inizio della pratica Yoga la mente non dovrebbe essere presa da alcun impegno. Fate in modo che la mente conscia e quella inconscia vi dicano “sì, per le prossime tre ore nulla ti disturberà”. E allora sedetevi pure a fare Yoga.

Si presume che le prime ore del mattino siano favorevoli per un particolare motivo: non siete più molto consapevoli della vostra forma di soggettività così come si manifestava nelsonno, ed allo stesso tempo non avete ancora un’acuta percezione del mondo esterno.

L’ora potrebbe essere anche l’ultima della sera. Un’ora prima di andare a letto può essere un orario molto propizio. Gli ultimi pochi minuti prima di dormire dovrebbero essere dedicati ai pensieri più nobili. Chi mai può affermare con certezza che si risveglierà al mattino seguente? È un fatto risaputo che sia l’ultimo pensiero a determinare la nascita successiva: ciò che saremo quando questa vita sarà consumata è vincolato al nostro ultimo pensiero. Perché allora dovremmo intrattenere pensieri svagati al momento di andare a dormire? È sempre bene pensare le più sublimi cose possibili all’atto di ritirarsi. Leggete un passo della Bhagavad Gita, del Sermone della Montagna, oppure del Dhammapada, o di qualsiasi altra cosa vi piaccia, qualcosa che vi trasporti, vi rapisca, che vi catturi lo spirito e vi inondi con la gioia della divinità. Fate in modo che siano questi i pensieri al momento di coricarvi per la notte.

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E poi, se è volontà di Dio che non ci svegliamo al mattino dopo, così sia. Ma ci ritroveremo esattamente nell’atmosfera assonante con gli ultimi pensieri di quando andammo a dormire. Perciò è importante che la gente non passi le ultime ore del giorno in circoli sociali,alberghi, cinema, etc. È una brutta abitudine, estremamente fuorviante, molto dannosa allasalute psichica. Uno non dovrebbe mai uscire dalla propria stanza dopo il tramonto, nella misura in cui ciò sia praticabile. La gente ha l’abitudine di andare in giro di notte, e si sa cosa si vede in giro, nelle piazze e per le strade: è tutto confusione, caos, rumore, distrazione. Le ultime ore del giorno dovrebbero essere spese in modo da restare soli con sé stessi, immersi nello studio di esaltanti scritture Yoga e in nobili ed elevati pensieri che tornino a vantaggio della vostra anima.

Il luogo e l’ora vanno scelti secondo la vostra convenienza, ma sotto la guida di un Maestro. È importante che abbiate una guida fino a che non siate capaci di reggervi sulle vostre gambe, fino al momento in cui vi sentiate sicuri di poter fare tutto da soli, fin quando non abbiate più dubbi in mente, quando tutto sia chiaro e voi non andiate più soggetti alle tante difficoltà che s’incontrano sul sentiero. Fino ad allora avrete bisogno di una guida. Potete darle il nome di Guru, di amico o di filosofo. Qualunque sia il modo in cui considerate la vostra guida, essa vi è necessaria, perché il mondo è pieno di misteri e voi non sapete tutto quello che vi è racchiuso.

Ogni passo è un nuovo passo, che vi condurrà all’ignoto. Il sentiero dello Yoga è difficile da percorrere, perché i passi successivi non si possono visualizzare sin dalla fase iniziale. Vi è dato di scorgere un solo passo alla volta, e così quando verrete colti di sorpresa da un fenomeno al quale non siete abituati, non saprete come adattarvi alla situazione. Ecco perché la guida di un maestro competente o di un insegnante, l’aiuto da parte di uno che ha già percorso il cammino, è fondamentale. Egli vi aiuterà anche nei piccoli dettagli come la scelta del luogo, dell’ora e altre cose del genere.

Poi viene il metodo. Il metodo che adottate dev’essere omogeneo: non dovreste far ricorso a differenti Guru, né cambiare in continuazione le tecniche di meditazione. Dovreste far ricorso ad un solo sistema, così come s’infila un chiodo nel muro in un punto solo, e lo si fa poi penetrare a forza di martellate: non servirebbe a nulla martellare in dieci punti diversi. Per trovare l’acqua si scava in uno stesso punto, non si va giù per un solo metro in cento posti diversi. Allo stesso modo, attingete alla fonte della realtà in uno stesso punto e penetratelo a fondo: sarà lì che troverete ciò che andate cercando. Ma se grattate appena la superficie in posti diversi non troverete nulla, non ne uscirà nessun tesoro. Avrete scavato la terra per un metro in un migliaio di posti e non avrete trovato niente, perché siete andati a cercare inutilmente in tanti posti diversi. Scavate a fondo in un posto solo: è questa l’uniformità da adottare nel metodo della pratica.

Ma quale dev’essere poi questo metodo? Qui entriamo già nell’ambito di quel procedimento chiamato iniziazione. Avrete sentito dire che un discepolo, uno studente, viene iniziato ai misteri dello Yoga. Iniziazione è la prescrizione di una tecnica o metodo di meditazione. Difficilmente sareste capaci di sceglierla da soli: potrebbero sorgervi dei dubbi rispetto al fatto che una tal cosa vada bene, o quell’altra sia meglio, e così via. Un insegnante competente vi dirà, tenendo in considerazione la vostra struttura psicologica,

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qual’è il metodo di pratica a voi più congeniale, ed è appunto questo che s’intende per iniziazione allo Yoga. La prescrizione del metodo è importante. Quando un medico vi dà una ricetta, voi andate dallo stesso dottore e seguite una stessa cura: non vi mettete a cambiare di giorno in giorno i medici e le cure, ché non è certo questo il modo di curare la malattia. Allo stesso modo dovete persistere nell’adottare una sola tecnica, la ricetta che vi viene data dal vostro insegnante. Il metodo viene scelto tenendo in considerazione la natura dello studente, le circostanze sociali nelle quali si viene a trovare e tutto il resto, e varia quindi da persona a persona. Non esiste un metodo generale che vada bene per tutti.

Viene poi la regolarità. Dovete essere onesti rispetto alle cose. Lo Yoga non va preso sottogamba: è una cosa molto seria. Come non pranzate in orari differenti o a giorni alterni, perché al pancino una cosa del genere non andrebbe a genio, così la pratica va intrapresa ognigiorno alla stessa ora, e questa è regolarità. Non dovete perdere di concentrazione neppureper un solo giorno. Mettiamo che non mangiate oggi, e neanche domani, e dopodomani mangiate di nuovo, e che le cose vadano avanti così: vi rendete ben conto dell’influenza negativa che ciò avrebbe sulla vostra salute. Anche se vi trovaste su un treno in movimento, la pratica meditativa non dovrebbe subire interruzioni. Swami Shivananda Maharaj era solito fare sirshasana persino viaggiando in treno, così lo insegnava ai passeggeri interessati. Lui aveva un sistema, ed era solito fare asana tutti i giorni. Allo stesso modo, anche se siete in viaggio per via di qualche vostra faccenda, dovreste essere in grado di trovare un po’ di tempo per ritirarvi in concentrazione, dato che l’ordine ciclico della Natura ed il sistema ugualmente ciclico col quale la mente opera hanno un nesso con gli effetti di tutti i processi e attività. Succede che a un certo punto si determina una concomitanza di fattori che insieme si rendono disponibili a contribuire al successo della pratica. Come lo stomaco comincia a secernere i succhi gastrici ad una determinata ora del giorno, provocando la sensazione di fame, così la fame dello spirito si manifesta in condizioni specifiche. Dovete trarre vantaggio da questa struttura della mente, che le fa desiderare una certa cosa ad una certa ora. Attenetevi quindi alla regolarità. Se cominciate la seduta di meditazione ad una determinata ora, ripetetela ogni giorno sempre a quella stessa ora, a meno che qualcosa d’inevitabile intervenga. In condizioni normali, uno dovrebbe essere in grado di attenersi ad un orario prestabilito.

E infine, e per concludere, dovreste nutrire un grande affetto, un amore impetuoso per la pratica dello Yoga. Dovreste aver preso una decisione: “Questa è la mia meta ultima. Io sono nato solo per questo fine. Non c’è null’altro che io desideri dalla vita”. Quando si è giunti ad una simile convinzione, tutto il resto arriva. Questa vostra decisione rappresenta il grande amore che manifestate a Dio. Il nostro incontro con lo Yoga non può limitarsi ad una semplice stretta di mano: è una comunione reale che si viene a stabilire con questa grande Realtà, dal profondo della vostra anima. Se quell’amore c’è, Dio vi amerà come parte di Sé, e nulla al mondo più vi mancherà.

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METAFISICA DELLA MEDITAZIONE

Come tutte le opere che intraprendiamo nella vita, anche lo Yoga mira all’attuazione di un fine, che nel suo caso è la meditazione. Con tutta probabilità è impressione comune tra studenti e cercatori della Verità che la meditazione sia un tipo di attività come molte altre nella vita. Invece di andare a far compere, si va alla sala di meditazione. Invece di fare un certo lavoro, se ne fa un altro. Diventa una questione di scelta dell’attività, piuttosto che una trasformazione in senso qualitativo dell’attività stessa. Quando dite alla mente che deve fare meditazione, è alquanto improbabile che ciò le dia motivo di gioiosa esultanza. Se scandagliate con attenzione il vostro subcosciente, scoprirete l’esistenza di questo strano atteggiamento interiore.

Vi scoprirete, almeno in certa misura, in uno stato di tensione. Avrete l’impressione che vi sia stato imposto un dovere. La mente ha paura della parola disciplina per via di un certo particolare significato che le attribuisce. Ed è appunto quel certo significato il fattore cheincute timore nella disciplina. Meditazione è per alcuni versi disciplina, com’è ovvio che sia. E a noi la disciplina e la sistematizzazione d’una cosa qualsiasi

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non piace, perchè ci sembra così di porre dei limiti alle abituali inclinazioni della mente. La contenzione di un desiderio è dolore per la mente, non certo gioia; e se lo Yoga, o la pratica spirituale, o la meditazione è destinato ad essere un qualche tentativo di contenere le normali brame della mente, questo non la renderà senz’altro felice. Sussisterà una tendenza inconfessata all’ansia e al risentimento, nonostante il fatto di accettare con la logica dell’intelletto la necessità della meditazione e della vita spirituale.

L’uomo non è fatto di mera logica. La mente è capace di mandare all’aria tutta la logica in un solo istante nel momento in cui s’accorge che questa va contro i suoi più profondi desideri. La logica va a farsi benedire, e le argomentazioni razionali non avranno alcun peso di fronte alla pressione delle smanie istintive, dei desideri del cuore, delle normali modalità con cui la mente opera. Una difficoltà del genere può senz’altro costituire un ostacolo a qualunque successo concreto nella pratica dello Yoga. Vari tipi di battaglie si scatenano al nostro interno, c’è sempre una guerra in corso nelle nostre menti. È proprio vero che siamo come una casa divisa contro sé stessa.3

Viviamo in due mondi contemporaneamente: l’uno ci trascina in una direzione, l’altro in quella opposta. Chi può negare di avere dei desideri e che questi non sempre hanno a che vedere con Dio? Esistono come dei cordoni ombelicali che ci connettono alle diverse occupazioni della vita e a quei sentimenti che divengono parte essenziale della nostra esistenza. Ci sono determinate cose che mai potremmo dimenticare, nonostante tutti i nostri sforzi. Chi può dimenticare di essere un indiano, o un inglese, o un americano? Non possiamo dissociarci dall’idea di essere nati da certi genitori, che la tal persona è nostro padre, madre, fratello, sorella, e via dicendo.

Ci sono pregiudizi che vengono ratificati politicamente, socialmente ed eticamente come cose del tutto normali e necessarie. Simili consuetudini vengono da noi accolte come parti inseparabili della nostra vita: queste parti suppostamente inseparabili sono i nostri reali nemici. I nostri avversari non sono persone né cose, sono certi modi di pensare. Esistono determinati solchi di pensiero lungo i quali la mente si muove, come un treno che corre sulle rotaie. Non può cambiare direzione se non lungo quegli stessi binari, come un fiume che scorre nel letto che esso stesso ha tenacemente scavato. Certe attitudini della mente vengono da noi considerate normali, e le sole degne d’essere prese in considerazione: sono i sentimenti, i nostri pregiudizi preferiti.

Ma il pensare in modo segmentato, isolando un aspetto della vita dall’altro, rifiutando un punto di vista col collocarsi da un altro punto di vista, rispecchia la tendenza della mente a dividersi in un certo numero di settori carenti di un adeguato rapporto organico tra le loroparti. La meditazione non è un’attività paragonabile a un altro qualsiasi lavoro che possiamosvolgere al mondo. La prima cosa da tenere a mente è che il lavoro ci stanca, ci affatica, ci rende esausti e ci fa venir voglia di riposarci una volta che lo si è portato a termine. Uno svuotamento di energia fa seguito a qualunque tipo di lavoro. Una certa parte del quantum totale d’energia contenuta nel sistema viene stornata per lo svolgimento del lavoro. Nel lavoro si spende energia. Se dell’energia viene consumata anche durante la meditazione, è probabile che ci troveremo a dire: “Mi sento esausto, non posso continuare a meditare per ore ed ore: è un lavoro noioso”.

La meditazione diventa un lavoro anziché qualcosa che risulti spontaneamente gradito alla mente. Diventa una disciplina e un’imposizione

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quando è una cosa che qualcuno ci chiede di fare piuttosto che qualcosa che abbiamo accettato di fare di nostra spontanea volontà. Unlavoro faticoso è quello che facciamo per volere di qualcun altro. Un lavoro da noi stessideliberatamente intrapreso non può stancarci così tanto, perché in questo caso la mente va ad identificarsi col lavoro. La dissociazione del lavoro dalla struttura organica della psiche è la ragione della fatica. Allora, ci si può chiedere, cos’è la meditazione se non è un lavoro?

Ciascuna attività è un processo in divenire, è una tendenza da parte del soggetto a muoversi verso un oggetto. Qui per oggetto non vogliamo necessariamente intendere una sostanza solida, concreta. Qualsiasi cosa si possa concepire nello spazio e nel tempo è un oggetto; ed il nostro pensiero, per potersi muovere in direzione ad uno qualsiasi di questi oggetti esterni, ha bisogno di un flusso d’energia proveniente dall’intero sistema. La percezione, la cognizione o qualsiasi altro atto deliberato della coscienza richiede l’afflusso di una certa quantità d’energia dal soggetto all’oggetto. Patanjali fa qui cenno alle funzioni psicologiche, dette Vritti e divise in Klishta Vritti e Aklishta Vritti, volendo con ciò indicare quelle psicosi della mente che operano nei processi di percezione, cognizione e sentimento, e che vengono tutte da lui considerate come ostacoli allo Yoga.

La percezione di un oggetto viene quindi considerata un ostacolo nello Yoga. Ora, quale sarebbe il problema nel semplice fatto di percepire un albero? “Mi sto godendo la vista di un albero, o del sorgere del sole, o della luna, o di un bel fiore: come può una cosa del genere essermi d’ostacolo?”. Ci rendiamo conto di come ciò sia d’impedimento solo quando ci addentriamo nel profondo della mente stessa, del modo in cui essa si rapporta alla realtà nel suo complesso. Ciò che definiamo meditazione nel senso spirituale, a rigore, non è un lavoro che la mente svolge in relazione ad alcun oggetto esterno. Non è una tendenza a divenire, quanto piuttosto una tendenza ad essere. Stiamo qui usando dei termini significativi, il cui senso deve esserci chiaro. Cos’è il divenire? Cos’è l’essere? E qual’è la differenza fra i due?

3 Cfr. Nuovo Testamento - Mt. 12 : 25 ; Lc. 11 : 17. (N.d.T.)

Il divenire è un processo attivo di trasformazione di condizioni o eventi in direzione ad una meta finale che deve ancora essere raggiunta estrinsecamente nello spazio e nel tempo. Ogni cosa si trasforma in qualcos’altro, muta da una condizione a un’altra. E questa tendenza che le cose hanno alla trasformazione in uno stato differente è indice dell’irrequietezza che caratterizza la condizione in cui esse già si trovano. L’irrequietezza esiste perché il permanere a lungo in quella determinata condizione risulta insoddisfacente. Risulta insoddisfacente perché non rappresenta ciò di cui uno ha bisogno. Ciò di cui uno ha bisogno si trova al di fuori, e si viene così a determinare un moto spaziale, un’attività temporale, al di fuori di sé stessi e in direzione a un qualche possibile obiettivo. Il divenire è dunque un movimento oggettivo della coscienza. La meditazione non è affatto un movimento in direzione ad alcun oggetto al di fuori della coscienza, anche se in alcuni tipi di meditazione può sembrare che si mediti su un certo oggetto. Anche in questo caso il movimento è solo apparente e non una vera e propria attività nel senso di un’alienazione nei confronti degli oggetti.

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Torneremo su questo punto un po’ più in là.L’essere è diverso dal divenire. La differenza dovrebbe essere evidente:

mentre caratteristica del divenire è una tendenza alla trasformazione in direzione a qualcosa al di fuori di sé stesso, l’essere è un tendere a sé stessi, è un’auto-ritrazione all’interno del nucleo dellapropria esistenza e non un isolarsi in qualcosa di diverso da ciò che uno è. Cosa sia unoggetto, e cosa un soggetto, è una domanda che ancora una volta ci si ripropone. Cosa vogliamo indicare con la parola ‘oggetto’? Qualsiasi cosa che non possiamo considerare come identica a noi stessi; qualsiasi cosa che sia, dal nostro punto di vista, completamente scissa da ciò che noi riteniamo di essere — quello è un oggetto, un questo-non-sono-io.

E qualsiasi cosa alla quale siamo vitalmente connessi in maniera inseparabile, nel cui contesto asseriamo un’autoidentità — quello è un soggetto. Quando parliamo di soggetti e oggetti ci riferiamo naturalmente alla consapevolezza, il cui ruolo in tutta la sfera dell’esperienza è imprescindibile. È la consapevolezza di una particolare circostanza che mette in campo la distinzione tra soggettività ed oggettività. La consapevolezza di una cosa si dissocia da quella cosa stessa e presume l’esistenza di una qualche distanza spaziale, o quantomeno di una differenza spaziale logicamente concepita, tra sé e l’oggetto. Ma quando nessuna distinzione spaziale del genere tra l’oggetto e la consapevolezza può venir concepita, allora non esiste oggetto, vi è solo soggetto. Solo la coscienza può essere soggetto, tutto il resto è oggetto.

Qualsiasi cosa sia separabile dalla coscienza può essere per essa un oggetto. Ora, questa separabilità potrebbe essere puramente concettuale, potrebbe non essere un dato di fatto. Che si tratti di un’immaginaria nozione di diversità oppure di un’effettiva distinzione, fintanto che la mente o la coscienza non siano capaci di accettare la propria unità con quel particolare contesto o cosa, quest’ultimo rimane un oggetto. Nella meditazione la coscienza è messa in grado, non con l’esercizio di alcuna forza esterna ma attraverso un’educazione in essa indotta dall’interno, di dischiudersi ad una più ampia comprensione dei fatti nella quale la propria nozione degli oggetti viene mutata e trasformata.

Non è che le cose subiscano un’effettiva metamorfosi nella meditazione: è piuttosto la nostra nozione degli oggetti a cambiare. Per fare un esempio comune, prendiamo il fenomeno della distinzione che operiamo tra gli oggetti del sogno e quelli della veglia. Nel sogno gli oggetti si trovano totalmente scissi dal soggetto percepiente. Stiamo sognando e non sappiamo di starlo facendo, mentre sogniamo. La questione del sogno non si pone quando ci troviamo di fatto in quella condizione: è un’esperienza valida come qualunque altra. Le cose che vediamo in sogno si trovano da noi separate, ed è per questo che proviamo piacere e dolore anche nel sogno.

Esistono nel sogno cose di tutti i generi, così come nella veglia. Ci sono valli e colline, persone e cose, esperienze piacevoli e tristi. Tutti questi oggetti del mondo onirico checausano gioie e dolori si trovano dissociati da quel particolare livello di coscienza che lisperimenta, ed è questa la ragione dell’esistenza di gioia e dolore. Gioie e dolori sono causati dalle reazioni che si instaurano tra la coscienza soggettiva ed il suo modo di relazionarsi all’oggetto in questione. Quando ci svegliamo dal sonno, cosa succede? Gli oggetti che vedevamo in sogno, che erano

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motivo di gioie e dolori, sono completamente scomparsi. E insieme agli oggetti, sono scomparsi anche le gioie e i dolori ad essi associati. Dove sono andati a finire questi oggetti? In che si sono dissolti?

Gli oggetti onirici, causa di gioie e dolori, potevano venir distinti nozionalmente dalla coscienza senziente, ma non di fatto. Questo ci è chiaro al destarci dal sonno. La tigre che ci piombava addosso nel sogno non era davvero al di fuori di noi. Era una particolare modificazione della nostra stessa mente ad architettare una discrepanza spaziale e temporale tra sé stessa ed il concetto chiamato tigre, o un altro concetto qualunque; e le gioie e i dolori erano dovuti ad una discrepanza spazio-temporale tra la coscienza senziente e l’oggetto. Se lo spazio onirico o il tempo onirico non fossero presenti, noi non potremmo provare né gioie né dolori. La cessazione di gioie e dolori al risveglio, una volta finito il sogno, è interamente dovuta alla cessazione dello spazio-tempo che operava nel sogno. Quando lo spazio-tempo onirico si dissolve, anche gli oggetti onirici svaniscono. Abbiamo già precedentemente osservato come spazio-tempo ed oggetti vadano l’uno con gli altri. Abbiamo anche avuto modo di considerare lo spunto offerto dalle scoperte della fisica moderna, attraverso le quali la scienza è giunta alla conclusione che gli oggetti nel mondo sono indistinguibili da ciò che chiamiamo spazio e tempo. Essi stessi vanno piuttosto considerati come configurazioni spazio- temporali. Non esistono oggetti: tutto ciò che esiste è solo spazio-tempo.

Attraverso l’analogia del sogno arriviamo a renderci conto di come gli oggetti possano sembrare esistere al di fuori di noi e causarci gioie e dolori, anche se in realtà non è così. Potremmo possedere una grande fortuna in sogno, e sentirci molto felici. Potremmo vincere insogno un milione di dollari alla lotteria. Potremmo cadere da un albero nel sogno, romperciuna gamba e provare dolore. Ma cosa sono in fondo queste esperienze? Null’altro che effetti dello spazio-tempo nel quale ci troviamo avviluppati. La nostra coscienza onirica è rimasta impigliata nella nozione di una differenza tra sé stessa e lo spazio-tempo nel quale percepisce gli oggetti.

Quando ci risvegliamo, cosa succede? Spazio, tempo e oggetti onirici vengono riassorbiti nelle nostre menti. Un mondo di sogni suppostamente oggettivo viene assimilato nella mente, che adesso è sveglia e racchiude in sé tutti quei fattori che concorrevano a formare sia lo sperimentatore del sogno che gli oggetti onirici. Quest’analogia ci può dare un’idea di ciò che avrà luogo durante la meditazione. Svegliarsi consapevolmente dal sogno, essere cioè consci del processo stesso col quale si passa dal sogno al mondo dello stato di veglia, essere consapevoli tanto del groviglio quanto del modo in cui districarsene: tutto ciò suggerisce la serie di processi attraverso i quali dobbiamo passare nella meditazione Yoga.

Se per caso, invece di venire improvvisamente stimolati al risveglio da un qualche fenomeno di cui non abbiamo coscienza come di solito avviene, ci trovassimo ad essere consapevoli di ogni passo ed ogni stadio presenti nelle modalità con le quali la psiche si sveglia dal sonno, questo ci fornirebbe una specie di analogia atta a descrivere il processo meditativo. E questo è quanto risulterebbe dal paragone: quando ci svegliamo gli oggetti onirici vengono riassorbiti nelle nostre menti, ed ecco perché non suscitano più in noi gioia o dolore e non ce ne curiamo oltre. Perché non esistono affatto. Essi sono noi. Gli oggetti onirici insieme allo spazio-tempo onirico sono diventati ciò che noi siamo. L’oggetto è divenuto soggetto. Non c’è quindi piacere né dolore in

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relazione alle cose che vedevamo in sogno. Ora, questo cosidetto noi che ha assorbito in sé l’intero fenomeno onirico dovrebbe venir considerato comprensivo sia del soggetto che dell’oggetto del sogno. Noi c’eravamo collocati nel ruolo di sperimentatori del sogno ed avevamo relegato una parte di noi stessi al ruolo di oggetti dello spazio-tempo onirico. E quando noi ci svegliamo, essi si ritraggono. Questo processo di ritrazione è simile a quello dello Yoga. La differenza è che nello Yoga il processo è conscio e intenzionale, piuttosto che un evento inconscio o uno scossone improvviso che ci arriva da chissà dove. Noi mettiamo la mente in condizione di educarsi all’effettivo stato delle cose. Il mondo esterno è a noiconnesso nello stesso modo in cui gli oggetti onirici sono connessi allo sperimentatore del sogno. Gli edifici che vediamo al di fuori, tanto per fare un esempio, e dentro ai quali ci troviamo seduti, sono a noi collegati allo stesso modo in cui la stanza o gli edifici nel sogno sono collegati allo sperimentatore del sogno.

Il legame nel sogno era inscindibile perché le cose non si trovavano veramente all’esterno. Questa constatazione spiega anche perché la meditazione non dovrebbe essere considerata come un’attività o un’incombenza da svolgere. Non è un lavoro nel quale ci affaccendiamo fino a stancarcene. La meditazione dovrebbe diventare fonte di soddisfazione e di sollievo dalla tensione, e non motivo di stanchezza ed esaurimento. Più diveniamo noi stessi, più ci sentiamo liberi dalla tensione. Tensione è alienazione di sé stessi a favore di qualcosa che è diverso da sé, ed è generata da una distinzione innaturale nel funzionamento della nostra psiche, una pressione che viene su di essa esercitata da condizioni sulle quali non ha controllo e che considera in qualche modo esterne a sé stessa.

La ritrazione alla quale ci si riferisce nella pratica dello Yoga non è un’attività gravosa;

non la si dovrebbe anzi considerare affatto come un’attività. È piuttosto il recupero della salute, da parte della coscienza, da quello stato di malattia in cui si trovava nella sua condizione individualizzata. Se consideriamo il sogno come uno sciagurato incubo e non come un salutare stato della mente, allora anche quest’esperienza oggettivizzata del mondo sensibile non può apparire ai nostri occhi come una condizione spiritualmente salubre. Ecco perché Patanjali considera tutte le percezioni come disnecessarie attività della mente rispetto a cose delle quali non dovrebbe interessarsi. Sono tutte Vritti, ostacoli da superare. Con l’assoggettamento delle Vritti, o Vritti-Nirodha, nello Yoga, ogni nozione riguardante gli oggetti viene trasformata in una più alta soggettività. Dobbiamo qui sottolineare l’espressione ‘più alta soggettività’: non si tratta infatti della soggettività empirica che ben conosciamo.

La coscienza dello stato di veglia è una soggettività superiore in dimensione alla soggettività onirica. Ecco perché siamo più liberi nella veglia che nel sogno. Se così non fosseci dispiacerebbe d’esserci svegliati dal sonno. Ci sentiamo invece molte volte alleviati dal fattoche l’incubo sia svanito, che lo spauracchio non ci sia più, perché la coscienza dello stato di veglia è una dimensione di comprensione più vasta di quella in cui ci troviamo in qualità di sperimentatori del sogno. Ma il nostro ritrarci dalla consapevolezza oggettiva nella soggettività di cui stiamo qui parlando non significa un’introversione nel senso usato dalla psicologia e dalla psicoanalisi freudiana o junghiana. Si sente spesso parlare di estroversi e introversi, una

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classificazione creata da Jung nella sua psicologia analitica, ma non è questo tipo di introversione che qui s’intende.

Gli Yogi vengono frequentemente considerati degli introversi dalla gente, e questo termine viene spesso usato in senso denigrativo, come per etichettare una persona già sospetta. Gli Yogi non sono degli introversi in senso psicologico. Li possiamo definire introversi nella stessa misura in cui lo diventiamo noi dopo che ci svegliamo dal sonno. Si tratta qui di un dirigersi all’interno dell’essere in senso metafisico: noi ci introvertiamo in questo senso particolare così come gli oggetti del mondo onirico vanno a finire nella nostra soggettività al risveglio. Ma non per questo diciamo di trovarci in una condizione patologica quando siamo nello stato di veglia. L’introversione psicologica è invece una maniera parziale della mente di esprimersi a sé stessa, biforcandosi dalle attività estroverse. Jung propugna una miscela di estroversione e introversione: qualsiasi esagerazione da un lato o dall’altro viene ritenuta portatrice di una condizione psicopatologica. Lo Yoga è ben lontano da ciò.

Noi abbiamo dei grandi esperti in psicanalisi, come Patanjali, ma i loro insegnamenti sono del tutto diversi. Mentre è vero che la meditazione ai suoi più alti livelli è un tentativo di autoritrazione, ciò non significa ritirarci nel bozzolo della nostra personalità individuale. Lo Yoga è un sano rimedio che viene prescritto per quello stato di infermità nel quale la mente si viene a trovare quando si aliena nella falsa nozione che gli oggetti si trovino al di fuori di essa, cosa che non risponde a verità. Il Pratyahara di cui si parla nel sistema Yoga, la ritrazione dei sensi dagli oggetti, non significa tagliarsi fuori dalla realtà delle cose. Se quest’idea sbagliata persiste nella mente, uno non può evitare di sentirsi infelice durante la meditazione. La mente dirà: “Quand’è che finisce questa meditazione? Non vedo l’ora di alzarmi e andare a fare un giro”. E questo perché abbiamo l’impressione che andare a fare un giro rappresenti un entrare nella realtà delle cose da cui ci siamo innaturalmente ritratti con la meditazione.

La mente alimenta la nozione che, tutto sommato, la realtà è al di fuori. “Mi sono artificiosamente separato dalla realtà nella sala di meditazione, e allora me ne voglio andare da questo posto al più presto possibile”: e questo è un triste stato di cose. La meditazione non è rimozione dalla realtà, così come destarsi dal sogno non è passare da una realtà all’irrealtà. Come ognuno ben sa, lo stato di veglia è una realtà superiore al sogno, e la soggettività in cui la coscienza oggettiva si ritira durante la meditazione non è il soggetto individuale del tal signore o della tal signora, di Tizio, Caio o Sempronio. Ciò che viene qui preso in esame è un soggetto molto più vasto che include la nostra idea attuale di un soggetto dentro noi stessi e di oggetti al di fuori, allo stesso modo in cui il soggetto onirico e gli oggetti onirici vengono a ricongiungersi nel soggetto dello stato di veglia. Al solo sentirne parlare e sapendo che sarà questa la vera conquista della meditazione, la mente vorrà saltarci dentro come in un fiume di nettare. “Oh, allora è di questo che si tratta! Diventerò nella meditazione un essere maggiore di quello che sono oggi, in questo momento! Sarò più vitalmente connessa con tutte le cose di quanto sappia di esserlo adesso!”. Se la mente si convince oggi attraverso un processo educativo, nel senso Yoga del termine, terrà la bocca chiusa in seguito.

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Vi scorderete di colazione, pranzo e cena, implorerete “quando sarà che potrò entrare in questo stato?”, invece che stare lì a dire a voi stessi “quando finirà questa meditazione?”. La gente ha una nozione piuttosto inesatta della meditazione, dello Yoga, ed anche di Dio, un’idea sbagliata circa sé stessi ed il proprio rapporto con le cose. Prima d’intraprendere qualsiasi serio tentativo di meditazione dobbiamo ripulire la nostra mente da tutte le ragnatele e le immondizie, dalla paccottaglia di sentimenti e pregiudizi che ci sono stati inculcati in conformità alle condizioni sociali nelle quali siamo venuti al mondo, in modo da rimetterci a nuovo in vista della pratica.

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