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ORIGINE DELLA NATURA MORTA IN ITALIA Caravaggio e il Maestro di Hartford a cura di Anna Coliva e Davide Dotti SKI

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L'ORIGINE

DELLA

NATURA MORTA

IN ITALIA

Caravaggio e il Maestro di Hartford

a cura di

Anna Coliva e Davide Dotti

SKIRA

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I pionieri lombardi della natura morta italiana

Giacomo Berra

Un ipotetico viaggiatore europeo appassionato di pittura che nel corso della fine del Cin-quecento e dei primissimi anni del secolo seguente avesse voluto aggiornarsi e informarsi sulla produzione di quadri naturalistici privi (o parzialmente privi) della figura umana avrebbe dovuto in particolare soggiornare in alcune città europee come Toledo, Anver-sa, Haarlem, Francoforte e poche altre. In Italia avrebbe dovuto ovviamente fermarsi a Roma, ma soprattutto avrebbe dovuto prima visitare le botteghe presenti in Lombardia, a Cremona e in particolare a Milano. Gli studiosi, infatti, seppur con le diverse e anche per alcuni aspetti legittime patriottiche predilezioni, sono concordi nell’individuare in tali zone geografiche, e in particolare in Lombardia, la nascita, verso gli anni novanta del Cinquecento, della natura morta europea come genere autonomo1. L’individuazione dell’origine di un genere pittorico è sempre molto complessa. Diversi sono i fattori che entrano in gioco. Spesso le testimonianze su cui basarsi sono frammentarie, appros-simative o celate indirettamente dagli stessi contemporanei che ancora non sono ben consapevoli che sotto ai loro occhi sta nascendo un nuovo tipo di pittura. Non a caso, come è noto, anche le espressioni che nelle lingue europee hanno indicano tale nuovo genere – “stilleven”, “stilleben”, “bodegones” “still life”, “oggetti inanimati”, “oggetti da ferma”, “nature morte”, “natura morta” ecc. – sono state codificate solo successivamente e, in alcuni casi, molto tempo dopo2. Gli studi specialistici hanno già evidenziato, seppur con accentuazioni diverse, che le cause e le concause che determinarono la nascita della natura morta furono molteplici, con intrecci e pesi diversi a seconda dei singoli Paesi europei. Si è parlato di ripresa della pittura antica, dell’influenza delle grottesche, dell’e-strapolazione di parti naturalistiche da dipinti religiosi e dell’isolamento dei marginalia. È stata anche sottolineata l’importanza della tradizione dei festoni naturalistici e di quella delle tarsie lignee. Ed è stato inoltre evidenziato il ruolo dell’illustrazione scientifica, della diffusione di repertori di incisioni floreali, dell’allegorizzazione dei cinque sensi, della vanitas, del memento mori e di altro ancora. Tra i centri europei più innovativi non si può dunque negare, pur tenendo conto dello stato frammentario delle nostre attuali conoscenze, che proprio Milano sia stata, negli ultimi decenni del Cinquecento, la città più all’avanguardia nel campo della riproduzione dei naturalia e che quindi sia stata, di fatto, anche il vitale crogiolo della nascente natura morta. Non è dunque affatto casuale che quei pittori che oggi consideriamo i precursori e i pionieri del genere della natura morta anche a livello europeo, cioè Vincenzo Campi, Giuseppe Arcimboldo, Giovan Am-brogio Figino, Fede Galizia e il Caravaggio, siano tutti lombardi e operanti in maniera più o meno intensa a Milano in quel periodo3. Ciascuno di loro, nell’elaborare una peculiare

Vincenzo Campi Fruttivendola, particolare (cat. 1)

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resa ottica del mondo naturale, ha operato secondo la propria inflessione ed esperienza maturata in tempi e in modi diversi. E in questo saggio cercherò di evidenziare, anche in maniera problematica, le possibili reciproche influenze e il loro decisivo contributo per lo sviluppo della natura morta in Italia.

Già da tempo gli studiosi hanno evidenziato che proprio in terra lombarda nel corso dei secoli precedenti si era sviluppata una vivissima sensibilità per il mondo na-turale espresso tramite miniature e illustrazioni inserite negli erbari, nei calendari ecc.4. A tale sviluppo autoctono si è poi associato l’importante innesto naturalistico portato a Milano da Leonardo. La ricerca fenomenologica leonardesca, che continuerà a pulsare con vivacità nelle botteghe milanesi ancora nella seconda metà del Cinquecento, è testi-moniata non solo dagli stupendi inserti naturali del Cenacolo, ma anche da una serie di affascinanti disegni naturalistici elaborati dallo stesso Leonardo e ampiamente circolanti tra gli artisti lombardi. Non a caso, l’artista fiorentino, su un foglio del Codice Atlantico, aveva così annotato il risultato di un suo lavoro: “Molti fiori ritratti di naturale”5. Si può a tal fine ricordare un suo bel disegno con lo Studio di due piante (realizzato per la Leda), con foglie di specie diversa e con fiori accuratamente delineati e vivacizzati da un tratteggio obliquo e da un contorno che rendono la fragranza del mondo vegetale (fig. 1)6. Alcuni pittori lombardi, più o meno direttamente legati a Leonardo, hanno saputo proprio far tesoro delle sue ricerche elaborando dei dipinti in cui gli elementi naturali acquistano un ruolo non secondario e di grande impatto visivo. Ad esempio, un artista come il Bernazzano (Bernardino Marchiselli de Quagis) era divenuto uno specialista nel dipingere i paesaggi e soprattutto nel riprodurre, alla fiamminga, fiori, piante e anima-li, come ben si vede nello sfondo e nel primo piano del Battesimo di Cristo realizzato in collaborazione con Cesare da Sesto7. Un bell’esempio di inserto naturalistico è presente anche nella tavola del leonardesco Francesco Melzi raffigurante Vertunno e Pomona: qui l’affascinante Pomona discorrendo con la vecchia (in realtà Vertunno) trattiene con le

mani un bel cesto di vimini ricolmo di frutta, foglie e fiori (fig. 2)8. Naturalmente vari inserti di nature morte si possono trovare anche in altri dipinti di pittori lombardi del Cinquecento. È stato ad esempio più volte citato il contenitore metallico ricolmo di frutti posto alla base del trono nella Madonna in trono col Bambino tra i santi dipinta dal Moretto per la chiesa di Sant’Andrea a Bergamo (fig. 3). E sono stati anche ricor-dati gli oggetti posti sulla tavola dell’Ultima cena realizzata da Gerolamo Romanino per la chiesa parrocchiale di Montichiari. Non a caso questi due pittori sono alcuni di quelli che, come noto, Roberto Longhi ha inserito in quel filone realistico lombardo da lui individuato come fondamentale per la formazione artistica del giovane Merisi9. Si può inoltre ricordare come anche il bergamasco Gian Paolo Lolmo (1550 circa - 1596), allievo del Moretto, abbia inserito nella sua Allegoria dell’Autunno un contenitore con frutta e foglie che possiamo considerare come un preludio alle sintetiche nature morte lombarde successive10. Non è tuttavia condivisibile l’opinione di chi ritiene che si possa intravedere la mano dello stesso Lolmo in alcune nature morte generalmente riferite a Fede Galizia o a Panfilo Nuvolone11.

Tutte le esperienze intrise di naturalismo qui velocemente ricordate sono state però rivitalizzate da alcuni pittori lombardi operanti negli ultimi decenni del Cinquecento. Come si è già accennato, è noto che la natura morta ha avuto, in alcuni casi, una genesi determinata dalla selezione di alcune parti naturalistiche inserite in dipinti di soggetto religioso. Sono celeberrime, in tal senso, alcune opere del fiammingo Pieter Aertsen e del nipote/allievo Joachim Beuckelaer create a partire dagli anni cinquanta del Cinquecen-to12. Nei loro quadri la scena propriamente religiosa si riduce sempre di più, fino a essere relegata in un angolo. Ciò che invece fa da ‘contorno’ e da ‘corollario’ naturalistico si allarga e si espande sino a occupare buona parte del dipinto, per poi vivere di vita propria senza il supporto simbolico del tema religioso. Questa figurazione così ristrutturata è stata anche chiamata immagine “raddoppiata” o “invertita”, ed è stato pure detto che il cibo in primo piano, che attira lo spettatore, funziona quasi come “uno specchietto per le allodole”13. In questi dipinti, per usare un linguaggio cinematografico, si ha quindi

1. Leonardo da Vinci Studio di due piante Windsor, Royal Library

2. Francesco Melzi Vertunno e Pomona, particolare Berlino, Staatliche Museen, Preussischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie

3. Alessandro Bonvicino detto il Moretto Madonna in trono col Bambino tra i santi Eusebia, Andrea, Domno e Domneone, particolare Bergamo, chiesa di Sant’Andrea

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quasi una sorta di dissolvenza incrociata tra la scena religiosa e l’ostentazione naturali-stica, con una contemporanea zoomata sul primo piano ridondante di elementi naturali.

Gli studiosi già da tempo hanno evidenziato come alcune delle tele del fiammingo Aertsen e del nipote Beuckelaer siano state determinanti per la produzione dei quadri di ‘genere’ dipinti da Vincenzo Campi (1530/1535-1591). Questo pittore cremonese, ri-prendendo e modificando i modelli nordici, ha elaborato una serie di quadri con scene di genere caratterizzate da notevoli e variegati inserti naturalistici. Si tratta, in particolare, di due ‘serie’: una comprende cinque quadri (Pescivendoli, Fruttivendola, Pescivendola, Pescivendoli, Pollivendoli) e ancora si trova nel castello Fugger di Kirchheim (lì inviati per adornare la sala da pranzo del banchiere); la seconda, composta da altri cinque dipinti (Pollivendoli, Cucina, Fruttivendola, Pescivendoli, San Martino/Trasloco), è invece conservata presso la Pinacoteca di Brera (l’ultimo è però custodito nel Museo Civico di Cremona). Il tema della frutta, ovviamente assai frequente nei quadri della nascente natura morta, si trova in particolare nella famosa Fruttivendola del museo milanese, il cui primo pia-no presenta appunto una variegata serie di contenitori con frutta e ortaggi dipinti con grande acume naturalistico (cat. 1). I quadri di Vincenzo sono stati oggetto di diverse, e tra loro anche contrastanti, interpretazioni: sono stati letti come intrisi di rimandi alla cultura popolare, ai temi sessuali, alle simbologie religiose e al mondo mercantile14. Il dipinto della Fruttivendola, in particolare, è stato anche interpretato sia come un’allu-sione alla fertilità cosmica della natura, sia come una visione espositiva dei prodotti di tutte le stagioni dell’anno15. Ovviamente gli studiosi si sono chiesti attraverso quali vie il pittore cremonese possa aver conosciuto i modelli fiamminghi. È molto probabile, è stato detto, che il Campi abbia tratto ispirazione da quelle tele dell’Aertsen e del Beu-ckelaer che si potevano trovare nel palazzo cremonese degli Affaitati (una famiglia che commerciava con Anversa) o presso la collezione Farnese di Parma16. Il Campi, però, non si è limitato a riproporre i modelli d’oltralpe: egli, pur mantenendo la figura umana, ha eliminato completamente le scene religiose. Inoltre, è stato scritto, le sue opere sono più “un’esposizione di nature morte con figure” che vere e proprie scene mercantili come nei quadri dei pittori fiamminghi17. Le tele di genere del Campi, basate su un’operazione di ‘riforma’ dei modelli nordici, hanno di fatto costituito un importantissimo ponte di collegamento tra la cultura fiamminga e quella italiana. Non a caso i suoi quadri hanno di certo influenzato altri pittori italiani come Bartolomeo Passerotti e Annibale Carracci18.

Vincenzo ha operato prevalentemente a Cremona dove è nato, ma durante la sua carriera ha lavorato pure a Milano. L’artista, assieme ai fratelli Giulio e Antonio, era sicuramente a Milano dal 1586 al luglio 1589, intento alla decorazione della chiesa mo-nacale di San Paolo Converso19. In particolare, secondo due testimonianze archivistiche, Vincenzo risultava abitante nella parrocchia di Sant’Eufemia presso Porta Romana il 9 e il 13 giugno 1589. L’11 agosto 1589, invece, il pittore è testimoniato di nuovo a Cremo-na, anche se non è escluso che sia ritornato a Milano provvisoriamente altre volte20. È dunque possibile che alcuni dipinti con soggetto naturalistico fossero presenti anche a Milano. Suo fratello Antonio Campi aveva espressamente affermato che le opere “pre-giate” di Vincenzo, oltre che in Cremona e in diverse altre città, si trovavano anche “in Milano”21. E Alessandro Lamo aveva scritto che il suo “ingegno è molto più conosciuto in Melano, che in Cremona sua patria”22. Le opere del Campi, quindi, dovevano essere

ampiamente note in tutta la Lombardia. Sappiamo che due di esse giunsero pure nella collezione asburgica di Rodolfo II, dove nel 1621 furono registrate come “Ein fischmark vom Campo Cremonio (Orig.)” e “Ein obstmark vom Campo Cremonio (Orig.)”, cioè un Mercato della frutta e un Mercato del pesce23. Il sovrano aveva dimostrato di apprezzare in modo particolare le due tele del pittore cremonese perché da una lettera del 7 luglio 1604 risulta che “l’Imperatore stette due hore e mesa assentato [seduto] senza moversi da guardar li quadri delli mercati di fruta et pescaria” del Campi. Rodolfo ne era rima-sto così entusiasta che aveva fatto scrivere “a Cremona per saper se il pitore fusse vivo per tirarlo al suo servitio”24. Vincenzo era però già morto da qualche anno, nel 159125. Potrebbero essere, forse, di sua mano anche alcuni dei seguenti quadri di genere presenti nella collezione milanese del capitano Pompeo Lombardo registrati il 16 settembre 1585: “sette quadri incornisata dipinti a Cusina et altro”, “seij quadri grandi della stagione et arche di noe”, “doj quadri del Inverno”26. Sappiamo inoltre che le opere naturalistiche del Campi furono copiate più volte. Lo si deduce anche da un’osservazione dell’abate Desiderio Arisi, il quale, agli inizi del Settecento, scrisse a proposito delle opere del pit-tore compatriota: “Di queste belle cose di Vincenzo è incredibile la quantità delle copie, che ne sono sortite dalla foresteria di S. Sigismondo tanto in Cremona, quanto in altre città onde delle di lui invenzioni se ne fanno tutto dì belli i pittori.”27

Tra i dipinti di genere di derivazione campesca rientra anche una Cucina di colle-zione privata attribuita a Luca Cattapane (secondo quarto del XVI secolo - 1600 circa), il quale probabilmente la eseguì con l’aiuto dello stesso Vincenzo di cui era allievo28. Meno nota, invece, è l’attività nell’ambito di tali dipinti di ‘genere’ – o, per usare altre espressioni, di ‘humilia’ o di pitture ‘ridicole’ – del pittore cremonese Giulio Calvi detto il Coronaro (1550/1560 circa - 1596), un allievo di Bernardino Campi. Questo artista il 19 febbraio 1588 firmò un contratto impegnandosi a fornire entro i dieci mesi successivi, per un importo di 125 scudi, ben otto dipinti fatti “al natural” (ora non rintracciabili). Il committente era il governatore e castellano di Cremona, lo spagnolo don Rafael Manri-que de Lara, che intendeva inviarli in Spagna. Alcuni di questi dipinti sembrano proprio modellati su quelli che il Campi aveva realizzato una decina di anni prima, altri sembra-no del tutto originali e uno di essi (con l’“elefante”) viene presentato come una novità proveniente dalle Fiandre. Vale la pena di rileggere, almeno parzialmente, le descrizioni di questi otto quadri presenti nel contratto, perché esse ci danno un’idea del linguaggio allora utilizzato per citare quel tipo di pittura di genere – incentrata sulla riproduzione di elementi naturali o artificiali – che veniva richiesta e che contemporaneamente pote-va essere vista e studiata in quegli ultimi lustri del Cinquecento in Lombardia. I dipinti commissionati al Calvi dovevano dunque raffigurare: “una Polaria con ogni sorte de oselli et polami che parano morti et vivi con una donna bella et gratiosa […]” (questo quadro doveva essere simile alla Pollivendola del Campi); “una fruttarola bella et gratiosa con tutte le sorte de frutti cavati dal natural posti parte nelli piatti parte nelle cestine sec[un]do che convengono con un putto che para che taglia una fetta de formagio et che una donna pesa delli frutti et finge di burlar il putto” (sembra solo parzialmente simile alla Fruttivendola del Campi); “certe donne belle et gratiose che fano cusina […]” (sembra richiamare la Cucina del Campi); “una donna che si lava la testa nelli uten[s]ilij necessarij con un spechio […]”; “uno elefante con un castello fabricato de diverse

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bizarie […] Inventione nova in Italia et venuta novamente de Fiandra” (si tratta di un soggetto insolito); “una beccaria qual sara originale con tutta quello che li fa bisogno et che esserasse in detta beccaria” (cioè una ‘macelleria’); “una pescaria con ogni sorte de pessi sec[un]do Q[ue]lle qualita, de ciascuna sorte de pessi vivi che si trovano” (cioè una ‘pescheria’); e infine “una botega da formagian con tutte le sorti de salame mortadelle colli d’ocha Anadre persutti formagielle zibetto laza mascherpa butiro formaggio cer-velato fino a altri simili cose”29. Si noti che in questi ultimi tre dipinti, la “beccaria”, la “pescaria” e la “botega da formagian”, non viene citata la presenza della figura umana, e quindi è possibile (anche se non possiamo esserne del tutto sicuri) che si trattasse di soggetti di interni con l’esposizione di elementi naturali, ovvero delle vere e proprie nature morte. Questi dipinti sono stati realizzati, lo ricordo ancora, nel 1588. Purtroppo non sono attualmente rintracciabili, ma possiamo averne un’idea guardando due simili tele con scene di genere, riferibili agli anni 1585-1590, che sono state attribuite proprio al Calvi: un Mercato di selvaggina (Mantova, Museo di Palazzo d’Arco) e soprattutto una Pescheria ora in collezione privata (fig. 4)30.

Il carattere espositivo-mercantile di Vincenzo Campi è stato anche ripreso nel di-pinto con Tavolo di frutta e verdure con Vertunno, Pomona e il ritratto di Bernardino Campi attribuito al pittore cremonese Andrea Mainardi detto il Chiaveghino (1550 circa - 1617) (fig. 5). Anche qui c’è una compresenza di figure e naturalia. Davanti a una tenda, l’artista ha raffigurato un personaggio barbuto identificabile con il pittore cremonese Bernardino Campi. Nella parte centrale compare invece una figura femminile che rappresenta Po-mona, mentre sulla destra è dipinto un giovane, vagamente androgino, con dei pampini intrecciati nei capelli: si tratta del dio Vertunno che tiene nelle mani un contenitore me-tallico ricolmo di uva31. Un personaggio, quest’ultimo, che può essere messo in relazione proprio con il Ragazzo con canestra di frutta (Vertunno) del Caravaggio: in entrambe le figure troviamo un’evidente androginia, un aspetto giovanile e una posa caratterizzata dal gesto di sostenere con le mani un contenitore con della frutta32.

Le opere del Campi, di cui si è sopra parlato, presentano delle scene ancora carat-terizzate dalla presenza della figura umana. Ovviamente non possiamo non chiederci se il pittore avesse effettivamente dipinto anche delle nature morte completamente autonome, cioè prive di figure33. È possibile e non possiamo escluderlo, ma dobbiamo anche ammettere che, purtroppo, le fonti ‘archivistiche’ e quelle ‘a stampa’ rimangono in tal senso molto ambigue. I diversi scrittori ovviamente hanno avuto modo di elogia-re ed esaltare le capacità mimetiche del pittore cremonese. Ma non si può negare che rimane un notevole grado di ambiguità in alcune delle parole da loro usate. Filippo Baldinucci, ad esempio, riferisce che l’artista “fu buon naturalista, tenendosi sempre all’imitazione del vero. Veggonsi di sua mano moltissime pitture fatte con gran facilità tanto figure, che frutte, ed altre cose.”34 Desiderio Arisi è forse il meno equivoco. Egli, infatti, sembra proprio escludere l’esecuzione di nature morte autonome da parte di Vincenzo quando scrive che i quadri del pittore cremonese “fanno gran pompa d’ogni sorta di frutti espressi dal vivo, che sembrano maturi spiccati dalla propria pianta con

le figure in azione […]”35. Giambattista Zaist, invece, definisce il Campi come “bravo Na-turalista”, e annota che del pittore si vedono “di sua mano, assai pregiate Dipinture, da lui condotte con grande maestrìa, facilità, e vaghezza, non meno di belli Istoriati, che di

4. Giulio Calvi detto il Coronaro Pescheria Collezione privata

5. Andrea Mainardi detto il Chiaveghino Tavolo di frutta e verdure con Vertunno, Pomona e il ritratto di Bernardino Campi Collezione privata

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nobil Ritratti, di Fiori ancora e Frutti d’ogni sorta […]”. E più avanti precisa: “I Frutti, che ha dipinto questo egregio Professore, d’una assai vaga, e graziosa maniera, veggonsi quà e là sparsi per le Case private della nostra Città, e varj Pezzi grandi Istoriati, con Figure, e Verdure stanno riposti [a Cremona] nella Foresteria de’ Monaci Betlemiti di S. Girolamo […].”36 Luigi Lanzi inoltre scrive: “Si fa però stima de’ suoi ritratti, e de’ suoi frutti, ch’espresse molto al naturale in quadri da stanza non rari in Cremona.”37 Non è però del tutto chiaro se il Baldinucci, lo Zaist e il Lanzi nell’usare il termine ‘frutti’ abbiano utilizzato un’espressione metonimica per indicare quadri come la Fruttivendola di Brera, dove i frutti sono solo una parte, o abbiano invece alluso proprio a dipinti con la sola presenza di elementi naturali. Quando però lo Zaist ricorda le “Dipinture” di “Fiori” eseguite da Vincenzo è possibile, forse, che egli faccia riferimento proprio a quadri autonomi: è infatti più difficile che egli si sia riferito solo ai pochissimi fiori inclusi in alcune grandi opere campesche, come ai candidi gigli inseriti, ad esempio, nella Fruttivendola di Kirchheim. Tuttavia nessuna sua tavola o tela con fiori è sino ad ora emersa con sicurezza38.

In questi ultimi decenni sono state comunque attribuite a Vincenzo Campi alcune nature morte autonome sulla base di considerazioni esclusivamente stilistiche. In par-ticolare agli inizi degli anni novanta Mina Gregori ha proposto di considerare una tela raffigurante una Frutta e verdura in diversi contenitori, ora in collezione privata, come una vera e propria natura morta autonoma del Campi (fig. 6)39. Tutta la superficie del dipinto è occupata, su diversi livelli, da elementi ortofrutticoli disposti in recipienti dalle fogge

diverse, compreso un contenitore vitreo stracolmo di albicocche. La stesura pittorica è di alto livello e si riconosce facilmente la mano del Campi. Ma la struttura compositiva ci fa dubitare che la tela sia nata proprio come una natura morta autonoma. L’horror vacui, il taglio ‘fotografico’ di alcuni elementi e l’assoluta diversità della struttura compositiva rispetto alle altre diverse nature morte di quel periodo fanno pensare che, in realtà, ci troviamo di fronte a un ‘ritaglio’ derivante proprio da un dipinto più grande di Vincenzo che doveva presentare sia dei contenitori con frutta sia una o più figure. Non a caso, le misure di questa tela corrispondono, più o meno, a un uguale ritaglio che si potrebbe ricavare da un dipinto come quello della Fruttivendola di Brera. Pertanto quel che pote-va sembrare una natura morta del tutto autonoma andrebbe invece considerata, a mio giudizio, solo un frammento naturalistico ricavato da un dipinto più ampio40. All’oppo-sto, altri studiosi hanno proposto di attribuire a Vincenzo Campi alcune nature morte che presentano non tanto un horror vacui (come nella tela precedente), ma una rarefatta ambientazione con elementi naturali collocati su un piano di appoggio leggermente ribaltato. In questi dipinti, infatti, lo spazio vuoto è prevalente e gli elementi naturali sembrano quasi vagare come sospesi. Tra queste nature morte attribuite a Vincenzo (a mio parere con poco fondamento) si può ad esempio ricordare quella con Crespina

di pesche e fiori di gelsomino, un dipinto impostato su una visione dall’alto che mette in evidenza il piano del tavolo con uno sfondo molto scuro41. Come si vede, curiosamente, alcuni studiosi riferiscono al Campi nature morte che presentano caratteri compositivi e stilistici tra loro del tutto opposti.

Un impulso decisivo all’ondata naturalistica lombarda degli ultimi decenni del Cinquecento è stato dato dal milanese Giuseppe Arcimboldo (1526-1593), il quale, come vedremo, era proprio in rapporto personale con alcuni protagonisti del genere della natura morta come Ambrogio Figino e Fede Galizia42. L’Arcimboldo si formò negli anni trenta e quaranta del Cinquecento a Milano, immerso in un clima dominato da un diffuso leonardismo. Gli inizi della sua carriera sono legati alla produzione di disegni per alcune vetrate del Duomo di Milano e di altre opere di carattere religioso. Ma la sua fama si è poi diffusa soprattutto per le sue invenzioni ‘capricciose’ e per le sue famose ‘teste composte’. Il successo per questa attività ‘ghiribizzosa’ dovette esser giunto anche alle orecchie di Massimiliano II d’Asburgo (figlio dell’imperatore Ferdinando I), il quale, a partire dal 1562, come scrive il Morigia, lo chiamò a Vienna come pittore di corte. Qui rimase al suo servizio anche quando lo stesso Massimiliano divenne imperatore e pure quando salì al trono il figlio Rodolfo II, che in seguito spostò la capitale asburgica a Praga. Durante questi anni il pittore svolse diversi incarichi, ma soprattutto dipinse una serie di quadri con ‘teste composte’ raffiguranti in particolare gli Elementi e le Stagioni consistenti in busti di profilo assemblati con elementi naturali e artificiali come frutta, ortaggi, fiori, arbusti, uccelli, pesci, arrosti, libri, strumenti da lavoro ecc. È molto probabile, come sembrano indicarci le fonti, che il pittore avesse iniziato a elaborare i suoi ‘capricci’ naturalistici anche prima di essere chiamato in terra asburgica. Anzi è ragionevole supporre che egli avesse attirato l’attenzione di Massimiliano proprio per le sue doti non solo di ritrattista, ma anche di scrupoloso e fantasioso esecutore di tali teste composte da naturalia. È del tutto plausibile, ad esempio, che le quattro teste con le Stagioni ora conservate a Monaco (meno note di quelle di Vienna e di Parigi) vadano proprio riferite al suo primo periodo

6. Vincenzo Campi Frutta e verdura in diversi contenitori Collezione privata

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milanese, quindi agli anni 1560-156243. Tra questi dipinti troviamo un’‘abbondante’ Estate (fig. 7) che consiste in un busto di profilo composto da frutta e ortaggi realisticamente definiti e sapientemente disposti per creare una forma antropomorfa naturalizzata su fondo scuro. Agli inizi degli anni sessanta, dunque, a Milano si potevano già vedere si-mili quadri, caratterizzati da un’acuta riproduzione del dato naturale e da un’eccellenza esecutiva non comune.

Sappiamo che l’Arcimboldo si trattenne presso le corti di Vienna e poi di Praga sino al 1587, anche se sono testimoniati alcuni suoi provvisori ritorni (nel 1566, 1576-1577, 1581) nella città natale. Solo nel 1587, all’età di circa 60 anni, l’artista ottenne da Rodolfo II il permesso di ritornare definitivamente a Milano. L’Arcimboldo ricevette comunque dal sovrano asburgico, come scrive Paolo Morigia, “vna annuale pensione per ricompensa della sua grata, et fedel seruitù”, impegnandosi comunque a servire l’imperatore nel capoluogo lombardo fornendo anche altri dipinti44. Di fatto il pittore raggiunse la sua città natale molto probabilmente nei primi mesi del 1588 e lì rimase, continuando a lavorare, come promesso, per il sovrano asburgico, sino alla morte so-praggiunta l’11 luglio 1593 nella sua abitazione sita nella parrocchia di San Pietro alla Vigna. Durante questo lustro milanese l’Arcimboldo dipinse alcuni importanti quadri per l’imperatore che dovettero avere un’influenza straordinaria sui pittori milanesi del tempo e, ovviamente, in particolar modo, su quelli che poi saranno i pionieri del genere della natura morta.

Tra le opere prodotte dall’Arcimboldo a Milano per Rodolfo II troviamo sicura-mente due tavole raffiguranti la Flora e il Vertunno. Di queste due opere abbiamo diverse informazioni basate su un gran numero di rime che gli amici letterati del tempo (Gregorio Comanini, Gherardo Borgogni e altri) scrissero per esaltare il virtuosismo naturalisti-co e l’insolita e mimetica bellezza delle due figure mitologiche. Questi componimenti poetici furono raccolti, “col consentimento tuttauia dell’Arcimboldo”, dall’amico Gio-van Filippo Gherardini, il quale li pubblicò a Milano nel 1591 in un libretto intitolato All’Invittissimo Cesare Rodolfo Secondo. Componimenti sopra li due quadri Flora, et Vertunno, fatti à Sua Sac. Ces. Maestà da Giuseppe Arcimboldo. Milanese45. Attraverso questa preziosa raccolta sappiamo che il primo dipinto che l’Arcimboldo realizzò e inviò all’imperatore fu quello raffigurante la dea Flora (fig. 8). Si tratta di una tavola che presenta il mezzo busto frontale femminile della divinità del rigoglio primaverile tutta composta e magi-stralmente intessuta di ogni specie di fiori e di foglie. Il dipinto venne realizzato prima dell’agosto 1589 e fu spedito al sovrano molto probabilmente l’anno successivo. Questa tavola, ritenuta dispersa sino a pochi anni fa, e quindi conosciuta solo attraverso delle fotografie, è stata recentemente esposta in due diverse mostre a Madrid e a Vienna. In tali occasioni è stato così possibile apprezzare direttamente la straordinaria abilità del pittore e la stupefacente varietà delle sue foglie e dei suoi fiori icasticamente definiti. Con tali variegati elementi naturali l’artista, attraverso la sua magistrale fantasia creativa, ha saputo ‘sagomare’ elegantemente il busto e la testa della dea46. Il Comanini, affascinato dal lavoro dell’amico, ne aveva parlato addirittura in un suo trattato religioso del 1590 con un’ekphrasis che ci dà anche un’idea di come i contemporanei del pittore potevano ‘vedere’ e ‘gustare’ tale naturalistico dipinto mitologico:

7. Giuseppe Arcimboldo Estate Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen

8. Giuseppe Arcimboldo Flora Collezione privata

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[La Flora dell’Arcimboldo] et formata in guisa, che tutta è fiori. Percioche d’alquan-ti, che hanno colore di carne, hà formato il petto, et la gola: la fronte hà composto di varie rose d’althea: le guancie di rose vermiglie: il mento di vna rosa aperta: il labbro di sopra di due viole: quel di sotto di due bottoni di rose incarnate: gli occhi di viole mammole, che fior di pensieri ancora son dette: le palpebre di sopra di vn fiore madre selua: quelle da basso di vn bottone di cedro: le ciglia di due ramoscelli di spico: il naso di vna fronda di giglio non ancora aperta: la ghirlanda di varij fiori: le vesti di foglie d[’]aranci, di cedri, et d’altre simili, sparse di mille altre sorti di fiori, i quali rappresentano ricami, et gemme: […].47

Della Flora abbiamo anche una descrizione inserita dal Lomazzo nella sua Idea del 1590 nella quale si dice che l’Arcimboldo, ricordandosi della promessa fatta al sovrano di “far qualche cosa capricciosa”, “hà dipinto hora vna bellissima femina dal petto in sù composta tutta di fiori, sotto il nome della Ninfa Flora. In cui si veggono tutte le sorti di fiori, ritratti dal naturale talmente che nella carnagione, & membri sono posti quelli che à ciò naturalmente rappresentare sono accommodati […]”48. E ancora il Comanini, in un suo celeberrimo madrigale intitolato La FLora deLL’arcimboLdo parLa, immagina che la stessa figura del dipinto si faccia una serie di domande: sono io Flora o sono fiori? Se sono solo fiori come mai appare un sorriso sul mio volto; e se sono solo la dea Flora come mai sono solo fiori? In realtà – prosegue il Comanini – non sono né fiori né Flora, anzi sono una viva Flora e sono anche mille vivi fiori, perché l’Arcimboldo, che è un

saggio pittore, è riuscito a far sì che contemporaneamente i fiori formino la Flora e che questa sia fatta solo di fiori49.

Appena terminata la Flora, l’Arcimboldo, come promesso, continuò a lavorare per il sovrano nella sua casa milanese e solo un anno dopo portò a termine uno dei suoi più famosi e affascinanti capolavori: il Vertunno (Ritratto di Rodolfo II), ora conservato nel ca-stello di Skokloster, vicino a Stoccolma (fig. 9)50. È ancora il Gherardini nell’introduzione al suo libretto, sopra ricordato, a raccontarci, come se fosse una narrazione letteraria, della genesi del dipinto preparato per il museo imperiale:

GIVseppe Arcimboldo tanto fedele, & suiscerato seruo di V[ostra]. M[aestà]. quan-to sà ella medesima, parendogli, che staua male così sola, nelle stanze di V. M. la Flora, ch’egli le mandò l’anno passato, hà uoluto darle per compagno Vertunno, il quale, come lo fauoleggiano Dio dell’anno, così egli l’hà formato di frutti, & cose deriuanti da tutte le stagioni dell’anno.51

Sappiamo con certezza che l’imperatore asburgico, che era in continuo contatto con il suo pittore, era perfettamente al corrente che l’artista stava lavorando per realizzare il nuovo personaggio mitologico. Infatti il Lomazzo (ricevendone notizia sicuramente dallo stesso Arcimboldo), a tal proposito, nel 1590 aveva scritto: “Hà l’istesso Arcimboldi poco meno che perfetto vn’altro quadro, nel quale sarà dipinto Vertunno sopra gli orti tutto fatto di frutti, per mandarlo all’istessa Maestà, che con lettere mostra di starla aspettando con estremo desiderio.”52 Il Gherardini, nella sua presentazione rivolta al sovrano asburgico, prosegue chiarendo, con una frase importantissima che riprenderò più avanti, come il Ver-

tunno dell’Arcimboldo fosse stato esposto nel palazzo milanese del pittore e che quindi era stato visto e ammirato proprio dai principali “professori dell’arte” allora operanti a Milano:

questa figura [Vertunno, è], stimata molto veramente, & lodata da diuersi begli ingegni, & da i primi professori dell’arte, di questa Città, che quà in casa [del Ghe-rardini e dello stesso Arcimboldo] sono venuti a uederla […].53

Dunque il Vertunno era stato esposto ‘pubblicamente’ nella casa-bottega del pittore. Per l’Arcimboldo doveva essere un motivo di particolare orgoglio: aveva elaborato con l’ac-curatezza del naturalista una tavola affascinante, dotti letterati e amici poeti ne avevano elogiato le qualità pittoriche e simboliche, e ora poteva presentarla pubblicamente nella sua città prima che essa prendesse la strada per il ‘museo’ asburgico. Il libretto a stampa, voluto dall’intimo amico Gherardini, ma con l’esplicito consenso del pittore, era indiriz-zato formalmente all’imperatore Rodolfo II. In realtà, però, esso era stato anche voluto af-finché, in qualche modo, i concittadini dell’Arcimboldo si rendessero conto del suo valore e delle sue straordinarie capacità mimetiche in campo pittorico. Tra i numerosi milanesi che ammirarono il dipinto, oltre ai letterati e ai possibili altri curiosi, c’erano ovviamente, ha scritto esplicitamente il Gherardini, “i primi professori dell’arte, di questa Città”, cioè i più importanti e rinomati pittori di Milano. Quali potevano essere questi “professori”? Ne possiamo citare alcuni. Ci potevano certamente essere artisti come Giuseppe Meda, che una trentina di anni prima aveva collaborato con lo stesso Arcimboldo; il Figino, uno

9. Giuseppe Arcimboldo Vertunno (Ritratto di Rodolfo II) Bålsta (Svezia), castello di Skokloster

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dei più importanti pittori milanesi di quel periodo che era anche un suo amico; Aurelio Luini; i Procaccini, in particolare il giovane Carlo Antonio (come vedremo più avanti); la pittrice Fede Galizia, anche lei (come si vedrà) in diretto contatto con l’Arcimboldo; forse il cremonese Vincenzo Campi; Simone Peterzano, che era un amico del Lomazzo; e sicuramente anche il giovane Michelangelo Merisi. E sull’importantissima presenza del Caravaggio ritornerò più avanti.

Altri dipinti sono stati realizzati dall’Arcimboldo nel suo ultimo periodo milanese e quindi anche questi potevano essere stati ammirati e studiati per il loro accuratissimo naturalismo. Oltre alla Flora sopra ricordata e celebrata nelle diverse rime dei letterati milanesi, il pittore dipinse anche una seconda tavola con la stessa dea, ora conosciuta come Flora meretrix (fig. 10). Anche questo stupendo dipinto, non visibile sino a qualche anno fa, è stato di recente esposto in pubblico (assieme all’altra Flora), ed è stato quindi possibile ammirarne l’altissima qualità inventiva e mimetica54. Questa raffinatissima Flora

meretrix (un poco più grande della prima Flora) si differenzia soprattutto perché il pittore ha diminuito la testa e ha ingrandito il busto in modo da raffigurare più ampiamente la veste. Questa, delicatamente trapuntata di foglie (animate anche da vari insetti) e bordata da candidi fiori, è leggermente scostata per lasciar intravedere il seno destro della dea, un particolare che appunto la connota iconograficamente come una Flora “meretrix”. Si tratta di una figura chiaramente ripresa dalla cultura leonardesca, soprattutto dalla Flora di Francesco Melzi ora a San Pietroburgo. E ciò dimostra come l’Arcimboldo fosse ancora legatissimo alla tradizione lombardo-leonardesca55. La tavola, non citata però tra le fonti letterarie milanesi, potrebbe essere pertanto datata verso il 1591, cioè dopo l’invio al sovrano asburgico, verso gennaio, del Vertunno56.

È da pochi anni che è stato reso noto anche un altro dipinto dell’Arcimboldo, un tempo conosciuto solo attraverso una descrizione inserita nel dialogo Il Figino del Co-

manini del 159157. Si tratta della Testa delle quattro stagioni dell’anno, databile tra il 1588 e il 1591, che lo stesso Comanini nell’indice del suo testo chiama “Scherzo in pittura delle quattro stagioni dell’anno” (fig. 11)58. A differenza delle altre sue teste composte, il pit-tore ha qui impostato la figura non di profilo, ma di tre quarti, accentuando in tal modo l’effetto plastico. Il tronco d’albero è stupendamente rappresentato e la sua struttura ‘anatomica’, intercalata da foglie, fiori e da frutti come uva, ciliegie, prugne e pomi per alludere alle diverse stagioni, riecheggia, come la testa nodosa dell’Inverno di Vienna, le teste grottesche e soprattutto gli studi fisiognomici dei vecchi elaborati da Leonardo circolanti anche a Milano59.

Un importante capitolo della produzione dell’Arcimboldo è costituito dalle cosid-dette ‘teste reversibili’ o ‘immagini da rivoltare’. Si tratta di quei dipinti che raffigura-no apparentemente ‘solo’ contenitori ricolmi di elementi naturali, ma che, se vengono capovolti, acquistano un’inaspettata e buffa dimensione naturalistico-antropomorfa. Possiamo quindi già considerarle come immagini che preludono e di fatto anticipano il genere nascente della natura morta. Il Lomazzo già nel suo Trattato, scritto nel 1584, nel capitolo dedicato anche alla pittura dell’Arcimboldo, ci dà una descrizione precisa di tali teste reversibili. Dopo aver parlato delle “teste composte”, egli scrive: “ancora si possono fare medesimamente le figure perfette da vedere, che poi riuoltato quello di sotto, di sopra, ci appaiono auanti à gli occhi altre figure, molto sconformi, dalle prime già vedute; […].”60 L’Arcimboldo potrebbe aver elaborato delle teste reversibili, da ‘ri-voltare’, anche all’inizio della sua carriera milanese prima di trasferirsi alla corte asbur-gica. In ogni caso la prima sicura documentazione che ci è rimasta relativa a una testa reversibile a lui ragionevolmente riferibile risale agli inizi degli anni settanta. È infatti testimoniato che il nobile Ottavio Landi il 22 febbraio 1573 vide nella “camera” viennese di Massimiliano II “un naso [scil. vaso] di fiori diversi la metà contrafatti netti, et la metà secchi: che stando il naso [vaso] nel suo essere rappresentava una vaghesta mirabili di fiori, voltato il naso [vaso] al rovescio mostrava una faccia incredibilmente ridicola”61. Purtroppo anche questo dipinto è andato disperso, ma si doveva trattare certamente di una natura morta che appariva come un normale vaso di fiori (recisi e anche secchi), i quali erano disposti in maniera tale che, voltato il vaso, andavano a delineare una testa ridicola sormontata da un copricapo costituito appunto dal contenitore. A parte il Cuoco

di Stoccolma, le teste reversibili create dall’Arcimboldo che sono attualmente conosciute sono collocabili cronologicamente nell’ultimo periodo milanese. Nel capoluogo lombar-do l’Arcimboldo ha infatti realizzato una famosa testa reversibile ora conosciuta come l’Ortolano di Cremona (cat. 2). In realtà si tratta di un faccione ghignante e rubicondo che dovrebbe rappresentare Priapo, dio custode degli orti e dio della fertilità che aveva anche funzioni apotropaiche62. Il suo volto appare come una sorta di mascherone popolano connotato proprio da alcuni elementi sessuali legati alla fertilità priapea. Se vediamo la tavola secondo il verso più tradizionale possiamo dire di trovarci di fronte a una vera e propria natura morta. Si tratta di una bacinella metallica appoggiata su un piano e riempita con prodotti della natura e in particolare con ortaggi. Il piano di appoggio è indefinito perché nelle teste reversibili esso diviene lo sfondo neutro dell’immagine antropomorfo-naturalistica che riappare quando il dipinto viene capovolto. E quando si cambia verso tutto diventa strampalato: il contenitore diventa il cappellaccio dello

10. Giuseppe Arcimboldo Flora meretrix Collezione privata

11. Giuseppe Arcimboldo Testa delle quattro stagioni dell’anno Washington, National Gallery of Art

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spaventapasseri priapeo che cura l’orto; una nespola e una noce aperta simulano gli occhi con le scure pupille che danno al faccione uno sguardo furbesco; il ravano bianco diventa il lungo nasone fallico affiancato da rosse gote rigonfie che sono definite da una cipolla e da una rapa e due funghi sovrapposti ricreano invece i labbroni rossi, allusivi all’organo sessuale femminile, al di sotto dei quali alcune radici danno forma all’ispida barba. Il mascherone grottesco è poi incorniciato da una fluente chioma simulata da foglie di insalata verde. Agli ultimi anni milanesi dell’attività dell’Arcimboldo risale anche la Testa reversibile con canestro di frutta ora in collezione privata (fig. 12)63. Si tratta di una testa reversibile di grande raffinatezza che ricorda proprio il faccione ortofrutticolo del Vertunno e che quindi può essere collocata verso gli anni 1591-1592. Anche questo ensemble di frutta reversibile appare in prima istanza come una vera e propria natura morta. Un cesto di vimini, collocato su un piano indefinito, è ricolmo di frutta di vario tipo. Se la tavola viene però ‘rivoltata’ appare un faccione con un copricapo di paglia intrecciata e con una sorta di gorgiera bianca che sembra ricamata. L’invenzione e la collocazione dei singoli elementi naturali è qui accuratissima. Una pera in scorcio forma il naso; gli occhi sono definiti da un’oliva e da un riccio; una pesca e una mela danno corpo alle guance; le labbra sono definite da prugne di diversa grandezza e colore; il mento è formato da un melograno, mentre quattro grappoli di uva di differenti colori penzolano ai lati dell’agglomerato di frutti, definendo così una folta chioma a riccioli. In mancanza di altri elementi è difficile poter individuare con precisione l’‘identità’ di

questo faccione naturalistico, anche se la presenza dei frutti autunnali farebbe proprio pensare a una personificazione della stagione dell’autunno. È molto probabile che que-sto dipinto abbia maggiormente influenzato alcuni pittori lombardi rispetto alla Canestra

del Caravaggio, la quale, come è noto, giunse a Milano solo più tardi (comunque non dopo il 1607)64. Un ricordo della Testa reversibile con canestro di frutta dell’Arcimboldo potrebbe essere infatti rintracciato, ad esempio, in una Cestina con frutta recentemente attribuita a Panfilo Nuvolone (anche se c’è il sospetto che ci possa essere invece la mano di un figlio di Panfilo, forse Carlo Francesco, per una fattura più libera e chiaroscurata): si tratta di un cesto di vimini, poggiante su un piano con fondo scuro, contenente tre melograni, due mele, una pera e dell’uva bianca e nera con pampini, parte della quale trabocca dal contenitore (fig. 13)65.

Il documento relativo al vaso di fiori da ‘rivoltare’, sopra citato, è anche partico-larmente importante perché testimonia come le teste reversibili dell’Arcimboldo fossero inizialmente percepite come normali immagini naturalistiche. Non a caso il Lomazzo, nel passo sopra ricordato, le ha chiamate “figure perfette da vedere”. L’osservatore, infatti, parte dalla considerazione più ovvia e scontata che un contenitore con fiori o frutta sia solo un contenitore con fiori o frutta. È solo successivamente, rivoltato il dipinto sotto

12. Giuseppe Arcimboldo Testa reversibile con canestro di frutta (l’immagine a destra è stata ruotata di 180 gradi) Collezione privata

13. Panfilo Nuvolone (?) Cestina con frutta, particolareCollezione privata

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sopra, che si scopre un’immagine diversa molto ‘sconforme’ da quella originaria che è mutata quasi alchemicamente. Ed è a questo punto che nascono il riso, il divertimento, la consapevolezza del piacevole inganno e l’ammirazione per un capriccio naturalistico riprodotto con stupefacente abilità. L’Arcimboldo, quindi, può, e deve, essere inserito a pieno titolo tra gli autori che hanno creato delle nature morte. Il fatto che i suoi dipinti ‘reversibili’ abbiano anche un’altra finalità giocosa, derivante da una capricciosa e buffa antropomorfizzazione ottenuta attraverso il rovesciamento del quadro, non li può di certo escludere dal genere della natura morta. Di fatto ‘almeno’ una delle posizioni di tali immagini ‘rovesciabili’ era proprio elaborata per essere percepita come presentazione di un oggetto reale, cioè come un vaso o un contenitore di fiori o di frutta, al di là del suo possibile utilizzo ‘giocoso’66. Non si può infatti negare che anche diverse altre nature morte hanno avuto differenti finalità legate a simbologie e intenti moralistici o religiosi.

Le fonti letterarie dedicate all’Arcimboldo hanno sottolineato con insistenza come la sua pittura avesse un fortissimo legame con la realtà e che quindi un suo punto di forza fosse proprio l’accurato naturalismo. Il Comanini, nel suo testo-dialogo intitolato Il Figino pubblicato nel 1591, cioè quando il pittore era ancora in vita, così scrisse a pro-posito delle opere dell’amico Arcimboldo: “Fate stima, che non c’è frutto, o pur fiore, che non sieno cauati dal naturale, & imitati con quella maggior diligenza, che possibil sia.”67 Già Eugenio Battisti aveva sottolineato come i trattatisti dell’Italia settentrionale

avessero evidenziato in maniera più marcata nelle loro discussioni sulla teoria dell’imita-zione l’importanza dell’indagine naturalistica e del rispecchiamento mimetico, ponendo così le basi per il realismo caravaggesco68. Ma tra i vari scritti d’arte elaborati nel Nord Italia quello pubblicato nel 1591 dal Comanini è il testo in cui il riferimento all’imitazio-ne naturalistica è ancor più accentuato69. L’analisi di tale imitazione non è inserita nel suo dialogo come un semplice topos dialettico, ma proprio per rispondere alla precisa esigenza di dar conto in maniera approfondita a livello teorico del carattere peculiare dell’estrema accuratezza mimetica dei dipinti dell’Arcimboldo. Opere che erano certa-mente basate sull’“imitatione fantastica”, ma anche, o soprattutto, scrive il Comanini, sull’“imitatione icastica” che è riproduzione di un “essere” che ha un’esistenza concreta e reale “fuori dell’intelletto”70.

Dunque tutta la città di Milano conosceva i ‘ritratti antropomorfo-naturalistici’ realizzati dal suo illustre concittadino, quelli di committenza imperiale e anche gli altri di cui si è sopra parlato. Di fatto, tutti i dipinti dell’Arcimboldo, basandosi appunto su un agglomerato di diversi elementi naturali (o artificiali), furono certamente realizza-ti attraverso un precedente metodico lavoro di studio dei singoli elementi. Proprio di recente è stato ragionevolmente proposto di attribuire all’Arcimboldo diversi disegni, accuratissimi nella fattura, che raffigurano animali, uccelli, fiori e parzialmente anche frutti. Uno di questi (in doppio foglio) presenta appunto diversi Studi di fiori con fragole distribuiti sull’intera superficie come in un erbario (fig. 14)71. È molto probabile che l’Ar-cimboldo, decidendo di ritornare definitivamente a Milano, abbia portato con sé almeno una buona parte di tali studi preparatori. Se il pittore, infatti, sapeva di ritornare nella sua città natale ancora con l’incarico di elaborare nuovi dipinti per l’imperatore, non si sarà certo privato di quei disegni che avrebbero potuto essergli utili per futuri lavori. È però anche altamente probabile che l’Arcimboldo, per dipingere i suoi quadri milanesi, abbia appositamente realizzato a Milano diversi altri studi naturalistici riproducendo direttamente nuovi fiori da inserire nelle due Flore (figg. 8, 10) o altri frutti e ortaggi da utilizzare per la figura del Vertunno (fig. 9), per la Testa reversibile con canestro di frutta

(fig. 12), per l’Ortolano (Priapo) (cat. 2) o per la Testa delle quattro stagioni dell’anno (fig. 11)72. I pittori lombardi, dunque, potevano aver visto anche tali disegni naturalistici dell’Arcimboldo: quelli fatti oltralpe e poi portati a Milano e quelli fatti direttamente nel suo studio milanese. La sua straordinaria esperienza nel campo del disegno naturali-stico e nel campo dell’esatta riproduzione mimetica, ‘scientifica’, di ogni frutto, di ogni fiore, di ogni animale, di ogni cosa deve aver certamente affascinato e di conseguenza influenzato soprattutto quegli artisti milanesi che erano interessati in modo particolare al genere che noi oggi chiamiamo ‘natura morta’. E tra questi, come si è già accennato e come vedremo meglio tra poco, c’erano pittori come il Figino, Fede Galizia, e anche il giovane Caravaggio. Le invenzioni arcimboldesche, dunque, con il loro attento natura-lismo, non potevano di certo non suscitare anche il tentativo di emulazione. Abbiamo infatti la testimonianza che le sue opere vennero più volte copiate anche in quegli stessi anni. È lo stesso Comanini nel suo trattato a dircelo, stigmatizzando quei pittori che avevano ‘malamente’ copiato le immagini dell’amico pittore: “Riesce tanto maggiore la marauiglia di queste sue [dell’Arcimboldo] imagini, che auanti lui non è stato alcuno, che n’habbia formato di simili. Et quante per le botteghe di molti pittori se ne veggono

14. Giuseppe Arcimboldo Studi di fiori con fragole Vienna, Österreichische Nationalbibliothek

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assai rozamente composte; tutte sono imitationi di quelle dell’Arcimboldo, & semplici ruberie delle sue cose.”73 Sembra di sentire lo stesso pittore che si lamenta con gli amici parlando di “ruberie” e rivendicando per sé una sorta di copyright per le proprie imma-gini composte. Questa testimonianza è indicativa perché evidenzia una documentata diffusione delle immagini naturalistiche arcimboldesche. Il Comanini infatti ci dice, in sostanza, che “molti pittori” contemporanei dell’Arcimboldo furono presi dalla mania e dalla passione di dipingere agglomerati di frutta e/o di fiori. Un’idea di come potevano essere tali immagini la si può avere guardando non solo le vere e proprie copie delle opere arcimboldesche, ma anche quei dipinti costruiti alla ‘maniera’ dello stile del pittore milanese. Ne è un esempio una Testa composta con cappello, ora in collezione privata, di un anonimo arcimboldesco74. Si tratta di un dipinto, in questo caso di non scarsa fattura e invenzione, tutto impostato su uno schema compositivo diagonale e oscillante tra una testa ‘composta’ e una ‘reversibile’ che ricorda chiaramente, nella distribuzione dei frutti, anche la Testa reversibile con canestro di frutta dell’Arcimboldo (fig. 12), tanto da far proprio pensare a una ripresa di un ‘modello’ arcimboldesco.

Abbiamo visto sopra come tra i pittori che furono presenti all’esposizione dell’af-fascinante quadro naturalistico del Vertunno in casa dell’artista ci dovevano essere quasi certamente anche il Figino, la Galizia e il giovane Caravaggio. Sappiamo con certezza che i primi due ebbero dei contatti personali con l’Arcimboldo, mentre del Caravaggio, presente in quegli anni a Milano, non abbiamo delle sicure informazioni in tal senso. Già nel trattato del Comanini si evince con chiarezza che l’Arcimboldo e il Figino si conoscevano ed erano amici. Ma c’è anche un’importante testimonianza documentaria che certifica un legame tra i due pittori. Il Figino aveva realizzato il dipinto mitologico con Giove, Giunone ed Io mutata in giovenca (ora a Pavia) e l’Arcimboldo aveva consigliato all’amico pittore di inviare la tela all’imperatore Rodolfo II. Sappiamo che il quadro del Figino non ebbe il successo sperato, ma la vicenda è importante perché dimostra che i due artisti erano in contatto tra loro e che l’Arcimboldo aveva ritenuto che il dipinto del Figino fosse meritevole di far parte delle raccolte del sovrano asburgico75. Il legame tra i due pittori è anche testimoniato da una rima in latino di Bernardino Baldini intitolata De Io. Ambrosio Figino, et Josepho Arcimboldio pictoribus. Il Baldini, con grande erudizio-ne, afferma che il Figino splende come una gemma orientale tra l’antico Mirone e il Bramante, mentre l’Arcimboldo, più parrasiano (“parrhasior”, in riferimento al pittore greco Parrasio che secondo l’aneddoto pliniano aveva sconfitto Zeusi nella gara dell’i-mitazione naturalistica), brilla tra gli artisti. Poi il letterato provvisoriamente conclude: “gemini soles insubridis orae / Hi fulgent”. Cioè i due pittori milanesi sono due soli gemelli che splendono76.

Il Figino è assai conosciuto nel campo degli studi sulla natura morta in quanto autore di una delle più antiche opere di tal genere a noi note: il Piatto metallico con pesche

e foglie di vite (cat. 3)77. È molto probabile che tale – ormai celeberrima – tavoletta con i Persici sia stata in qualche modo ispirata dalla frutta arcimboldesca presente nel Vertun-

no. Il dipinto del Figino è da considerarsi allo stato attuale degli studi un preziosissimo ‘incunabolo’ della natura morta lombarda, una primizia anche a livello europeo. La ta-voletta può essere infatti datata con certezza prima del 1594 e molto probabilmente dopo il 1590-1591. Una datazione più o meno simile potrebbe essere riferita alle nature morte

dello spagnolo Blas de Prado (1545 circa - 1599) che le fonti ci indicano come autore di “lienzos de frutas” già prima del 1593. In realtà nessuna opera firmata del pittore spagno-lo è giunta sino a noi e quindi la sua produzione in tale campo è ancora del tutto incerta. È stato però ipotizzato che Blas de Prado sia l’autore di tre ‘frutterine’ ora in collezioni madrilene (e in precedenza attribuite ad autore anonimo): un Piatto con pere, una Coppa

di cristallo con pere e una Coppa di cristallo con prugne78. La componente lombarda di queste tre ‘frutterine’ è però così evidente che non è del tutto fuorviante ipotizzare che anche questi tre dipinti possano essere proprio lombardi o, al limite, di un pittore spagnolo che abbia copiato appunto dei modelli del Nord Italia. Si può a tal fine segnalare che il Piatto con pere della collezione madrilena è quasi identico alla Natura morta con piatto di

pere recentemente apparsa sul mercato genovese, una tela che è stata invece riferita a un “Pittore lombardo del XVII secolo” e problematicamente anche al Figino o alla Galizia79.

Il prezioso ‘incunabolo’ del Piatto con pesche del Figino ha inoltre un altro primato: non esiste un’altra natura morta arcaica (o anche posteriore) che possa vantare un così nutrito numero di versi poetici espressamente ad essa dedicati. Ci sono infatti rimaste ben tre diverse rime che hanno in qualche modo divulgato in tutta Milano la ‘novità’ della tavoletta figiniana. Il Comanini ha dedicato alle Pesche dell’amico Figino un ma-drigale intitolato Sopra la pittura d’alcuni Persichi naturalissimi che è stato pubblicato in una raccolta poetica curata dal Borgogni nel 1594 (è questo, come si è detto, il termine ante quem). In questo componimento sono le stesse pesche a parlare sostenendo di es-sere contemporaneamente figlie della “Natura” perché nate su un “fecondo ramo”, ma anche figlie della “Pittura” perché sono state dipinte su “legno infrutifero”, cioè su una tavoletta. Le Pesche figiniane sono state descritte anche in un’anonima rima, contenuta in una raccolta di componimenti scritti in lode del Figino e ora conservata in un mano-scritto londinese. In questo madrigale viene invece sviluppato il topos della contrappo-sizione tra il frutto vero e proprio, che è “frutto caduco, e frale” e che dura pochi giorni, e l’immagine dei “pomi” dipinta dall’artista la quale invece vince l’arte e la “natura auanza”. Diverso invece è il riferimento al Piatto con pesche del pittore milanese inserito da un anonimo poeta “Nobile Bergamasco” in una sua rima dialettale scritta in lode del “Figino Famosissimo Pittore da Milano” e contenuta nel sopra citato manoscritto lon-dinese. Una traduzione molto libera di tali versi in dialetto potrebbe essere la seguente: ‘Per continuare a parlare dell’ingegno del Figino si può ricordare un suo piatto di frutta dipinto su una tavola. Se mia moglie che vive nella Val di Blenio, che è incinta, si fosse imbattuta in tale tavoletta, subito avrebbe voluto almeno le pesche, non appena le aves-se viste. Io avrei potuto farle entrare nel cervello che quella tavola è stata fatta da un uomo con il pennello.’ Particolarmente interessante in questi versi è la rievocazione, di origine popolare, di una donna incinta che ha delle ‘voglie’ guardando la tavoletta con la raffigurazione di alcune pesche. La natura morta, infatti, stimola attraverso la vista un desiderio destinato a rimanere inevitabilmente insoddisfatto: tanto più è efficace l’illu-sione della resa di un oggetto, tanto più inattesa sarà la consapevolezza della differenza tra sembianza e realtà. Anche il fiammingo Cornelis de Bie, verso la metà del Seicento, parlando di una tavola con frutti del pittore Jan Davidsz. de Heem, utilizzerà il motivo delle ‘voglie’ di una donna incinta proprio per sottolineare l’effetto trompe-l’œil generato da un dipinto di natura morta: “Voi donne in cinta – scrive il de Bie – non guardate la

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frutta dipinta che assomiglia alla vita. Al fine che il vostro occhio insensato non tormenti il vostro cuore, e che non nasca da ciò una ‘voglia’ al feto. Perché la visione di quest’arte deve rapidamente toccare il desiderio dell’anima.”80

Recentemente Paola Caretta ha sostenuto che il Piatto di pesche del Figino (come altre nature morte) sarebbe il risultato di un utilizzo da parte del pittore di “specchi” o di “camere oscure”81. In particolare, la studiosa cita un sonetto inserito nelle Rime del Lomazzo in cui si legge: “Mostrato ch’ebbe il gran Prestigiatore / Detto Pasete il conuito abondante, / Et fattolo sparir in un istante / Con l’arte che raccoglie grand’Honore;”82. Questo prestigiatore avrebbe cioè utilizzato una sorta di camera ottica (qui chiamata, secondo la studiosa, “l’arte che raccoglie grand’Honore”) per far apparire e scomparire il cibo utilizzando degli strumenti ottici come quelli che sarebbero stati impiegati, scrive la Caretta, anche da diversi pittori come appunto il Figino. Ma, in realtà, qui il Lomazzo fa riferimento al mago Pasete che, come altri maghi, sosteneva di usare gli spiriti per evocare delle vivande. In ogni caso l’utilizzo della camera ottica, ipotizzata da altri stu-diosi anche per il Caravaggio, è, a mio parere, del tutto priva di fondamento83. Possiamo trovare una sorta di riproduzione ‘multipla’ del Piatto di pesche figiniano nella Scena di

genere con tavolata di frutti, attribuita a Leandro Bassano, dove si vede appunto una nobile tavola imbandita con una serie di vari piatti metallici ricolmi di diversi tipi di frutta84.

Da alcune fonti documentarie risulterebbe che il Figino potrebbe aver dipinto altre versioni del suo Piatto di pesche85. Evidentemente il pittore, visto il successo e l’interesse dimostrato per il suo quadro, deve aver replicato tale fortunato modello per venire incon-tro alle richieste di altri committenti. Una versione, sicuramente su tavola, era presente nella collezione Mazenta nel 1672, ed è stata sino ad ora identificata con quella rintraccia-ta dal Longhi. Un’altra, ancora su tavola (o forse, ma meno probabilmente, su tela), era stata ereditata da Ercole Bianchi, il nipote del pittore, ed è citata in alcuni documenti del 1661 (“Persichi del Figino”) e del 1663 (“Alcuni Persici originali del Figino”). Purtroppo da tali carte d’archivio non è possibile accertare con precisione il supporto. Quindi non si può neppure escludere che la tavola della collezione Bianchi sia poi finita nella col-lezione Mazenta e che quindi si tratti dello stesso dipinto. I “Persichi” del Figino sono stati successivamente citati anche in un inventario del 1831 della collezione milanese del conte Giovan Mario Andreani indicati però con un diverso supporto: “Frutti del Figino in rame”. La collezione dell’Andreani è poi confluita in quella della famiglia Sormani di Milano nel cui inventario, steso tra il 1832 e il 1838, ritroviamo il quadretto figiniano però indicato come “Piccola tavola rapp.te frutta del Figino”. Come si vede, c’è un intreccio per ora poco chiaro di versioni e supporti. La questione rimane quindi ancora del tutto aperta, in attesa di eventuali futuri ritrovamenti. Una delle tre tavole appena ricordate (sempre che quella del Bianchi non fosse su tela) potrebbe essere identificata con un Piatto con pesche (olio su tavola, 22 x 30,7 cm) che è stato di recente messo all’asta a New York (29 gennaio 2015, lotto 64) con l’attribuzione, da parte di un anonimo estensore della scheda, a Panfilo Nuvolone. Rispetto al dipinto qui sopra analizzato, tale quadretto presenta solo delle microscopiche varianti e alcuni pampini appaiono più verdi. Il rife-rimento al pittore cremonese appare tuttavia poco convincente e quindi ritengo, sulla base però della sola fotografia, che anche tale tavoletta abbia tutte le caratteristiche per essere considerata una replica dello stesso Figino. Meno probabilmente potrebbe essere

una copia esatta eseguita dalla Galizia, anche se va notato che un quadro che ‘sembra’ riprendere esattamente la tipologia compositiva del dipinto figiniano è stato registrato, come vedremo più avanti, in un inventario come opera della Galizia. È indubbio che le testimonianze letterarie, che abbiamo visto sopra, relative ai “Persichi naturalissimi” del Figino certifichino come la tavoletta abbia esercitato un notevole fascino sui contempo-ranei del pittore in quanto era parsa a loro come una vera e propria ‘novità’ naturalistica, un’inaspettata primizia nell’ambito del genere della natura morta. Il Longhi, proprio in riferimento a questa tavoletta del Figino, aveva parlato di “soglia” della natura morta86. Ma in realtà con il Piatto con pesche del pittore lombardo siamo entrati di fatto, e a pieno titolo, nel nascente edificio simbolico-compositivo del genere della natura morta.

Le Pesche del Figino non costituirono comunque l’unica natura morta (con le sue possibili repliche) del pittore in quanto nella sopra ricordata collezione di Ercole Bianchi, andata in eredità ai suoi quattro figli, venne registrata anche “Una Tazza d’uva in carta del Figino incorniciata stimata lire 10”, indicata pure come “Una frutiera d’uva del Figino lire 10”87. Si tratta di una vera e propria natura morta, anche se non è chiaro se si trattasse di un’opera completa (magari su pergamena) o di un disegno su carta da utilizzare co-me modello per riprodurre la tazza o la fruttiera con uva su un dipinto su tavola88. Non sappiamo quando il Figino abbia realizzato la “frutiera” appena citata, ma è evidente che tale natura morta va datata prima della sua morte nel 1608. E non è neppure escluso che le caraffe e i vasi vitrei, definiti con accurati riflessi alla fiamminga, che il pittore ha accu-ratamente disegnato e acquerellato su alcuni suoi fogli – come quello con Studi di figure, animali e caraffe – gli siano serviti per qualche natura morta ora dispersa89. La “frutiera d’uva” della collezione Bianchi costituisce comunque un soggetto che, come è noto, sarà tipico della produzione sia della Galizia sia di Panfilo Nuvolone: un contenitore ricolmo di grappoli d’uva posto centralmente su un piano. Si può inoltre segnalare che in una camera della collezione di Ercole Bianchi (come risulta da un inventario del 1633) erano presenti anche “tre quadretti di frutti diversi”90. Purtroppo, però, in questo caso non è chiaro se essi fossero opere dello zio Figino o di altri autori (la Galizia? il Nuvolone?).

Sappiamo che il Figino doveva avere anche una conoscenza di certe opere fiammin-ghe dal momento che il cognato Giovan Battista Bianchi e successivamente anche il figlio di quest’ultimo Ercole Bianchi (nipote del pittore) avevano diversi legami commerciali con le Fiandre. E, in particolare, Ercole (morto nel 1636), nella cui collezione si trovano le nature morte appena ricordate, era in strettissimo contatto con Jan Brueghel il Vecchio e parzialmente con Frans Snyders (il pittore milanese era però morto nel 1608)91. Il Figino, ovviamente, doveva essere in rapporto anche con importanti personaggi spagnoli. Una testimonianza letteraria del 1598 documenta, ad esempio, che il pittore aveva eseguito un “verissimo ritratto” di Juan Fernández de Velasco (governatore di Milano dal 1592 al 1600 e poi anche dal 1610 al 1612)92. Quest’ultimo poteva ben conoscere anche i nascenti esperimenti milanesi relativi alla natura morta e quindi può aver acquistato e poi portato in Spagna delle ‘frutterine’ lombarde. E forse alcune di esse sono quelle presenti nella sua quadreria spagnola. Infatti, in un inventario del 1608 della collezione iberica del Velasco compaiono “quatro figuras de flores” e “dos quadros al olio de frutta pintados sobre tabla”, mentre in un altro elenco di opere del 1613, appartenute allo stesso Velasco, si menzionano anche “Otro Lienço de frutas Contraechas del natural”93. Un altro significativo esempio

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dei contatti italo-spagnoli deriva da una preziosa testimonianza riguardante il pittore di corte Juan Pantoja de la Cruz. In base a tale documento si viene a sapere che nel 1592 egli aveva copiato per Agustín de Toledo “tres quadros de pinturas grandes de tres bodegones de Italia”94. L’aggettivo “grandes” indica che non si trattava di tavolette di natura morta, ma molto probabilmente di scene di genere più ampie. È comunque innegabile che la testimonianza evidenzia un contatto diretto con l’Italia in anni attorno al 1592, gli stessi anni dell’attività del Figino e, parzialmente, della Galizia. Proprio per questo, come si è accennato sopra, non si può escludere che si possano attendibilmente considerare di fattura o di origine lombarda anche quelle frutterine attribuite da alcuni studiosi a Blas de Prado.

Anche Fede Galizia (1574 circa - 1630 circa) era in contatto con l’Arcimboldo. La pittrice, come è noto, si era dedicata pure alla pittura religiosa e alla ritrattistica, ma oggi è più famosa come artista di raffinate e delicate nature morte. Era nata qualche anno prima del 1578, probabilmente verso il 1574 (o forse anche prima), e quindi aveva, più o meno, l’età del Caravaggio95. Si può riferire agli anni 1592-1595 il suo noto Ritratto di Paolo Morigia oggi all’Ambrosiana96. La parte inferiore di questo dipinto presenta degli oggetti metico-losamente rappresentati che potremmo considerare quasi una sorta di natura morta e che dimostrano, appunto, la sua notevole bravura nella raffigurazione di oggetti ‘da ferma’. Siamo infatti di fronte a un tale livello qualitativo che si può appunto supporre che già in quegli anni giovanili la pittrice potrebbe essersi dedicata a produrre quadri con nature mor-te autonome. Purtroppo i punti fermi della vasta produzione naturamortista della pittrice sono pochissimi. Nel lontano 1938 Curt Benedict rese noto un dipinto, già in collezione Anholt di Amsterdam, in cui, a detta dello studioso, compariva la firma e l’anno 160297. Del quadro si conosce però solo la fotografia, in quanto l’opera non è attualmente rintrac-ciabile. Tale iscrizione rimane quindi per noi ancora del tutto virtuale per l’impossibilità di verificarla filologicamente. Una data così precoce (1602) la possiamo trovare dipinta anche sulla Natura morta con volatili, frutta e ortaggi di Juan Sánchez Cotán ora conservata al Prado98. È però evidente che sia il pittore spagnolo sia la Galizia dovevano aver elaborato delle nature morte già qualche anno prima. Un altro punto fermo della produzione della Galizia è costituito dal monogramma del suo nome (“FG”) e dalla data “1607” presenti su una Alzatina di vetro con pesche, mele cotogne e fiori di gelsomino ora in collezione privata (fig. 15)99. L’identificazione di questa tavoletta siglata e datata è particolarmente importante in quanto permette di stabilire (almeno per ora) l’unico e decisivo punto di riferimento stili-stico e cronologico per tentare di ricostruire la produzione naturamortista della Galizia. Le nature morte della pittrice, come anche quelle del Figino e di Panfilo Nuvolone, presentano una struttura compositiva molto semplificata, potremmo dire di arcaico ‘minimalismo’. E forse è proprio questo, per noi moderni, il loro fascino rispetto alle più esuberanti nature morte successive. Su un piano è solitamente disposto, al centro, un contenitore ricolmo di frutta (o meno frequentemente di altri componenti) che si staglia su uno sfondo scuro. L’elemento centrale è affiancato, talvolta in maniera quasi simmetrica, da altri elementi come singoli frutti, fiori, insetti o altro. Si tratta di una formula compositiva semplificata che presenta notevoli tangenze con le calibrate strutture assiali frequentemente utilizzate in diverse tarsie lignee, come è evidente osservando, a solo titolo di esempio, una tarsia quattrocentesca raffigurante una Fruttiera attribuita a Lorenzo e Cristoforo Canozi e pre-sente nel coro di San Prospero a Reggio Emilia (fig. 16)100.

15. Fede Galizia Alzatina di vetro con pesche, mele cotogne e fiori di gelsomino Collezione privata

16. Lorenzo e Cristoforo Canozi Fruttiera Reggio Emilia, basilica di San Prospero, coro

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Le nature morte che in questi ultimi anni gli studiosi hanno riferito alla Galizia sono numerose. Non sempre però le attribuzioni sono attendibili, anche per l’oggettiva impossibilità di fare confronti con altre sue opere certe riferibili, ad esempio, agli ultimi decenni della sua carriera. Possiamo però avere almeno un’idea dell’attività di Fede nel campo del nuovo genere pittorico scorrendo le citazioni di sue ‘sicure’ nature morte riportate in alcuni inventari a noi noti. Tra i quadri della collezione di Giovan Carlo Do-ria, registrati nel 1617 circa, troviamo “Una tazza di persiche e mele della Milanese”101. Nell’inventario della quadreria torinese del duca Carlo Emanuele I di Savoia (1635) è invece documentata una “Tazza di cerase con una farfalla. Di Fede Galicia. Buono”102. È molto probabile che questo dipinto possa essere identificato con una tavoletta raf-figurante una Tazza argentata con ciliegie e una farfalla ora in collezione americana103. In questo quadro, oltre alle ciliegie accuratamente definite, compare anche una farfalla che la pittrice ha riprodotto con una precisione da entomologo e con un’accuratezza ‘alla Arcimboldo’. Nell’elenco dei dipinti lasciati in eredità a “G. Monti” risultano inoltre ben “Quatro quadreti bislonghi con frutti diversi di mano di Mad. Fede”104. Nella collezione parigina di Pierre Bonnard è invece registrato, nel 1647, un dipinto della “Signora Fede” con raffigurate delle mele, delle castagne e anche “un lapin d’Inde”, cioè un coniglio105. Sappiamo inoltre che a Milano, in casa Taverna, si poteva vedere un “ritratto di Fede Galicia, mezza figura con fiori”106. Purtroppo, però, non possiamo neppure intuire qua-li forme e posizioni avessero tali fiori nel quadro. La Galizia aveva raffigurato anche degli uccelli in associazione con i frutti: infatti in un inventario secentesco (1672) della collezione della famiglia Mazenta si legge: “Madonna Fede. 36 Vn cesto di vua con pas-saro che la mangia, & vn tordo morto.”107. Nella collezione milanese di Giovan Battista Visconti (1701) è invece registrata “Una Frutterina di Briccocole, e Brugne dentro d’un Cesto di Vimini, sù l’orlo di cui v’è un Uccellino, et dalli lati duoi vasetti di fiori, sù l’as-sa. Orig[ina]le di Mad[onn]a Fede”108. Due uccelli (“Aues duae”) sono anche inventariati come di sua mano nel catalogo del Museo Settala di Milano del 1664109. Si tratta di due quadri diversi perché in una successiva traduzione e ampliamento in italiano di tale inventario si legge: “63. Due Vccelli in due quadri, pitturati da Fede Gallitia”110. Che la pittrice abbia dipinto due quadri con ciascuno un uccello è particolarmente significati-vo. Non sappiamo di quali uccelli si trattasse. Ma dovevano essere delle raffigurazioni molto accurate e naturalistiche e non è escluso che l’input a realizzare tali volatili, come anche la farfalla vista sopra, sia venuto proprio dallo stesso Arcimboldo il quale, come si è detto, era anche un attento illustratore ‘scientifico’. È infatti molto probabile che nella propria bottega la Galizia tenesse quei disegni naturalistici che l’amico Arcimboldo potrebbe averle donato quando era in vita o che potrebbe averle lasciato dopo la sua morte. E forse la pittrice potrebbe essersi appassionata al nuovo genere pittorico anche attraverso tali studi grafici.

Sappiamo con certezza che l’Arcimboldo e la Galizia si conoscevano, e quindi possiamo considerare anche le nature morte realizzate dalla pittrice (eseguite, non è escluso, come si è detto, già all’inizio degli anni novanta) come figlie degli studi na-turalistici arcimboldeschi. Il Morigia nel 1595 aveva già segnalato che la Galizia era in contatto con l’imperatore asburgico poiché aveva scritto: “essendo volato la fama di lei alla Cesarea Maestà di Rodolfo Imperatore, egli s’è compiaciuto d’hauer cose di mano di

questa virtuosa Fede, la quale ogni giorno và acquistandosi lodi […]”111. Ma attraverso una testimonianza letteraria di quegli anni ho potuto accertare che fu proprio l’Arcim-boldo a far da tramite tra l’imperatore e la giovane pittrice. Infatti il letterato Gherardo Borgogni, che ben conosceva l’Arcimboldo, così scrive in un suo testo del 1598:

Questa gentilissima vergine (che tale è ancora) è sì fattamente versata nella pit-tura, che fa stupir chiunque vede le sue nobilissime fatiche, & in testimonio della verità, essendo questi anni adietro, da gia fù Sig. Gioseppe Arcimboldo Pittor di Sua M[aestà]. Ces[area]. mandate alla detta Ces. M. alcune sue fatiche, le quali gli furono care molto, onde per darne maggior segno, ordinò a detto Arcimboldo, che gli facesse hauer qualch’altra cosa di mano di questa virtuosissima giouane, il che fù eseguito.112

La testimonianza del Borgogni è assai interessante non solo perché ci dice esplicitamente che l’Arcimboldo fece da intermediario tra la pittrice e l’imperatore, ma anche perché ci informa con più precisione che il pittore, anche in ambito milanese, svolse il ruolo di procacciatore di dipinti per il museo di Rodolfo II (e lo abbiamo visto anche per il Giove del Figino). Occorre inoltre tener conto che se l’Arcimboldo morì nel luglio 1593 vuol dire che egli inviò i lavori della collega ‘almeno’ qualche mese prima, probabilmente nell’anno precedente. E questo significa che Fede era una pittrice ‘matura’ e degna di essere apprezzata da un raffinato collezionista come Rodolfo II già agli inizi degli anni novanta quando doveva avere, come si è visto sopra, ‘circa’ 18-20 anni. Purtroppo, però, non conosciamo quali opere della Galizia varcarono le Alpi: forse già delle nature morte?

Il diretto contatto tra l’Arcimboldo e la pittrice Galizia fu quindi di particolare importanza nello sviluppo della natura morta lombarda. Se guardiamo con attenzione la Flora meretrix dell’Arcimboldo (fig. 10) possiamo notare un mondo brulicante di esseri viventi: farfalle, un bruco, una cavalletta, una lucertola, delle coccinelle. Non è certa-mente un caso che alcuni di tali insetti si ritrovino anche in alcune delle nature morte della Galizia. La presenza di una farfalla l’abbiamo già vista sopra in una tavoletta della pittrice. Possiamo invece notare, ad esempio, una cavalletta (come quella della Flora

meretrix) in un’altra delle nature morte di Fede, quella con Pesche in una fruttiera di vetro,

fiori di gelsomini, mele cotogne e cavalletta di collezione privata; o una lumaca nell’Alzata di

vetro con pesche e gelsomino, mele cotogne e lumaca, anche questa ora in collezione privata113. L’Arcimboldo era dunque in contatto sia con il Figino, sia con la Galizia. È però anche molto probabile che pure questi due ultimi pittori si conoscessero personalmente. Un importante indizio in tal senso ci viene dall’inventario della citata collezione Visconti nel quale troviamo registrata la seguente natura morta riferita alla Galizia: “Una Frutte-rina di Persici sopra un tondo con frasche di vite bellissima; di Fede Galicia: Cornice di pero nero con fiorami dorati”114. Si tratta di una natura morta ‘simile’ al Piatto di pesche

del Figino (cat. 3) (ammesso che non ci sia stato un banale errore nell’indicare il nome dell’artista). Non è però dato sapere se fosse solo ‘simile’ negli elementi rappresentati o anche ‘identica’ nella struttura compositiva. Se era davvero una versione del dipinto figiniano dobbiamo dedurre che ci fu uno scambio tra le due botteghe ed è molto proba-bile che fu la più giovane Galizia a riprendere il modello del Figino, forse dopo la morte

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del pittore, su richiesta di qualche collezionista influenzato dagli elogi indirizzati dai letterati milanesi al famoso prototipo.

Tra i pittori che hanno potuto in qualche modo approfittare della ricerca naturali-stica di artisti lombardi come il Campi, l’Arcimboldo, il Figino e anche la Galizia (vista la sua precoce produzione) ci fu sicuramente anche un genio della pittura come il Caravag-gio (1571-1610). Proprio negli anni in cui l’Arcimboldo era impegnato nell’elaborare per l’imperatore (e forse anche per altri) i suoi ammiratissimi dipinti ‘capricciosi’ e profonda-mente naturalistici, iniziava infatti la sua straordinaria carriera Michelangelo Merisi, un giovane artista proveniente dal borgo di Caravaggio. Come è noto, il Merisi – caravaggino di famiglia, ma milanese di nascita in quanto battezzato nella parrocchia di Santo Stefano in Brolo il 30 settembre 1571 – svolse il suo apprendistato artistico presso la bottega di Simone Peterzano, un pittore bergamasco che si dichiarava allievo di Tiziano115. La bottega del Peterzano si trovava alle spalle del Duomo, nella parrocchia di San Giorgio al Pozzo Bianco, e il giovanissimo Michelangelo, secondo un accordo contrattuale stilato il 6 aprile 1584, imparò dal maestro l’ars pingendi sino al 1588. Con ogni probabilità, però, il giovane restò a Milano anche dopo la conclusione del suo apprendistato, sino a quando, dopo aver venduto i suoi averi, partì alla volta di Roma, forse passando per Venezia. Un tempo si riteneva che il pittore fosse giunto nell’Urbe alla fine del 1592 o al massimo nei primi mesi del 1593. Recentemente, però, è stato proposto, attraverso una ‘forzata’ interpretazione di un nuovo documento da poco rintracciato, di spostare la data del suo arrivo a Roma verso la fine del 1595 o gli inizi del 1596116. Tuttavia questa seconda ipotesi, che alcuni studiosi considerano già come acquisita, rimane in realtà ancora sostanzialmente incerta e non del tutto sicura. Sarebbe quindi meglio, a mio parere, non scartare troppo frettolo-samente l’ipotesi più tradizionale, in attesa che altri documenti possano, eventualmente, confermare o smentire con più fondamento l’una o l’altra delle congetture in campo117. Sappiamo comunque con certezza da un preciso documento notarile che il 28 novembre 1591 il Merisi risultava abitante (non si sa da quanto tempo) nella parrocchia milanese di San Vito in Pasquirolo118. Si trattava di una parrocchia posta presso Porta Orientale (era la zona a est di Milano, proprio dietro al Duomo). L’Arcimboldo invece, come si è visto, abitava e aveva bottega (dove, come abbiamo visto, aveva esposto anche il suo Vertunno) in un palazzo sito nella parrocchia di San Pietro alla Vigna in Porta Vercellina119. Se consi-deriamo anche alcune date, possiamo notare con precisione come i due artisti si trovassero ad agire sul palcoscenico milanese proprio negli stessi anni: l’Arcimboldo era tornato a Milano nel 1587-1588 ed era morto nel 1593; il Merisi aveva iniziato il suo apprendistato milanese nel 1584 (concludendolo nel 1588) e aveva lasciato Milano (e il borgo di Caravag-gio) probabilmente alla fine del 1592 o all’inizio del 1593 (o, secondo l’altra ipotesi sopra accennata, qualche anno dopo). L’Arcimboldo era giunto a Milano alla fine del 1587 o nei primi mesi del 1588, proprio quando il giovane Michelangelo stava terminando i suoi ultimissimi mesi di apprendistato presso la bottega del Peterzano (concluso nell’aprile 1588). Quindi dobbiamo immaginare l’interesse che il neopittore, oggi diremmo appena ‘diplomato’ e quindi non un dilettante o uno sprovveduto con idee poco chiare, doveva avere per la pittura del famoso concittadino. Una coincidenza di tempi che è dunque particolarmente significativa, sebbene ciascuno dei due pittori abbia avuto un ruolo del tutto diverso e per alcuni aspetti opposto. L’Arcimboldo era un pittore che aveva fatto

la sua fortuna all’estero presso le corti di Vienna e Praga e che era tornato in patria osan-nato e apprezzato dai più importanti letterati del tempo, non escluso il Lomazzo, che era un amico anche del Peterzano. Giuseppe era un artista elogiato per le sue invenzioni strampalate, ma anche, o soprattutto, per la sua capacità di rendere in maniera profon-damente naturalistica frutti e fiori. Il Caravaggio, invece, era un giovane apprendista che doveva certamente essere avido di imparare, di vedere, di carpire i segreti per rendere al meglio i naturalia. Tempi e luoghi permettono quindi di evidenziare come il giovane pit-tore abbia avuto modo di conoscere i dipinti arcimboldeschi e di coglierne quegli aspetti più propriamente mimetico-naturalistici. Elementi che diventeranno, come è noto, la peculiare cifra stilistica del Merisi nel campo della resa ottica del mondo naturale, come si vede, ad esempio, nell’inserto con frutti del Mondafrutto, nella cesta naturalistica del Ragazzo con canestra di frutta (Vertunno) della Borghese, nel contenitore ricolmo di frutta del Bacco degli Uffizi, nella cesta sul bordo del tavolo della Cena in Emmaus di Londra, o nella Canestra dell’Ambrosiana (cat. 6)120, tutti dipinti che influenzeranno notevolmente gli specialisti romani di nature morte. Al contrario, l’opposta ipotesi che il Caravaggio in quegli anni non abbia mai sentito parlare di un pittore noto e osannato come l’Arcimboldo e che quindi non abbia mai avuto occasione di vedere alcuno dei suoi dipinti capricciosi e nel contempo intensamente naturalistici è palesemente irreale. Anzi, si può addirittura sostenere che il giovane Michelangelo, dopo il suo apprendistato peterzanesco, potrebbe aver frequentato, probabilmente soltanto per un breve periodo, non solo, come è stato proposto, la bottega del Campi o del Figino, ma anche quella dell’Arcimboldo121. E in quest’ultima bottega, affastellata di ortaggi, frutta e fiori, potrebbe aver interpellato l’an-ziano Arcimboldo sulla ‘manifattura’ delle sue riproduzioni. In fondo i due pittori, come si è visto sopra, lavoravano a Milano in botteghe non particolarmente distanti tra loro: il giovane Michelangelo doveva solo fare un breve percorso a piedi se voleva visitare il laboratorio naturalistico del noto e stimato Arcimboldo per vederlo al lavoro. Che il Caravaggio, dopo la sua esperienza peterzanesca, possa aver frequentato altre botteghe milanesi è del tutto possibile. Lo stesso Lomazzo, ad esempio, in una sua rima nomina un pittore milanese minore come “vn garzon del Camp e del Figin”, vale a dire cita un giovane apprendista indicandolo come un garzone di ‘due’ diversi pittori122.

Ovviamente è facile per noi ora, che abbiamo una conoscenza della storia dell’arte a posteriori, notare la notevole divergenza di concezione tra il naturalismo dell’Arcimboldo, messo al servizio di un’immagine strampalata e legato anche al mondo delle Wunderkam-

mern, e il realismo del Caravaggio, il quale, demolendo i consolidati canoni manieristici, ha contribuito a fondare la pittura ‘moderna’. Dobbiamo però ammettere che se guardiamo la questione da un punto di vista puramente storico e oggettivo – come se fossimo degli osservatori neutrali presenti a Milano tra gli anni ottanta e novanta del Cinquecento – non potremmo che registrare questi semplici fatti. Un giovane di circa 16-22 anni (più o meno dal 1588 al 1592-1593, cioè in un arco di tempo non breve: qualche anno, non qualche me-se), dopo aver trascorso un lungo tirocinio per diventare pittore (anche finanziariamente costoso per la famiglia), si trovava nello stesso luogo e negli stessi anni in cui operava un pittore osannato da tutta la Milano colta per le sue insolite immagini strampalate e soprattutto per le sue straordinarie capacità naturalistiche. Questo stesso giovane, partico-larmente interessato all’ars pingendi, aveva quindi la possibilità di conoscere, apprezzare,

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valutare, imitare direttamente le opere naturalistiche di un pittore sessantenne che era diventato famoso in alcune delle più importanti corti europee. Il giovane Michelangelo, in quanto artista che formalmente avrebbe potuto mettersi in proprio, o che comunque avrebbe potuto lavorare come aiuto in un’altra bottega, deve aver ben compreso l’altis-simo valore mimetico della pittura arcimboldesca e deve aver cercato, in qualche modo, di carpire i ‘trucchi’ che l’anziano pittore utilizzava per rendere i frutti e i fiori con quella straordinaria accuratezza ottica. Giustamente ci si è chiesti se il Caravaggio avesse esegui-to delle nature morte (o degli inserti naturalistici in dipinti con figure) già in Lombardia123. Si tratta di un’ipotesi del tutto attendibile da non scartare, anche se purtroppo, come noto, non esiste alcun indizio sull’attività lombarda del Merisi. Alcuni studiosi, per dar conto della precisione naturalistica presente in diverse opere giovanili del Merisi, hanno par-lato genericamente di influsso fiammingo. Maurizio Calvesi, ad esempio, ha scritto che “L’influenza dei fiamminghi sul giovane Caravaggio fu certo più incisiva di quanto non sia stato rilevato”; Svetlana Alpers ha sottolineato come il Merisi fosse “profondamente attratto dalla tradizione nordica”; mentre Godefridus J. Hoogewerff ha osservato che la Canestra del Merisi (cat. 6) fu creata “sotto l’influsso evidente di maestri fiamminghi”124. Si è parlato anche della conoscenza da parte del Caravaggio delle magnifiche tavole del naturalista Jacopo Ligozzi presenti a Firenze o, in copia, a Roma125. In realtà tutti questi aspetti, cioè la meticolosità fiamminga e la precisione ‘scientifica’ nella riproduzione dei naturalia, erano ben presenti proprio nelle opere del milanese Arcimboldo che il giovane Merisi ha potuto studiare a pochi passi dalla sua abitazione milanese.

Quando il Caravaggio giunse a Roma doveva già possedere una capacità non in-differente nel riprodurre i naturalia. È infatti noto come il Merisi, nei primi anni del suo soggiorno romano, fu preso nella bottega del Cavalier d’Arpino e “fù applicato à dipinger fiori, e frutti si bene contrafatti”126. Si noti l’espressione “fiori, e frutti”: proprio la specialità evidenziata dall’Arcimboldo nei suoi dipinti realizzati, come si è visto, anche a Milano. Il Caravaggio è ricordato come specialista nella riproduzione dei naturalia anche in un passo della famosa lettera del marchese Vincenzo Giustiniani: “& il Carauagio disse, che tanta manifattura gl’era a far vn quadro buono di fiori come de figure.”127 Talvolta diamo

per scontato che un genio della pittura come il Caravaggio abbia già in sé delle particolari capacità che deve solo far emergere. In realtà un pittore è in grado di valorizzare le proprie potenzialità solo se viene a contatto con qualche artista dal quale, direttamente o indiret-tamente, possa acquisire una certa tecnica, una certa procedura di lavoro. Se il d’Arpino lo assunse nella sua bottega significa che aveva notato nel giovane una specifica abilità pittorica nel rendere il mondo naturale che il pittore lombardo in realtà già possedeva. Quindi il Merisi non la apprese in quella stessa bottega romana accanto ad altri artisti. Ma da dove gli derivava tale capacità di osservazione del reale applicata nella riproduzione di “fiori, e frutti” se non dalle opere viste in Lombardia e in particolare da quelle arcim-boldesche? Certo può aver acquisito qualche aspetto tecnico nella bottega del maestro Peterzano. Ma se guardiamo, ad esempio, gli inserti naturalistici del pittore bergamasco presenti nel suo Venere con Cupido e due satiri (ora a Brera) notiamo una resa del naturale non così meticolosa e accurata (fig. 17)128. Il Peterzano ha riprodotto quei frutti in maniera generica, con tocchi sommari e quasi con distrazione, mentre l’allievo Michelangelo nei suoi quadri giovanili ha sviluppato una diversa attenzione per il dettaglio giungendo a dare un valore luministico formale alla frutta di ben altro livello, come si può vedere, solo per fare un esempio, nei naturalia presenti nel Bacco degli Uffizi (fig. 18), dove lo stesso frutto della melagrana, che anche il maestro aveva dipinto nel quadro appena citato, ha tutt’altra consistenza pittorica129.

17. Simone Peterzano Venere con Cupido e due satiri, particolare Milano, Pinacoteca di Brera

18. Da sinistra verso destra, particolari di: Arcimboldo, Estate (fig. 7); Arcimboldo, Vertunno (Ritratto di Rodolfo II) (ruotato di 180 gradi, fig. 9); Arcimboldo, Testa reversibile con canestro di frutta (ruotata di 90 gradi, fig. 12); Caravaggio, Ragazzo con canestra di frutta (Vertunno); Caravaggio, Bacco; Caravaggio, Canestra di frutta

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tutto originali. Il Merisi, come si è visto, lavorò per un certo periodo nella bottega del Cavalier d’Arpino; e nello stesso studio si trovava anche il pittore Francesco Zucchi (1562 circa - 1622)132. Su questo artista Giovanni Baglione ci ha dato una notizia particolarmente interessante dal nostro punto di vista. Egli scrive:

Francesco [Zucchi] fu colui, che nelle tele inuentò di comporre, e colorire le teste delle quattro Stagioni co’ loro frutti, fiori, & altre cose, che ne’ tempi di quella Sta-gione, sogliono dalla Natura prodursi; e sì bene, le diuisaua, che fuori ne faceua apparire tutte le parti, come per l’appunto nelle teste humane da noi si scorgono; e numerosi da per tutto si vedono i ritratti di questa sua inuentione.133

Il Baglione, attribuendo la genesi dell’invenzione allo Zucchi, in realtà dimostra di non conoscere direttamente l’origine arcimboldesca del ‘brevetto’ delle stagioni composte da fiori e frutta. Ma la notizia è interessante perché testimonia che negli anni romani del Merisi circolavano ‘numerose’ teste composte la cui originaria paternità è stata succes-sivamente attribuita dal Baglione allo Zucchi. Doveva esserci una certa diffusione di tali immagini perché nell’inventario del 1600 della collezione del cardinale Benedetto Giu-stiniani sono registrati (unici esempi di ‘nature morte’) “Quatro quadretti in tella mezani delle quatro stagioni fatti di fiori fruti et erbbe in forma di teste e petti” (dipinti che in un successivo inventario del 1621 vengono descritti come “Le quatro stagione facte a modo de figure”)134. Mentre solo qualche anno dopo, nel 1609, nell’inventario della collezione medicea della villa di Artimino, anche qui come unica testimonianza di dipinti di nature morte, sono catalogate due serie, ciascuna di quattro tele, raffiguranti le Stagioni (oggi non più rintracciabili): “quattro teste composte di frutte e fiori […] che furono le quattro stagione”; e anche “le quattro teste delle stagione del anno che una composta tutta di fiori di più sorte per la primavera, e una di spighe e altre frutte per l’estate, e l’altra d’uva e altre frutte per l’autunno e una a foggia di Barba d’albero per il verno”. Queste tele sono state riferite appunto allo Zucchi, un pittore fiorentino legato alla corte medicea, anche sulla base delle parole del Baglione135. Ma, in realtà, almeno le teste della serie appena citata sembrano proprio arcimboldesche nel vero senso del termine (non dunque alla ‘maniera’ arcimboldesca). Al limite si può pensare che lo Zucchi abbia copiato le quattro teste dell’Arcimboldo (oppure abbia copiato altre copie), ma anche in tal caso ci si può chiedere: dove ha visto e chi gli ha fornito le immagini delle opere arcimboldesche da copiare? Dello Zucchi ci sono rimasti tre dipinti ritenuti sicuramente autografi (per la presenza della sua sigla “F.Z.F”: ‘Francesco Zucchi Fece’ o ‘Francesco Zucchi Fiorenti-no’) che mostrano palesemente uno stile ‘arcimboldesco’: un Busto di figura femminile composta da frutta e ortaggi, conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli, e due tele in collezione privata. Una di queste raffigura un Busto maschile con barba: si tratta di un dipinto di buona fattura, ma sicuramente di una qualità decisamente meno elevata ri-spetto a quella presente nei quadri dell’Arcimboldo, i quali rivelano invece una ben più matura raffinatezza descrittiva e inventiva136. È stata attribuita allo Zucchi anche una bella Testa con baffi e pizzo composta da ortaggi e frutta di collezione privata137. In effetti la strutturazione del volto di questo personaggio composto presenta non poche affinità con le teste conosciute dello Zucchi, come gli occhi con le palpebre ben evidenziate o

È quindi evidente che i veri maestri dai quali il giovane Merisi apprese l’arte di riprodurre i naturalia furono quei pittori lombardi che aveva potuto vedere al lavoro a Milano tra gli anni ottanta e novanta del Cinquecento. Il Caravaggio deve aver certa-mente ammirato la minuzia descrittiva e naturalistica dei frutti o dei pesci disposti nelle ceste da mercato dei quadri di genere del Campi, come si può vedere nella Fruttiven-

dola (cat. 1) o nei Pescivendoli. L’artista avrà inoltre anche apprezzato la miniaturistica definizione delle Pesche del Figino (cat. 3), e forse anche di qualche altra natura morta dello stesso pittore ora dispersa (come si è detto sopra). Ma una consonanza stilistica più stringente si può trovare in particolare tra i naturalia arcimboldeschi e quelli in-seriti nelle opere giovanili del Merisi. Il giovane pittore deve essere stato soprattutto affascinato nel vedere la precisione minuziosa delle foglie e delle molteplici specie di fiori nelle due Flore dell’Arcimboldo (figg. 8, 10). E deve aver anche apprezzato il modo con cui lo stesso pittore aveva reso la forma, tra l’altro, dell’uva che sagoma la testa del Vertunno, dei vari frutti che definiscono il viso o anche delle spighe poste sul capo. Un dipinto che, come si è detto sopra, il giovane Michelangelo poteva aver certamente visto ancora fresco quando venne esposto nel palazzo milanese dell’Arcimboldo. Non è quindi un caso che, tanto per fare un esempio, le guizzanti serpi attorcigliate che ‘formano’ la testa della Medusa del Caravaggio conservata agli Uffizi presentino una notevole originalità di impostazione (quasi arcimboldesca è la trasformazione dei capelli in vipere) e un’acuta precisione naturalistica derivante, per alcuni aspetti, anche dai dipinti dell’Arcimboldo130. Per valutare ancor meglio la rilevante parentela e la notevole consonanza stilistica tra i dipinti dell’Arcimboldo e quelli del Caravaggio, ovviamente nell’ambito della resa mimetica dei frutti, è utile accostare, per un confronto diretto, dei particolari naturalistici tratti da alcune opere dei due artisti milanesi. Ad esempio, se prendiamo una parte della frutta dell’Estate di Monaco, la testa (capovolta) del Vertunno

e la frutta (rovesciata di 90 gradi) della Testa reversibile dell’Arcimboldo e le mettiamo a diretto confronto con gli elementi naturali del Ragazzo con canestra di frutta (Vertunno) della Borghese, con la frutta inserita nel Bacco degli Uffizi e con alcuni particolari della Canestra del Caravaggio, possiamo notare una certa affinità (non identità, ovviamente) nel modo di rendere illusionisticamente i naturalia (fig. 18). Ne percepiamo, infatti, la vicinanza stilistica nella tornitura dei pomi, nei riflessi luministici degli acini d’uva, nel modo di rendere la luce che avvolge i vari frutti, nella maniera di smorzare o accentuare le ombre per costruire plasticamente i diversi elementi naturali. Simile è, in sostanza, il grado di definizione dei particolari che si allontana sia dalla resa ovattata e minimalista con cui sono raffigurate, ad esempio, le pere poste nel contenitore alla base dalla pala di Sant’Andrea di Bergamo del Moretto (fig. 3), sia dalla resa lenticolare, epidermica e quindi in fondo iperrealistica dei vari fiori (comunque databili agli inizi del Seicento) riprodotti dal fiammingo Jan Brueghel il Vecchio131. Questo pittore, infatti, nei suoi dipinti si spinse verso un’atomistica e impercettibile riproduzione del millesimale, con un’imitazione pittorica da microscopio che è invece estranea sia allo stile naturalistico dell’Arcimboldo, sia a quello del Caravaggio.

Il Caravaggio fu di certo affascinato dalle capacità mimetiche dell’Arcimboldo, ma, come gli altri, si sarà anche divertito nel cogliere il ghiribizzoso trucco delle teste composte e reversibili, le quali, come aveva ribadito il Comanini, erano invenzioni del

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la struttura anatomica del naso con l’accenno a una narice. Ma l’attribuzione al pittore fiorentino risulta meno convincente se si tiene conto che questa Testa con baffi presenta, rispetto allo stile dello Zucchi, una stesura pittorica più cristallina, in parte più leziosa e levigata, e una sottigliezza maggiore nella definizione dei particolari.

È comunque significativo ricordare che nel passato alcuni studiosi, tenendo pro-prio conto della specializzazione naturalistica sviluppata dallo Zucchi, hanno proposto di identificare questo pittore con il misterioso “Maestro di Hartford”138. Ci possiamo comunque chiedere: come si era diffuso a Roma tale espediente figurativo consistente nell’associare elementi naturali per comporre delle teste? Certo potevano circolare delle banali copie arcimboldesche provenienti dalla Lombardia. Tuttavia non si può sottovalu-tare del tutto la circostanza che, non a caso, nella stessa bottega del d’Arpino si trovano contemporaneamente sia il Caravaggio – che pochi anni prima aveva avuto modo di conoscere direttamente la produzione dell’Arcimboldo – sia lo Zucchi, che si era dedicato a tale produzione tanto da far dire (erroneamente) al Baglione che egli ne fu l’inventore. La conclusione logica sembra inevitabile: a far conoscere il trucco visivo-naturalistico potrebbe essere stato benissimo lo stesso Caravaggio. Già nel 1984 uno studioso come Luigi Salerno aveva acutamente sottolineato questa tesi scrivendo: “Ora nella bottega del d’Arpino poteva essere stato proprio il Caravaggio, che veniva da Milano, ad infor-mare lo Zucchi dei prodigi del metodo arcimboldesco.”139 Anzi si potrebbe addirittura sostenere che anche il Merisi si sia provvisoriamente dedicato a tali immagini nel capo-luogo lombardo e che possa aver portato con sé alcune di esse quando fu assunto nella bottega del d’Arpino. Forse quest’ultimo si accorse delle capacità del giovane lombardo anche attraverso tali dipinti. Con questa tesi siamo nell’ambito dell’ipotetico, ma non dell’assurdo. D’altra parte il ricordo dei capolavori naturalistici di fine Cinquecento dell’Arcimboldo doveva essere rimasto persistente tra i pittori milanesi operanti tra i due secoli. Non a caso tra gli artisti che hanno visto, apprezzato e assimilato le stranez-ze naturalistiche dell’Arcimboldo, oltre al Figino e alla Galizia, doveva esserci, molto probabilmente, come si è sopra accennato, anche un altro pittore specialista di naturalia: Carlo Antonio Procaccini (1571-1630 circa). A questo artista, di cui ci è rimasta una tavola firmata con il Riposo durante la fuga in Egitto entro la ghirlanda di fiori (collezione privata), sono state infatti recentemente attribuite anche l’Allegoria della terra con ghirlanda di fiori e frutta e l’Allegoria dell’acqua con ghirlanda di pesci e crostacei (fig. 19)140. Ciascuno dei due quadri presenta una ghirlanda dal sapore chiaramente postarcimboldesco la quale rac-chiude delle figure simboliche. In particolare la ghirlanda inserita nell’Allegoria dell’acqua è costruita con una concatenazione di diversi pesci e crostacei che il pittore ha disposto in maniera sapientemente artificiosa e inventiva alla maniera, appunto, arcimboldesca, avendo quindi sicuramente in mente proprio i dipinti milanesi dell’Arcimboldo.

Una certa sottovalutazione, ancora non del tutto svanita, circa il ruolo avuto dall’Arcimboldo a Milano alla fine del Cinquecento per lo sviluppo della natura morta è dovuta essenzialmente al giudizio riduttivo e minimizzante dato nel secolo scorso dal Longhi. Questo studioso ha scritto delle pagine che rimangono fondamentali per la comprensione del retroterra figurativo lombardo che ha influenzato il giovane Merisi. Egli, però, ha evidenziato maggiormente l’aspetto luministico sviluppato dal Caravaggio rispetto a quello della riproduzione dei naturalia. In particolare, lo studioso ha tralasciato

di considerare le opere dell’Arcimboldo come ‘precedenti’ caravaggeschi perché, come altri critici (ma non tutti), è stato in qualche modo condizionato dal suo ‘pre-giudizio’ negativo sul pittore da lui percepito come ‘solo’ legato al mondo manierista, un mondo che il Caravaggio stesso aveva contribuito a dissolvere. Il Longhi, infatti, ha considerato l’Arcimboldo e, non a caso, anche altri artisti quali Vincenzo Campi, Carlo Urbino e i Bassano come “incespiconi di uomini di viste corte”141. Sulla base di tale ‘pre-concetto’ il Longhi ha visto nelle opere dell’Arcimboldo ‘solo’ “estremi capricci tecnici” o “strane composizioni a indovinello figurale”142. Lo studioso ha proprio scritto che tra la “‘natura morta’ come atteggiamento fiduciosamente ‘realistico’ del pittore di fronte a un brano naturale, e la ‘natura morta’ come sedulità descrittiva, come presunzione da erboristi o da scienziati di provincia, come sfoggio di tecnica diligenza, non era transito possibile.”143 Una parte della critica successiva, riprendendo acriticamente le perentorie parole del Longhi, non ha voluto mettere in discussione tale modello interpretativo, basato appunto su una divisione troppo artificiosa e netta – e senza alcun possibile “transito” – tra la riproduzione scientifico-analitica del mondo naturale e la realistica visione ‘moderna’, concepita come mutamento epocale. Il Longhi, infatti, pur avendo avuto il merito di evi-denziare la forza del cambiamento moderno introdotto dal Caravaggio nel genere della natura morta, ha però trascurato in maniera eccessiva l’apporto dato da quel realismo ‘ottico’ che anche l’Arcimboldo aveva sviluppato nei suoi lavori. A tal proposito Marco Rosci ha giustamente scritto che lo studioso albese, con la sua “drastica impostazio-ne”, ha sottolineato eccessivamente la contrapposizione “fra una preistoria ‘manierista’ radicata nel passato cinquecentesco e la nuova storia dei ‘pittori della realtà’”, senza però valorizzarne gli intrecci e le contaminazioni144. Bisogna però anche ammettere che il Longhi non poteva allora conoscere né alcuni dipinti del pittore milanese, né alcuni

19. Carlo Antonio Procaccini Allegoria dell’acqua con ghirlanda di pesci e crostacei Collezione privata

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documenti che sono emersi solo successivamente. La miglior conoscenza delle opere dell’Arcimboldo e la consapevolezza critico-documentaria che il Caravaggio si formò nello stesso luogo e negli stessi anni in cui lavorava l’Arcimboldo permettono invece ora di evidenziare meglio la straordinaria affinità nel campo della riproduzione dei natura-

lia tra i due pittori nati a Milano. L’Arcimboldo è il singolare testimone di una pittura sofisticata, allegorica, strampalata, giocosa, manierista; il Caravaggio è invece il genio ‘realista’ della pittura ‘moderna’. Ma il fatto che il Merisi abbia contribuito a dissolvere quella che oggi viene chiamata appunto pittura ‘manierista’ non significa affatto che non ne sia venuto in contatto, anche se è innegabile – e va ancora ribadito – che per quanto riguarda i risultati finali e la concezione della pittura tra i due artisti milanesi rimane ovviamente un notevole divario. Il Caravaggio ha avuto quindi la geniale capacità di assorbire, con occhi ben spalancati su tutto ciò che poteva vedere in Lombardia, sia le naturalistiche riproduzioni espositivo-mercantili del Campi, sia il metodo pittorico di aderenza al dato reale sviluppato dall’Arcimboldo nonché il pacato miniaturismo ottico della natura morta del Figino. Egli ha però assimilato tali diverse esperienze lombarde, e in particolare quella arcimboldesca, senza farsi affatto condizionare dai diversi presup-posti di partenza. Il Merisi, infatti, è riuscito a depurare le scene campesche dall’intrin-seca componente mercantile; è stato in grado di depotenziare, svuotandolo di valore, il retroterra capriccioso, ghiribizzoso e ludico delle immagini arcimboldesche; e ha saputo anche superare l’effetto di perfetta tornitura ‘accademica’ dei frutti figiniani. Ma è pro-prio partendo da tali fondamentali esperienze lombarde che il Caravaggio è stato poi in grado di fondare, con immagini di assoluta originalità anche nel campo dei naturalia, quel che noi ora chiamiamo la pittura ‘moderna’. Ma qui il discorso si sposta ovviamente a Roma, dove il Caravaggio detterà le sue regole condizionando in maniera decisiva lo sviluppo della natura morta italiana.

1 La bibliografia sulla natura morta è, come noto, vastissima. Pertanto in questa nota mi limito a segnalare solo alcuni testi attraverso i quali si potrà co-munque risalire a una più ampia biblio-grafia (per diversi altri studi, relativi so-prattutto alla natura morta lombarda, si veda in particolare la mia scheda dedi-cata al Piatto di pesche del Figino in que-sto stesso volume, cat. 3): C. Sterling, La

nature morte de l’antiquité au XXe siècle. Nouvelle édition révisée, catalogo della mostra, Paris (1952) 1985; I. Bergström et al., La natura in posa. La grande stagione

della natura morta europea, Milano (1977) 1997; Stilleben in Europa, catalogo della mostra, a cura di G. Langemeyer e A. Peters, Münster 1979; J.T. Spike, Italian

Still Life Paintings From Three Centuries, catalogo della mostra, Firenze 1983; L. Salerno, La natura morta italiana 1560-

1805, Roma 1984; S. Ebert-Schifferer, Die

Geschichte des Stillebens, München 1988 (trad. it. La natura morta. Storia, forme,

significati, Milano 1998); La natura morta

in Italia, a cura di F. Porzio, direzione scientifica di F. Zeri, 2 voll., Milano 1989; L. Salerno, Nuovi studi su la natura

morta italiana, Roma 1989; B. John, Stille-

ben in Italien. Die Anfänge der Bildgattung

im 14. und 15. Jahrhundert, Frankfurt am Main/Bern/New York/Paris 1991; C. Grimm, Die italienischen, spanischen und

französischen Meister, Stuttgart/Zürich 1995 (trad. it. Natura morta. I Maestri ita-

liani, spagnoli e francesi, Novara 1995); La

natura morta. La storia, gli sviluppi inter-

nazionali, i capolavori, a cura di S. Zuffi, Milano 1999; Natura morta lombarda, ca-talogo della mostra, ideata da F. Caroli e curata da A. Veca, Milano 1999; Fasto

e rigore. La Natura Morta nell’Italia setten-

trionale dal XVI al XVIII secolo, catalogo della mostra, a cura di G. Godi, Milano 2000; La natura morta italiana da Caravag-

gio al Settecento, catalogo della mostra, a cura di M. Gregori, München/Firenze/Milano (2002) 2003; L. Bortolotti, La na-

tura morta. Storia Artisti Opere, Firenze 2003; I. Raab, Die Entstehung des autono-

men Stillebens. Die Rolle der lombardischen

Maler, Saarbrücken 2008; Natura morta.

Rappresentazione dell’oggetto, oggetto come

rappresentazione, atti del convegno, a cu-ra di C. Barbieri e D. Frascarelli (2008), Napoli 2010. 2 Cfr. M. Faré, De quelques termes désignant la peinture d’objet, in Etudes

d’art français offertes à Charles Sterling, a cura di A. Châtelet e N. Reynaud, Paris 1975, pp. 265-278; B. John, Stilleben in

Italien…, cit., pp. 17 e sgg.; M. Pepe, ad vocem Natura morta, in L. Grassi, M. Pe-pe, Dizionario dei termini artistici, Torino 1994, pp. 564-565. 3 Cfr. G. Berra, Arcimboldi, Vincenzo

Campi, Figino, Fede Galizia, Caravaggio:

congiunture sulla nascita della natura

morta in Lombardia, in Vincenzo Campi:

scene del quotidiano, catalogo della mo-stra, a cura di F. Paliaga, Milano 2000, pp. 61-85; F. Paliaga, Da Vincenzo Cam-

pi e Bartolomeo Passerotti a Fede Galizia

e Panfilo Nuvolone, in La natura morta

italiana da Caravaggio al Settecento, cit.,

pp. 79-83; I. Raab, Die Entstehung des

autonomen Stillebens…, cit. Per i limiti di spazio e di impostazione cronologi-ca di questo saggio, tralascio l’attività di Panfilo Nuvolone e del ‘misterioso’ Carlo Antonio Rossi, sui quali mi sof-fermerò in altra sede. 4 Cfr. O. Pächt, Early Italian Nature Stu-

dies and the Early Calendar Landscape, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XIII, 1-2, 1950, pp. 13-47. 5 Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, Milano, Biblioteca Ambrosiana, f. 888r (già 324r), in Il Codice Atlantico della Bi-

blioteca Ambrosiana di Milano, a cura di A. Marinoni, Firenze 1980, X, p. 126. 6 Cfr. C. Pedretti, Leonardo da Vinci. Studi

di Natura dalla Biblioteca Reale nel Castello

di Windsor, catalogo della mostra, a cura di C. Pedretti, Firenze 1982, p. 45, n. 18 (RL 12423). 7 Cfr. G. Bora, Verso un nuovo naturali-

smo: la pittura a Cremona e a Milano, in Pittori della realtà. Le Ragioni di una Rivo-

luzione da Foppa e Leonardo a Caravaggio e

Ceruti, catalogo della mostra, a cura di M. Gregori e A. Bayer, Milano 2004, pp. 188-189, ill. 1. 8 Si vedano, in particolare, P.C. Marani, Francesco Melzi, in I leonardeschi. L’ere-

dità di Leonardo in Lombardia, con saggi di P.C. Marani et al., Milano 1998, pp. 373-374 e ill. a p. 376; e, da ultimo, A. Perissa Torrini, Leonardo’s Followers in

Lombardy: Gerolamo and Giovan Ambro-

gio Figino, in Illuminating Leonardo. A

Festschrift for Carlo Pedretti Celebrating

His 70 Years of Scholarship (1944-2014), a cura di C. Moffatt, Leiden/Boston 2016, pp. 184-186. 9 Cfr. R. Longhi, Quesiti caravaggeschi, II.

I precedenti, in “Pinacotheca”, 5-6, 1929, p. 274 e p. 281, ill. 16; e M. Gregori, Due

partenze in Lombardia per la natura morta, in La natura morta italiana da Caravaggio

al Settecento, cit., pp. 21 e sgg. Sulle in-fluenze dei pittori lombardi sul giova-ne Caravaggio, si veda anche Gli occhi

di Caravaggio. Gli anni della formazione

tra Venezia e Milano, catalogo della mo-stra, a cura di V. Sgarbi, Cinisello Bal-samo 2011. 10 Cfr. L. Salerno, Natura morta italiana.

Tre secoli di natura morta italiana. La rac-

colta Silvano Lodi, catalogo della mostra, Firenze 1984, pp. 22-23; e M. Gregori, Due partenze in Lombardia…, cit., pp. 22-23, ill. 3-4. 11 L. Ravelli, Inediti e qualche proposta per l’attività di Gian Paolo Lolmo, in “Archi-vio Storico Bergamasco”, 11, 2, 1986, pp. 241-247. Giustamente contrario a tali at-tribuzioni è anche S. Facchinetti, scheda n. 7, in Da Bergognone a Tiepolo. Scoperte

e restauri in Provincia di Bergamo, catalo-go della mostra, a cura di S. Facchinetti, Cinisello Balsamo 2002, p. 74, nota 13. 12 Cfr. A. Ghirardi, Pittura e vita popolare.

Un sentiero tra Anversa e l’Italia nel se-

condo Cinquecento, Mantova 2016, con ampia bibliografia precedente. 13 Cfr. V.I. Stoichita, L’instauration du

tableau. Métapeinture à l’aube des temps modernes, Paris 1993 (trad. it. L’invenzio-

ne del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, Milano [1998] 2004, p. 15); e, per l’ultima citazione, L. Corrain, Rappresentare il cibo per dire altro. Il ciclo

Fugger di Vincenzo Campi, in Le arti e il

cibo. Modalità ed esempi di un rapporto, atti del convegno, a cura di S. David-son e F. Lollini, con la collaborazione di M. Grasso (2012), Bologna 2014, p. 136. 14 Cfr. Vincenzo Campi: scene del quoti-diano, cit. (con ampia bibliografia). Si vedano inoltre: F. Porzio, I precedenti

comici delle opere giovanili di Caravaggio, in “Valori Tattili” (Arte in Valpadana), 2, 2014, pp. 22-43 (per una lettura di tipo ‘sessuale’); e L. Corrain, Rappresentare

il cibo per dire altro…, cit., pp. 135-162, 358-361 (per una lettura invece in chiave ‘religiosa’). 15 Cfr. rispettivamente V. Boudier, La

cuisine du Pentre. Scène de genre et nour-

riture au Cinquecento, Tours/Rennes 2010, p. 105; e L. Corrain, Rappresentare

il cibo per dire altro…, cit., pp. 139-140. 16 Cfr. C. Goldstein, Vincenzo Campi’s

Kitch en and Market Scenes: The Cultural

Pull of Antwerp in Early-Modern Lombar-

dy, in Italian Art, Society, and Politics. A

Festschrift in Honor of Rab Hatfield Pre-

sented by His Students on the Occasion of His Seventieth Birthday, a cura di B. Deimling, J. Katz Nelson e G.M. Radke, Firenze 2007, pp. 194-196; e A. Ghirardi, Pittura e vita popolare…, cit., pp. 83 e sgg. 17 M. Tanzi, I Campi, Milano 2004, p. 33. 18 Cfr. F. Paliaga, Vincenzo Campi tra rea-

lismo grottesco e natura morta: la nascita di

un genere e l’eredità della pittura cremone-

se, in Vincenzo Campi: scene del quotidia-

no, cit., p. 27; e Id., Da Vincenzo Campi

e Bartolomeo Passerotti…, cit., pp. 79-83. 19 Cfr. P. Morigia, Historia dell’antichità

di Milano…, Venezia 1592, p. 242; e F. Paliaga, Vincenzo Campi, Soncino 1997, pp. 183-184, n. 42. 20 Cfr. R. Miller, Regesto dei documenti, in I Campi e la cultura artistica cremonese

del Cinquecento, catalogo della mostra, a cura di M. Gregori, Milano 1985, p. 474, nn. 361-362. 21 A. Campi, Cremona fedelissima…, Cre-mona 1585, p. LIV. 22 A. Lamo, Discorso di Alessandro Lamo

intorno alla scoltura, et pittura…, Cremo-na 1584, p. 86. 23 Cfr. H. Zimmermann, Das Inventar der

Prager Schatz-und Kunstkammer vom 6.

Dezember 1621. Nach Akten des K. und K.

Reichsfinanzarchivs in Wien, in “Jahr buch der Kunsthistorischen Sammlungen des allerhöchsten Kaiserhauses”, XXV, 1905, p. XLII. 24 Cfr. A.M. Bava, La collezione di pittura e

i grandi progetti decorativi, in Le collezioni

di Carlo Emanuele I di Savoia, a cura di G. Romano, Torino 1995, p. 222. 25 Cfr. G. Zaist, Notizie istoriche de’ pittori,

scultori, ed architetti cremonesi opera po-

stuma, Cremona 1774, I, p. 185. 26 Archivio di Stato di Milano, Notari-

le, Giovan Battista Albertini, 13624, 17 settembre 1585 (inventario del 16 set-tembre). Questo documento è stato rin-tracciato da R. Miller, “Diversi personagii

molto ridiculosi”: A Contract for Cremone-

se Market Scenes, in Painters of Reality.

The Legacy of Leonardo and Caravaggio in

Lombardy, catalogo della mostra, a cura di A. Bayer, New Haven/London 2004, p. 158, nota 7 (lo studioso riporta però solo alcune citazioni). In questo inven-tario vengono anche registrati “seij qua-dri de fiandra Incornisata” con un espli-cito riferimento, solo in questo specifico caso, all’origine fiamminga dei dipinti. 27 D. Arisi, Accademia de’ pittori, sculto-

ri ed architetti cremonesi…, Cremona, Biblioteca Statale, AA.2.16, inizi del XVIII secolo, f. 106, in F. Paliaga, Vin-

cenzo Campi, cit., p. 273. 28 Si veda G. Bocchi, U. Bocchi, Natura-

lia. Nature morte in collezioni pubbliche e

private, Torino 1992, pp. 28-29, tav. 2. 29 Archivio di Stato di Cremona, Notari-

le, Severo Dolci, 1448, 19 febbraio 1588 (1587 ab incarnatione). Questo docu-mento è stato reso noto e trascritto da R. Miller, “Diversi personagii molto ridi-

culosi”…, cit., p. 159 (ho apportato alla trascrizione del Miller qualche piccola modifica). 30 Cfr. V. Guazzoni, Pittura come poesia. Il

grande secolo dell’arte cremonese, in Storia

di Cremona. L’età degli Asburgo di Spagna

(1535-1707), a cura di G. Politi, Cremona 2006, pp. 410-412. 31 Cfr. Asta a Venezia. Rari dipinti e sculture

di antichi maestri, Venezia 2004, seduta d’asta (Finarte-Semenzato) 2 maggio 2004, lotto n. 39 (nella scheda anonima si riporta l’opinione di Marco Tanzi che attribuisce il dipinto al Chiaveghino). 32 Cfr. G. Berra, Il ‘Fruttaiolo’ del Caravag-

gio, ovvero il giovane dio Vertunno con cesto

di frutta, in “Paragone”, 73, 2007, p. 25; e Id., Il cesto ricolmo di frutta del Vertunno

(noto come il Fruttaiolo) del Caravaggio, in Atti della Giornata di Studi. Questioni cara-

vaggesche, atti del convegno, a cura di P. Carofano (2011), Pontedera 2012, p. 25. Sul dipinto si veda anche K. Hermann Fiore, Ragazzo con canestro di frutta, in Ca-

ravaggio. Opere a Roma. Tecnica e stile II. Schede, a cura di R. Vodret et al., Cinisello Balsamo 2016, pp. 16-19. 33 Su tale problema si vedano: M. Gre-gori, Note su Vincenzo Campi pittore di

naturalia e su alcuni precedenti, in “Para-gone”, 501, 1991, pp. 78-79; F. Paliaga, I dipinti della foresteria del convento di San

Sigismondo a Cremona, in “Paragone”, 509-511, 1992, pp. 105-106 e p. 113, nota 17; e G. Berra, Arcimboldi, Vincenzo Cam-

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pi, Figino, Fede Galizia, Caravaggio…, cit., pp. 75-76. 34 F. Baldinucci, Notizie dei professori del

disegno da Cimabue in qua, Firenze 1688, III, p. 87. 35 D. Arisi, Accademia de’ pittori…, cit., f. 106, in F. Paliaga, Vincenzo Campi, cit., p. 272 (il corsivo è mio). 36 G. Zaist, Notizie istoriche de’ pittori…, cit., I, pp. 179 e 180 (il corsivo è mio). 37 L. Lanzi, Storia pittorica della Italia, II/1: Ove si descrivono alcune Scuole della Italia superiore, la Veneziana; e le Lombarde

di Mantova, Modena, Parma, Cremona, e

Milano, Bassano 1795-1796, pp. 362-363 (il corsivo è mio). 38 Un Vaso di fiori con frutti di collezio-ne privata è stato invece attribuito a Vincenzo da F. Bologna, Natura in posa.

“Aspetti dell’antica natura morta Italiana”, catalogo della mostra, Bergamo 1968, pp. n.n., tav. 7. 39 Cfr. M. Gregori, Note su Vincenzo Cam-

pi…, cit., pp. 78-79; Ead., Riflessioni sulle origini della natura morta. Da Leonardo al

Caravaggio, in La natura morta al tempo

di Caravaggio, catalogo della mostra, a cura di A. Cottino, Napoli 1995, p. 18; e F. Paliaga, scheda, in La natura morta

italiana da Caravaggio al Settecento, cit., pp. 90-91. 40 Dubbi in tal senso sono stati espressi anche da G. Cirillo, G. Godi, Le Nature

Morte del “Pittore di Carlo Torre” pseudo

Fardella nella Lombardia del Secondo Sei-

cento, Parma 1996, p. 113, nota 35; G. Berra, Arcimboldi e Caravaggio: “diligen-

za” e “patienza” nella natura morta arcaica, in “Paragone”, 8-9-10, 1996, p. 160, nota 111; e V. Boudier, La cuisine du Pentre…, cit., p. 118. A tal proposito F. Caroli, Il volto e l’anima della natura, Milano 2009 (2010), pp. 37-38, ha scritto che la pro-duzione di nature morte autonome del Campi non è affatto sicura. 41 Cfr. L. Ravelli, Vanitas, catalogo della mostra, Bergamo 2007, pp. 10-11 (il qua-le data il dipinto alla fase tarda dell’atti-vità del pittore e scrive che sul retro, in alto, compare la scritta “Campo C.V.L. 8”, che egli legge come sigla del pittore): lo studioso, inoltre, assegna al Campi altri tre dipinti (ivi, pp. 12-15); S. Fac-chinetti, scheda n. 2, in L’œil gourmand.

Un percorso nella natura morta dal Cinque-cento al Novecento. La tavola imbandita da

Fede Galizia a Evaristo Baschenis, da Giaco-

mo Ceruti a Ennio Morlotti. Dipinti da una

collezione privata, catalogo della mostra, a cura di S. Facchinetti e A. Piazzoli, Bergamo 2012, p. 19 e p. 56, n. 2; Id., in La vita silenziosa delle cose, catalogo della mostra, a cura di S. Facchinetti, Milano 2015, pp. 28-31 (con bibliografia prece-dente). Quattro dipinti con Imbandigioni

(già Bergamo, Galleria Lorenzelli), so-litamente assegnati a Vincenzo Campi, sono stati invece più correttamente ri-feriti a un “Pittore lombardo del primo

quarto del XVII sec.” da A. Morandotti, Natura morta lombarda (e piemontese) delle

origini. Alcuni spunti nella Fototeca Zeri, in La natura morta di Federico Zeri, a cura di A. Bacchi, F. Mambelli ed E. Sambo, Bologna 2015, pp. 58-61, ill. 1-4. 42 Cfr., anche per le notizie sul pittore che seguiranno, G. Berra, Frutti e fiori dell’Arcimboldo “cavati dal naturale”.

L’influsso sulla nascente natura morta

lombarda e sul giovane Caravaggio, in Ar-

cimboldo. Artista milanese tra Leonardo e

Caravaggio, catalogo della mostra, a cura di S. Ferino-Pagden, Milano 2011, pp. 315-347 (si vedano anche gli altri saggi in tale catalogo); e T. DaCosta Kauf-mann, Arcimboldo. Visual Jokes, Natural

History, and Still-Life Painting, Chicago/London 2009. 43 Cfr. F. Porzio, Arcimboldo: le Stagioni “milanesi” e l’origine dell’invenzione, in Arcimboldo. Artista milanese…, cit., pp. 221-253; e G. Berra, La tradizione degli

‘alfabeti figurati’ e le teste ‘composte’ e

‘ghiribizzose’ di Giuseppe Arcimboldo, in “Valori Tattili” (Arte in Valpadana), 2, 2014, pp. 49 e sgg. 44 Morigia, Historia…, 1592, p. 566. 45 Cfr. G.F. Gherardini, in All’Invittissi-

mo Cesare Rodolfo Secondo. Componimen-

ti sopra li due quadri Flora, et Vertunno, fatti à Sua Sac. Ces. Maestà da Giuseppe

Arcimboldo. Milanese, a cura di G.F. Ghe-rardini, Milano 1591, p. A2v. Il libretto è stato reso noto e studiato da G. Berra, Allegoria e mitologia nella pittura dell’Ar-

cimboldi: la “Flora” e il “Vertunno” nei

versi di un libretto sconosciuto di rime, in “Acme”, XLI, 1988, pp. 11-39. 46 Cfr. G. Berra, L’Arcimboldo “c’huom

forma d’ogni cosa”: capricci pittorici, elogi

letterari e scherzi poetici nella Milano di fi-

ne Cinquecento, in Arcimboldo. Artista mi-

lanese…, cit., p. 290 e pp. 295 e sgg.; e M. Falomir, L. Roberts, P. Mitchell, Giuseppe

Arcimboldo. Dos pinturas de Flora, cata-logo della mostra, Madrid 2013 (trad. ing. Giuseppe Arcimboldo. Two Paintings

of Flora, catalogo della mostra, Madrid 2014 [la mostra di Vienna, priva del ca-talogo, si è svolta invece tra luglio 2014 e febbraio 2015]). 47 G. Comanini, De gli Affetti della Mistica Theologia…, Venezia 1590, pp. 2-3. 48 G.P. Lomazzo, Idea del tempio della Pit-

tura, Milano 1590, p. 156. 49 G. Comanini, in All’Invittissimo Cesare

Rodolfo Secondo…, cit., p. C3v. La rima presenta delle minime varianti rispetto a quella resa nota da G.P. Lomazzo, Idea

del tempio…, cit., p. 156. 50 Cfr. T. DaCosta Kaufmann, Arcimbol-

do…, cit., ad indicem; e G. Berra, L’Arcim-

boldo “c’huom forma d’ogni cosa”…, cit., pp. 302 e sgg. 51 G.F. Gherardini, in All’Invittissimo Ce-

sare Rodolfo Secondo…, cit., p. A2r. 52 G.P. Lomazzo, Idea del tempio…, cit., p. 157.

53 G.F. Gherardini, in All’Invittissimo Ce-

sare Rodolfo Secondo…, cit., p. A2r. 54 Cfr. nota 46. 55 Cfr. G. Berra, Arcimboldi e Caravag-

gio…, cit., p. 113. Sulla Flora del Melzi e su una sua copia ora in collezione pri-vata, si veda C. Matteucci, Flora, Poggio a Caiano 2015. 56 Cfr. G. Berra, L’Arcimboldo “c’huom

forma d’ogni cosa”…, cit., p. 301. 57 G. Comanini, Il Figino, overo del fine della pittura. Dialogo, Mantova 1591, pp. 49-50. 58 Ivi, p. Kk4v. Sul dipinto si vedano S. Ferino-Pagden, scheda n. IV.15, in Arcimboldo 1526-1593, catalogo della mostra, a cura di S. Ferino-Pagden, Mi-lano (2007) 2008, pp. 144-145; e G. Berra, Frutti e fiori dell’Arcimboldo…, cit., pp. 317 e sgg. 59 Circa l’influenza delle teste leonarde-sche sulla pittura arcimboldesca, cfr. G. Berra, Frutti e fiori dell’Arcimboldo…, cit., p. 345, nota 9. 60 G.P. Lomazzo, Trattato dell’arte della

pittura, scoltura et architettura, Milano 1584, p. 350. 61 Cfr. K. Rudolf, Die Kunstbestrebungen

Kaiser Maximilians II. im Spannungsfeld

zwischen Madrid und Wien. Untersu-

chungen zu den Sammlungen der öster-

reichischen und spanischen Habsburger im

16. Jahrhundert, in “Jahrbuch der kunst-historischen Sammlungen in Wien”, LV, 1995, p. 166, nota 3. 62 Sul dipinto si vedano G. Berra, scheda n. 130, in Botticelli to Titian. Two Centu-

ries of Italian Masterpieces, catalogo della mostra, a cura di D. Sallay, V. Tátrai e A. Vécsey, Budapest 2009, pp. 410-411 (con bibliografia precedente); e G. Ber-ra, Frutti e fiori dell’Arcimboldo…, cit., pp. 322 e sgg. 63 Sul dipinto si vedano in particolare G. Berra, scheda n. 39, in Vincenzo Cam-

pi: scene del quotidiano, cit., pp. 212-213; T. DaCosta Kaufmann, Arcimboldo…, cit., ad indicem; e G. Berra, Frutti e fiori dell’Arcimboldo…, cit., pp. 322 e sgg. Si può anche notare che sul retro della ta-voletta appare, come leggermente inci-sa, l’iscrizione “ARCIMBOL[D]O”, ma, ovviamente, tale scritta potrebbe essere anche più tarda. Alcuni studiosi hanno espresso dei dubbi sull’autografia, ipo-tizzando anche un riferimento a Fede Galizia. Per tali opinioni (che non con-divido) si veda G. Berra, Il Caravaggio a

Milano: la nascita e la formazione artistica, in Da Caravaggio ai Caravaggeschi, a cura di M. Calvesi e A. Zuccari, Roma 2009, pp. 66-67, nota 123. Di recente sono intervenuti anche i seguenti studiosi: M. Bona Castellotti, Arcimboldo fa girare

la testa, in “Domenica. Il Sole 24 Ore”, 7, 13 febbraio 2011, p. 20, il quale si è chiesto: “non potrebbe trattarsi di un ghiribizzo realizzato da Caravaggio nel suo prolungato periodo milanese?”; A.

Cottino, recensione ad Arcimboldo. Ar-

tista milanese…, cit., in “Valori Tattili” (Ornamenta), 0, 2011, pp. 125-127, il qua-le ritiene che il dipinto potrebbe essere probabilmente di altra mano (non però della Galizia) e, pur sostenendo che sia ancora prematuro azzardare altri no-mi, scrive che l’attribuzione potrebbe “coinvolgere anche l’esordiente Meri-si”; e M. Tanzi, La Zenobia di don Álv-

aro. E altri studi sul Seicento tra la Bassa

Padana e l’Europa, Milano 2015, p. 25, nota 14, che ripropone invece il nome della Galizia (lo studioso fa riferimento anche a una copia eseguita dal pittore parmense Francesco Callani agli inizi dell’Ottocento). 64 Sulla Canestra si veda la nota 120. 65 Cfr. A. Sakamoto, scheda n. 15, in Ca-

ravaggio and His Time: Friends, Rivals and

Enemies, catalogo della mostra, a cura di R. Vodret e Y. Kawase, Tokyo 2016, pp. 102-103 (ringrazio Alberto Berra per la traduzione della scheda pubblicata solo in giapponese). Mi riservo di esprimere un giudizio più ponderato in altra sede, quando avrò occasione di vedere diret-tamente il quadro. 66 Nel passato il nome dell’Arcimboldo è stato fatto più volte in riferimento al genere della natura morta. Per gli inter-venti più recenti (con ampia bibliogra-fia precedente) si vedano G. Berra, Ar-

cimboldi e Caravaggio…, cit., pp. 108-161; T. DaCosta Kaufmann, Arcimboldo…, cit.; e G. Berra, Frutti e fiori dell’Arcim-

boldo…, cit. 67 G. Comanini, Il Figino…, cit., p. 43. 68 E. Battisti, Il concetto di imitazione nel

Cinquecento dai Veneziani a Caravaggio, in “Commentari”, VII, 1956, pp. 249-262. 69 Cfr. R.W. Lee, Ut Pictura Poesis. A Hu-

manistic Theory of Painting, New York 1967 (trad. it. Ut pictura poesis. La teoria

umanistica della pittura, Firenze 1974, p. 12). 70 G. Comanini, Il Figino…, cit., pp. 29 e 25. 71 Cfr. T. DaCosta Kaufmann, Arcimbol-

do…, cit., pp. 122 e sgg., in particolare p. 140, ill. 5.21, e p. 142. 72 È stato ad esempio sottolineato da L. Ravelli, La rappresentazione della zucca

nella natura morta italiana, in “Parago-ne” (La Natura Morta), 65-66, 2006, p. 131, che l’Arcimboldo, nel suo Ver-

tunno, ha utilizzato per due volte e in maniera diversa la variante americana della zucca. 73 G. Comanini, Il Figino…, cit., pp. 52-53. 74 Londra, Christie’s, 19 aprile 2001, lot-to n. 101 (olio su tela, 50,8 x 43,2 cm). Purtroppo conosco solo la fotografia. 75 Cfr. G. Berra, scheda n. 109, in Rabi-

sch. Il grottesco nell’arte del Cinquecento. L’Accademia della Val di Blenio, Lomazzo

e l’ambiente milanese, catalogo della mo-stra, a cura di G. Bora, M. Kahn-Rossi e F. Porzio, Milano 1998, pp. 267, 286. Una

citazione inventariale secentesca relati-va al dipinto è stata resa nota da M. Co-mincini, Jan Brueghel accanto a Figino. La

quadreria di Ercole Bianchi, Corbetta 2010, pp. 15, 88, 91. 76 Cfr. G. Berra, L’Arcimboldo “c’huom

forma d’ogni cosa”…, cit., p. 309 (con bi-bliografia precedente). L’aneddoto della famosa gara è riportato in Plinio il Vec-chio, Naturalis historia, XXXV, 65-66. 77 Su questo dipinto rimando, sia per le notizie che seguiranno sia per diversi altri aspetti qui non trattati, alla mia scheda (con ampia bibliografia aggior-nata) inserita in questo stesso volume (pp. 214-217). 78 Sul pittore spagnolo e sui tre quadret-ti, si vedano in particolare: A.E. Pérez Sánchez, Pintura española de bodegones

y floreros de 1600 a Goya, catalogo della mostra, Madrid 1983, p. 27 e p. 30, nn. 1-2; W.B. Jordan, Spanish Still Life in the

Golden Age 1600-1650, catalogo della mostra, Fort Worth 1985, p. 11, ill. 13-14 e p. 13, ill. 15; W.B. Jordan, P. Cherry, Spanish Still Life from Velázquez to Goya, catalogo della mostra, London 1995, p. 13, ill. 1; e P. Cherry, Arte y naturaleza. El

bodegón Español en el Siglo de Oro, Ma-drid 1999, p. 72, ill. 42-44. Naturalmente non è escluso che altri dipinti di natura morta autonoma siano stati realizzati prima di tali date: ad esempio è stata riferita proprio al pittore bolognese Antonio da Crevalcore (1438/1441-1515/1525 circa) una tavoletta raffigu-rante una Ciotola con uva e uccellino che riprende palesemente l’aneddoto pli-niano: cfr. B. John, Stilleben in Italien…, cit., pp. 127-175. 79 Cfr. A. Gesino, scheda n. 147, in Wan-

nenes. Dipinti antichi e del XIX secolo, schede di A. Gesino e R. Nobilitato, Ge-nova, 26 novembre 2014, lotto n. 147, p. 148 (olio su tela, cm 28 x 40,5), il quale però non accenna all’esistenza di un simile dipinto di collezione spagnola assegnato a Blas de Prado (una buona fotografia a colori del dipinto spagno-lo, utile per un confronto, si trova in W.B. Jordan, Spanish Still Life…, cit., p. 13, ill. 15). 80 C. de Bie, Het gvlden cabinet van de

edel vry schildercons…, Antwerpen (1649) 1662, p. 216, citato in M.-C. Heck, De la description des natures mortes à l’ap-

préciation d’un genre dans la première moi-tié du XVIIe siècle, in Le texte de l’œuvre

d’art: la description, giornate di studio, a cura di R. Recht (1997), Strasbourg 1998, p. 60. Tale brano è stato tradotto in L. Corrain, P. Fabbri, “La vita profonda delle

nature morte”, in La natura della natura

morta da Manet ai nostri giorni, catalogo della mostra, a cura di P. Weiermair, con la collaborazione di S. Vitali e U. Zanet-ti, Milano 2001, p. 225. 81 P. Caretta, Caravaggio: la vita, in Cara-

vaggio in Piemonte. Luce e ombre dal Sei-

cento, catalogo della mostra, a cura di P. Caretta e D. Magnetti, Torino/London/Venezia/New York 2010, pp. 97-98. 82 G.P. Lomazzo, Rime…, Milano 1587, p. 196, vv. 1-4. 83 Ritornerò sull’argomento, in maniera più approfondita, in altra sede. Per ora rimando, per alcune osservazioni criti-che, a G. Berra, Il Caravaggio a Milano…, cit., pp. 36-37. Diverse considerazioni su tale problema si possono trovare anche in un recentissimo testo dedicato alle tecniche utilizzate dal Merisi: Caravag-

gio. Opere a Roma. Tecnica e stile I. Saggi, a cura di R. Vodret et al., Cinisello Bal-samo 2016, passim. 84 Cfr. F. Bologna, Natura in posa…, cit., pp. n.n., tav. 11; A. Veca, Simposio. Ceri-

monie e Apparati, catalogo della mostra, Bergamo 1983, pp. 292-293, tav. III. 85 Cfr. nota 77. 86 R. Longhi, Anche Ambrogio Figino sulla

soglia della ‘natura morta’, in “Paragone”, 29, 1967, pp. 18-22. 87 M. Comincini, Jan Brueghel accanto a

Figino…, cit., pp. 20, 88, 92 (E, 11). 88 Si veda in particolare, per questa se-conda ipotesi, ivi, p. 17. 89 Cfr. C. Grimm, Die italienischen…, cit., p. 55, ill. 31; M. Gregori, Due partenze in

Lombardia…, cit., pp. 21-44 e pp. 30-31, ill. 6-7; L. Wolk-Simon, scheda, in Pittori

della realtà…, cit., p. 261; e G. Berra, Il Caravaggio a Milano…, cit., p. 36. 90 Cfr. M. Comincini, Jan Brueghel accanto

a Figino…, cit., pp. 17 e 82. 91 Cfr. ivi, pp. 8 e 19 e sgg. Secondo N.I. Gricaj, O vlijanii ital’janckogo natjurmor-

ta na rannee tvorcestvo Fransa Snejdersa [Influence of Italian Still Life on Frans

Snyders’ Early Creations], in “Trudy Go-sudarstvennogo Ėrmitaža”, 29, 2000, pp. 33-44 e p. 238 (riassunto in inglese), Frans Snyders ha potuto vedere a Mila-no i dipinti del Campi, del Figino, della Galizia e del Nuvolone. 92 G. Borgogni, La Fonte del Diporto…, Bergamo 1598, p. 51v. Sul ruolo politico del Velasco si veda F. Bellati, Serie de’ go-

vernatori di Milano dall’anno 1535 al 1776. Con istoriche annotazioni…, Milano 1776, pp. 6, 8-9. 93 Cfr. P. Cherry, Arte y naturaleza…, cit., p. 58. Questa interrelazione tra la Lombardia e la Spagna è, ad esempio, certificata da un Bodegón di Augustín Logón, firmato e datato 1640, che al centro presenta una coppa colma di frutti palesemente ripresa dai modelli della Galizia e del Nuvolone: cfr. ivi, pp. 200-201, ill. 126. 94 Cfr. W.B. Jordan, P. Cherry, Spanish

Still Life…, cit., p. 189, nota 8; e P. Cher-ry, Arte y naturaleza…, cit., p. 55 e p. 65, nota 122. 95 Sulla proposta di anticipare la data di nascita della Galizia, cfr. G. Berra, Alcu-

ne puntualizzazioni sulla pittrice Fede Ga-

lizia attraverso le testimonianze del letterato

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Gherardo Borgogni, in “Paragone”, 469, 1989, pp. 14-29. 96 Cfr. ibidem; e G. Berra, scheda n. 234, in Pinacoteca Ambrosiana. II. Dipinti dalla

metà del Cinquecento alla metà del Seicento, a cura di B.W. Meijer, M. Rossi e A. Ro-vetta, Milano 2006, pp. 149-153. 97 C. Benedict, Osias Beert, in “L’amour de l’art”, XIX, 8, 1938, p. 309, nota 1 e p. 313, ill. 14. 98 Cfr. W.B. Jordan, A Newly-Discovered

Still Life by Juan Sánchez Cotán, in “The Burlington Magazine”, CXXXII, 1043, 1990, p. 97, ill. 18. 99 Cfr. S. Segal, An Early Still Life by Fede

Galizia, in “The Burlington Magazine”, CXL, 1140, 1998, pp. 164-171. In depo-sito presso il Metropolitan Museum of Art di New York dal 2001 al 2015. Per la relativa bibliografia, si veda la sche-da in http://www.sothebys.com/en/auctions/ecatalogue/2015/old-ma-ster-british-paintings-evening-sa-le-l15033/lot.29.html. 100 Cfr. G. Manni, Belfiore. Lo studiolo

intarsiato di Leonello d’Este (1448-1453), Modena 2006, p. 202, ill. 131. Sull’im-portanza delle tarsie si veda (con biblio-grafia precedente) B. John, Stilleben in

Italien…, cit., pp. 97 e sgg. Cfr. anche G. Berra, Il cesto ricolmo di frutta…, cit., pp. 18-20, ill. 4-6. 101 Cfr. V. Farina, Giovan Carlo Doria

promotore delle arti a Genova nel primo

Seicento, Firenze 2002, p. 193, n. 44; tra i diversi quadri di questo inventario troviamo anche, ad esempio, “Un qua-dretto di una tazza con persiche cornice di noce” (ivi, p. 196, n. 315). 102 Cfr. A. Vesme, La Regia Pinacoteca di

Torino, in “Le Gallerie Nazionali italia-ne”, III, 1897, p. 56, n. 552. 103 Cfr. Italian Women Artists From Renais-

sance to Baroque, catalogo della mostra, a cura di V. Fortunati, J. Pomeroy e C. Strinati, Milano 2007, pp. 180-181, n. 38 (sulla destra compaiono alcune picco-le pere che quasi si confondono con le ciliegie). Un simile dipinto è stato reso noto da F. Caroli, Fede Galizia, Torino (1989) 1991, “Addenda alla seconda edizione”, pp. n.n., ill. 3. 104 Cfr. L. Basso, L’Inventario del 1638 e l’Instrumentum donationis del 1650: do-

cumenti per una collezione, in Le stanze del

Cardinale Monti 1635-1650. La collezione ricomposta, catalogo della mostra, Mila-no 1994, p. 115, nota 118 (qui non viene però segnalata la data del documento). 105 Cfr. M. Faré, Le grand siècle de la na-

ture morte en France. Le XVIIe siècle, Fri-bourg/Paris 1974, p. 374. Sui problemi di attribuzione relativi a un dipinto con lo stesso soggetto presente nel Museo Civico di Cremona, si veda G. Berra, La

natura morta nella bottega di Fede Galizia, in “Osservatorio delle Arti”, 5, 1990, p. 59. 106 A.F. Albuzzi, Memorie per servire alla

storia de’ pittori, scultori e architetti mila-

nesi (XVIII secolo), a cura di S. Bruzzese, Milano 2015, p. 269 (da una ricerca di Ja-copo Stoppa in corso di pubblicazione). 107 Cfr. V. Verga, La famiglia Mazenta e le

sue collezioni d’arte, in “Archivio Stori-co Lombardo”, XLV, 1918, p. 294. Ho ripreso tale citazione dall’inventario a stampa in Archivio di Stato di Milano, Notarile, Paolo Antonio Visconti, 32635, 30 dicembre 1677, n. 36, reso noto da M. Comincini, Caravaggio e il periodo milane-

se. Nuovi documenti sugli anni giovanili

del pittore (1571-1592), Abbiategrasso 2004, p. 44. 108 Cfr. M. Bona Castellotti, Collezionisti a

Milano nel ’700. Giovanni Battista Viscon-

ti, Gian Matteo Pertusati, Giuseppe Pozzo-

bonelli, Firenze 1991, p. 34; e G. Berra, Arcimboldi, Vincenzo Campi, Figino, Fede

Galizia, Caravaggio…, cit., p. 85, nota 81 (con una diversa trascrizione). Nello stesso inventario (ibidem) sono riferiti alla Galizia anche le seguenti nature morte: “Una Fruttiera d’uva con grana-ti”, “Una Frutterina di Magiostre con foglie di viti”, “Una Fruttiera con un Catino di Maiolica piena di magiostre con un ramo di rosa, una bacilletta con spolverino, cucchiarro, e forcina d’ar-g[en]to”, “Un’altra Fruttiera con varij frutti, cioè brugne, peri, fave”. 109 P.M. Terzago, Museum Septalianum

Manfredi Septalae…, Tortona 1664, p. 149. 110 P.F. Scarabelli, Museo ò Galleria…, Tor-tona 1666, p. 262. 111 P. Morigia, La nobiltà di Milano, Mila-no 1595, p. 282. 112 G. Borgogni, La Fonte del Diporto…, cit., pp. 39v-40r. Questo brano è stato reso noto da G. Berra, Alcune puntualiz-

zazioni…, cit., pp. 16, 28-29. 113 Cfr. F. Paliaga, scheda, in La natura

morta italiana da Caravaggio al Settecen-

to, cit., pp. 97-98. Un’Alzata di vetro con

pesche e gelsomino, mele cotogne e lumaca, tempera su pergamena (collezione pri-vata), di Fede Galizia è stata segnalata in “Il Giornale dell’Arte”, 252, marzo 2006, p. 64. 114 Cfr. M. Bona Castellotti, Collezio-

nisti a Milano nel ’700…, cit., p. 32; e G. Berra, Arcimboldi, Vincenzo Campi,

Figino, Fede Galizia, Caravaggio…, cit., p. 77 e p. 85, nota 81 (con una diversa trascrizione). 115 Per la data e il luogo di battesimo si veda G. Berra, Il Caravaggio a Milano…, cit., pp. 20-22 (con bibliografia prece-dente); e, per alcuni aggiornamenti, V. Pirami, Due parrocchie di Milano per

Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, in “Arte Cristiana”, 2014, pp. 264-267. Per il contratto si veda invece G. Berra, Il giovane Caravaggio in Lombardia. Ricer-

che documentarie sui Merisi, gli Aratori e i

marchesi di Caravaggio, Firenze 2005, pp. 396-397, doc. 266 e pp. 198 e sgg. (con ampia bibliografia).

116 Cfr. in particolare F. Curti, Sugli

esordi di Caravaggio a Roma. La bottega di

Lorenzo Carli e il suo inventario, in Cara-

vaggio a Roma. Una vita dal vero, catalogo della mostra, a cura di M. Di Sivo e O. Verdi, Roma 2011, pp. 65-72; e F. Curti, Dalle botteghe d’arte al palazzo del cardinal

Del Monte. I primi anni di Caravaggio a

Roma, in Caravaggio vero, a cura di C. Strinati, Reggio Emilia 2014, pp. 321-322 (qui però la studiosa ha attutito la sua tesi). 117 Per questo aspetto rimando (anche per i pareri di diversi altri studiosi) a G. Berra, Il Ragazzo morso da un ramar-ro del Caravaggio. L’enigma di un morso

improvviso, San Casciano in Val di Pesa 2016, pp. 18-19, nota 18. 118 Cfr. M. Comincini, Caravaggio e il pe-

riodo milanese…, cit., pp. 56-57, Appen-dice III; e G. Berra, Il giovane Caravaggio

in Lombardia…, cit., p. 420, doc. 364. 119 Per avere un’idea, attraverso una piantina cinquecentesca di Milano, della posizione delle due botteghe (e anche di quella di altri artisti attivi in quegli anni in città), si veda G. Berra, Il Caravaggio a Milano…, cit., p. 435, ill. 15. 120 Sul Mondafrutto (a mio parere noto solo attraverso delle copie) cfr., da ulti-mo, G. Jan van der Sman, scheda n. 1, in Caravaggio and the Painters of the North, catalogo della mostra, a cura di G. Jan van der Sman, Madrid 2016, pp. 66-68. Sul Ragazzo con canestra di frutta si veda invece la nota 32, mentre sul Bacco e sul-la Cena in Emmaus rimando a G. Berra, Il Bacco degli Uffizi del Caravaggio e il riferimento al modello antico dell’Antinoo, in Una vita per la storia dell’arte. Scritti

in memoria di Maurizio Marini, a cura di P. di Loreto, Roma 2015, pp. 57-82; e G. Berra, Il “canestro di frutta matura”

nella Cena in Emmaus del Caravaggio

e la visione del profeta Amos, in “Storia dell’Arte”, 136, 36, 2013, pp. 65-86 (con ampia bibliografia e con riferimenti an-che alla Canestra dell’Ambrosiana). Sul-la Canestra si vedano, in particolare, con bibliografia precedente: M.C. Terzaghi, scheda n. 206, in Pinacoteca Ambrosia-

na…, cit., pp. 105-110; A. Cottino, Anco-

ra sulla Canestra del Monte/Borromeo: il

punto di vista dello studioso di natura mor-

ta, in Atti della Giornata di Studi. France-

sco Maria del Monte e Caravaggio. Roma,

Siena, Bologna: opera biografia documenti, atti del convegno, a cura di P. Carofano (2010), Pontedera 2011, pp. 145-159; e A. Morandotti, Caravaggio e Milano. La

Canestra dell’Ambrosiana, Milano 2012. 121 Per l’ipotesi della presenza del Meri-si nella bottega del Campi, del Figino e dell’Arcimboldo, si vedano rispettiva-mente: M. Gregori, Altre arie lombarde

per Caravaggio, in “Corriere della Sera”, 31 luglio 1985, p. 11; P. Caretta, Alcuni

disegni in relazione a Caravaggio, in Ca-

ravaggio e l’Europa. L’artista, la storia, la

tecnica e la sua eredità, atti del convegno, a cura di L. Spezzaferro (2006), Cinisello Balsamo 2009, p. 71; e G. Berra, Frutti e

fiori dell’Arcimboldo…, cit., p. 336. 122 G.P. Lomazzo, Rime…, cit., p. 126, v. 2. 123 Cfr. M. Gregori, Due partenze in Lom-

bardia…, cit., p. 27. 124 Cfr. rispettivamente M. Calvesi, Ca-

ravaggio, Firenze 1986, p. 26; S. Alpers, The Art of Describing. Dutch Art in the

Seventeenth Century, Chicago 1983 (trad. it. Arte del descrivere. Scienza e pittura nel

Seicento olandese, Torino 1984, p. 10); e G.J. Hoogewerff, Nature morte italiane del

Seicento e del Settecento – I., in “Dedalo”, IV, I, 1923-1924, p. 600. Si veda inoltre F. Bologna, L’incredulità del Caravaggio

e l’esperienza delle “cose naturali”. Nuova

Edizione accresciuta, Torino (1992) 2006, pp. 182 e sgg. 125 Cfr. in particolare, M. Gregori, Rifles-

sioni sulle origini della natura morta…, cit., pp. 20-21; J. Varriano, The Final

Insult: Caravaggio, Baglione, and Still Li-

fe on a Stone Ledge, in Caravaggio. Still Life with Fruit on a Stone Ledge, Papers

of the Muscarelle Museum of Art, I, atti del simposio, a cura di A.H. De Groft (2006), Williamsburg (Virginia) 2010, p. 40; Id., Taste and Temptations. Food and

Art in Renaissance Italy, Berkeley/Los Angeles/London 2009, p. 74; A. Cotti-no, Maurizio Marini e la Natura Morta ca-

ravaggesca, in Una vita per la storia dell’ar-

te…, cit., p. 134; M. Faietti, A. Nova, G. Wolf, Introduzione, in “Mitteilungen des Kunsthistorisches Institutes in Florenz” (Jacopo Ligozzi 2015), a cura di M. Faietti, A. Nova e G. Wolf, LVII, 2, 2015, p. 150. 126 G.P. Bellori, Le vite de Pittori, Scultori

et Architetti moderni, Roma 1672, p. 202. 127 V. Giustiniani, in M. Giustiniani, Let-

tere memorabili dell’abbate Michele Giusti-

niani, Roma 1675, III, p. 419. 128 Sul dipinto si veda M. Gregori, Sul

venetismo di Simone Peterzano, in “ARTE Documento”, 6, 1992, pp. 263-269, in particolare p. 264, ill. 4. 129 Sul Bacco si veda la nota 120. 130 Cfr. G. Berra, La “Medusa tutta ser-

pegiata” del Caravaggio: fonti mitologi-

co-letterarie e figurative, in Caravaggio: la

Medusa. Lo splendore degli scudi da parata

del Cinquecento, catalogo della mostra, Cinisello Balsamo 2004, pp. 74-76. 131 Sui quadri con fiori di Jan Brueghel si veda K. Ertz, C. Nitze-Ertz, Jan Brue-

ghel der Ältere (1568-1625). Kritischer

Katalog der Gemälde, III, Blumen, Allego-

rien, Historie, Genre, Gemäldeskizzen Kat.

420-584, Lingen 2008-2010 (2010), pp. 874-1035. 132 A. Cottino, “Dipinger fiori e frutti sì bene contrafatti…”: la natura morta cara-

vaggesca a Roma, in La natura morta al

tempo di Caravaggio, cit., p. 60. 133 G. Baglione, Le vite de’ pittori scvltori et

architetti…, Roma 1642, p. 102.

134 Cfr. S. Danesi Squarzina, The Col-

lections of Cardinal Benedetto Giustiniani.

Part I, in “The Burlington Magazine”, CXXXIX, 1136, 1997, p. 781, nn. 94-97; ed Ead., Natura morta e collezionismo a

Roma nella prima metà del Seicento. Il ter-

reno di elaborazione dei generi, in “Storia dell’Arte”, 93-94, 1998, p. 279 (anche per l’inventario del 1621). 135 Cfr. E. Fumagalli, Dipinti di natura

morta tra Firenze e Roma, in La natura

morta al tempo di Caravaggio, cit., p. 67 e, per le citazioni, p. 68, nota 14. 136 Sul dipinto di Napoli cfr. in particola-re A. Cottino, scheda n. 21, in La natura

morta al tempo di Caravaggio, cit., p. 123; ed E. Testori, Caravaggio e la “Natura

morta”, in “Critica d’arte”, LIX, 8, 1996, p. 73, ill. 5. Sui due dipinti di collezio-ne privata si vedano invece C. Strinati, Francesco Zucchi tra Arcimboldi e Cara-

vaggio. Una riscoperta anzi due, in “Art e Dossier”, 11, 1987, pp. 4-7; e Id., Note

sur Jacopo et Francesco Zucchi, in Etudes, a cura di G.M. Andres et al., Roma 1991, pp. 553-567. 137 Cfr. E. Negro, scheda n. 4, in L’anima

e le cose. La natura morta nell’Italia pon-

tificia nel XVII e XVIII secolo, catalogo della mostra, a cura di R. Battistini et

al., Modena 2001, p. 88 (dove si riporta anche il parere di Federico Zeri, il quale riteneva che l’autore del quadro fosse lo Zucchi). Poco convincente è invece l’attribuzione allo Zucchi dell’Allegoria

dell’Estate (collezione privata) proposta da J.T. Spike, Il senso del piacere. Una col-

lezione di nature morte, Milano 2002, pp. 14-17. Invece E. Fumagalli, scheda n. 6, in La natura morta a palazzo e in villa. Le

collezioni dei Medici e dei Lorena, catalo-go della mostra, a cura di M. Chiarini, Livorno 1998, pp. 40-41, ha suggerito di attribuire a Francesco Zucchi anche una natura morta (ora in Palazzo Pitti) priva dei tipici caratteri arcimboldeschi. 138 Cfr. M. Marini, Nature morte italiane

a spasso per l’America, in “Il Giornale dell’Arte”, 3, 1983, pp. 1, 5; Id., In Pro-

scenio. Immagini della natura morta euro-

pea tra Seicento e Settecento, Roma 1984, p. 11; L. Salerno, Natura morta italiana.

Tre secoli…, cit., p. 17, e Id., La natura

morta italiana 1560-1805, cit., pp. 52-55. Ovviamente, sul “Maestro della natura morta di Hartford” si rimanda ai saggi in questo stesso volume. 139 L. Salerno, La natura morta italiana

1560-1805, cit., p. 54. Cfr. anche Id., Natura morta italiana. Tre secoli…, cit., p. 17; G. Berra, Arcimboldi e Caravaggio…, cit., p. 123; e L. Laureati, Natura morta:

frutta, fiori e ortaggi, in Il genio di Roma

1592-1623, catalogo della mostra, a cura di B.L. Brown (Londra), C. Strinati e R. Vodret (Roma), Milano 2001, p. 76. 140 Cfr. A. Morandotti, Natura morta lom-

barda (e piemontese)…, cit., pp. 66-67, ill. 15-16.

141 R. Longhi, I preparatori del naturali-

smo 1910-1911, 1910-1911, riedito in R. Longhi, Il Palazzo non finito. Saggi inediti 1910-1926, a cura di F. Frangi e C. Mon-tagnani, Milano 1995, p. 29. 142 Cfr. rispettivamente R. Longhi, Que-

siti caravaggeschi…, cit., p. 314; e Id., Un

momento importante nella storia della ‘na-

tura morta’, in “Paragone”, 1, 1950, p. 35. Questa tesi longhiana è stata poi ripresa pari pari anche da A. Morandotti, Cara-

vaggio e Milano…, cit., pp. 18 e sgg. 143 R. Longhi, Un momento importante…, cit., p. 35 (il corsivo è mio). 144 M. Rosci, La natura morta, in Storia

dell’arte italiana. Situazioni momenti in-

dagini. Forme e modelli, Torino 1982, XI, pp. 85-87.