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L'iconografia di Gianni Carlo Sciolla (tratto dal libro Studiare l’arte ed. Utet Università – Strumenti del DAMS – Torino – 10 ediz. 2010) La parola iconografia deriva dall'unione dei sostantivi greci eikon e grafé (immagine e grafia). Indica i temi contenuti nelle immagini. L'iconografia è indirizzata a decifrare e a classificare i caratteri tipologici e contenutistici di una determinata opera, piuttosto che quelli formali ed estetici; a studiare la loro presenza ed evoluzione in un determinato contesto storico. L'iconografia o descrizione delle immagini entra in uso nella seconda metà del Cinquecento, in contrapposizione all'iconologia che, al contrario, mirava a studiare in profondità il significato simbolico dell'immagine artistica. 5.1 I «tipi» iconografici L'analisi iconografica procede attraverso vari livelli: il primo è quello dell'individuazione generale dei «tipi» iconografici. Il secondo consiste invece nella individuazione particolare dei «generi» iconografici. Un terzo livello di analisi riguarda l'identificazione della fonte storica o letteraria che ha ispirato una determinata composizione. Infine, un ultimo livello concerne l'individuazione degli schemi icono-grafico-figurativi applicati nell'opera dall'artista. 5.1.1 Individuazione generale dei «tipi» iconografici L'analisi iconografica deve iniziare con una corretta identificazione dei tipi o soggetti raffigurati dall'artista in un'opera. Per l'esatto riconoscimento dei tipi è necessario procedere alla graduale individuazione della semplice figura o dei singoli elementi rappresentativi della scena raffigurata, per poi passare ad una successiva classificazione organica complessiva dell'immagine. S'inizia pertanto ad esaminare con attenzione le figure umane, gli animali, e gli oggetti inanimati (elementi di arredo, architetture, paesaggi). Delle figure umane o animali ci si sofferma a considerare con cura attributi e segni distintivi emblematici: abbigliamento, tratti fisici, attributi. Per quanto concerne invece gli oggetti inanimati, si verifica attentamente il contesto ambientale, temporale e spaziale nel quale essi sono inseriti (natura e specie del luogo, ora del giorno, stagione dell'anno). La messa a fuoco e l'esatta identificazione di tutte queste categorie tipologiche permette di capire, in generale, la specie di raffigurazione che si sta studiando. Se si tratta di una semplice figura, si potrà così stabilire se ci troviamo di fronte ad un personaggio storico o a una immagine d'invenzione; ad un santo oppure a una figura mitologica; ad un nobile come a un guerriero; ad un contadino come a un cavaliere, e così via. Se si tratta invece di un intero episodio potremo capire, in linea generale, se stiamo analizzando una scena di realtà o d'invenzione fantastica o realmente accaduta nel passato o nel presente. 5.1.2 Individuazione particolare dei «tipi» iconografici Successivamente all'individuazione generale della natura e della specie dei tipi iconografici raffigurati, si deve pervenire ad una più particolareggiata precisazione iconografica delle figure e degli eventi dell'immagine che si osserva. Questo secondo livello di indagine iconografica può essere definito di individuazione particolare dei generi iconografici. Alla particolare messa in luce dei tipi iconografici si giunge mediante il riconoscimento del genere specifico di appartenenza dell'immagine e con l'individuazione della fonte letteraria che ha ispirato all'artista quello specifico tema iconografico. 5.2 Sui generi iconografici 5.2.1 Riconoscimento dei generi iconografici Si ottiene attraverso la conoscenza dello sviluppo storico dei cosiddetti generi artistici. La coscienza dei generi artistici è presente sin dall'antichità classica e si sviluppa parallelamente alla teoria dei generi letterari. Essa ha particolare fortuna nel mondo moderno a partire dal Rinascimento. Inizia con la riscoperta della Poetica di Aristotele alla fine del XV secolo e con la teoria dell'ut pictura poesis (che sosteneva l'equivalenza dell'immagine figurativa con l'espressione poetico-letteraria) e si diffonde sino al Romanticismo.

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L'iconografia di Gianni Carlo Sciolla

(tratto dal libro Studiare l’arte ed. Utet Università – Strumenti del DAMS – Torino – 10 ediz. 2010) La parola iconografia deriva dall'unione dei sostantivi greci eikon e grafé (immagine e grafia). Indica i temi contenuti nelle immagini. L'iconografia è indirizzata a decifrare e a classificare i caratteri tipologici e contenutistici di una determinata opera, piuttosto che quelli formali ed estetici; a studiare la loro presenza ed evoluzione in un determinato contesto storico. L'iconografia o descrizione delle immagini entra in uso nella seconda metà del Cinquecento, in contrapposizione all'iconologia che, al contrario, mirava a studiare in profondità il significato simbolico dell'immagine artistica.

5.1 I «tipi» iconografici

L'analisi iconografica procede attraverso vari livelli: il primo è quello dell'individuazione generale dei «tipi» iconografici. Il secondo consiste invece nella individuazione particolare dei «generi» iconografici. Un terzo livello di analisi riguarda l'identificazione della fonte storica o letteraria che ha ispirato una determinata composizione. Infine, un ultimo livello concerne l'individuazione degli schemi icono-grafico-figurativi applicati nell'opera dall'artista.

5.1.1 Individuazione generale dei «tipi» iconografici

L'analisi iconografica deve iniziare con una corretta identificazione dei tipi o soggetti raffigurati dall'artista in un'opera. Per l'esatto riconoscimento dei tipi è necessario procedere alla graduale individuazione della semplice figura o dei singoli elementi rappresentativi della scena raffigurata, per poi passare ad una successiva classificazione organica complessiva dell'immagine. S'inizia pertanto ad esaminare con attenzione le figure umane, gli animali, e gli oggetti inanimati (elementi di arredo, architetture, paesaggi). Delle figure umane o animali ci si sofferma a considerare con cura attributi e segni distintivi emblematici: abbigliamento, tratti fisici, attributi. Per quanto concerne invece gli oggetti inanimati, si verifica attentamente il contesto ambientale, temporale e spaziale nel quale essi sono inseriti (natura e specie del luogo, ora del giorno, stagione dell'anno). La messa a fuoco e l'esatta identificazione di tutte queste categorie tipologiche permette di capire, in generale, la specie di raffigurazione che si sta studiando. Se si tratta di una semplice figura, si potrà così stabilire se ci troviamo di fronte ad un personaggio storico o a una immagine d'invenzione; ad un santo oppure a una figura mitologica; ad un nobile come a un guerriero; ad un contadino come a un cavaliere, e così via. Se si tratta invece di un intero episodio potremo capire, in linea generale, se stiamo analizzando una scena di realtà o d'invenzione fantastica o realmente accaduta nel passato o nel presente.

5.1.2 Individuazione particolare dei «tipi» iconografici

Successivamente all'individuazione generale della natura e della specie dei tipi iconografici raffigurati, si deve pervenire ad una più particolareggiata precisazione iconografica delle figure e degli eventi dell'immagine che si osserva. Questo secondo livello di indagine iconografica può essere definito di individuazione particolare dei generi iconografici. Alla particolare messa in luce dei tipi iconografici si giunge mediante il riconoscimento del genere specifico di appartenenza dell'immagine e con l'individuazione della fonte letteraria che ha ispirato all'artista quello specifico tema iconografico.

5.2 Sui generi iconografici

5.2.1 Riconoscimento dei generi iconografici

Si ottiene attraverso la conoscenza dello sviluppo storico dei cosiddetti generi artistici. La coscienza dei generi artistici è presente sin dall'antichità classica e si sviluppa parallelamente alla teoria dei generi letterari. Essa ha particolare fortuna nel mondo moderno a partire dal Rinascimento. Inizia con la riscoperta della Poetica di Aristotele alla fine del XV secolo e con la teoria dell'ut pictura poesis (che sosteneva l'equivalenza dell'immagine figurativa con l'espressione poetico-letteraria) e si diffonde sino al Romanticismo.

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Il termine di genere viene impiegato a partire dal XVI secolo. Paolo Giovio usa il sostantivo genus per i paesaggi di Dosso Dossi. Successivamente Melantone, forse riecheggiando Leon Battista Alberti (De architectura), nel Libro II degli Elementorum Rhetorices Libri, descrivendo le opere di Dürer, di Cranach e di Grünewald parla di tre tipi di generi: grande, humile e mediocre, a seconda delle categorie dei soggetti figurativi da questi artisti impiegati.

Respinta all'interno del pensiero della Controriforma (Gabriele Paleotti, Federico Borromeo), l'idea della gerarchia dei generi viene ripresa nell'età barocca.

All'inizio del Seicento un elenco di soggetti iconografici, in un contesto non gerarchico, è presentato da Vincenzo Giustiniani nella lettera a Teodoro Amidei scritta tra il 1639 e il 1640. Il Giustiniani parla di dodici «modi» differenti di dipingere. Il termine modi è altresì, come si ricava dalla letteratura dei secoli XVI e XVII (Lomazzo, Bellori), equivalente a categoria di stile; ma anche modellato dalla teoria musicale (Poussin, lettera a Paul Fréart de Chantelou del 1647; Bialostocki, 1996).

Un testo fondamentale per studiare la gerarchia dei generi nell'età barocca è costituito dalla Préface alle Conférences de l'Academie di André Félibien (1669). Al primo posto dei soggetti figurativi (Félibien non parla di generi, ma di soggetti), lo scrittore pone l'allegoria, quindi le storie con le azioni umane; poi i ritratti, gli animali, i paesaggi; infine le nature morte. Il doppio binario, quello dei generi alti, connessi con le azioni umane nobili e dei generi bassi legati alla vita quotidiana (tra cui la pittura «di genere»), viene seguito nel primo Settecento anche da Du Bos (1719) e da Diderot (Essai sur la peinture, 1796). Tale impostazione gerarchica si riscontra anche presso i teorici dei Paesi Bassi. Per esempio, tra gli Olandesi, nell'allievo di Rembrandt Samuel van Hoogstraten (Introduzione alla scuola superiore di pittura o del mondo visibile, 1678). La graduatoria presentata da Hoogstraten prevedeva al primo posto la pittura di storia. Seguivano le scene che descrivevano l'uomo e le sue azioni, anche quotidiane. Quindi le immagini naturali (paesaggi e animali) e fantastiche (notturni, mitologie, al-legorie). Infine venivano collocate le rappresentazioni meno nobili (cucine, mercati), o inanimate (nature morte, fiori, grottesche). Sul finire del Settecento la precedente rigida classificazione dei generi viene registrata ancora nel Dictionnaire des beaux-arts di Wate-let-Lévesque (1788-92). Naturalmente al vertice della graduatoria è ancora il genere storico, didascalico o devozionale, seguito dal paesaggio (reale e fantastico), dal ritratto, dalla caricatura, dalla natura morta, che occupa l'ultimo gradino nella scala di valutazione. Il paesaggio è quello reale o fantastico, campestre, marino, architettonico; la caricatura si distingue dal ritratto, per il carattere burlesco, paragonato all'analogo genere letterario-poetico; nell'ambito, infine, della natura morta, il primo posto è occupato dalle composizioni floreali, perché «peindre les fleures c'est entreprendre d'imiter l'un des plus agréables ouvrages de la nature. Elles semblent crées pour charmer toutes les yeux» (Watelet - Lévesque, 1788-92). Nell'età della Rivoluzione francese si nota infine una graduale affermazione e valutazione dei generi sino a quel momento considerati inferiori per i contenuti morali e i valori politici che queste immagini portavano con sé (Whiteley, 2000).

5.2.2 I principali generi figurativi

I generi figurativi principali che si affermano dal Rinascimento al Romanticismo sono: la raffigurazione di storia (sacra e profana), il ritratto, la natura morta, il paesaggio, la veduta, la rappresentazione architettonica, la caricatura e la scena cosiddetta di genere. È una raffigurazione di storia sacra la rappresentazione di un'immagine che illustra un evento derivato dalla storia religiosa (anche dalla mitologia): per esempio un episodio derivato dall'Antico o dal Nuovo Testamento o dai Vangeli Apocrifi; o ancora la vita di una divinità classica. Nel corso dello sviluppo della raffigurazione della storia sacra si sono affermati dei sottogeneri particolari, connessi con l'uso (funzione) o con la specifica devozione che l'immagine svolge in determinati periodi storici. Due esempi tra gli altri. Si tratta della Sacra conversazione e della rappresentazione di Cristo a mezza figura. La prima è applicata alla Vergine con il Bambino, accompagnata da entrambi i lati dai santi, alcuni dei quali si rivolgono allo spettatore con funzione di mediazione tra il mondo umano e quello divino. La seconda è la raffigurazione del corpo di Cristo presentato ai devoti dopo la morte.

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Sacra conversazione. Il termine entra in uso nella letteratura artistica dell'Ottocento (Kugler, 1830; Cavalcaselle, 1871) con il significato di raffigurazione dei personaggi sacri che colloquiano tra di loro. In realtà, nei testi patristici con sacra conversatio, si indicava una riunione di personaggi sacri; un incontro comunitario celeste, che poteva diventare un modello di condotta per il devoto. L'immagine della sacra conversazione si diffonde a partire dal Duecento e Trecento in ambito francescano (uno dei primi esempi si trova nella Basilica Inferiore di Assisi ed è databile tra 1307 e 1315). Ha successivamente grande fortuna nel corso del Quattrocento: si riscontra in Domenico Veneziano, Piero della Francesca, Mantegna, Antonello, Giovanni Bellini. Coincide con la crisi del polittico a più scomparti. La scena viene ora immaginata all'interno di un edificio religioso che fa da sfondo ai sacri personaggi e ne sottolinea il carattere comunitario, contemplativo. La tipologia della Sacra Conversazione tramonta definitivamente con il primo Cinquecento, quando subentrano altre formule iconografiche.

Cristo a mezza figura. Si tratta di un'immagine di piccole dimensioni di carattere domestico, privato (le antiche fonti la definisce infatti «tavola da camera»). Come è fatta? L'immagine sacra è tagliata a mezza figura; sotto le spalle oppure sotto la vita, permettendo al fedele una contemplazione ravvicinata del viso, creando quella che viene anche definita dose up (Sixten Ringbom). In tal modo l'artista intendeva provocare nello spettatore una forte reazione emotiva, finalizzata all'intensa concentrazione sulla sacra raffigurazione e una proficua meditazione. L'origine di questa tipologia si deve rintracciare nell'ambito delle icone bizantine (XI secolo). Essa viene ripresa nel XV secolo in differenti aree europee (Italia, Fiandre, Francia). In Italia si diffonde nel regno di Napoli, dove l'adotta Antonello da Messina, che conosce direttamente tali icone attraverso la mediazione fiamminga. Nell'Italia settentrionale entra nel repertorio iconografico di Giovanni Bellini, forse per influenza dello stesso Antonello. La rappresentazione del Cristo a mezza figura si articola invece in varie categorie: Salvator Mundi, Volto Santo, Imago pietatis (Thié-baut, 2000). Il Salvator Mundi deriva, come pure la variante del Cristo benedicente a mezzo busto, dal Pantocrator bizantino. Il Volto santo

talvolta è combinato con il Sudario della Veronica, dove compare la figura del Cristo incoronato di spine così come si è impressa sul velo della pia donna durante l'andata al Calvario (Thiébaut, 2000).

L'Imago pietatis, infine, è un'iconografia di origine orientale pervenuta in Occidente nel XIII secolo. Deriva dalla cosiddetta Messa di San Gregorio, allorquando il santo, celebrando messa nella chiesa della Santa Croce a Gerusalemme ebbe una visione del Cristo (Panofsky, 1961). All'inizio, nell’Imago Pietatis il Cristo è rappresentato nudo davanti alla Croce, con le mani e i piedi piagati dalle stigmate, il costato trafitto, la testa leggermente inclinata con gli occhi semichiusi e le mani incrociate a metà del busto (Thiébaut, 2000).

Storia profana. La raffigurazione di storia profana è quella che illustra un avvenimento accaduto realmente nel passato o nel presente. La raffigurazione di storia profana si distingue per i caratteri celebrativi, commemorativi, ideologici che trasmette al riguardante. Talora, specie nell'antichità classica e nel Medioevo, l'illustrazione di un episodio storico s'intreccia ad elementi di carattere mitologico, religioso o anche leggendario, per cui talora è difficile distinguere un episodio di genere religioso da quello puramente profano. La raffigurazione storica si riscontra già nelle antiche civiltà (Assiri, Babilonesi, Egizi). L'arte greca inizia a introdurre temi storici nei mosaici e nella decorazione pittorica dei crateri (mosaico con Alessandro e Dario forse riprodotto da Filosseno di Etreria, Pompei, Museo Nazionale; cratere apulo del Pittore di Dario, Napoli, Museo Nazionale). L'arte romana celebra la propria storia illustrando le grandi imprese militari, i trionfi, gli episodi caratterizzanti la vita di un imperatore (colonna Traiana, rilievi dell'arco di Tito, rilievi dell'arco di Costantino). Nel Medioevo, i temi storico celebrativi collegati alla vita dei grandi personaggi (si vedano i fatti relativi alla conquista dell'Inghilterra da parte di Guglielmo il Conquistatore raffigurati nel ricamo di Bayeux eseguito verso il 1077; o ancora i rilievi con i fatti di Carlo Magno del Reliquiario del tesoro di Aachen degli inizi del XIII secolo) s'inquadrano nella concezione di una storia provvidenziale. Grande diffusione iconografica hanno inoltre le illustrazioni delle cronache, volte a esaltare le vicende di un determinato eroe o luogo (codici miniati

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con le Grandes Chroniques de France dei secoli Xll-XIV). Le testimonianze del passato vengono raffigurate durante il Rinascimento, da un lato, con una ripresa di argomenti della storia classica con l'intento di fornire modelli di comportamento morale o di exempla virtutis (Mantegna, I Trionfi di Cesare, Hampton Court; Jacopo Ripanda, decorazione del palazzo dei Conservatori, Roma), ma anche medievale (Paolo Uccello, Battaglie). Dall'altro, con una illustrazione di eventi o cronachistici o celebrativi delle geste dei personaggi appartenenti a una determinata casata (Mantegna, affreschi della Camera Pietà del palazzo Ducale di Mantova; Vasari, affreschi di nella Sala dei cento Giorni del palazzo della Cancelleria a Roma, 1546, celebrativi del pontificato farnesiano; Taddeo Zuccari, affreschi di nella Sala dei fasti Farnesiani e nell'Anticamera del Concilio del palazzo Farnese di Caprarola, 1562-1563). Nel corso dei secoli XVII e XVIII, la raffigurazione dei fatti storici del passato continua parallela con l'illustrazione degli eventi del presente. Se per un verso, infatti, gli artisti si ispirano alla vita dei grandi personaggi dell'antichità classica (Pietro da Cortona, Storie di Enea, 1651-54, Roma, galleria di palazzo Pamphili), per un altro, non rinunciano a descrivere, naturalmente ancora con intento celebrativo, le imprese contemporanee dei personaggi illustri (Giovanni Antonio Molineri, Gesta di Vittorio Amedeo I di Savoia, 1617, Savigliano, palazzo Taffini d'Acceglio; Velàzquez, Battaglia di Breda). Finalizzata alla diffusione e alla esaltazione degli ideali politici contemporanei è il recupero da parte degli artisti neoclassici (David), della storia eroica antica, ma anche la scelta di particolari episodi contemporanei, particolarmente significativi (Appiani, Fasti di Napoleone, Milano, Palazzo Reale; Goya, Il due maggio, 1808). Con l'avvento del Romanticismo la raffigurazione di storia esplora altre possibilità tematiche: la cronaca contemporanea (Géricault, Ademollo, Bossoli); i fatti concernenti la vita nazionale come l'epopea risorgimentale (Caffi, Indiano), talora recuperando episodi della tradizione medievale (Hayez); i momenti salienti della vita politica (Biscarra).

Il ritratto è la raffigurazione di un personaggio antico e moderno, realmente esistito, colto da solo oppure insieme ad altre persone (è questo il ritratto «di gruppo»). Il ritratto come genere autonomo si diffonde a partire dall'ellenismo e si afferma poi nel mondo etrusco e romano. Diffuso nel Medioevo (con carattere simbolico e celebrativo dapprima, naturalistico poi, nell'arte funeraria), assume un posto centrale nel Rinascimento. Immagine di memoria e di vita destinata a trascendere il tempo, quasi in una sorta di gioco di complicità con la morte (Pommier, 1998), oltre alla somiglianza della persona ne trasmette la bellezza e i caratteri fisici, esprimendone i sentimenti dell'anima. Fondamentale in tal senso la scoperta della fisionomica antica che studia i tratti del volto e li definisce in connessione con le emozioni interiori, i temperamenti, le forme animali. Tra i fisionomisti antichi sono lo Pseudo-Aristotele, Polemone, Adamanzio e lo Pseudo-Apuleio. Il Medioevo riscopre questi testi greci e latini direttamente o attraverso l'Islam. Speculazioni fisionomiche autonome si ritrovano infatti nel mondo arabo medievale. Al-Razi, Al-Damashki sono tra gli scrittori arabi più noti di fisionomica del Duecento e Trecento.

L'Occidente ha raccolto molti di questi scritti. Il Liber Almansorius è stato tradotto in latino da Gerardo di Cremona; la Lettera d'Alessandro da Filippo di Tripoli. Il Liber phisiognomiae di Michel Scot, astrologo e mago di Federico II, è basato su queste due fonti. Il Sirr-al-Asrar si ritrova nei Secreta di Al-berto il Grande e nella fisionomica di Ruggero Bacone. [...] Lo Pseudo Aristotile è stato tradotto in latino da Bartolomeo da Messina con una dedica a Manfredi, figlio di Federico II e re di Sicilia. [...] Nel XV secolo si ritrova questo filone nello Speculum Physionomiae di Michele Savonarola, zio di Girolamo e medico del marchese Niccolò III d'Este a Ferrara e nei Calendari dei Pastori, di cui si conosce la fortuna (Baltrusaitis, 1995).

I ritratti del Quattrocento (da quelli di Jan van Eyck a quelli di Mantegna; da quelli di Antonello da Messina a quelli di Rogier van der Weyden) esplorano negli aspetti più minuziosi i caratteri fisici dei volti con una capacità ottico-percettiva lenticolare, offrendoli al fruitore come sostituti dei personaggi reali. Nel corso del Cinquecento, invece, il ritratto, per un verso, punta più direttamente sull'introspezione psicologica: diventa cioè espressione di uno stato d'animo. Per un altro, si depersonalizza, diventa un'immagine fissa, simbolo di uno status sociale.

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Al primo filone di ricerca appartiene la ritrattistica di Leonardo, di Giorgione, di Lorenzo Lotto. Con Leonardo e Giorgione il ritratto si orienta a esprimere non soltanto la caratterizzazione psicologica quanto piuttosto gli stati d'animo. Per Leonardo è la ricerca dei «moti dell'animo». Per Giorgione è l'inquietudine esistenziale che verrà approfondita e perseguita anche nei ritratti intimi ed appassionati di Lorenzo Lotto. Al secondo filone, quello depersonalizzato, ridotto a mera formula, appartengono i ritratti di artisti come Raffaello, Tiziano e nel secondo Cinquecento, di Scipione Pulzone o Antonis Mor. Tipico del ritratto-formula è il cosiddetto state portrait o ritratto di stato che fa risaltare il carattere pubblico, ufficiale del personaggio raffigurato. Il ritratto diventa di dimensioni imponenti, esibisce gli attributi relativi alla funzione che il personaggio riveste nella società. Sul finire del Cinquecento convivono i due aspetti indicati. Da un lato il ritratto diventa «senza tempo», nell'accentuazione del suo carattere simbolico e allusivo. Dall'altro, la forma naturalistica del ritratto sopravvive sino al principio Seicento, come si rileva negli esemplari di Annibale Carracci. Sul finire del secolo XVI viene ripresa l'intrigante questione fisionomica nel trattato di Fisiognomia umana di Giambattista della Porta (1586). La somiglianza, la naturalezza della presentazione, la ricchezza del costume, la ricerca espressiva illusionistica e della forma in movimento, sono le preoccupazioni della grande ritrattistica del barocco italiano (Bernini) e straniero fondato sui modelli della tradizione italiana rinascimentale (Rembrandt, Rubens, van Dyck). La ritrattistica olandese dell'età barocca riprende anche i motivi compositivi dei ritratti di gruppo delle ghilde e delle compagnie corporative cinquecenteschi; e la forma del ritratto a pendant (il ritratto maschile e femminile che si guardano specularmente). Nella prima metà del Settecento, in Francia come in Inghilterra, il ritratto si presenta magniloquente e celebrativo. Richiamandosi alla grande tradizione tardo barocca, specie di area fiammingo-olandese, il ritratto europeo del primo settecento è solenne, grandioso, paludato. Gli artisti ricorrono ai travestimenti arcadici in sintonia con i nuovi orientamenti letterari; adottano inoltre iconografie «all'antica» nello spirito del dilagante classicismo. Nel corso del Seicento il problema dell'espressione del volto viene riconsiderato a livello teorico da importanti trattati di Cureau de La Chambre (Les Caractères des Passions, 1640-1662) e di Charles le Brun (Conférence sur l'expression generale et particulière, 1968), che ebbe numerose edizioni e traduzioni sino al Settecento. Nel Settecento inoltrato il ritratto europeo conosce un'importante evoluzione. Da Houdon a Liotard, da Reynolds a Hogarth, da Van Loo a Chardin a Pompeo Batoni il ritratto viene ora interpretato in termini di nuova intensità realistica rivolto a cogliere gli aspetti più personali delle fisionomie rappresentate: sia nelle sue forme di ritratto individuale, sia di gruppo (di conversation piece, come gli Inglesi definiscono il ritratto familiare, di destinazione non ufficiale, che riprende gli schemi del più antico ritratto fiammingo-olandese). I nuovi orientamenti della ritrattistica sono da mettere in rapporto con il pensiero razionalista e illuminista e specialmente con i coevi studi sulla fisionomica di Lavater (Physiognomische Fragmente, 1775 -1778) e di Camper (Dissertations sur les variétés naturelles qui caractérisent la physionomie des hommes, 1791).

La caricatura è la deformazione in chiave ironica delle fattezze umane, in particolare quelle del volto. La caricatura nasce tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento in area bolognese, presso la bottega dei Carracci; deve la sua influenza alla Commedia dell'arte e da Bologna immediatamente si espande in altre aree culturali, come Firenze (Baccio del Bianco) e Roma in particolare (Bernini, Ghezzi). Nel Settecento ha una notevole diffusione (per esempio a Venezia e in Inghilterra, dove la pratica per esempio Hogarth) e poi nel corso dell'Ottocento viene utilizzata specialmente per illustrare libri e giornali, alcuni dei quali di carattere specificamente satirico. In Francia grandi caricaturisti del secolo XIX sono Daumier, Dorè, Grandville, Philipon, Gavarni; in Inghilterra, Leech e Doyle; in Italia, Teja e Dalsani. La critica del Novecento ha studiato il genere della caricatura in chiave psicologica (in particolare Kris, 1940), partendo dal celebre saggio di Freud sul Motto di spirito.

La natura morta. È soltanto verso la metà del secolo XVIII che viene adoperata per la prima volta l'espressione francese di nature morte e in senso diminutivo, la rappresentazione degli oggetti privi di vita: tale definizione entra nell'uso della lingua italiana nel secolo XIX per indicare soggetti immobili, silenziosi (Grassi, Pepe, Sestieri, 1989). Il genere è già noto nell'antichità classica: xenia venivano indicati in epoca ellenistica dipinti nei quali erano raffigurati oggetti vari di natura morta.

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L'età medioevale trascura questo genere iconografico. L'interesse per l'oggetto privo di vita ma con valore simbolico ritorna nella cultura tardogotica e poi rinascimentale dapprima come inserto frammentario in composizioni di altro significato. È soprattutto la cultura fiamminga, franco provenzale, ma anche italiana influenzata da questo filone figurativo (si veda a questo riguardo l'uso che ne fanno Jan van Eyck, Barthélemy d'Eyck e Colantonio) a inserire nelle composizioni questi temi che troveranno nella tarsia lignea italiana quattrocentesca ampio spazio e fortuna. L'autonomia del genere si registra però soltanto a partire dalla fine del XVI secolo, quando cominciano a diffondersi ampiamente dipinti con frutta, pesci, fiori, strumenti musicali in contrapposizione alla pittura di storia, considerata al vertice della graduatoria dei generi. Grande fortuna ha presso i collezionisti la raffigurazione della natura morta nel corso del secolo XVII: in Italia, in Spagna, in Francia e nei Paesi Bassi. Le ragioni di questa affermazione sono diverse: per i valori allegorici che questo genere di pittura veicolava; perché veniva incontro ad un gusto fortemente interessato alla mimesi degli oggetti reali; per la carica illusionistica che portava in sé. Nei Paesi Bassi del Nord la natura morta era definita stitteven (modello inanimato). Diverse erano le tipologie iconografiche delle nature morte in Olanda: fiori, cucine, mercati, tavole imbandite, vanitates. Le nature morte con i fiori erano tra le più ricercate e meglio pagate. La grande fortuna di questa tipologia è dovuta all'importanza che la botanica assume nella cultura olandese, a partire dal tardo manierismo e poi nell'età barocca. Combinati con i fiori incontriamo i frutti, gli insetti (simbolo del tempo che trascorre veloce), le conchiglie. Le cucine sono nature morte composite: con elementi di natura morta (ortaggi e animali privi di vita) uniscono anche elementi umani. Le cucine olandesi derivano da quelle fiamminghe, che oltre a presentare figure umane con la natura inanimata, annoverano anche, nello sfondo, una scena biblica. Esplicito il messaggio moralistico: erotico, sessuale o di richiamo alla vita attiva e contemplativa. In connessione con le cucine sono i mercati, di cui si ripropongono, con varianti, richiami di carattere etico religioso e monitorio. Le tavole imbandite sono invece co-stituite da una mostra di oggetti e cibi inanimati disposti sulla tovaglia: il pane, l'uva, la mela, il limone, il pesce, la ciliegia, la noce, il biscotto, il formaggio, i pasticcini, i piatti, i bicchieri, le caraffe, le posate, le coppe. Valori simbolici eucaristici e allusioni alla fragilità e transitorietà dell'esistenza, nonché alla rovina che deriva dalla troppa attenzione accordata al cibo e al lusso della tavola, traspirano da queste composizioni. Quando nella natura morta compaiono altri oggetti come il libro, il calamaio, la penna d'oca, la candela, il lucignolo, l'orologio, la clessidra, il mappamondo, l'astrolabio, il fiore reciso, gli strumenti musicali, il oggetti del fumo, il teschio, essa diventa una va-nitas. La vanitas allude alla transitorietà dell'esistenza, alla caducità delle cose, agli effetti devastanti del tempo, alla morte ineluttabile. I trofei, infine, con la cacciagione, noti anche come deceivers, erano finalizzati propriamente alla decorazione delle pareti lignee o di gesso delle abitazioni di campagna della borghesia. La natura morta avrà una forte ripresa alla metà dell'Ottocento in concomitanza con il Realismo: pittori come Manet, Courbet, seguiti da van Gogh e Cézanne, daranno molto spazio a questo genere figurativo.

Il paesaggio fissa le parvenze della natura esteriore in differenti modi rappresentativi. Il termine paesaggio viene usato per la prima volta alla fine dell'Ottocento in Italia, anche se il termine paysage si riscontra già in Francia nel XVI secolo, inteso però nell'accezione di estensione di territorio. Adoperato come forma rappresentativa autonoma nell'antichità classica, durante il Medioevo e sino alla fine del XV secolo il paesaggio è semplice elemento di sfondo in composizioni di genere diverso, come nel celebre affresco di Ambrogio Lorenzetti, dipinto nel palazzo Comunale di Siena nel 1339 ca. Qui il paesaggio è semplice elemento compositivo, se pure molto sviluppato, dell'Allegoria del Buon Governo, dove il grande pittore rappresentò «la dolce vita e riposata di Siena e delle sue campagne»; dove singolare è «l'immergersi dell'artista nella circostante realtà della vita quotidiana e delle cose» (Toesca, 1951). Questo effondersi sul tema del paesaggio, collegato però a temi di carattere religioso e allegorico, si riscontrerà anche nella cultura tardogotica, come mostrano le miniature delle Très riches Heures del duca di Berry, oppure talune opere di Jan van Eyck (su tutti il pannello centrale con l'Agnello mistico dell'Altare di Gand, che com'è noto, è allegoria della redenzione del genere umano dovuta al sacrificio di Cristo, visualizzata nel tema dell'Allerheiligenbilder, l'esaltazione e la beatitudine di tutti i Santi (Panofsky, 1953).

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Come genere autonomo il paesaggio iniziò a essere realizzato nella seconda metà del XV secolo. Significativo a questo riguardo è l'esempio di Leonardo (Paesaggio della Val d'Arno, 1473, Uffizi). Al principio del Cinquecento la coscienza e l'apprezzamento del genere del paesaggio come fatto autonomo sono dati di fatto acquisiti. Ciò è dimostrato dall'uso frequente della definizione pittura di paese, che ricorre con insistenza negli inventari delle collezioni artistiche dell'Italia settentrionale, a Venezia e a Mantova. Ad Anversa, nelle Fiandre, il paesaggio autonomo viene praticato da artisti quali Henrijk met de Bles e Jan Brueghel.

Nella seconda metà del Cinquecento il paesaggio divenne un soggetto autonomamente riconosciuto sia per opere di pittura che per riproduzioni a stampa. Negli interni raffiguranti botteghe d'arte e «gabinetti di collezionisti» dipinti da Jan Breughel o da H. Jordaens si vedono, tra le opere regolar-mente in vendita, anche dei paesaggi «puri». È il periodo in cui il Van Mander dedica a questo importante genere artistico un intero capitolo del suo poema didattico; la pittura di paesaggio era ormai diventata una istituzione (Gombrich, 1973). Fu la concorrenza del mercato a indurre gli artisti operanti ad Anversa a cercare nuove specializzazioni figurative e quindi a nuovi generi. Ciò che probabilmente era stata una pratica abituale nelle botteghe del basso medioevo, la divisione cioè dei compiti tra pittori di figure, pittori di sfondi e poniamo, specialisti di nature morte, ora dava rapidamente vita alla varietà dei generi, che non potevano non essere valorizzati da coloro che ave-vano maggiori probabilità di guadagnarsi la vita grazie a una determinata specializzazione (Gombrich, 1973).

Nel corso del Seicento il paesaggio ha una diffusione ed una fortuna senza pari. Due sono i filoni prevalenti: quello dei paesaggi ideali, e quello naturalistico. Il primo, di cui sono straordinari interpreti i Carracci, Domenichino, Albani, Poussin e Claude Lorrain, propongono visioni di paesaggio mitiche, di ispirazione classica. Il secondo praticato soprattutto nell'area nordica (da Rubens a Ruysdael) è invece più attento a rendere fedelmente il mutare delle stagioni, dell'ora del giorno e gli eventi metereologici. La fedeltà alla natura è lo scopo principale che si prefigge anche l'artista della fine del Settecento e della prima metà dell'Ottocento, in Inghilterra (Constable, Bonington), in Francia (Valencienne, Corot). Il Romanticismo cerca nel paesaggio gli elementi del mistero e della divinità insiti in natura (Dietrich in Germania, Turner in Inghilterra, Rousseau in Francia). Alla realtà delle componenti del paesaggio si ritorna con il Realismo (Courbet) e con i vari movimenti della seconda metà dell'Ottocento attenti a cogliere la percezione delle cose esterne all'uomo (Impressionismo, Postimpressionismo).

Diversamente dal paesaggio la veduta è una raffigurazione immaginaria o reale di determinati aspetti della realtà urbana o del territorio, caratterizzata da una rigorosa impostazione architettonica e prospettica. La veduta sorge come genere indipendente nel Rinascimento e si diffonde specialmente durante il Seicento e il Settecento. La prima, quella cosiddetta ideata è una sorta di veduta immaginaria, fantastica, d'invenzione. La seconda, è invece ispirata al vero. La veduta immaginaria era definita anche capriccio (vedi più oltre). Nella seconda tipologia (la veduta reale), l'artista, descrive con estremo rigore l'ambiente urbano, architettonico, che ha di fronte; ma è anche

mosso dalla curiosità per i costumi, per la storia umile o fastosa, che si manifesta in strade e piazze; è attratto dalle architetture [ma anche] dall'animato vociare dei mercati: tutti elementi che troviamo in tante pagine di diary, journal e Tagebuch. D'altronde tra linguaggio verbale e immagine visiva c'è una congruenza, che proprio nel corso del Settecento può divenire occasione di una verifica: i vedutisti, infatti, lavorano soprattutto per una committenza che è parte del Grand Tour e sono proprio i protagonisti di questa avventura intellettuale e umana a scrivere molte di quelle pagine (de Seta, 1999).

La lucida, ottica impaginazione della veduta ispirata alla realtà che vuole riprodurre con assoluta fedeltà e precisione, era costruita con l'uso della camera ottica, la quale garantiva esattezza

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prospettica e di rapporto fra i vari elementi nell'inquadratura; risentiva inoltre, almeno negli esiti veneziani, delle ricerche ottiche più avanzate di Newton, largamente note a Venezia nei circoli di Algarotti e del console Smith.

La scena di genere è una rappresentazione ispirata alle occupazioni della vita quotidiana. Sorge come tipologia iconografica autonoma nell'età barocca e si diffonde nel Settecento e poi nell'Ottocento. In Olanda il genere (costì definito dalle fonti «pittura di figura o figure») si afferma con forme disparate: il gioco di tric-trac, l'interno contadino, la bambocciata, gli interni domestici con le donne al lavoro, i banchetti e le feste popolari, i mendicanti, i bevitori, le scene galanti, con giovani che bevono, fumano, fanno musica, le scene pastorali all'aperto, il bordello ecc. Molti di questi soggetti (come il genere rustico o burlesco delle scene di festa o di ebbrezza contadinesca) derivano dal repertorio della tradizione cinquecentesca dei Paesi Bassi del Nord e del Sud (per esempio la incontriamo in Breughel il Vecchio). Molti avevano un significato moralistico e simbolico esplicito: gli interni con le donne intente al lavoro domestico erano l'immagine della virtù e dell'operosità familiare; i mendicanti alludevano all'ipocrisia e alla cecità umana; le scene galanti e pastorali erano la traduzione visiva di un filone della poesia arcadica diffuso in molti centri culturali del Paese. Anche nelle scene di genere determinante è sia nella struttura complessiva dei dipinti, che nei gesti e nelle pose dei personaggi l'influenza delle rappresentazioni teatrali (esempio singolare la produ-zione di genere di Jan Steen). La bambocciata intesa come rappresentazione di scene della vita quotidiana e dei mestieri ha per merito di Peter van Laer detto il Bamboccio diffusione nell'ambiente romano del Seicento dando vita a un vero e proprio filone di gusto. A questo filone, che si caratterizza dunque per i soggetti sinora trascurati dagli artisti, perché considerati meno nobili, per l'intensità caravaggesca e realistica dello stile, appartengono figure come Andries Both, Sebastian Bourdon, Bartholo-maeus Breenbergh, Michelangelo Cerquozzi e Karel Dujardin. I bamboccianti secenteschi hanno a loro volta incidenza sulla pittura di genere nel Settecento. Artisti come Michele Graneri o Pietro Domenico Olivero in Piemonte, Alessandro Magnasco a Genova, Giuseppe Maria Crespi a Bologna, il Ceruti a Brescia, Pietro Longhi a Venezia, sono in qualche modo, e in forme differenziate, debitori di questo filone culturale. A Napoli, il maggiore esponente delle scene tratte dalla vita di ogni giorno con intento sociale è Gaspare Traversi il quale, oltre alla conoscenza delle stampe inglesi, ha avuto contatti con il mondo del teatro napoletano contemporaneo. La scena di genere trova ancora nell'Ottocento, in seno al Verismo, ampia applicazione. Naturalmente la pittura di genere dell'Ottocento va valutata storicamente caso per caso, artista per artista. Episodi di cronaca familiare e di quotidianità si riscontrano infatti, con motivazioni culturali diverse, nell'opera degli Induno, di Gioacchino Toma, di Antonio Mancini giovane. Accanto a questi generi principali, si affiancano, nel corso dello sviluppo della storia figurativa, altre forme e generi iconografici. Ne citiamo, di seguito alcuni esempi: gli uomini illustri, l'homo selvaticus, la grottesca, il capriccio, l'anamorfosi, la finestra e la cornice, il trompe-l'oeil.

Raffigurazione di uomini illustri. Esempi di raffigurazioni di ecclesiastici illustri (santi, vescovi) non mancano nell'arte medievale. A partire dal periodo carolingio (San Benedetto di Malles, San Salvatore di Brescia); quindi nei secoli XI e xn (San Pietro di Acqui, Santa Maria in Monticello ad Arsago Seprio, nella Cattedrale di Aosta, nel Saint-Hilaire di Poitiers); quindi nel xni (cripta della Cattedrale di Anagni). Si tratta di esempi di personaggi esemplari per virtù teologiche, spirituali, politiche, da ricordare e da imitare; talora si tratta di vescovi che hanno partecipato alla cerimonia della consacrazione della chiesa; tal'altra di uomini pii contrapposti iconograficamente agli antenati di Cristo. Con il Trecento il tema degli uomini illustri si allarga a personaggi laici, rappresentativi dei vari rami del sapere e della cultura, antichi e moderni. Perdute, purtroppo, sono le serie con gli Uomini illustri dipinti da Giotto tra il 1329 e il 1333 a Napoli, Castelnuovo, citati da Lorenzo Ghiberti («Molto egregiamente dipinse la sala del re Uberto de' uomini famosi, in Napoli»), come pure quella di Milano nel Palazzo di Azzone Visconti (1335 ca.), che le fonti indicano consistere di principi antichi, mitici e realmente esistiti, da Enea a Attila, da Ettore a Ercole, da Carlo Magno allo stesso

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Azzone. Sequenze di uomini illustri eseguiti nel Trecento si ritrovano ancora in San Domenico di Pistoia (i poeti illustri), a Verona, eseguite da Altichiero e Jacopo Avanzi nel castello di Cansignorio (morto nel 1375), a Padova, nella Sala dei Giganti del Palazzo dei Carraresi. Il motivo degli uomini illustri nel Trecento è di tradizione letteraria: lo riscontriamo infatti in Angelo Decembrio, Vergerlo, Petrarca (autore del De viris illustribus). È un tema favorito anche dagli scrittori di pedagogia, là dove si tratta del problema della imitatio. Dalle lettere trapassa nelle arti visive.

Nei Ricordi redatti tra il 1393 e il 1411, Giovanni di Paolo Morelli loda la possibilità di interrogare Virgilio stando nel proprio studio, o di parlare con Boezio, con Dante e Cicerone, e di venire introdotto alla filosofia da Aristotile stesso. In una predica tenuta nel 1425, anche San Bernardino da Siena parla del dialogo con gli autori cristiani (Liebenwein, 1992).

Nell'età tardogotica il tema degli uomini illustri si sposta alla raffigurazione dei Sette prodi e delle Sette eroine. Tale tema si ritrova negli affreschi del Castello della Manta in Piemonte (bottega di Taquerio), negli arazzi cavallereschi fiamminghi e francesi di età cortese (come gli arazzi di Amedeo Vili, forse provenienti dalla raccolta del Duca di Berry; quella di Jean de Berry ora ai Cloisters di New York); negli affreschi del castello di Runglstein in Tirolo (1414 ca.). Il tema, cavalleresco, si ispirava ad un capitolo dello Chevalier Errant che illustrava l'episodio dell'accoglienza del protagonista da parte di Dame Fortune, in occasione della visita del palazzo dove risiedevano i nove magnanimi principi (Davide, Giuda Maccabeo, Giosuè, Ettore, Alessandro, Cesare, Carlo Magno, Re Artù, Goffredo di Buglione) e le nove eroine (Deifila, Semiramide, Sinope, Ippolita, Etiope, Lampeto, Tamiramide, Teuca, Pentiselea). Nell'Italia centrale un esempio tardogotico è quello di Palazzo Trinci a Foligno (1413-24), dove gli uomini illustri sono quelli del mondo greco, romano, ebraico. Il tema degli uomini illustri del mondo antico viene rilanciato dall'Umanesimo e dalla cultura neoplatonica, che incoraggia il culto dell'eroe. A Firenze la sequenza si apre con l'intervento di Andrea del Castagno per la villa a Legnaia, 1450 ca., eseguita per Filippo Carducci Gonfaloniere del Concilio di Firenze (gli affreschi ora staccati sono conservati agli Uffizi). I personaggi illustri qui rappresentati oltre a Ester, la regina Tomiri e la Sibilla Cumana sono per la maggior parte insigni uomini che hanno resa celebre la Toscana (Dante, Petrarca, Boccaccio, Pippo Spano, Farinata degli Uberti, Niccolò Acciaioli). Tali raffigurazioni sorgono nel solco della celebrazione civica storiografica iniziata con Filippo Villani e che giunge sino al Manetti. Nella seconda metà del XV secolo il tema iconografico degli uomini illustri viene applicato in altri esempi importanti: nella decorazione dello Studiolo di Urbino di Federico da Montefeltro dovuta a Giusto di Gand e Pedro Berruguete (1474-75). Il ciclo di Urbino è innovatore, dal punto di vista iconografico, perché accanto a personaggi illustri dell'antichità inseriva figure contemporanee; inoltre tali figure, ad eccezione di Federico, non erano, secondo la prassi, a figura intera, bensì a mezza figura. Quindi, nella decorazione del palazzo del Podestà a Bergamo, di Bramante, ca. 1477. Infine nei medaglioni-ritratto della cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto del Signorelli. Alla metà del Cinquecento le immagini degli uomini illustri conoscono una rinnovata fortuna. Svariate innanzi tutto le edizioni e i repertori stampati su questo argomento. In Italia Paolo Giovio fa uscire nel 1546 gli Elogia doctorum virorum, che dovevano servire come riscontro esplicativo dei ritratti degli uomini illustri nei vari campi del sapere, raccolti nel suo museo sul lago di Como. A Lione, nel 1553, Guillaume Rouille pubblica un Vromptuarium iconum. Ad Anversa, Hubert Goltzius, nel 1557, stampa un repertorio sulle immagini degli antichi imperatori. A Roma, nel 1566, Antonio Lafrery edita una galleria di uomini illustri nel campo giuridico; Vasari, nel 1568, in occasione della seconda edizione delle Vite degli artisti, inserisce anche i loro ritratti incisi. Accanto e parallelamente a questi libri, gli incisori producono molte stampe con effigi degli uomini illustri in ogni campo del sapere e delle professioni da ricordare e imitare (per l'arte sono da ricordare le Effigies dei pittori illustri fiamminghi dell'umanista Domenico Lampsonio, 1572, recanti le incisioni di Jan Wierix, di Cornelis Cort, di Hyeronimus Cock, che è anche l'editore dell'opera). Artisti nordici che affrontano nuovamente il tema delle donne illustri dell'antichità sono per esempio Maerten van Heemskerck, autore di alcuni disegni di questo soggetto (preparatori per essere incisi) ora divisi tra New York, Princeton, Chicago, Los Angeles. Nel Seicento il tema degli uomini (e donne) illustri ha una prosecuzione. Intanto nella cultura classicista francese, presso autori come Vouet, dove si riprende la serie codificata in antico, con

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rinnovati intenti moralistici; e in repertori con gli uomini illustri contemporanei (come l’lconographie illustrata con le incisioni derivate dai disegni di van Dyck).

L’uomo selvatico. Una particolare rappresentazione allegorica di enorme diffusione europea tra Medioevo e Cinquecento è quella dell'Homo Selvaticus. È la raffigurazione di un uomo mostruoso, dalla barba e dai capelli incolti, rivestito interamente di peli, munito di clava, che vive nei boschi sbranando uomini e animali. L'immagine di tale personificazione si diffuse enormemente nel Medioevo ed ebbe fortuna nel teatro e nelle sacre rappresentazioni come negli arazzi, nella scultura lignea, nei capitelli, nelle miniature. Successivamente fu ripresa nel corso del Rinascimento, come dimostrano anche alcuni disegni di Leonardo per un ballo di uomini selvaggi e in numerosi affreschi dell'area alpina (per esempio in Valtellina a Sacco, a Oneta, a Tirano e a Bormio). Nei bestiari medioevali l'uomo selvatico è un demone ferino, simbolo della mancanza di civiltà, del caos, del negativo nel mondo. Nel Rinascimento cambia il valore simbolico di questa personificazione. Diventa allegoria della vita incontaminata e felice di chi vive a stretto contatto con la natura. È il rappresentante dello «stato naturale» dell'uomo, affiancato talora da una donna e da un figlio selvatico, che formano la «famiglia selvatica». La sua immagine ferina e demoniaca si trasforma in personaggio mite, rassicurante, forte. Assommando la più antica accezione di Ercole Silvano e di Arlecchino, spesso associato alle figure degli armigeri e degli emblemi delle casate nobiliari, di forme talora gigantesche, assume (come una sorta di San Cristoforo pagano e come indicano anche le scritte in volgare che lo accompagnano) un trasparente significato apotropaico di guardiano delle abitazioni e delle comunità urbane nelle quali viene raffigurato. Un altro genere è rappresentato dalla grottesca. Il genere della decorazione detta «a grottesca» compare a Roma all'inizio del Cinquecento. La sua diffusione fu rapidissima nell'affresco, nell'arazzo, nella grafica, nella scultura. Esso consiste in motivi decorativi fantastici dove si mescolano elementi vegetali a elementi animali, invenzioni burlesche a ornati mostruosi. Il punto di partenza di questo genere decorativo di stravaganti pitture (Pirro Ligorio) è la scoperta nelle grotte dell'Esquilino della Domus Aurea di Nerone di motivi decorativi a stucco. Tali modelli antichi vengono rielaborati intorno agli anni 1520-30 nelle botteghe di Raffaello e di Giulio Romano. Altri sviluppi sensazionali si registrano intorno agli anni 1530-40 nell'ambito della scuola di Fontainebleau. La fortuna della grottesca continuerà ben oltre il secolo XVI.

Due le leggi che determinano ieri come oggi il fascino irresistibile delle grottesche: la negazione dello spazio e la fusione della specie, la mancanza di gravità delle forme e la proliferazione insolente di ibridi. [...] Un puro prodotto dell'immaginazione, nel quale si condensano le fantasie, di una vitalità torbida e sfuggente a un tempo, ma nettamente erotizzata nel dettaglio. Il campo delle grottesche è dunque quasi l'esatta antitesi di quello della rappresentazione, dove le norme erano definite dalla visione «prospettica» dello spazio, dalla distinzione e caratterizzazione dei tipi (Chastel, 1989).

Connesso con il genere della grottesca è per certi versi il genere del capriccio. Nel secolo XVI il capriccio figurativo, analogamente a quello letterario e musicale, corrisponde a invenzione bizzarra e scherzosa. Il capriccio si afferma nel XVII e nel XVIII secolo. Autori di capricci nel Seicento sono per esempio Callot e Stefano della Bella, autori di opere grafiche (incisioni) di «inventioni copiose, capricciose, bizarre, di figure picciole» (Scannelli, 1657). Nel settecento famose sono le invenzioni capricciose di Salvator Rosa, Piranesi, Watteau, Tiepolo, Guardi e Goya. Capricci furono definiti dagli scrittori contemporanei i porti, le battaglie, le marine, gli incantesimi di Salvator Rosa; le Carceri incise di Piranesi; i Petits sujets galants di Watteau; la serie di stampe pubblicate nel 1749 dallo Zanetti di Giovan Battista Tiepolo; le «vedute» di Francesco Guardi e infine Los Caprichos di Francisco Goya. La fortuna dei capricci dura nell'Ottocento sino all'età postromantica. Nell'ambito dei generi bizzarri un posto a sé stante ha la cosiddetta anamorfosi o rappresentazione deformata, virtuosistica e illusiva degli oggetti reali, fondata sull'uso rovesciato dei sistemi della prospettiva lineare (Baltrusaitis, 1978). La pittura anamorfica si riscontra nel Cinquecento a partire da Leonardo (disegni nel Codice Atlantico) e si diffonde nel manierismo con le sperimentazioni della prospettiva. Maestri dell'anamorfosi sono i tedeschi Erhard Schòn e Hans Holbein; questi, negli Ambasciatori della

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National Gallery di Londra ne ha fornito un esempio tra i più noti. Nell'età barocca va studiato in relazione agli interessi per l'esoterico e gli effetti della maraviglia.

Finestre, cornici. L'iconografia della finestra occupa un ruolo fondamentale nell'economia del quadro. Sottolinea infatti il rapporto interno/esterno; è l'elemento che isola il paesaggio e gli dà significato; «la finestra isola un frammento (di natura) e gli permette di proporsi come nuova totalità» (Stoichita,1998). Il tema iconografico della finestra viene introdotto nel quattrocento (per esempio dai van Eyck), si sviluppa rapidamente nel Cinquecento e nel Seicento (vedine l'uso in Tiziano, in Vermeer, Jan Porcellis, van Dyck). «La finestra dipinta è quel che resta di un interno dal quale il paesaggio si distacca, ma grazie al quale è definito» (Stoichita, 1998). La finestra delimita il campo visivo, afferma uno spazio «altro». Diversa è la raffigurazione di una cornice in un quadro. Essa ha il significato di forzare, evidenziare i limiti del quadro; di farlo apparire maggiormente; serve a eliminare la cesura tra immagine e realtà. La raffigurazione della cornice come parte dell'immagine entra nel Quattrocento (Hans Memling), e si sviluppa nel Cinquecento (Jan Gossaert). Talora sulla balaustrata di una finta cornice l'artista (come per esempio Antonello da Messina negli Ecce homo o nei Ritratti) appone anche un cartellino illusivo con il suo nome o la data dell'opera. È un ulteriore elemento dell'immagine; fa parte del testo figurato, completandolo. Finestre, cornici, cartellini, intesi come elementi iconografici, parti integrali del soggetto rappresentato possono anche essere definiti elementi intertestuali, cioè di collegamento con altri presenti nell'immagine (per esempio la doppia immagine, che talora si riscontra nei dipinti quattrocenteschi fiamminghi, sullo sfondo di una scena principale e che a essa si collega nell'allusione e nel significato).

I pendants. «En terme de peinture, on appelle pendants deux ta-bleaux d'égale grandeur, et peints a peu près dans le meme gout» (Dictionnaire de l'Académie française, 1162). Si tratta cioè di dipinti di formato uguale, concepiti in paio e destinati ad essere disposti simmetricamente sulla parete. Hanno il significato iconografico di comunicare al fruitore un'immagine doppia di contenuto simile, ma che si completa nelle sue rappresentazioni. Questi dipinti, che nascono come «compagni», sono impiegati per il genere ritrattistico (ritratto di due sposi, per esempio), la natura morta, le figure mitologiche, le figure allegoriche, i paesaggi ecc. Si incontrano già nelle Fiandre del secondo Quattrocento (ad esempio Hans Memling), ma si sviluppano poi nel Cinquecento e durante l'età barocca. Per il secolo XVI possiamo ricordare le poesie di Tiziano, i pendants di Veronese, di soggetto mitologico. Durante l'età barocca il pendant conosce una straordinaria fortuna specialmente nel mondo nordico (pittori di pendants sono per esempio Baburen, Bor, Hals, Rembrandt, Terborch). Il pendant durante il Seicento e Settecento è richiesto per la particolare configurazione dell'allestimento delle quadrerie: le quali presentano, a questo proposito, pendants di uno stesso autore, di autori diversi che possono presentare motivi iconografici o stilistici speculari o simmetrici.

Trompe-l'oeil. Il trompe-l'oeil è un genere iconografico (ma anche un mezzo stilistico) che si fonda sulla resa illusionistica di un aspetto della realtà rappresentata. Se il termine fu introdotto nella letteratura artistica francese per indicare figurazioni che simulavano specialmente oggetti di natura morta, rappresentazioni illusionistiche si riscontrano ben prima dell'età barocca. Già nell'antichità classica (affreschi con i pesci del I secolo a.C, Napoli, Museo nazionale); poi nelle tarsie lignee quattrocentesche, quindi nell'uso delle figurazioni a monocromo (o a grisaille) da parte dei pittori del Quattrocento e del Cinquecento che vogliono imitare la scultura (Foppa, Correggio, Parmigianino, Scuola di Raffaello), delle cosiddette facciate dipinte (con esempi a Roma nella bottega di Polidoro da Caravaggio e nell'Italia settentrionale: Genova, Saluzzo, Feltre). Infine delle tavolette da soffitto: tipologia quest'ultima che si origina nel mondo medievale e che si diffonde nel Quattrocento e poi nel Cinquecento, soprattutto nell'Italia settentrionale; e che illustra, prevalentemente, episodi storico-cavallereschi (tornei, incontri amorosi, battaglie), figure religiose (angeli), ritratti di uomini illustri del passato (imperatori romani) e di personaggi contemporanei, accompagnati da motivi araldici, allegorici o semplicemente decorativi.

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5.3 Immagini e fonti storiche e letterarie

Un altro passaggio orientato a scoprire la particolare tipologia nell'iconografia che si sta studiando è la ricerca della fonte letteraria a cui l'immagine talvolta si ispira. Le fonti letterarie che possono avere dato spunto a un testo figurativo sono di due tipi. Al primo appartengono quelle fonti e quei testi largamente diffusi nella cultura occidentale, e quindi di facile conoscenza, che sono stati un punto di riferimento per gli artisti nelle loro scelte iconografiche. Tra questi primeggiano naturalmente i testi biblici (dell'Antico come del Nuovo Testamento), a cui si affiancano, per importanza e uso, i testi apocrifi, i leggendari, le vite dei santi e taluni testi poetici classici. Tra questi ultimi, una grande diffusione e utilizzo da parte degli artisti ebbero, tra i testi tardo medievali, la Leggenda aurea di Jacopo da Varagine del secolo xrv e le Metamorfosi di Ovidio, che ebbero molte ristampe nel Rinascimento e nell'età barocca. Al secondo appartengono invece quelle testimonianze scritte che, se pure largamente diffuse all'epoca in cui sorge l'immagine, sono oggi meno note e comportano quindi, per il loro recupero, lo studio comparato delle immagini con il committente e il suo ambiente culturale, con l'artista e la destinazione dell'opera. Questo ultimo gruppo di fonti letterarie è di solito diffuso in ambienti particolarmente colti, e la ricerca e identificazione di esso risulta quindi più complessa e sofisticata. Qualche esempio dal periodo tardogotico all'età barocca. Per il gotico internazionale possiamo citare il ciclo di affreschi eseguiti alla fine del Trecento nella cascina La Torre a Frugarolo presso Alessandria e ora conservati nella Pinacoteca di questa città. Il ciclo, opera di maestranza anonima di cultura lombarda, è ispirato al romanzo francese detto Lancelot du Lac, che è la terza parte della saga cavalleresca in prosa convenzionalmente intitolata Vulgate arthurienne o Lancelot-Graal, la quale narra le vicende guerresche e amorose di Lancillotto (Meneghetti, 1999). Per il XV secolo si può menzionare il ciclo dei Mesi dipinto ad affresco nel palazzo di Schifanoia a Ferrara, che si ispira direttamente ad un poema didattico astrologico del poeta latino Manilio, intitolato Astronomica. Tale testo, come ha dimostrato Aby Warburg (1922), era ben conosciuto alla corte estense tramite l'astrologo di fiducia del duca, Pellegrino Prisciani. Nelle sue incisioni, Dürer, frequentatore di dotti e di umanisti, spesso si ispira a testi sofisticati noti e diffusi nella cerchia di amici che l'artista abitualmente frequentava. Così, per esempio, per le Quattro streghe del 1497, segue il Malleus Maleficarum, manuale sulle streghe apparso nel 1487; per il bulino con il Sogno del dotto, 1498 ca, ricorre al Narrenschift dell'umanista Sebastian Brant (Panofsky, 1967). Per il Cinquecento si può invece ricordare l'esempio di Giorgione, la cui frequentazione dell'ambiente raffinato e colto della corte umanistica di Caterina Cornaro ad Asolo è più che probabile (Wittkower, 1978); nel misterioso dipinto dei Tre Filosofi di Vienna l'artista ricorre ad una fonte assai nota e diffusa nel primo Cinquecento (veneziano). Si tratta dell’Opus imperfectum in Mattheum, dove si descrive l'osservazione del cielo e della grotta sul Mons Victorialis da parte dei sapienti (nel testo dodici), per scoprirvi gli indizi della venuta del Messia (Wilde, 1932). La fonte che ha ispirato la decorazione ad affresco del Camerino del Palazzo Farnese a Roma, eseguita da Annibale Carracci, è stata correttamente individuata in un carme composto da Odoardo Quarenghi per Odoardo Farnese nel 1586, allorquando quest'ultimo non era stato ancora nominato cardinale (Volpi, 1999). Il famoso gruppo statuario con II ratto di Proserpina che Gian Lorenzo Bernini scolpisce tra il 1620 e il 1621 si ispira invece, probabilmente, ad un trattato perduto di Porfirio (De cultu simulacrorum), che conosciamo attraverso Vincenzo Cartari, suggerito all'artista dal committente cardinale Scipione Borghese (Winner, 1998).

5.3.1 Rapporto immagine-fonte letteraria

Più complesso, dopo l'accertamento della fonte che ha ispirato l'immagine, è chiarire in quale maniera l'artista l'abbia utilizzata nella sua opera. L'artista, infatti, può comportarsi un due modi. Può, innanzi tutto, tradurre visivamente alla lettera, senza cambiamenti di sorta, il testo di partenza; può sottoporlo a variazioni; può, infine, utilizzare in maniera combinata, o «incrociata», due o più fonti letterarie diverse in una sola immagine.

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Primo caso: traduzione letterale della fonte letteraria. Giotto e il suo cantiere nelle ventotto Storie francescane della Basilica Superiore di Assisi (1296-1304), come dimostrano anche le didascalie sottostanti, oggi per gran parte frammentarie, seguono la biografia del Santo scritta da Bonaventura da Bagnoregio, terminata nel 1263, nota come Leggenda maggiore. In quasi letterale corrispondenza con il testo scritto, gli episodi raffigurati nell'affresco evidenziano i seguenti aspetti della personalità di Francesco: il senso profetico delle sue azioni; l'identificazione con Cristo, sia nella carne che nello spirito (alter Christus); il rapporto armonico con gli uomini e il creato; la sottomissione alla Chiesa (Frugoni, 1995). Masaccio, nel Tributo della moneta del ciclo con le storie di San Pietro eseguito nella Cappella Brancacci al Carmine di Firenze tra il 1425 e il 1428, riproduce alla lettera l'episodio, articolato in tre tempi, narrato da Matteo (27, 23; quesito posto dagli Apostoli a Cristo, pesca del pesce con la moneta, atto del tributo).

Secondo caso: variazione dell'immagine rispetto alla fonte ispiratrice. La variazione può seguire quattro forme: mutazione degli elementi descrittivi; eliminazione di taluni elementi che compaiono nella fonte scritta; sintesi essenziale degli elementi costituitivi il testo ispiratore; arricchimento del testo con elementi nuovi. Un esempio di mutazione degli elementi descrittivi rispetto alla fonte letteraria ispiratrice si riscontra nel dipinto con lo Sposalizio mistico di Santa Caterina eseguito da Giovanni di Pietro, ora nel Museo Nazionale di San Matteo a Pisa. Il dipinto si ispira al brano della Legenda maior di Raimondo da Capua. Le variazioni dell'immagine rispetto alla descrizione letteraria sono le seguenti: la santa che nel testo letterario prega in una grotta nel dipinto viene raffigurata sulla soglia di una cella; i santi che con Cristo nel testo sono indicati a fianco di Santa Caterina, al contrario sono circondati da cherubini e si protendono verso di lei dal cielo. Si riscontra invece una riduzione degli elementi (e degli attributi) presenti nel testo letterario là dove l'artista, nell'immagine, volutamente li trascura. Per esempio, nella Resurrezione di Jacopo di Cione della National Gallery di Londra la raffigurazione del Cristo che si libra sul sepolcro chiuso non corrisponde alla descrizione dei Vangeli, dove vengono indicati soltanto l'Angelo, le Marie e il sepolcro vuoto. Frequente è il caso in cui un episodio viene tradotto nell'immagine con una semplificazione dei suoi elementi narrativi e compositivi, puntando invece alla raffigurazione del momento culminante, e ritenuto più importante dell'intero episodio. Come per esempio nel disegno di Bernardo Castello dell'Accademia Ligustica di Genova, dove il brano della Gerusalemme di Torquato Tasso (canto dodicesimo), con la morte di Clorinda tra le braccia di Tancredi, viene ridotto al momento culminante dell'azione. Un arricchimento del testo è rappresentato invece dalla presenza nell'immagine di particolari che non compaiono nella fonte letteraria. Tipica è la scena del Viaggio dei Re Magi descritta da Matteo (2, 9-10), che spesso nelle immagini si arricchisce di particolari esotici non citati dall'Evangelista (per esempio nel famoso Viaggio dei re Magi di Benozzo Gozzoli in Palazzo Medici-Riccardi a Firenze). Per incrocio, infine, s'intende, l'uso combinato di due o più fonti in un medesimo testo figurativo. Caso tipico è costituito dal dipinto con Marte, Venere e Satiri di Sandro Botticelli ora alla National Gallery di Londra. L'artista infatti s'ispira ad un brano del Symposium di Marsilio Ficino che unisce ad un passo dei Dialoghi Luciano. Un altro esempio è la figurazione delle Storie di Sant'Orsola eseguite da Vittore Carpaccio per la scuola omonima tra il 1490 e il 1495 ca (oggi i teleri si trovano nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia). In esse si giustappongono o utilizzano «per incrocio» due fonti agiografiche: la Legenda aurea, con i passi relativi al Martirio delle Undicimila vergini, a sua volta trasposta assai liberamente; e la Legenda di santa Guglielma figlia del re d'Inghilterra e sposa del re d'Ungheria (Mason, 2000). S'ispirano infatti alla lettera alla prima fonte gli episodi del ciclo con l'Arrivo degli ambasciatori, il Sogno di Sant'Orsola, l'Arrivo a Roma, l’Arrivo a Colonia, il Martirio dei Pellegrini, le Esequie di Sant'Orsola, l'Apoteosi della Santa. Gli episodi con la missione diplomatica sono invece ricostruzioni d'invenzione rispetto al racconto letterario. Seguono invece la seconda fonte agiografica gli episodi con l'Incontro e la Partenza dei fidanzati.

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5.3.2 Fraintendimenti iconografici

Molto spesso si è assistito da parte della critica, a fraintendimenti sulla autentica fonte letteraria o storica che sta all'origine di un'opera d'arte. Tali fraintendimenti hanno portato a una distorsione dell'interpretazione storica e del significato dell'opera stessa. Anche grandi studiosi, in passato, sono incorsi in questo tipo di infortuni. Erwin Panofsky, studiando un famoso disegno di Rembrandt raffigurante Un vescovo (Chatsworth, Devonshire Collection, Benesch, 1954-57, n. 120), riteneva fosse un santo agostiniano; e spiegava questa raffigurazione con la diffusione dell'agostinismo nell'Olanda del XVII secolo ad opera di Cor-nelis Jansen, fondatore del Giansenismo e vescovo di Ypres, che morendo nel 1638, lasciò manoscritta un'opera intitolata appunto Augustinus. Henri van de Waal ha però dimostrato che il significato iconografico di questo disegno, risalente al 1638 ca., non è da collegare con la diffusione di questo ordine religioso in Olanda. Al contrario, è un'illustrazione di una scena della tragedia di Joost van den Vondel, Gijsbreght van Aemstel, rappresentata appunto ad Amsterdam nel 1638. Roberto Longhi nel saggio su Correggio (1956) ritiene, in maniera del tutto improponibile, che la figurazione della Camera di San Paolo a Parma del Correggio sia un'allegoria venatoria; identificando Diana con Giovanna, la badessa del monastero e committente dell'opera. Un altro esempio, tra i fraintendimenti significativi più recenti, coinvolge due tavole di Giacomo Jaquerio, conservate nel Museo Civico di Torino, raffiguranti due episodi della storia di San Pietro. La prima è la Liberazione dal carcere, la seconda la Chiamata del Santo. Fonte iconografica certa della seconda, per Enrico Castelnuovo e Giovanni Romano (1979) è il testo evangelico di Matteo (14, 22-32), che descrive il salvataggio di Pietro dalle acque, da parte di Cristo, durante una tempesta notturna. Sia i gesti del Cristo che quelli di San Pietro, ad una lettura meno superficiale e distratta dei testi sacri, conducono invece all'episodio della chiamata o vocazione da parte di Gesù, qui colto nell'atto del seminare, commentato invece da Matteo (4,18-19; Piccat, 1999). La tavola si lega alla prima con la Liberazione dal carcere di Pietro, la cui fonte inequivocabile è Atti 12, 22. L'attributo delle catene mostrate da Pietro, anziché abbandonate come precisa il testo sacro, ha suggerito erroneamente (Castelnuovo, Romano, 1979), che si tratti di un riferimento alla dedicazione di San Pietro in Vincoli della cattedrale di Ginevra e quindi ha portato a pensare ad una provenienza ginevrina delle due tavole, parti forse di un complesso pittorico più vasto e articolato. L'identificazione del devoto e dello stemma nella tavola con la Liberazione di San Pietro con Vincenzo Aschieri, abate della Novalesa tra il 1388 e il 1452, i cui monaci edificarono ad Avigliana una chiesa dedicata a San Pietro in Ferronia, ha indotto al contrario, e in maniera ben più documentata e corretta, ad ipotizzare piuttosto una provenienza dei dipinti da quest'ultimo edificio, e a scartare definitivamente la fantasiosa ipotesi precedente.

5.4 Programmi iconografici

L'elaborazione di un programma iconografico che ispira una determinata figurazione, dal Medioevo alla fine dell'età barocca, spetta in genere al committente e ai suoi consulenti (teologi, umanisti, uomini di cultura). Per esempio nel Medioevo, il ciclo di affreschi di recente recuperato nel sottotetto della cattedrale di Aosta, che risale al periodo 1031-1040, presenta un programma iconografico molto preciso. Intanto le storie di Sant'Eustacchio, originate da una leggenda orientale, penetrate in Oriente nell'VIll secolo, ispirate a una vita latina abbreviata del santo; quindi episodi della vita di Mosè seguiti da episodi della parabola del povero Lazzaro; infine gli antenati di Cristo e la schiera dei vescovi raffigurati a mezzo busto. Il ciclo, che è dello stesso atelier pittorico di quello che decora il sottotetto della chiesa di Sant'Orso pure ad Aosta, si deve forse all'iniziativa duel vescovo di Aosta Anselmo. Di nobile famiglia borgognona, nel 1002 è preposto dell'abbazia di Saint-Maurice d'Agaune, sede della cancelleria reale. Morto nel 1026, gli succede il nipote Burcardo, che fu vescovo di Aosta tra il 1022 e il 1031 allorquando usurpò la sede vescovile di Lione. Nel 1036 venne deposto e relegato a Saint Maurice d'Agaune come abate, carica che tenne sino alla morte (1046 ca). Nel Trecento, un esempio importante di programma iconografico è quello illustrato da Andrea da Firenze nella decorazione del Cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze (1366-68). Il programma ispirato allo Specchio di vera penitenza di Jacopo Passavano, svolge il tema della

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dottrina della Chiesa e della glorificazione delle attività dell'ordine domenicano, a cui si legano concettualmente le scene della passione, resurrezione e pentecoste con la storia di San Pietro Martire. Nel Quattrocento, il programma iconografico per la seconda porta del Battistero di Firenze, detta del Paradiso, eseguita da Lorenzo Ghiberti tra il 1425 e il 1452, fu elaborato dall'umanista Leonardo Bruni. Questo programma prevedeva la suddivisione della porta in ventotto riquadri o compassi con storie del Vecchio Testamento, successivamente ridotti a venti. Nel programma scritto, l'umanista aretino dichiara esplicitamente, che, oltre a scegliere il tema iconografico, era responsabile del risultato formale ed estetico dell'opera. Nel secolo XVI, tra i molti programmi iconografici elaborati possiamo ricordare, per esempio, quello delle Stanze della Segnatura di Raffaello in Vaticano, quello per la Camera di san Paolo del Correggio a Parma e quello di Annibal Caro per la Camera dell'Aurora nel palazzo di Caprarola. Il programma iconografico della Stanza della Segnatura realizzato da Raffaello e dalla sua bottega tra il 1508 e il 1511 mirava ad esaltare le tre massime categorie dello spirito umano: il vero, il bene e il bello (Shearman, 1983). Il vero è l'aspetto soprannaturale rappresentato dalla ricerca teologica e filosofica e visualizzato nelle immagini della Disputa del Sacramento e della Scuola di Atene. Il bene è il principio oggettivato giuridicamente nella legge e visualizzato dalla personificazione delle virtù teologali e cardinali, da Papa Gregorio che approva le Decretali e da Triboniano che consegna le Pandette a Giustiniano. Il bello identificato con la poesia è visualizzato nella rappresentazione del Parnaso. Non sappiamo con certezza chi sia stato l'autore del programma commissionato da Giulio II: Inghirami, Sannazzaro, Giovio o Bembo. Il programma iconografico della Camera di san Paolo a Parma, realizzata dal Correggio nel 1518-19, è verosimilmente ideato dalla badessa Giovanna Piacenza su probabile consiglio del consigliere letterario, il protonotario apostolico Bartolomeo Montino, umanista dotto, decano dei canonici della cattedrale; o dell'umanista Giorgio Anselmi di Parma, studioso di classici greci e latini, collezionista di monete e libri. Il programma della stanza, secondo l'interpretazione di Panofsky (1961) simbolizza le virtù della badessa {speculum morale), i quattro elementi naturali (speculum naturale) e infine la presenza della divinità {speculum doctrinale). Per gli affreschi di Taddeo Zuccari nella sala dell'Aurora del Palazzo farnesiano di Caprarola il programma iconografico venne redatto da Annibal Caro. In una lettera del 1560 egli suggerisce nei dettagli la composizione iconografica. Il fregio doveva essere a grottesche o a piccole scene con figure minuscole in accordo con la rappresentazione sottostante. Accanto all'aurora dovevano poi figurare artigiani, e lavoratori di ogni sorta, i quali appena alzati iniziano le loro occupazioni; infine una serie di personificazioni allegoriche (la Solitudine, la Tranquillità, il Sonno). Per l'età barocca possiamo innanzi tutto citare il grandioso affresco che Pietro da Cortona eseguì per la decorazione del Salone centrale di Palazzo Barberini a Roma e la serie dei Sette sacramenti eseguiti da Nicolas Poussin tra il 1636 e il 1642 (la seconda serie per Chantelou risale al 1644-48). Il programma del grande affresco che Pietro da Cortona raffigurò nel salone centrale di Palazzo Barberini a Roma tra il 1632 e il 1637 fu elaborato da Francesco Bracciolini, poeta della cerchia del cardinale Francesco Barberini. La base concettuale di questo programma è contenuta nel poema edito a Roma nel 1624, dal titolo L'Electione di Urbano ottavo.

La scena centrale e l'azione del soffitto Barberini riflettono una struttura mentale astratta fondata su un concetto araldico: la Divina provvidenza ordina al-rimmortalità di incoronare con un diadema di stelle le tre Api dell'insegna dei Barberini mentre salgono in formazione. Le tre Virtù Teologali a turno incoronano le api con rami di lauro, simbolo di immortalità, come le personificazioni di Roma e della religione incoronano il gruppo con la tiara papale e le chiavi. L'insieme simboleggia l'elezione di Urbano al soglio pontificio Divina Provi-dentia Pontifex Maximus, preannunciato dall'arrivo al conclave di uno sciame di api (provenienti dalla Toscana, terra di origine dei Barberini). Medaglioni istoriati agli angoli della cornice centrale simboleggiano le quattro virtù cardinali; scene narrative isolate o episodi nei riquadri illustrano le altre virtù del papa. Come osservano esegeti del tempo, le stesse api nel soffitto del salone

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simboleggiavano la Divina Provvidenza (Beldon Scott, 1997).

Committente della serie poussiniana dei Sette sacramenti fu invece Cassiano dal Pozzo, che aveva destinato i dipinti per il proprio palazzo di via de' Chiavari a Roma, e che ne ispirò, verosimilmente, anche il programma iconografico. L'iconografia dei Sacramenti è allusiva al tema della Grazia ottenuta dall'uomo soltanto con i Sacramenti e l'attualità di questo concetto, ribadita da scritti coevi in polemica con i protestanti, come per esempio l’Assertoriorum Catholicarum libri tres (1629) del letterato scozzese George Conn, amico di Cassiano che era stato inviato da Urbano Vili alla corte inglese di Carlo I (Contardi, 2000). Nei documenti che possediamo è possibile stabilire in quale misura le indicazioni programmatiche iconografiche siano precise o meno. In generale si può dire che le prescrizioni diventano sempre meno generiche e più dettagliate con il trascorrere dei secoli. In generale si è notato che nel tardo Cinquecento e poi nell'età barocca, rispetto al Medioevo e al Quattrocento, i programmi diventano sempre più minuziosi.

I miti e le leggende che inquadrano ciascun attributo o ciascuna allegoria sono molto più importanti che il discorso d'insieme che le lega l'uno all'altro. Questa moltiplicazione di citazioni, questo gusto per la giustapposizione delle fonti li si ritrovano dappertutto (oltreché nei programmi iconografici) nei prodotti culturali del XVI secolo (Hochmann, 1994).

5.5 Uso e applicazione degli schemi iconografico-compositivi: tradizione e innovazione

Per costruire un'immagine iconografica un'artista trae ispirazione da una fonte letteraria. Tuttavia, la traduzione dell'episodio descritto nella fonte letteraria nella composizione figurata non è atto diretto e automatico. L'artista infatti ricorre a schemi compositivi già elaborati dalla tradizione o dalla cultura figurativa a lui coeva. L'utilizzazione può avvenire in maniera letterale, trasferendo cioè direttamente nella sua opera uno schema già anteriormente preparato, senza variazioni di sorta; o, al contrario, può variare questo schema di partenza. Infine, la variazione può condurre all'innovazione. Quest'ultima deriva dall'incontro di esperimento e formula, e dal graduale abbandono di quest'ultima. Prendiamo per esempio il tema iconografico dell'Ultima Cena che è uno di quelli più studiati dagli artisti dal Medioevo all'età moderna. Nel corso dei secoli lo schema della cena non è fisso. Differenti sono le soluzioni date alla forma del tavolo (semicircolare, circolare, rettangolare). Non univoca è la posizione del Cristo (capotavola oppure al centro fra gli Apostoli). Gli Apostoli sono, a loro volta, disposti intorno al tavolo oppure lungo il lato maggiore. Diversa è l'individuazione di Giuda nella Cena: isolato dagli altri Apostoli; alla destra del Cristo insieme ai dodici, ma distinto dall'aureola nera o privo addirittura di questo attributo; contraddistinto dal gesto rivolto al Cristo che gli offre il boccone. Gli artisti adottano di volta in volta questi schemi mantenendoli fissi, intercambiandoli o variandoli. L'innovazione avviene per esempio con Leonardo, che nel Cenacolo milanese introduce con la variazione degli schemi studiati della tradizione toscana e lombarda precedente (Rossi-Rovetta, 1988; Marani, 2001), l'innovazione dei raggruppamenti triadici degli Apostoli e la rappresentazione del loro turbamento e della loro emozione.

5.6 Iconografia, iconologia, icnografia

L'iconografia si differenzia dall'iconologia. La prima è una disciplina che si propone di descrivere, classificare e interpretare i soggetti e i temi figurati di una determinata opera d'arte. La seconda ha invece per scopo quello di studiare i significati simbolici, emblematici e allegorici delle opere d'arte. Con molta efficacia l'Hoogewerff (1931) paragonava lo studio dell'iconografia a quello della geografia (descrizione e classificazione dei fenomeni della terra) e la ricerca iconologica a quello della geologia (spiegazione dei meccanismi che presiedono a questi fenomeni).

Iconografia. Disciplina ausiliaria della storia dell'arte, ma per certi aspetti un momento della stessa ricerca storico-artistica, che ha per oggetto la classificazione, la descrizione e la interpretazione di temi figurati: così intesa l'iconografia è necessaria premessa dell'iconologia, che intende chiarire il significa-to e le motivazioni dei diversi temi, tenendo conto delle varie implicazioni (simboliche, emblematiche,

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allegoriche ecc.) (Grassi, Pepe, 1978).

L'icnografia, infine, è la descrizione di una pianta di un edificio.

La pianta è la sezione orizzontale condotta su un edificio; viene praticata di solito all'altezza delle finestre; dà una rappresentazione in proiezione ortogonale della posizione e dell'ampiezza degli ambienti di un piano, nonché del numero e dimensioni di porte, scale ecc.; mai però delle rispettive altezze (Pevsner, Fleming, Honour, 1981).

La descrizione icnografica porta a classificare i vari tipi di piante e le loro caratteristiche specifiche. Nell'architettura antica, com'è noto, le piante si distinguono nelle tipologie di centrale, ellittica, longitudinale, a croce, bastionata. Nell'architettura del Novecento subentra invece la pianta libera, non legata cioè a schemi geometrici regolari, ma connessa piuttosto alle diverse funzioni dell'edificio.

5.7 Valore simbolico degli elementi iconografici

Ciascun elemento iconografico assume nel corso dei tempi un preciso significato simbolico. A cominciare dal colore. Esso nel Medioevo e fino al Quattrocento era scelto con precisi riferimenti allegorici. Il bianco significava l'innocenza e la purezza; il rosso la carità, l'amore e l'ardente desiderio di virtù; il giallo oro la divinità e la maestà; il nero l'umiltà e la tristezza; l'azzurro la fedeltà, la costanza e il raccoglimento di fronte alla divinità; il verde la libertà, la bellezza, la salute e la dolcezza; l'arancio la fama incostante.