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LE BELLEZZE DI NAPOLI Raccolta di leggende napoletane a cura della classe II (Secondaria di I grado) Istituto “Maria Ausiliatrice”

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Allegato al giornalino realizzato dalla classe II della Scuola Secondaria superiore di I grado "M. Ausiliatrice" di Napoli per il PROGETTO MEDI@PLAY

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LE BELLEZZE

DI NAPOLI

Raccolta di leggende napoletane a cura della classe II (Secondaria di I grado)

Istituto “Maria Ausiliatrice”  

 

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AUTORI DELLE RICERCHE

ALIMONDA Ilaria

ALLEONATO Michela

AVAGNANO Giada

BIANCO Cristina

BORRELLI Mario

CAPASSO Anna Clara

CASABURO Michela

CATALDO Lucrezia

CATENA Lucia

CONTE Benedetta

D’ANGELO Cristina

DELLA TORRE Ludovica

DE MASI Roberta

FERNANDO Vimuth

FIORE Leonardo

GIRASOLE Fabrizio

GUERRA Claudio

LEONE Gianmaria

LIVERA Mattia

PIPICELLI Luca

POLLICE Gabriele

TUCCILLO Benedetta

PROGETTO GRAFICO

ILLIANO Arianna

LITTA Ferdinando

LUONGO Emanuele

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INDICE

PARTE I I LUOGHI DI NAPOLI

La leggenda di Castel dell’Ovo di Ludovica Della Torre p.1 La leggenda di Castel dell’Ovo di Mattia Livera p.2 La leggenda di Castel dell’Ovo di Gabriele Pollice p.3 La leggenda del Diavolo di Mergellina di Benedetta Tuccillo p.4 Palazzo Donn’Anna di Michela Alleonato p.5 Palazzo Donn’Anna di Lucia Catena p.7 Il Maschio Angioino di Mario Borrelli p.12 Santachiara di Benedetta Conte p.13

PARTE II

I PERSONAGGI DI NAPOLI Le macchine anatomiche del Principe di Sansevero

di Anna Clara Capasso p.15 Il Principe di Sansevero di Gianmaria Leone p.16 La leggenda della Regina Giovanna di Ilaria Alimonda p.17

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La leggenda di Cola Pesce di Vimuth Fernando p.19 La leggenda di Cola Pesce di Fabrizio Girasole p.21 La leggenda del Munaciello di Giada Avagnano p.22

PARTE III LA SIRENA PARTENOPE E ALTRI MITI

La leggenda di Partenope di Cristina Bianco p.24 La leggenda di Partenope di Cristina D’Angelo p.26 La leggenda delle Janare di Michela Casaburo p.27 La leggenda delle Janare di Claudio Guerra p.28 La leggenda dei Maccheroni di Roberta De Masi p.29 La leggenda dei Maccheroni di Luca Pipicelli p.30 Il corno portafortuna e il coccodrillo di Castelnuovo

di Leonardo Fiore p.31 Le scarpette della Madonna Annunziata di Lucrezia Cataldo p.33

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LA LEGGENDA DI CASTEL DELL’OVO

Il Castel dell'Ovo, dopo il Castel Capuano, è il più antico della città di Napoli ed è uno degli elementi che spiccano maggiormente nel celebre panorama del Golfo. Questo edificio può considerarsi una sorta di piccolo paese inglobato nel cuore della città. Il suo nome deriva da un'antica leggenda secondo la quale il poeta latino Virgilio che nel medioevo era considerato anche un mago - nascose nelle segrete dell'edificio un uovo che mantenesse in piedi l'intera fortezza. La sua rottura avrebbe provocato non solo il crollo del castello, ma anche una serie di rovinose catastrofi alla città di Napoli.

Il castello sorge sull'isolotto di tufo di Megaride, propaggine naturale del monte Echia, che era unito alla terraferma da un sottile lembo di roccia. Si ritiene che sia stato quello il punto d'approdo dei cumani che, giunti nel VII secolo a.C., avrebbero fondato il primo nucleo di Palepoli, la futura Napoli. I primi insediamenti risalgono dunque a quell'epoca. Nel I secolo a.C. Lucio Licinio Lucullo acquisì nella zona un fondo assai vasto (che secondo alcune ipotesi andava da Pizzofalcone fino a Pozzuoli) e sull'isola costruì una splendidissima villa, che tra gli altri lussi era dotata - oltre che di una ricchissima biblioteca - di allevamenti di murene, e impreziosita da novità agroalimentari come i peschi importati dalla Persia e i ciliegi fatti arrivare da Cerasunto.

In tempi più oscuri per l'Impero nella metà del V secolo, la villa venne fortificata da Valentiniano III e le toccò la sorte di ospitare il deposto ultimo Imperatore di Roma, Romolo Augusto, nel 476. Già alla fine del V secolo sull'isolotto si insediarono monaci basiliani chiamati dalla Pannonia da una matrona Barbara con le reliquie dell'abate Severino. Allocati inizialmente in celle sparse i monaci

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adottarono nel VII secolo la Regola benedettina. Ludovica Della Torre

CA

LA LEGGENDA DI CASTEL DELL’OVO

Il castel dell’Ovo è il più antico di Napoli ed è uno degli elementi che spiccano maggiormente nel celebre panorama del golfo. Sorge

imponente sull’isolotto roccioso di Megaride costituito da due faraglioni uniti tra loro da un arco naturale. Il suo nome deriva da una antica leggenda secondo la quale il poeta latino Virgilio - che nel medioevo era considerato un mago- nascose nelle antiche segrete dell’ edificio un uovo che mantenesse in piedi l’antica fortezza; la sua rottura avrebbe provocato non solo il crollo del castello, ma anche una serie di rovinose catastrofi alla città di Napoli.

La leggenda ha tenuto per secoli ed il castello non ha mai avuto altro nome. Addirittura al tempo della regina Giovanna il castello subì ingenti danni a causa del crollo dell’arco che unisce i due scogli sul quale è poggiato e, la Regina ,dovette solennemente giurare di aver provveduto a sostituire l’uovo per evitare che in città si diffondesse il panico per timore di gravi sciagure.

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Oggi il castello è adibito a convegni e cerimonie ed è sempre lì,sotto il Vesuvio, nella sfavillante cornice del golfo.

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Contraddizioni e miserie ne vorrebbero appannare lo sfavillio, ma finché c’è l’OVO…

Mattia Livera

LA LEGGENDA DI CASTEL DELL’OVO

Castel dell'Ovo, detto pure castello di Megaride, sorge sull'isolotto collegato alla terra ferma da un ponte artificiale. Il suo nome è legato al poeta Virgilio, che era considerato esoterico, alchimista e guida a tempo perso. Infatti, come è noto, fu lo stesso Virgilio che accompagnò il sommo poeta Dante Alighieri in giro per l'Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso.

L'illustre Virgilio godeva dei favori del mecenate Ottaviano, il quale era come un moderno ricercatore. La sua "amicizia" col mecenate gli permise di studiare e di addentrarsi nel sapere segreto della natura. Imparò, dopo studi approfonditi, il metodo della distillazione, ma siccome veniva da Mantova (Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua rura duces ovvero MI GENERÒ MANTOVA, MI RAPIRONO I CALABRI, ORA MI TIENE NAPOLI; CANTAI I PASCOLI, LE CAMPAGNE, GLI EROI) anche egli, come tutti i suoi connazionali, fu vittima del "pacco" napoletano.

Credendo di fare il solito affare si fece fare uno scartiloffio (MANOVRA TRUFFALDINA INTESA AD AFFIBIARE CARTA STRACCIA INVECE DI BUONA CARTA MONETA) da tre napoletani che gli vendettero un uovo, dicendogli che era magico e che chi lo possedeva avrebbe avuto la vita eterna a patto di pronunciare la formula secreta "AGLIO, FRAVAGLIO, FATTURA CA NUN QUAGLIA, CORNA BICORNA, CAP'ALICE E CAPA

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D'AGLIO" e di nasconderlo in un luogo irraggiungibile, poiché la vita del possessore era legata alla sua integrità.

Virgilio, convinto di aver fatto l'affare si recò al castello di Megaride e dopo aver pronunciato la formula magica fece murare l'uovo nelle fondamenta del castello stesso, avvisando i curiosi ed i male intenzionati che la rottura dell'uovo avrebbe causato la distruzione della città.

Gabriele Pollice

IL DIAVOLO DI MERGELLINA

Messer Diomede era follemente innamorato di donna Isabella, bellissima nobile della Corte Vicerale, per la quale scriveva molte lettere d’amore, ma lei cha aveva fama di donna crudele e disamorata non faceva che sorridere delle sue lettere, giocava con lui come il gatto col topo, lo illudeva, lo blandiva con le sue arti, poi d’impeto lo cacciava nel più profondo sconforto. Abituata a questi sottili stratagemmi, ella si compiaceva di stringere quel cuore in una mano di ferro, lo soffocava a poco a poco e poi ridandogli la vita carezzandolo con mano leggiera e vellutata, si dilettava a far sussultare di dolore quell’anima, gettandola bruscamente nella disperazione…

Donna Isabella dopo un anno di schermaglie disse di amarlo e al povero Diomede sembrò di raggiungere l’estasi, ma breve fu la stagione dell’amore, poco tempo dopo lo abbandonò per altri uomini. Diomede, cieco pazzo d’amore, non comprendeva, soffriva e si ubriacava di quella sofferenza. La passione lo dilaniava, giorno e notte; alla fine si decise ad ordinare un quadro al suo amico pittore Leonardo da Pistoia,

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che avrebbe dovuto dipingere un mostro orribile con il volto della sua Isabella, così ogni volta che l’avesse guardata avrebbe visto un immondo demone tentatore, verso il quale provare solo ribrezzo ed orrore.

E così guarì; vi appose il motto ”Et fecit vittoriam halleluja”, alludendo sia al trionfo di San Michele che al suo; Il viso della donna era talmente bello che i napoletani, come narra Benedetto Croce in Storie e Leggende Napoletane (1919), ne rimasero affascinati a tal punto che ancor oggi per definire una donna che reca solo guai la definiscono “Bella come il Diavolo di Mergellina”. Una copia della tavola, attribuita allo stesso Leonardo da Pistoia, è esposta presso il Museo – Convento di San Francesco dei Frati Minori Conventuali di Folloni frazione di Montella in provincia di Avellino.

Diomede Carafa divenne in seguito cardinale di Ariano, ma non è sepolto nella cappella della chiesa di Santa Maria del Parto dove c’è la sua lastra sepolcrale, ma bensì in Roma dove morì nel 1560. Invece è qui sepolto un giovane di nome Maurizio Manlio, che secondo la leggenda era innamorato di Mergellina, e chiese di morire vedendola e di esservi sepolto.

Benedetta Tuccillo

PALAZZO DONN’ANNA

Palazzo Donn'Anna è un grosso palazzo grigio che si erge nel mare di Posillipo. Non è diroccato, ma non è stato mai finito, le sue finestre alte, larghe, senza vetri, rassomigliano ad

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occhi senz'anima. Di notte il palazzo diventa nero e cupo e sotto le sue volte s'ode solo il fragore del mare. Tanti anni fa, invece, da quelle finestre splendevano le vivide luci di una festa, attorno al palazzo erano ormeggiate tante barchette adorne di velluti e di lampioncini colorati. Tutta la nobiltà spagnola e napoletana accorreva ad una delle magnifiche feste che, l'altera Donna Anna Carafa, moglie del duca di Medina Coeli, dava nel suo palazzo.

Nelle sale andavano e venivano i servi, i paggi dai colori rosa e grigio, i maggiordomi; giungevano continuamente bellissime signore dagli strascichi di broccato e riccamente ingioiellate, arrivavano accompagnate dai mariti o dai fratelli, qualcuna, più audace, arrivava con l'amante. Sulla soglia aspettava i suoi ospiti Donna Anna di Medina Coeli nel suo ricchissimo abito rosso tessuto in lamine d'argento. Era sprezzante ed orgogliosa, godeva senza fine nel ricevere tutti quegli omaggi, tutte le adulazioni. Era lei la più ricca, la più nobile, la più potente, rispettata e temuta. In fondo al grande salone era montato un teatrino per lo spettacolo. Tutta quella eletta schiera d'invitati doveva assistere prima alla rappresentazione di una commedia, poi ad una danza moresca ed infine avrebbero avuto inizio le danze che si sarebbero protratte fino all'alba. La curiosità era data dal fatto che, secondo la moda francese in voga in quei tempi, gli attori sarebbero stati dei nobili, tra i quali vi era Donna Mercede de las Torres, nipote spagnola della duchessa. Donna Mercede era bella, giovane, aveva grandi occhi, neri, come i suoi lunghi capelli. Rappresentava la parte di una schiava innamorata del suo padrone, fedele fino alla morte avvenuta per salvare la vita del suo amato.

La fanciulla recitò con trasporto così come Gaetano di Casapesenna che interpretava la parte del cavaliere, anzi quest'ultimo fu così veritiero nella sua recitazione che, quando nell'ultima scena doveva baciare par l'ultima volta il

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suo sfortunato amore lo fece con tale slancio che la sala intera scoppiò in applausi. Tutti applaudirono, tranne Donn'Anna, che impallidiva mortalmente e si mordeva le labbra per la gelosia. Gaetano di Casapesenna era stato, infatti, l'amante di Donn'Anna. Nei giorni che seguirono le due donne si ingiuriarono più volte violentemente a causa della gelosia di Donn'Anna e del furore giovanile di Donna Mercede.

Un giorno Donna Mercede scomparve, si diceva che fosse stata presa da improvvisa vocazione religiosa e si fosse chiusa in convento. Gaetano di Casapesenna la cercò invano in Italia, Francia, Spagna ed Ungheria, invano pregò, supplicò e pianse ma non la rivide mai più fino a che morì, giovane, in battaglia come si conviene ad un cavaliere. A palazzo seguirono altre feste ed altri omaggi alla potente duchessa che, però, sedeva sul suo trono con l'anima avvelenata dal fiele e col suo cuore arido e solitario.

Michela Alleonato

IL PALAZZO DONN’ANNA

Il bigio palazzo si erge nel mare. Non è diroccato, ma non fu mai finito; non cade, non cadrà, poiché la forte brezza marina solidifica ed imbruna le muraglie, poiché l'onda del mare non è perfida come quella dei laghi e dei fiumi, assalta ma non corrode. Le finestre alte, larghe, senza vetri, rassomigliano ad occhi senza pensiero; nei portoni dove sono scomparsi gli scalini della soglia, entra scherzando e ridendo il flutto azzurro, incrosta sulla pietra le sue conchiglie, mette l'arena nei cortili, lasciandovi la verde e lucida piantagione delle sue alghe. Di notte, il palazzo diventa nero, intensamente nero; sì serena il cielo sul suo capo, rifulgono le alte e bellissime stelle, fosforeggia il mare di Posilipo, dalle

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ville perdute nei boschetti, escono canti malinconici d'amore e le monotone note del mandolino: il palazzo rimane cupo e sotto le sue volte fragoreggia l'onda marina. Ogni tanto, par di vedere un lumicino passare lentamente nelle sue sale e fantastiche ombre disegnarsi nel vano delle finestre; ma non fanno paura. Forse sono ladri volgari che hanno trovato là un buon covo, ma la nostra splendida povertà non teme di loro; forse sono mendicanti che trovarono un tetto, ma noi ricchi di cuore e di cervello, ci abbassiamo dalla nostra altezza per compatirlo. E forse sono fantasmi e noi sorridiamo e desideriamo che ciò sia; noi li amiamo i fantasmi, noi viviamo con essi, noi sogniamo per essi noi moriremo per essi, col desiderio di vagolare anche noi sul mare, per le colline, sulle rocce, nelle chiese tetre ed umide, nei cimiteri fioriti, nelle fresche sale, dove il medioevo ha vissuto.

Fu una sera e splendevano di luce vivida quelle finestre; attorno attorno il palazzo, sul mare, si cullavano barchette di piacere, adorne di velluti che si bagnavano nell'acqua, vagamente illuminate da lampioncini colorati, coronate di fiori alla poppa; i barcaiuoli si pavoneggiavano nelle ricche livree. Tutta la nobiltà napoletana, tutta la nobiltà spagnuola, accorreva ad una delle magnifiche feste che l'altiera Donna Anna Carafa, moglie del duce di Medina Coeli, dava nel suo palazzo di Posillipo. Nelle sale andavano e venivano i servi, i paggi dai colori rosa e grigio, i maggiordomi dalla collana d'oro, dalle bacchette d'ebano: giungevano continuamente le bellissime signore, dagli strascichi di broccato, dai grandi collari di merletto, donde sorgeva come pistillo di fiore la testa graziosa, dai monili di perle, dai brillanti che cadevano sui busti affiliati e seducenti; giungevano accompagnate dai mariti, dai fratelli e qualcheduna, più ardita, solamente dall'amante. Nella grande sala, sulla soglia, nel suo ricchissimo abito rosso, tessuto a lama d'argento, con un lieve sorriso sulla bocca, il cui grosso labbro inferiore s'avanzava quasi in

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atto di spregio, inchinando appena il fiero capo alle donne, dando la mano da baciare ai cavalieri Grandi di Spagna di prima classe come lei, stava Donna Anna di Medina Coeli. L'occhio grigio, dal lampo d'acciaio, simile a quello dell'aquila, rivelava l'interna soddisfazione di quell'anima fatta d'orgoglio: ella godeva, godeva senza fine nel veder venire a lei tutti gli omaggi, tutti gli ossequi, tutte le adulazioni. Era lei la più nobile, la più potente, la più ricca, la più rispettata, la più temuta, lei duchessa, lei signora, lei regina di forza e di grazia. Oh poteva salire gloriosa i due scalini, che facevano del suo seggiolone quasi un trono; poteva levare la testa al caldo alito dell'ambizione appagata che le soffiava in volto. Le dame sedevano intorno a lei, facendole corona, minori tutte di lei: ella era sola, maggiore, unica. In fondo al grande salone era rizzato un teatrino, destinato per lo spettacolo.

Tutta quella eletta schiera d'invitati, doveva dapprima assistere alla rappresentazione di una commedia ed a quella di una danza moresca; poi nelle sale si sarebbero intrecciate le danze sino all'alba. Ma la grande curiosità della rappresentazione era che gli attori, per una moda venuta allora di Francia, appartenessero alla nobiltà. Donn'Anna Carafa di Medina disprezzava i facili costumi francesi che corrompevano la rigida corte spagnuola, ma scrutatrice dei cuori e apprezzatrice del favore popolare com'era, s'accorgeva che quelle molli usanze piacevano ed erano adottate con trasporto. Solo per questo ella aveva consentito che Donna Mercede de las Torres, sua nipote di Spagna, sostenesse una parte nella rappresentazione. Donna Mercede, giovane, bruna, dai grandi occhi lionati, dai neri capelli, le cui trecce le formavano un elmo sul capo, era una spagnuola vera. Ella rappresentava nella commedia la parte di schiava innamorata del suo padrone, una schiava che lo segue dappertutto, e lo serve fedelmente sino a fargli da mezzana d'amore, sino a morire per lui d'un colpo di pugnale, destinato al cavaliere da

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un padre crudele. Ella recitava con un trasporto, con un tal impeto, che tutta la sala si commuoveva, allo sventurato e non corrisposto amore della schiava Mirza: tutti si commuovevano salvo Gaetano di Casapesenna che recitava la parte del cavaliere, ed egli, freddo, indifferente, inconscio, non faceva che rimaner fedele al carattere che rappresentava. Solo, alla fine della commedia, quando la sventurata Mirza ferita a morte, s'accommiata con parole d'affetto da colui che fu la sua vita e la sua morte, allora, egli, cui appare finalmente la verità qual luce diffusa meridiana, preso dall'amore, s'abbandona in ginocchio dinanzi al corpo della poveretta morente e copre di baci quel volto pallido d'agonia.

Invero, egli fu così focoso ditale slancio, così patetica ed improntata di dolore la sua voce, così disordinato ogni suo gesto, che veramente parve superiore ad ogni vero attore, e parve che la verità animasse il suo spirito, sino al punto che la sala intiera scoppiò in applausi. Sola, sul suo trono, tra le sue gemme, sotto la sua corona ducale, Donn'Anna impallidiva mortalmente e si mordeva le labbra. Non era lei la più amata. Le due donne s'incontravano nelle sale del palazzo Medina; si guardavano, Donna Mercede fremente di gelosia, l'occhio nero covante fuoco, smorta, rodendo un freno che la sua libera anima abborriva; Donna Anna, pallida di odio, muta nella sua collera; si guardavano, impassibile e fredda Donn'Anna; agitata e febbrile Donna Mercede. Scambiavano rade ed altere parole. Ma se la gelosia scoppiava irresistibile, l'ingiuria correva sul loro labbro.

Le donne di Spagna sono esse le prime, ad abbandonarsi all'amante - diceva Donn'Anna, con la sua voce dura e grave. Le donne di Napoli si gloriano del numero degli amanti - rispondeva vivamente Donna Mercede. Voi siete l'amante di Gaetano Casapesenna, Donna Mercede. Voi lo foste, Donn'Anna. Voi obbliaste ogni ritegno, ogni pudore, dandoci il vostro amore a spettacolo, Donna

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Mercede. Voi tradiste il duca di Medina-Coeli, mio nobile zio, Donn'Anna Carafa. Voi amate ancora Gaetano Casapesenna. Voi anche lo amate ed egli non vi ama, Donn'Anna. Vinceva la bollente spagnuola e Donn'Anna si consumava dalla rabbia. Ma egualmente l'odio glaciale della duchessa, contro cui si infrangeva ogni slancio di Donna Mercede, tormentava la spagnuola. Esse avevano nel cuore un orribile segreto; esse portavano nelle viscere il feroce serpente della gelosia, esse morivano ogni giorno di amore e di odio. Donn'Anna celava il suo spasimo, ma Donna Mercede lo rivelava nelle convulsioni del suo spirito e del suo corpo.

La duchessa agonizzava, sorridendo; Donna Mercede agonizzava, piangendo e strappandosi i neri capelli. Fino a che ella scomparve d'un tratto dal palazzo Medina-Coeli e fu detto che presa da improvvisa vocazione religiosa, avesse desiderato la pace del convento e fu narrato del misticismo ond'era stata presa quell'anima, e delle lunghe eterne giornate, passate in ginocchio dinanzi al Sacramento, e del fervore della preghiera e delle lagrime ardenti: ma non fu detto né il convento, né il paese, né il regno, dove era il convento. Invano Gaetano di Casapesenna cercò Donna Mercede in Italia, in Francia, in Ispagna ed in Ungheria, invano si votò alla Madonna di Loreto, a San Giacomo di Compostella, invano pianse, pregò, supplicò. Mai più rivide la sua bella amante. Egli morì giovane, in battaglia, quale a cavaliere sventurato si conviene. Altre feste seguirono nel palazzo Medina, altri omaggi salutarono la ricca e potente duchessa Donn'Anna; ma ella sedeva sul suo trono, con l'anima amareggiata di fiele, col cuore arido e solitario. Quei fantasmi sono quelli degli amanti? O divini, divini fantasmi! Perché non possiamo anche noi, come voi, spasimare d'amore, anche dopo la morte?

Lucia Catena

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IL MASCHIO ANGIOINO (O

CASTELNUOVO)

Si dice che nelle fognature di New York, leggenda vuole, abiti un coccodrillo di dimensioni mostruose, beh anche a Napoli, precisamente nel Maschio Angioino nei tempi che furono girava voce vi risiedesse un coccodrillo famelico che si pappava i prigionieri.

Nel castello vi sono due locali sotterranei adibiti a prigioni: uno si chiamava “fossa del miglio” un altro “prigione della congiura dei Baroni”. La “fossa del miglio” era il deposito del grano della corte aragonese, ma venne utilizzata anche per rinchiudervi i prigionieri condannati a pene più dure. La leggenda vuole che i prigionieri scomparissero all’improvviso in circostanze misteriose, aumentata la vigilanza non si tardò a scoprire la causa delle sparizioni: da un’apertura entrava un coccodrillo che azzannava i prigionieri alle gambe e li trascinava in mare. A quanto pare il bestione era arrivato seguendo una nave proveniente dall’Egitto, una volta appurato il fatto si decise che tasle animale era utile nel caso in cui si dovesse far sparire delle persone senza troppo clamore. Infine utilizzando come esca una coscia di cavallo, il coccodrillo fu catturato ed ucciso.

Una volta morto, l’animale venne impagliato ed appeso sulla porta d’ingresso al Castello. Nell’altra sala, a cui si accede attraversando un angusto passaggio, delimitato a destra da una scala a chiocciola in tufo (che conduce alla sovrastante

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Cappella Palatina), troviamo invece quattro bare senza nessuna iscrizione, contenenti delle spoglie mortali, forse quelle dei nobili che avevano partecipato alla congiura dei Baroni nel 1485. Dalla descrizione fatta dal De La Ville Sur-Yllon (1893) risulta che i cadaveri erano vestiti secondo la moda del quattrocento e che uno di questi, forse un prelato, era stato ucciso per soffocamento.

Mario Borrelli

SANTACHIARA

Tra piazza del Gesù nuovo e San Domenico maggiore, c'è un monastero, quello di Santa Chiara. Sarebbe futile sottolineare la maestosità della struttura, è un bellissimo esempio di arte gotica, la cosa che maggiormente lo caratterizza è la tranquillità che si può trovare nel chiosco, angolo di meditazione nel caos di una metropoli in continuo movimento come Napoli. A questa chiesa è legato un grande mistero: la morte della regina Giovanna I d'Angiò. Ella fu uccisa nel 1382 nel Castello di Muro da Carlo III di Durazzo. Purtroppo non venne data degna sepoltura alla regina perchè fu scomunicata dalla chiesa a causa dell'appoggio dato all'antipapa Clemente VII. Si narra che le sue spoglie siano rimaste all'interno del convento, da qui si aleggia la leggenda del suo fantasma. La sua è un' esile figura che si aggira per i vicoletti del centro, passeggia tenendo il capo chino; voci dicono che il suo

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sguardo sia mortale, ma se così fosse nessuno è restato in vita poi per raccontarla. Una delle tante tradizioni napoletane, in uso fino agli anni '60, era quella di "adottare" un teschio che aveva dimora nel cimitero delle Fontanelle. Questo, infatti, era un ossario, situato nella zona della Sanità, in cui furono raccolti, nel corso dei secoli, migliaia di cadaveri. Il massimo affollamento di corpi fu raggiunto durante la peste del 1600. Gli unici cadaveri riconosciuti furono quelli di Filippo Carafa, conte di Cerreto, e sua moglie. L'ossario era uno dei luoghi più inquietanti della città. Nel culto dei morti che vi erano sepolti, la religione si mischiava con la superstizione e la credenza pagana, portando così la chiesa a pronunciarsi contro l'uso di adottare questi crani. Il cimitero è composto da gallerie lunghe ed ampie nelle quali i cadaveri aumentavano sempre più, perché erano inseriti anche i resti dei corpi ritrovati durante scavi archeologici. Voci dicono che un monaco contò fino ad otto milioni di cadaveri. Tornando all'adozione dei teschi, bisogna dire che alla maggior parte dei resti umani raccolti nell'ossario non corrisonde un nome. La gente del popolo si prendeva cura dei loro resti costruendo per loro, a seconda delle diverse disponibilità economiche, dei veri e propri tempietti in cui riporli, anche per protezione. Tali costruzioni potevano essere in marmo o in legno, ma questo era poco importante. Ciò che in realtà contava era avere cura delle anime dei defunti, così che dal Purgatorio potessero arrivare in Paradiso liberandosi. Una ricompensa era data a coloro che se ne prendevano cura, una sorta di "favori dall'oltretomba". La maggior parte delle persone decidevano di curare resti umani per un sogno fatto o

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soltanto per guadagnarsi un posto in Paradiso. Oggi purtroppo non è facilissimo accedere all'ossario: le visite sono consentite soltanto durante il maggio dei monumenti.

Benedetta Conte  

LE MACCHINE ANATOMICHE DEL PRINCIPE DI SANSEVERO

In Napoli nella Cappella dei Sangro principi di San Severo, nota anche come Cappella Sansevero o "La Pietatella", risalente al 1590, edificata come cappella funebre annessa al Palazzo Sansevero sono esposte le cosiddette macchine anatomiche: due corpi, di un uomo e di una donna, nei quali è possibile osservare, in modo molto dettagliato, l'intero sistema circolatorio costituito da vene, arterie e capillari. I due corpi, secondo una leggenda popolare, sarebbero il risultato di esperimenti effettuati da Raimondo di Sangro Principe di San Severo.

Sconcertante è come il sistema circolatorio si sia conservato in modo così dettagliato, visto che è possibile osservare dai vasi più grossi fino ai capillari più piccoli. Secondo la leggenda, il Principe avrebbe usato per i suoi esperimenti due servi e la leggenda vuole che l’esperimento sarebbe stato eseguito su persone viventi.

Al di là della leggenda, grazie anche a documenti rinvenuti in archivi notarili napoletani attestanti un contratto tra il Principe di Sansevero (che si impegnava a fornire "cera colorata" secondo un metodo solo a lui noto) ed il Dottor

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Salerno, e grazie al nome stesso assegnato alle due "macchine" così come risulta, peraltro, da un antico inventario dei beni della Famiglia Sansevero, si ritiene che i due corpi costituiscano una sorta di ausilio didattico realizzato ricostruendo il circuito sanguigno su scheletri autentici mediante fil di ferro e cera colorata (non è possibile un riscontro di tale affermazione giacché l'ente proprietario delle "macchine" non ha mai acconsentito a far eseguire prelievi di materiale da sottoporre ad analisi).

Un esame visivo da parte di medici ha comunque consentito di appurare che vi sarebbero "errori" nella riproduzione del circuito sanguigno, il che andrebbe ad avvalorare l'ipotesi "didattica" delle due "macchine".

Anna Clara Capasso

IL PRINCIPE DI SANSEVERO

La cappella Sansevero è uno dei monumenti più belli di Napoli non solo per la sua struttura o per le opere che contiene, come il Cristo Velato, ma perché legata alla storia di un personaggio molto particolare: il Principe Raimondo di Sangro dei Sansevero di Napoli. Il Principe amava le arti e si dedicava allo studio delle discipline mistiche ed esoteriche; fu anche autore di invenzioni straordinarie e rivoluzionarie (la sua carrozza si muoveva anche grazie ad un motore a propulsione e progettò un mezzo anfibio simile ad un moderno sommergibile). Studiò anche l’occulto e creò, dopo anni di esperimenti, un filtro che faceva resuscitare i morti.

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Il Principe sperimentò su se stesso il filtro; diede ordine al suo schiavo di ucciderlo e di chiudere i resti in un baule che doveva essere aperto dopo un certo numero di giorni, per consentire al filtro di espletare la sua azione. Il baule, però, fu aperto da un nipote del Principe – che voleva ereditare le ricchezze dello zio – prima del tempo previsto. Le spoglie non erano ancora rigenerate e il corpo del Principe si sollevò gridando maledizioni di ogni specie poi ricadde e si sgretolò.

Si racconta che lo spirito inquieto del Principe vaghi tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Ancora oggi, qualcuno sente provenire di notte dalla Cappella il suono di un organo, rumori di catene e la voce del Principe; talvolta si sentono sinistri rumori di ruote di una carrozza che corre nei vicoli adiacenti la Cappella accompagnata da strani bagliori di luce.

Gianmaria Leone

LA LEGGENDA DELLA REGINA GIOVANNA

Sulla città di Napoli hanno regnato tra il XIV e il XV secolo due regine di nome Giovanna, entrambe appartenenti alla famiglia d'Angiò. La prima Giovanna d'Angiò (Napoli, ca. 1327 – Muro Lucano, 12 maggio 1382) fu Regina di Napoli col nome di Giovanna I e Regina titolare di Gerusalemme e Sicilia, Principessa d'Acaia, contessa di Provenza e Forcalquier e nipote di re Roberto; la seconda, nota anche come Giovanna II d'Angiò (Zara, 25 giugno 1373 – Napoli, 2 febbraio 1435), fu Regina di Napoli dal 1414 alla morte. Fu anche regina titolare di Gerusalemme, Sicilia e Ungheria e successe a re Ladislao suo fratello.

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La crudeltà e la ferocia di cui si narra forse sono il risultato di una sovrapposizione delle dicerie sulle due regine che si somigliavano molto caratterialmente, entrambe malvagie, spietate amanti e assassine. Tra le rovine del Castel dell'Ovo, che un tempo era detto "della regina Giovanna" si dice che ci sono ancora le profonde fosse, armate un tempo con punte di spade appuntite e con lame di rasoi, che altro non erano che le trappole nelle quali cadevano o venivano gettati gli amanti della regina. Dalle leggende tramandate nei secoli, gli episodi più crudeli sono probabilmente attribuiti a Giovanna II. Si narra anche che la regina disponesse, all'interno di Castel Nuovo, noto come Maschio Angioino, di una botola segreta: i suoi amanti venivano gettati in questo pozzo e divorati da mostri marini e da un coccodrillo che viveva nei sotterranei del castello.

A parte le leggende popolari, nella realtà si sa che la prima regina Giovanna fece ammazzare, o lasciò morire, il suo giovane marito, Andrea d'Ungheria. Ebbe altri tre mariti e morì strozzata nel castello di Muro per ordine di Carlo di Durazzo. Di lei non esiste in città alcun ricordo, né la tomba, né alcun ritratto certo.

Della seconda, si può vedere la statua nel grande monumento che fece erigere al fratello Ladislao nella chiesa di San Giovanni a Carbonara e la tomba che si trova ai piedi dell'altare maggiore della chiesa dell'Annunziata.

Ilaria Alimonda

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LA LEGGENDA DI COLA PESCE

Una volta a Messina c’era una madre che aveva un figlio di nome Cola, che se ne stava a bagno nel mare mattina e sera. La madre insisteva a chiamarlo dalla riva: - Cola! Cola! Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce? -. E lui, a nuotare sempre più lontano. Alla povera madre veniva il torcibudella, a furia di gridare. Un giorno, la fece gridare tanto che la poveretta, quando non ne poté più di gridare, gli mandò una maledizione: - Cola! Che tu possa diventare un pesce!

Si vede che quel giorno le porte del Cielo erano aperte e la maledizione della madre andò a segno: in un momento, Cola diventò mezzo uomo mezzo pesce, con le dita palmate come un’anatra e la gola da rana. In terra Cola non ci tornò più e la madre se ne disperò tanto che dopo poco tempo morì. La voce che nel mare di Messina c’era uno mezzo uomo e mezzo pesce arrivò fino al Re; e il Re ordinò a tutti i marinai che chi vedeva Cola Pesce gli dicesse che il Re gli voleva parlare. Un giorno, un marinaio, andando in barca al largo, se lo vide passare vicino nuotando. - Cola! – gli disse. – C’è il Re di Messina che ti vuole parlare! E Cola Pesce subito nuotò verso il palazzo del Re. Il Re, al vederlo, gli fece buon viso. - Cola Pesce, – gli disse, – tu che sei così bravo nuotatore, dovresti fare un giro tutt’intorno alla Sicilia, e sapermi dire dov’è il mare più fondo e cosa ci si vede!

Cola Pesce ubbidì e si mise a nuotare tutt’intorno alla Sicilia. Dopo un poco di tempo fu di ritorno. Raccontò che in fondo al mare aveva visto montagne, valli, caverne e pesci di tutte le specie, ma aveva avuto paura solo passando dal Faro, perché lì non era riuscito a trovare il fondo. - E allora Messina su cos’è fabbricata? – chiese il Re. – Devi scendere giù a vedere dove poggia.

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Cola si tuffò e stette sott’acqua un giorno intero. Poi ritornò a galla e disse al Re: - Messina è fabbricata su uno scoglio, e questo scoglio poggia su tre colonne: una sana, una scheggiata e una rotta. O Messina, Messina, Un dì sarai meschina! Il Re restò assai stupito, e volle portarsi Cola Pesce a Napoli per vedere il fondo dei vulcani. Cola scese giù e poi raccontò che aveva trovato prima l’acqua fredda, poi l’acqua calda e in certi punti c’erano anche sorgenti d’acqua dolce. Il Re non ci voleva credere e allora Cola si fece dare due bottiglie e gliene andò a riempire una d’acqua calda e una d’acqua dolce. Ma il Re aveva quel pensiero che non gli dava pace, che al Capo del Faro il mare era senza fondo. Riportò Cola Pesce a Messina e gli disse: - Cola, devi dirmi quant’è profondo il mare qui al Faro, più o meno.

Cola calò giù e ci stette due giorni, e quando tornò su disse che il fondo non l’aveva visto, perché c’era una colonna di fumo che usciva da sotto uno scoglio e intorbidava l’acqua. Il Re, che non ne poteva più dalla curiosità, disse: - Gettati dalla cima della Torre del Faro. La Torre era proprio sulla punta del capo e nei tempi andati ci stava uno di guardia, e quando c’era la corrente che tirava suonava una tromba e issava una bandiera per avvisare i bastimenti che passassero al largo. Cola Pesce si tuffò da lassù in cima. Il Re ne aspettò due, ne aspettò tre, ma Cola non si rivedeva. Finalmente venne fuori, ma era pallido.

- Che c’è, Cola? – chiese il Re. - C’è che sono morto di spavento, - disse Cola. - Ho visto un pesce, che solo nella bocca poteva entrarci intero un bastimento! Per non farmi inghiottire m son dovuto nascondere dietro una delle tre colonne che reggono Messina! Il Re stette a sentire a bocca aperta; ma quella maledetta curiosità di sapere quant’era profondo il Faro non gli era passata. E Cola: - No, Maestà, non mi tuffo più, ho paura. Visto che non riusciva a convincerlo, il re si levò la corona dal capo, tutta piena di

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pietre preziose, che abbagliavano lo sguardo, e la buttò in mare.

- Va' a prenderla, Cola! - Cos’avete fatto, Maestà? La corona del Regno! - Una corona che non ce n’è altra al mondo, - disse il Re. – Cola, devi andarla a prendere! - Se voi così volete, Maestà, – disse Cola - scenderò. Ma il cuore mi dice che non tornerò più su. Datemi una manciata di lenticchie. Se scampo, tornerò su io; ma se vedete venire a galla le lenticchie, è segno che io non torno più. Gli diedero le lenticchie, e Cola scese in mare. Aspetta, aspetta; dopo tanto aspettare, vennero a galla le lenticchie. Cola Pesce s’aspetta che ancora torni.

Vimuth Fernando

LA LEGGENDA DI COLA PESCE

Niccolò era un bambino a cui piaceva molto stare a mare, facendo sempre preoccupare la madre. Un giorno la madre gli gettò la maledizione che "potesse diventar pesce" e da pesce o da quasi pesce egli visse d'allora, capace di restare in acqua per molte ore senza salire a galla per respirare. Percorreva lunghe distanze in mare facendosi inghiottire dai suoi amici pesci e, giunto dove desiderava, con un coltello apriva il ventre del pesce e usciva libero a compiere le sue indagini.

Una volta il re fu preso dal desiderio di come fosse fatto il fondo del mare; Niccolò Pesce, dopo una lunga residenza, tornò a dirgli che era tutto un giardino di corallo, di pietre preziose, di armi di mucchi di tesori, di scheletri

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umani e navi sommerse. Un'altra volta scese nelle acque del castel dell'Ovo e gli portò una manata di gemme. Ancora il re gli chiese di sapere come l'isola della Sicilia si regga sul mare, e Niccolò Pesce gli rispose che poggiava sopra 3 enormi colonne , l'una delle quali era spezzata. Un giorno al re venne voglia di sapere a che punto lui potesse veramente giungere in profondità, e gli chiese di andare a prendere una palla di cannone che sarebbe stata scagliata dal faro di Messina.

Pesce protestò che avrebbe obbedito, se il re avesse insistito, ma che sentiva che non sarebbe più tornato a terra. E così fu nel momento in cui raccolse la palla, s’accorse che sopra il suo capo le acque lo coprivano come un marmo sepolcrale e si accorse di trovarsi in uno spazio senza acqua, vuoto e silenzioso. Impossibile ricominciare a nuotare, Niccolò resto chiuso e terminò così la sua vita.

Fabrizio Girasole

LA LEGGENDA DEL MUNACIELLO

'O munaciello, in napoletano, significa il piccolo monaco. È uno spiritello leggendario che pare abbia le fattezze fisiche di un ragazzino deforme (o di unapersona di bassa statura), abbigliato con un saio e fibbie argentate sulle scarpe; sarebbe anche dispettoso (ma non sempre) e tenderebbe ad esprimersi (nei confronti degli abitanti della casa dove si appalesa) con tipiche manifestazioni: di simpatia (lasciando monete e soldi nascosti dentro l'abitazione, oppure facendo

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scherzi innocui che possono essere trasformati in numeri da giocare al lotto); di antipatia (nascondendo oggetti, rompendo piatti e altre stoviglie, soffiando nelle orecchie dei dormienti); di apprezzamento (sfiorando con palpeggiamenti le belle donne). Un proverbio napoletano recita: «‘o munaciello : a chi arricchisce e a chi appezzentisce», significando che il 'munaciello o arricchisce o manda in miseria. In nessuno dei tre casi suddetti bisogna però rivelare la presenza del munaciello: secondo il folklore napoletano, possono capitare disgrazie e sfortuna a chi rivela una visita del munaciello.

La leggenda del munaciello ha origini plurisecolari; due sono le ipotesi più accreditate dagli studiosi delle tradizioni popolari. Secondo una prima ipotesi, il munaciello sarebbe realmente il figlio di Caterinella, una signorina di buona famiglia rinchiusa in convento dopo che il suo fidanzato (sgradito alla famiglia di lei) fu assassinato nel 1445. Il bambino fu cresciuto nel convento, dove le suore mascherarono le sue deformità con un abitino da monaco (da cui il diminutivo munaciello), fino a quando egli morì in circostanze misteriose. Dopo la sua morte, il popolo napoletano continuò a vederlo nei posti più disparati, ed iniziò ad attribuirgli poteri magici connessi al fatto che dalle sue apparizioni potevano ricavarsi dei numeri fortunati da giocare al lotto.

Altra leggenda invece vuole che il munaciello sia stato l'antico gestore dei pozzi d'acqua, il quale riusciva (per la sua statura piccola) ad entrare nelle casepassando attraverso i canali che servivano a calare il secchio. Vi è anche una terza ipotesi, che descrive il munaciello come piccolo demone, dispettoso perché cattivo, anche quando lascia monete (in tal caso, il denaro sarebbe un'offerta ai vivi per attirarli dalla sua parte). La leggenda popolare vuole che uno dei vari rifugi del munaciello si trovi a Marina del Cantone, nella torre di

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Montalto, località di Sant'Agata sui Due Golfi (Massa Lubrense).

Giada Avagnano

LA LEGGENDA DI PARTENOPE

Viveva, un tempo, sulle coste ioniche della Grecia, una bellissima fanciulla di nome Parthenope. Per la sua grande bellezza veniva addirittura paragonata alle dee Giunone e Minerva: aveva una bella fronte regolare, grandi occhi neri, la bocca voluttuosa, carnagione candida e un corpo dalle forme armoniose. Amava sedersi sugli scogli e guardare il mare, sognando terre lontane e sconosciute.

Cimone ne era innamorato e lei lo ricambiava, ma suo padre l’aveva promessa sposa ad Eumeo e ostacolava in ogni modo il loro amore. Un giorno Cimone le chiese di fuggire lontano per potersi amare liberamente ed ella acconsentì ad abbandonare la sua terra e le amate sorelle. Dopo un viaggio lunghissimo i due innamorati approdarono finalmente sul lido che li aspetta già da mille anni e con il loro amore nascono i fiori, fioriscono milioni di nuove piccole vite.

Dalla Grecia giunsero per amore di lei, il padre e le sorelle, amici e parenti. La voce si sparse dovunque, fino al lontano Egitto, dovunque si raccontava di una spiaggia dove la vita trascorreva tra il profumo dei fiori e dei frutti e nella dolcezza profumata dell’aria. Su fragili imbarcazioni accorrono colonie di popoli lontani che portano con loro i propri figli, le immagini degli dei, gli averi. Si costruiscono

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capanne, prima sulle alture e a mano a mano fino in pianura; sorge un’altra colonia su una collina accanto e il secondo villaggio si unisce con il primo; si tracciano le vie, fioriscono le botteghe degli artigiani, si costruiscono le mura. Sorgono due templi dedicati alle protettrici della città: Cerere e Venere.

Parthenope è oramai donna e madre di dodici figli, è la donna per eccellenza, la madre del popolo, la regina umana e clemente. Se interrogate uno storico, vi risponderà che la tomba della bella Parthenope è sull’altura di San Giovanni Maggiore, dove allora il mare lambiva il piede della montagnola. Un altro vi dirà che la tomba di Parthenope è sull’altura di Sant’Aniello, verso la campagna, sotto Capodimonte. Ebbene, io vi dico che non è vero.

Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. E’ lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori; è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare. E’ lei che fa impazzire la città; è lei che fa languire ed impallidire di amore. Parthenope non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore. Napoli è la città dell’amore (tratto da “Leggende napoletane” di Matilde Serao).

Cristina Bianco

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LA LEGGENDA DI PARTENOPE

Napoli è anche detta Partenope perché la sua origine è legata ad una legenda secondo la quale la fondatrice della città fu Partenope. Partenope (termine che in greco significa “vergine”) era una leggiadra fanciulla, che viveva in Grecia, in un paese che affacciava sul Mar Jonio. Dotata di una fervida fantasia, trascorreva molte ore seduta sugli scogli a guardare il mare e sognare molti paesi da visitare. Amava ricambiata il giovane Cimone, ma il padre di lei ostacolava il rapporto , in quantol’aveva promessa ad Eumeo.

Un giorno i due giovani decisero di fuggire per non avere più ostacolo al loro amore. Al loro arrivo sulla nuova terra la natura cominciò a produrre una florida vegetazione. Intanto Partenope venne raggiunta dal padre e dalle sorelle, dai parenti e dagli amici che avevano sentito parlare tanto di questa terra così amena e accogliente, un vero paradiso. La voce si sparse in Fenicia, in Egitto, così moltissimi popoli, caricati i loro averi, i simboli dei loro dei su piccole imbarcazioni, partirono alla volta di questa favolosa terra. Costruirono le capanne prima sulla collina, poi man mano che aumentavano i popoli sorsero nuovi centri in pianura e sulla costa. Furono erette botteghe di artigiani, le mura per proteggere la città. Furono costruiti due templi dedicati a Cerere e Venere, protettrici della città.

Intanto Partenope divenuta madre di dodici figli, era amata e rispettata da tutti per la pietà, la fedeltà che aveva sempre dimostrato e tutti rispettavano quanto lei stabiliva per

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legge. La pace regnò sempre su quel popolo che si distinse per l’alto grado di civiltà raggiunto.

Cristina D’Angelo

LA LEGGENDA DELLE JANARE

Una delle leggende più inquietanti e antiche è quella delle

janare. Il nome janara probabilmente deriva da Giano, il dio

a due facce, perché esse, secondo la credenza, entrano nelle

case attraverso la porta (in latino ianua), il cui dio protettore è

proprio Giano. Secondo un’altra versione, invece, la parola

viene da Dianara, cioè sacerdotessa di Diana.

Le janare di giorno sono persone normali e soltanto di

notte si trasformano in streghe. Entrano nelle stalle e rubano

cavalli, asini ed altri animali, facendoli poi ritornare la mattina

sfiancati e con le criniere intrecciate. Secondo una vecchia

credenza, se qualcuno sospetta che la notte la janara sia

entrata in casa, deve dire la formula magica: “janara vieni per

sale". Il giorno dopo la donna, che di notte era la janara, si

presenterà per chiedere il sale. Per impedire alla janara di

entrare in casa, bisogna lasciare una scopa dietro la porta

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chiusa della propria casa. La strega, infatti, comincia a contare

i fili della scopa e, poiché perde sempre il conto, viene l’alba e

deve scappare via. La janara, prima di morire deve sopportare

una lunga e dolorosa agonia fino a quando non trova una

persona alla quale lasciare in eredità la sua arte.

Michela Casaburo

LA LEGGENDA DELLE JANARE

La Ianara è una strega che va di notte nelle case, le sue origine dovrebbero essere molisane, ma alcuni dicono anche di Benevento. Essa si presenta come un’anziana donna che di giorno ha un aspetto normale e svolge una vita come tutti.

Secondo la leggenda, questa strega è come il lupo mannaro. Nata la notte di natale, ma protetta dal maligno, non ha nessun buon auspicio e bisogna mettere fuori la porta di casa una scopa o della sabbia, così lei nel contare i granelli di sabbia o i fili di paglia della scopa impiega tutta la notte e alle prime luci del giorno scappa e non entra in casa. A volte la ianara, se si trova in aperta campagna, si fa delle galoppate e dopo fa le treccine alla criniera del cavallo per far capire che lei è stata lì di notte.

Inoltre si dice che chi di notte sente cantare la ianara sa che ci sarà morte in famiglia. Spesso prende le sembianze di

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un gatto nero e se riesce ad entrare in casa, cioè nella camera da letto, si poggia sull’addome della persona che dorme per infastidirlo e impaurirlo.

Claudio Guerra

LA LEGGENDA DEI MACCHERONI

Tanti anni fa, in un posto nascosto della Napoli antica, c’era un palazzo che faceva paura a tutte le persone. In quel castello ci abitavano i delinquenti più pericolosi, all’ultimo piano ci abitava il mago Chico che ogni tanto si vedeva che mescolava del liquido rosso.

Di fronte a lui abitava una ragazza, di nome Giovannella, molto pettegola che una notte uscì sul terrazino e si avvicinò alla porticina del mago per spiarlo. All’alba Giovannella tornò a casa sua, dove rimase rinchiusa per tre giorni. Andò al palazzo di corte, dicendo di avere inventato una nuova ricetta. Il re la mandò in cucina dove rimase per molte ore, fino a che i camerieri uscirono col piatto fumante. Al re sembrò di non aver mai assaggiato niente di più buono.

La nuova pietanza, anche grazie al suggerimento di Giovannella, fu chiamata Maccheroni. Ella, che aveva rubata la ricetta dal mago Chico, partì. Diventò molto ricca. Solo in fin di vita, rivelò a tutti che l’ aveva rubata dal mago.

Roberta De Masi

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LA LEGGENDA DEI MACCHERONI

Matilde Serao scrisse per raccontare l'origine del maccherone. Narra la scrittrice che nel 1220, regnando Federico II di Svevia, re di Napoli e di Palermo, viveva all'ombra del Vesuvio in contrada Posanova, il misterioso mago Chico. Abitava in una casa malfamata: uno strozzino al primo piano, una brutta donna al secondo, ladri esperti al terzo, questi erano i coinquilini di Chico, il quale viveva in due stanzette all'ultimo piano, che non apriva mai al bel sole di Napoli.

Il mago passava le sue giornate facendo cose misteriose, ciabattando di continuo tra la cucina e la stanza da letto. Più d'uno asseriva di averlo visto talvolta tutto bianco come un lenzuolo, con strani strumenti in mano, chi dinanzi ad una grande pentola in ebollizione. Altri, ancora, narravano d'averlo visto con le mani lorde di sangue fino al gomito. Nel portone accanto al suo, anche lei all'ultimo piano, viveva Jovannella, giovane cuoca alla corte di re Ferdinando. Pettegola oltre ogni dire, la donna cercava da anni di scoprire a che cosa stesse armeggiando Chico. E un bel giorno, attraverso la fessura di una porta che non chiudeva bene, Jovannella riuscì a scoprire a che cosa servivano le erbe aromatiche e i pomodori che il fedele servo di Chico acquistava quotidianamente al mercato: per preparare una salsa da spargere su una pasta preparata in casa.

Detto fatto, Jovannella corse a corte e propose al primo cuoco del re di lasciarle preparare un piatto segreto. Inutile dire che la sua ricetta esclusiva ebbe un enorme successo e che, in poco tempo, l'astuta cuoca divenne

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ricchissima e amata da tutti. La leggenda è gustosa ma inverosimile. Se non altro perché la coltivazione dei pomodori fu portata in Europa dopo la scoperta dell'America, due secoli abbondanti dopo. L'accanimento con cui i napoletani difendono l'ambigua paternità della pasta è spiegata dal fatto che, chiunque l'abbia inventata, sono stati proprio loro che l'hanno perfezionata in maniera tale da far convergere su questo piatto gli appetiti di golosi e buongustai di tutto il mondo. Certo è che notizie precise di produzione su larga scala si hanno già dal XV secolo, epoca in cui esistevano pastifici veri e propri in Liguria, Sicilia, Sardegna e a Roma.

A Napoli, comunque, i maccheroni erano un piatto già diffuso nel Seicento, al tempo dei viceré spagnoli. Fu in quell'epoca che subentrarono, come vivanda popolare, alla minestra maritata. Fino a quando le donne napoletane non impararono a fare la pasta in casa, i maccheroni furono considerati cibo di ricchi, perché andavano acquistati e pagati in contanti.

Luca Pipicelli

IL CORNO PORTAFORTUNA E IL COCCODRILLO DI CASTELNUOVO

Varie sono le notizie sull’epoca e sulle modalità d’uso del corno. Intorno al 3500 a.C., età neolitica, gli abitanti delle capanne erano soliti appendere sull’uscio della porta un corno, simbolo di fertilità. La fertilità, allora, era abbinata alla potenza e quindi al successo. Si era soliti offrire dei corni come voto alla dea Iside, affinché assistesse gli animali nella

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procreazione. Secondo la mitologia, Giove per ringraziare la sua nutrice le donò un corno dotato di poteri magici.

Nell’età medievale il corno per portare fortuna doveva essere rosso e fatto a mano. Il rosso simboleggiava la vittoria sui nemici e doveva essere fatto a mano perché ogni talismano acquisisce poteri benefici dalle mani che lo producono. Il corno è il referente apotropaico (allontanante) per antonomasia: simbolo della vita, che allontana un’influenza magica maligna. Secondo la scaramanzia napoletana il corno deve essere un dono. Quindi per portare fortuna non deve essere comprato, inoltre deve essere: rigido, cavo all’interno, a forma sinusoidale e a punta.

Per quanto riguarda il Maschio Angioino, invece, questo castello ha due locali sotterranei adibiti a prigioni: uno si chiamava “fossa del miglio”; un altro “prigione della congiura dei Baroni”. Il primo traeva il nome dall’utilizzo che inizialmente se ne faceva. Infatti era un deposito per il grano, solo in seguito vi furono rinchiusi dei prigionieri condannati a pene severe. Fu allora che prese il nome di “fossa del coccodrillo”.

Narra la leggenda che i prigionieri ivi rinchiusi scomparivano all’improvviso; fu allora predisposto un controllo maggiore e si venne a conoscenza della presenza di un coccodrillo che entrava da un’apertura nella parete, azzannava i prigionieri e li trascinava con sé in mare. Pare che l’animale fosse giunto a Napoli seguendo una nave proveniente dall’Egitto. Appurato il fatto, si decise di dare in pasto al coccodrillo tutti i prigionieri che si voleva eliminare senza far sapere niente. Infine l’uccisione del rettile fu attuata utilizzando come esca una coscia di cavallo. Il coccodrillo fu poi impagliato ed appeso sulla porta d’ingresso.

Leonardo Fiore

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LE SCARPETTE DELLA MADONNA ANNUNZIATA

C’ era una volta una bambina che si chiamava Maria. Era orfana e viveva nell’ orfanotrofio della città ,ogni sera questa bambina pregava la Madonna di essere adottata ,di avere una famiglia . Il giorno dell’ onomastico della Madonna Annunziata (il 25 marzo) le suore dell’ orfanotrofio vollero spolverare la statua della Madonna prima della celebrazione e si accorsero che le sue scarpette di seta erano consumate come se avesse camminato . Le suore lo considerarono un miracolo e alla festa le persone regalarono scarpette nuove alla Madonna. Fuori di li una signora e suo marito aspettavano la fine della celebrazione per scegliere una bambina e scelsero Maria. Maria ne combinava di tutti i colori nella sua nuova casa e la signora la puniva ,la picchiava. Maria andava a letto senza cena e con i lividi sulle braccia . La Madonna su richiesta di Maria decise di intervenire . Una mattina la donna si svegliò e raccontò al marito che aveva fatto un sogno : davanti a lei c’era una bellissima signora e aveva in braccio Maria tutta piena di lividi . dopo di che la signora aveva cominciato a picchiarla . poi la donna capì che era la Madonna ,venuta a farle visita e da quel giorno non picchiò più Maria . Quell’ anno aiutata dalla madre adottiva Maria fece un paio di scarpette deliziose che offrirono alla Madonna il 25 marzo per testimoniare che la Madonna viaggia nelle case dei bambini sotto la sua protezione.

Lucrezia Cataldo