l'argonauta n. 17
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Numero 17 - Lunedì, 9 Gennaio 2012
Investire sull’umano
Di Druuna
“Il valore e “i valori” sembrano
essere oggi la parola più
pronunciata e più discussa al
mondo. Si parla di “difesa dei
valori”, spesso senza indicare
precisamente quali; si discute
di “valori tradizionali”, “valori
morali”, “valori sociali”, “valori
umani”. E poi si parla di “valore
di mercato”, “valore aggiunto”,
“valore monetario”. Abbiamo
perfino l’Italia dei valori, il
“manifesto dei valori”, la “carta
dei valori”, i valori del
risorgimento e del
cristianesimo, i valori laici, i
valori statistici, personali,
aziendali, nutrizionali, il
trasporto e la sicurezza dei
valori, perfino i sistemi di valori
e infine la perdita dei valori.
Il tutto in un momento in cui la
crisi è totale. Chi ha denaro non
sa bene come investirlo, perché
nel mondo globalizzato, tutti i
problemi sono interconnessi, e
non esistono più “isole felici” al
riparo da titoli tossici,
fallimenti, crolli monetari e
finanziari. Chi non ha molto
denaro percepisce che il suo
sforzo per cercare di mettere
da parte abbastanza da
costruirsi un futuro meno
incerto, è ormai vano, perché le
risorse disponibili si rarefanno
e convergono verso rari punti
di accumulazione, in grado di
determinare nello spazio di un
secondo, la povertà di milioni
di persone.
Dunque siamo tutti presi
dentro una prospettiva
contabile, in uno spazio
mondiale in cui non resta quasi
nulla da contabilizzare.
Durante le crisi dei passati 40
anni, ricordo una frase
ricorrente dei telegiornali: « i
risparmi si dirigono verso i
beni-rifugio, il mattone e l’oro
». Oggi è scomparsa anche
questa logica, perché anche
questi beni, in una condizione
di crisi generalizzata e totale,
solo in minima parte possono
assolvere alla funzione di
investimento.
Dunque i “valori” sono ovunque
nel nostro pensiero e nel
dibattito pubblico, ma nel
concreto sembrano evaporati,
fantasmatici, inafferrabili.
Quando qualcosa mi sfugge, di
solito, mi chiedo: non sarà che
stiamo guardando nel posto
sbagliato ? non sarà che stiamo
limitando la nostra visuale, che
restiamo sempre dentro a un
recinto logico in cui la
soluzione non è possibile ? E
così cambio prospettiva.
Se guardiamo bene tra le
pieghe della società
occidentale, esistono molti
“valori” che sfuggono ai circuiti
della contabilità concreta. A
questi beni o aspetti della vita
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sociale, diamo vari nomi, ad
esempio “ricchezze
immateriali”. Il vocabolario è
sempre di tipo economico,
poiché la nostra società ha
consolidato l’idea che tutto si
possa in qualche modo
comprare, vendere o far
fruttare, ma noi potremmo
andare al di là di questa
restrizione, se siamo
abbastanza creativi. Altre
definizioni in questo senso
sono “capitale culturale”,
“capitale sociale”, “beni
ambientali”, “patrimonio
dell’umanità” e così via.
Prendiamo in considerazione
ciò che chiamiamo “capitale
umano”. Nel linguaggio
aziendalista che è prevalso
dagli anni ’80 in poi, si parla
anche di “risorse umane”, ma
capite bene che questo è un
modo di parlare di capacità,
abilità e competenze, come se
fossero effettivamente merci
che si comprano e si vendono.
La differenza tra l’espressione
“risorse umane” e “capitale
umano”, ritengo che sia nel
fatto che la parola “risorse”
evoca uno scenario di scambio,
di compravendita e perfino di
sfruttamento (risorse naturali,
risorse petrolifere, ecc.),
mentre “capitale” rimanda a
un’idea di produzione di
ricchezza ulteriore.
L’Italia dovrebbe essere
particolarmente sensibile al
tema del capitale umano,
poiché è un paese
estremamente povero di
materie prime, ma molto
famoso in quanto a iniziativa
personale e creatività. Ma
andiamo oltre. In genere
“capitale umano” si riferisce
all'insieme delle conoscenze,
saperi, informazioni e capacità
tecniche, che permettono di
svolgere attività di produzione
e trasformazione di materie
prime in prodotti di valore sul
mercato.
Tuttavia, la crisi attuale ci sta
insegnando che questo modo di
pensare si rivela una gabbia
mentale, all’interno della quale
è praticamente impossibile
trovare soluzione ai problemi
dell’economia che si avvitano
su se’ stessi. Lavoriamo,
produciamo, vendiamo,
ricaviamo soldi, ma poi questi
soldi devono essere spesi di
nuovo per il consumo. La
popolazione aumenta, la spinta
al profitto si accresce, i soldi
non bastano mai, le risorse si
esauriscono, per cui si cerca di
escludere una parte del mondo
dai benefici, si innescano così
dei conflitti, mentre i vecchi
problemi restano irrisolti. In
pratica l’umanità continua
sempre di più a combattersi
per accedere sempre alle stesse
risorse, utilizzando sempre gli
stessi vecchi metodi.
L’economia di stampo
illuminista presuppone che
l’umanità sia fatta di individui
essenzialmente volti al loro
immediato interesse, secondo
una razionalità che non è mai
stata definita nel concreto, anzi,
è stata piuttosto smentita dagli
studiosi del cervello e
dell’intelligenza.
Io propongo di uscire da questa
gabbia.
Come suggerisce Richard Wilk
(1996) le caratteristiche
fondamentali dell’essere
umano sono piuttosto la
socialità, l’adattabilità e le
potenzialità. Attributi che è
difficile vendere o comprare,
ma che si possono far fruttare a
vantaggio,
contemporaneamente, di sé
stessi e degli altri. Infatti è
davanti agli occhi di ciascuno
che le persone non sempre si
comportano secondo un calcolo
razionale e puramente
egoistico: a seconda delle
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situazioni agiscono in base
all’influenza di regole morali,
secondo la logica del gruppo
con cui si identificano o perché
trovano soddisfazione nel
gratificare o prendersi cura di
persone a cui sono legate e
quindi in funzione di emozioni,
sentimenti o credenze. In
questo scenario, la flessibilità
del comportamento , la capacità
creativa e l’intreccio che lega
tra loro gli esseri umani, fanno
da sfondo a tutti i tipi di
motivazione che di volta in
volta portano a prendere
decisioni concrete nella
soluzione dei problemi che la
vita presenta.
Dunque queste sono le armi
che consentono all’umanità di
superare ostacoli e trovare
metodi per convivere e
possibilmente, migliorare la
propria esistenza. Più queste
armi vengono potenziate,
affinate e coltivate, più spazio si
crea per progredire. Per essere
precisi, si dovrebbe discutere
anche la parola “progresso”, in
quanto, anche in questo, come
nel caso della “razionalità”, si è
preso per buono il significato
settecentesco di sviluppo senza
limiti delle condizioni
puramente materiali, mentre è
stato dimostrato che, oltre una
certa soglia, un incremento
della prosperità materiale, non
aggiunge nulla di significativo
al benessere umano
considerato nel suo insieme.
Ma questa è un’altra storia.
Lasciando da parte questo
argomento, dunque, che ci
porterebbe troppo lontano,
torniamo alla questione
centrale: qual è la ricchezza in
cui possiamo investire e che ci
fornisce le più alte probabilità
di trarne un vantaggio sia come
umanità, sia in quanto singoli ?
Io ritengo che questa ricchezza
sia la crescita umana e
culturale. Credo che le regioni
della terra dove la vita ha la più
alta qualità, sono facilmente
riconoscibili in quelle dove si
investe maggiormente in questi
due “beni immateriali”. E ciò
accade per svariate ragioni: chi
possiede maggiori “armi”
culturali e umane è in grado di
fronteggiare meglio un’ampia
serie di problemi che si
presentano in tutte le società e
in tutte le epoche, e di trovare
soluzioni stabili e durature, ma
non rigide:
- conflitti e difficoltà
sociali e personali
- gestione delle risorse
economiche e ambientali
- rapporti con le altre
regioni, popolazioni e culture
È facile immaginare cosa
accade in una città in cui
ognuno ha costruito un
pezzetto di strada tenendo
conto solo delle proprie singole
esigenze, e in cui ognuno
pretende di muoversi con un
mezzo delle dimensioni più
svariate, alle velocità che vuole,
senza che vi sia un codice
comune per passare agli
incroci. La situazione è ben
diversa in un luogo in cui vi sia
la capacità di accordarsi sulla
dimensione e la collocazione di
strade, case, negozi e parchi,
dove insieme si stabiliscano
regole comuni alla circolazione
e si usino mezzi che cerchino di
conciliare il bisogno di tutti di
muoversi, con il desiderio
generale di avere silenzio, aria
pulita e sicurezza per pedoni e
ciclisti. E questo è solo un
piccolo esempio di ciò che le
“armi della crescita umana”
collettiva possono produrre.
Il capitale umano e culturale,
dunque è un’arma decisamente
potente, soprattutto se si tiene
conto che l’obiettivo
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fondamentale dell’umanità è
sempre stato e continua ad
essere quello di risolvere i più
svariati problemi: dalle
malattie, alla coltivazione, dalla
mobilità all’energia, dalla cura
dell’infanzia a quella
dell’ambiente.
Ecco perché ritengo che questo
sia non solo l’unico e
fondamentale bene-rifugio a cui
dovremmo volgerci in questo
momento, in cui le crisi
economiche e finanziare
travolgono tutti i punti cardine
che la civiltà occidentale ha
costruito in due millenni, ma
anche il bene indispensabile in
cui investire la maggior parte
delle nostre risorse, per
permettere all’umanità di
imboccare la strada di un
progresso che abbia un nuovo
significato.: quello della
sinergia, della condivisione,
della crescita in una
dimensione umana, anziché
contabile.
Bibliografia
Wilk R., Economies And Cultures:
Foundations Of Economic
Anthropology , Westview Press.
Boulder, CO.1996
Druuna
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Di “nuovo” non c’è
niente.
di MrBojangles
Nonostante le pesanti “sordine”
imposte all’intero apparato
mediatico di massa,
nessuno escluso, qualche cenno
di cronaca sulle indagini a
proposito del verminaio già
emerso da ENAV e
Finmeccanica riusciamo ad
ascoltarla; e si tratta, più che
altro, della stanca
riproposizione del solito
“lombrosario” di papponi di
stato piazzati sulle loro
poltrone dal solito “padrino”
politico allo scopo di fare
esattamente ciò che hanno
scoperto gli investigatori di
Roma e Napoli.
Quello che risulta non-
accettabilmente strumentale o
beatamente ingenuo, però, è
l’aggettivo “nuova” che tutti
(lettori di gobbi, terzisti,
opinionisti e scribacchini vari,
etc.) appiccicano al termine
“Tangentopoli”.
Chiunque sia anche solo
superficialmente informato
sulla vera storia di Mani Pulite
e del conseguente emergere a
livello nazionale della
corruttela sistemica, ben
definita da Gerardo Colombo
“dazione ambientale”, poi
battezzata semplicisticamente
“Tangentopoli” può
tranquillamente apprezzare
che oggi di nuovo non c’è
proprio niente.
Non sono nuovi gli ambienti
dove prosperano ed ingrassano
a spese dei contribuenti
(onesti) gli stessi figuri con lo
stesso DNA di quelli di fine
secolo scorso; non sono nuovi i
metodi mafiosi di nomina degli
stessi; non sono nuovi i
“pupari” politici che
manovrano i fili ed intascano il
malloppo; non sono nuovi i
canali di transito delle
corruttele e, infine, non è nuova
la spudoratezza con la quale i
“mariuoli” cercano di scansare
le evidenze come dei Craxi
qualsiasi.
Mariuoli bipartisan e
trasversali a quella che è stata
la Casa delle Libertà; ed oggi si
capisce meglio qual erano le
libertà di riferimento.
Quasi nessun gruppo reduce di
quello schieramento s’è
chiamato fuori dalla
mangiatoia; e troviamo a
braccetto quelli che all’epoca
erano semplici im-prenditori
con quelli che tiravano le
monetine ai politici con i cui ex
portaborse ora spartiscono le
tangenti.
Vecchi marpioni pregiudicati
come Brancher (non a caso
nominato ministro dal suo ex
datore di lavoro e capobanda)
fanno pappa e ciccia con ex
aennini duri e puri; giovani
vecchi come Casini e l’allora reo
confesso Cesa gonfiano
tesorerie di partito e saccocce
private a quattro mani con ex
duri e puri della Lega; che viene
da chiedersi in cosa sono mai
stati duri e puri.
Tutta gentaglia inqualificabile
che, oltre a fare da palo al Gran
puttaniere per almeno tre lustri
nel suo programma di
distruzione della Giustizia
italiana, di tutto ha fatto in
quest’arco temporale per
cancellare nel Paese la
memoria di ciò che è stata la
stagione di Mani Pulite e,
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dunque, anche il ricordo dei
loro nomi legati vuoi alle
corruttele vuoi alle feroci
campagne a sostegno, allora,
dei magistrati inquirenti.
Tutta gentaglia che, ove non
avesse già sentenze passate in
giudicato, s’è sempre sperticata
in difese ad oltranza di
corruttori e fin'anche mafiosi:
oggi in attesa di sentenze di
cassazione o già direttamente
in galera e ieri fondatori o
segretari di questo o quel
partito.
Tutto questo, nonostante i
sempre più flebili allarmi che,
di anno in anno, andava
lanciando quella “parte di
Magistratura” in trincea per i
livelli di corruzione che
andavano aumentando: quella
“parte politicizzata” di
Magistratura quotidianamente
bombardata a palle incatenate
dalle corazzate mediatiche del
Conducador Nano.
Nessuno può dire, oggi, di non
averli ascoltati; di non aver
saputo.
Dunque, niente è cambiato
poiché, soprattutto, niente s’è
interrotto: ed il definire
“nuova” una stagione che, di
fatto, non è mai terminata e che
vede tirare le fila del gioco la
stessa accozzaglia di farabutti
impuniti e di parenti stretti dei
soliti noti non è solo
tragicamente gattopardesco, in
questi tempi sanguinosi di crisi
globale, è un’ulteriore corsa in
avanti di questa classe politica
indecente nel provocare quella
che il maestro Monicelli, poco
prima di compiere il suo atto
estremo, ha invocato come
passaggio necessario al nostro
Paese per poter aspirare ad
essere, finalmente, un paese
normale.
Una rivoluzione.
MisterB
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Il doppio registro della
contemporaneità
di Florian
Se è vero che il presente in sé
non esiste se non come
memoria del passato ed
anticipazione del futuro, ciò
significa che viviamo
contemporaneamente in due
mondi, quello in cui si mettono
a frutto pensieri precedenti e
quello nel quale se ne
anticipano di nuovi. Questo
scollamento tra le due realtà è
rappresentato sul piano sociale
da chi vive il presente sulla
base di ciò che ha ereditato e
chi sperimenta ai margini il
mondo che verrà. Da un lato gli
uomini di potere, dall’altro gli
intellettuali, queste forze
agiscono simultaneamente
fornendo della
contemporaneità un duplice
aspetto a seconda che si guardi
all’operato degli uni e degli
altri.
Riguardo i mutamenti politico-
sociali sarebbe dunque miope
collegare una fase a quella che
l'ha immediatamente
preceduta. Se indaghiamo più a
fondo in merito alla natura del
cambiamento ci accorgiamo
che questo ha un rapporto più
diretto e autentico con
un’epoca anteriore a quella
immediatamente trascorsa e
che nella circostanza aveva
agito meramente sul piano
delle idee. Non solo, in base a
quanto accaduto negli ultimi
decenni possiamo anche
abbozzare l'entità del tempo
che separa gli anticipatori del
mondo nuovo dai guardiani del
tempo presente: circa
vent'anni. Vediamo alcuni
esempi.
L'esistenzialismo e il nichilismo
del secondo dopoguerra con la
loro critica occidentale all'etica
borghese preparano di fatto il
Sessantotto. Quest’ultimo, con
la messa in discussione degli
hippies dell'autorità vigente in
ambito sessuale, familiare,
religioso, anticipa il
libertarismo realizzatosi negli
anni novanta in chiave
borghese-bohemien. Seattle,
patria del movimento no-
global, è invece il punto di
partenza per quella risposta
"indignata" e "antipolitica" che
vediamo riempire in questi
giorni le piazze.
Si dia poi il caso di Barack
Obama. La sua ascesa alla
Presidenza degli Stati Uniti
quattro anni fa è stata messa in
relazione alla controversa
epoca politica dominata da
George W. Bush. In realtà
Obama ha rappresentato il
frutto maturo della candidatura
di bandiera del reverendo
afroamericano Jesse Jackson
avvenuta nel più lontano 1988
contro George Bush padre. Ciò
che era "impossibile" allora è
stato possibile oggi perché le
avanguardie che avevano
sostenuto Jackson pur sconfitte
nel breve tempo grazie al loro
radicarsi in società hanno finito
per cambiarla a loro
somiglianza e divenendo esse
stesse parte dell’establishment
hanno infine reso “possibile”
l’elezione di Obama.
Un altro fenomeno politico
americano di cui si è dibattuto
a lungo negli scorsi anni ha
riguardato i cosiddetti
“neocon”, ovvero quel gruppo
di influenti intellettuali passati
in vent'anni dalla sinistra
“liberal” alla destra
“conservative”. In realtà i vari
Kristol, Podhoretz, Novak, non
hanno compiuto grandi
“abiure”, essendo stata la loro
realtà, la loro "sinistra", ad
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affermarsi nel tempo e a
posizionarsi a destra solo
perché scalzata nel frattempo
da una “nuova sinistra” più
radicale. In questo caso la
retorica politica del neocon
Reagan sul muro di Berlino
destinato di lì a poco a cadere
aveva dietro di sé quell'Ich Bin
Berliner pronunciato nei primi
anni sessanta da un
indimenticato leader liberal
quale John F. Kennedy. Questi
due Presidenti, considerati (a
torto) tanto diversi, ebbero in
realtà un ruolo molto simile
non solo circa la guerra fredda
e l'espansione
dell'americanismo a livello
mondiale, ma anche riguardo la
gestione dell’economia, non
avendo Reagan mai sconfessato
in definitiva il welfare state,
spauracchio dei suoi ideologi
libertarian. Malgrado questi,
appunto, il cold war liberalism
degli anni Sessanta è potuto
riverberarsi nel
neoconservatism degli anni
ottanta mutando poco o nulla
del suo abito mentale.
A dispetto del reaganismo, il
thatcherismo nasce invece dal
goldwaterismo. E’ la Lady di
ferro a realizzare infatti, più
compiutamente del suo
omologo americano, il portato
intellettuale di un economista
liberista misconosciuto negli
anni Cinquanta quale Friedrich
von Hayek. Considerato eretico
durante l’apogeo del New Deal,
Hayek rappresentò il principale
riferimento culturale per il
governo conservatore inglese
della Thatcher, la cui eredità,
per un curioso gioco di scambi
tra i due lati dell’Atlantico, è
oggi presente nei circoli dei Tea
Parties che hanno dato vita ad
un post-thatcherismo
ovviamente americanizzato (si
veda a proposito la scelta di
Michele Bachmann di
presentarsi sulla scena
nazionale quale “nuova
Thatcher”).
Circa gli anni Ottanta, poi, è
opinione diffusa che siano stati
questi il decennio conservatore
per eccellenza, l’epoca della
deregolamentazione e del
liberalismo più sfrenato. Ma
questo perché si guarda
sempre troppo alle forze che
detengono il potere e sempre
troppo poco a quelle che nel
frattempo agiscono sul piano
sociale e culturale. In verità
l’età reaganiana conobbe in
letteratura la scena
“minimalista” dei McInernay e
Leavitt; in arte i graffiti
metropolitani di Keith Haring;
mentre nella società del tempo
si affermava la presa di
coscienza dei gays così come
l’onda pacifista e
antinuclearista che animava il
nascente movimento
ambientalista. Ambientalisti
come i Gruenen tedeschi che,
affacciatisi nella Germania
democristiana di Kohl, di lì a
vent’anni saranno i primi
artefici di un generale
rinnovamento politico e sociale
grazie alla generazione degli
Schroeder e dei Fischer, artefici
di un’inedita alleanza rosso-
verde.
E il nostro Berlusconi? Sarebbe
sbagliato collegarlo
univocamente alla precedente
stagione del craxismo. In realtà,
essendo il Cavaliere non un
politico di professione ma un
imprenditore, le ragioni della
sua “discesa in campo” e la
natura del berlusconismo
vanno piuttosto collegate alla
nascita di Telemilanocavo nei
più lontani anni Settanta,
artefice di quel rilancio del
"privato" contro il "pubblico"
che dovette realizzarsi
massimamente in Italia
attraverso le televisioni. Allo
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stesso tempo il berlusconismo
realizzato ha piantato un seme
che lentamente si sta
trasformando nell’area
neoconservatrice o
liberalpopolare che ora fa capo
ad Angelino Alfano.
Diversamente, l’avvento di
Mario Monti al governo è da
considerarsi da un lato un mero
"incidente storico", frutto di
un'operazione gestita
dall'esterno, e dall’altro la fase
terminale di quella Terza Via
centrista, a suo modo liberale e
riformista, preconizzata dal
laburista Anthony Giddens
all’inizio degli anni Novanta.
Questi esempi (e tanti altri se
ne potrebbero fare ancora) ci
mostrano quindi come sia
sbagliato soffermarsi su ciò che
si manifesta in superficie,
minimizzando ciò che si agita in
profondità. Per cui, tenendo
presente ciò che è stato e
osservando ciò che accade ai
vari livelli possiamo anche
provare ad immaginare come
evolverà il futuro e al tempo
stesso svelare i meccanismi che
si celano all'interno della
nostra società. Tra questi, il
venire a galla di "nuove classi"
che si sostituiscono alle
“vecchie”, le quali, avendo
esaurito la loro funzione,
lasciano alle prime il compito di
popolarizzare e massificare
quanto era stato
precedentemente pensato e
vissuto solo entro marginali ma
influenti gruppi.
Florian
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Ungheria 2012
Di Eric Draven
La crisi dell'Unione Europea da
qualche settimana contempla
un nuovo protagonista,
l'Ungheria.
Primo paese dell'est europeo
coinvolto nel turbine del
debito, a differenza dei PIIGS
Budapest non sembra voler
seguire la linea tenuta altrove,
ad esempio Atene.
Nessun governo tecnico
guidato da un eurocrate
,nessuna votazione anticipata.
Il governo di Voktor Orban
sembra più semplicemente
rifiutare di riconoscersi in
debito con FMI e BCE. Mossa
populistica e folle? le ultime
notizie parrebbero far
propendere per il sì.
Il premier ungherese Viktor
Orban si è deciso a chiedere
aiuto al Fondo Monetario
Internazionale, dopo aver
realizzato che il Paese, di cui è
primo ministro dal 2010, è
ormai sull'orlo del secondo
default in quattro anni. Ma non
è detto che lo otterrà. Ieri l'asta
dei titoli di Stato magiari a 12
mesi ha vistosamente mancato
il target di 45 miliardi per
collocarne solo 35 miliardi, con
rendimenti al 9,96%. Il fiorino
ungherese è sceso ai minimi
contro la moneta unica europea
(a quota 324 fiorini per un
euro) ma anche contro franco
svizzero e dollaro. Il mercato
insomma diffida Viktor Orban,
il premier-dittatore che
secondo il popolo ungherese
minaccia la democrazia del
Paese con la sua nuova
costituzione fortemente
personalistica, e che secondo
l'Unione Europea minaccia la
stabilità finanziaria dell'Europa
rifiutando di assoggettare la
banca centrale magiara alla
BCE. "La dipendenza della
banca centrale ungherese da
quella europea è un
prerequisito fondamentale per
ottenere gli aiuti
internazionali", ha osservato
ieri il portavoce dell'Unione
Europea. Il governo ungherese
è pronto a trattare e chiede
risposte rapide, forse già per la
prossima settimana.
La vera soluzione alla crisi del
debito in corso nell’eurozona.
Necessario che venga
abbandonato il piano che
prevede la partecipazione dei
privati al debito della Grecia.
Questo è il problema di fondo,
che continua a minare la fiducia
degli investitori. Ne è convinto
Athanasios Orphanides,
governatore della Banca
centrale di Cipro, membro del
consiglio direttivo della Banca
centrale europea.
Tale decisione andrebbe
sicuramente a pesare sulla
Grecia, portando in rialzo i
rendimenti dei bond, ma
beneficerebbe tutti gli altri
paesi dell’eurozona,
rassicurando gli investitori e
dunque riducendo il costo di
finanziamento.
Nonostante i vari sforzi
intrapresi dai leader europei
per rassicurare il mercato sullo
stato di salute dei rispettivi
paesi, questa possibilità di
perdita continuerebbe a
giocare un ruolo negativo che
impedirebbe il miglioramento
del sentiment.
"Ritirare la decisione sulla
partecipazione dei privati al
debito greco porterebbe in
rialzo i rendimenti dei titoli di
debito ellenici, ma ridando
fiducia nell’eurozona andrebbe
a ridurre il costo dei
finanziamenti per gli altri paesi
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del Blocco", ha detto
Orphanides.
Tale decisione, per una riuscita
ottimale, dovrebbe essere
accompagnata a un prestito di
30 anni a tassi di interesse
contenuti, dai vari paesi alla
Grecia, per garantire che il
costo del debito rimanga in
linea con i piani di
consolidamento fiscale.
Come si vede, le opinioni
continuano a divergere,su cosa
si dovrebbe fare per risolvere il
problema. Ma nel caso
ungherese,non c'è solo un
problema di visione e di
sovranità economica. Chè pure
sarebbe gran cosa,visto che
anche l'Italia viene messa sotto
pressione per salvare una
banconota.
Al governo magiaro viene
anche contestato il fatto di
stare approfittando della crisi
per limitare la democrazia in
riva al Balaton.
Il vicepresidente del gruppo
S&D, il tedesco Hannes
Swoboda, ed il leader dell'Alde,
il belga Guy Verhofstadt, hanno
chiesto che venga applicato
l'art.7 del Trattato di Lisbona
che si applica in caso di
violazioni ai principi fondanti
della Ue in tema di democrazia,
liberta' fondamentali e diritti
dell'uomo.
Tra le sanzioni previste
dall'art.7 c’è anche la
sospensione del diritto di voto
in Consiglio per il paese che ne
viene colpito. Un portavoce
della Commissione europea ha
ricordato che tale articolo non è
mai stato utilizzato nella storia
dell'Unione europea,
affermando che esso sarebbe
una "ultima risorsa", "ma non
siamo ancora a questo punto".
"Siamo dalla parte del popolo
ungherese che viene messo
sempre più sotto pressione dal
governo Orban. L'applicazione
dell'art.7 deve essere
seriamente presa in
considerazione se Orban
continuerà a sfidare
deliberatamente le leggi ed i
valori europei" ha detto
Swoboda che ha anche
auspicato che il Ppe sospenda il
premier ungherese dal ruolo di
vicepresidente del partito.
Anche secondo Guy Verhofstadt
la situazione in Ungheria e'
degenerata al punto tale che
"non e' piu' tempo di scambio
di lettere", ma "e' giunto il
momento di avviare sanzioni
legali e politiche" sulla base
dell'art.7. "E' tempo di
applicarlo - ha detto
Verhofstadt - per proteggere la
democrazia ed i diritti
fondamentali in Ungheria e
nella Ue, ma anche per evitare
di stabilire un pericoloso
precedente e dare un cattivo
esempio ai paesi che aspirano
ad entrare nell'Unione".
La questione Ungheria figurera'
ovviamente nell'agenda del
Collegio" dove si terra' una
"discussione politica
sull'Ungheria e le leggi
recentemente adottate" ma, ha
aggiunto il portavoce di
Bruxelles, "non si può dire se
sarà già presa una decisione"
sull'eventuale apertura di una o
più procedure d'infrazione nei
confronti del paese.
L'Ungheria non è riuscita a
vendere l'intero ammontare di
titoli di Stato nell'asta di oggi e
il fiorino ha toccato un record
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negativo: 324 per un euro. Il
rischio insolvenza non è mai
stato così alto e i negoziatori
chiedono con urgenza un
pacchetto di assistenza al Fmi e
all'Ue.
In cosa consistono queste
contestate limitazioni?
leggiamo assieme questo
articolo:
L’Orbán di oggi e l’Orbán di ieri
sono due persone diverse.
Irriconoscibili. Le idee del
primo ministro ungherese sono
cambiate profondamente, nel
corso degli anni. Viktor Orbán
all’inizio della sua carriera era
un giovane liberale, vicino a
posizioni progressiste. A
distanza di vent’anni lo
ritroviamo conservatore,
intento a promuovere una
“rivoluzione costituzionale” che
sta suscitando perplessità e
riserve in Europa. Abbiamo
chiesto allo storico Federigo
Argentieri, docente della John
Cabot University, autore di
numerosi studi sulla storia
magiara e in particolare sulla
rivoluzione del 1956, di
spiegarci la situazione in corso
a Budapest, anche alla luce
della biografia orbaniana.
Autoritarismo,
conservatorismo, fascismo di
ritorno. Le definizioni si
sprecano. Secondo lei come si
qualifica il progetto Orbán ?
Si sta un po’ esagerando,
nell’inquadrare lo scenario.
Certo, il progetto di Orbán è
quello che è. Ma non è eversivo.
Vedo sostanzialmente due
principi ispiratori, uno di
natura economica, l’altro che
riguarda l’identità politica. Da
una parte c’è la volontà di
“ungheresizzare” il capitalismo
nazionale. La finanza magiara è
in mano ai grandi investitori
internazionali e il desiderio del
primo ministro è quello di
riportare nelle mani dei
concittadini beni e risorse, così
che si crei quella classe
borghese ungherese e cristiana
– qui l’accento va più posto sul
discorso nazionale che sulla
religione – che dovrebbe
rappresentare la linfa della
“nuova” Ungheria, secondo il
progetto di Orbán .
Accanto a questo c’è la voglia di
esautorare completamente gli
ex comunisti. Il preambolo
della Costituzione, se analizzato
attentamente, squalifica il
Partito socialista, considerato
l’erede della tradizione
comunista. Le nuove leggi
prevedono altresì la possibilità
di istruire processi contro chi,
in epoca comunista, s’è reso
responsabile di crimini. Non
credo, tuttavia, che ci saranno
“purghe” in grande stile. Vero è,
però, che in questo emerge
l’intenzione di “purificare” il
Paese dall’eredità del
comunismo, nella convinzione
che essa si sia trascinata fino ai
giorni nostri. Da storico vedo
una sorta di parallelo con la
situazione del 1921.
Ce la spieghi.
In quell’anno il regime
dell’ammiraglio Miklós Horthy,
che non era di natura fascista,
ma conservatore con forti tratti
autoritari, fece un accordo con
il Partito socialdemocratico,
che era stato alleato dei
comunisti di Béla Kun durante
la (breve) stagione della
repubblica dei consigli, di
ispirazione sovietica. Il primo
ministro István Bethlen e il
numero uno dei
socialdemocratici Károly Peyer
stipularono un’intesa che
permise ai socialdemocratici di
correre alle elezioni nelle città
(anche se il voto era segreto),
ma di tenersi fuori dalle aree
rurali, bacino di consenso del
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regime. Il significato era chiaro.
Horthy faceva delle concessioni
agli ex alleati di Béla Kun e
legittimava una certa loro
presenza nella sfera politica,
con l’obiettivo di bandire il
comunismo e di annientarne
l’eredità. Ecco, facendo i dovuti
paragoni lo stesso vale oggi:
Viktor Orbán vede nel
comunismo e nei suoi eredi
un’entità nefasta e punta a
delegittimarli. Questo
approccio è dettato anche da
spirito vendicativo, dettato
dalle sconfitte elettorali
rimediate nel 2002 e nel 2006,
che diedero il potere al Partito
socialista.
Nel preambolo della
Costituzione si riconosce alla
rivoluzione del 1956 un valore
fondante. Perché? Non è vero
d’altronde, come lei ha sempre
sostenuto, che quella fu
un’esperienza di sinistra?
La mia tesi è questa, appunto. Il
revisionismo comunista, la
socialdemocrazia e la
tradizione contadina di sinistra
si amalgamano nell’ultimo
governo di Imre Nagy, prima
della repressione sovietica.
Volevano cancellare lo
stalinismo e costruire una
nuova forma di democrazia, da
sinistra. La Costituzione targata
Orbán sposta la lettura sui
elementi civici e nazionali della
rivoluzione. Mi sembra che ci si
rifaccia al celebre discorso
radiofonico che il cardinale
József Mindszenty, liberato nel
1956 dopo una lunga prigionia,
pronunciò il 3 novembre di
quell’anno. «Questa non è una
rivoluzione, ma una lotta per la
libertà», disse il cardinale, a
rimarcare l’aspetto nazionale
dell’insurrezione. È a questo
che Orbán dà peso, quando si
ricollega all’eredità del 1956.
Orbán era inizialmente un
liberale progressista. Com’è
arrivato alle posizioni di oggi?
Orbán era una delle personalità
di spicco della Fidesz, l’Unione
Civica Ungherese della prima
ora, formazione liberale,
progressista, impegnata sui
diritti civili. Volendo trovare un
esempio nell’Europa attuale,
potremmo dire che ci sono
analogie con i libdem
britannici. Nel 1990 la Fidesz
rimase all’opposizione,
criticando aspramente il
governo capeggiato da József
Antall, una sorta di
democristiano europeo, un po’
De Gasperi, un po’ Kohl.
Quattro anni dopo, quando i
socialisti vinsero le elezioni e si
allearono con i
liberaldemocratici, Orbán
scelse ancora la via
dell’opposizione. Ma nel
frattempo aveva iniziato a
mutare le sue posizioni. Antall,
prima di morire (1993), lo
investì della sua eredità
politica, convincendolo a
staccarsi dal progressismo –
elettoralmente limitante – e a
spostarsi nel campo del
centrodestra. Alcuni membri
della Fidesz non accettarono la
svolta e lasciarono il partito. Ma
la maggioranza seguì Orbán,
che nella prima esperienza di
governo (1998-2002) ha
cercato di mettere in pratica le
sue nuove idee, senza però
riuscirci, a causa delle ripetute
mediazioni a cui l’hanno
costretto gli alleati di governo.
Il nuovo Orbán s’è formato
durante gli otto anni passati
all’opposizione. È in questo
arco di tempo che il progetto a
cui oggi stiamo assistendo,
favorito dalla maggioranza
schiacciante ottenuta dalla
Fidesz nel 2010, ha preso
forma.
Pensa che il fenomeno Orbán
sia frutto del fatto che
l’Ungheria non ha fatto ancora
tutti i conti con la storia?
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Se guardiamo ancora il
preambolo della Costituzione,
nella parte in cui si spiega che il
Paese fu privato
dell’indipendenza dal ’44
(occupazione nazista) al ’91
(ritiro definitivo dei sovietici),
vediamo delle carenze,
soprattutto sul primo punto.
Diversi ungheresi sostennero
infatti il regime filonazista. Ma
è anche vero che l’Ungheria,
che sul piano del confronto con
la propria storia non è che sia
così indietro, è in buona
compagnia. Che dire della
Francia dove Vichy è ancora un
ingombrante macigno
storiografico, per non parlare
dell’Italia, dove sia il fascismo
che la resistenza sono ancora
trattati senza il necessario
distacco…
Considero questo articolo
abbastanza equilibrato.
Leggendolo, la considerazione
che viene da fare è che
l'Ungheria forse sta utilizzando
i metodi sbagliati, ma sta
indicando una via.
L'elemento più sottaciuto di
questa crisi non è il modello
"capitalista" o "liberista" (cosa
ci sia di liberale e libertario
nell'accentrare tutta la politica
monetaria, fiscale ed
economica nelle mani della BCE
non è ancora dato sapere),
quanto la violenza con cui ci
viene propalata come unica via
il continuare a dipendere dalle
istituzioni europee.
Quando invece l'UE sempre più
si sta dimostrando non la
soluzione, ma il problema.
I dubbi sulla svolta autoritaria
del governo ungherese sono
legittimi; ma rischiano
seriamente di fare scuola. Non
so Orban alla fine si risolverà a
chiedere di mettere l'Ungheria
sotto l'ombrello dell'FMI.
Ma il fuoco continua a covare
sotto la cenere.
Ci domandiamo quanto tempo
ancora dovrà passare prima
che venga messo in dubbio il
dogma europeista in modo
profondo. Ma soprattutto,
quando questo avverrà, ci sarà
ancora spazio per una
soluzione pacifica?
Eric Draven
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L’antifascismo mitico
della sinistra italiana
di Florian
Quando il 30 dicembre scorso il
sito web de Il Fatto Quotidiano
ha commemorato la scomparsa
di Mirko Tremaglia - una vita
nel Msi, poi deputato di An ed
infine di Fli -, i commenti dei
lettori non sono stati teneri con
un uomo che fino a quando è
stato vivo, e ancora da morto,
ha scontato presso una non
piccola parte di italiani
l’imperdonabile colpa d’essere
stato fascista.
Questa circostanza può indurci
a riflettere su quella che è vera
natura della sinistra italiana e
parimenti della destra che le si
oppone. E’ opinione diffusa che,
malgrado gli innesti e le
revisioni successive, queste
aree contrapposte da noi
riflettano ideologie
novecentesche “dure a morire”
quali il comunismo e il
fascismo. Ma siamo sicuri che
quanti ancora si disprezzano
vicendevolmente siano gli eredi
diretti di Togliatti e Mussolini,
di Gramsci e di Gentile? Per
davvero il comunismo e il
fascismo rappresentano due
poli inconciliabili della politica
e dunque irriducibilmente
alternativi?
Ad essere onesti, che in Italia
fascisti e comunisti non siano
nati per farsi necessariamente
la guerra ce lo ricordano ancora
diversi fattori. Bersaglio dei
fascismo non era il comunismo
in sé ma l’internazionalismo e il
pacifismo delle
socialdemocrazie. Mentre
l’anticapitalismo rivoluzionario
di Mussolini è confermato dalle
origini socialiste dell’uomo che
gli valsero l'apprezzamento di
Lenin, il filosofo Gentile
considerava i suoi oppositori
comunisti alla stregua di
“corporativisti impazienti”.
Senza tirare qui in ballo tutto
l'armamentario ideologico del
cosiddetto "fascismo di
sinistra", si può sottolineare
senza timor di smentita che tra
estrema destra ed estrema
sinistra, prima dell’entrata
italiana in guerra, ci fosse più
concorrenza che aperta
contrapposizione.
Naturalmente l’attacco nazista
alla Russia comunista cambiò
radicalmente i rapporti tra i
fascisti e i comunisti italiani. Ma
anche a chiusura del conflitto
che i vecchi rapporti non
fossero stati del tutto
dimenticati lo dimostra il
provvedimento varato nel 1946
dal segretario del PCI, Togliatti,
allora ministro della Giustizia
del governo De Gasperi, volto
ad amnistiare i reduci di Salò –
a dispetto della volontà
contraria del Partito d’Azione –,
per intercettare umori e voto
contro la Democrazia Cristiana.
Tuttavia questo
riavvicinamento tra fascismo e
comunismo doveva subire un
duro colpo a causa della
propaganda stalinista, la quale
nell’immediato dopoguerra
pensò bene di agitare il
fantasma del nemico “fascista”,
ormai battuto, contro gli
americani e i loro alleati nella
Guerra Fredda. In ragione di ciò
vennero additati a “fascisti”
non solo i conservatori e i
liberali, ma gli stessi riformisti
anticomunisti ad ovest del
muro di Berlino, che si meritò
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la qualifica di “barriera di
protezione antifascista”. Fu così
che anche la sinistra italiana si
eserciterà in una surreale lotta
politica “antifascista” pur in
mancanza di un reale pericolo
fascista. Col paradosso finale di
riuscire persino a risuscitare il
morto.
Secondo il filosofo marxista
Costanzo Preve, “la
prosecuzione dell’antifascismo
in assenza manifesta di
fascismo ha rappresentato (e
rappresenta) il minimo comun
denominatore di correnti
disparate, il comunismo
(l’antifascismo è più prestabile
della dittatura del proletariato
e del dispotismo staliniano),
l’azionismo (il fascismo
rivelazione dei difetti atavici
degli italiani, popolo delle
scimmie corrotto dai gesuiti),
ed infine l’americanismo (no ai
dittatori, non importa se rossi o
neri). È evidente – dice ancora
Preve - che una simile risorsa
ideologica, per di più gratuita,
non poteva essere
abbandonata, e doveva essere
spremuta come un limone fino
all’ultima goccia”. E “chi avesse
osato contestarla poteva
aspettarsi accuse di
antisemitismo, di rosso-
brunismo, eccetera”. (1)
Dall’altra parte, per volontà
degli americani e per sfuggire
alla ghettizzazione sociale ed
esercitare un ruolo sulla scena
politica postbellica, il
neofascismo giunse a
considerarsi specularmente
“anticomunista” dando luogo a
quella contrapposizione che
provocò un’insensata scia di
morti e stragi tra gli anni
settanta e ottanta.
Ecco dunque come, sullo sfondo
della Guerra Fredda e in virtù
di condizionamenti esterni,
andarono ad operare, dietro le
maschere del fascismo e del
comunismo, due partiti del
tutto diversi e che sarebbe
legittimo chiamare
“anticomunista” e “antifascista”
in quanto si caratterizzarono
più per l’odio antropologico che
per tesi politiche negli anni
annacquatesi fino ad essere
rinnegate del tutto.
Ed è dunque dall’inconsistenza
politica dell’anticomunismo e
dall’antifascismo che sono nati i
due poli bipolari della Seconda
Repubblica, talmente fasulli da
essersi presto mimetizzati
nell’ancor più farsesca guerra
civile tra berlusconiani ed anti.
Risultato inevitabile quando, a
fronte di una classe politica
senza più identità politica e per
questo oggi felicemente schiava
di nuovi poteri tecnocratici,
l’”antifascismo mitico” trovi
ancora riscontro presso una
base sconcertata e confusa che
nell’artificiosa sovrapposizione
del populismo xenofobo col
fascismo storico si illude di
mantenere ancora salva la
propria anima.
(1) Costanzo Preve, Le lacrime
della signora Fornero
http://www.antimperialista.it/ind
ex.php ... =78:italia
Florian
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Un metro e mezzo di
statura
di Fulvia
I malati di nanismo
acondroplasico hanno in virtù
del loro aspetto fisico una
storia, anche a tratti morbosa,
che si rintraccia fin dall’epoca
degli Egizi. La statua calcarea
raffigurante il dignitario e
sacerdote Seneb, ritratto con
grande dignità insieme alla sua
famiglia, e che fu al servizio dei
faraoni Cheope e Gedefr,a risale
circa al 2500 a. C. Era un dio
minore il nano Bes, protettore
della casa e dei bambini,
particolarmente nel momento
critico della nascita, e questo
ruolo ne diffuse l'immagine in
molti oggetti della vita
quotidiana, come ad esempio i
poggiatesta, da cui vegliava sul
sonno degli inermi dormienti.
Una delle sue statue si trova al
Museo Egizio di Torino e
proviene dal Tempio di Amon, a
Tebe.
Anche in Grecia i nani erano
considerati protettori dei
bambini, beneauguranti, in
grado di dispensare fertilità ed
erano presenti nei culti
dionisiaci. I più celebri nani
della mitologia greca furono i
Dattili Idei, non raramente
identificati con i Cabiri di
Lemno, discendenti diretti di
Efesto, con i quali condividono
le capacità metallurgiche.
La tendenza propria del mondo
ellenico, di attribuire grande
importanza alla perfezione
fisica rende conto della scarsa
sensibilità della cultura classica
nei confronti della diversità:
nella Repubblica di Platone le
irregolarità non devono
esistere e debbono essere
relegate in un luogo celato. In
età regia e repubblicana, a
Roma, i soggetti con
imperfezioni fisiche venivano
eliminati drasticamente. A
partire dall’età imperiale,
invece, poter esibire nani come
accompagnatori o consiglieri
divenne motivo di
compiacimento. Nei Saturnalia
Domiziano faceva combattere i
nani tra loro o contro donne, o
li faceva esibire nelle
venationes, forma di
divertimento negli anfiteatri
romani che implicavano la
caccia e l'uccisione di animali
selvatici. Le matrone li
tenevano con loro come buffoni
o accompagnatori, e si arrivava
a deformare appositamente
bambini sani per renderli simili
ai nani, in modo da averne un
guadagno vendendoli. E’ con
l’imperatore Alessandro Severo
che cresce l’intolleranza per il
costume di impiegare nani
nelle mura domestiche. Ma è la
diffusione del Cristianesimo a
modificare ancora il rapporto
con la diversità e a rendere
conto del radicale mutamento
degli atteggiamenti sociali nei
confronti dei nani. Il diverso è
altra res, altra manifestazione
del concetto di divino che
nell’organizzazione medievale
dell’universo sfugge alla
comprensione. Così l’anomalos
si identifica con l’anomos, il
senza legge e , per estensione,
con l’individuo privo di valore
sociale. Oltre a questo va
ricordato come nel Medioevo
pur se la morale cristiana
imponeva l’assistenza e la
carità nei confronti dei più
deboli, si considerava la
malattia come una forma di
espiazione e punizione dei
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peccati. Nel medioevo i nani si
mescolano in un coacervo di
figure che verranno poi definite
“giullari”, la cui storia è
mirabilmente trattata da
Gaetano Bonifacio nel suo
“Giullari e uomini di corte nel
200”. Nel Rinascimento i nani
ritornarono ad essere una
manifestazione del lusso delle
grandi corti e in virtù
dell’essere ritenuti dotati di
viva intelligenza, sono presenti
come consiglieri e confidenti di
potenti.
Moltissimi di noi non sanno di
conoscere Phineas Taylor
Barnum, che divenne famoso
per aver creato l'American
Museum nel 1842, e il circo
chiamato The Greatest Show on
Earth ("Il più grande spettacolo
del mondo"), dove venivano
ospitati anche nani
acondroplasici, oltre che altre
persone affette da quelle che
oggi chiamiamo malattie, come
i gemelli siamesi. In era
moderna i nani furono
orribilmente oggetto degli studi
di Josef Mengele e Otmar
Freiherr von Verschuer, come
altri disabili e non passati
attraverso i lager nazisti.
Il nanismo acondroplasico è
una malattia che colpisce le
cartilagini. L’aspetto fisico è
caratteristico, l’aspettativa di
vita normale se non si
verificano problemi respiratori
o neurologici nella prima
infanzia. L’intelligenza è
normale, lo sviluppo sessuale
normale. Non ci sono cure
specifiche, se non di tipo
ortopedico.
Ogni anno in Italia sono circa
3000 i neonati abbandonati, e a
volte sono ritrovati morti. Non
posso dimenticare che dodici
anni fa sul cassonetto dei rifiuti
sotto casa mia era applicato un
adesivo che inseriva nel cerchio
colla sbarra tipica dei divieti la
figura di un bambino con il
cordone ombelicale ancora
attaccato. Ogni volta che un
povero corpicino riemerge da
un cassonetto, una roggia,
quando si fa in tempo a salvarlo
e soprattutto quando non si fa
in tempo, credo che tantissimi
tra noi hanno detto o pensato
“Perché non lo ha lasciato in
ospedale?”.
La legge italiana permette alla
donna di partorire
nell'anonimato e di non
riconoscere il figlio, garantendo
allo stesso tempo al bambino il
diritto di crescere in una
famiglia. E’ una legge che tutela
due figure giuridiche, la madre
e il figlio. E’ una legge che io
vorrei pubblicizzata tramite i
mass media in tutte le lingue
del mondo, affinché quando
una madre non vuole o non può
riconoscere il proprio figlio
sappia che l’ospedale
garantisce l’anonimato del
parto. Io sono dell’opinione che
occorre ripristinare le ruote
degli esposti, in ospedale, con
termoculle e sensori che
rivelino la deposizione di un
bimbo, in aggiunta e non in
alternativa alla
pubblicizzazione del parto
anonimo.
A Roma sul circa 25.000 nascite
dello scorso anno ci sono stati
40 casi di mancato
riconoscimento di neonati. Per
la maggior parte dei casi la
motivazione era un grado di
povertà estrema mentre in un
piccolo numero il neonato non
è stato riconosciuto perché
malato. 10 bambini di età
diversa, portatori di patologie
sono ospitati nelle case-
famiglia di Roma e attendono di
essere adottati, alcuni sono in
età scolare e forse non lo
saranno mai.
Trovo stucchevoli le
dichiarazioni del vicesindaco di
L’Argonauta
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Roma Sveva Belviso e credo che
in certe sfumature sia legittimo
sospettare che stia speculando
su questo fatto per darsi un
poco di visibilità. Infatti si
affretta a auspicare il
ripensamento dei genitori
anche perché "All'apparenza
nulla lascerebbe pensare al
male di cui soffre". Signora
Belviso, l’aspetto di un neonato
affetto da acondroplasia è lo
stesso di un bambino normale.
Le stimmate fisiche
dell’acondroplasia (ribadisco
che parliamo di normalità
dell’intelligenza) si
manifestano con il mancato
accrescimento delle cartilagini.
Quindi basterebbe informarsi
un attimo prima su Wikipedia.
Un seconda istanza, se
l’apparenza invece avesse
svelato immediatamente il
male di cui il bambino soffriva
avrebbe sperato ugualmente a
un ripensamento dei genitori er
avere ancora migliore visibilità
fissa anche ora e luogo di
incontro coi cronisti, anche con
quelli che magari non avevano
preso in considerazione l’idea
di intervistarla "Abbiamo
appreso dalla clinica Nuova
Città di Roma che il bimbo ha
avuto una grave crisi
respiratoria ed è stato
trasferito a Villa San Pietro. Alle
15.45 mi recherò di persona
all’ospedale per accertarmi
delle sue condizioni di salute".
La Belviso dichiara inoltre che,
qualora i genitori non
riconoscessero il figlio neanche
in un momento successivo, "E
io come vuole la legge, ne
diventerò la mamma tutrice".
No cara vicesindaco. Lei ne
diventerà il tutore legale, forse,
perché la figura della legale
mamma tutrice semplicemente
non esiste. Esiste il tutore.
Metterci quel “mamma”, se lo
ha fatto, è almeno cattivo gusto.
Sempre la Belviso dichiara "È
triste pensare che oggi abbiamo
inaugurato il cimitero dei
bambini mai nati dove
andranno a pregare genitori
che volevano ma non potranno
più amare e stare accanto ai
loro figli, e invece qui c'è un
bambino, vivo, che vuole solo
essere amato». Gentilissima
signora, se c‘è un modo forse di
ridurre la mortalità infantile è
proprio quello di incentivare il
parto anonimo, che è una
garanzia civilissima di tutela di
madre e bambino. E reputo
stucchevole che pur di farsi un
poco di pubblicità lei approfitti
della notizia per rimarcare un
provvedimento, quello sul
cimitero per i feti, che sta
creando non poche polemiche e
che da più parti viene letto
come l’ennesimo tentativo di
colpevolizzare le donne che
ricorrono all’interruzione di
gravidanza.
Il nanismo acondroplasico è
una patologia che causa un
handicap fisico ma non
mentale, e spesso compatibile
con una vita perfettamente
normale. Queste persone
possono avere problemi
ortopedici che li porteranno a
dovere forse affrontare gli
interventi, ma sono persone
che hanno soprattutto la grave
“colpa” di avere un aspetto
caratteristico. Sono persone di
bassa statura la cui maggiore
difficoltà è quella di vivere in
un mondo di cosiddetti
normali, che hanno visto nei
millenni discriminazioni,
violenze e soprusi. Persone di
cui si deride in modo volgare la
sessualità, l’affettività, le
difficoltà. Sono persone per le
quali è legittimo l’aborto
terapeutico, che ha in questo
caso il sapore vero
dell’eugenetica.
Fulvia