l'argonauta n. 16

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Il dibattito su www.iltuoforum.net Diamo spazio alle opinioni di tutti Il settimanale libero di www.iltuoforum.net Numero 16 - Lunedì, 5 Dicembre 2011 Patet exitus: si pugnare non vultis, licet fugere Panoramica storica sul suicidio Il dibattito sul suicidio ha visto coinvolti nel corso della storia numerosi filosofi e pensatori. La liceità o meno dell’usare violenza contro di sé, ed eventualmente in quali circostanze l’uso della violenza trovi una propria motivazione etica fu oggetto di dibattito filosofico fin dalla Grecia antica. Platone nel suo Fedone dice, per bocca di Socrate: “Non è lecito all’uomo sostituirsi al volere degli dei”. Secondo Platone la non liceità del suicidio deriva dall’essere sulla terra come il soldato di un posto di guardia, posto dal quale non possiamo allontanarci senza averne il permesso. Sempre Platone afferma la non disponibilità della vita, che è affidata agli dei ai quali si deve lasciare totale arbitrio. L’uomo è subordinato al loro volere e privo del diritto di autodeterminazione della morte. Lo stesso Platone però, più avanti negli anni, nelle Leggi, postula tre evenienze in cui si può eccepire al divieto del suicidio: se questo è ordinato dallo Stato, per irreparabile ignominia o per un’insopportabile disgrazia. Nell’ Etica Nicomachea aristoteliana il suicidio è condannato non solo come atto di viltà, ma anche come crimine vero la polis. L’individuo è parte della società e non può, suicidandosi, sottrarsi ai doveri che gli derivano dall’appartenenza alla polis, a meno che non sia la città a chiedergli il suo sacrificio. Gli stoici hanno una concezione decisamente tollerante circa la possibilità di porre fine liberamente alla propria vita, purchè il suicidio sia attuato in precise circostanze. Per gli stoici la vita è solo il presupposto dell’agire etico sintetizzato nel Patet exitus: si pugnare non vultis, licet fugere”. Desperata salus, il non ritenere più possibile la salvezza, necessitas, l’essere costretti al suicidio per ordine o coazione (mors iussa o mors coacta), furor o suicido per follia, dolor nelle forme di impatienta doloris o valetudinis, ovvero per malattia fisica o mentale, pudor ovvero per vergogna, execratio o suicidio per vendetta, mala coscientia ossia suicidio per senso di colpa, tedium vitae nell’anziano, per dolore fisico intollerabile come avviene nell’inpatientia, per devozione e fedeltà come nelle devotio e fides, o per iactation termine con

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Il dibattito su www.iltuoforum.net

Diamo spazio alle opinioni di tutti

Il settimanale libero di www.iltuoforum.net

Numero 16 - Lunedì, 5 Dicembre 2011

Patet exitus: si pugnare non

vultis, licet fugere

Panoramica storica sul suicidio

Il dibattito sul suicidio ha visto

coinvolti nel corso della storia

numerosi filosofi e pensatori. La

liceità o meno dell’usare violenza

contro di sé, ed eventualmente

in quali circostanze l’uso della

violenza trovi una propria

motivazione etica fu oggetto di

dibattito filosofico fin dalla

Grecia antica.

Platone nel suo Fedone dice, per

bocca di Socrate: “Non è lecito

all’uomo sostituirsi al volere degli

dei”. Secondo Platone la non

liceità del suicidio deriva

dall’essere sulla terra come il

soldato di un posto di guardia,

posto dal quale non possiamo

allontanarci senza averne il

permesso. Sempre Platone

afferma la non disponibilità della

vita, che è affidata agli dei ai

quali si deve lasciare totale

arbitrio. L’uomo è subordinato al

loro volere e privo del diritto di

autodeterminazione della morte.

Lo stesso Platone però, più

avanti negli anni, nelle Leggi,

postula tre evenienze in cui si

può eccepire al divieto del

suicidio: se questo è ordinato

dallo Stato, per irreparabile

ignominia o per

un’insopportabile disgrazia.

Nell’ Etica Nicomachea

aristoteliana il suicidio è

condannato non solo come atto

di viltà, ma anche come crimine

vero la polis. L’individuo è parte

della società e non può,

suicidandosi, sottrarsi ai doveri

che gli derivano

dall’appartenenza alla polis, a

meno che non sia la città a

chiedergli il suo sacrificio.

Gli stoici hanno una concezione

decisamente tollerante circa la

possibilità di porre fine

liberamente alla propria vita,

purchè il suicidio sia attuato in

precise circostanze. Per gli stoici

la vita è solo il presupposto

dell’agire etico sintetizzato nel

“Patet exitus: si pugnare non

vultis, licet fugere”. Desperata

salus, il non ritenere più possibile

la salvezza, necessitas, l’essere

costretti al suicidio per ordine o

coazione (mors iussa o mors

coacta), furor o suicido per follia,

dolor nelle forme di impatienta

doloris o valetudinis, ovvero per

malattia fisica o mentale, pudor

ovvero per vergogna, execratio o

suicidio per vendetta, mala

coscientia ossia suicidio per

senso di colpa, tedium vitae

nell’anziano, per dolore fisico

intollerabile come avviene

nell’inpatientia, per devozione e

fedeltà come nelle devotio e

fides, o per iactation termine con

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cui si indicava raramente il

suicidio filosofico erano

comunemente accettati come

motivazioni al suicidio.

La categorica condanna al

suicidio si diffonde insieme al

Cristianesimo prima con

Agostino d’Ippona, per

estensione del V comandamento

– non uccidere – e

successivamente da Tommaso

d’Aquino nel Summa

Theologiae, come gesto diretto

contro la naturale tendenza

all’autoconservazione, contro la

società a cui appartiene il

singolo, contro il dono divino

della vita.

Il suicidio acquisisce la

connotazione del crimine, e si

passa dalla condanna del

peccatore alla sua

criminalizzazione, tanto che in

mancanza del reo a cui fare

scontare una condanna ci si

accanisce contro il suo cadavere

e la sua tomba, in una serie

lunghissima di vilipendi.

La trattazione del suicidio vedeva

però già nel Rinascimento

contrapporsi a questa visione

etico-religiosa un approccio di

carattere medico che pur

mantenendo al suicidio in sé un

carattere demoniaco mitigava la

colpa del suicida in quanto privo

per vizio di mente della

volontarietà di suicidarsi. E’

proprio nel Rinascimento,

seppure spesso col carattere di

una doppia morale (una

inflessibile che condannava il

suicidio delle classi povere e una

che invece tendeva a occultare e

a mitigare la responsabilità dei

suicidi appartenenti al clero o

alla nobiltà), che vengono ripresi

quei concetti di malattia già

dibattuti da Aristotele, Celso,

Galeno, Ippocrate. Da questa

dibattito si sollevavano voci a

favore di un atteggiamento di

maggiore pietà e comprensione

per il suicida.

L’Illuminismo criticò la durezza

delle leggi che colpivano il

suicida e la sua famiglia,

arrivando a giustificarne alcune

circostanze, riprendendo in

parte l’etica degli stoici, e

rivendicando il possesso della

propria vita contro il dispotismo

di Dio o dello Stato. Il dibattito si

svolse in gran parte attraverso

opere romanzate in cui la le

prese di posizione avvengono

per bocca dei personaggi (vedi

ad esempio I dolori del giovane

Werther).

Con lo sviluppo delle scienze

sociologiche e della psicologia il

suicidio diventa una risposta

fortemente condizionata se non

addirittura coatta a un dolore

senza rimedio e senza uscita, un

percorso di comprensione che è

ancora in corso, che si propone

di analizzare quello che resta

comunque una decisione

multifattoriale e per molti versi

incomprensibile, che lascia solo

marginalmente aperto lo

spiraglio della volontarietà

dell’uomo.

Fulvia

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Schadenfreude

Cattiverie italo-tedesche, da

Schnellinger a Berlusconi

di Florian

Schadenfreude, ovvero il

“piacere provocato dalla

sfortuna dell’altro”, non è solo

uno di quei termini intraducibili

nella nostra lingua tipici del

vocabolario tedesco, ma anche

quello che più sottintende il

difficile rapporto tra Italia e

Germania. Una relazione spesso

proficua, ma tormentata da

stereotipi duri a morire, che

hanno trovato nuova linfa negli

ultimi decenni. Dalla

riunificazione delle due

Germanie all’avvento in Italia di

Silvio Berlusconi è possibile

parlare di una “estraniazione

strisciante” tra questi due Paesi

che non riescono più a

comprendersi forse perché da

tempo hanno smesso di parlarsi.

Le polemiche di questi giorni che

dividono l’opinione pubblica

italiana da quella tedesca in

merito all’Unione Europea, i

debiti nazionali e gli eurobonds

stanno rinforzando i detrattori

dell’asse italo-tedesco,

particolarmente agguerriti, nei

rispettivi Paesi. La polemica fra

Italia e Germania è di lunga data

e trova la sua ragion d’essere in

una contrapposizione sia

culturale che storica. Quella

culturale riguarda il contrasto tra

latinità e germanesimo che si

può far risalire a Tacito. Quella

storica invece si avvale del

risentimento italiano per la lunga

dominazione di popoli di lingua

tedesca e per le due guerre

mondiali che hanno visto i due

Paesi contrapposti. E’ inutile dire

che nel secondo di questi

conflitti l’alleanza nazi-fascista,

subìta più che accettata dalla

popolazione italiana, ha sparso

molto sale su di una ferita da

tempo aperta. Nel dopoguerra,

che per molti versi ha

rappresentato da ambo le parti il

tempo dell’oblio, Italia e

Germania (Federale) si sono

trovate dalla stessa parte nella

ricostruzione e nella Guerra

Fredda e attorno al mito

dell’unificazione europea si è

creato un nuovo clima positivo

tra le rispettive classi dirigenti.

Tuttavia il pregiudizio dell’uomo

comune era tanto resistente ed

indifferente ai doveri della

realpolitik che si è conservato

piuttosto bene ancora oggi ed è

giusto che il nostro breve viaggio

sulle cattiverie italo-tedesche

parta proprio da qui.

Un diffuso luogo comune vuole

gli italiani stimare i tedeschi ma

non amarli, e i tedeschi amare gli

italiani senza stimarli. Per gli

italiani che non hanno mai

visitato la Germania e ancor più

quelli che in Germania ci sono

andati per lavorare costretti, il

tipico tedesco è un personaggio

efficiente quanto ottuso e privo

del naturale calore latino.

Viceversa, per un tedesco che

non abbia mai oltrepassato a sud

le Alpi o per chi solitamente lo fa

d’estate per stabilirsi in una delle

tante località balneari della

nostra penisola, l’italiano medio

è persona tanto amabile quanto

disorganizzata. Già il sommo

Goethe al termine del suo

viaggio in Italia annotava:

“Cerchi invano la probità

tedesca; qui c’è vita e

animazione, non ordine e

disciplina; ciascuno pensa solo a

sé e diffida degli altri, e i reggitori

dello Stato, anche loro, pensano

a sé soli.”

Fin qui siamo ancora al riparo del

savoir faire. Quando invece gli

animi si surriscaldano, e non

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accade di rado, allora il tedesco

per l’italiano diventa subito un

sadico nazista e l’italiano per il

tedesco un perfido mafioso.

Nazismo e mafia: bisogna

ammettere che, malgrado gli

sforzi sinceri e ammirevoli degli

ammiratori reciproci, la “pancia”

dei due popoli ragiona ancora

così. Ce ne siamo accorti bene

quando il nostro premier

Berlusconi, al Parlamento

europeo, toccato sul vivo in

merito a giustizia e conflitto

d’interessi, ha replicato al

deputato tedesco dell’SPD

Martin Schulz con queste parole:

“So che in Italia stanno girando

un film sui lager nazisti. La

proporrò per il ruolo di Kapò”.

Pessima gaffe. E a nulla è valsa

l’indignazione di tanti italiani una

volta tanto solidali con un

crucco. Perché in Germania,

contrariamente a quanto

pensano molti di noi, Silvio

Berlusconi rappresenta il tipico

esempio di “arci-italiano”, in

possesso di tutte le

caratteristiche negative con cui si

usa malignamente tratteggiare il

nostro popolo: “scaltro e

invadente, chiassoso e

inaffidabile, un amorale

utilitarista che si crede al di

sopra del diritto e della legge”.

(1)

Tre anni più tardi la rivista

tedesca Der Spiegel rendeva la

pariglia ripubblicando

malignamente, in occasione dei

Campionati del mondo alle

porte, la vecchia copertina con la

pistola sul piatto di spaghetti.

Che se nel ’77 voleva alludere al

nostro terrorismo, nel 2006

l’intento era quello di dipingere i

nostri azzurri come capaci di

vincere coi soliti trucchetti.

Italia-Germania, la partita

infinita

Da quando gli europei hanno

smesso di farsi la guerra è il

gioco del calcio il teatro

privilegiato dei campanilismi, il

solo evento in cui è considerato

lecito far risuonare i tamburi

dell’orgoglio patriottico. E questo

in special modo per Italia e

Germania dove il nazionalismo è

diventato nel dopoguerra un

tabù politico e persino culturale.

L’artefice della rivalità italo-

tedesca sul tappeto verde fu, suo

malgrado, un oscuro terzino

tedesco, Karl-Heinz Schnellinger,

che per ironia della sorte giocava

allora in una squadra italiana, il

Milan. Quando centrò quasi per

sbaglio la porta del nostro

Albertosi, all’ultimo minuto della

semifinale dei Mondiali del ’70 i

suoi compagni italiani gliene

dissero di tutti i colori. Con una

vigorosa partita difensiva l’Italia

stava infatti portando a casa

senza troppi patemi d’animo una

striminzita vittoria per uno a zero

che significava pur sempre la

finalissima col Brasile di Pelè. Ed

ecco che un piede certamente

non sopraffino rimetteva tutto in

gioco portando le squadre ai

supplementari. Supplementari

che, come oggi tutti sanno,

faranno di quella partita una

leggenda e daranno modo agli

italiani, alla fine vincenti con un

rocambolesco quattro a tre, di

prendersi più volte sul rettangolo

di gioco quelle soddisfazioni che

in misura assai maggiore

arridevano ai tedeschi nella vita

di tutti i giorni. Quella mitica

giornata sportiva diede infatti

inizio ad una serie di rivincite che

la piccola Italia calcistica poteva

prendersi sulla grande Germania

economica. Vennero infatti la

vittoria “mundial” di Spagna ’82

e l’ultima, beffarda, a Berlino

2006 che permise agli azzurri,

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sempre in semifinale e sempre ai

supplementari, di superare i

panzer per sistemare quindi i

conti in finale con la Francia.

Ma se esiste una mitologia dei

vincitori ne esiste anche un’altra,

non meno efficace, a

disposizione degli sconfitti. Le

vittorie dell’Italia calcistica sulla

Germania sono state considerate

dal nostro popolo come la

predominanza dell’estro e della

fantasia sulla mera forza dei

teutonici. Questi ultimi, però,

hanno maturato un’opinione

piuttosto diversa di come sono

andate le cose. C’è una parola

che in Germania oltre a dar

conto del risultato avverso riesce

perfino a nobilitarlo e questa è:

“catenaccio”. L’Italia quadri-

campeon è risultata vincente

grazie al famigerato catenaccio,

termine oggi un po’ in disuso ma

che per decenni ha identificato

uno schema di gioco

particolarmente “abbottonato”

tipico del nostro calcio,

considerato scaltro e sparagnino

dalle pungenti critiche dell’intera

Europa sportiva. Nonostante gli

stessi tedeschi non abbiano quasi

mai offerto del calcio champagne

e nonostante abbiano studiato e

assimilato molti aspetti del

nostro calcio, in pubblico

bisognava denigrare il nostro

esasperato tatticismo come un

classico esempio di anti-

sportività. Vincere all’italiana,

ossia in “contropiede”, altra

parolaccia, fu considerato a

lungo un disonore… specie se ad

avvalersene erano gli undici di

Valcareggi, di Bearzot o di Lippi.

Tuttavia per i tedeschi, gli italiani

del calcio, oltre che furbi e

fortunati, sono stati a lungo

considerati come dei grossi

imbroglioni. Una partita che gli

italiani non ricordano più, ma

che i tedeschi non hanno ancora

dimenticato fu quella che oppose

l’Inter e il Borussia

Moenchengladbach, quella che

passò alla storia come la “partita

della lattina”. Erano gli ottavi di

finale della Coppa dei Campioni

anno 1971/72 e a quel tempo il

‘Gladbach era una squadra

fortissima che grazie a campioni

come Netzer, Vogts e Heynckes

rivaleggiava in patria con il

Bayern di Beckenbauer, Mueller

e Maier. Anche l’Inter era allora

una signora squadra, tuttavia,

forse perché aveva preso

sottogamba l’avversario ancora

poco conosciuto all’estero, andò

presto in svantaggio. Sull’uno a

due Boninsegna venne colpito da

una lattina lanciata dagli spalti

tedeschi e allora gli interisti

chiesero a gran voce la

ripetizione della partita. L’arbitro

fece però continuare e il Borussia

dilagò su un avversario in crisi di

nervi che alla fine rimediò un

pesantissimo uno a sette. Dopo

di che ci fu una lunga battaglia

legale tra le due squadre con

quella italiana che pretendeva la

ripetizione dell’incontro anche se

le regole UEFA non lo

prevedevano. Alla fine, grazie ad

un cavillo, l’avvocato Prisco riuscì

a far ripetere il match e per

giunta su campo neutro. L’intera

Germania insorse contro gli

italiani accusati di

comportamento antisportivo, ma

alla fine la partita fu rigiocata e

terminò con un pareggio che

garantì la qualificazione alla

squadra italiana. Dinanzi ad un

avversario che sembrava vincere

le partite in sede legale o con

l’ausilio della monetina (Europei

‘68) si stagliava l’immagine

eroica dello sconfitto

incolpevole, di Sigfrido

incarnatosi in Kaiser Franz che,

lussatasi la spalla gioca, i

supplementari dell’Azteca con il

braccio legato al corpo. Mirabile

esempio di stoicismo che,

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associato ad un campione di

classe ed eleganza assolute,

alimenta la leggenda di chi è

stato sconfitto ma non vinto. Si

ritorna a Tacito, appunto.

Amore all’arrabbiata

Abbiamo citato solo alcuni

esempi che, dalla politica allo

sport, hanno caratterizzato negli

ultimi decenni la rivalità fra Italia

e Germania. E molti altri ancora

se ne potrebbero fare perché

come si è detto quella in gioco

tra i due Paesi è una partita

infinita. Ma sarebbe sbagliato

oltre che ingeneroso per chi si

prodiga in senso opposto,

guardare le relazioni italo

tedesche soltanto in chiave

negativa. Già nel 1976, in uno dei

suoi celebri “viaggi”, Enzo Biagi

poteva obiettare ai germanofobi

in servizio perenne effettivo che

esisteva anche una Germania

“buona” di cui era importante

parlare, non fosse altro per il suo

enorme contributo dato alla

civiltà europea e mondiale. Poi

venne un Ispettore dai toni

pacati e dallo sguardo

compassionevole, Stephan

Derrick, che ebbe non solo il

merito di essere protagonista di

uno dei più longevi e fortunati

telefilms, ma per quel che ci

interessa qui riuscì a modificare

in misura notevole la percezione

dell’uomo tedesco al di fuori dei

suoi confini. Gli italiani, e non

solo loro, apprezzarono quel

personaggio dai modi garbati,

“conservatore ma sagace” a

detta di Umberto Eco,

assolutamente distante dalla

stereotipata immagine nazista

che Hollywood aveva dei

tedeschi consegnato al cinema.

Negli anni Duemila fu poi un

pilota di Formula 1, Michael

Schumacher, a rinsaldare

l’amicizia tra italiani e tedeschi

grazie alla fantastica esperienza

con la Ferrari che ha garantito al

team del Cavallino ben cinque

titoli mondiali e consecutivi (!) Ed

in precedenza due campioni del

calcio, Karl-Heinz Rummenigge e

Rudi Voeller avevano lasciato

splendidi ricordi a Milano e a

Roma in virtù della loro umana

simpatia pur al seguito

d’un’esperienza particolarmente

sfortunata.

Allo stesso tempo in Germania il

rapporto con gli italiani si è visto

che può comportare non solo

una superficiale simpatia, ma

anche il rispetto. Imprenditori

come Luca di Montezemolo,

economisti come Mario Draghi e

politici come il nostro attuale

Presidente del Consiglio Mario

Monti sono particolarmente

stimati per la loro abilità,

competenza e affidabilità.

Questo ci dice che il cliché può

spiegarci qualcosa ma non tutto.

Che la schadenfreude di cui si è

discusso non è una particolare

forma d’odio e ovviamente

nemmeno di amore. Potremmo,

con qualche forzatura, e citando

il titolo di una delle tante

pubblicazioni tedesche filo

italiane, identificare questo

fenomeno come una sorta di

“amore all’arrabbiata”. In fondo

Germania e Italia sono nazioni

talmente speculari da poter

essere felicemente

complementari. E quando

l’europeismo ha avuto la meglio

sul ripiegamento nazionalistico

ne hanno guadagnato entrambe.

Valga ciò anche d’augurio.

Florian

(1) Siamo tedeschi perché non

siamo italiani, di Birgit Schoenau,

tratto da Limes 4/11 “La

Germania tedesca nella crisi

dell’euro”.

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Non sono un malato di

mente

Di Eric Draven

Anders Behring Breivik, l'autore

della strage di Oslo del 22 luglio

scorso, contesta le conclusioni

del rapporto degli psichiatri che

lo hanno definito "schizofrenico

paranoico" e, pertanto, non

penalmente responsabile del

massacro di 77 persone. Con un

colpo di scena, Breivik - per

bocca di uno dei suoi avvocati -

nega di essere "malato di

mente". Il legale ha esaminato

per ore buona parte del rapporto

con il suo assistito che ha

ravvisato "errori, fraintendimenti

e frasi fuori contesto".

Non credo sia necessario fare

una ricostruzione dettagliata del

personaggio Anders Breivik: è

negli occhi e nelle menti di tutti

noi il ricordo del massacro di

Utoya.

A pochi mesi da allora,ci

troviamo in una situazione

paradossale: Breivik è pazzo e

quindi merita di essere

ricoverato a vita in un

manicomio giudiziale oppure è

un criminale lucido e quindi

(secondo la legge norvegese) tra

poco più di 20 anni può tornare

libero?

La questione non è solo

squisitamente di diritto o di

psichiatria forense, ma anche di

scelte politiche. Vogliamo

credere che Breivik sia un orco

solitario cresciuto e sviluppatosi

nell'indifferenza generale, ma

che resta sostanzialmente un

corpo estraneo alla

tollerantissima società norvegese

oppure vogliamo considerarlo

come la punta di un Iceberg che

invece è ben presente nel paese

dei fiordi?

La scelta degli psichiatri fa

propendere per la prima

opzione: cerchiamo di capire

quali siano le conseguenze di una

scelta simile.

Considerare Breivik un folle

solitario è molto autoassolutorio,

per la Norvegia.

Significherebbe che il sistema

tutto sommato funzione e che

una sola pecora nera non inficia

il progetto. Ma significherebbe

anche che il sistema di polizia

non funziona.

Perchè un singolo è stato in

grado di progettare e realizzare

un massacro senza che nessuno

se ne accorgesse.

Quindi se ne deduce che i

norvegesi sono quantomeno dei

superficiali.

E che in ogni caso hanno bisogno

di più prevenzione.

Perchè non condividere questa

impostazione? perchè vorrebbe

dire che non si è compreso nulla

di quanto accaduto a luglio.

Breivik sia nei suoi scritti che

nelle sue azioni denuncia una

lucida determinazione e una

notevole capacità organizzativa.

Progettare e realizzare un'azione

diversiva come la bomba ad

Oslo,atta a distrarre la polizia

norvegese e farla convergere in

città, sguarnendo il vero

obbiettivo di Breivik è di solito

sinonimo di grande lucidità

mentale.

Mi piacerebbe capire come ciò

sia compatibile con una

diagnosia di delirio schizofrenico

paranoico.

Forse la quantità di odio che

emerge dalle sue idee e da ciò

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che scriveva?

Se così fosse, dovremmo temere

di moltissima gente che va in giro

per i fora su internet e scrive

cose anche più deliranti di quelle

di Breivik.

Probabilmente l'obiezione

principale che viene fatta da chi

sostiene la pazzia di Breivik è il

fatto che la legge norvegese

prevede una pena onestamente

ridicola per quello che ha fatto il

massacratore di Utoya.

Quindi meglio tenerlo in

ospedale psichiatrico a vita.

Ma un ospedale psichiatrico non

può fornire le garanzie detentive

di un carcere; Breivik potrebbe

fuggirne, ha dimostrato un

ottimo livello di addestramento

militare e una determinazione

feroce; inoltre la polizia

norvegese non è armata.

Che certezze potremmo avere

sul fatto che costui non se ne

andrebbe quando vuole?

La seconda obiezione che

potrebbe essere mossa è che

Breivik vuole andare in galera e

non essere dichiarato pazzo per

poter sfruttare mediaticamente

la sua detenzione.

In pratica, vorrebbe passare da

prigioniero politico, costretto in

ceppi da coloro che vogliono

indottrinare all'immigrazionismo

forzato e all'annullamento

dell'identità europea....insomma

quelle cose che andava

predicando su internet e non

solo prima di luglio.

Beh...onestamente la trovo una

scusa infantile.

Se non una paura di non sapere

come smontare le sue tesi. Il che,

se mi permettete, mi fa ancora

più impressione di Utoya.

Quest'uomo ha massacrato

scientemente 77 giovani

norvegesi, colpevoli solo di non

pensarla come lui.

Se non siamo in grado di far

passare questo messaggio, allora

Breivik ha vinto.

E non vale nemmeno la pena di

processarlo; perchè quelli da

processare saremmo noi

occidentali ed il nostro pensiero

e sistema di valori, così deboli e

difficili da difendere che può

bastare un lupo solitario per

sbranarli.

Anders Breivik va processato e la

Norvegia ha il dovere di

adeguare le sue leggi, penali e

civili, ai rischi che il suo caso ha

evidenziato.

Soprattutto, da Breivik si deve

partire per mettere a nudo tutto

il mondo che l'ha partorito,

nutrito, educato e sostenuto

sulla strada di Utoya.

Perchè perdonatemi per la

supponenza, ma cercare di farmi

credere che Breivik abbia fatto

tutto da solo (e non mi riferisco

alle azioni di luglio, quanto alla

loro preparazione non solo

militare) è un'offesa alla mia

intelligenza che non tollero.

Eric Draven

Page 9: L'argonauta n. 16

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Caruso, Calderoli &

Cantalamessa

Chi protesta, chi contesta e chi

conta

di Florian

Vi ricordate di Francesco Saverio

Caruso, il no-global napoletano

che con i suoi espropri proletari

aveva messo in imbarazzo la

sinistra di governo? Ecco, il

signor Caruso è l'emblema di una

cultura radicale, figlia dell’agiata

borghesia occidentale, tanto

marginale in politica quanto

influente sul piano delle idee. E'

infatti come minimo dal

Sessantotto che il signor Caruso,

definitosi “sovversivo a tempo

pieno”, riesce ad imperare in

filosofia come in sociologia, in

antropologia come in psicologia,

finendo col dire la propria

persino in economia e in

religione, ambiti in cui pure non

è particolarmente ferrato. Nel

complesso non c'è materia in cui

questo signore non abbia messo

becco e che non sia riuscito ad

indirizzare almeno in parte nella

direzione a lui più gradita.

Dinanzi a tale protervia è

naturale che qualcuno pure

reagisca. Ed ecco venire avanti il

prode Roberto Calderoli, che per

la sua presenza fino a ieri nel

governo Berlusconi è figura

maggiormente discussa. Anti-

Caruso per eccellenza,

d’estrazione più piccolo che

borghese, quest’altro curioso

campione del dibattito

contemporaneo è il sempiterno

portavoce di chi, allergico alla

messa in discussione delle

tradizioni, “quando sente parlare

di cultura, mette mano alla

pistola”. Sebbene questa

contrapposizione viscerale sia al

fondo più sottintesa che reale, in

quanto nel regno fatato del

signor Calderoli le idee di Caruso

hanno notoriamente poca presa,

essendo tutte le "Padanie"

nient'altro che province nordiste,

mentre il radicalismo, per sua

natura metropolitano, ha

acquisito col tempo una

caratterizzazione sudista,

terzomondista, filoaraba.

Tuttavia, in mancanza di meglio,

è il populismo panciuto e beota

del signor Calderoli a far da

contrappasso alla colta perfidia

radicale di Caruso & Co. E' la

cosiddetta destra nazionalista ad

attrarre buona parte di quel ceto

minuto e benpensante che un

tempo votava per le élites

conservatrici prima che queste

diventassero semplicemente

“moderate”.

In fondo cos'è il moderatismo se

non il pragmatico slittamento a

sinistra nel confronto delle idee

da parte di un ceto medio

ridottosi a perseguire

individualmente il proprio

tornaconto? Il superaffollato

centro, crocevia di tutti gli affari,

non ha altro pensiero che la

difesa del ricco portafogli, del

resto gli importa poco. Come

ama dire, laissez-faire, laissez-

passer. All’interno della grande

palude non si comprano libri,

non si frequentano dibattiti,

ragion per cui non si prende

posizione alle vivaci dispute

culturali che costantemente

oppongono il signor Caruso e il

signor Calderoli. Si supporta

svogliatamente l'uno o l'altro a

seconda solo di chi fa più chiasso

e rovina così la quiete.

Questo signore, che per fin

troppo ovvie ragioni oseremmo

chiamare Cantalamessa, è

l’emblema delle oscillazioni

politiche di chi spesso si

nasconde dietro l’abito talare

non avendo convinzioni e ancor

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meno tradizioni da rispettare.

Per lui vale unicamente il parere

della pubblica opinione e come

una leggera banderuola oscilla

ad ogni refolo di vento,

convincendosi così d'esser al

passo dei tempi, sempre oltre, da

onesto progressista quale ama

presentarsi.

La vecchia generazione preferiva

spezzarsi piuttosto che piegarsi -

dura, arcigna, avvinghiata ad

usanze e convinzioni finite con

essa nella tomba della Storia. Il

presente e il futuro è dei signori

Caruso e Calderoli ai quali tutti i

Cantalamessa del mondo

saranno grati di lasciare libertà di

parola per poter contare

silenziosamente i propri

quattrini. L'unica cosa che li

abbia mai per davvero

interessati.

Florian

Liberalizzazioni

all'amatriciana

Di Sounasegasusughi

Colpa delle liberalizzazioni. La

CGIA di Mestre sembra

finalmente avere trovato il

colpevole: se gli italiani sono ogni

giorno sempre più vessati, la

colpa è del libero mercato, che

negli ultimi anni avrebbe

letteralmente fatto impennare i

prezzi di alcuni dei beni e servizi

più comunemente richiesti ed

utilizzati da noi tutti nel nostro

vivere quotidiano. Ma se ci

fermiamo un attimo ad

analizzare i settori toccati dallo

studio della CGIA, i conti

sembrano non tornare: dalle

ferrovie alle poste passando per

le banche e le assicurazioni, pare

davvero difficile poter parlare di

libero mercato. Non basta la sigla

SpA a cancellare il fatto che si

tratti sempre e comunque di

società controllate dallo Stato o

che dallo Stato sono

pesantemente vincolate e

regolamentate: basti pensare

alla RCauto, talmente libera da

essere obbligatoria per legge! A

contare non dovrebbero essere

soltanto le sigle o gli azionisti, ma

il vero ed effettivo grado di

apertura dei mercati oggetto di

analisi, che era e resta – a voler

essere benevoli - estremamente

ridotto. Quanto all’impennata

dei prezzi, è necessario poi

chiarire un ulteriore equivoco:

che la concorrenza sul libero

mercato (quello vero) porti in

generale ad una riduzione dei

prezzi è vero, ma trattasi

appunto di una tendenza

generale, non di una certezza.

Nei settori in cui lo Stato

mantiene i prezzi

artificiosamente bassi, è

plausibile infatti che un’apertura

del mercato faccia registrare al

contrario un aumento degli

stessi, il che – lungi dall’essere

un male per i consumatori –

costituirebbe la sana espressione

di quello che resta l’unico

sistema veramente capace di

allocare in modo efficiente ed

equo le risorse scarse che

abbiamo a disposizione. Prezzi

ballerini e società libera sono un

binomio inscindibile, a meno che

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l’obiettivo non siano le code per

il pane come in URSS.

Condivisibile invece l’appello che

la stessa CGIA rivolge al Governo

Monti: attenzione a porre in atto

nuove ed ulteriori

liberalizzazioni. Se fatte ancora

una volta all’italiana, sarebbe

l’ennesima – e forse ultima –

occasione sprecata.

Sounasegasusughi

Riflessioni sulle parole di

Travaglio in tema di suicidio

Di Fulvia

La morte di un uomo per suicidio

lascia sempre in chi resta la

sensazione dell’evitabilità e dello

spreco, oltre che dell’angoscia, e

molto meno, forse perché

condizionati dal pensiero di non

essere i depositari della nostra

vita, una sensazione di rispetto,

pietà e perfino compassione. La

morte di Lucio Magri per suicidio

assistito ha portato in questi

giorni molte persone a dibattere

e confrontarsi sia sul suicidio per

sé che sul suicidio assistito.

Indubbiamente se il tema

suicidio affrontato in senso

storico è affascinante, diventa

meno affascinate e più doloroso

quando conosciamo il suicida.

Chiunque abbia vissuto il suicidio

di una persona conosciuta sa che

la domanda che ci si pone in

maniera ossessiva è quella se si

sia stati capaci o meno di capire

il disagio dell’anima di chi ha

scelto di “levar la mano su di sé

[cit]”. Attribuiamo la causa del

suicidio alla perdita di lucidità e

della padronanza di sé, come

dimostra il suo stesso gesto.

Ancora, esperienza comune è

quella di riconoscersi come

“l’ultimo uomo”, ovvero di

immaginarsi nella circostanza di

intervenire all’ultimo minuto per

fermare il suicida. Chi di noi non

taglierebbe la corda o

trascinerebbe fuori dall’acqua un

aspirante suicida, e quanta gente

ha sacrificato addirittura la

propria vita per salvare da morte

autoinflitta un perfetto

estraneo? Che cosa ci spinge a

volere la salvezza fisica

dell’uomo, se non la perfetta

immedesimazione in noi,

istintuale o meno, che ci porta a

immaginare lo stesso desiderio di

vivere nostro nell’altro, il nostro

volere essere salvati nell’altro, la

nostra alienazione alla morte

nell’altro?

Magri muore in modo non

diverso da Socrate, colla

moderna cicuta che ora ha il

nome chimico di un medicinale.

Muore in modo diverso solo nei

fatti , come muoiono migliaia di

persone che si lanciano nel

vuoto, magari abbracciando i

propri bambini nella folle pretesa

di portarli con sé o allontanarli

dal dolore del mondo, o che

seduti ordinatamente su una

strada in posizione di preghiera si

lasciano ardere vivi per un

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motivo ideologico. Muore in

modo diverso solo perché è

diversa non la morte ma l’ultimo

pezzo della vita. Magri prende un

treno e paga una clinica, Primo

Levi si lancia dalla bella tromba

delle scale col mancorrente in

ferro battuto e legno della sua

casa torinese pur essendo

sopravvissuto al i lager, Monicelli

non aspetta magari quel

pochissimo tempo che era logico

aspettarsi dai i suoi

novantacinque anni e si butta

dalla finestra dell’ospedale dove

era ricoverato. I commenti che

ho sentito sul suicidio di Magri

vertono su due principali punti:

perché non si sia ad esempio

buttato dalla finestra ma abbia

scelto un modo quasi elitario di

uccidersi, quello del suicidio

assistito, con relativa analisi della

vigliaccheria di Magri, e quello

della curabilità della

depressione. Magri era depresso,

dicono. Curabile, si dice. Eppure

io non riesco a trovare una via di

uscita dalla riflessione che se da

un lato la depressione è causa di

suicidio, la natura stessa della

depressione si riconosce

attraverso il pensiero suicidario o

l’azione o il tentativo suicidario.

Abbiamo sviluppato nel tempo la

convinzione che la cura della

depressione sia arrivata alla

guarigione della malattia in tutti i

casi. Non è così. Una depressione

radicata e inveterata può non

giovarsi di un trattamento

farmacologico o psicanalitico.

Dalla depressione si può anche

guarire, ma come sempre non è

detto.

Invece, ho trovato interessanti le

parole di Marco Travaglio sul

suicidio assistito paragonato

all’omicidio del consenziente.

Anche se mi trovo in disaccordo

perché mi sembra tratti della

questione in modo molto

forzato e confusionario, Marco

Travaglio analizza per punti una

serie di circostanze, prime tra

tutti l’aiuto al suicidio. Travaglio

sostiene che accettando per

legittima la disponibilità della

propria vita l’essere assistiti nel

suicidio in realtà contraddice il

presupposto delegando la

propria vita ad un altro. Credo

che Travaglio non abbia le idee

veramente chiare su che

significhi suicidio assistito.

Significa sic et simpliciter fornire

i mezzi e la conoscenza. Come

dire, insegnare a fare un cappio a

chi si vuole impiccare, in modo

che questo cappio non si sleghi.

Non significa iniettare(azione

attiva) un veleno. Io non mi

sento di chiamare quello di

Magri omicidio del consenziente,

perché Magri aveva ogni

attitudine fisica per il tipo di

suicidio che ha messo in atto e

per me Magri si è ucciso da solo,

pur se un altro essere umano

gliene ha fornito gli strumenti

fossero questi il know-how della

scienza o un poco di penthotal.

Invece mi domando se la pietas

estrema possa essere motivo

valido per aiutare una persona

che non ha la capacità fisica di

arrivare al suicidio, fatti salvi tutti

i tentativi di convincimento,

ovvero se esista una liceità nel

suicidio assistito. E’ un aspetto

che mi lacera enormemente, e

credo che in questo caso solo

una persona cara possa , volendo

e avendone la forza, aiutare

qualcuno a togliersi la vita e

assumersi stante le leggi vigenti il

carico penale che da questo

consegue. Pensandoci, la

cronaca ci offre periodicamente

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storie simili in cui si intrecciano

l’omicidio del consenziente e il

suicidio. In questi casi mi sento di

dire che il suicidio possa in

qualche modo essere il prezzo

del sangue dell’omicidio del

consenziente, o che almeno

questo è un sentire comune che

mi pare di cogliere.

Sempre sul Fatto si accenna a

quel pendio scivoloso che

sempre compare in tutti i

dibattiti etici: se si fanno delle

eccezioni potremmo trovarci a

rendere etici, e quindi leciti,

comportamenti che non lo sono

per calo dell’attenzione, per

progressivo allargamento dei

limiti. Si certo che è vero, il

rischio esiste. Però a mio avviso

ogni pretesa di inquadrare in

materia di etica medica qualsiasi

comportamento con una legge

rigida e dogmatica è destinato al

fallimento. Intanto, nessuno può

essere fatto vivere per legge, e

dubito esista un aspirante suicida

che si sia fermato temendo di

finire processato. Invece si sono

fermati o hanno assunto

comportamenti assolutamente

privi di requisiti scientifici e

perfino umani tanti medici

costretti a una medicina di

difesa, che si trovano a navigare

a vista nel mare magno del fine

vita col timore di essere

condannati per non avere messo

un sondino nasogastrico a un

93enne in coma irreversibile. Da

un pendio scivoloso all’altro, solo

che il secondo pendio scivoloso

viene vissuto come valenza

positiva perché tutela la vita

cronologica (ma non quella

biologica e men che meno di

relazione).

Concordo invece sull’analisi che

fa Travaglio sulla mancata

relazione tra grado di libertà di

un paese e felicità. Solo che lo

scopo ultimo della vita privata

può essere indubbiamente la

ricerca della felicità, laddove

invece uno stato quale che sia ha

il dovere, nella mia opinione

s’intende, di perseguire il

raggiungimento del massimo

grado di libertà possibile. Anche

quando questa libertà non piace.

Io credo che chiunque di noi se

vedesse una persona apprestarsi

al suicidio farebbe qualcosa per

fermalo. Quello che mi chiedo è

cosa fare per chi non vuole

essere fermato. Mi chiedo se si

può imporre la vita fino alla

morte, o se molto

semplicemente, non si debba

chinare il capo nel silenzio e nel

rispetto di chi ha fatto una scelta

forse ponderata, pagandola solo

e comunque con la propria vita,

anche e soprattutto quando la

nostra scelta sarebbe stata

diversa dalla sua.

Di Fulvia