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L’AMORE E LA DONNA

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Page 1: LAMORE E LA DONNA NEL DOLCE STILNOVO La testimonianza di Dante Bologna Firenze Temi Guido Guinizzelli Guido Cavalcanti Cino da Pistoia EXIT

L’AMORE

E

LA DONNA

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NEL

DOLCE

STILNOVO

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La testimonianza di Dante

Bologna Firenze

Temi

Guido Guinizzelli

Guido Cavalcanti

Cino da Pistoia EXIT

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LA TESTIMONIANZA DI DANTEDante e gli chiede ( vv. 49-51 ) :

“Nel canto XXIV del Purgatorio il poeta Bonagiunta riconosce Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore

trasse le nove rime, cominciando

Donne ch’avete intelletto d’ amore”

Risponde Dante (vv. 52-54) :

…”I’ mi son un che, quando

Amor mi spira , noto, e a quel modo

ch’è ditta dentro vo significando”.

E Bonagiunta (vv.55-60) :

“O frate, issa vegg’io …il nodo

che ‘’l Notaro e Guittone e a me ritenne

di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!

Io veggio ben come le vostre penne

di retro al dittator sen vanno strette,

che de le nostre certo non avvenne”.

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Bologna Firenze

L’esperienza dello Stilnovo si sviluppa sull’asse Bologna-Firenze.

A Bologna nasce una nuova poesia in volgare, più sincera di quella siciliana, più vera e più dolce: poesia “che canta più nobilmente l’amore e la donna e si leva e nuove idealità, che sono indizio di una concezione della vita diversa dalla precedente.

Bologna era infatti la sede di un’Università famosa a livello europeo e di una rinomata scuola di retorica. Questa scuola avrà il suo centro principale in Firenze, città che a quell’epoca riuscì a consolidare il suo predominio sugli altri comuni toscani, non solo dal punto di vista economico ( crescente potere delle compagnie bancarie ) e politico, ma anche dal punto di vista culturale con l’affermarsi del fiorentino.

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DONNA-ANGELO

Nello Stilnovo è presente una visione spiritualizzata della donna,che viene esaltata come angelo in terra e dispensatrice di salvezza.L’attenzione è concentrata sull’interiorità dell’amante.

La donna-angelo si confonde con l’Intelligenza del cielo, a causadi un amore che si identifica con la gentilezza. La donna-angelonon è bella come un angelo, ma, si identifica per la sua bellezza,miracolo di Dio, e con le Intelligenze che imprimono movimentoai cieli, fedeli e obbedienti alla divina volontà da loro trasmessacon funzione mediatrice qui sulla terra. Le donne-angelo in talmodo costituiscono una sorta di decimo coro angelico, il più basso,ed assolvono ad analoga funzione mediatrice tra il cuoredell’uomo, che muovono, e Dio, operando beneficamente suisentimenti di lui.

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NOBILTÀ E GENTILEZZA

Lo Stilnovo si rivela l’espressione dello strato più elevato delle nuove classi dirigenti comunali che aspirano a presentarsi come una nuova aristocrazia, fondata non più sulla nobiltà di sangue ma sull’ “altezza d’ingegno” (Dante, Inferno, X, v.59) e sulla raffinatezza del sentire, per distinguersi dagli inferiori ceti borghesi. Uno dei temi principali è appunto l’identificazione dell’amore con la gentilezza: proprio il saper amare “finemente” ( che vuol dire saper scrivere poesie d’amore, essere ,cioè, di raffinata cultura) è indizio di una superiore nobiltà d’animo.

Gli stilnovisti respingono senza compromessi il concetto di una nobiltà puramente cavalleresca, feudale, razzistica: “ Dis’omo alter: Gentil per sclatta torno; Lui semblo al fango, al sol gentil valore”(Guinizzelli).

Questa è l’idea-forza degli stilnovisti, che costituisce la nervatura di una concezione dell’amore che si risolve in una nobile e altamente etica concezione della vita, nella quale l’appello all’interiorità è determinante.

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VALUTAZIONE DELLA VICENDA D’AMORE

Il poeta si innamora della sua donna- angelo secondo i modi tradizionali, ma nello Stilnovo Amore opera una profonda trasformazione nell’uomo, con la differenza che gli effetti vigono entro confini morali. Negli stilnovisti la vicenda d’amore è tomisticamente e aristotelicamente sentita come passaggio dalla potenza all’atto nel senso stretto della morale perfettibilità dell’uomo.

Ma se Amore, tradizionalmente, è passione, per gli stilnovisti si identifica con la Gentilezza. Il che significa che Amore diventa un’estuosa volontà di annobilimento nella coscienza e nella sapienza, un’insopprimibile ansia di verità.

L’Amore diviene, nello Stilnovo, L’asse intorno al quale gira l’univero; la forza che spira nel cuore dell’uomo per la sua ansiosa elevazione.

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La vita

Le opere

Guido Guinizzelli

L’amore e la donna

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BIOGRAFIA

Fu il primo poeta che gettò le fondamenta della poesia stilnovista.

Abbiamo scarse notizie intorno alla vita del Guinizzelli e nessuna ci illumina veramente sulla sua formazione intellettuale e artistica.

Visse e operò a Bologna dove nacque intorno al 1235, di famiglia ghibellina, eccellente soprattutto in giurisprudenza, divenne giudice e fu attivamente impegnato nelle vicende politiche della sua città.Dopo essere stato esiliato sui colli Euganei morì a Padova il 14 Novembre 1276.

Scrive in volgare bolognese, si dichiara seguace di Guittone D’Arezzo ma nella sua poesia troviamo degli elementi nuovi. Bonagiunta infatti lo considera “colui che ha mutato la maniera”e Dante lo incontra nel Purgatorio e lo definisce “padre di un nuovo stile”.

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Le opere - sommario

I- Tegno de folle’mpres’, a lo ver dire

II- Madonna, il fino amor ched eo vo porto

III- Donna, l’amor mi sforza

IV- Al cor gentil rempaira sempre amore

V- Lo fin pregi’avanzato

VI- Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo

VII- Vedut’o la lucente stella diana

VIII- Dolente, lasso, già non m’asecuro

IX- Ch’eo cor avesse, mi potea laudare

X- Io voglio del ver la mia donna laudare

XI- Lamentomi di mia disaventura

XII- Gentil donzella, di pregio nomata

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XIII- Madonna mia, quel di ch’Amor

XIV- Si sono angostioso e pien di doglia

XV- Pur a pensar mi par gran meraviglia

XVI- Fra l’altre pene maggio credo sia

XVII- Chi vedesse a Lucia un var capuzzo

XVIII- Volvol te levi, vecchia rabbiosa

XIX (a)- Bonagiunta da Lucca a Messer Guido

XIX (b)- Risposta a Bonagiunta da Lucca

XX (a)- A frate Guittone

XX (b)- Frate Guittone - risposta al sopra scritto

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Al cor gentil rempaira sempre amoreQuesta canzone è il testo più celebre di Guinnizzelli, e si può considerare il vero e proprio “manifesto” di una nuova tendenza poetica, quella che in Toscana assumerà il nome di «stil novo».

Metro: canzone di sei strofe composte di dieci versi (endecasillabi e settenari). Schema: ABAB. cDc. EdE.

Al cor gentil rempaira sempre amore

come l’ausello in selva a la verdura;

né fe’ amor anti che gentil core,

né gentil core anti ch’amor, natura:

5 ch’adesso con’ fu ‘l sole,

sì tosto lo splendore fu lucente,

né fu davanti ‘l sole;

e prende amore in gentilezza loco

così propïamente

10 come calore in clarità di foco.

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Foco d’amore in gentil cor s’apprende

come vertute in pietra prezïosa,

che da la stella valor no i discende

anti che ‘l sol la faccia gentil cosa;

15 poi che n’ha tratto fòre

per sua forza lo sol ciò che li è vile,

stella li dà valore:

così lo cor ch’è fatto da nature

asletto, pur, gentile,

20 donna a guisa di stella lo ‘nnamora.

Amor per tal ragion sta ‘n cor gentile

per qual lo foco in cima del doplero:

splendeli al su’ diletto, clar, sottile;

no li stari’ altra guisa, tant’è fero.

25 Così prava natura

recontra amor come fa l’aigua il foco

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caldo, per la freddura.

Amore in gentil cor prende rivera

per suo consimel loco

30 com’ adamàs del ferro in la miniera.

Fere lo sol lo fango tutto ‘l giorno:

vile reman, né ‘l sol perde calore;

dis’ omo alter: «Gentil per sclatta torno»;

lui semblo al fango, al gentil valore:

35 chè non dé dar om fé

che gentilezza sia fòr di coraggio

in degnità d’ere’

sed a vertute non ha gentil core,

com’ aigua porta raggio

40 e ‘l ciel volgiando riten le stelle e lo spendore.

Splende ‘n la ‘ntelligenzïa del cielo

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Deo crïator più che [‘n] nostr’occhi ‘l sole:

ella intende suo fattor oltra ‘ cielo,

e ‘l ciel volgiando, a Lui obedir tole;

45 e con’ segue, al primero,

del giusto Deo beato compimento,

così dar dovria, al vero,

la bella donna, poi che [‘n] gli occhisplende

del suo gentil, talento

50 che mai di lei obedir non si disprende.

Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,

sïando l’alma mia a lui davanti.

«Lo ciel passasti e ‘nfin a Me venisti

e desti in vano amor Me per semblanti:

55 ch’a Me conven le laude

e a la reina del regname degno,

per cui cessa onne fraude».

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Dir L porò: «Tenne d’angel sembianza

che fosse del Tuo regno;

60 non me fu fallo, s’in lei posi amanza».

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ANALISI DEL TESTO

Il problema centrale della canzone è quello della nobiltà (“gentilezza”). Era un problema già ampiamente trattato in precedenza dalla cultura cortese: ad esempio Andrea Cappellano, il massimo teorico dell’amor fino, nel suo trattato De Amore affermava che solo la prodezza dei costumi fa conoscere gli uomini per nobiltà. In tali concetti si rispecchiavano le aspirazioni di una piccola aristocrazia senza feudi ad essere riconosciuta a pieno diritto come facente parte della classe feudale; per questo, già in quel contesto si sosteneva che la nobiltà non dipendeva solo dalla nascita, ma dal valore della persona. Il concetto è però ripreso da questa canzone in un contesto del tutto diverso. Guinizzelli è un intellettuale che fa parte del ceto dirigente dell società urbana, che , in questi decenni di fine Duecento, aspira a raggiungere l’egemonia nelle istituzioni cittadine e a soppiantare la vecchia classe dirigente nobiliare del Comune. Proprio a tale fine, cioè per legittimare la propria ascesa e la propria affermazione sociale e politica, questo ceto elabora una concezione della nobiltà che risponda ai propri interessi: per essere “gentili” non è sufficiente la “schietta”, la nascita da una famiglia di sangue nobile, perché la nobiltà non è ereditaria.

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Il concetto è enunciato in modo diretto ed esplicito nella quarta strofa della canzone guinizzelliana: la nobiltà non è nella dignità dell’erede, se non c’è il coraggio, il valore personale dell’animo.

Si delinea così la fisionomia di una nuova nobiltà cittadina, che fonda la propria egemonia sulle proprie doti di intelligenza e cultura sull’altezza di “ingegno”.

Nella civiltà cortese la rivendicazione delle qualità personali esprimeva le esigenze di uno strato inferiore della nobiltà che voleva integrarsi a pieno titolo negli strati superiori;

nella civiltà urbana esprime le aspirazioni di un ceto emergente che vuole sostituirsi al precedente ceto dominante.

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AMORE E GENTILEZZA

Il fondamento della “gentilezza” è trovato nell’amore: l’amore ha la sua sede naturale nel cuore gentile; amore e “gentilezza” sono tutt’uno, non sono pensabili separatamente: il saper amare “finemente” è indizio di gentilezza, e viceversa chi ha per natura un cuore gentile non può che manifestarlo amando finemente. Anche qui è chiaramente ereditato un concetto cortese, quello secondo cui l’amore si identifica con un privilegio spirituale un’elevazione e un raffinamento dell’animo. Ma anche in questo caso il motivo cortese e feudale, usato in altro contesto, si trasforma, assume un senso diverso: il saper amare cortesemente diviene il segno dell’elezione spirituale della nuova classe dirigente cittadina.

L’amore però, ha veder bene, assume qui un significato metaforico: saper amare vuol dire in sostanza saper poetare d’amore, saper scrivere versi raffinati; amore e poesia si identificano, sono indistinguibili: quindi all’identità amore-gentilezza si somma quella gentilezza-altezza d’ingegno.

La gentilezza secondo gli stilnovisti nasce dalle facoltà intellettuali, è la cultura ciò che individua la nuova èlite cittadina.

Per questo ciò che più visibilmente caratterizza la canzone guinizzelliana è la mescolanza del tipico linguaggio cortese, proveniente dalla tradizione trobadorica e siciliana, con il linguaggio della nuova cultura universitaria.

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LINGUAGGIO CORTESE E LINGUAGGIO FILOSOFICO

Il tessuto discorsivo della canzone è tutto fondato su un sottile argomentare, che si vale continuamente di paragoni filosofici e scientifici, attinti alla Scolastica: amore che “prende loco” in gentilezza così propriamente come il calore della chiarità del fuoco; la “virtù” della pietra preziosa, in cui il “valore” non può discendere dagli influssi celesti prima che il sole la purifichi; il fuoco tende all’alto per sua intrinseca natura… .

Vi sono poi alla base concetti filosofici dell’aristotelismo, come potenza-atto: così nell’uomo la donna sa passare in atto la virtualità amorosa del cuor gentile. Questa caratteristica rivoluzionaria del discorso poetico di Guinizzelli fu subito colta dai contemporanei, in particolare da quelli più legati alla tradizione.

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LE IMMAGINI TEOLOGICHE

Con la quinta strofa si introduce un nuovo ambitodi comparazione, non più solo filosofico-scientifico, ma teologici. Il discorso è impostato su un’equazione:come le intelligenze angeliche, intendendo immediatamente il Creatore, prendono ad obbedirgli, così l’amante, appena la bella donna risplende ai suoi occhi, acquista la volontà di obbedirle sempre. Al cento del paragone vi è ancora un concetto cortese, quello dell’“obbedienza” dell’amante alla donna, cioè della “servitù d’amore”. Ma l’ambito metaforico è profondamente diverso rispetto a quello della poesia cortese precedente: il rapporto uomo-donna non è equiparato a quello tra vassallo e signore, bensì a quello tra gli angeli e Dio: lo scenario non è più feudale, ma teologico. L’amore si ammanta di di valori religiosi: nonsolo è segno di superiorità spirituale, ma diviene una sorta di culto mistico della donna, che è trasformata in essere sovrannaturale, miracoloso, equiparabile alla stessa divinità.

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IL SISTEMA DELLE IMMAGINI

LA LUMINOSITÀ

Al di sotto del discorso logico-argomentativo si svolge un discorso di secondo livello, di tipo lirico- fantastico, che è creato dalla successioni delle sue immagini. Nella canzone le immagini sono numerosissime, tanto da pervadere tutto il tessuto discorsivo: ebbene, si può notare che esse sono legate fra loro da un filo continuo, e rimandano l’una all’altra. Il nucleo centrale da cui tutte si irradiano è l’idea di luminosità, chiarezza, splendore.

Passiamole in rassegna: “sole”, “splendore lucente”, “calore”, “clarità di foco”, “foco d’amore”, “petra prezïosa”, “stella”, “solï”, “foco in cima del doplero” ecc… .

Tale insistenza balza agli occhi, e non può che essere voluta e ricca di significato:probabilmente risponde al fine di esprimere metaforicamente, col tessuto continuo delle immagini, i due concetti centrali della poesia, sia il fuoco d’amore, sia lo splendore che emana dalla “gentilezza. A questa serie di immagini si legano ancora, però per contrasto, quelle dell’acqua fredda e del fango, che evocano i concetti opposti, dell’incapacità d’amare e della bassezza d’animo.

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LO STILE DOLCE

Il termine dolce non ha un valore generico e impressionistico, ma è una formula tecnica, che designa precisi procedimenti stilistici, che poi saranno ripresi dai successori di Guinizzelli.

Livello fonico: sono evitati accuratamente suoni aspri, in particolare scontri di consonanti. Le sillabe toniche in rima sono in prevalenza aperte ( terminano in vocale). Dove vi sia una sillaba chiusa, si ha il gruppo nasale + occlusiva, o quello vibrante + occlusiva, che sono molto meno aspri di un gruppo di due occlusive, o di due fricative,o di due sibilanti.

Livello metrico: non vi sono rime rare o difficili. Poco frequenti sono anche le rime che presentano particolari artifici. Compare solo episodicamente l’artificio delle coblas capfinidas.

Livello lessicale: non vi sono termini rari e ricercati, ma il lessico è in genere piano e comune. Sono pochi i francesismi e i provenzalismi.

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Livello sintattico: la sintassi è in genere piana, senza dure inversioni.

Livello ritmico: il ritmo è fluido, senza spezzature violente: non vi sono versi che presentino forti pause al loro interno, e rari sono gli enjambements dalla forte inarcatura.

Livello retorico: a differenza di Guittone d’Arezzo, che impiega numerose figure retoriche di ogni tipo, qui le figure retoriche sono rare:la più frequente è il paragone.

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Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardoMetro: sonetto (schema ABAB, ABAB, CDE, CDE). Sono “siciliane” le rime “ancide”/ “merzede”, vv. 2 e 4, “divide”/ “vede”, vv. 6 e 8 (che è anche una rima “ricca”)

Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo

che fate quando v’encontro, m’ancide:

Amor m’assale e già non ha reguardo

4 s’elli face peccato over merzede,

ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo

ched oltre ‘nparte lo taglia e divide;

parlar non posso, ché ‘n pene io ardo

8 sì come quelli che sua morte vede.

Per li occhi passa come fa lo trono,

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che fer’ per la finestra de la torre

11 e ciò che dentro trova spezza e fende:

remagno como statüa d’ottono,

ove vita né spirto non ricorre,

14 se non che la figura d’omo rende.

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ANALISI DEL TESTO

Col primo verso il sonetto introduce il tema del saluto, che avrà poi ampia diffusione nella poesia stilnovistica. Il motivo viene ripreso da Guinizzelli stesso nel sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare; ma mentre là il saluto della donna dona “salute”, cioè salvezza, qui “ancide” l’amante.

Lapoesia guinizzelliana presenta due fondamentali filoni tematici:

•la lode dell’eccellenza della donna;

•l’analisi degli effetti chel’amore ha sull’amante.

L’amore visto come forza devastante, che ferisce crudelmente il cuore dell’amante, e gli toglie ogni forza vitale, sino a renderlo come un puro simulacro, che ha solo l’apparenza esterna dell’uomo. Il motivo sarà poi ripreso e portato alle estreme conseguenze da Guido Cavalcanti, che insisterà soprattutto sull’esperienza amorosa come sofferenza e tormento, che distrugge fisicamente e psichicamente l’amante.

In cavalcanti, rispetto a Guinizzelli , vi è però una più radicale interiorizzazione dell’esperienza: il poeta si concentra esclusivamentesulle vicende del suo io sofferente e lacerato.

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Guinizzelli invece introduce anche la realtà esteriore, nei due paragoni del fulmine che colpisce attraverso la finestra della torre spezzando e tagliando tutto ciò che trova dentro, e della della statua d’ottone.

Il sonetto presenta una costruzione molto studiata, che insiste su diverse simmetrie. La prima terzina costituisce lo sviluppo dei vv. 5 e 6, come conferma dell’espressione “spezza e fende” ( v. 11), che riprende la stessa immagine del v. 6. “taglia e divide”: anche formalmente la ripresa è puntuale, perché si hanno due coppie di verbi sinonimici, collocate simmetricamente nella stessa posizione, in fine verso. La seconda terzina col paragone della “statua d’ottone”, costituisce uno sviluppo del “parlar non posso” del v.7, così come “vita né spirito non ricorre” corrisponde a “sì come quelli che sua morte vede”.

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Io voglio del ver la mia donna laudare

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDE, CDE)

Io voglio del ver la mia donna laudare

ed asemblarli la rosa e lo giglio:

più che stella dïana splende a pare,

4 e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

Veder river’ a lei rasembro e l’âre,

tutti color di fior’, giano e vermiglio,

oro ed azzurro e ricche gioi per dare:

8 medesmo Amor per lei rafina meglio.

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Passa per via adorna, e sì gentile

ch’abassa orgoglio a cui dona salute,

11 e fa ‘l de nostra fé se non la crede;

e no˙le po’ apressare om che sia vile;

ancor ve dirò c’ha maggior vertute:

14 null’om po’ mal pensar fin che la vede.

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ANALISI DEL TESTO

Anche i motivi presenti in questo sonetto avranno in seguito ampi sviluppi: Dante, ad esempio, riprenderà soprattutto i versi delle terzine, riecheggiandoli in componimenti famosi. Il tema dominante è quello della lode, che le quartine esemplificano attraverso il confronto con le più elette e preziose realtà naturali: i fiori, idealmente rappresentati dalla rosa e dal giglio: che possono simboleggiare una vasta gamma di sentimenti, in particolare l’amore e la purezza; i corpi celesti, che già trasferiscono le virtù della donna su un piano sovrannaturale; le bellezze della natura con i loro colori, compresi quelli cangianti delle pietre preziose. Ispiratrice e quasi purificatrice dello stresso amore ( introdotto mediante il processo di personificazione),la sua apparizione produce effetti benefici e miracolosi: può addirittura convertire gli infedeli, oltre ad allontanare ogni male e cattivo pensiero.

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Si compie così quel processo di sublimazione della donna -da creatura celeste a terrena- che contraddistingue la poetica stilnovistica.

Il sonetto è un altro perfetto esempio di “stile dolce”: assenza di suoni aspri e di rime rare e difficili, fluidità del ritmo e mancanza di spezzature all’interno dei versi, lessico piano, senza termini rari e ricercati e senza mescolanze linguistiche ardite, sintassi lineare, senza dure inversioni ed enjambements fortemente inarcati, assenza di artifici retorici preziosi. Questa linearità cela però una costruzione sofisticatissima: è cioè una precisa scelta di stile, che presuppone un perfetto dominio dei mezzi espressivi. S prenda subito a campione la prima strofa:essa comincia con un verbo alla prima persona, “io voglio”, e si chiude simmetricamente con un altro verbo in prima persona, “ somiglio”. Poi, tra il primo e il secondo verso si nota il nesso paratattico tra due infiniti “ laudare/ ed asemblarli”, uno collocato al termine di un verso, l’altro all’inizio di quello successivo.

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Ne deriva una costruzione simmetricamente speculare: complemento oggetto più verbo, verbo più complemento oggetto. A sua volta l’infinito “asemblarli” rompe deliberatamente una costruzione continua, poiché gli altri tre versi della strofa presentano tutti un verbo in chiusura ( laudare v.1, pare v.3, somiglio v.4 ) .

Nella seconda quartina presenta una costruzione del tutto diversa, più lineare, fondendosi essenzialmente su un’enumerazione di sostantivi ( schema del plazer, l’elenco di realtà piacevoli). Una variazione rispetto alla prima strofa è costituita anche dalla collocazione del verbo reggente al centro del verso, anziché all’inizio o alla fine. Nel verso finale di questa quartina vi è un improvviso cambio di soggetto: in tutto il discorso precedente prevaleva l’io del poeta, ora invece soggetto diventa Amore. Ma è soggetto solo grammaticalmente: il soggetto logico è in realtà la donna. Il verso funge così da passaggio alle terzine, in cui il soggetto grammaticale e logico è essenzialmente la donna: si assiste quindi a un progressivo venire in primo piano dell’apparizione sovrannaturale, che prima è evocata indirettamente dai paragoni proposti dall’io lirico ( la rosa e il giglio, la stella diana ecc.), poi si presenta senza più mediazione in tutto il suo fulgore portentoso, nelle sue operazioni miracolose.

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I cuori gentili

La sublimazione della donna

La donna angelo

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– I « CUORI GENTILI» –

Il tema fondamentale della poesia guinizzelliana è la reciproca e naturale intesa tra amore e cuor gentile. La purificazione dell’uomo, infatti, non può avvenire se l’individuo non dispone di una naturale inclinazione a ricevere questo beneficio: la donna , e quindi l’amore, può esercitare il suo influsso salvifico solo se si imbatte in un animo nobile.

L’amore ha quindi la sua sede naturale nel cuor gentile; amore e gentilezza sono tutt’uno, non sono pensabili separatamente: il saper amare “finemente” è indizio di gentilezza, e viceversa chi ha per natura cuor gentile non può che manifestarlo amando finemente.

Delle volte però l’ amore assume un significato metaforico (Al cor gentil rempaira sempre amore): saper amare vuol dire in sostanza saper poetare d’amore saper scrivere versi raffinati; amore e poesia si identificano, sono indistinguibili: quindi all’identità amore-gentilezza si somma quella gentilezza-altezza d’ingegno.

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—LA SUBLIMAZIONE DELLA DONNA–—

Un altro tema è quello della sublimazione della donna, spesso troviamo infatti il confronto con le più elette e preziose realtà naturali: viene usata la metafora del fiore per simboleggiare una vasta gamma di sentimenti, in particolare l’amore e la purezza; o i corpi celesti che trasferiscono le virtù della donna su un piano soprannaturale, l’apparizione della donna infatti produce effetti benefici e miracolosi: può addirittura convertire gli infedeli e allontanare ogni male e cattivo pensiero. Si compie così quel processo di sublimazione della donna da creatura terrena a creatura celeste.

La scelta di fare poesia, perciò, diventa quasi obbligata. Il poeta affronta una lunga agonia che dolcemente trasforma in lode di colei per cui solo muore e solo potrebbe vivere: ne sono elementi gli occhi, la figura, l’immagine di lei che porta dipinta nel segreto del cuore, la preghiera di non rifiutare l’omaggio che le portano i versi splendenti di lei o dimessi o umili del dolore di lui.

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– LA DONNA-ANGELO –

L’originalità poetica di Guinizzelli può forse essere sintetizzata nell’idea -chiave della donna angelo. Quest’idea proviene da una concettualistica rielaborazione di un’immagine già presente nel tradizionale repertorio figurativo.

Il Guinizzelli inserisce l’immagine della donna in una ordinata e sistematica concezione dell’universo ricorrendo all’analogia dell’attività degli angeli, con ardimento e argomentazioni del tutto lontani della poetica strettamente cortese della quale invece l’immagine angelica rimane pienamente decorativa, esornativa.

La donna, essere superiore per bellezza e moralità, viene del tutto identificata, attraverso un’acuta similitudine, con le intelligenze angeliche. Attraverso lo strumento d’amore, la donna amata predispone l’uomo innamorato a una volontà di perfezionamento morale: amando, l’uomo purifica la sua essenza spirituale avvicinandosi a Dio.

Questa visione della donna provoca però un conflitto tra amore e religione: il poeta infatti teme che, il giorno in cui si presenterà dinanzi a Dio, questi lo rimprovererà di aver osato salire sino a Lui indegnamente dopo aver attribuito sembianze sacre ad un peccaminoso amore terreno (Al cor gentil rempaira sempre amore).

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Da una parte l’Intelligenza contribuisce all’ordine cosmologico, muovendo il proprio cielo in ottemperanza alla volontà di Dio; dall’altra la donna angelo con uguale disinteresse e provvidenzialità contribuisce all’ordine morale, muovendo anch’essa in ottemperanza alla volontà di Dio, il cuore dell’uomo verso il bene.

Il poeta insomma fissa con convergenza di obbedienze, che dal suo vertice ha Dio e Dio soltanto: dal cielo all’Intelligenza a Dio; dal cuore dell’uomo alla donna a Dio; rispettivamente sul piano cosmologico e sul piano morale.

Il poeta anzi avrebbe peccato se si fosse sottratto a quel beatifico e benefico impulso, insomma a quel godimento di Grazia che, attraverso la mediazione angelica, viene in definitiva da Dio stesso.

Nel Guinizzelli persiste la distinzione tra umano e divino (“Così dar dovria, al vero, -la bella donna”); ma la via verso il nuovo ontologismo e fenomenologismo dell’amore è aperta.

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Conflitto Amore-Religione

La lode

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— IL CONFLITTO AMORE-RELIGIONE—

Il conflitto tra amore e religione era già insito in tutto l’amore cortese. Il conflitto emerge in piena luce: il poeta immagina che il giorna in cui si presenterà dinanzi a Dio , questi lo rimprovereràdi aver osato salire sino a lui indegnamente dopo aver attribuito sembianze sacre ad un peccaminoso amore terreno, con una nuova lode alla donna: aveva sembinza di un angelo che venisse dal paradiso; non era quindi una colpa amarla. Il conflitto amore cortese-religione, donna-dio non è risolto, è solo eluso con un’iperbole letteraria, quella che identifica la dona con un angelo. Tale conflitto sarà poi definitivamente superato da Dante con la Vita Nuova e con la Divina Commedia.

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LA LODE

Il tema dominante è quello della lode, che le quartine esemplificano attraverso i

confronto con le più elette e preziose realtà naturali: i fiori, idealmente rappresentati

dalla rosa e dal giglio: che possono simboleggiare una vasta gamma di sentimenti,

in particolare l’amore e la purezza; i corpi celesti, che già trasferiscono le virtù della

donna su un piano sovrannaturale; le bellezze della natura con i loro colori,

compresi quelli cangianti delle pietre preziose. Ispiratrice e quasi purificatrice dello

stresso amore ( introdotto mediante il processo di personificazione),la sua

apparizione produce effetti benefici e miracolosi: può addirittura convertire gli

infedeli, oltre ad allontanare ogni male e cattivo pensiero.

Si compie così quel processo di sublimazione della donna -da creatura celeste

a terrena- che contraddistingue la poetica stilnovistica.

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Guido CavalcantiLa vita

Le opere

L’amore e la donna

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BIOGRAFIA

Figlio di Cavalcante (collocato tra gli eretici nel canto X dell’Inferno), nacque a Firenze intorno al 1250. Proveniente da una famiglia tra le più potenti di Firenze, di ordinamento Guelfo, Guido si schierò dalla parte dei dei Bianchi e partecipò intensamente alle vicende politiche della città. Nel 1280 fu uno dei garanti della pace tra Guelfi e Ghibellini; come atto di pacificazione politica si può intendere il suo il suo fidanzamento avvenuto nel 1267, con Beatrice, figlia di Farinata degli Uberti. Ma il carattere deciso e animoso del suo temperamento emerge dal tentativo di uccidere il capo dei Guelfi Neri, Corso Donati, che pare avesse in precedenza attentato alla sua vita. Nel 1284 e nel 1290 fu eletto tra i rappresentanti del Consiglio Comunale. Nel giugno del 1300 fu tra i capi delle opposte fazioni condannati dai priori (tra cui sedeva l’amico Dante) all’esilio, per riportare la pace in città. Dal confino di Sarzana fu richiamato a Firenze il19 agosto ma, ammalato probabilmente di malaria, morì poco dopo.

La sua personalità fiera e aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli scrittori contemporanei: dai cronisti Dino Compagni e Giovanni Villani a novellieri come Boccaccio e Franco Sacchetti. Si legga il ritratto di Dino Compagni: “Uno giovane gentile , figlio di Messer Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere, cortese e ardito ma sdegnoso e solitario e intento allo studio”.

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Le opere

Il canzoniere si presenta senza una vera e propria evoluzione cronologica, ma che si coagula intorno a tematiche costanti e senza dubbio fondamentali per l’evoluzione più matura dello stilnovismo fiorentino. I 52 componimenti di questo corpus, comprese le rime di corrispondenza, trovano nella canzone Donna ma prega una presenza spartiacque, un vero e proprio elemento discriminante tra i sonetti di tono riflessivo o anche amichevole(si guardino quelli indirizzati a Guittone, Dante, Guido Orlandi) e le ballate, nelle quali è dominante invece la compassione di sé, la ricerca di un colloquio interiore con la donna, lo sbigottimento, la meraviglia sentimentale di fronte a una bellezza che è angosciosamente lontana. Lo stesso tema amoroso, rappresentato da alcuni stilnovisti tra cui Dante, in vista di un innalzamento morale e spirituale dell’uomo, viene sostanzialmente rovesciato, riportato cioè a una condizione di visione drammatica, fortemente coinvolgente sul piano emotivo.

Un percorso, quello di Cavalcanti, che mira a stabilire una puntuale gerarchia di temi e motivi affini e un’attenzione speculativa estremamente raffinata.

Nello sviluppo di questi argomenti e per evidenziare la centralità di Donna me prega si potrebbero osservare il lessico e la terminologia della poesia di Cavalcanti, a conferma di una concezione tormentata e dolorosa dell’amore.

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Sorprendono la coerenza e la stabilità delle parole-chiave : sospiri, dolore, timore ( nel sonetto Li miè foll’occhi, che per prima guardaro); pena e sbigottimento (nei sonetti Deh, spiriti miei, quando mi vedete e L’anima mia vilment’è sbigottita); sofferenza e morte ( Tu m’hai si piena di dolor la mente); tormento, tremore, pianto, disperazione ( nella canzone Io non pensava che lo cor giammai); angoscia, pensosi sospiri, disfacimento ( in Voi che per li occhi mi passate ‘l core), e l’elenco potrebbe continuare.

Forse si deve a un risentimento orgoglioso, a un’angosciosa ostilità alle atmosfere concilianti dello stilnovismo dantesco, la cifra singolare di questo lessico, che resta comunque un dato sorprendente e originale nella lezione di un artista capace di muoversi sul terreno della poesia con grande perizia tecnica e stilnovistica, con un una sorvegliata capacità innovativa, con un calcolato uso dell’enfasi e della drammatizzazione.

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SOMMARIOI- Fresca rosa novella

II- Avete ‘n vo’ li fior’ e la verdura

III- Biltà di donna e di saccente core

IV- Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira

V- Li mie’ foll’occhi, che prima guardaro

VI- Deh, spiriti miei, quando mi vedete

VII- L’anima mia vilment’è sbigottita

VIII- Tu m’hai sì piena di dolor la mente

IX- Io non pensava che lo cor giammai

X- Vedete ch’ì son un che vo piangendo

XI- Poi che di doglia cor conven ch’ì porti

XII- Perché non fuoro a me li occhi dispenti

XIII.- Voi che per li occhi mi passaste ‘l core

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XIV- Se m’ha del tutto obilato Merzede

XV- Se Mercè fosse amica a’ miei disiri

XVI- A me stesso di me pietade vene

XXXV- Perch’io no spero di tornar giammai

XXXVI- A Dante (?)

XXXVII- Risposta a un sonetto di Dante

XXXVIII- Risposta a un sonetto di Dante

XXXIX- A Dante Alighieri

XL- A Dante Alighieri

XLI- A Dante Alighieri

XLII- A un amico

XLIII- Risposta a un sonetto di Gianni Alfani

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XLIV- Risposta a un sonetto di Bernardo da Bologna

XLV- A un amico

XLVI- In un boscheto trovà pasturella

XLVII- A frate Guittono d’Arezzo

XLVIII- A Guido Orlandi

XLIX- A Guido Orlandi

L- Risposta a Guido Orlandi

LI- A Manetto

LII- A Nerone Cavalcanti

XVII- S’io prego questa donna che Pietade

XVIII- Noi sian le triste penne isbigotite

XIX- I’ prego voi che di dolor parlate

XX- O tu, che porti nelli occhi sovente

XXI- O donna mia, non vedestù colui

XXII- Veder poteste, quando v’incontrai

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XXIII- Un amoroso sguardo spiritale

XXV- Posso degli occhi miei novella dire

XXVI- Veggio negli occhi de la donna mia

XXVII- Donna me prega,- per ch’eo voglio dire

XXVIII- pegli occhi fere un spirito sottile

XXIX- Una giovane donna di Tolosa

XXX- Era in penser d’amor quand’ì trovai

XXXI- Gli occhi di quella gentil foresetta

XXXII- Quando di morte mii conven trar vita

XXXIII- Io temo che la mia disaventura

XXXIV- La forte e nova mia disaventura

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ANALISI DEL TESTO

Il sonetto riprende la tecnica del plazer medievale, l’elenco cioè di cose situazioni piacevoli: un tema che ha incontrato fortuna anche presso gli altri stilnovisti, come Lapo Gianni (Amor eo chero mia donna in domino) e Dante stesso (Sonar brachetti e cacciatori aizzare; Guido, i’ vorrei che tu Lapo ed io). Ma il motivo dei trovatori (o di qualche sonetto di Giacomo da Lentini, come Diamante né smiraldo, incentrato sullo stesso tema), viene profondamente rinnovato da Cavalcanti: adesso il catalogo delle cose più belle diventa l’occasione per celebrare l’assoluta superiorità dell’amata, una superiorità che è di natura anzitutto morale: valenza, gentil coraggio,conoscenza, ben. Nei poeti stilnovisti si è infatti modificata la disposizione psicologica. Le loro donne non sono solo belle e virtuose per se stesse; esse diffondono il bene nel mondo, e portano con sé una gioia che è inarrivabile, quanto il cielo è più grande della terra (v.13). Dalle regioni celesti viene l’amata cavalcantiana; e lungamente sospirata è la sua apparizione, come vediamo dall’accumulo delle immagini nelle due strofe iniziali. Poi la tensione si scioglie e noi siamo messi di fronte al prodigio, che è anzitutto quello, luminoso, della pura poesia.

La struttura del sonetto prevede una netta divaricazione tra le due quartine e le due terzine, tra cui, in funzione di ricapitolazione e di censura, viene fortemente rilevato il pronome ciò (v.9), replicato alla fine del v.11.

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Gli otto versi iniziali costituiscono propriamente il primo termine di paragone: gli elementi comparati alla bellezza dell’amata sono elencati in frasi con struttura nominale e sintassi coordinativa. I verbi secondo il genere del plazer, sono prevalentemente all’infinito (cantar e ragionar, apar, scender).

Più mossa la costruzione degli ultimi sei versi, che sostengono l’imparagonabilità della donna a ogni evento o oggetto sia pure piacevolissimo: la serie delle proposizioni comparative e consecutive (sì che rasembra vile a chi… v.11, e tanto più… quanto lo ciel… è maggio vv. 12 – 13) sembra trovare un punto fermo nella sentenza conclusiva, enfaticamente isolata, del v.14.

Il sonetto è una testimonianza di come gli stilnovisti affinino gli strumenti linguistici e retorici elaborando il loro stile “dolce”. Sul piano fonico, Cavalcanti valorizza il vocalismo, elemento peculiare della lingua italiana, incentrando su Dio esso il timbro del sonetto: prevalgono le vocali a, i, e, come nel v. 3: cantar d’augelli e ragionar d’amore (con la rima interna cantar/ragionar), o come nel v. 6 e bianca neve scender senza venti, dove si riscontra una forte presenza della consonante -n. Quest’ultima si accompagna invece nel v. 4 alla vocale -i : adorni legni ‘n forte correnti. Fluidità e armonia caratterizzano, in senso melodico, l’insieme del componimento.

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ANALISI DEL TESTO

La ballata può sembrare la struggente confessione autobiografica di una condizione di esilio e di dolore, percorsa da presagi di morte. Così fu letta in età romantica, quando si amava la poesia come immediato sfogo soggettivo, e aveva larga fortuna la figura del poeta tormentato e sofferente, esule e segnato da un destino di morte. Si legava così la ballata all’esilio del poeta a Sarzana, e vi si leggeva la premonizione alla morte ormai prossima. In realtà il collegamento con l’esilio è del tutto privo di fondamento: il timore della morte durante un viaggio è un vero e proprio topos letterario, come prova il suo ricorrere anche nella poesia di Lapo Gianni. Non solo ma in generale è scorretto sovrapporre alla poesia medievale gli schemi romantici moderni. Era ignota allora la poesia come confessione e sfogo dell’anima: la poesia era esercizio altamente convenzionale e codificato ed escludeva il riferimento a situazioni soggettive, individuali, contingenti (vedi l’analisi del sonetto Voi che per li occhi). Il componimento, quindi, appare regolato da precise norme e convenzioni, che si possono agevolmente ricondurre al sistema letterario della poesia cortese, ed in particolare al sistema tematico-stilistico della produzione cavalcantiana. Ad esempio il motivo della lontananza e della dolorosa separazione dalla donna amata è proprio della tradizione cortese sin dai trovatori provenzali. Più strettamente connesso col sistema cavalcantiano è il motivo del dolore, dell’angoscia , della paura, della distruzione fisica e psichica, della morte. Il motivo genera la trama verbale su cui si regge tutta la struttura del discorso poetico.

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Tipicamente cavalcantiana è poi l’obiettivazione dei processi interiori in una serie di entità astratte personificate: la “ballatetta” in primo luogo, la “morte”, “la vita”, gli “spiriti”, l’ “anima”, la “voce”.queste entità divengono i veri e propri personaggi di una vicenda drammatica molto mossa e intensa: come si è già notato, Cavalcanti non analizza la propria vita interiore, ma la mette in azione, oggettivandola. La struttura portante della vicenda drammatica è il percorso della “ballatetta” che, come intermediaria, deve raggiungere la donna, portando notizia dei sospiri, del dolore, della paura. Su questo percorsi si profilano ostacoli, la presenza di persone villane e ostili, che potrebbero impedire la missione, accrescendo la sofferenza del poeta. Qui si inserisce la descrizione della condizione dell’amante, anche in questo caso affidata a personificazioni, la morte che incalza, la morte che lo abbandona, gli spiriti che discutono in modo contrastante nel cuore. Riprende di qui il motivo del viaggio, ma al personaggio originario, la “ballatetta”, se ne aggiungono altri: l’anima che trema, e che la “ballatetta” presenta alla dona come sua “servente” , la voce “sbigottita e deboletta”, anch’essa costretta a staccarsi e allontanarsi “de lo cor dolente”, e che parla con l’anima e con la ballatetta della distruzione dell’amante. La vicenda si conclude con l’apoteosi della donna: i delegati del poeta, la ballata, l’anima, la voce, si diletteranno a stare sempre con lei, e l’anima dovrà adorarla sempre.

La forma metrica della ballata nella sua piena scorrevolezza musicale accentua gli aspetti dello stile dolce.

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ANALISI DEL TESTO

Il sonetto reca ulteriori apporti alla definizione dell’amore stilnovistico e all’immagine della donna angelicata. Si rifà chiaramente a Guinizzelli, riprendendo il motivo della lode della donna già presente nel sonetto Io voglio del ver la mia donna laudare; anzi, di tale sonetto non solo utilizza le rime in -are e in -ute, ma ripete ben quattro parole in rima, due nelle quartine ( «are», «pare») e due nelle terzine («salute», «vertute»). Da un lato però cadono i paragoni naturali, concreti, che sono propri del sonetto guinizzelliano (la rosa e il giglio, la stella diana, la verde rivera, ecc), e il discorso si fa più astratto e metafisico; dall’altro l’atteggiamento del poeta risulta qui più radicale nella sublimazione della donna, trasformandola in un essere sovrumano e irraggiungibile. Già l’interrogazione iniziale, che racchiude nel suo giro l’intera quartina, accentua l’atmosfera di stupore creata dall’apparizione di una creatura miracolosa. L’attacco rimanda al linguaggio biblico, essendo desunto dal Cantico dei cantici «Quae est ista quae progreditur?» ( Chi è questa che avanza?). E poiché l’esegesi cristiana nel Medio Evo applicava questi passi biblici a Maria, è evidente che nel sonetto cavalcantiano, la figura della donna è assimilata a quella della Vergine, rafforzando così l’impressione di un’apparizione sovrannaturale.

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L’impressione è ulteriormente accentuata dall’immagine successiva, “fa tremar di chiaritate l’are”, che richiama il nimbo fulgente che circonda appunto, nelle rappresentazioni del tempo, le figure sovrannaturali; parimenti «sì che parlare/null’omo pote» dà l’idea della stupefazione che coglie i mortali dinanzi alle manifestazioni del divino. Però già qui si introduce un elemento profano, la presenza del dio Amore che accompagna la donna, che dal clima mistico riporta all’ambito consueto della cortesia, ricordando quali quali sono i termini reali del discorso.

Il clima mistico è ancora accentuato dall’invocazione a Dio che apre la seconda quartina (O deo ). Ma soprattutto si propone qui un motivo centrale dell’esperienza mistica e del suo linguaggio, quello dell’ineffabilità: la realtà sovrannaturale supera ogni possibilità di linguaggio umano, per cui l’uomo dinanzi ad essa non può che confessare la sua impotenza. Il tema dell’ineffabilità percorre tutta la poesia, costituendone la struttura portante (v.6 e v.9), per culminare nell’ultima terzina, che è tutta dedicata ad esso. Qui il discorso non riguarda solo la poesia, ma viene a toccare direttamente il problema della conoscenza, in senso filosofico e teologico: la mente mortale dichiara la sua sconfitta, l’intelligenza dell’uomo non può raggiungere vertici così alti, non ha tanta «salute» da poter avere conoscenza adeguata della donna.

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A questo punto essa viene davvero assimilata a Dio, l’essere infinito ed assoluto, di cui non è possibile per l’uomo avere conoscenza totale. Cavalcanti conduce ben oltre il processo inaugurato da Guinizzelli, di conferire alla donna le caratteristiche della dvinità e di modellare il culto ad essa tributato sul culto dovuto a Dio.

Gli aspetti formali

Per quanto concerne l’organizzazione formale del testo, si può rilevare una costruzione a gradini: la poesia è cioè costruita su una serie di riprese interne, per cui il motivo proposto nella prima strofa è ripreso nella seconda, uno proposto nella seconda e ripreso nella terza: “Amo” che compare al v.3, è richiamato al v.6; “nol savria contare” del v.6 è ripreso al v.9 “Non si porria contar”, con un allargamento da un’incapacità soggettiva e individuale ad un’incapacità generale e assoluta; il paragone tra l’umiltà della donna e l’ira di tutte le altre, vv.7-8, è ripreso al v.10; infine l’ultima terzina, come si è visto riprende il concetto della seconda.

Questo sonetto cavalcantiano , oltre al motivo della lode, mutua da Guinizzelli anche le caratteristiche dello stile dolce: assenza di suoni aspri, di scontri duri di consonanti, di rime rare e difficili; lessico piano, senza termini troppo preziosi e ardite mescolanze linguistiche; ritmo fluido senza spezzature interne al verso e senza enjamblements fortemente inarcati; sintassi lineare senza inversioni, sobrietà nelluso di artefici retorici.

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ANALISI DEL TESTO

Si è osservato che la poesia stilnovistica si muove lungo due direttrici tematiche fondamentali: la lode della donna e l’esame degli effetti dell’amore sul soggetto amante. Nel sonetto Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira abbiamo visto la prima; in questo sonetto compare la seconda, nei modi particolari in cui è sentita da Cavalcanti: l’amore è concepito come una forza cieca, irrazionale, che genera angoscia e dolore nell’amante ed ha effetti devastanti sulla sua persona. Infatti la struttura portante del sonetto è costituita da una serie di immagini di violenza distruttiva e di sofferenza: “angosciosa” v.3, “distrugge” v.4, “dolore” v.8, “disfatto” v.9, “colpo” v.12, “tremendo” v.13, “morto” v.14.

Il testo è costruito su un doppio movimento, distribuito fra le quartine e le terzine. Nelle quartine si delinea, sia pur in forme astratte e simboliche, una vera e propria sequenza narrativa, scandita in una serie di microsequenze: 1. la donna con i suoi sguardi trafigge il cuore del poeta e mette in angoscia la mente prima tranquilla; 2. dal piano reale si passa a quello allegorico: Amore viene tagliando con gran forza; 3. L’allegoria amorosa assume le forme di una vicenda bellica; 4. in mano al conquistatore vittorioso restano solo l’aspetto esteriore dell’uomo e la sua voce che esprime il suo dolore.

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Nelle terzine la stessa vicenda viene ripresa e raccontata una seconda volta, seguendo fasi analoghe, con qualche variazione negli attori del dramma: 1. La virtù dell’amore che esce dagli occhi della donna ha disfatto l’amante (corrispondenza con la prima microsequenza delle quartine); 2. la virtù d’amore getta il dardo nel fianco dell’uomo (microsequenza 2); 3. L’anima si riscuote tremando ( terza parte); 4. L’anima vede il cuore morto nel lato sinistro.

In questa vicenda di personaggi astratti ( l’amore, l’anima, il cuore, gli spiriti, la voce) assumono forma oggettivata i moti interiori del poeta. Possiamo vedere in questo una caratteristica tipica, oltre che della poesia cavalcantiana, anche della lirica amorosa nel Medio Evo. In essa la trattazione dei sentimenti dà origine a una vicenda che vuole essere svincolata da ogni riferimento strettamente personale, da contingenze reali di tempo e di luogo, che aspira ad avere un significato universale e assoluto. Di qui scaturisce la tendenza all’oggettivazione che è propria della poesia cavalcantiana: poiché il poeta non confessa se stesso, ma rappresenta sentimenti generali.

Troviamo quindi l’amore come passione che esclude ogni controllo razionale, che fa soffrire e distrugge l’amante, annullando ogni facoltà sensibile e ogni energia vitale. L’annullamento della personalità che ne deriva, ricorda gli effetti dell’amore mistico in cui l’annientamento è un potenziamento infinito di Dio, qui invece il senso di morte si risolve in cupa e paurosa disperazione.

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ANALISI DEL TESTO

La pastorella è un genere provenzale, di origine aristocratica, composta per musica e dedicata al cento. Il cavaliere o poeta, che parla in prima persona, racconta di un incontro che egli ha, nel bosco o nei campi e normalmente in primavera, con una contadina o pastorella a cui chiede amore, senza troppe esitazioni. Siamo cioè al di fuori del codice cortese: nella pastorella il tema del desiderio erotico è il centro della poesia.

Rispetto alla struttura normalmente dialogata , Cavalcanti predilige un andamento più narrativo, restringendo l’area delle battute a botta e risposta; il protagonista è poi identificato fin da subito con l’io-poeta, così da attribuire un andamento più personale al componimento.

L’amore è rappresentato nella sua immediatezza, come forza naturale dell’istinto, ma risulta illanguidito, ambientato come in una serena cornice agreste, con il suo idillio di suoni e colori, come si vede bene dall’abbondanza dei diminutivi (bionmdetti e ricciutelli v.3, verghetta v.5, freschetta foglia v.23) che rendono più elegantemente decorativo il quadro della natura e ne sottolineano l’irrealtà. Lo stile risulta piano, le rime facili e ripetitive.

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Il dramma

L’amore

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IL DRAMMA

Caratteristica principale della poesia cavalcantiana è la drammaticità. Il conflitto interiore viene rappresentato in atto, sempre al presente, dato che non esiste storia perché l’esperienza è continuamente ripetuta e rivissuta nel suo valore assoluto e universale. I personaggi del dramma sono le passioni stesse ( Amore, Pietà, come nella tradizione cortese, ma anche Paura, Dolore), o le parti del corpo che ne sono soggette, o gli atti che le esprimono (sguardi, voce, sospiri, pensieri), o la Morte in persona , oppure, infine, i frammenti dell’ io lacerato del poeta, le personificazioni delle funzioni vitali senza più governo, gli spiriti o spiritelli. Questi ultimi sono già presenti saltuariamente nella lirica toscana precedente ( non nei Siciliani), ma Cavalcanti per primo li inserisce in un’articolata drammatizzazione che sarà imitata in varia misura dagli altri Stilnovisti.

La drammaticità di questa poetica è associata a uno stile quanto mai dolce, dove spesso la disperazione prende i toni patetici dell’autocommiserazione. Si tratta della vera fondazione, dopo le prime ed estemporanee intuizioni del Guinizzelli, di un nuovo linguaggio poetico, che influenzerà lo svolgimento successivo della lirica italiana.

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L’AMORE

Dall’averroismo ( interpretazione di Aristotele secondo il filosofo arabo Averroè) prende sostanza filosofica la concezione pessimistica del Cavalcanti: l’Amore è un accidente e non sostanza o essere, secondo la terminologia filosofica antica e medievale, passione che si produce nell’anima sensitiva dell’influsso maligno di Marte e della rappresentazione interiore della bellezza della donna. Esso prende poi dimora nell’intelletto possibile, e secondo gli averroisti è la facoltà attraverso cui si contempla il vero, al di fuori di ogni passione e oggetto sensibile. Amore dunque - in quanto passione- non può essere conosciuto; diviene anzi ostacolo all’attività dell’intelletto possibile e quindi alla conoscenza, provocando uno sconvolgimento interiore e un tremendo stato di angoscia.Tutto ciò porta infine all’annichilimento ovvero alla morte, perché distrugge le facoltà vitali, o perché toglie all’uomo il dominio di sé o lo distrae dalla speculazione. Nella particolare accezione cavalcantiana la morte è un evento morale e intellettuale, quindi non da mettere necessariamente in relazione con l’atteggiamento sdegnoso di Madonna o con l’ansia della soddisfazione del desiderio. Essa è pertanto profondamente diversa dalla morte metaforica della tradizione precedente. La poesia amorosa di Guido non si esaurisce tuttavia in una visione angosciosa e tragica. Egli ha portato allo Stilnovo di Guinizzelli anche temi più gioiosi e positivi, dai quali spicca la lode della donna.

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Essa è talora paragonata, come nelle prime liriche, agli elementi più gradevoli della natura (Avete ‘no’ li fior’ e la verdura) ma più spesso viene considerata in rapporto agli effetti della sua apparizione sull’animo ( Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira), e la lode di lei si risolve in una dichiarazione di inconoscibilità e ineffabilità che infine approda al tema della donna- angelo ( l’ultima terzina di Chi è questa che ven…o la ballata Veggio negli occhi de la donna mia ).

Ciononostante, in lui l’esperienza amorosa non si traduce in vera elevazione, perché l’anelito alla perfezione di sé e alla conoscenza è frustrato: la passione con i suoi effetti nefasti impedisce infatti ogni sviluppo spirituale e conoscitivo. Anzi, secondo un passo fondamentale (v.39) della canzone dottrinale Donna me prega… , l’uomo per effetto dell’amore è allontanato dal buon perfetto, dal sommo bene inteso come perfezione razionale.La salute (“beatitudine”) cavalcantiana non è dunque che una momentanea impressione, legata all’apparizione della donna e all’assunzione dell’immagine della bellezza ideale, prima dell’inesorabile affermarsi della passione. La peculiarità di Cavalcanti sta proprio qui, e qui sta la differenza con lo Stilnovo di Dante, che pure a Guido deve tanto.

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Gli spiriti

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GLI SPIRITI

Per dare voce alle facoltà sensitive, alle funzioni vitali, ai moti dell’anima investiti e coinvolti nell’esperienza totalizzante d’amore, Guido Cavalcanti fece ricorso a una teoria fisiologica allora molto diffusa: quella degli spiriti o spiritelli. Essa derivava dal pensiero del medico greco Claudio Galieno (129-201), ed era stata rielaborata dal medico e filosofo musulmano Avicenna ( 980-1037) e poi dal filosofo aristotelico tedesco Alberto Magno (1206ca.-80) nel trattato De spiritu et respiratione (“Il soffio vitale e la respirazione”). Secondo questa teoria gli spiriti sono elementi della fisiologia animale e umana, composti di materia sottile e mobile, che sovrintendono alle funzioni vitali dell’organismo tramite il loro movimento. Gli spiriti sono di tre tipi, ciascuno con un diverso grado di sottigliezza. Lo spirito naturale ha origine nel fegato e si propaga nel corpo attraverso le vene provvedendo alla nutrizione. Con un processo di raffinazione da esso si forma lo spirito vitale, che ha sede nel cuore e attraversa il corpo mediante le arterie, provvedendo alla respirazione e alla vita dell’organismo. In seguito ad un ulteriore processo di raffinazione, dallo spirito vitale si forma lo spirito animale. Esso ha sede nel cervello e, muovendosi da un ventricolo all’altro, ne provoca il funzionamento. Lo spirito animale raggiunge gli organi di senso attraverso i nervi: sovrintende così alla trasmissione delle sensazioni al cervello.

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Nell’accezione puramente fisiologica e filosofica, la nozione di spirito non ha nulla di personale o animato. Lo spiritus, etimologicamente non è altro che un’ essenza corporea, benché assai rarefatta, che si propaga attraverso le vene le arterie e i nervi. Che questi spiriti agiscano, combattano, fuggano o addirittura parlino è creazione poetica particolarmente legata alla concezione drammatica cavalcantiana.

Ciò risponde anche, però, al carattere generale della cultura e dell’arte medievale incline alla figurazione e alla rappresentazione, cui né Guido né Dante né altri si sottrassero.

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Cino da Pistoia

La vita

Le opere

L’amore e la donna

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BIOGRAFIA

Cino dei Sigibuldi, nacque a Pistoia tra il 1265 e il 1270, figlio di un nobile pistoiese , Francesco di Guittoncino. Verso il 1290 si recò a Bologna per studiare all’università. Nel 1300 fu nominato assessore delle cause civili della sua città, quindi si gettò nelle lotte civili; militante tra i neri fu esiliato nel 1303; potè ritornare a Pistoia dopo la sconfitta dei bianchi nel 1306, e ricevette l’incarico di giudice fino al 1309.

Fautore di Arrigo VII ( come Dante), fu consigliere del conte Ludovico di Savoia durante la fallita ambasceria a Firenze e lo assistette come funzionario al tribunale imperiale di Roma, che doveva decretare l’incoronazione di Arrigo VII. Con la morte di questi , Cino uscì definitivamente dalla scena politica e si dedicò ai prediletti studi di giurisprudenza, in cui doveva cogliere la sua maggiore gloria.

Esercitò la professione di giurista e,conseguita allo Studio di Bologna la licentia docendi 1314, insegnò nelle università di Siena, Perugia (1326), Napoli (1330-31),forse anche a Firenze e a Bologna.Poi tornò a Perugia e infine a Pistoia, dove morì nel 1336-37.

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I passi del De vulgari eloquentia che lo riguardano testimoniano la stima che Dante ebbe di lui come poeta e sul piano personale ( l’Alighieri menziona se stesso come amicus eius, di Cino ). I rapporti tra i due poeti sono anche documentati da un nutrito scambio di rime ( Cino scrisse anche una canzone consolatoria per la morte di Beatrice, e infine una in morte dell’amico) e da un’epistola latina di Dante a Cino complementare alla corrispondenza poetica.

Più controversi sono i rapporti col Cavalcanti: ci resta solo un sonetto di Cino, in tono polemico (Quà son le cose vostre ch’io vi tolgo), in risposta a uno perduto di Guido che lo accusava di plagio.

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Le opere

Ci occuperemo dell’opera poetica, ricordando però che Cino da Pistoia ai tempi suoi ebbe fama più chiara e più estesa ( a livello europeo) per la sua copiosa opera di giurista.

Il corpus delle sue rime consta di 165 componimenti, oltre a un nutrito gruppo di poesie di attribuzione incerta. Per la maggior parte esse sono di argomento amoroso e di stampo stilnovista, ma non ,mancano altri tempi: il plazer rovesciato in senso comico ( come nel sonetto Tutto ciò ch’altrui agrada a me disgrada), la poesia politica d’occasione ( come nella canzone in morte di ArrigoVII ), i recuperi della vecchia tradizione dell’amore cortese.

Lo stilnovismo di Cino prende temi e motivi dalla Vita nuova, soprattutto, e dall’opera di Cavalcanti. Esso si configura come adesione a una poetica già stabilita nelle sue linee essenziali e come accettazione di uno stile , senza che vi sia un approfondimento concettuale e senza che sia rintracciabile una sua autonoma posizione dottrinale.

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Cino è immune dalle ansie conoscitive e metafisiche di Dante e Cavalcanti, e nemmeno si può dire che creda fino in fondo, al di là degli schemi e dei motivi ereditati, ad Amore come esperienza trascendentale e universale. La sua riflessione si svolge su un piano più concretamente individuale, che nelle sue prove migliori si realizza per mezzo di un realismo psicologico nuovo: egli si propone così come poeta della Memoria e della confessione autobiografica, lungo una strada che porterà al Petrarca ( debitore a Cino in molti luoghi del Canzoniere).

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La memoria

L’amore e la donna

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LA MEMORIA

Tutta la concezione di Cino da Pistoia si fonda su una forma interiore di ragionamento del piacere che si realizza nella speranza di cui la vista della donna è seme: un ragionare che è peraltro da intendersi come un discorrere della mente che non si può intendere come immediato atto espressivo.

Cino non possiede un’ida unitari, centrale, organica , ma la sua poetica è l’addizione di tematiche e concezioni della più varia specie. Il ragionamento di Cino ha in sé qualcosa di occasionale: si svolge di tema in tema di concetto in concetto, senza determinarsi in un organismo sistematico. Tuttavia egli segue una facoltà esterna allo svolgimento concettuale, ma pur sempre feconda di risoluzioni morali: la memoria: “Tutto è visto nel gioco di specchi della mente, tutto il suo mondo è passato attraverso i filtri del suo ripensamento, si dispone nel tempo attraverso il processo del discorso stesso” ( De Robertis) .

La memoria amorosa porge a Cino meticolosi sussidi visivi e psicologici. Non è ancora una memoria svincolata da un processo ragionativo dentro, e affidata ad un immediato rampollare di sembianze, perché allora sarammo al Petrarca; ma s’è già fatto un notevole passo avanti.

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Cino ha liquidato il Dolce stile in ciò che era orgogliosa conquista di un nuovo metodo conoscitivo dell’amore, e ha anticipato una poesia della memoria pura; in questa direzione, Cino travalica i termini di tempo storico stilnovistico per affacciarsi confusamente agli esordi della stagione petrarchesca.

Il linguaggio di Cino è solitamente solitamente spoglio di quella aggraziata levità ch’era dei suoi amici di Firenze; ma riguardava quelle aeree forme quando l’immagine scaturisce dal fantasioso “donneare” della memoria.

Non esiste nei suoi versi una rappresentazione concreta: anche le figurazioni che potrebbero scaturire da un disegno interiore, sono nate, in realtà dal gioco della memoria.

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L’amore e la donna

Negli anni giovanili Cino dimorò a Firenze, e qui nacque la sua dimestichezza con Dante che gli anni d’esilio dell’uno e dell’altro dovettero col tempo diradare se non disperdere. Del resto egli continuava a poetare stilnovisticamente in un periodo in cui l’Alighieri aveva intrapreso altra strada ( De vulgari eloquentia ). Pistoia fu città ricca di attività culturali, ma Cino guarda Firenze con la volontà di distinguersi dai fiorentini con una sua dottrina dell’amore che in effetti ha, pur con tante auscultazioni dei moduli espressivi dei suoi più anziani colleghi. Cino ragiona sulle cause interiori dell’amore in quanto diletto dell’anima che è alimentato dallo sguardo in una successione “vista della donna”-” discorrere della mente”, espressione della parola poetica, ma non ha la rigorosa coerenza ragionativa di Cavalcanti così come non ne eredita l’avventura averroistica e il ferreo razionalismo. Così che spesso, trascorrendo da una rima all’altra, si noterà che accetta o semplicemente accenna a percorsi diversi suggeriti da una fenomenologia memorialistica che lo fa andare indietro nel tempo o lo ferma a contemplare la bellezza della donna vicina o a ricostruirsi le sembianze se essa è lontana.

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Lo stilnovismo

di Cino

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Lo stilnovismo di Cino

Nella lingua di Cino non si notano la levità, il grado di dolcezza dei fiorentini, e non mancano arcaismi che questi avrebbero rifiutato, e assenze di melodie delicate, di una vera suavitas espressiva. Il suo figurare è sovente impacciato, generico, e la mancanza di storia interna del canzoniere favorisce le replicazioni, i ritorni all’indietro, talvolta le ambiguità. I momenti migliori risiedono nel descrittivismo fisionomico o in taluni aerei scorci di paesaggi naturali, come nella ballata Io guardo per li prati ogni fior bianco, immagini anche di colori non aggraziati come nel cavalcantiano Biltà di donna e di saccente core ma pur sempre significativi.

Un ulteriore elemento arricchisce, per merito di Cino, il quadro della Toscana letteraria: con Cino l’alta cultura universitaria fa il suo ingresso nella poesia italiana. Questo collegamento tra il mondo degli studi giuridici e quello della letteratura “militante” resterà per il momento senza eguali, non perché manchino notai o giuristi che pratichino la poesia, ma perché nessuno può vantare meriti canonistici e privatistici del dotto professore universitario che egli fu. E ancora un elemento che accomuna il pistoiese ai fiorentini: la partecipazione alla politica, una combattività che gli frutterà l’esilio.

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ANALISI DEL TESTO

Le prime due stanze pongono il tema-chiave della partenza: lo vediamo nei vv. 9,12 e 17; e poi con leggera variazione, torna nella strofa seguente (divide, v.23 e diviso v.24) e nel son tanto / lontan dei versi 32-33. Esso si muta nell’altro motivo saliente della perdita: ho perduta la morosa vista, v. 40, dove significativamente si riprende la vista del v.1. Su queste basi cresce questa canzone, dove troviamo i motivi più caratteristici della produzione di Cino da Pistoia: la dolcezza, il ricordo e il dolore.

Questo componimento e i vari motivi che gli danno vita (amore personificato, l’invocazione del morire, il tornare dell’animo dopo la morte, presso l’amata), ci riportano alla celebre ballata di Cavalcanti (Perch’i’ no spero di tornar giammai), che costituisce il modello di Cino. Simile è infatti la struttura dei due testi. Entrambi sono costruiti per accumulo di immagini: una corata mestizia si espande e progressivamente si approfondisce fino alla finale invocazione di morte.

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In Cino però la dolente malinconia non porta, come in Cavalcanti, alla rarefazione della realtà; nonostante gli inserti dialogici, la sua poesia perde in vivezza drammatica, anche se acquista, forse, in tono elegiaco.

Nel testo opera un saldo tessuto retorico, con la sua rete di apostrofi, antitesi e ossimori. Un suggestivo alone di musicalità, si crea mediante l’insistita anafora di amore, l’artificio delle coblas capfinidas, gli enjembements, e ancora grazie al sapiente impiego di rime interne, inversioni, allitterazioni.

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LA MALINCONIA DI CINO

I principali topoi della lirica stilnovistica sono tutti presenti nel componimento Lad dolce vista e ‘l bel guardo soave. Ma quel che più importa rilevare è l’oraganizzazione retorico-stilistica del testo.

In effetti questa canzone è incentrata sull’espressione effusiva, malinconica, lamentosa del proprio stato interiore e sulla ripetuta, monotona invocazione ad Amore interlocutore ideale del lirismo ciniano.

Il motivo centrale più volte ribadito e variato può essere così espresso: “ la felicità che io provavo quando ero presso la donna mia, coll’allontanamento da lei si è tramutata in continuo dolore, sicchè io continuo a lamentarmi e desidero piuttosto morire, per congiungermi idealmente con lei, che continuare a vivere in tale stato”. Questa è la situazione sentimentale da cui prende spunto il testo e su cui si innestano come variazioni alcuni motivi particolari. Si noterà come essa si fondi su una duplice antitesi: un tempo (felicità) / ora (infelicità) / in futuro (pietà), che dà il via agli opposti atteggiamenti i dolente ricordo del tempo felice e di mesta speranza in una futura consolazione.

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La presentazione è stata svolta da:

Maggiore Analia

&

Sandrin Lorenza

SI RINRAZIA il professore LUIGI GAUDIO

per l’attenzione e la pazienza dimostrata.EXIT

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Donna me prega, - per ch'eo voglio dire

d'un accidente - che sovente - è fero ed è si altero - ch'è chiamato amore: sì chi lo nega - possa 'l ver sentire!05 Ed a presente - conoscente - chero, perch'io no sper - ch'om di basso core a tal ragione porti canoscenza: ché senza - natural dimostramemto non ho talento - di voler provare10 là dove posa, e chi lo fa creare, e qual sia sua vertute e sua potenza, l'essenza - poi e ciascun suo movimento, e 'l piacimento - che 'l fa dire amare, e s'omo per veder lo pò mostrare.

Donna me prega

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15 In quella parte - dove sta memora prende suo stato,

sì formato,come diaffan da lume, -

d'una scuritate la qual da Marte - vène,

e fa demora; elli è creato -

ed ha sensato nome,

20 d'alma costume -e di cor volontate.

Vèn da veduta forma che s'intende, che prende -

nel possibile intelletto, come in subietto, -

loco e dimoranza.

In quella parte mai non ha pesanza

25 perché da qualitate non descende:

resplende - in sé perpetual effetto; non ha diletto

ma consideranza; sì che

non pote largir simiglianza.

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Non è vertute, - ma da quella vène

30 ch'è perfezione -

(ché si pone - tale), non razionale, -

ma che sente, dico; for di salute -

giudicar mantene, ch la 'ntenzione - per ragione - vale: discerne male -

in cui è vizio amico.

35 Di sua potenza segue spesso morte, se forte -

la vertù fosse impedita, la quale aita -

la contraria via: non perché oppost' a naturale sia;

ma quanto che da buon perfetto tort'è

40 per sorte, non pò dire om ch'aggia vita, ché stabilita

non ha segnoria.

A simil pò valer quand'om l'oblia.

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L'essere è quando

lo voler è tanto ch'oltra misura - di natura -torna,

45 poi non s'adorna- di riposo mai. Move, cangiando

color, riso in pianto, e la figura -

co paura -storna;

poco soggiorna; -

ancor di lui vedrai che 'n gente di valor lo più si trova.

50 La nova- qualità move sospiri, e vol ch'om miri -

'n non formato loco, destandos' ira la qual manda foco

(Imaginar nol pote om che nol prova), né mova -

già però ch'a lui si tiri,55 e non si giri -

per trovarvi gioco: né cert'ha mente gran saver né poco.

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De simil tragge - complessione sguardo che fa parere

lo piacere - certo: non pò coverto -

star, quand'è sì giunto.

60 Non già selvagge -

le bieltà son dardo, ché tal volere -

per temere - è sperto: consiegue merto -

spirito ch'è punto.

E non si pò conoscer per lo viso: compriso -bianco in tale obietto cade;

65 e, chi ben aude, -forma non si vede:

dungu' elli meno, che da lei procede.

For di colore, d'essere diviso, assiso

'n mezzo scuro, luce rade,

For d'ogne fraude - dico, degno in fede,

70 che solo di costui nasce mercede.

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Tu puoi sicuramente gir, canzone, là 've ti piace,

ch'io t'ho sì adornata ch'assai laudata -

sarà tua ragione da le persone -

c'hanno intendimento:

75 di star con l'altre tu non hai talento.

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Biltà di donna e di saccente core

sonetto

Biltà di donna e di saccente core e cavalieri armati che sien genti; cantar d'augilli e ragionar d'amore;04 adorni legni 'n mar forte correnti;

aria serena quand' apar l'albore e bianca neve scender senza venti; rivera d'acqua e prato d'ogni fiore;08 oro, argento, azzuro 'n ornamenti:

ciò passa la beltate e la valenza de la mia donna e 'l su' gentil coraggio,11 sì che rasembra vile a chi ciò guarda;

e tanto più d'ogn' altr' ha canoscenza, quanto lo ciel de la terra è maggio.14 A simil di natura ben non tarda.

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Chi è questa che vèn qh’ogn’om la mira

sonetto

Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira, che fa tremar di chiaritate l'âre e mena seco Amor, sì che parlare04 null'omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira, dical' Amor, ch'i' nol savria contare: contanto d'umiltà donna mi pare,08 ch'ogn'altra ver' di lei i' la chiam' ira.

Non si poria contar la sua piagenza, ch'a le' s'inchin' ogni gentil vertute,11 e la beltate per sua dea la mostra.

Non fu sì alta già la mente nostra e non si pose 'n noi tanta salute,14 che propiamente n'aviàn conoscenza.

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Veggio negli occhi de la donna mia

un lume pien di spiriti d'amore,

che porta uno piacer novo nel core,

sì che vi desta d'allegrezza vita.

05 Cosa m'aven, quand' i' le son presente,

ch'i' non la posso a lo 'ntelletto dire:

veder mi par de la sua labbia uscire

una sì bella donna, che la mente

comprender no la può, che 'mmantenente

10 ne nasce un'altra di bellezza nova

da la qual par ch'una stella si mova

e dica: - La salute tua è apparita

. Là dove questa bella donna appare

s'ode una voce che le vèn davanti

15 e par che d'umiltà il su' nome canti

sì dolcemente, che, s'i' 'l vo' contare,

sento che 'l su' valor mi fa tremare;

e movonsi nell'anima sospiri che dicon:

- Guarda; se tu coste' miri,

20 vedra' la sua vertù nel ciel salita - .

CAVALCANTI

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Voi che per li occhi mi passaste 'l core

e destaste la mente che dormia,

guardate a l'angosciosa vita mia,

04 che sospirando la distrugge Amore.

E vèn tagliando di sì gran valore,

che' deboletti spiriti van via

riman figura sol en segnoria

08 e voce alquanta, che parla dolore.

Questa vertù d'amor che m'ha disfatto

da' vostr' occhi gentil' presta si mosse:

11 un dardo mi gittò dentro dal financo.

Si giunse ritto 'l colpo al primo tratto,

che l'anima tremando si riscosse

14 veggendo morto 'l cor nel lato manco.

Voi che per gli occhi mi passaste ‘l core

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In un boschetto trova' pasturella

più che la stella - bella, al mi' parere.

Cavelli avea biondetti e ricciutelli,

e gli occhi pien' d'amor, cera rosata;

05 con sua verghetta pasturav' agnelli;

[di]scalza, di rugiada era bagnata;

cantava come fosse 'namorata:

er' adornata - di tutto piacere.

D'amor la saluta' imaantenente

10 e domaandai s'avesse compagnia;

ed ella mi rispose dolzemente

che sola sola per lo bosco gia,

e disse: - Sacci, quando l'augel pia,

In un boschetto trovà pasturella

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allor disïa - 'l me' cor drudo avere -

.15 Po' che mi disse di sua condizione

e per lo bosco augelli audìo cantare

, fra me stesso diss' I': - Or è stagione

di questa pasturella gio' pigliare -

. Merzé le chiesi sol che di basciare

20 ed abracciar, - se le fosse 'n volere

. Per man mi prese, d'amorosa voglia,

e disse che donato m'avea 'l core

; menòmmi sott' una freschetta foglia,

là dov'i' vidi fior' d'ogni colore;

25 e tanto vi sentìo gioia e dolzore,

che 'l die d'amore - mi parea vedere.

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I' vegno 'l giorno a te 'nfinite volte

e trovoti pensar troppo vilmente:

molto mi dòl della gentil tua mente

04 e d'assai tue vertù che ti son tolte.

Solevanti spiacer persone molte;

tuttor fuggivi l'annoiosa gente;

di me parlavi sì coralemente

,08 che tutte le tue rime avie ricolte.

Or non ardisco, per la vil tua vita,

far mostramento che tu' dir mi piaccia,

11 né 'n guisa vegno a te, che tu mi veggi.

Se 'l presente sonetto spesso leggi,

lo spirito noioso che ti caccia

14 si partirà da l'anima invilita.

I’ vegno il giorno a te infinite volte

CAVALCANTI

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