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BIBBIA Eco dei Barnabiti 2/2017 2 I n un convegno teologico te- nuto anni fa alla Facoltà del- l’Italia settentrionale, dedi- cato al tema del “racconto di Gesù” (le relazioni vennero poi pubblicate nel volume La figura di Gesù nella predicazione della Chiesa), l’inter- vento di Giuseppe Segalla affrontava un argomento “delicato”, quello della “terza ricerca di Gesù”. Cosa voglia dire è presto detto: la “prima ricerca” (XIX secolo) pretendeva arrivare al Gesù storico al di là dell’interpreta- zione credente delle fonti, per cui si si era creata la dicotomia tra “il Gesù della storia” e “il Cristo della fede”. Tale pretesa era una illusione sogget- tiva, per cui la “seconda ricerca”, che pretendeva salvare l’interpreta- zione kerigmatica, la verità soteriolo- gica di Gesù al di qua della sua sto- ria, sosteneva essere impossibile per- venire al Gesù storico, e proponeva perciò un minimismo storico. Di qui la “terza ricerca” iniziata nel 1985 con l’opera di E.P. Sanders. Ai fini del nostro contributo ci basti evidenziare questo carattere fondamentale della “terza ricerca”: riconoscere che Gesù è un autentico ebreo. Perciò l’am- biente giudaico di Gesù viene consi- derato un criterio positivo di plausi- bilità storica. «La “terza ricerca” – per citare Segalla – procede decisa- mente a collocare Gesù nel suo vero ambiente storico originario, giudaico, ricostruito alla luce delle nuove fonti, archeologiche e storiche, che rendo- no più concreto il racconto di Gesù ponendolo in un contesto più ampio che rende plausibile la storia stessa». Ad eccezione dell’episodio noto come “il ritrovamento di Gesù nel tempio” (Lc 2,41-52), ritenuto da non pochi esegeti un’aggiunta se- condaria o un’unità indipendente, nulla viene narrato negli scritti cano- nici della vita di Gesù a Nazaret an- tecedente al suo ministero pubblico. Seguendo lo schema narrativo dei biografi ellenistici contemporanei, infatti, l’evangelista Luca racconta l’origine e la nascita del suo prota- gonista ma poi, con un “salto” tem- porale, passa dalla presentazione di Gesù al tempio (2,22-39) all’«anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare» (3,1), cioè ad un anno com- preso tra il 27 e il 29 d.C. Tutti gli an- ni precedenti restano avvolti nel mi- stero, ed affidati al duplice ritornello che apre e chiude la narrazione di Gesù dodicenne nel tempio: «il bam- bino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» (2,40) e «Gesù cresceva in sa- pienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (2,51). In entrambi i casi si nomina la sophía, collocata in pri- ma posizione; termine importante per l’opera di Luca (cf. 7,35; 11,31.49; 21,15...), e indica la partecipazione di Gesù alla sapienza di Dio (come verrà illustrata nell’episodio seguen- te); e poi la chàris, «che non è il fa- scino umano o il favore che si incon- tra presso Dio o gli uomini, ma “la grazia di Dio”, cioè i doni della sua misericordia» (D. Attinger). In Luca 2,52 troviamo una terza dimensione della crescita del giovinetto: la elikía. Il termine può significare “età”, “sta- tura” (cf. Lc 12,25; 19,3), ma anche più in generale, come nel nostro ca- so, la maturità della persona. Sullo sfondo è chiaramente riconoscibile il duplice testo di 1Sam 2,21.26: «il fanciullo Samuele cresceva presso il Signore»; «il giovane Samuele andava crescendo ed era gradito al Signore e agli uomini» (letteralmente: «il giova- ne Samuele cresceva in statura e bel- lezza davanti al Signore e davanti agli uomini»). Può essere importante se- gnalare che gli Atti degli Apostoli presentano anch’essi un ritornello si- mile, soprattutto nei primi capitoli: «intanto la parola di Dio cresceva e si moltiplicava grandemente la folla dei discepoli a Gerusalemme» (At 6,7; cf. 12,24; 19,24). «Non si tratta più della crescita di Gesù, ma di quella della chiesa che è parallela alla cre- scita della parola di Dio. Luca non in- tende mostrare che quanto accadde a Gesù bambino è esattamente quel- L’ICONA DI NAZARET (2) «La kenosi di Gesù a Nazaret...» Una rapida carrellata sugli anni trascorsi da Gesù a Nazaret, ricorrendo a quanto abitualmente avveniva a quell’epoca in un villaggio della Galilea e a quanto si può ricavare dai Vangeli. Nazaret, La Casa della Nutrizione, identificata da alcuni studiosi con la casa di Gesù

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Page 1: L’ICONA DI NAZARET (2) - Barnabiti...2020/01/04  · vento di Giuseppe Segalla affrontava un argomento “delicato”, quello della “terza ricerca di Gesù”. Cosa voglia dire

BIBBIA

Eco dei Barnabiti 2/20172

In un convegno teologico te-nuto anni fa alla Facoltà del-l’Italia settentrionale, dedi-

cato al tema del “racconto di Gesù”(le relazioni vennero poi pubblicatenel volume La figura di Gesù nellapredicazione della Chiesa), l’inter-vento di Giuseppe Segalla affrontavaun argomento “delicato”, quello della“terza ricerca di Gesù”. Cosa vogliadire è presto detto: la “prima ricerca”(XIX secolo) pretendeva arrivare alGesù storico al di là dell’interpreta-zione credente delle fonti, per cui sisi era creata la dicotomia tra “il Gesùdella storia” e “il Cristo della fede”.Tale pretesa era una illusione sogget-tiva, per cui la “seconda ricerca”,che pretendeva salvare l’interpreta-zione kerigmatica, la verità soteriolo-gica di Gesù al di qua della sua sto-ria, sosteneva essere impossibile per-venire al Gesù storico, e proponevaperciò un minimismo storico. Di quila “terza ricerca” iniziata nel 1985con l’opera di E.P. Sanders. Ai fini delnostro contributo ci basti evidenziarequesto carattere fondamentale della

“terza ricerca”: riconoscere che Gesùè un autentico ebreo. Perciò l’am-biente giudaico di Gesù viene consi-derato un criterio positivo di plausi-bilità storica. «La “terza ricerca” –per citare Segalla – procede decisa-mente a collocare Gesù nel suo veroambiente storico originario, giudaico,ricostruito alla luce delle nuove fonti,archeologiche e storiche, che rendo-no più concreto il racconto di Gesùponendolo in un contesto più ampioche rende plausibile la storia stessa».Ad eccezione dell’episodio noto

come “il ritrovamento di Gesù neltempio” (Lc 2,41-52), ritenuto danon pochi esegeti un’aggiunta se-condaria o un’unità indipendente,nulla viene narrato negli scritti cano-nici della vita di Gesù a Nazaret an-tecedente al suo ministero pubblico.Seguendo lo schema narrativo deibiografi ellenistici contemporanei,infatti, l’evangelista Luca raccontal’origine e la nascita del suo prota-gonista ma poi, con un “salto” tem-porale, passa dalla presentazione diGesù al tempio (2,22-39) all’«anno

quindicesimo dell’impero di TiberioCesare» (3,1), cioè ad un anno com-preso tra il 27 e il 29 d.C. Tutti gli an-ni precedenti restano avvolti nel mi-stero, ed affidati al duplice ritornelloche apre e chiude la narrazione diGesù dodicenne nel tempio: «il bam-bino cresceva e si fortificava, pieno disapienza, e la grazia di Dio era su dilui» (2,40) e «Gesù cresceva in sa-pienza, età e grazia davanti a Dio eagli uomini» (2,51). In entrambi i casisi nomina la sophía, collocata in pri-ma posizione; termine importante perl’opera di Luca (cf. 7,35; 11,31.49;21,15...), e indica la partecipazionedi Gesù alla sapienza di Dio (comeverrà illustrata nell’episodio seguen-te); e poi la chàris, «che non è il fa-scino umano o il favore che si incon-tra presso Dio o gli uomini, ma “lagrazia di Dio”, cioè i doni della suamisericordia» (D. Attinger). In Luca2,52 troviamo una terza dimensionedella crescita del giovinetto: la elikía.Il termine può significare “età”, “sta-tura” (cf. Lc 12,25; 19,3), ma anchepiù in generale, come nel nostro ca-so, la maturità della persona. Sullosfondo è chiaramente riconoscibile ilduplice testo di 1Sam 2,21.26: «ilfanciullo Samuele cresceva presso ilSignore»; «il giovane Samuele andavacrescendo ed era gradito al Signore eagli uomini» (letteralmente: «il giova-ne Samuele cresceva in statura e bel-lezza davanti al Signore e davanti agliuomini»). Può essere importante se-gnalare che gli Atti degli Apostolipresentano anch’essi un ritornello si-mile, soprattutto nei primi capitoli:«intanto la parola di Dio cresceva e simoltiplicava grandemente la folla deidiscepoli a Gerusalemme» (At 6,7;cf. 12,24; 19,24). «Non si tratta piùdella crescita di Gesù, ma di quelladella chiesa che è parallela alla cre-scita della parola di Dio. Luca non in-tende mostrare che quanto accaddea Gesù bambino è esattamente quel-

L’ICONA DI NAZARET (2)«La kenosi di Gesù a Nazaret...»

Una rapida carrellata sugli anni trascorsi da Gesù a Nazaret, ricorrendo a quanto abitualmenteavveniva a quell’epoca in un villaggio della Galilea e a quanto si può ricavare dai Vangeli.

Nazaret, La Casa della Nutrizione, identificata da alcuni studiosi con la casadi Gesù

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lo che avvenne di fatto nella chiestapost-pasquale? E non intende, nelcontempo, indicare la crescita dellachiesa come l’equivalente attuale del-la crescita di Cristo fra noi?» (D. Attin-ger). È importante evidenziare la du-plice ricorrenza di Gesù che «cresce-va in sapienza»: «Egli non vive inun’astratta onniscienza, ma radicatoin una storia concreta, in un luogo ein un tempo, nelle varie fasi della vitaumana, e da ciò riceve la forma con-creta del suo sapere» (Benedetto XVI,L’infanzia di Gesù). Su questi anni tra-scorsi da Gesù a Nazaret possiamoconoscere qualcosa ricorrendo aquanto abitualmente avveniva a quel-l’epoca in un villaggio della Galilea ea quanto si può ricavare dai Vangeli.«Saremmo certamente inteneriti dal

racconto di come Gesù adolescenteaffrontava gli appuntamenti della co-munità religiosa e i doveri della vita so-ciale; nel conoscere come, da giovaneoperaio, lavorava con Giuseppe; e poiil suo modo di partecipare all’ascoltodelle Scritture, alla preghiera dei salmie in tante altre consuetudini della vitaquotidiana. I Vangeli, nella loro sobrie-tà, non riferiscono nulla circa l’adole-scenza di Gesù e lasciano questocompito alla nostra affettuosa medita-zione» (papa Francesco, Udienza ge-nerale, 17 dicembre 2014). Cosa checerchiamo qui di fare.

il (figlio del) falegname

Il villaggio di Nazaret si estendevalungo il crinale di una collina allaquale erano addossate semplici abi-tazioni, costruite attorno alle grotteche servivano per i lavori domestici eper l’alloggio degli animali. Era cer-tamente sede di una sinagoga, in cuiGesù, in un giorno di sabato entrò e,aperto il rotolo del profeta Isaia, les-se e commentò la profezia che lo ri-guardava (Lc 4,16-27). Non distavamolto da Sefforis, capitale ammini-strativa e commerciale della Galilea,ma non era certo un centro di primaimportanza. Gli abitanti di Nazaretvivevano principalmente di agricol-tura e di artigianato, secondo un te-nore di vita molto semplice ed essen-ziale. I nuclei familiari si procurava-no almeno parte del cibo necessarioattraverso il lavoro dei campi e diquesto ambiente “contadino” Gesùsicuramente conobbe e interiorizzòritmi ed abitudini, come dimostra il

fatto che numerose immagini e meta-fore, nelle sue parabole, siano trattedal mondo agricolo più che da quel-lo artigianale. «Il Signore racconta disentimenti e pratiche contadine inmaniera così puntuale ed esperta chedifficilmente sono solo frutto del“sentito dire”. Egli parla della semi-na, mostrando precisa conoscenzadella morfologia del terreno con cuiavevano a che fare gli agricoltori gali-lei della sua epoca (Mc 4,1-9)» (G.C.Pagazzi). Da questo ambiente, dun-que, vengono le parole di Gesù, lesue immagini, la sua capacità diguardare i campi, il contadino chesemina, la messe che biondeggia, ladonna che impasta la farina, il pasto-re che ha perso la pecora, il padrecon i suoi due figli, l’uomo che co-struisce la casa ...Che la famiglia di Gesù non godes-

se di particolare agiatezza lo si ricavadall’offerta che Maria e Giuseppeportano al Tempio: «Quando furonocompiuti i giorni della loro purifica-zione rituale, secondo la legge di Mo-sè, portarono il bambino a Gerusa-lemme per presentarlo al Signore ... eper offrire in sacrificio una coppia ditortore o due giovani colombi, comeprescrive la legge del Signore» (Lc2,22-24). Il libro del Levitico, infatti,prescriveva che la madre offrisse unagnello e una tortora, ma specificava

che «se non ha mezzi per offrire unagnello, prenderà due tortore o duecolombi» (Lv 12,6.8). Ciò nonostanteil lavoro di artigiano svolto da Giu-seppe permetteva alla famiglia di vi-vere in una condizione modesta, manon povera. Nel mondo ebraico l’atti-vità artigianale era onorata, tanto cheanche i grandi rabbini d’Israele eser-citavano un mestiere manuale: Hillelera taglialegna, Rabbi Yehuda fornaio,Rabbi Yohanan calzolaio ... e anchePaolo di Tarso, contemporaneo di Ge-sù, era fabbricante di tende (At 18,3).Il Talmud, inoltre, specifica: «Così co-me si è obbligati di nutrire il propriofiglio, parimenti bisogna insegnargliuna professione manuale». E più an-cora: «Ogni uomo è obbligato a inse-gnare a suo figlio un mestiere, chiun-que non insegna a suo figlio un me-stiere, gli insegna a diventar ladro»(Tosephta Qiddushîm 1,11).È dunque sicuro che Giuseppe ab-

bia insegnato al figlio il mestiere chelui stesso esercitava: il téktôn. Que-sto termine poteva essere applicato aogni lavoratore che esercitava il suomestiere con un materiale duro, mapiù specificamente al falegname (sicontrappone infatti al fabbro – chal-kéus – e al muratore – lithólogos);questi si occupava della costruzionenon solo di mobili e utensili in le-gno, ma anche di porte, finestre, tetti,

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Gerrit van Honthorst, Infanzia di Gesu (1626) - San Pietroburgo, Museodell’Ermitage

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aratri e gioghi per i buoi: «il mestieredi falegname richiedeva una notevoleabilità tecnica, anche per il gran nu-mero di strumenti e di tecniche chebisognava adoperare» (G. De Rosa).Solo in due occasioni, nei Sinotti-

ci, ricorre questo termine, quandoGesù torna a Nazaret, nel corso delsuo ministero, e insegna nella sina-goga che – come vedremo – lo avevavisto alunno e discepolo. La reazionedei sui concittadini è di stupore e dimeraviglia: «Non è costui il falegname,il figlio di Maria ...?» (ouch outòs estino téktôn: Mc 6,3). Secondo l’evange-lista Marco, dunque, Gesù stesso ènoto nella sua città come “il falegna-me”. Il passo parallelo di Matteo, in-vece, attribuisce questa qualifica aGiuseppe: «Non è costui il figlio delfalegname? E sua madre, non si chia-ma Maria?» (Mt 13,55). È possibileche Matteo ritenesse offensiva la de-risione sottesa nella domanda deiNazaretani, e per questo abbia modi-ficato la domanda trasferendo l’attri-buzione di “falegname” a Giuseppe(da notare come Luca elimini del tut-to la menzione del mestiere, limitan-dosi a scrivere: «Non è costui il figliodi Giuseppe?»; Lc 4,22).Il Concilio Vaticano II ha espresso

molto felicemente questo “misterodell’abbassamento”; al n. 22 dellaGaudium et Spes (7.12.1965) leggia-mo: «In realtà solamente nel misterodel Verbo incarnato trova vera luce ilmistero dell’uomo. [...] Con l’Incarna-zione il Figlio di Dio si è unitoin certo modo a ogni uomo(incarnatione sua cum omnihomine quodammodo Se uni-vit). Ha lavorato con mani d’uo-mo, ha pensato con mented’uomo, ha agito con volontàd’uomo, ha amato con cuoredi uomo».«Oh! dimora di Nazaret, casa

del Figlio del falegname! Quisoprattutto desideriamo com-prendere e celebrare la legge,severa certo ma redentrice del-la fatica umana; qui nobilitarela dignità del lavoro in modoche sia sentita da tutti; ricor-dare sotto questo tetto che illavoro non può essere fine ase stesso, ma che riceve la sualibertà ed eccellenza, non so-lamente da quello che si chia-ma valore economico, ma an-che da ciò che lo volge al suo

nobile fine; qui infine vogliamo salu-tare gli operai di tutto il mondo e mo-strar loro il grande modello, il loro di-vino fratello, il profeta di tutte le giustecause che li riguardano, cioè Cristonostro Signore» (Paolo VI, Discorso aNazaret, 5 gennaio 1964).

«da dove tutta questa sapienza?»

Come ogni altro fanciullo ebreo,Gesù ha appreso in famiglia non soloun lavoro, ma i primi rudimenti dellaformazione, a cominciare dalla lin-gua, e – soprattutto – le usanze e letradizioni civili e religiose.Dopo l’esilio babilonese e il ritorno

in Palestina, era decaduto l’uso del-l’ebraico, soppiantato come linguaparlata dall’aramaico. Infatti, quandonella sinagoga si leggeva la Bibbia, sirendeva necessaria la spiegazionemediante i targumîm, ossia la tradu-zione e la parafrasi in aramaico deltesto ebraico proclamato, ormai in-comprensibile per la gente comune.Quanto a Gesù, l’abitudine di fre-quentare le sinagoghe in giorno disabato e di discutere con gli scribi efarisei su punti della Scrittura, rendepiù che verosimile l’ipotesi che eglifosse in grado di leggere e commen-tare l’ebraico biblico. La prova piùevidente (anche se ci sono degli “scet-tici” che ritengono questo episodiouna composizione di Luca) è quandoGesù entra nella sinagoga di Nazarete lì “proclama il suo programma

messianico” alla luce del testo di Isaia(Lc 4,16-19). Che Gesù parlasse e in-segnasse in aramaico lo mostra il fat-to che le pochissime parole di Gesù(ipsissima verba Jesu) che ci sonopervenute sono aramaiche (si vedanoMc 5,41; 7,34; 14,16; 15,34).Un’ultima considerazione. Alcuni

esegeti sono convinti che Gesù, lavo-rando come falegname nella bottegapaterna (o anche fuori di Nazaret...),possa «aver avuto la possibilità di im-parare quel tanto di greco che eranecessario per gli usuali rapporti conpersone di lingua greca»; di contro,altri ritengono «altamente inverosimileche Gesù abbia mai raggiunto una pa-dronanza del greco e una scioltezzanel parlarlo, sufficiente per insegnarein questa lingua con la sua sorpren-dente maestria verbale» (P. Meier).Ma una simile conclusione contrastacon l’episodio in cui Gesù incontrala donna siro-fenicia (Mc 7,25-29),una donna che, come specifica Mar-co, «era di lingua greca e di originesiro-fenicia». In che lingua, dunque,avranno dialogato? Perché è certoche abbiano dialogato ... e quanto inprofondità! «È la Siro-fenicia a parla-re l’aramaico di Gesù, oppure è Gesùa parlare il greco, ovvero entrambiparlano nella propria lingua che vie-ne capita, anche se non parlata, dal -l’altro? ... La domanda è tutt’altroche peregrina, considerato non solola sensibilità linguistica di Marco (at-tento a restituirci in determinate oc-

casioni l’originario tenore ara-maico delle parole di Gesù),ma soprattutto in rapporto alnostro contesto specifico. LaSiro-fenicia è l’unico perso-naggio che venga esplicita-mente segnalato come appar-tenente ad un ceppo linguisti-co diverso da quello di Gesù»(R. Vignolo).Quanto poi alla formazione

religiosa, il padre era il primo“catechista” dei figli ed inse-gnava loro la preghiera e l’os-servanza dei comandamentidi Dio, come prescrive il Deu-teronomio: «Questi precetti cheoggi ti do, ti stiano fissi nel cuo-re. Li ripeterai ai tuoi figli...»(Dt 6,6-7). Oppure: «quandoin avvenire tuo figlio di do-manderà: ”Che cosa significanoqueste istruzioni...tu risponde-rai: Eravamo schiavi del farao-

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L’infanzia di Gesu - Libro d'ore di Caterina diCleves (ca. 1440)

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ne in Egitto e il Signore ci fece usciredall’Egitto...» (Dt 6,20-21).Quando Gesù si reca a Gerusalem-

me per la Festa delle Capanne (Suk-kôt), la ricorrenza in cui si ricordavail tempo trascorso dal popolo diIsraele nel deserto vivendo sotto letende, «salì al tempio e si mise a in-segnare. I Giudei ne erano meravi-gliati e dicevano: “Come mai costuiconosce le Scritture, senza averestudiato?”» (Gv 7,14-15). La profon-da conoscenza della Scrittura, chepermea il linguaggio di Gesù e chegli permette di insegnare come unrabbi, suscita la meraviglia e lo stu-pore dei farisei, perché Gesù non hastudiato. L’istruzione scolastica, in-fatti, che veniva impartita nella sina-goga da un incaricato che fungevada maestro e che si concludeva conil dodicesimo anno di età, compren-deva la lettura e la memorizzazionedi brani della Torà secondo i detta-mi della Mishna: «A cinque annid’età, si è pronti per lo studio dellaTorà scritta, a dieci anni per lo stu-dio della Torà orale, a tredici anniper il bar mitzvah (la cerimonia perl’entrata nell’età in cui si è religiosa-mente responsabili)» (Pirqe Avot,5,21). Solo pochi proseguivano poicon gli studi superiori, che com-prendevano l’interpretazione e l’ap-plicazione della Legge alla vita con-creta. Probabilmente, Gesù ha se-guito il primo ciclo di studi, ma nonrisulta – come dimostra lo stuporedei Giudei – che abbia frequentatoquello superiore. Secondo R. Fabris,«la familiarità con i testi biblici gli(a Gesù) proveniva dalla vita religio-sa di famiglia e dalla frequentazionealla liturgia sinagogale».L’appellativo rabbi significa letteral-

mente “mio grande”, quindi “signore”,e denota un peculiare titolo d’onoreche al tempo di Gesù designava so-prattutto (ma non esclusivamente) idottori della Legge. Solo dopo il 70d.C. il termine venne utilizzato qualetitolo specifico per il saggio, che ave-va ricevuto l’ordinazione a maestro egiudice della Toràh, come si leggenella Mishnah e nel Talmud. Per dive-nire rabbi, si richiedeva un corso re-golare di studi sotto la guida («ai pie-di») di un rabbi famoso (cf. per PaoloAt 22,3) e, soltanto in età matura, siriceveva l’“ordinazione” al rabbinato.Ciò nonostante, a Gesù viene spessoattribuito il titolo di rabbi, in virtù pro-

prio della sua conoscenza della SacraScrittura, che egli spiega con autore-volezza (Mt 5,17-19; Mc 1,22) o in-terpreta in modo originale svelandoneil senso profondo (Mt 22,34-40) o sul-la quale, ancora, discute animata-mente con gli scribi (Mt 22,41-46).Quando arriva a Cafarnao «subito Ge-sù, entrato di sabato nella sinagoga,insegnava» (Mc 1,21-22); così facen-do, egli compie un’azione che erapossibile a tutti gli ebrei uomini cheavessero compiuto il tredicesimo an-no: potevano essere invitati a leggerele Scritture ed eventualmente a spie-garle. Ma il suo è un insegnamentoche la gente percepisce «nuovo e fat-to con autorità (didachè kainè kat’ec-sousìan)» (Mc 1,27). L’acquisizione– per nulla scontata – da parte di Gesùdella conoscenza della Legge, l’inte-riorizzazione della Parola di Dio e,conseguentemente, l’autorità del suoinsegnamento sono senz’altro fruttodella educazione e formazione rice-vuta, dell’ambiente da lui respirato sindall’infanzia, in un dialogo costantecon il Padre: tutto ciò che Gesù dice efa, lo ha visto e udito dal Padre (cf. Gv5,19.30; 7,14-18; 8,26). La sua cono-scenza viene dalla frequentazionequotidiana delle cose del Padre; lasua sapienza è frutto della sua acutaosservazione della realtà; Gesù ha im-parato a cogliere e a discernere i semidella presenza di Dio nelle contraddi-

zioni della vita. E certamente lo haimparato nel silenzio di Nazaret.«Nazaret ci ricordi cos’è la famiglia,

cos’è la comunione di amore, la suabellezza austera e semplice, il suo ca-rattere sacro ed inviolabile; ci facciavedere com’è dolce ed insostituibilel’educazione in famiglia, ci insegni lasua funzione naturale nell’ordine so-ciale» (Paolo VI, Discorso a Nazaret,5 gennaio 1964).

la scuola del silenzio

Nei cosiddetti “vangeli dell’infan-zia” si sottolinea insistentemente l’os-servanza della Legge e delle tradizio-ni ebraiche da parte dei genitori diGesù. «Quando furono compiuti gliotto giorni prescritti per la circonci-sione», Maria e Giuseppe gli impon-gono il nome Yeshua’ (forma abbre-viata di Yehoshua’) come aveva dettol’angelo (Lc 2,21); dopo quarantagiorni, lo presentano al tempio «se-condo la legge di Mosè ... come èscritto nella legge del Signore» por-tando l’offerta «come prescrive lalegge del Signore» (Lc 2,22-24); equindi, «quando ebbero adempiutoogni cosa secondo la legge del Signo-re» (v. 39), tornano a Nazaret. Comeogni famiglia ebrea osservante, ognianno compiono un pellegrinaggio aGerusalemme (almeno per la festa diPasqua, v. 41). È questo il contestoreligioso e spirituale in cui vive Ge-sù, un contesto certamente ritmatodalla preghiera quotidiana, e dallapreghiera comunitaria nella sinago-ga, che si apre tre volte alla settima-na per la Qeri’at Toràh (“lettura dellaTorah”). Questo uso è antichissimo edalla tradizione talmudica viene fattorisalire allo stesso Mosè. Ma, ovvia-mente, la liturgia solenne, alla qualepartecipa tutta la comunità, ha luogoal sabato.Senza entrare nei dettagli (non è

possibile farlo qui), dal brano di Luca 4veniamo a conoscere che la litur-gia inizia con la recita dello Shema’,la preghiera fondamentale che ogniebreo recita tre volte al giorno. Seguequindi la lettura della Toràh, da partedei lettori che potevano raggiungereil numero sette, a seconda della so-lennità del giorno. La Toràh vieneletta per brani (denominati parashôt)e precisamente in 54 sezioni così dapoterla leggere integralmente lungo

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Bar mitzvah

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l’arco di un anno. Quin-di, a seguire, la lettura diuna pericope profeticacorrispondente al branoletto – chiamata haftarah(«probabilmente perché“conclude” la lettura del-la Toràh, proiettandola ver-so l’avvenire, verso l’attesadi un avvenimento cheancora deve compiersi»:R. Torti Mazzi). Il lettorepoteva commentare i ver-setti che aveva letto; intal caso si rimetteva a se-dere e procedeva all’ese-gesi, o al racconto di unMidrash. Proprio questoè quanto compie Gesùnella sinagoga di Naza-ret all’inizio del suo mi-nistero pubblico, con lanovità ermenutica della“spiegazione” di Isaia(Lc 4,16-30), anche senon è sicuro il testo del-la parashàh proclamata.La frequentazione e lafamiliarità di Gesù conla preghiera si manifestanon solo quando, nelledispute con i farisei e idottori della legge mo-stra di conoscere moltobene sia la Toràh, che i

Salmi e i libri profetici, ma anche nelsuo ripetuto insegnamento ai disce-poli sulla necessità di pregare, nellesue stesse preghiere piene di profon-do e fiducioso abbandono. «Non ra-ramente egli esprime i suoi sentimen-ti di fronte a Dio usando le parolestesse della Scrittura, ciò che rimandaa una lunga familiarità con essa, chesembra risalire alla preghiera appresaalla scuola di Giuseppe e a quella si-nagogale» (C. Porro).Tutta la vita di Gesù è permeata

dalla preghiera: spesso egli si ritira,soprattutto durante la notte o al mat-tino presto, per pregare: «in luoghideserti», «in disparte», «da solo»,«sul monte», in particolare «secon-do il suo solito, sul monte degliUlivi» (Lc 22,39). E la sua è preghie-ra di ringraziamento, di abbandono,di fiducia, di richiesta, di lode: pre-ga prima di ricevere il battesimo (cf.Lc 3,21-22); prima di scegliere i Do-dici (cf. Lc 6,12-13); al momentodella trasfigurazione (cf. Lc 9,28-29); per Pietro, perché la sua fedenon venga meno (cf. Lc 22,32); alGetsemani (cf. Lc 22,39-46); e, infi-ne, sulla croce, invocando dal Padreil perdono per i suoi carnefici (cf. Lc23,34) e consegnando con fiducia ilproprio respiro nelle sue mani (cf.Lc 23,46; cf. Sal 31,6). Come nonvedere in questo silenzioso e fidu-cioso abbandono alla volontà delPadre la scuola di sua madre, che,nel corso della sua vita, ha conser-vato in silenzio nel suo cuore, medi-tandolo e contemplandolo, il miste-ro del Figlio?«La casa di Nazaret ci insegna il

silenzio. Oh! se rinascesse in noi lastima del silenzio, atmosfera ammi-rabile ed indispensabile dello spirito:mentre siamo storditi da tanti fra-stuoni, rumori e voci clamorose nel-la esagitata e tumultuosa vita del no-stro tempo. Oh! silenzio di Nazaret,insegnaci ad essere fermi nei buonipensieri, intenti alla vita interiore,pronti a ben sentire le segrete ispi-razioni di Dio e le esortazioni deiveri maestri. Insegnaci quanto im-portanti e necessari siano il lavoro dipreparazione, lo studio, la medita-zione, l’interiorità della vita, la pre-ghiera, che Dio solo vede nel se-greto» (Paolo VI, Discorso a Nazaret,5 gennaio 1964).

Giuseppe Dell’Orto

BIBBIA

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Paolo VI in preghiera nel Cenacolo - gennaio 1964

Shema’ - Manoscritto ebraico del Mahzor (librodi preghiere, ca. 1490), f. 240

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BIBBIA

Eco dei Barnabiti 2/2017

Vocabolario ecclesiale

ESOTERISMO - 6 – Quello cristiano è vero esoterismo.Riprendendo quanto si è venuti dicendo in una visioned’insieme, concluderemo affermando che se si dà, e si dà,esoterismo cristiano, questo non può non emergere dallostesso fatto cristiano colto nella sua globalità inclusiva distoria e di mistero, di presente temporale e di futuro esca-tologico, di realtà profonda e di involucro simbolico. Veroesoterismo è dunque quello cristiano, il quale da un lato cipone a contatto con le «profondità della ricchezza, dellasapienza e della scienza di Dio» (Rm 11,33): c’è forse unmistero più grande di quello rivelato da Dio stesso? O unaParola che stia oltre il Verbo in persona, apparso sulla sce-na umana? E dall’altro, attraverso il riferimento normativoalle divine Scritture e quindi a un’economia salvifica chedal visibile conduce all’invisibile e dall’immanente al tra-scendente, ci garantisce dall’affondare in quel “pantanointellettuale”, che gli esoteristi lamentano, come esito fata-le di una ricerca religiosa priva dell’ancoraggio oggettivoalla rivelazione e in balia dei fiochi lumi, anche se non pri-vi di genialità, della mente umana essa pure bisognosa diessere affrancata dai suoi smarrimenti e dalla sua caligine.Per non dire che l’esoterismo cristiano non si esaurisce

in pura esperienza interiore del mistero, ma porta di suanatura a tradurla in integrità di vita e in esercizio di carità.«Il vero gnostico – scrive Clemente Alessandrino – liberala sua anima dalle passioni» e «per mezzo della carità volgei suoi passi verso il futuro».L’approccio esoterico, nel senso ormai sufficientemente

chiarito e del tutto tradizionale nel cristianesimo, al miste-ro, apre quest’ultimo all’esperienza mistica. La misticaquindi viene ricondotta alla sua matrice e riportata nelsuo alveo, liberandola da1 rischio di elaborare uno statu-to autonomo e soggettivo, rischio che incontriamo nellapratica religiosa sia dell’Occidente che dell’Oriente.Se non vogliamo una mistica senza religione o peggio

contro la religione, dobbiamo aprire la religione alla di-mensione mistica: «Rispetto alla religione […] la misticadovrebbe essere considerata come la sua quintessenza ocome la sua suprema realizzazione. E ben ciò che ci mostrala storia dei santi cristiani». I tempi in cui viviamo sono ma-turi per quest’impegno, se i vescovi rappresentativi di tuttele nazioni, nella Relazione finale del Sinodo tenuto a Romaper il 20° del concilio Vaticano II, hanno formulato questoprogramma: «Le catechesi – e cioè, precisiamo noi, ogniistruzione sulla Scrittura, sul dogma, sul culto e sul precettomorale –, come già accadeva all’inizio della Chiesa, devonotornare a essere un cammino che introduca alla vita litur-gica (catechesi mistagogica)», dove per liturgia si intendela fonte e il culmine dell’intera esperienza cristiana.Inviti in tal senso ci giungono dagli stessi esoteristi, ai

quali tra poco rivolgeremo la nostra attenzione. «Posto alato del grandioso ideale del cristianesimo esoterico (sic),l’insegnamento exoterico delle Chiese sembra invero ri-stretto e meschino», leggiamo in un testo che intendereb-be far luce sulle «verità profonde che sono alla base delcristianesimo». «Vorranno le Chiese d’oggi – concludel’autrice Annie Besant – riprendere l’insegnamento misti-

co, i Misteri minori, e così preparare i figli loro per la re-staurazione dei Misteri maggiori, attirando di nuovo gliangeli quali maestri e avendo per Ierofante (= rivelatore) ildivino Maestro Gesù? Dalla risposta a questa domandadipende l’avvenire del cristianesimo».

ricupero attraverso la mistica

Esiliata dalla pratica “ufficiale”, la dimensione esotericavenne ricuperata in ambito mistico, là dove la familiarità conquanto è profondo e nascosto risulta particolarmente viva econgeniale. Secondo R. Guénon, il misticismo nella Chiesalatina nasce quando cessarono o non furono più accessibilile esperienze di iniziazione. All’opposto, le Chiese orientalinon avrebbero conosciuto una mistica come esperienza a séstante, disancorata anche se non sempre in modo dichiaratodalla matrice biblico-liturgica, perché hanno conservato lapratica iniziatica dell’esicasmo, ossia della preghiera delcuore nella quiete (in greco: esichía) contemplativa.Ora, se esiste una mistica dell’enstasi, e cioè della vi-

sione mentale dell’unità del tutto a cui si dischiudono leprofondità umane, esiste anche una mistica dell’estasi,che apre mente e cuore alla rivelazione di Dio e alla co-munione amorosa con lui. In questo la mistica va al cuo-re del mistero ed è veramente esoterica, poiché è l’incon-tro di due profondità, quella umana e quella divina. Gliautori spirituali citano in proposito il salmo che parla del-l’abisso che richiama l’abisso (Sal 42, 8).D’altra parte i mistici cristiani (e non solo loro) non di-

sdegnano il pedaggio exoterico, ché anzi lo restituisconoalla sua indispensabile funzione propedeutica e lo consi-derano il provvidenziale involucro del mistero. Il qualenon sta oltre lo strumento che lo media, ma per così direal suo interno: che è poi la lezione degli antichi mistago-ghi! Per convincercene, basterebbe pensare al duplicecorpo di Cristo: la Parola e il Pane eucaristico, che si of-frono a noi come scrigno del Verbo e quindi come il Ver-bo stesso nella sua sacramentalità indispensabile nellapresente economia umana.Mentre nella spiritualità dei primi secoli cristiani via

maestra al mistero era la liturgia (gravitante sui sacramen-ti) e la lectio divina delle Scritture (con il momento culmi-nante della contemplazione), in seguito alla loro crisi lamistica occidentale è venuta privilegiando la meditazio-ne come esercizio autonomo.Non diversamente però dalla pratica cristiana global-

mente intesa, anche la meditazione può risolversi inun’esperienza exoterica o esoterica, a seconda che si fer-mi alla dimensione discorsiva (sia pure interiore) o appro-di a quella introspettiva e contemplativa. Aspetti questiultimi, lo dobbiamo sottolineare con vigore, che costitui-scono le due facce della stessa medaglia, se vale l’adagiodi sapore agostiniano, formulato da Riccardo di San Vitto-re (c. 1123-1173): «Se ti prepari a scrutare le profonditàdi Dio, volgiti prima alle profondità del tuo Spirito».

Antonio Gentili

Eco dei Barnabiti 2/2017

VOCABOLARIO ECCLESIALE

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