la terrazza proibita - fatima mernissi

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Fatima Mernissi

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La terrazza proibita

Vita nell'haremDreams of Trespass: Tales of a Harem Girlhood, 1994

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«Venni al mondo nel 1940 in un harem di Fez, città marocchina...».Così Fatima Mernissi, una delle voci più eloquenti del mondo musulmano,

apre quest'intensa memoria d'infanzia.L'harem dove la piccola Fatima cresce, confinata con le altre donne della

famiglia fra i cortili fioriti, fontane e stanze ovattate da tendaggi e tappeti, e moltodiverso dai favolosi serragli dei sultani. É piuttosto un'ampia, splendida casa doveconvivono le famiglie di due fratelli, molte donne con loro imparentate e idomestici. Tuttavia, resta un luogo in cui le donne sono sottomesse a preciseregole imposte dagli uomini - prima fra tutte quella di non varcare i "sacriconfini" delle mura domestiche -, e dove sono relegate in ambiti spaziali, culturalie sociali molto angusti.

La terrazza più alta della casa, dove lo sguardo può spaziare oltre i confini,diventa così un luogo proibito da raggiungere in segreto e a rischio di severepunizioni, un luogo dove le donne fantasticano le loro evasioni, si lancianomessaggi con gli abitanti delle case vicine, praticano rituali magici, parlano diargomenti a loro interdetti nei tradizionali spazi domestici.

Il contrasto fra tradizione e modernizzazione che sovverte la societàmarocchina in quegli anni è ben presente nella narrazione di Fatima dove la vitaprivata e quella pubblica s'intrecciano costantemente e felicemente: ne è nato unlibro seducente e provocatorio, delicato e drammatico il tempo stesso, che fagiustizia degli stereotipi negativi così come delle visioni idealizzanti dell'harem, e

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ci coinvolge in una dimensione affascinante, in cui il desiderio di una pienalibertà femminile si mescola all'orgogliosa difesa della propria cultura di origine.

Nata nel 1940 a Fez (Marocco), Fatima Mernissi è considerata in tutto il

mondo una fra le più autorevoli e originali intellettuali femministe dei paesiarabi, grazie all'innovativo lavoro di sociologa e studiosa dell'Islam. Nota anche inItalia per i libri Chahrazad non è marocchina, Le donne del Profeta e Le sultanedimenticate, si è sempre distinta per le coraggiose prese di posizione a favoredella libertà femminile, che giudica perfettamente compatibile con i precetti delCorano. Ha completato la sua formazione accademica studiando alla Sorbona ealla Brandeis University negli USA, e oggi insegna all'Università Mohammed V diRabat, in Marocco.

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Indice

Introduzione di Claudia Tresso LA TERRAZZA PROIBITA 1. I confini del mio harem2. Shahrazàd, il re e le parole3.L'harem dei francesi4. Jasmìna e la prima consorte5. Shàma e il califfo6.Il cavallo di Tàmù7. L'harem dentro8. Lavapiatti acquatiche9. Risate al chiaro di luna10. Il salone degli uomini11. La seconda guerra mondiale vista dal cortile12. Asmahàn, la principessa cantante13. L'harem al cinema14. Femministe egiziane in terrazza

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15. Il destino di Budùr16. La terrazza proibita17. Mìna, la senza radici18. Sigarette americane19. Baffi e seni20. Il sogno silenzioso delle ali e del volo21. La politica della pelle: uova, datteri e altri segreti di bellezza22. Henné, argilla e gli sguardi degli uomini

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INTRODUZIONE

Claudia Tresso «Venni al mondo nel 1940 in un harem di Fez». Così inizia il primo lavoro

narrativo - autobiografico - della Mernissi, e questo esordio racchiude in sé ilcontenuto stesso dell'opera, o almeno quanto può essere detto per "introdurla",per dare a chi legge alcuni spunti di riflessione sull'ambiente che fa da teatroall'opera stessa.

Sì, questa frase dice tutto. In La terrazza proibita, la Mernissi narra gli annidella sua infanzia, la vita di una bambina che vive nell'harem di una famiglia alto-borghese di città, nel Marocco degli anni '40. Non, quindi, in quel tipo di haremche a molti verrebbe spontaneo immaginare, ovvero l'harem dei sultanidell'impero ottomano quale è stato rappresentato sui quadri di artisti come Ingrese Delacroix; l'harem in cui un uomo la fa da padrone su una folla di mogli, schiavee concubine rinchiuse in un favoloso serraglio custodito da eunuchi. Per lasituazione di cui parla l'autrice, dobbiamo piuttosto immaginarci un harem di tipo"domestico", una sorta di famiglia allargata che vive sotto lo stesso tetto: nel caso

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dei Mernissi, la convivenza riguarda i nuclei familiari di due fratelli (monogami)che hanno in tutto sette figli, e oltre a questi una serie di donne vedove odivorziate della famiglia, la nonna, alcuni domestici. Una cinquantina di personein tutto, che abitano una splendida casa adorna di marmi variopinti, le cui stanzesi affacciano su un cortile interno con una bella fontana e maestose colonne, inun'atmosfera un po' ovattata da ampi tendaggi e da molti tappeti. Insomma, latipica casa della classe dirigente marocchina nella prima metà di questo secolo.Una grande famiglia che vive insieme secondo le regole sociali del suo paese e delsuo tempo: nel caso delle classi alte delle città marocchine di allora, ciò significache la vita degli uomini è profondamente diversa da quella delle donne. Prima ditutto perché le regole stabiliscono che, per loro propria voglia o per necessità, gliuomini possono uscire dalla casa in cui vivono. Le donne, invece, no: le donnedevono restare entro i hudùd (1), i "confini", delle mura domestiche, che possonovarcare solo quando gli uomini, i due capo-famiglia, danno loro il permesso - laqual cosa avviene talmente di rado che ogni volta le donne ne sono tutte un po'eccitate, vi si preparano come per un evento, ne parlano e ne riparlano, fra loro,prima e dopo. E questo fatto, ovviamente, condiziona la vita di entrambi i gruppi edella società nel suo complesso.

Ma allora perché, se queste sono le regole sociali, non tutte le donne di casaMernissi le accettano, e alcune lamentano con fermezza la propria condizione direcluse? Perché Làlla Mànì, la nonna, sostiene l'utilità sociale dell'harem mentreDùja, la madre, considera questa istituzione una sorta di imprigionamento che, si

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augura, le sue figlie non saranno costrette ad accettare? Perché Shàma, la cuginadiciottenne, usa tutta la sua fantasia e la sua arte per mettere in scena, nelledrammatizzazioni allestite per le abitanti della casa, la vita di donne che, arabe emusulmane come loro, hanno saputo ritagliarsi ali di libertà e volare oltre i sacrihudùd che le opprimevano? Per rispondere a queste domande occorre cercare didelineare la situazione esterna in cui si colloca la storia narrata nel libro, ovverodi capire come vivevano e come pensavano le donne e gli uomini che, nei primidecenni di questo secolo, abitavano nel mondo arabo. E siccome il mondo arabonon è così compatto e unitario come spesso si tende a credere, limiteremo lenostre considerazioni a quella parte del mondo arabo in cui si trova Fez, ovvero ilMaghreb: il Maghreb delle città.

Nel 1940, a Fez come un po' in tutto il mondo musulmano, i hudùd, gliinviolabili "confini" che secondo l'Islàm Dio aveva posto fra gli uomini e le donnee fra i musulmani e i credenti delle altre religioni, sembravano venire meno. Inpassato, la grande dàr al-Islàm, la "casa dell'Islàm", aveva assegnato un posto benpreciso ai diversi gruppi che vi convivevano: ognuno aveva un proprio status euna propria funzione dentro o accanto alla umma, la "comunità" musulmana, checostituiva la base del sistema politico e sociale.

Così, le donne gestivano gli spazi domestici e si facevano garanti dellatradizione e della continuità dei costumi familiari, mentre gli uomini occupavanogli spazi della vita pubblica, lavoravano "fuori", e il venerdì si riunivano nellemoschee per pregare e per discutere. E così era per i gruppi di diverse religioni: le

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comunità di cristiani e di ebrei, gli ahl al-Kitàb, "la gente del Libro", secondo ladefinizione del Corano, vivevano accanto ai musulmani, avevano le proprieusanze, i propri riti religiosi, i propri tribunali, e si occupavano prevalentementedi commercio e di prestiti finanziari; non godevano degli stessi diritti deimusulmani, erano considerati cittadini "di seconda serie", ma a volte riuscivanoanche a occupare cariche importanti nella società. Certo, ben raramente i gruppidi religione diversa si mischiavano fra loro: le regole coraniche, è fatto noto,vietano a una musulmana di sposare un non-musulmano, e se agli uomini èpermesso il matrimonio con una donna della "gente del Libro", non erano certo inmolti ad approfittare di questa possibilità - anche perché le diverse comunitàvivevano in quartieri distinti e mantenevano ognuna il proprio stile di vita, dimodo che le occasioni di incontro erano decisamente scarse. Insomma, le societàislamiche erano costituite da un insieme di comunità riconosciute, ognuna con isuoi diritti e i suoi doveri, ognuna all'interno dei suoi invalicabili confini. E,all'interno della comunità, il nucleo-base rimaneva la famiglia patriarcale: laquale, grazie al corretto comportamento delle donne, tramandava nel tempo laspecificità del gruppo e permetteva la stabilità dell'intero sistema.

Spezzare questo schema, abbattere i hudùd, significava comprometterel'ordine costituito. Un ordine che, per le donne, negli ambienti urbani mantenevacaratteristiche assai più rigide che non in campagna: storicamente, infatti, èproprio il fenomeno della sedentarizzazione (e della conseguente urbanizzazione)che, data la vicinanza in cui vennero a trovarsi i diversi gruppi e tribù, favorì la

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separazione degli spazi pubblici da quelli privati. Da qui, soprattutto presso leclassi alte, ebbe origine l'uso di recludere le donne nelle case, dove spessi muriproteggevano i loro corpi da sguardi estranei che avrebbero potutocompromettere l'onore degli uomini e delle loro famiglie. Quando potevanouscire, le donne conoscevano un altro tipo di "barriera": un hijàb, - ovvero un velo- in grado di proteggere non solo esse stesse, ma anche gli uomini, che in unmondo tanto rigidamente separato avrebbero potuto venire sconvolti dal semplicefatto di vederle. Dalle donne bisognava difendersi, perché esse possedevano lafitna, un termine arabo difficilmente traducibile, i cui significati vanno dall'artetipicamente femminile della seduzione alla guerra civile: come dire che se unadonna supera le frontiere che le sono state imposte, può arrivare a sconvolgerel'equilibrio dell'intera società.

Il colonialismo e le società del Maghreb. Ma il diciannovesimo secolo aveva visto cambiamenti così profondi, che un po'

tutto il sistema era sembrato vacillare di fronte alle nuove situazioni che eranovenute creandosi tanto in campo politico quanto in campo sociale. Modernità,rinnovamento, tradizione: il dibattito rimaneva aperto, e negli anni '40 nonriguardava certo, come era stato nel secolo precedente, soltanto un piccolo gruppodi intellettuali uomini. L'Europa non era più un insieme di potenze chepremevano "alle porte" del mondo arabo. L'Europa, con le sue truppe, i suoi

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commercianti, i suoi banchieri, i suoi coloni, occupava ora le città in cui vivevanole popolazioni maghrebine, proponendo e a volte imponendo nuove regole, nuoviprodotti tecnologici, nuovi valori di cui ognuno poteva rendersi conto, e ai qualicercava di rispondere a suo modo.

Negli anni '40, i paesi del Maghreb si trovavano sotto il controllo più o menodiretto delle potenze europee, Francia in testa. Già nel 1830 Algeri era stataconquistata dai francesi, i quali estesero poi rapidamente il loro dominio alle zonedell'interno e, dagli anni '40, incorporarono l'intera Algeria al loro sistemaamministrativo, dando quindi inizio alla più capillare esperienza di colonialismodell'intera zona. In Tunisia, i francesi avevano occupato la capitale nel 1881, e dal1883 posero l'intero paese sotto il loro protettorato, pur lasciando formalmente algoverno i Bey locali, che vennero però privati di ogni potere reale. La monarchiasharifita del Marocco, che in epoca ottomana era rimasta indipendente dalcontrollo della Sublime Porta di Istanbul, mantenne una certa qual parvenza dipotere, ma il paese fu posto sotto protettorato francese (con la Spagna checontrollava una parte del nord) dal 1912. Fra il 1912 e il 1920, l'Italia conquistò laLibia. Così gli occidentali, ovvero i "cristiani", spezzarono i Hudùd che separavanoil loro mondo da quello dell'Islàm.

Un mondo in bilico fra modernità e tradizione. Ora, pur essendo diverse le esperienze che i vari paesi del Maghreb ebbero del

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colonialismo, è indubbio il fatto che questo costituì per tutti un periodo diprofondi mutamenti.

I colonizzatori continuarono il programma di riforme che i governi localiavevano già avviato nel corso del secolo precedente, quando il confronto con lapotenza tecnologica, militare e istituzionale dell'Europa aveva fatto emergere intutta la sua ampiezza la disparità che si era venuta creando fra i paesi delleopposte sponde del Mediterraneo. Con la loro presenza, migliorò l'efficienza deglieserciti, che vennero addestrati da ufficiali europei e le cui reclute aumentaronoconsiderevolmente grazie alla coscrizione obbligatoria estesa anche agli abitantidelle campagne; si sviluppò il sistema delle comunicazioni con la costruzione distrade e ferrovie e con l'introduzione e il sempre maggior aumento delleautomobili, destinate a trasporto pubblico o privato; vennero potenziate ointrodotte opere di pubblica utilità come il sistema di erogazione del gas, le retiidriche e fognarie, l'elettricità e le reti telefoniche; aumentarono i mezzi diinformazione, che conobbero un forte incremento di giornali e di emittentiradiofoniche; continuò anche il processo di miglioramento delle condizionisanitarie, che aveva già portato a una forte diminuzione del tasso di mortalitàinfantile e a un aumento della speranza di vita media della popolazione - la qualcosa determinò in gran parte l'enorme incremento demografico delle popolazionidel Maghreb, che raddoppiarono pressoché di numero in poco più di un secolo.

Ma tali opere di modernizzazione tennero presenti gli interessi dei funzionarie dei commercianti europei (e delle élites locali ad essi legate) più che non le

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caratteristiche e le esigenze delle popolazioni autoctone. La confisca di grandiappezzamenti di terre collettive a vantaggio dei coloni, la coscrizione obbligatoria,le tasse sempre più onerose e riscosse con maggior efficienza, la mancanza diun'adeguata politica agraria, causarono un peggioramento nelle condizioni di vitanelle campagne, dove viveva la maggior parte degli abitanti. Nelle zonedell'interno, un radicale processo di sedentarizzazione portò alla pressoché totalescomparsa delle popolazioni nomadi: in parte perché era venuta a mancare larichiesta dei prodotti della steppa, in parte perché lo sviluppo delle reti stradarie eferroviarie favoriva l'agricoltura e il commercio, ma anche per via dell'impulsodato dai governi alla sedentarizzazione, per poter meglio esercitare un controllodiretto soprattutto in fatto di esazione fiscale. Senza contare che, per non creareuna classe di intellettuali locali insoddisfatti, i colonizzatori fecero poco o nullaper sviluppare il sistema scolastico che i governanti locali avevano iniziato aimpiantare nel periodo delle riforme. Questo mantenne a un livello altissimo itassi di analfabetismo, e impedì la formazione di una classe dirigente locale insettori di vitale importanza per lo sviluppo economico e tecnologico dei paesimaghrebini.

Per quanto riguarda la situazione finanziaria, il colonialismo era la direttaconseguenza dei fortissimi debiti che i governi locali avevano contratto con lebanche europee spesso incautamente e a condizioni del tutto svantaggiose - perattuare le riforme necessarie al confronto con l'Europa stessa.

Se da un lato la presenza degli occidentali risanò in parte il debito estero con

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un miglior sistema di raccolta delle tasse (soprattutto, come già accennato, nellezone di campagna che erano sempre un po' sfuggite al controllo dei governantidelle città), essa favorì nel contempo gli interessi degli europei e dei grandicommercianti indigeni, con gravi danni per i piccoli commercianti e per gliagricoltori locali. In linea di massima, la politica economica dei colonizzatoriprevedeva scarsi investimenti nel settore industriale e in quello agricolo, eprevalse la tendenza a relegare i paesi arabi al ruolo di produttori di materieprime (cotone, lana, cuoio, fosfati, etc.) per le industrie europee e di importatoridi quei prodotti finiti e di quei generi alimentari che l'Europa produceva allora inesuberante aumento.

I nuovi rapporti che vennero instaurandosi fra occidentali e musulmanicomportarono il ricorso sempre più frequente a norme e a tribunali non-islamici,e si accentuò quindi la tendenza, già riscontrabile nel secolo precedente, aeliminare la sharì'a, la Legge islamica, dalle norme relative al diritto commerciale,penale e internazionale, confinandola al campo degli atti di culto, del dirittoprivato e del diritto di famiglia. Il che significa che vennero profondamentemodificate le leggi che riguardavano i rapporti-commerciali e non-con glistranieri, mentre in fatto di matrimonio, ripudio, divorzio ed ereditarietà, quasinon ci furono mutamenti. Insomma, poco o nulla cambiarono i diritti delle donne(e i loro doveri).

Quindi rimase l'istituto della poligamia secondo il quale, in base allatradizionale interpretazione di una regola coranica, l'uomo può avere fino a

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quattro mogli contemporaneamente; rimasero le leggi che conferivano al maritola libertà di ripudiare la propria moglie senza ricorrere a un tribunale e anche soloper motivazioni personali; rimase la regola secondo cui le donne possonoereditare, sì, ma in misura decisamente inferiore a quanto ereditano gli uomini.Tutte cose che venivano considerate specifiche della propria cultura dallepopolazioni locali, sia perché differenziavano i loro comportamenti da quelli deglioccupanti francesi, sia perché si riferivano all'Islàm, pietra angolare della lorociviltà.

Del resto, ai colonizzatori poco importava come le popolazioni locali gestivanola propria vita privata e anzi, il mantenimento della tradizione in tale settoreserviva loro per non inimicarsi le élites locali, che per far presa sulle massedovevano necessariamente appellarsi, appunto, alla tradizione.

Così le donne - che, come abbiamo visto, spesso erano anche fisicamenterelegate all'ambito domestico - videro accrescere il loro compito di garanti dellatradizione in paesi dove questa, in svariati settori, cedeva sempre piùfrettolosamente il passo agli interessi delle popolazioni straniere e ai lororiferimenti culturali.

Il dualismo nella vita delle donne e nel dibattito ideologico che le riguarda. Ma se l'incontro/scontro fra l'Europa e la "casa dell'Islàm" portò a far vacillare

i hudùd che separavano i cristiani dai musulmani, esso contribuì anche a minare

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l'integrità dei hudùd che separavano le donne dagli uomini. Non solo a livelloideologico, infatti, ma anche nella vita di tutti i giorni, modelli affatto nuovi siaffiancarono a quelli delle popolazioni locali. E per comprendere quanto forte ful'affermazione di questi modelli, basti considerare come l'afflusso dei coloni - chein alcune zone del Maghreb raggiunse un numero elevatissimo: nel 1914, adAlgeri, i tre quarti della popolazione circa era occidentale - comportò una serie dimodifiche assai significative anche nello sviluppo dell'urbanistica e nello stile divita delle grandi città Accanto alle tradizionali case arabe con poche finestre versol'esterno che venivano protette da griglie per impedire alle donne di essere viste, ein cui una serie di grandi stanze - quelle dove gli uomini ricevevano i visitatori equelle riservate a donne e bambini - prendevano luce dai cortili interni, glieuropei costruirono le loro proprie case con cortili esterni, ampie finestre apertesulle strade, stanze da pranzo e da soggiorno al piano terra e camere da letto alprimo piano.

Agli stretti viottoli delle medìne tradizionali si affiancarono vasti giardinipubblici, piazze e grandi boulevard alla francese, dove dai primi decenni di questosecolo circolarono sempre più numerose le automobili e ai lati delle quali siaprirono alberghi, teatri, ristoranti, caffè, negozi.

Su queste strade, le donne europee (che pure, in quanto a emancipazionefemminile, avevano ancora molti passi da compiere, se si considera che, adesempio, le francesi ottennero il diritto di voto soltanto nel 1945, e le italiane nel1946), passeggiavano con il volto scoperto e con abbigliamenti del tutto nuovi - e

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"audaci" - per le popolazioni locali, tenevano il braccio del proprio marito, emagari si sedevano insieme agli uomini nelle terrazze dei caffè.

Così le donne del Maghreb venivano esortate - e comunque obbligate - amantenere viva una tradizione che le voleva anche giuridicamente inferiori agliuomini e assegnava alla morigeratezza dei loro comportamenti la responsabilitàdell'onore della famiglia e della società. Nel contempo, però, in un mondo in cuialcuni cominciavano a teorizzare la necessità della loro emancipazione, esse sitrovavano a vivere accanto a donne europee che, pur senza godere di uguaglianzanei confronti degli uomini, non conoscevano comunque la poligamia, lareclusione, il ripudio. Le radio trasmettevano canzoni che narravano amoripassionali vissuti a cielo aperto, libri e giornali raccontavano le prime battaglieper l'emancipazione femminile, in Marocco persino Làlla 'A''isha, la figlia del re,prese il diploma di scuola superiore e un bel giorno, nel 1947, si presentò inpubblico senza velo. La scolarizzazione femminile recentemente avviata inducevale madri a sperare in un futuro migliore per le proprie figlie che, istruite,avrebbero potuto avere una vita ben diversa dalla loro, una vita fatta di libertà enon soltanto di sogni. Tante donne si sentivano come "prese tra due fuochi" neldualismo di fondo che lacerava la loro esistenza fra il taqlìd, la "tradizione" e la'asrìa, la "modernità": i hudùd che limitavano la loro esistenza iniziavano adapparire intollerabili.

Anche il dibattito fra gli intellettuali - da cui, nel Maghreb e particolarmente inMarocco, le donne rimasero assenti per molto tempo - venne comunque

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notevolmente influenzato dalla presenza sempre più forte e diretta delle potenzeoccidentali. Così, se il periodo delle riforme aveva portato l'intellighenzia araba(musulmana e non) a interrogarsi sulla modernità e a sviluppare una serie di ideeriformiste nei confronti sia dell'Islàm che della tradizione genericamente intesa,nel periodo del colonialismo si verificò una stagnazione di tali tendenze, e ildiscorso prese a incentrarsi attorno alle indipendenze nazionali e alla difesa dellapropria identità culturale, che, come abbiamo visto, veniva intesa comeattaccamento alla tradizione soprattutto in ambito familiare. Negli anni successivialla I guerra mondiale - durante la quale vennero richiesti enormi sacrifici allepopolazioni arabe, che vi parteciparono sia impegnando su vari fronti i propricontingenti, sia fornendo le materie prime di cui necessitavano le potenzeeuropee -, un po' in tutto il Maghreb il nazionalismo assunse toni vieppiùintransigenti e xenofobi.

Il radicale dualismo generato dalla compresenza di due mondi schierati l'unocontro l'altro, si ritrova quindi anche nel discorso sull'emancipazione femminileportato avanti dai movimenti nazionalisti. Questi, da un lato, sostengonol'urgenza di un processo di modernizzazione in fatto di costumi sociali - eritengono a tal fine necessaria una certa emancipazione femminile - ma dall'altrosottolineano il pericolo che l'abbandono delle tradizioni possa portare alla perditadella propria identità. E dato che sulle donne ricade il compito di mantenereintegra la struttura familiare, primo nucleo della società stessa, il loro discorsoviene spesso contraddistinto da una sorta di schizofrenia secondo la quale la

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donna dovrebbe godere di maggiori diritti e opportunità in taluni campi, senzache questo modifichi affatto il suo ruolo di garante dei valori tradizionali. Per fareun esempio, si consideri come 'Allàl al-Fasì, padre fondatore del movimentonazionalista marocchino, sostiene la necessità di abolire la poligamia e di limitareil potere del marito in fatto di ripudio, ma asserisce che va mantenuta la regolaislamica in base alla quale una donna musulmana non può sposare un non-musulmano.

Insomma, nella vita quotidiana e nel mondo delle idee, le donne costituisconoil punto nodale dello scontro fra una serie di concetti e modelli di provenienzaeuropea quali la libertà, l'uguaglianza fra gli esseri umani, il senso diappartenenza «nazionale» - cui i nazionalisti si rifanno anche per avere ilsostegno di alcune frange occidentali -, e una serie di concetti tradizionali islamiciquali la moralità e l'onore, con tutto ciò che questo comporta circa il ruolo delledonne stesse all'interno della società.

Un cammino non ancora concluso. Negli anni seguenti, le lotte condotte per l'indipendenza nazionale, l'accesso

all'istruzione, l'inserimento nel mondo del lavoro, faranno anche fisicamente"uscire" le donne delle città del Maghreb dalle loro case, creando fra l'altro nuovedifferenze tra l'ambiente urbano e quello delle campagne. L'esodo da questeultime e il crescente fenomeno dell'urbanizzazione contribuiranno all'emergere di

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un ceto sociale prima sconosciuto, quello del sottoproletariato urbano, dove ledonne vivranno con sempre maggior drammaticità il dualismo fra modernità etradizione intorno al quale continuerà a svilupparsi il dibattito di cui esse stesserimarranno il punto-chiave.

Ma questo fa parte di una storia che, nel testo della Mernissi, è ancora tutta davenire. A partire dalle lotte di indipendenza, molte donne - e con loro anche moltiuomini del Maghreb arabo non hanno mai smesso di combattere a favoredell'emancipazione femminile: dando vita a diverse associazioni, intervenendonel dibattito politico, impegnandosi in una intensa opera di sensibilizzazionepubblica, producendo e diffondendo giornali, libri, informazioni in genere. Ehanno vinto molte battaglie. Il diritto di famiglia è stato oggetto di più o menoprofonde modifiche, l'alfabetizzazione femminile ha continuato a estendersianche nelle campagne, molte donne sono entrate nel mondo del lavoro e sonoriuscite a emergere con un alto grado di professionalità. Nel mondo arabo ci sonostate e ci sono donne scienziate, docenti universitarie, registe, ministri, scrittrici -l'autrice di questo libro ne è un ben noto esempio.

Ma, pur senza dimenticare le debite differenze che ancora oggi caratterizzanogli attuali Stati del Maghreb, le loro popolazioni hanno comunque vissuto ilperiodo del dopo-indipendenza come un periodo di speranze frustrate. Lamancanza di sistemi politici realmente democratici, l'incapacità dei governi dirisolvere la profonda crisi economica emersa in tutta la sua drammaticità alla finedegli anni '80 (con tutto ciò che questo comporta in fatto di disoccupazione,

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aumento del carovita, carenze di servizi, e altri fattori che fomentano ilmalcontento sociale), la complessa situazione che caratterizza i rapporti politiciinternazionali fra i paesi del mondo arabo, hanno profondamente mutato lasituazione anche per quanto riguarda l'emancipazione femminile.

Una profonda crisi politica, sociale ed economica, ha favorito l'emergere e ladiffusione dell'islamismo radicale, basato sulla teoria del ritorno a un modo divivere islamico "originario", che solo potrebbe garantire un miglioramento nellecondizioni di vita degli arabi. All'interno di questo discorso, gli islamistisottolineano con marcata insistenza la necessità di riaffermare i sacri, inviolabilihudùd fra uomini e donne e fra musulmani e cristiani - identificando questiultimi con un Occidente genericamente inteso, comunque demonizzato e intesocome "nemico" a cui opporsi in modo più o meno violento. E per contrastarel'emergere dei gruppi islamisti, i governi hanno sottolineato sempre più la loroconnotazione islamica, in modo da poter affermare la propria legittimità anche innome della Tradizione. Tradizione il cui peso, sembra quasi un ritornello, ricadeancora una volta sulle donne.

Le donne arabe continuano quindi ancora oggi a vivere più fortemente degliuomini lo spiccato dualismo fra mondo del lavoro/istruzione/modernità ecasa/famiglia/tradizione: un dualismo che, anche a livello giuridico, non si èancora risolto, se si considera ad esempio che le attuali Costituzioni sanciscono lanon-discriminazione fra uomini e donne in materia di diritto al lavoro, ma le leggidello statuto familiare richiedono spesso l'autorizzazione del marito o del padre

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per quante intendono usufruire di tale diritto. In questo mondo in mutamento,esse hanno camminato - e continuano a camminare - per affermare se stesse, iloro diritti, i loro sogni di libertà: anche se la loro strada si snoda tra il fascinodell'emancipazione e il rispetto di norme così antiche, che a molti sembranoessere state forgiate per vincere l'eternità.

LA TERRAZZA PROIBITA Si ringrazia Toni Maraini per la preziosa consulenza

in merito a questioni linguistiche e terminologiche di questo testo. (1)hudùd, gli inviolabili «confini».

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CAPITOLO 1

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I CONFINI DEL MIO HAREM

Venni al mondo nel 1940 in un harem di Fez, città marocchina del nono

secolo, cinquemila chilometri circa a ovest della Mecca e solo mille chilometri asud di Madrid, una delle temibili capitali cristiane.

Mio padre era solito dire che con i cristiani, e con le donne i guai nasconoquando non vengono rispettati i hudùd, ovvero i sacri confini. Al tempo in cuinacqui, dunque, si era in pieno caos, perché né donne né cristiani volevanosaperne di accettare confini. E questo era evidente già sulla soglia di casa, dove ledonne dell'harem discutevano e si accapigliavano con Ahmed, l'uomo a guardiadella porta, mentre per strada sfilavano i soldati stranieri che continuavano adarrivare dal nord e che si erano stabiliti proprio in fondo alla nostra via, tra iquartieri vecchi e la Ville Nouvelle, la città nuova che si stavano costruendo.

Secondo mio padre, non era un caso che Allàh, creando la terra, avesseseparato uomini e donne, e messo un mare a dividere cristiani e musulmani.L'armonia esiste quando ogni gruppo rispetta i limiti dell'altro conformemente aquanto prescritto; passare quei limiti conduce solo al dolore e all'infelicità.

E invece le donne, ossessionate dal mondo al di là della soglia di casa, altro

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non sognavano che di oltrepassarla, e andare a passeggio per vie sconosciute,mentre i cristiani seguitavano ad attraversare quel mare, portando disordine emorte.

Sciagura e vento freddo vengono dal nord; e noi preghiamo rivolti verso l'est.La Mecca è lontana. La tua preghiera può giungere fin là, ma devi sapere comeconcentrarti. A tempo debito, mi avrebbero insegnato a concentrarmi.

I soldati spagnoli si erano accampati a nord di Fez. Zio Ali e mio padre, che incittà erano tanto potenti e in casa davano ordini a tutti, dovevano chiedere ilpermesso a Madrid, se volevano recarsi alla festa religiosa di Mawlày 'Abdelsalàm,vicino a Tangeri, a trecento chilometri di distanza. Ma quei soldati fuori dallanostra porta appartenevano a un'altra tribù: quella dei francesi, cristiani come glispagnoli, ma che parlavano un'altra lingua e vivevano ancora più a nord. La lorocapitale si chiamava Parigi e, nei calcoli di mio cugino Samìr, doveva trovarsi aduemila chilometri da noi, due volte più lontana di Madrid, e due volte più feroce.Come i musulmani, i cristiani avevano l'abitudine di combattersi tra di loro; eogni volta che spagnoli e francesi varcavano il nostro confine, per poco non siammazzavano a vicenda. Quando fu chiaro che nessuno dei due era in grado disterminare l'altro, presero la decisione di tagliare in due il Marocco. Misero deisoldati dalle parti di Arbawa e dissero che, da allora in poi, chi andava a norddoveva avere un lasciapassare perché attraversava il Marocco spagnolo, e chiandava a sud doveva avere un altro lasciapassare, perché entrava nel Maroccofrancese. Chi non era d'accordo, rimaneva bloccato ad Arbawa, luogo arbitrario,

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dove una lunga sbarra - messa lì appositamente - veniva chiamata confine.Eppure il Marocco, diceva mio padre, esisteva indiviso da secoli, anche da primadell'avvento dell'Islàm, cento e quaranta decenni or sono. Nessuno aveva maisentito parlare di una linea che dividesse in due il paese. Il confine era una lineainvisibile nella mente dei guerrieri.

Il cugino Samìr, che a volte accompagnava lo zio e papà nei loro viaggi, dicevache, per creare un confine, tutto quello che serve sono soldati che costringano lagente a crederci.

Nel paesaggio di per sé non cambia nulla. Il confine sta nella mente di chi ha ilpotere.

Io non potevo andare a verificarlo di persona, perché lo zio e papà dicevanoche una donna non deve viaggiare: viaggiare è pericoloso e le donne non sono ingrado di difendersi. In proposito, la teoria della zia Habìba - la quale era stataripudiata all'improvviso e senza ragione dal marito amatissimo - era la seguente:Allàh aveva mandato in Marocco gli eserciti del nord per punire gli uomini,colpevoli di aver violato i hudùd che proteggono le donne. Chi fa torto a unadonna, viola i sacri confini di Allàh. É illecito far torto a chi non può difendersi. Lapoveretta pianse per anni.

Educazione è conoscere i hudùd, i sacri confini, asseriva Làlla Tam, direttricedella scuola coranica dove, all'età di tre anni, fui mandata a raggiungere i mieidieci Cugini. La mia maestra aveva una frusta lunga e minacciosa, ed io eroperfettamente d'accordo con lei su tutto: i confini, i cristiani, l'educazione. Essere

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musulmani e rispettare i hudùd sono una cosa sola. E per un bambino, rispettarei hudùd significa obbedire. Io desideravo tremendamente di compiacere LàllaTam, e una volta che lei non era a portata d'orecchio chiesi a mia cugina Malika,di due anni maggiore di me, se poteva mostrarmi il punto esatto dove si trovavanoi hudùd. Mi rispose che lei per certo sapeva una cosa sola: che tutto sarebbe filatoliscio se avessi obbedito alla maestra. Hudùd era tutto quello che la maestraproibiva. Le parole di mia cugina mi aiutarono a rilassarmi e cominciai a godermila scuola.

Ma da allora, cercare i confini è diventata l'occupazione della mia vita. L'ansiami divora ogni volta che non so individuare con esattezza la linea geometrica chedetermina la mia impotenza. La mia infanzia è stata felice perché i confini eranodi una chiarezza cristallina. Primo fu la soglia che separava il salone di casa dalcortile principale. Uscire in quel cortile al mattino non mi era permesso, fintantoche mia madre non si alzava, e ciò significava che, dalle sei alle otto, dovevogiocare senza far rumore. Potevo, se volevo, sedermi sulla fredda soglia di marmo,ma non dovevo unirmi ai giochi dei cugini più grandi. «Ancora non sei capace didifenderti», mi spiegava la mamma, «anche giocare è una specie di guerra».

E io, che avevo paura della guerra, mettevo il mio cuscino sulla soglia, e me nestavo lì seduta, giocando a al-masrìya bi'I-jàls (alla lettera, "passeggiare seduta"),un gioco che inventai a quel tempo e che ancora oggi trovo molto utile. Pergiocare occorrono solo tre cose. La prima è starsene immobili da qualche parte, laseconda è avere un posto per sedersi, e la terza, trovarsi in una disposizione di

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umiltà tale da accettare l'idea che il proprio tempo non valga niente. Il giococonsiste nel contemplare superfici familiari come se fossero estranee.

Stavo lì a sedere sulla soglia e osservavo casa nostra come se non l'avessi maivista. La prima cosa da guardare era il cortile rigido e squadrato, dove ogni cosaera governata dalla simmetria. Persino la bianca fontana di marmo che si trovavaal centro, col suo perpetuo gorgogliare, pareva ammansita e sotto controllo. Lafontana era decorata, lungo la circonferenza, da un sottile fregio di ceramicabianca e blu, che riproduceva il motivo inserito tra le mattonelle di marmoquadrate del pavimento. Il cortile era circondato da un colonnato ad archi, conquattro colonne per lato, che avevano base e capitelli di marmo, e nel mezzoerano rivestite di ceramica bianca e blu il cui disegno riprendeva quello dellafontana e del pavimento. Vi si affacciavano quattro enormi saloni, che sifronteggiavano a due a due. Ogni salone aveva una grande entrata centrale chedava sul cortile, con due ampie finestre laterali. Al mattino presto, e durantel'inverno, i saloni erano ben chiusi da battenti in legno di cedro intagliato a motivifloreali. D'estate restavano aperti, e calava un sipario di drappi pesanti, trine evelluto, che lasciava passare l'aria, riparando da luce e rumori. Le finestre delsalone avevano, all'interno, delle imposte di legno intagliato, simili alle porte, madall'esterno si vedevano solo delle inferriate di ferro battuto placcato in argento,sormontate da lunette di vetro dipinte a splendidi colori. Amavo quei vetricolorati per il modo in cui il sole, sorgendo, sfumava di continuo i rossi e i blu, eattenuava i gialli. Come i pesanti battenti di legno, anche le finestre si lasciavano

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aperte d'estate, e le tende venivano calate solo di notte o durante il riposopomeridiano, a proteggere il sonno.

Alzando gli occhi verso il cielo, si poteva ammirare un'elegante struttura a duepiani dov'era ripetuto il geometrico colonnato ad archi del cortile, cui siaggiungeva, a completarlo, un parapetto in ferro battuto placcato d'argento. Efinalmente il cielo - sospeso al di sopra di ogni cosa, ma sempre rigidamentesquadrato, come tutto il resto, e saldamente racchiuso in un fregio ligneo adisegni geometrici di una pallida tinta oro e ocra.

Guardare il cielo dal cortile era un'esperienza travolgente. All'inizio, sembravatenuto a bada da quella cornice squadrata fatta da mani d'uomo. Ma poi ilmovimento delle stelle del primo mattino, col loro progressivo dissolversi nelleprofondità del blu e del bianco, si faceva così intenso che dava un senso divertigine. Di fatto, in certi giorni, specialmente d'inverno - quando i raggi porporae rosa shocking del sole scacciavano a forza dal cielo le ultime stelle che siostinavano a brillare - si poteva facilmente restarne ipnotizzati. Con la testapiegata all'indietro, a faccia a faccia con quel cielo squadrato, veniva voglia diandare a dormire, ma proprio allora il cortile iniziava a riempirsi di gente chegiungeva da ogni parte della casa: dalle porte, dalle scale... oh, quasi dimenticavole scale. Situate ai quattro angoli del cortile, erano importanti perché su di esseperfino gli adulti potevano giocare a una sorta di gigantesco nascondino, correndosu e giù per i lucidi gradini verdi.

Di fronte a me, dal lato opposto del cortile, c'era il salone dello Zio e di sua

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moglie, e dei loro sette figli, che era la riproduzione esatta del nostro. La mammanon permetteva alcuna distinzione che fosse pubblicamente visibile fra i duesaloni, nonostante lo Zio fosse il primogenito e, pertanto, secondo la tradizione,gli spettassero appartamenti più ampi e lussuosi. Lo zio non era soltanto più riccoe più anziano di mio padre; aveva anche una famiglia più numerosa. Noi - io, miasorella, mio fratello e i genitori - arrivavamo a cinque. La famiglia dello zio era aquota nove (o dieci, contando la sorella di sua moglie che spesso veniva in visitada Rabàt, e che, da quando suo marito aveva preso una seconda moglie, a volte sitratteneva anche per sei mesi di fila).

Ma mia madre, che detestava la vita comunitaria dell'harem e sognava uneterno tête-à-tête con mio padre, aveva accettato quella che chiamava unasistemazione critica (azma) solo a condizione che non venisse fatta alcunadistinzione fra le mogli: nonostante la disparità di rango, avrebbe goduto gli stessiprivilegi della cognata. Lo zio rispettava scrupolosamente questo accordo perché,in un harem ben condotto, più si ha potere, più si deve agire con generosità. Lui ei suoi figli, in-fin dei conti, avevano più spazio, ma solo ai piani alti, lontano dalcortile, spazio pubblico per eccellenza. Il potere non ha bisogno di manifestazionieclatanti.

Nostra nonna paterna, Làlla Mànì, occupava il salone alla mia sinistra.Andavamo da lei solo due volte al giorno, una al mattino e una alla sera, perbaciarle la mano. Come tutti gli altri saloni, il suo era arredato con divani ecuscini tappezzati in broccato di seta, disposti lungo tutte e quattro le pareti; un

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grande specchio, al centro, rifletteva l'interno della porta principale con i suoidrappeggi sapientemente studiati, e un pallido tappeto a fiori copriva tutto interoil pavimento. Non ci era permesso, per nessuna ragione, camminare su queltappeto con le babbucce - e men che meno con i piedi bagnati, cosa assai difficileda evitare d'estate, quando il selciato del cortile veniva rinfrescato due volte algiorno con l'acqua della fontana. Le donne più giovani della famiglia, come miaCugina Shàma e le sue sorelle, amavano assolvere quell'incombenza giocando a lapiscine, cioè vuotando secchi d'acqua sul selciato e schizzando «per caso» lapersona più vicina. Questo, ovviamente incoraggiava i bambini più piccoli - nellafattispecie, io e mio cugino Samìr - a correre in cucina e ritornare armati con lacanna dell'acqua. Quindi mentre tutti urlavano e tentavano di farci smettere,procedevamo a un sistematico lavoro di schizzatura. Gli strilli finivanoinevitabilmente per disturbare Làlla Mànì, che, alzando con stizza le sue tende,minacciava di andare a lamentarsi dallo Zio e da Papà quella sera stessa. «Diròloro che più nessuno, in questa casa, ha rispetto dell'autorità», diceva. Làlla Mànìodiava i giochi d'acqua e i piedi bagnati, e se ci capitava di correre da lei per dirlequalcosa dopo essere stati vicini alla fontana, ci ordinava sempre di fermarci làdove eravamo. «Non parlarmi con i piedi bagnati», diceva, «vai prima adasciugarteli».

Per quanto la riguardava, chiunque violasse la Legge dei Piedi Asciutti e Pulitiveniva stigmatizzato a vita, e se avessimo osato procedere oltre, fino a insozzarleil tappeto a fiori, il nostro atto di insubordinazione ci sarebbe stato rammentato

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per molti anni a venire. Làlla Mànì gradiva essere rispettata, vale a dire esserlasciata in disparte, elegantemente vestita, con il suo copricapo ingioiellato, asedere e a guardare in silenzio nel cortile. Amava essere circondata da un pesantesilenzio. Il silenzio era un lusso: il privilegio di quei pochi eletti che potevanopermettersi di tenere lontani i bambini.

Infine, sul lato destro del cortile, si trovava il salone più ampio e più elegantedi tutti - il salone degli uomini, dove questi pranzavano, ascoltavano le notizie,concludevano gli affari e giocavano a carte. In teoria, loro erano gli unici dellacasa ad avere accesso alla grande radio che stava nell'angolo destro del lorosalone, custodita in un mobile i cui sportelli venivano chiusi a chiave quandol'apparecchio non veniva utilizzato (fuori, comunque, erano installati deglialtoparlanti, perché tutti potessero sentire). Le uniche due chiavi della radio, miopadre ne era certo, erano sotto controllo suo e dello zio. Tuttavia, cosa alquantocuriosa, quando gli uomini erano fuori, le donne riuscivano regolarmente adascoltare Radio Cairo. Shàma e mia madre danzavano spesso sulle melodie dellaradio, cantando con la principessa libanese Asmahàn "Ahwà" (sono innamorata),quando gli uomini non erano in vista. Ed io ricordo la prima volta che le donneusarono la parola khàJin (traditore) per rivolgersi a me e a Samìr: quando, a miopadre che ci chiedeva cosa avessimo fatto in sua assenza, raccontammo di averascoltato Radio Cairo. La nostra risposta svelò l'esistenza di una chiave pirata. Piùspecificamente, rivelò che le donne avevano rubato la chiave per farsene unacopia. «Se si sono fatte una chiave del mobile-radio, presto se ne faranno una

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anche del portone», brontolò mio padre. Ne nacque un affare di stato, e le donnefurono interrogate una per volta nel salone degli uomini. Ma dopo due giorni diindagini, tutto quello che si concluse fu che la chiave doveva essere caduta dalcielo; nessuno sapeva di dove fosse venuta.

Ciononostante, una volta che l'inchiesta fu archiviata, le donne se la preserocon noi bambini. Dissero che eravamo dei traditori, e che avremmo dovuto essereesclusi dai loro giochi. Era una prospettiva orribile, e noi ci difendemmospiegando che non avevamo fatto altro che dire la verità.

Mia madre ribatté che alcune cose erano vere, certo, ma nondimeno sidovevano tacere: dovevano essere tenute segrete. E aggiunse che ciò che si dice eciò che si tiene segreto non ha nulla a che vedere con le bugie e la verità. Lapregammo di spiegarci dove stava la differenza, ma non seppe tirar fuori unarisposta utile. «Devi giudicare da sola l'impatto delle tue parole», disse. «Sequello che dici può far male a qualcuno, devi star zitta». Anche quel consiglio nonci fu di nessun aiuto. Il povero Samìr, che odiava esser chiamato traditore, siribellò e gridò che era libero di dire quello che voleva. Io, come al solito, ammiraiil suo coraggio, ma rimasi in silenzio. Decisi che, se oltre a dover distinguere traverità e bugie (cosa che già mi causava non pochi problemi) dovevo anchemettermi a distinguere questa nuova categoria di "segreto", mi sarebbe venuto ungran caos nella testa: era meglio rassegnarmi subito ad essere insultata spesso eabituarmi alla nomea di traditrice.

Uno dei miei piaceri settimanali era quello di ammirare Samìr che metteva in

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atto le sue ribellioni contro gli adulti, e sentivo che, se avessi continuato a staredietro a lui, non mi sarebbe accaduto mai nulla di male. Io e Samìr siamo natinello stesso giorno, in un lungo pomeriggio di Ramadàn, con un'ora appena didifferenza. (1) Lui nacque per primo, al secondo piano, ultimo di sette figli. Ionacqui un'ora più tardi, nel nostro salone al pianoterra, primogenita, e sebbenemia madre fosse esausta, insisté che zie e parenti mi riservassero gli stessi ritualiosservati per Samìr. Aveva sempre rifiutato la superiorità maschile come illogica edel tutto antimusulmana - «Allàh ci ha creati tutti uguali», era solita dire. Equindi- mi raccontò in seguito - quel pomeriggio la casa vibrò una seconda voltaal suono dei tradizionali yu-yu (2) e dei canti di giubilo, tanto che i vicini siconfusero e pensarono che in famiglia fossero nati due maschi. Mio padre erafuori di sé dalla gioia: ero tutta paffutella, con una faccia da "luna piena", e deciseimmediatamente che sarei diventata una gran bellezza. Per stuzzicarlo, LàllaMànì gli disse che ero un po' troppo pallida, che i miei occhi erano tropposghembi e i miei zigomi troppo alti, mentre Samìr, aggiunse, aveva «una bellatinta dorata, e i più grandi occhi color nero velluto che si siano mai visti». Miamadre non disse nulla, ma non appena poté reggersi in piedi, corse a vedere sedavvero Samìr aveva gli occhi color nero velluto, e li aveva. Li ha tuttora, ma tuttala morbidezza del velluto scompare quando è di cattivo umore. Mi sono semprechiesta se quella sua caratteristica di saltare su e giù mentre si ribellava ai grandi,non fosse dovuta semplicemente alla sua costituzione mingherlina.

Per contro, io ero così grassoccia che neanche mi veniva in mente di saltare

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quando qualcuno mi infastidiva; anzi, scoppiavo in lacrime e correvo anascondermi nel caffettano di mia madre. Ma la mamma continuava a ripetermiche non dovevo lasciare a Samìr il compito di ribellarsi anche per me: «Deviimparare a gridare e protestare, proprio come hai imparato a camminare eparlare. Piangere davanti agli insulti è come chiederne ancora». Preoccupata chepotessi diventare una donna servile, mia madre, in visita alla sua famiglia per levacanze estive, chiese consiglio sul da farsi a nonna Jasmina, che era famosa perl'impareggiabile modo con cui sapeva difendere le proprie ragioni. Questa leconsigliò di smetterla di fare paragoni tra me e Samìr e di spingermi, al contrario,a sviluppare un atteggiamento protettivo nei confronti dei bambini più piccoli.«Ci sono molti modi per creare una forte personalità», disse la nonna.

«Uno è quello di far sviluppare la capacità di sentirsi responsabile per gli altri.Essere semplicemente aggressivi, e saltare al collo del vicino ogni volta che tipesta i piedi, è un altro modo, ma di certo non è il più elegante. Incoraggiare unafiglia a sentirsi responsabile verso quelli più giovani che vivono nella sua stessacasa, vuol dire darle spazio per costruirsi la sua forza. Ricorrere a Samìr per essereprotetta può andar bene, ma se lei scoprirà il modo per proteggere gli altri, potràusare quell'abilità anche per se stessa». Ma l'incidente della radio rappresentòcomunque per me una lezione importante. Fu allora che mia madre mi parlò dellanecessità di masticare le parole prima di dirle. «Rigira ogni parola nella lingua persette volte, con le labbra ben chiuse, prima di pronunciare una frase», mi disse,«perché rischi di rimetterci molto, una volta che le parole sono uscite». Più tardi

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mi rammentai che, in una novella delle Mille e una notte, una sola parola dettamale poteva portar disgrazia al malcapitato che l'avesse pronunciata facendoindignare il califfo, o il re. Poteva anche capitare che venisse chiamato il sayyàf, ilboia. D'altro canto, le parole potevano anche essere la salvezza, per la personaabile a tesserle con arte. Questo è quanto accadeva a Shahrazàd, l'autrice dellemille e una storia. Il re stava per farle tagliare la testa, ma all'ultimo minuto,proprio usando accortamente le parole, lei fu in grado di fermarlo. Non vedevol'ora di scoprire come avesse fatto.

(1) Nel mese sacro di Ramadàn, il nono del calendario musulmano, si osserva

un digiuno rituale dall'alba al tramonto.(2) Yu-yu è un grido di gioia con cui le donne celebrano eventi felici, dalle

nascite e i matrimoni a fatti più spiccioli, come l'aver portato a termine unricamo, o la festa di una vecchia zia.

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CAPITOLO 2

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SHAHRAZAD, IL RE E LE PAROLE

Un pomeriggio, verso sera, mia madre mi spiegò con tutta calma il motivo per

cui quelle favole andavano sotto il nome di Le Mille e una notte. Non era un caso,infatti, poiché per ognuna di quelle notti - che furono tante - Shahrazàd, lagiovane sposa, dovette raccontare una storia così avvincente e accattivante daindurre il re, suo marito, a mettere da parte il furioso progetto di farla giustiziareall'alba. Ne fui terrorizzata. «Mamma, vuoi dire che se al re non piace la storia diShahrazàd, farà venire il sayyàf (il boia)?».

«Continuavo a chiedere altre possibilità per la povera ragazza; volevo dellealternative. Perché non poteva aver salva la vita anche se al re non fosse piaciutala storia? Perché Shahrazàd non poteva dire semplicemente quello che voleva,senza doversi preoccupare del re? O perché non poteva rovesciare la situazione, echiedere lei al re di raccontarle una storia avvincente ogni notte? Così, almeno, luiavrebbe capito il terrore che si prova a dover compiacere qualcuno che ha il poteredi tagliarti la testa. La mamma disse che prima di cercare altre vie di scampo,dovevo conoscere tutti i dettagli della vicenda.

Il matrimonio di Shahrazàd con il re, disse, non era un matrimonio normale.

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Era stato celebrato in circostanze molto spiacevoli. Il re Shahriyàr aveva scopertosua moglie a letto con uno schiavo e, profondamente ferito e adirato, avevatagliato la testa ai due amanti. Con sua grande sorpresa, però, dovette accorgersiche il duplice assassinio non era bastato a placare la sua feroce collera. Vendicarsidivenne la sua ossessione notturna. Sentiva il bisogno di uccidere altre donne.Così ordinò al vizir, il più alto dignitario di corte, che era anche il padre diShahrazàd, di condurgli una vergine ogni notte: lui l'avrebbe sposata, avrebbepassato la notte con lei, e all'alba ne avrebbe ordinato l'esecuzione. E così fece pertre lunghi anni, uccidendo più di un migliaio di fanciulle innocenti, affinché ilpopolo insorse, levando la voce contro di lui, invocando maledizioni sul suo capo,e pregando Allàh di annientarlo, lui e la sua legge; ci fu forte strepito di donne egran pianto di madri, i genitori fuggirono portando via le figlie, e nella città nonrestò più una sola ragazza con cui congiungersi carnalmente». (3) Congiungersicarnalmente, precisò mia Madre quando il Cugino Samìr prese a pestare i piedireclamando a gran voce una spiegazione, è quando marito e moglie stannoinsieme in un letto e dormono tutta la notte.

E venne il giorno in cui non restarono che due vergini in tutta la città: una eraShahrazàd, la figlia maggiore del vizir, e l'altra era Dunyazàd, sua sorella minore.Quando il vizir tornò a casa, quella sera, pallido e preoccupato, Shahrazàd glidomandò quali pensieri lo assillassero. Lui le parlò del problema, e la ragazzareagì in un modo che il padre non si sarebbe mai aspettato. Invece di supplicare ilsuo aiuto per aver salva la vita, Shahrazàd si offrì immediatamente di andare a

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passare la notte con il re. «Vorrei che tu mi dessi in matrimonio a questo reShahriyàr», disse. «O rimarrò in vita, o sarò il riscatto delle vergini musulmane, ela causa della loro liberazione dalle mani del re e dalle tue».

Il padre di Shahrazàd, che amava sua figlia teneramente, si oppose a un taleprogetto, e tentò di convincerla a pensare a un'altra soluzione. Farla sposare conShahriyàr equivaleva a condannarla a morte sicura. Ma, diversamente dal padre,lei era convinta di avere un potere speciale, e di essere in grado di fermarel'eccidio. Avrebbe curato l'anima travagliata del sovrano, semplicementeparlandogli di cose accadute a qualcun altro; lo avrebbe condotto per terrelontane, a osservare gli usi degli stranieri, così da avvicinarlo all'estraneità cheabitava in lui; lo avrebbe aiutato a vedere la sua prigione, il suo odio ossessivo perle donne. Shahrazàd era certa che, se avesse potuto fare in modo che il reguardasse dentro di sé, sarebbe nato in lui il desiderio di cambiare, e di amareancora. Con riluttanza, il padre cedette, e quella stessa notte Shahrazàd fu sposadi Shahriyàr. (4)4 Appena introdotta nella camera del re, la donna iniziò araccontargli una storia meravigliosa che, astutamente, lasciò in sospeso nelmomento più denso di suspense, così che Shahriyàr non poté sbarazzarsi di leiall'alba e le accordò di vivere fino alla notte dopo, per poter finire il racconto. Mala seconda notte, Shahrazàd cominciò a raccontargli un'altra storia avvincenteche, al giungere dell'alba, era ancora ben lontana dalla fine, e il re dovette lasciarlavivere anche questa volta. Lo stesso accadde la notte seguente, e quella dopoancora, per mille notti in tutto, che equivalgono a poco meno di tre anni, fino a

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che il re non fu più capace di immaginare la propria vita senza di lei. Nelfrattempo, avevano già avuto due figli, e dopo mille e una notte, il re rinunciò allaterribile abitudine di far tagliare la testa alle donne.

Quando mia madre finì di raccontare la storia di Shahrazàd, io le chiesi: «Macome si impara a raccontare le storie che piacciono ai re?». Mia madre mormorò,come parlando tra sé e sé, che le donne non facevano altro per tutta la vita.Questa risposta non mi fu di grande aiuto, naturalmente, ma poi lei aggiunse chele mie opportunità di essere felice dipendevano tutte dal grado di abilità che avreiacquisito nell'uso delle parole. Saputo questo, io e Samìr (che, in seguitoall'incidente della radio, avevamo deciso di evitare le parole sgradite che potesseroturbare i grandi) cominciammo a fare allenamento. Stavamo seduti per ore, a farpratica in silenzio, masticando le parole, facendole girare sette volte intorno allalingua, e tenendo sempre d'occhio gli adulti per vedere se si accorgevano diqualcosa.

Ma nessuno si accorse mai di nulla, specialmente nel cortile, dove la vita eramolto severa e formale. Solo al piano di sopra le cose erano meno rigide. Lassù,zie e parenti, vedove o divorziate, coi rispettivi figli, occupavano un labirinto distanze e stanzette. Il numero delle parenti che, di volta in volta, vivevano con noi,variava a seconda dei conflitti nelle loro vite. Lontane parenti, in rotta coi mariti,venivano a cercare rifugio nei nostri piani alti per qualche settimana.

Alcune di loro, si portavano i figli, e venivano col proposito di restare per poco,giusto il tempo di dimostrare ai mariti che avevano un altro posto dove andare,

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che potevano sopravvivere per conto proprio, e non erano in disperate condizionidi dipendenza. (Molto spesso questa strategia si rivelava vincente, e quandofacevano ritorno al tetto coniugale, le donne avevano un maggiore poterecontrattuale).

Altre, invece, venivano a stare da noi per sempre, dopo un divorzio o qualchealtro grave problema, e questa era una delle tradizioni per cui mio padre sipreoccupava ogni volta che qualcuno attaccava l'istituzione dell'harem. «Doveandrebbero le donne in difficoltà?», era solito dire.

Le stanze di sopra erano molto modeste, con pavimenti di piastrelle bianche emuri imbiancati a calce. La mobilia era scarsa: un po' ovunque erano sparsi deglistretti divani ricoperti di rozzo cotone a fiorami e cuscini insieme a stuoie di rafiafacili da lavare. I piedi bagnati, le babbucce, persino le tazze da tè rovesciateoccasionalmente, qui non provocavano le stesse eccessive reazioni del piano terra.La vita ai piani alti era molto più facile, specialmente perché ogni cosa eraaccompagnata da hanàn, una qualità emotiva tutta marocchina che raramente miè capitato di incontrare altrove. É difficile dare un'esatta definizione di hanàn ma,fondamentalmente, si tratta di una sorta di tenerezza libera, gratuita, benevola,incondizionatamente disponibile. Le persone che danno hanàn, come la ziaHabìba, non minacciano di riprendersi indietro il loro amore quando unocommette qualche involontaria infrazione, piccola o grande che sia.

Al piano terra hanàn si incontrava di rado, soprattutto tra le madri, che eranotroppo impegnate a insegnare il rispetto dei confini per prendersi anche la briga di

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essere tenere.Il piano di sopra era anche il luogo dove andare per ascoltare le storie. Si

saliva, per centinaia di gradini lucidi, fino al terzo e ultimo piano della casa, equindi alla terrazza, spaziosa e invitante, tutta imbiancata a calce, che vi eraannessa. Era là che la zia Habìba aveva la sua stanza, piccola e quasicompletamente spoglia. Suo marito si era tenuto tutta la roba del matrimonio,con l'idea che se avesse fatto tanto di alzare un dito e dirle che la riprendeva incasa, lei avrebbe chinato la testa e sarebbe tornata di corsa. «Ma non puòportarmi via le cose più importanti che ho», diceva di tanto in tanto la zia Habìba,«cioè la mia risata, e tutte le storie fantastiche che so raccontare, quando mi trovodavanti un degno uditorio». Una volta chiesi a mia cugina Malika che cosaintendesse la zia per "un degno uditorio", e lei mi confessò di non averne idea.Dissi che forse avremmo dovuto chiederlo direttamente a lei, ma Malika risposedi no, meglio di no, perché c'era il rischio che si mettesse a piangere.

La zia Habìba piangeva spesso senza ragione; lo dicevano tutti. Ma noi levolevamo bene, e il giovedì notte stentavamo a prender sonno, tanta eral'eccitazione alla prospettiva della sua fiaba del venerdì sera. Di solito questaconsuetudine finiva per creare scompiglio perché le storie duravano troppo, adetta delle nostre madri, le quali, per venire a riprenderci, erano spesso costrettead arrampicarsi per tutte quelle scale. E, una volta arrivate in cima, dovevanopure sentirci strillare, mentre i più viziati tra i miei cugini, come Samìr, sirotolavano per terra, gridando che loro non avevano sonno, proprio per niente.

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Ma chi riusciva a rimanere fino alla fine della storia, cioè fino a quando l'eroinatrionfava sui suoi nemici e riattraversava «i sette fiumi, i sette monti, i settemari», aveva un altro problema da affrontare: ridiscendere le scale, la qual cosaincuteva spesso paura. Prima di tutto perché non c'era luce: gli interruttori perl'illuminazione delle scale erano tutti controllati da Ahmed, il portinaio, dalportone d'ingresso, e lui staccava la luce alle nove di sera, per segnalare a chi sitrovava sulla terrazza che era ora di rientrare e che il via vai doveva ufficialmentecessare. Poi, perché un'intera popolazione di jinn (demoni) se ne stava là fuori,appostata in silenzio, pronta a saltarti addosso. E infine, ma non meno rilevante,c'era il problema che il cugino Samìr era così bravo a imitare i jinn che spesso micapitava di prenderlo per uno vero. In molte occasioni, per farlo smettere, dovettiletteralmente fingere di svenire.

A volte, quando la storia durava per ore, le madri non comparivano, e la casaintera piombava all'improvviso nel silenzio, pregavamo la zia Habìba di farcipassare la notte nella sua stanza. Lei srotolava il suo bel tappeto nuziale, quelloche teneva sempre arrotolato con cura dietro la cassapanca di cedro, e vi stendevasopra un lenzuolo bianco pulito che, per l'occasione, profumava con una specialeacqua di fiori d'arancio. Non aveva abbastanza cuscini che potessero fungere daguanciali per tutti, ma questo non era un problema per noi. Divideva con noi lasua grande coperta di lana pesante, spegneva la luce elettrica e metteva unagrossa candela sulla soglia, dalla parte dei piedi. «Se per caso qualcuno haurgenza di andare al bagno», ci diceva, «tenga a mente che questo tappeto è

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l'unica cosa che mi resta in ricordo dei bei tempi, quando ero una donnafelicemente sposata».

Così, in quelle notti di grazia, ci addormentavamo ascoltando la voce di nostrazia che ci apriva magiche porte a vetri su prati rischiarati dai raggi della luna. Equando, al mattino, ci svegliavamo, avevamo ai piedi l'intera città. La stanza dellazia Habiba era piccola, ma aveva una grande finestra con una vista che arrivavafino ai monti del Nord.

La zia Habìba sapeva come parlare nella notte. Con la forza delle sole parole, ciconduceva a bordo di una grande nave che veleggiava da Aden alle Maldive,oppure ci portava su un'isola dove gli uccelli parlavano come gli esseri umani.Cavalcando le sue parole, viaggiavamo oltre Sind e Hind (l'India), lasciandocidietro i paesi musulmani, vivendo pericolosamente, facendo amicizia con cristianied ebrei, che dividevano con noi il loro cibo bizzarro e ci guardavano fare le nostrepreghiere, mentre noi li guardavamo recitare le loro. A volte andavamo cosìlontano che non c'erano più dei: solo adoratori del sole e del fuoco, ma anchequesti sembravano cordiali e amichevoli, quando ci venivano presentati dalla ziaHabìba. I suoi racconti mi facevano venire voglia di diventare adulta ed espertanarratrice a mia volta.

Volevo imparare a parlare nella notte. (3) Citato dalla splendida traduzione The Book of the Thousand and One

Nights di Richard F. Burton, edita privatamente dal Burton Club, in data

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sconosciuta (l'introduzione è datata 1865), vol. 1, p.14. Tuttavia, la versione delBurton può risultare difficilmente comprensibile a causa della sua lingua arcaica.Per un primo approccio all'opera, sono disponibili recenti traduzioni di piùimmediata comprensione; in italiano esistono diverse edizioni di Le mille e unanotte, la più autorevole delle quali è indubbiamente quella curata da FrancescoGabrieli per Einaudi, Torino, 1948 (ultima edizione, 1972).

(4) Ho constatato con sorpresa che, per molti occidentali, Shahrazàd è soloun'amabile e ingenua intrattenitrice che, abbigliata in favolose vesti, raccontastorielle innocue. Dalle nostre parti, è invece considerata un'eroina coraggiosa, edè una delle nostre rare figure mitiche femminili. Sherazad è una stratega dalpensiero potente, che usa la sua conoscenza psicologica degli esseri umani perfarli camminare più in fretta e saltare più in alto. Come Sindibad e Saladino, cirende più audaci e sicuri di noi stessi, del nostro potere di cambiare il mondo e lepersone.

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CAPITOLO 3

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L'HAREM DEI FRANCESI

Hudùd per eccellenza, o confine assoluto, era il nostro portone di casa.

Attraversare la soglia, sia per uscire che per entrare, era un atto da compiersiprevia autorizzazione.

Ogni movimento doveva essere giustificato, e anche il solo fatto di avvicinarsial portone aveva una sua procedura. Chi veniva dal cortile, doveva primapercorrere un corridoio interminabile e, una volta in fondo, si trovava faccia afaccia con Ahmed il portinaio, che di solito stava assiso su un sofà come un re introno, col vassoio del tè sempre lì a fianco, pronto a far conversazione. Poichéottenere un permesso di uscita comportava immancabilmente una serie dicomplessi negoziati, si veniva invitati ad accomodarsi vicino a lui sul suoimponente sofà, oppure di fronte, debitamente rilassati sulla sua scombinatafauteuil d'Fransa, la logora sedia rigida e imbottita che si era comprato per duesoldi in una delle rare visite alla jùtiya, il mercato delle pulci locale.

Ahmed teneva spesso in grembo il più piccolo dei suoi cinque figli, dato che siprendeva cura di loro ogni qualvolta che sua moglie, Lùzà, era fuori per lavoro.Lùzà era una cuoca di prim'ordine, e occasionalmente, quando la paga era buona,

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accettava incarichi fuori di casa nostra.Il portone della casa era un gigantesco arco in pietra con enormi battenti di

legno intagliato. La sua funzione era quella di tener separato l'harem delle donnedalla strada in cui camminavano uomini estranei. (Da questa separazione, civeniva detto, dipendevano l'onore e il prestigio dello zio e di papà). I bambinipotevano uscire dal portone, a patto che avessero il permesso dei genitori; ledonne adulte, no. «Mi sveglierei all'alba», diceva mia madre di tanto in tanto, «sesolo potessi andare a passeggio di primo mattino, quando le strade sono ancoradeserte. A quell'ora, la luce deve essere blu, o forse rosa, come al tramonto. Qualesarà il colore del mattino nelle strade deserte e silenziose?». Nessuno rispondevaalle sue domande. In un harem, le domande non si fanno necessariamente peravere una risposta. Le domande si fanno tanto per capire quello che ci accade.Vagare per le strade liberamente era il sogno di ogni donna. La più popolare dellestorie narrate dalla zia Habìba, che veniva riservata alle occasioni speciali, parlavadi una "Donna con le Ali" che poteva volare via dal cortile ogni qual volta lovoleva; e quando la zia la raccontava, le donne della corte si infilavano ilcaffettano nella cintura e danzavano con le braccia spiegate, come se stessero perspiccare il volo. Restai confusa per anni, perché mia cugina Shàma, di diciassetteanni, era riuscita a convincermi che tutte le donne avevano delle ali invisibili, eche quando fossi stata più grande sarebbero cresciute anche a me. Il portone dicasa ci proteggeva inoltre da quegli stranieri che se ne stavano qualche metro piùin là, su un altro confine, non meno pericoloso e affollato - quello che divideva la

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nostra città vecchia, la Medìna, dalla nuova città francese, la Ville Nouvelle.Quando Ahmed era occupato a discutere o a farsi un sonnellino, io e i miei cuginisgattaiolavamo fuori dal portone per dare un'occhiata ai soldati francesi:indossavano delle uniformi blu, portavano i fucili in spalla, e avevano piccoliocchi grigi sempre in allerta. Spesso cercavano di parlare con noi bambini, perchégli adulti non scambiavano con loro neanche una parola, ma noi eravamo statiistruiti a non rispondere. Sapevamo che i francesi erano avidi, ed erano venuti dalontano per conquistare la nostra terra, sebbene Allàh avesse dato loro un belpaese, con città operose, fitte foreste, verdi campi ubertosi, e vacche così grasseche una sola dava tanto latte come quattro delle nostre. Eppure, chissà perché, ifrancesi volevano di più.

Dato che abitavamo al confine tra la città vecchia e quella nuova, potevamovedere la differenza tra la nostra medìna e la Ville Nouvelle dei francesi. Le lorostrade erano larghe e dritte e, di notte, si illuminavano tutte di luci sfavillanti.(Papà diceva che sperperavano l'energia di Allàh, perché la gente non ha bisognodi tutta quella luce, in una comunità sicura). Avevano anche delle auto veloci. Lestrade della nostra medìna, invece, erano strette, buie e a serpentina - cosìtortuose che, in quelle spire, le auto non potevano entrare, e gli stranieri cheavessero osato avventurarvisi non avrebbero trovato il modo di venirne fuori.Questo era il vero motivo per cui i francesi si erano costruiti una città nuova tuttaper loro: dover vivere nella nostra li spaventava.

Nella medìna, la maggior parte delle persone andava a piedi. Papà e lo zio

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possedevano dei muli, ma i poveri come Ahmed avevano solo degli asini; donne ebambini dovevano andare a piedi. I francesi avevano paura di andare a piedi estavano sempre chiusi nelle auto. Anche i soldati se ne stavano in auto quando lecose si mettevano male. Questo, per noi bambini, costituì motivo di sorpresa,perché ci rivelò che anche i grandi potevano aver paura, proprio come noi.

In più, questi grandi che avevano paura se ne stavano fuori, epresumibilmente erano liberi. Gli stessi potenti che avevano creato il confine, oralo temevano. La Ville Nouvelle era il loro harem; proprio come le donne, nonpotevamo camminare liberamente nella medìna. Quindi si poteva essere potenti,e al tempo stesso prigionieri di un confine.

Nondimeno, i soldati francesi, che spesso, sulle loro postazioni, parevanotanto giovani, soli e spaventati, incutevano terrore all'intera medìna: avevano ilpotere ed erano in condizioni di farci del male.

Mia Madre mi raccontò che un giorno, nel gennaio del 1944, il re MuhammadV, sostenuto dai nazionalisti di tutto il Marocco, andò dal capo amministratorecoloniale francese, il Résident Général, per porgergli formalmente una domandad'indipendenza. Il Résident Général ne fu sconvolto. Come osate voi marocchinichiedere l'indipendenza! deve aver gridato, e, per punirci, comandò ai soldati diattaccare la medìna. I carri armati si aprirono una strada e si spinsero fra le viuzzetortuose fin dove poterono arrivare. Il popolo rivolse preghiere in direzione dellaMecca.

Migliaia di uomini recitarono la «preghiera dell'ansia», che consiste in una

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singola parola ripetuta per ore ed ore, quando ci si trova a fronteggiare unacatastrofe: Yà Latìf, Yà Latìf, Yà Latìf! (Oh tu, il benevolo). Latìf è uno dei centoappellativi di Allàh, il più bello di tutti, secondo la zia Habìba, perché Lo descrivecome fonte di tenera compassione, che sente il dolore umano e viene in soccorso.Ma i soldati francesi armati e intrappolati nelle stradine tortuose, circondati daicanti di Yà Latìf ripetuto per migliaia di volte, si innervosirono e persero ilcontrollo. Cominciarono a sparare sulla folla che pregava e, nel giro di pochiminuti, i cadaveri caddero uno sull'altro proprio sulla soglia della moschea,mentre, all'interno continuavano i canti. Mia Madre dice che, a quel tempo, io eSamìr avevamo appena quattro anni e nessuno si era accorto che stavamoguardando fuori dal portone, mentre tutti quei cadaveri intrisi di sangue, vestiticon la jallàbiyya bianca, la veste rituale per la preghiera, venivano riportati alleloro case. «Per molti mesi, tu e Samìr avete avuto incubi», diceva mia madre, «enon potevate più vedere il colore rosso senza correre a nascondervi.

Abbiamo dovuto portarvi al santuario di Mawlày Idrìs molti venerdì di seguito,perché gli sharìf (uomini sacri) vi proteggessero dal male grazie ai loro rituali, e iodovetti mettere un amuleto coramco sotto il tuo cuscino per un anno intero,prima che tu tornassi a dormire normalmente». Dopo quel tragico giorno, ifrancesi cominciarono ad andarsene sempre in giro con le armi bene in vista,mentre mio padre dovette rivolgersi a molte conoscenze per avere il permesso ditenere il suo fucile da caccia - permesso che gli fu accordato solo a patto chequando non era nella foresta, tenesse l'arma sotto chiave.

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Mi sentivo smarrita di fronte a questi eventi, e ne parlavo spesso con Jasmìna,la mia nonna materna, che abitava in una bella fattoria tra vacche e pecore eimmensi pascoli in fiore, un centinaio di chilometri più a ovest, tra Fez el'Oceano. Le facevamo visita una volta all'anno, e io le raccontavo di confini,paure e differenze, e del perché di tutto questo.

Jasmìna sapeva molto sulla paura, su tutti i tipi di paura.«Io sono un'esperta della paura, Fatima», diceva, accarezzandomi la fronte,

mentre giocavo con le sue perle e le perline di vetro rosa. «E quando sarai piùgrande, ti dirò alcune cose. Ti insegnerò a superare le paure».

Spesso, le prime notti in cui mi trovavo alla fattoria di Jasmìna, non miriusciva di prender sonno: i confini non erano abbastanza definiti. Non sivedevano da nessuna parte dei portoni chiusi, ma solo campi aperti, piatti esconfinati, dove i fiori crescevano e gli animali pascolavano in pace.

Ma Jasmìna mi spiegava che la fattoria era parte della terra originaria di Allàh,che era senza frontiere, solo vasti campi aperti senza confini né limiti, e che nondovevo averne paura. Ma come potevo andarmene in giro in aperta campagnasenza essere aggredita? chiedevo continuamente. E allora per aiutarmi a prenderesonno Jasmìna inventò un gioco che mi piaceva tanto, un gioco che si chiamavamshiya fi lkhalà' (la passeggiata in aperta campagna). Mentre ero distesa, lei miteneva stretta, e io mi aggrappavo con tutte e due le mani alle sue perline di vetro,chiudevo gli occhi, e mi immaginavo di camminare in un campo di fiori infinito.

«Cammina piano», mi diceva Jasmìna, «così puoi sentire il canto dei fiori.

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Senti, sussurrano salàm, salàm (pace, pace)». Io ripetevo il ritornello dei fiori piùveloce che potevo tutti i pericoli scomparivano, e cadevo addormentata. «Salàm,salàm», mormoravo, con i fiori e con Jasmìna. Subito dopo, era mattina, e mirisvegliavo nel grande letto di ottone di Jasmìna, con le mani piene delle sue perlee perline rosa. Da fuori giungeva la musica delle brezze che sfioravano le foglie edegli uccelli che si parlavano tra loro, e in vista non c'era nessuno tranne reFarùq, il pavone, e Tharwa, la grassa oca bianca.

Veramente, Tharwa era anche il nome di una delle mogli di mio nonno, quellache Jasmìna più detestava, ma io potevo chiamare quella donna Tharwa solo nelsilenzio dei miei pensieri. Quando dicevo il suo nome ad alta voce, dovevo direLàlla Thawr. Làlla, dalle nostre parti, è il titolo di rispetto per le donne di unacerta posizione, come Sìdì è titolo di rispetto per tutti gli uomini importanti.

Essendo una bambina, dovevo chiamare tutti gli adulti importanti Làlla e Sìdì,e baciar loro la mano al tramonto, quando le luci venivano accese e si dicevamsà'kum (buona sera). Ogni sera, io e Samìr dovevamo baciare la mano a tuttiquanti: lo facevamo il più velocemente possibile, così da poter tornare ai nostrigiochi senza udire l'odioso commento: «La tradizione si va perdendo».

Eravamo diventati così bravi, che riuscivamo a sbrigare quel rituale a unavelocità incredibile, ma qualche volta andavamo così di fretta che finivamo perinciampare l'uno sull'altro, cadendo addosso alle persone che dovevamo riverire,o rovinando miseramente sul tappeto. Allora tutti scoppiavano a ridere. Lamamma rideva fino a farsi venire le lacrime agli occhi. «Poveri cari», diceva,

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«sono già stanchi di baciare mani, e sono solo all'inizio». Ma Làlla Tharwa allafattoria, proprio come Làlla Mani a Fez, non rideva mai: era sempre seria,inappuntabile, formale. In qualità di prima moglie di nonno Tàzì, godeva di unaposizione molto privilegiata in seno alla famiglia. In più, non le toccavanofaccende domestiche ed era molto ricca: due privilegi che Jasmìna non potevasoffrire. «Non mi importa quanto è ricca quella donna», diceva, «deve darsi dafare come ognuna di noi. Siamo o non siamo musulmani? Se lo siamo, allora tuttisono uguali. Lo ha detto Allàh e lo ha confermato il suo Profeta».

Jasmìna mi diceva di non accettare mai l'ineguaglianza, perché è contro ognilogica. Era per questo motivo che aveva dato il nome di Làlla Tharwa alla suagrassa oca bianca.

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CAPITOLO 4

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JASMINA E LA PRIMA CONSORTE

Quando Làlla Tharwa venne a sapere che Jasmìna aveva dato il suo nome a

un'oca, si ritenne oltraggiata. Convocò il Nonno Tàzì nel suo salone - che, per laverità, era un palazzo indipendente, con tanto di giardino interno, una grandefontana e una splendida vetrata veneziana che occupava una parete di dieci metri.Il Nonno ci andò con riluttanza, trascinando i passi e tenendo in mano una copiadel Corano, tanto per far vedere che era stato interrotto nella sua lettura.Indossava i soliti ampi pantaloni bianchi di cotone, il suo qamìs di chiffon biancoe la farajìyya, più le babbucce di cuoio giallo. (5) La jallàbiyya, in casa, non lametteva mai, eccezion fatta per i giorni di visite.

Fisicamente, il Nonno aveva il tipico aspetto della gente del nord, dato che lasua famiglia era originaria del Rìf. Era alto e dinoccolato, con un volto spigoloso,la pelle chiara, e un'aria molto distante e altezzosa. La gente del Rìf è fiera e dipoche parole, e il Nonno detestava che le sue mogli piantassero liti e discussionid'ogni sorta. Una volta, Jasmìna provocò due dispute nel giro di un mese, e ilNonno le tolse la parola per un anno intero, lasciando la stanza ogni volta che leivi entrava. Dopo quell'episodio, Jasmìna non poté permettersi più di una lite ogni

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tre anni. Questa volta si trattava dell'oca, e tutta la fattoria era in stato di allerta.Prima di affrontare l'argomento, Làlla Thanva offrì al Nonno un po' di tè. Quindiminacciò di lasciarlo se il nome dell'oca non fosse stato immediatamentecambiato. Si era alla vigilia di un'importante festa religiosa, e Làlla Tharwa eratutta in tiro: tanto per rammentare a tutti il suo status di privilegiata, indossava latiara e il leggendario caffettano a ricami di perle vere e granati. Ma il Nonno eraevidentemente divertito da tutta la faccenda, perché quando venne fuoril'argomento oca, si mise a sorridere. Aveva sempre pensato che Jasmìna fosse unpo' eccentrica, e in verità gli ci erano voluti degli anni per abituarsi a certi suoicomportamenti, come quella di arrampicarsi sugli alberi e starsene lì appesa perdelle ore- e di convincere, a volte, le altre mogli a raggiungerla là in cima, facendoservire il tè alle signore sedute in mezzo ai rami. Ma quello che la salvava in ognifrangente, era il dono che Jasmìna aveva di far ridere mio Nonno: impresa non dapoco, dato che Sìdì Tàzì era un tipo piuttosto intrattabile.

Ora, in mezzo al lusso del salotto di Làlla Tharwa, il Nonno le suggerìtimidamente di rendere pan per focaccia e di chiamare Jasmìna il suo cane, cheera alquanto brutto «Questo costringerebbe la ribelle a cambiar nome all'oca».

Ma Làlla Tharwa non era in vena di scherzi. «Quella donna ti ha proprio fattoun incantesimo», gridò, «se oggi gliela fai passare liscia, domani comprerà unasino e lo chiamerà Sìdì Tàzì. Non ha nessun rispetto per le gerarchie. É unapiantagrane, come tutti quelli che vengono dai monti dell'Atlante, e sta portandoil caos in questa casa onorata. O lei dà a quell'oca un altro nome, o io me ne vado

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di qui. Non capisco l'influenza che ha su di te. Non è nemmeno bella - tutta seccae lunga che pare una brutta giraffa».

Che Jasmìna non rispondesse ai canoni estetici del suo tempo, è la pura verità.Làlla Tharwa, dal canto suo, di quei canoni era la perfetta incarnazione: aveva lapelle chiarissima, la faccia tonda da luna piena, e un bel po' di carne addosso,specialmente in corrispondenza di fianchi, glutei e petto. Jasmìna, al contrario,aveva l'incarnato bruno, abbronzato, dei montanari, il viso lungo con zigomiincredibilmente alti, e pochissimo seno. Era alta almeno un metro e ottanta, quasiquanto il Nonno, e aveva le gambe più lunghe che si fossero mai viste, ragion percui era bravissima ad arrampicarsi sugli alberi e ad esibirsi in ogni sorta diacrobazie. Ma, sotto il caffettano, le sue gambe avevano l'aspetto di due stecchi.Per camuffarle, la nonna si era cucita un enorme paio di sarwàl, o pantaloni daharem, con molte pieghe. In più, aveva tagliato due lunghi spacchi ai lati delcaffettano per darsi un po' di volume. Sulle prime, Làlla Tharwa cercò di far rideretutti delle vesti innovative di Jasmìna, ma ben presto anche le altre donne dellacasa si misero a imitare la ribelle, perché i caffettani così accorciati e con glispacchi laterali davano loro molta più libertà di movimento. Quando il nonnoandò da Jasmìna a lamentarsi per la faccenda dell'oca, lei non si dimostrò moltocomprensiva. E se anche Làlla Tharwa se ne fosse andata? disse; lui, certo, non sisarebbe sentito solo. «Ti resterebbero sempre otto concubine, per prendersi curadi te!». Allora il Nonno provò a corrompere Jasmìna offrendole un grossobracciale d'argento di Tiznit, in cambio del quale avrebbe dovuto prendere l'oca

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della discordia e farci un bel cuscùs. Jasmìna si tenne il bracciale, e disse almarito che voleva un po' di giorni per pensarci su. Poi, il venerdì successivo, tornòsulla faccenda con una controproposta. Proprio perché l'aveva chiamata LàllaTharwa, non poteva uccidere l'oca: non sarebbe stato di buon augurio! Tuttavia,propose, non l'avrebbe mai chiamata per nome in pubblico; lo avrebbe fatto solonella mente. Da allora in poi, venni istruita a fare lo stesso, e faticai non poco atenere per me il nome dell'oca.

Poi, ci fu la storia di re Farùq, il pavone di casa. Chi mai darebbe a un pavone ilnome del famoso sovrano d'Egitto?

Cosa aveva a che fare, il faraone, con quella fattoria? Vedete, Jasmìna e le altremogli di mio Nonno non avevano in simpatia il re egiziano, per il semplice motivoche minacciava continuamente di ripudiare la sua amabile consorte, laprincipessa Farìda (dalla quale, alla fine, divorziò nel gennaio del 1948). Ora, checosa aveva portato la coppia a questo impasse? Quale imperdonabile delitto avevacommesso la donna? É presto detto: aveva partorito tre figlie femmine, nessunadelle quali avrebbe potuto accedere al trono.

Secondo la legge islamica, una donna non può governare un paese - anche sequalche secolo prima era accaduto, diceva la nonna. Con l'aiuto dell'esercito turco,Shajarat alDurr era salita sul trono d'Egitto dopo la morte di suo marito, il sultanoal-Sàlih: era una concubina, una schiava di origine turca, e rimase al potere perquattro mesi, governando né meglio né peggio dei suoi predecessori e successorimaschi. (6) Ma, ovviamente, non tutte le donne musulmane sono astute e crudeli

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come Shajarat al-Durr. Per dirne una, quando il secondo marito di Shajarat al-Durr decise di prendere una seconda moglie, lei aspettò che andasse nelhammàm, cioè nel bagno, a rilassarsi, e poi "si dimenticò" di aprirgli la porta. Ilcalore e il vapore eccessivi, com'era prevedibile, causarono la morte delmalcapitato. Ma la povera Farìda non era dotata di tanta efferatezza, e non eracapace di manovrare nei circoli dei potenti, né di difendere i suoi diritti a palazzo.Era di origini molto modeste; in un certo senso era un'indifesa, motivo per cui ledonne della fattoria, di povere origini come lei, l'amavano e soffrivano per le sueumiliazioni- Non c'è niente di più umiliante, per una donna, che venire cacciata dicasa, diceva Jasmìna.

«Sciò! Fuori! In mezzo alla strada, come un gatto randagio.Vi sembra un modo decente di trattare una donna?».Inoltre, aggiungeva Jasmìna, re Farùq, eccelso e potente com'era, non doveva

saperne gran che su come si fanno i bambini. «Se ne fosse al corrente»,affermava, «saprebbe anche che sua moglie non ha nessuna colpa se non le nasceun maschio. Bisogna essere in due, per fare un figlio».

E su questo, aveva proprio ragione - io lo sapevo. Per fare un bambino, lasposa e lo sposo devono mettersi dei bei vestiti, dei fiori nei capelli, e dormireinsieme in un letto molto grande. E dopo, tutto quello che sapevo era che, moltemattine più tardi, in mezzo a loro, a carponi, camminava un bel bimbetto. Lafattoria si teneva sempre aggiornata sui capricci coniugali di re Farùq tramiteRadio Cairo, e la condanna di Jasmìna giungeva rapida e senza appello. «Che

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razza di buon capo musulmano è», diceva, «uno che ripudia la moglie solo perchénon gli fa un figlio maschio? Il Corano dice che soltanto Allàh è responsabile delsesso dei bambini. Se Il Cairo fosse una città musulmana come si deve, re Farùqverrebbe deposto dal trono! Povera, dolce principessa Farìda! Sacrificata per puraignoranza e vanità. Gli egiziani dovrebbero ripudiare il loro re».

E fu così che il pavone della fattoria venne chiamato re Farùq. Ma secondannare sovrani era cosa semplice per Jasmìna, avere a che fare con quellapotente rivale era un altro paio di maniche, anche dopo averla spuntata con lastoria del nome dell'oca.

Làlla Tharwa era davvero potente, ed era l'unica fra le mogli di Sìdì Tàzì chefosse di nobili origini e nata in città.

Anche lei faceva Tàzì di cognome, ed era una cugina del nonno; aveva portatoin dote una tiara di smeraldi, zaffiri e perle grigie che veniva custodita in unagrossa cassaforte all'angolo destro del salone degli uomini. Ma Jasmìna, che,come tutte le altre mogli, era di modeste origini rurali, non si lasciava intimidire.«Non riesco a considerare superiore qualcuno solo perché possiede una tiara»,diceva. «E poi, ricca com'è, anche lei sta rinchiusa in un harem, proprio comeme». Io chiedevo a nonna Jasmìna cosa voleva dire essere rinchiusa in un harem,e lei mi dava ogni volta una risposta diversa, il che naturalmente non faceva checonfondermi.

A volte diceva che stare rinchiusa in un harem voleva dire semplicemente cheuna donna aveva perduto la libertà di movimento. Altre volte diceva che un harem

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significava disgrazia, perché una donna doveva dividere il marito con molte altre.Jasmìna stessa doveva dividere il nonno con otto concubine, il che significava cheper otto notti doveva dormire da sola, prima di poter abbracciare e stringere ilmarito, quando veniva il suo turno. «E abbracciare e stringere il marito è una cosameravigliosa», diceva. (7) «Sono felice quando penso che la tua generazione nondovrà più dividere i mariti».

I nazionalisti che combattevano i francesi avevano promesso di creare unnuovo Marocco, dove l'uguaglianza fosse garantita a tutti. Ogni donna avrebbeavuto diritto all'istruzione al pari degli uomini, come pure il diritto allamonogamia - un rapporto esclusivo e privilegiato col proprio marito. Di fatto,molti leader nazionalisti e i loro seguaci di Fez avevano ormai una mogliesoltanto, e guardavano dall'alto in basso chi ne aveva più d'una. Papà e lo zio, checondividevano le idee nazionaliste, avevano solo una moglie a testa.

Un'altra istituzione combattuta dai nazionalisti era la schiavitù, che all'iniziodel secolo, sebbene i francesi l'avessero messa al bando, era ancora molto diffusain Marocco. Stando ai racconti di nonna Jasmìna, molte donne del suo haremerano state comprate al mercato degli schiavi. (Anche lei era dell'idea che tutti gliesseri umani fossero uguali, a prescindere dalla ricchezza, dal luogo diprovenienza e dal posto occupato nella gerarchia, nonché dalla lingua e dallareligione. Se uno aveva due occhi, un naso, due gambe e due mani, allora erauguale a chiunque altro. Io le ricordavo che, contando le zampe anteriori di uncane come mani, anche lui sarebbe stato uguale a noi, e lei rispondeva

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prontamente: «Ma certo che è uguale a noi! Gli animali sono come noi; l'unicacosa che non hanno è la parola!»).

Fra le donne di mio Nonno che erano state schiave, alcune venivano da terrelontane, come il Sudan, ma altre erano state rapite alle loro famiglie proprio inMarocco, durante il caos che seguì l'arrivo dei francesi nel 1912. Quando ilMakhzan, ossia lo Stato, non esprime la volontà del popolo, diceva Jasmìna, ledonne pagano sempre un alto prezzo, perché si instaura un clima di violenza e diinsicurezza. Fu esattamente quel che accadde allora. Il Makhzan e i suoifunzionari, incapaci di affrontare le armate francesi, firmarono il trattato checonferiva alla Francia il diritto di governare il Marocco come un protettorato, mail popolo rifiutò di arrendersi. Sui monti e nei deserti iniziò la resistenza, e laguerra civile si insinuò nel paese.

«C'erano degli eroi», raccontava Jasmìna, «ma c'erano anche briganti d'ognirisma, armati fino ai denti, che spuntavano dappertutto. I primi si battevanocontro i francesi, e gli altri, invece, derubavano la gente. A sud, ai confini delSahara, c'erano eroi come Al-Hiba, e più tardi suo fratello, che resistettero fino al1934. Dalle mie parti, sull'Atlante, il fiero Mohà u Hamùd Zayyànì riuscì a tenerea bada l'esercito francese fino al 1920. A nord, il principe dei combattenti,'Abdelkarìm, diede molto filo da torcere a francesi e inglesi, finché questi siallearono contro di lui e solo così riuscirono a batterlo, nel 1926. Ma è vero ancheche, durante tutto questo scompiglio, le bambine venivano portate via dallefamiglie povere delle montagne e vendute agli uomini ricchi delle grandi città. Era

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una pratica molto diffusa. Tuo Nonno era un brav'uomo, però anche lui hacomprato delle schiave. A quel tempo era la cosa più normale. Ora è cambiato e,come molti notabili della città, appoggia gli ideali dei nazionalisti, compresi ilrispetto della persona, la monogamia, l'abolizione della schiavitù, e tutte questebelle cose.

Eppure, stranamente, tutte noi mogli ci sentiamo più vicine che mai, anche sele schiave di un tempo hanno cercato di rintracciare e contattare le loro famiglied'origine. Ci sentiamo come sorelle; la nostra vera famiglia è quella che ci siamocostruite intorno a tuo Nonno. Potrei anche cambiare idea su Làlla Tharwa, se lasmettesse di guardarci tutte dall'alto in basso perché non abbiamo tiare».

Chiamare la sua oca Làlla Tharwa era per Jasmìna un modo di contribuire allacreazione di un nuovo Marocco, quel Marocco in cui io, sua nipote, avrei vissuto.«Il Marocco sta cambiando alla svelta, bambina», mi diceva spesso, «e continueràa cambiare». Quella predizione mi faceva sentire molto felice. Io sarei cresciuta inuno splendido reame, dove le donne avrebbero avuto dei diritti, e la libertà diabbracciarsi e stringersi al marito tutte le notti.

Tuttavia, sebbene Jasmìna si lamentasse di dover aspettare otto notti peravere suo marito tutto per sé, aggiungeva che non era il caso di lagnarsi troppo,perché le concubine di Harùn al-Rashìd, il califfo abbaside di Baghdàd, dovevanoattendere novecentonovantanove notti ciascuna, poiché Harùn aveva un migliaiodi jàriya, giovani schiave. «Aspettare novecentonovantanove notti», diceva, «nonè come aspettarne otto. Sono quasi tre anni! Perciò le cose si stanno mettendo

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meglio. Fra poco avremo un uomo, una moglie. (8)Andiamo a dar da mangiare agli uccelli. Più tardi avremo un sacco di occasioni

per parlare di harem».Quindi, correvamo in giardino a dare da mangiare agli uccelli. (5) Negli anni Quaranta, in Marocco, uomini e donne di città vestivano quasi

allo stesso modo, con tre capi di vestiario sovrapposti. Il primo capo, il qamìs, eramolto morbido, in fibra naturale, ossia cotone o seta. Il secondo, il caffettano, eradi lana pesante e si smetteva in primavera, quando cominciava a far più caldo. Ilterzo, quello più esterno, era la farajìyya una veste leggera, spesso trasparente,con due spacchi laterali, da indossare sul caffetano. Quando uomini e donneuscivano in pubblico, aggiungevano al vestiario un quarto capo, la jallàbiyya, cheera una veste lunga e molto ampia. Negli anni Cinquanta, con l'indipendenza, ilmodo di vestire in Marocco subì una rivoluzione. Per prima cosa, sia uomini chedonne cominciarono a vestire all'occidentale in varie occasioni. Poi, lo stessoabito tradizionale fu trasformato e adattato ai tempi moderni. Era iniziata l'eradell'abito innovativo e personalizzato, e oggi, osservando una via di unaqualunque città marocchina, non si notano due persone vestite allo stesso modo.Uomini e donne prendono in prestito l'uno dall'altro, e dal resto dell'Africa, comedall'Occidente. Per esempio, i colori brillanti, che un tempo erano prerogativaesclusivamente femminile, ora sono portati anche dagli uomini. Le donne simettono la jallàbiyya maschile e gli uomini indossano i bubùs femminili quelle

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ampie vesti fluttuanti e ricamate che vengono dal Senegal e da altri paesidell'Islàm nero. E le giovani marocchine sono arrivate a inventare delle ineditemini-Jallàbiyya, molto sexy, ispirate a creazioni di stilisti italiani.

(6) Shajarat al-Durr prese il potere nell'anno 648 del calendario islamico

(1250-d.C.)(7) A questo punto, sarà forse utile introdurre una distinzione fra due tipi di

harem: i primi li chiameremo harem imperiali, e i secondi harem domestici. Iprimi fiorirono con le conquiste territoriali e l'accumularsi di ricchezza da partedelle dinastie imperiali musulmane, a partire dagli Omayyadi, una dinastia arabadel settimo secolo stabilitasi a Damasco, per finire con gli Ottomani, la dinastiaturca che minacciò le capitali europee dal sedicesimo secolo fino al 1909, quandol'ultimo sultano, 'Abdelhamìd II, venne deposto dalle potenze occidentali e il suoharem fu smantellato. Chiameremo harem domestici quelli che continuarono aesistere dopo il 1909, quando i musulmani persero il potere e le loro terre furonooccupate e colonizzate. Gli harem domestici erano in pratica delle famiglieallargate, come quella-descritta in questo libro, senza schiavi e senza eunuchi, espesso con coppie monogamiche, dove tuttavia sopravviveva l'usanza dellareclusione femminile. É l'harem imperiale ottomano che ha esercitatosull'Occidente un fascino quasi ossessivo. É questo harem turco che ha ispiratocentinaia di dipinti orientalisti del diciottesimo, diciannovesimo e ventesimosecolo, come il famoso Bagno turco (1862) dilngres, o le Donne turche al bagno di

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Delacroix (1854), o Nel giardino del Bey di John Frederick Lewis (1865). Gliharem imperiali, ovvero, quegli splendidi palazzi pieni di donne sontuosamentevestite e reclinate in pose lascive e indolenti, con schiavi sempre pronti e eunuchia guardia dei cancelli, esistevano quando l'imperatore, il suo visir, i generali, gliesattori delle tasse etc. avevano influenza e denaro sufficienti a comprarecentinaia e a volte migliaia di schiavi dai territori conquistati, e quindi provvederealle ingenti spese di gestione domestica. Per quale motivo l'harem imperialeottomano ebbe un simile impatto sull'immaginario occidentale? Una ragionepotrebbe essere la spettacolare conquista ottomana di Costantinopoli, la capitalebizantina, nel 1453, e la conseguente occupazione di molte città europee, comeanche il fatto che gli ottomani erano i vicini più prossimi e più pericolosidell'Occidente. Per contrasto, gli harem domestici, cioè quelli che seguitarono aesistere nel mondo islamico dopo la colonizzazione occidentale, sono piuttostonoiosi, perché hanno una forte connotazione borghese e, come ho detto prima,sono poco più di una famiglia allargata, con quasi nessuna dimensione eroticadegna di nota. In questi harem domestici, un uomo, i suoi figli e le loro moglivivono nella stessa casa, uniscono le risorse, ed esigono che le donne non escanofuori. Come nel caso dell'harem che ha ispirato le storie di questo libro, gliuomini non hanno necessariamente molte mogli. Ciò che definisce un haremcome tale non è la poligamia, ma il desiderio degli uomini di tenere le donnerecluse, e il loro ostinarsi a vivere tutti nella stessa casa, invece di formare deinuclei familiari separati.

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(8) Nei fatti, la legge non è mai stata cambiata. Oggi, a distanza di quasi mezzosecolo, le donne musulmane si stanno ancora battendo perché la poligamia vengabandita. Ma i legislatori, tutti uomini, dicono che è una legge della shari'a, unalegge religiosa, e non può essere cambiata. Nell'estate del 1992, un'associazione didonne marocchine (L'Union d'Action Feminine, la cui presidente, Latìfa Jbabdi, egiornalista e brillante sociologa), rea di aver raccolto un milione di firme contro lapoligamia e il divorzio, divenne il bersaglio della stampa fondamentalista, chepubblicò una fatwa, (un parere legale dato da un esperto in materia religiosaislamica), invocando l'esecuzione di quelle donne in quanto eretiche. Davvero, sipuò ben dire che il mondo musulmano è regredito dai tempi di mia nonna,quando si parla di condizione femminile. La difesa della poligamia e del divorzio,da parte della stampa fondamentalista, è in realtà un attacco al diritto delle donnea prender parte al processo legislativo. La maggior parte dei governi islamici,anche quelli che si dicono moderni e le loro opposizioni integraliste, mantengonola poligamia nei codici di diritto di famiglia, non perché sia particolarmentediffusa, ma perché vogliono dimostrare alle donne che le loro esigenze non hannoil minimo peso. La legge non è lì per servirle, né per garantire loro sicurezzaemotiva e diritto alla felicità. L'idea prevalente è che le donne e la legge nonabbiano a che vedere tra loro le donne devono accettare la legge degli uomini,perché non possono cambiarla. La soppressione del diritto maschile allapoligamia starebbe a significare che le donne hanno voce in capitolo nel processolegislativo, che la società non è governata da e per i capricci degli uomini.

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L'atteggiamento dei governi islamici nella questione della poligamia è un buonindice di come accolgono le idee democratiche. E su questa base, vedremo chesono molto pochi i paesi islamici al passo coi tempi in materia di diritti umani. LaTurchia e la Tunisia sono i più avanzati.

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CAPITOLO 5

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SHAMA E IL CALIFFO

«Cos'è esattamente un harem?» non era il tipo di domanda a cui gli adulti

rispondessero volentieri. Eppure insistevano sempre con noi bambini perchéusassimo parole esatte. Ogni parola, ci dicevano continuamente, ha un significatospecifico, e va usata solo per quel significato e per nessun altro. Tuttavia, se avessiavuto un'alternativa, avrei usato due termini diversi per l'harem di nonnaJasmìna e per il nostro, tanto differivano l'uno dall'altro. L'harem di Jasmìna erauna fattoria aperta, senza mura in vista. Il nostro harem di Fez, al contrario, erauna specie di fortezza. Jasmìna e le altre sue compagne potevano cavalcare,nuotare nel fiume, pescare pesci e arrostirli su fuochi all'aperto. Mia madre,invece, non poteva fare un passo fuori dal portone senza chiedere una serieinterminabile di permessi, e anche allora, tutto ciò che era autorizzata a fareerano le visite al santuario di Mawlày Idrìs (il santo patrono della città) e a suofratello che abitava proprio sulla nostra via; tutt'al più, poteva recarsi a una festareligiosa. Senza contare che la povera mamma doveva sempre essereaccompagnata da altre donne di famiglia, e da uno dei miei cugini maschi. Così,per me non aveva senso usare lo stesso termine per la situazione di mia nonna e

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per quella di mia madre.Ma ad ogni mio tentativo di saperne di più sul termine "harem", seguivano

amare discussioni. Bastava soltanto pronunciare la parola, per sentir volareosservazioni sgarbate. Io e Samìr discutemmo l'argomento, e arrivammo allaconclusione che, se le parole in generale erano pericolose, il termine "harem"doveva essere particolarmente esplosivo.

Ogni volta che qualcuno aveva voglia di scatenare un putiferio nel cortile,tutto quello che doveva fare era preparare del tè, invitare due o tre persone asedersi, lasciar cadere la parola "harem", e aspettare mezz'ora o giù di lì: ed eccodelle signore eleganti e posate, avvolte in ampie vesti di seta ricamata, con ai piedibabbucce bellissime tempestate di perle, trasformarsi d'un tratto in furiescatenate. Io e Samìr decidemmo quindi che, in qualità di bambini, era nostrodovere proteggere gli adulti da se stessi. Avremmo usato la parola "harem" conmolta parsimonia, e raccolto con discrezione, cioè osservando e basta, leinformazioni che volevamo.

Gli adulti si dividevano in quelli a favore dell'harem e quelli contro. NonnaLàlla Mànì e la madre di Shàma, Làlla Ràdiya, appartenevano al partito pro-harem; mia madre, Shàma, e la zia Habìba erano del partito anti-harem. Spesso ladiscussione veniva aperta da nonna Làlla Mànì, la quale sosteneva che se ledonne non fossero state separate dagli uomini, la società si sarebbe fermata enessuno avrebbe più lavorato. «Se le donne fossero libere di andarsene per lastrada», diceva, «gli uomini smetterebbero di lavorare perché vorrebbero

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divertirsi». E purtroppo, continuava, il divertimento non aiuta la società aprodurre cibo e merci che servono alla sopravvivenza. Così, se si voleva evitare lacarestia, le donne dovevano stare al loro posto, ovvero in casa.

Più tardi, io e Samìr tenemmo un lungo consulto sulla parola "divertimento" edecidemmo che, quando veniva usata dagli adulti, doveva avere a che fare con ilsesso. Però volevamo esserne assolutamente sicuri, e così ponemmo la questionea mia cugina Malika. Lei disse che avevamo assolutamente ragione. Allora,dandoci il più possibile un'aria da grandi, le chiedemmo: «E cos'è il sesso,secondo te?».

Non che non lo sapessimo, solo che volevamo esserne sicuri. Ma Malika,credendo che non ne sapessimo nulla, buttò le trecce indietro con fare solenne, sisedette sul divano, si mise un cuscino in grembo come fanno gli adulti quandodevono riflettere, e disse lentamente: «La prima notte di nozze, quando tuttivanno a dormire, gli sposi se ne stanno da soli in camera da letto. Lo sposo fasedere la sposa sul letto, si tengono per mano, e lui cerca di farsi guardare negliocchi da lei. Ma la sposa resiste, tiene gli occhi bassi. Questo è molto importante.La sposa è molto timida e spaventata.

Lo sposo dice una poesia. La sposa ascolta con gli occhi incollati al pavimento,e alla fine sorride. Allora lui la bacia sulla fronte. Lei tiene sempre gli occhi bassi.Lui le offre una tazza di tè. E lei incomincia a berlo, lentamente. Lui le toglie latazza di mano, le si siede accanto, e la bacia».

Malika, che giocava spudoratamente con la nostra curiosità, decise di fare una

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pausa proprio sul bacio, sapendo che io e Samìr morivamo dalla voglia di saperese lo sposo baciava davvero la sposa. Baci sulla fronte, sulle guance e sulla manonon erano niente di insolito, ma sulla bocca era tutta un'altra storia. Tuttavia,decisi a dare una lezione a Malika, non tradimmo la minima curiosità ecominciammo a bisbigliare tra noi, dimentichi della sua esistenza. Qualche giornoprima, la zia Habìba ci aveva detto che mostrare totale disinteresse quandoqualcuno parla era, per i deboli, un modo efficace di acquisire potere: «Parlarequando gli altri ti ascoltano è già un'espressione di potere. Ma anche chi ascolta insilenzio e a prima vista può sembrare passivo, ha in realtà un ruolo estremamentestrategico, quello dell'uditorio. Che succede se il potente oratore perde il suouditorio?».

E infatti, Malika immediatamente riprese la sua dissertazione su quel cheaccade la prima notte di nozze. «Lo sposo bacia la sposa sulla bocca. E poigiacciono insieme nel talamo nuziale senza nessuno che guardi». Dopo di che,non facemmo più domande. Il resto lo sapevamo. L'uomo e la donna si tolgono ivestiti, chiudono gli occhi, e dopo qualche mese arriva un bambino.

L'harem rende impossibile a donne e uomini il fatto di vedersi reciprocamentee, in questo modo, ognuno procede con i suoi doveri. Mentre Làlla Mànì tessevale lodi della vita nell'harem, la zia Habìba fumava di rabbia; si vedeva benissimodal modo in cui si aggiustava in continuazione il turbante, anche se non le si stavadisfacendo. In quanto divorziata, però, non poteva contraddire apertamente LàllaMànì, così si limitava a mormorare le sue obiezioni tra sé e sé, lasciando a mia

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madre e a Shàma il compito di dare voce al dissenso. Solo a chi aveva potere eraconcesso di correggere apertamente il prossimo e contraddire le opinioni altrui.Una donna divorziata non aveva una vera casa, e doveva far accettare la suapresenza facendosi notare il meno possibile. La zia Habìba, ad esempio, nonindossava mai colori vivaci, anche se a volte manifestava il desiderio di indossareancora una volta la sua farajìyya di seta rossa cosa che non fece mai. Di solitoportava colori grigi slavati o beige, e come trucco usava solo il kohl intorno agliocchi.

«I deboli devono essere disciplinati per evitare le umiliazioni», era solita dire.«Mai lasciare che siano gli altri a ricordarti dei tuoi limiti. Si può essere poveri,ma l'eleganza è sempre alla portata di tutti».

Quando mia madre voleva lanciare uno dei suoi attacchi alle idee di LàllaMànì, sedeva sul divano con le gambe ripiegate sotto di sé, drizzava la schiena e simetteva in grembo un cuscino. Poi incrociava le braccia e la guardava dritto negliocchi. «Mia cara suocera», diceva, «i francesi non rinchiudono le loro mogli fraquattro mura. Le lasciano andare libere al sùq (il mercato), tutti si divertono, e illavoro va avanti lo stesso. Va avanti così bene che i francesi si possono permetteredi equipaggiare dei forti eserciti e venire qui a spararci addosso».

Quindi, prima che Làlla Mànì potesse raccogliere le idee per passare alcontrattacco, Shàma presentava la sua teoria sull'origine del primo harem. E,arrivati a questo punto, la faccenda cominciava a farsi seria, perché sia Làlla Mànìche la madre di Shàma cominciavano a gridare che i nostri antenati venivano

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insultati e che le nostre sacre tradizioni erano messe in ridicolo. La teoria diShàma era molto interessante - io e Samìr ne andavamo pazzi - e suonava più omeno così: un tempo gli uomini si combattevano l'un l'altro senza posa, e questoinutile spargimento di sangue arrivò a un punto tale che un giorno, di comuneaccordo, decisero di nominare un sultano che avrebbe avuto il compito diorganizzare tutte le cose, di esercitare la sulta, l'autorità, e di dire agli altri cosadovevano fare. Tutti avrebbero dovuto obbedirgli. «Ma come faremo a sceglieretra noi chi farà il sultano?», si domandavano gli uomini ogni volta che siriunivano a discutere il problema. Rifletterono a lungo e alla fine uno di loro ebbeun'idea. «Il sultano deve avere qualcosa che gli altri non hanno», disse.Rifletterono un altro po', e poi un altro uomo ebbe un'altra idea. «Potremmoorganizzare una caccia alle donne», suggerì, «e l'uomo che prenderà il maggiornumero di donne, verrà nominato sultano».

Idea eccellente, concordarono tutti, ma come si farà per provarlo? «Quandocominceremo a correre per la foresta ad acchiappare donne, ci perderemo di vista.Ci serve un modo per bloccare le donne una volta che sono prese, così potremocontarle, e decidere chi è il vincitore». E fu così che nacque l'idea di costruirecase: servivano case, con porte e chiavistelli, per tenerci dentro le donne. Samìrsuggerì che poteva essere più semplice legare le donne agli alberi, visto cheavevano le trecce tanto lunghe, ma Shàma disse che a quei tempi le donne eranomolto robuste, perché correvano nella foresta come gli uomini, e legandone due otre allo stesso albero, c'era il rischio che questo venisse sradicato.

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Inoltre, legare una donna robusta portava via tempo ed energie, senza contareche poteva anche graffiarti la faccia, o darti un calcio in qualche postoinnominabile. Costruire le mura e ficcarci dentro le donne, era molto più pratico.E così fecero gli uomini.

La gara si organizzò in tutto il mondo, e il primo round venne vinto daibizantini. (9) Questi, che erano i peggiori fra tutti i romani, confinavano con gliarabi nel Mediterraneo orientale, dove non perdevano occasione per umiliare iloro vicini. L'imperatore di Bisanzio conquistò il mondo, prese un altissimonumero di donne e le rinchiuse nel suo harem, per dimostrare a tutti che era ilcapo. L'Oriente e l'Occidente si inchinarono a lui. L'Oriente e l'Occidente lotemevano.

Ma poi, col passare dei secoli, anche gli arabi cominciarono a imparare come siconquistano terre e donne. Diventarono bravissimi, e sognarono di poterconquistare anche le terre dei bizantini. Fu il califfo Harùn al-Rashìd che, allafine, ebbe questo privilegio: nell'anno 181 del calendario islamico (798 d.C.),sconfisse l'imperatore romano, e proseguì conquistando altre parti del mondo.Quando ebbe messo insieme un harem da un migliaio di jàriya, o giovani schiave,costruì un grande palazzo a Baghdàd e le chiuse tutte lì dentro, in modo chenessuno potesse dubitare che il Sultano era lui. Gli arabi divennero i sultani delmondo, e misero insieme ancora più donne. Il califfo Al-Mutawakkil ne contòquattromila. Al-Muqtadir alzò la cifra a undicimila.(10)

Tutti ne furono molto colpiti - gli arabi diedero ordini e i romani si

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inchinarono.Ma mentre gli arabi erano occupati a rinchiudere le donne, i romani e gli altri

cristiani unirono le loro forze e decisero di cambiare le regole del potere nelMediterraneo. Collezionare donne, dichiararono, non aveva più importanza.

Da quel giorno, il sultano sarebbe stato quello che riusciva a costruire le armie le macchine da guerra più potenti, comprese armi da fuoco e grandi navi. Soloche i romani e gli altri cristiani decisero di non dire niente agli arabi di questocambiamento delle regole; lo avrebbero tenuto segreto, tanto per far loro unasorpresa. Così gli arabi dormivano sonni tranquilli, credendo di conoscere tutte leregole del gioco del potere.

A questo punto Shàma smetteva di parlare, balzava in piedi e iniziava amimare la storia per me e per Samìr, ignorando del tutto Làlla Mànì e LallaRàdiya che protestavano a gran voce. Intanto la zia Habìba storceva la bocca pernon far vedere che stava sorridendo. Poi Shàma si tirava su il suo qamìs di pizzobianco per liberare le gambe, e saltava su un divano vuoto. Si stendeva come perdormire, seppelliva la testa sotto uno dei grossi cuscini, si metteva i capelli rossisulla faccia lentigginosa e diceva: «Gli arabi stanno dormendo». Quindi chiudevagli occhi e cominciava a russare; ma un attimo dopo tornava a saltar su, siguardava intorno come fosse appena uscita da un sonno profondo, e fissava me eSamìr come se ci vedesse per la prima volta. «Gli arabi, finalmente, si sonosvegliati, giusto qualche settimana fa!», diceva. «Le ossa di Harùn al-Rashìd sonodiventate polvere, e la polvere si è mischiata con la pioggia. La pioggia è corsa giù

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sino al fiume Tigri, e di lì al mare, dove le cose grandi diventano piccole, e siperdono nella furia delle onde. Un re francese regna, ora, su questa parte delmondo.

Il suo titolo è Président de la République Française. Ha un enorme palazzochiamato l'Eliseo, e - udite udite! - ha solo una moglie. Nessun harem, che sisappia. E quell'unica moglie passa il tempo a girare per le strade con una gonnacorta e una profonda scollatura. Tutti possono guardarle il petto e il di dietro, manessuno dubita, neanche per un attimo, che il Presidente della RepubblicaFrancese sia uno degli uomini più potenti del paese. Il potere degli uomini non simisura più dal numero di donne che riescono a imprigionare. Ma questo suonanuovo nella medìna di Fez, perché gli orologi sono ancora fermi al tempo diHarùn alRashìd!»

Poi, Shàma tornava con un balzo sul divano, chiudeva gli occhi, e affondava dinuovo la faccia nel cuscino di seta a fiori. Silenzio. Io e Samìr andavamo matti perquella storia di Shama, perché lei era un'attrice veramente brava! Io la guardavosempre da vicino, per imparare ad accompagnare le parole con i movimenti. Sidovevano usare le parole e, al tempo stesso, bisognava muovere il corpo in unmodo particolare. Ma non tutti erano rapiti come me e Samìr dalla storia diShàma. Sua madre, Làlla Ràdiya, sulle prime era sgomenta, poi offesa, soprattuttoquando Shàma menzionava il califfo Harùn al-Rashìd. Làlla Ràdiya era una donnadi lettere e leggeva libri di storia, cosa che aveva imparato da suo padre, famosaautorità religiosa di Rabàt. Làlla Radiya non amava la gente che si prendeva gioco

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dei califfi, soprattutto quando si trattava di Harùn al-Rashìd. «O Allàh», gridava,«perdona mia figlia che attacca di nuovo i califfi! e che confonde i bambini! duepeccati ugualmente mostruosi. Poveri piccoli, avranno una visione talmentedistorta dei loro antenati, se Shàma persevererà nel suo errore»

Làlla Ràdiya, allora, chiedeva a me e Samìr di sederci vicino a lei, percorreggere la versione della storia e farci amare il califfo Harùn. «Era il principedei califfi», ci diceva, «quello che conquistò Bisanzio e innalzò alta la bandieradell'Islam sulle capitali cristiane». Insisteva anche che sua figlia era del tutto inerrore per quanto riguardava gli harem: erano un'invenzione bellissima. Tutti gliuomini rispettabili provvedono alle loro donne - così che queste non debbanoandare per le strade insicure e piene di pericoli - e danno loro bei palazzi conpavimenti di marmo e fontane, buon cibo, bei vestiti, e gioielli. Che altro occorre auna donna per essere felice? Solo le donne di condizione sociale inferiore, comeLùzà, la moglie di Ahmed il portinaio, hanno bisogno di lavorare fuori di casa perguadagnarsi da vivere. Quelle a cui questo trauma viene risparmiato, sono delleprivilegiate.

Spesso io e Samìr ci sentivano sopraffatti da tutte queste opinionicontraddittorie, e così cercavamo di organizzare un minimo le nostreinformazioni. I grandi erano proprio disordinati! Un harem ha a che fare con gliuomini e le donne - e questo è un fatto. Ha anche a che fare con case, mura estrade - e questo è un altro fatto. Tutto ciò era molto semplice e facile avisualizzarsi: metti quattro mura in mezzo a una strada, e avrai una casa. Poi,

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metti le donne nella casa e lascia gli uomini fuori, e avrai un harem. Ma cosaaccadrebbe, provai a chiedere a Samìr, se mettessimo gli uomini in casa elasciassimo andar fuori le donne? Samìr disse che stavo complicando tutto,proprio quando stavamo arrivando a capirci qualcosa. Così acconsentii a rimetteredentro le donne e fuori gli uomini, e andammo avanti nella nostra inchiesta. Ilproblema era che le mura e tutto il resto funzionavano bene per il nostro haremdi Fez, ma non si adattavano affatto all'harem della fattoria.

(9) Per un divertente scorcio sugli harem dell'Impero Romano, vedi Sarah B.

Pomeroy, Donne in Atene e Roma, trad. di Laura Comoglio, Torino, Einaudi, 1978.(10) La dinastia degli Abbasidi, la seconda dell'impero musulmano, durò

cinquecento anni, dal 132 al 6S6 del calendario islamico (750-12S8 d.C.). Finìquando i Mongoli distrussero Baghdàd e uccisero il califfo. Harùn al-Rashìd fu ilquinto califfo degli Abbasidi; governò tra il 786 e 1'809 d.C. Le sue conquistedivennero leggendarie, e il suo regno è considerato l'apice dell'età d'oromusulmana. Il califfo AI-Mutawakil era il decimo della dinastia (847-86ld.C.), ilcaliffo Al-Muqtadir era il diciannovesimo (908-932 d.C.)

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CAPITOLO 6

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IL CAVALLO DI TAMU

L'edificio che ospitava l'harem della fattoria era molto grande, aveva un solo

piano, la pianta a forma di T, ed era circondato da laghetti e giardini. Il lato destrodella casa era riservato alle donne, quello sinistro agli uomini, e una sottilerecinzione di bambù alta un paio di metri segnava i hudùd (i confini) fra le dueparti della casa. Questa, in realtà, si componeva di due edifici molto simili traloro, costruiti retro su retro, con facciate simmetriche e spaziosi colonnati adarchi che mantenevano freschi i saloni e le stanze più piccole, anche quando fuorifaceva caldo, ed erano perfetti per giocare a nascondino. I bambini della fattoria,molto più spericolati di quelli di Fez, si arrampicavano su quelle colonne a piedinudi, e saltavano giù come piccoli acrobati Inoltre, non avevano paura dei rospi,delle lucertole e degli animaletti volanti che parevano sempre saltarti addossoogni volta che attraversavi il corridoio. Il pavimento era fatto di piastrelle bianchee nere, e le colonne erano decorate con un mosaico la cui rara combinazione digiallo pallido e oro piaceva molto a mio nonno, e che non mi era mai capitato divedere in nessun altro luogo. I giardini erano delimitati da inferriate alte e sottili,in metallo lavorato, con cancelli ad arco che, all'apparenza, erano sempre chiusi,

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ma bastava spingerli per avere immediato accesso ai campi aperti. Il giardinodegli uomini era adorno di pochi alberi e di molte siepi fiorite che tradivano unacura attenta e meticolosa. Il giardino delle donne aveva tutto un altro aspetto: erasovraccarico di alberi strani e piante bizzarre e animali d'ogni genere, perchéognuna delle mogli di mio nonno rivendicava per sé un pezzetto di terreno comeproprio giardino personale, e vi coltivava ortaggi e allevava galline, anatre epavoni. Nel giardino delle donne non si poteva fare una passeggiata senzasconfinare sulla proprietà altrui, e gli animali inseguivano gli intrusi dappertutto,anche sotto i portici del colonnato, facendo un baccano del diavolo, in stridentecontrasto col silenzio monastico che caratterizzava il giardino degli uomini.

All'edificio principale della fattoria, si aggiungeva una serie di padiglioni sparsiun po' dovunque tutto intorno.

Jasmìna viveva in uno di questi padiglioni, a destra della casa. Era un dettagliosu cui aveva molto insistito con il nonno, spiegandogli che doveva stare il piùlontano possibile da Làlla Tharwa. Quest'ultima aveva il suo padiglioneindipendente situato nel complesso principale, con specchi da muro a muro,soffitti decorati in legno intagliato e dipinto, specchiere e candelabri. Il padiglionedi Jasmìna, invece, consisteva in una stanza spaziosa e molto semplice, priva dogni lusso. A lei di questo non importava nulla, fintanto che poteva starsenelontana dall'edificio principale, avere spazio a sufficienza per i suoi esperimenticon alberi e fiori, e allevare ogni sorta di anatre e pavoni.

Il padiglione di Jasmìna aveva anche un secondo piano, costruito

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appositamente per Tàmù, una donna venuta dal nord, fuggita dalla guerra cheinfuriava sui monti del Rìf.

Jasmìna si era presa cura di lei quando era ammalata, e le due donne eranodiventate buone amiche.

Tàmù arrivò nel 1926, dopo la sconfitta di 'Abdelkarìm da parte degli esercitifrancesi e spagnoli. Un bel mattino, quand'era ancora presto, apparve all'orizzontedella bassa piana del Gharb in sella a un cavallo spagnolo, avvolta in un mantellobianco di foggia maschile e con in testa un copricapo femminile, per non farsisparare dai soldati. Tutte le donne dell'harem amavano raccontare del suo arrivoalla fattoria, ed era una storia bella come quelle delle Mille e una notte: anche piùbella, visto che la protagonista era lì presente in carne e ossa, ad ascoltare esorridere. Tàmù era apparsa quel mattino con indosso dei pesanti braccialiberberi d'argento completi di borchie acuminate, il tipo di bracciali che, senecessario, possono essere usati per difesa.

Aveva anche un khanjar, un pugnale, che le pendeva dal fianco destro, e unvero fucile spagnolo che teneva nascosto nella sella, coperto dal mantello. Avevaun viso triangolare, con un tatuaggio verde sul mento appuntito, occhi neripenetranti capaci di fissare le persone senza battere ciglio, e una lunga trecciacolor rame che le penzolava sulla spalla sinistra. Si fermò a pochi metri dallafattoria e chiese di essere ricevuta dal padrone di casa.

Nessuno lo sapeva, quel mattino, ma la vita alla fattoria non sarebbe più statala stessa. Perché Tàmù veniva dal Rìf ed era un'eroina di guerra. Tutto il Marocco

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ammirava la gente del Rìf - la sola gente che avesse continuato a combattere glistranieri quando tutto il resto del paese si era già arreso da tempo - ed ecco cheora questa donna, in guisa di guerriero, attraversando la frontiera di Arbawa, sene veniva tutta sola nella zona francese, in cerca di soccorsi. E, dal momento cheera un'eroina di guerra, certe regole a lei non si applicavano. Si comportava comese non avesse la benché minima conoscenza in fatto di tradizione.

Il nonno, probabilmente, si innamorò di lei fin dal primo momento in cui lavide, ma non se ne rese conto per mesi, tanto complesse erano state le circostanzedel loro incontro Tàmù era venuta alla fattoria con una missione ben precisa.

La sua gente era caduta in un agguato nella zona spagnola, e aveva bisogno disoccorso. Il nonno si diede da fare per aiutarla, firmando prima di tutto unfrettoloso contratto di matrimonio per giustificare la presenza della donna allafattoria, nel caso in cui la polizia francese fosse venuta a cercarla. Fatto questo,Tàmù gli chiese di aiutarla a trasportare le provviste e le medicine necessarie allasua gente. C'erano molti feriti e, dopo che 'Abdelkarìm era stato battuto, ognivillaggio doveva arrangiarsi per conto suo, se voleva sopravvivere. Il nonno lediede le provviste, e lei partì di notte con due carri, procedendo lentamente e aluci spente sul bordo della strada. Due braccianti della fattoria, fingendosimercanti, la precedevano sui loro asini, in avanscoperta, con le torce in mano, perfare segnali ai carri che venivano dietro, nel caso ci fossero stati dei problemi.

Quando, alcuni giorni dopo, Tàmù fece ritorno alla fattoria di mio nonno, unodei carri era carico di cadaveri coperti di frasche. Erano i corpi di suo padre, di suo

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marito e dei suoi due bambini, un maschio e una femmina. Tàmù rimase lì, inpiedi e in silenzio, mentre i corpi venivano scaricati dal carro. Poi, le donne leportarono un panchetto per sedersi, e lei rimase lì seduta, a guardare gli uominiche scavavano le fosse, vi calavano i corpi e le ricoprivano di terra.

Non pianse. Per camuffare le fosse, gli uomini piantarono dei fiori. Quandoebbero finito, Tàmù non riusciva a reggersi in piedi; allora il nonno chiamòJasmìna, e questa si passò un braccio di Tàmù intorno alle spalle, la condusse alsuo padiglione, e la mise a letto. Nei mesi che seguirono, Tàmù non parlò, e tuttipensarono che avesse perduto la capacità di farlo. Però urlava regolarmente nelsonno, quando nei suoi incubi fronteggiava nemici invisibili. Non appenachiudeva gli occhi, si ritrovava in guerra: allora saltava su in piedi, oppure sibuttava in ginocchio, e per tutto il tempo implorava pietà in spagnolo. Avevabisogno di qualcuno che l'aiutasse a superare quel dolore, senza farle domandeinvadenti e senza rivelare alcunché ai soldati francesi e spagnoli che, a quanto sidiceva, stavano facendo indagini dall'altra parte del fiume. Jasmìna poteva farlo,era la persona giusta. Così, si prese in casa Tàmù, e l'assistette, prendendosi curadi lei per mesi, fino a che guarì. Un bel mattino, Tàmù fu vista accarezzare ungatto e mettersi un fiore tra i capelli, e la sera stessa Jasmìna organizzò una festaper lei. Tutte le donne si riunirono nel suo padiglione e cantarono per farlasentire a casa. Quella sera, Tàmù sorrise un paio di volte, e chiese di un cavalloche le sarebbe piaciuto cavalcare il giorno dopo.

La sola presenza di quella donna cambiò ogni cosa. Il suo stesso corpo minuto

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pareva l'eco delle violente convulsioni che laceravano il paese. Avvertiva spessol'urgenza selvaggia di correre su veloci cavalli e di fare ogni sorta di acrobazie; erail suo modo di combattere il dolore e di trovare un senso, sia pur effimero, allavita. Invece di esserne gelose, Jasmìna e le altre donne dell'harem l'ammiravanosempre più: per molte ragioni, ma soprattutto per le tante abilità che dimostravadi avere e che, di norma, non erano appannaggio delle donne. Quando si ripresedel tutto, e ricominciò a parlare, scoprirono che sapeva usare la pistola, parlarebene lo spagnolo, saltare in alto, fare una capriola dopo l'altra senza che le girassela testa, e perfino imprecare in diverse lingue. Nata in una regione montuosacostantemente attraversata da eserciti stranieri, era cresciuta confondendo la vitacon la lotta e il riposo con la corsa. La sua presenza alla fattoria, con i suoitatuaggi, il pugnale, i bracciali aggressivi, e quel continuo andare a cavallo, facevacapire alle altre donne che c'erano molti modi di essere belle. Combattere,imprecare, e ignorare la tradizione potevano rendere una donna irresistibile.Tàmù divenne una leggenda nel momento stesso in cui comparve. Rendeva glialtri consapevoli della loro forza interiore, della loro capacità di resistere aqualsiasi avversità.

Durante la malattia di Tàmù, il Nonno andava tutti i giorni al padiglione diJasmìna per chiedere notizie sul suo stato di salute. Però, quando lei si riprese echiese un cavallo, ne fu molto turbato, perché temeva che se ne sarebbe andatavia. Per quanto fosse felice al vedere com'era tornata bella - di nuovo così arditaed esuberante, con la sua treccia color rame, i pungenti occhi neri, e il mento

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tatuato di verde - non era sicuro dei sentimenti di lei. In fondo, quella donna nonera realmente sua moglie. Il loro matrimonio non era nulla più di un accordolegale, e dopo tutto lei era un guerriero, poteva andarsene in qualsiasi momento,e scomparire all'orizzonte verso il nord. Così il Nonno Tàzì chiese a Jasmìna diandare con lui a fare una passeggiata nei campi, e le parlò di questi suoi timori.Anche Jasmìna ne fu impensierita, perché aveva una grande ammirazione perTàmù, e avrebbe voluto che non andasse più via. Allora suggerì al nonno dichiedere a Tàmù di passare la notte con lui, facendo questo ragionamento: «Sedice di sì, vuol dire che non sta pensando di andare via. Se dice di no, allora vuoledire che se ne andrà». Il nonno ritornò al padiglione e parlò in privato con Tàmù,mentre la nonna aspettava fuori. Ma quando uscì, Jasmìna si accorse chesorrideva, e capì che Tàmù aveva accettato l'offerta di entrare a fare parte dell'harem.

Mesi dopo, il nonno fece costruire per Tàmù un nuovo padiglione sopra quellodi Jasmìna e, da allora in poi, la loro casa a due piani, fuori dall'edificio principale,divenne ufficialmente il quartier generale delle gare di corsa a cavallo e dellasolidarietà tra le donne.

Non appena il secondo piano della loro casa fu completato, una delle primecose che fecero Jasmìna e Tàmù fu piantare un banano in modo che Yaya, lamoglie nera di mio Nonno, si sentisse a casa. Yaya, la più tranquilla di tuttol'harem, era una donna alta e allampanata, e nel suo caffettano giallo, con il visominuto e gli occhi sognanti, aveva un'aria fragilissima. Le piaceva cambiare

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turbante a seconda dei suoi umori, ma il suo colore preferito era il giallo -«è comeil sole. Ti dà luce». Era facile ai raffreddori, parlava arabo con uno strano accento,e non legava molto con le altre donne, ma restava volentieri in camera sua. Nonera passato molto tempo dal suo arrivo, che le altre decisero, di comune accordo,di sollevarla dalla sua parte di faccende domestiche, tanto pareva delicata. Incambio, lei promise di raccontare loro una storia alla settimana, descrivendo lavita al suo villaggio natio, giù nel profondo sud, nella terra del Sudan, la terra deineri, dove non crescono gli aranci e gli alberi di limoni, ma in compensoabbondano le banane e le noci di cocco. Yaya non ricordava il nome del villaggio,ma questo non le impedì di diventare, con la zia Habìba, l'altra narratrice ufficialedell'harem. Il Nonno l'aiutava a rimpolpare la sua provvista di storie leggendo adalta voce brani di libri sulle terre del Sudan, sui regni di Songhài e Ghana, sulleporte d'oro di Timbuktu, e su tutte le meraviglie delle foreste del sud chenascondono il sole. Yaya diceva che i bianchi sono comuni - li trovi ovunque, aiquattro angoli dell'universo - ma i neri sono una razza speciale, perché esistonosoltanto in Sudan e nelle terre limitrofe, a sud del deserto del Sahara. Nelle seredestinate ai racconti di Yaya, le donne si riunivano nella sua stanza e si passavanovassoi di tè, mentre lei parlava della sua patria meravigliosa. Dopo qualche anno,le donne conoscevano ogni dettaglio della sua vita così bene, che quando leiesitava o cominciava a dubitare della fedeltà della sua memoria, erano in grado diimbeccarla. E un giorno, dopo averla ascoltata descrivere il suo villaggio, Tàmùdisse: «Se tutto quello che ti serve per sentirti a casa in questa fattoria è un albero

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di banane, noi te ne pianteremo uno proprio qui». All'inizio, ovviamente, nessunocredeva che fosse possibile far crescere un banano nel Gharb, dove i venti delnord soffiano dalla Spagna e nuvole pesanti accorrono dall'Oceano Atlantico. (11)

Ma il difficile fu procurarsi l'albero. Tàmù e Jasmìna dovettero più voltespiegare che aspetto avesse un albero di banane a tutti i mercanti nomadi chepassavano con i loro asini, finché finalmente qualcuno gliene portò un esemplaredalla regione di Marràkesh. Yaya era così contenta di vederlo che se ne prese curacome di un bambino, correndo a coprirlo con un gran lenzuolo bianco ogni voltache tirava un vento freddo. Anni dopo, quando il banano fece i primi frutti, ledonne organizzarono una festa, e Yaya, indossati tre caffettani gialli, si mise deifiori sul turbante e andò danzando verso il fiume, pazza di gioia.

Davvero, non c'erano limiti a quello che le donne potevano fare, nella fattoria.Era loro possibile coltivare piante esotiche, cavalcare, e muoversi liberamente neidintorni - o almeno, così sembrava. Al confronto, il nostro harem di Fez era comeuna prigione. Jasmìna arrivava a dire che la cosa peggiore, per una donna, eral'essere tagliata fuori dalla natura. «La natura è la migliore amica della donna»,diceva spesso. «Quando hai dei problemi, tutto quello che devi fare è nuotarenell'acqua, stenderti su un prato, o guardare le stelle. É così che una donna cura lesue paure».

(11) Questo nel 1940. Ora, grazie alla tecnologia moderna, in tutta la piana del

Gharb si producono banane e altri frutti equatoriali.

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CAPITOLO 7

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L'HAREM DENTRO

Il nostro harem di Fez era circondato da alte mura e, a eccezione del piccolo

ritaglio squadrato del cielo visibile dal cortile, la natura non esisteva affatto.Certo, se una donna correva su in terrazza, poteva ben accorgersi che il cielo erapiù grande della casa, più grande di ogni cosa; ma, giù dal cortile, la natura parevauna cosa irrilevante. La sostituivano i disegni geometrici e floreali riprodotti sullemattonelle, gli stucchi e i pannelli in legno intagliato. Gli unici fiori di strabiliantebellezza che avevamo in casa nostra, erano quelli dei broccati a colori cherivestivano i divani, e dei tendaggi in seta ricamata che ombreggiavano porte efinestre. Non si poteva, tanto per dirne una, aprire una persiana e guardar fuori,quando veniva voglia di evadere. Tutte le finestre davano sul cortile. Non ce n'eranessuna che si aprisse sulla strada.

Una volta all'anno, in primavera, andavamo a fare un nzàha, o picnic, allafattoria di mio zio a Wàd Fez, dieci chilometri fuori città. Gli adulti importantiandavano in macchina, mentre i bambini, le zie divorziate e altri parenti, venivanocaricati su due grossi camion noleggiati per l'occasione.

La zia Habìba e Shàma si portavano sempre i tamburelli, e, per tutto il tragitto,

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facevano un tale baccano da far uscire di senno il povero autista. «Se voi signorenon la smettete», gridava, «mi farete andare fuori strada e finiremo tutti nelfondovalle». Ma le minacce non servivano a nulla, e la sua voce veniva travoltadal suono dei tamburelli e dei battimani.

Il giorno del picnic, tutti si svegliavano all'alba e si mettevano a sfaccendarenel cortile come se si trattasse di una festa religiosa, con gruppi di persone chepreparavano qua e là bevande e vettovaglie, e dappertutto si facevano fagotti ditende e tappeti. Shàma e mia madre erano addette alle altalene. «Senza lealtalene, che picnic è?», dicevano tutte le volte che mio padre suggeriva loro dilasciarle a casa, almeno per una volta, perché appenderle agli alberi eraun'impresa che portava via parecchio tempo. «E poi», aggiungeva, tanto perprovocare mia madre, «le altalene vanno bene per i bambini, ma quando cisalgono gli adulti, con tutto il loro peso, i poveri alberi se la vedono brutta».Mentre papà parlava, aspettando che la mamma si arrabbiasse, lei continuavasemplicemente a impacchettare le altalene e le funi per legarle, senza degnarloneanche di uno sguardo. Shàma cantava ad alta voce: «Se gli uomini non possonoappendere altalene\ le donne lo faranno da sole\ Lallallalla», imitando l'acutamelodia del nostro inno nazionale Maghrìbunà watanunà(12) (O Marocco, patrianostra). Intanto, io e Samìr cercavamo febbrilmente le nostre pantofole di corda -perché le nostre madri, tutte prese dai loro progetti, non ci davano alcun aiuto - eLàlla Mànì contava il numero dei piatti e dei bicchieri «tanto per rendersi contodel danno, e vedere quanti se ne saranno rotti alla fine della giornata».

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Per lei, del picnic se ne poteva fare tranquillamente a meno, come era solitadire, tanto più che, stando alla tradizione, la sua origine era dubbia. «Non se neparla nel Hadìth», diceva, «e, per quanto ne so io, potrebbe anche essereannoverato tra i peccati, nel Giorno del Giudizio». (13)

Arrivavamo alla fattoria a metà mattina, equipaggiati con dozzine di tappeti,divani leggeri e kànùn (14). Una volta srotolati i tappeti, vi si collocavano sopra idivani, veniva accesa la brace, e si cucinavano alla griglia degli spiedini misti dicarne d'agnello e verdura. I bollitori del tè cantavano insieme agli uccelli. Poi,dopo il pranzo, alcune donne si sparpagliavano nei boschi e nei campi alla ricercadi fiori, erbe, e altri tipi di piante da usare per trattamenti di bellezza. Altre,invece, facevano la fila per andare in altalena. Solo dopo il tramonto siintraprendeva il viaggio di ritorno, e una volta a casa, il portone si chiudeva allenostre spalle.

Mia madre si sentiva triste per diversi giorni. «Quando si passa una giornataintera in mezzo agli alberi», diceva, «svegliarsi con un orizzonte fatto di paretidiventa intollerabile».

Per entrare in casa nostra, non c'era altra via se non quella di passare dalportone principale, controllato da Ahmed il portinaio. Ma per uscire, un altromodo c'era: passare dalla terrazza a livello del tetto. Dalla nostra terrazza, sipoteva saltare su quella dei vicini, e poi uscire in strada usando il loro portone.Ufficialmente, la chiave della terrazza era in possesso di Làlla Mànì, e Ahmedspegneva le luci delle scale dopo il tramonto. Ma dato che la terrazza, durante il

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giorno, veniva continuamente usata per ogni sorta di attività domestica - sia perprendere le olive conservate lassù dentro grosse giare, sia per lavare e stendere ilbucato - le chiavi venivano spesso lasciate alla zia Habìba, che occupava la stanzapiù vicina alla terrazza.

La via d'uscita dalla terrazza era poco sorvegliata, per il semplice motivo chearrivare da lì sulla strada era un'impresa piuttosto complicata. Bisognava esseremolto brave in tre cose: arrampicarsi, saltare e atterrare con grazia. La maggiorparte delle donne era in grado di arrampicarsi e saltare con una certa abilità, manon molte sapevano atterrare con grazia. Perciò, di tanto in tanto, qualcunatornava a casa con una caviglia fasciata, e tutte le altre capivano subito cosa avevacombinato. La prima volta che tornai giù dalla terrazza con le ginocchiasanguinanti, mia madre mi spiegò che il problema principale, nella vita di unadonna, era di escogitare il modo migliore per atterrare. «Ogni volta che stai perimbarcarti in un'impresa», disse, «devi pensare non a come spiccherai il volo, maa come arriverai a terra. Quindi, quando ti verrà voglia di volare, pensa a come edove andrai a cadere».

Ma c'era anche un'altra e più solenne ragione per CUI Shàma e la mamma nonvedevano nella fuga dalla terrazza una valida alternativa all'uso del portone. Lavia della terrazza aveva una dimensione illecita e clandestina che suscitavarepulsione in chi si batteva per il principio del diritto di ogni donna alla libertà dimovimento. Confrontarsi con Ahmed alla porta era un'azione eroica. Fuggire dallaterrazza non lo era, e non aveva in sé quell'ispirato e sovversivo empito di

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emancipazione.Nessuno di questi intrighi si attagliava, ovviamente, alla fattoria di Jasmìna. Il

portone o il cancello non avevano quasi senso, dato che non c'erano mura. E perfare un harem, pensavo, c'è bisogno di una barriera, o di un confine.

Quell'estate, andai in visita da Jasmìna e le raccontai la storiella di Shàmasulla nascita degli harem. Quando mi accorsi che mi ascoltava, decisi di faresfoggio di tutte le mie conoscenze in materia di storia, e cominciai a parlarle deiromani e dei loro harem, e di come gli arabi erano diventati sultani del mondograzie alle mille donne del califfo Harun al-Rashìd, e, infine, di come i cristianiavevano ingannato gli arabi cambiando loro le regole durante il sonno. Al sentirequesta storia, Jasmìna si fece un sacco di risate, e disse che era troppo illetterataper valutare i fatti storici, ma che tutto quello che avevo detto le suonava tantobuffo quanto sensato. Allora le chiesi se quello che aveva detto Shàma era vero ofalso, e lei mi rispose che dovevo rilassarmi riguardo a questa faccenda di ciò cheè vero o falso, giusto o sbagliato. Disse che c'erano cose che potevano essere l'unoe l'altro, e cose che non potevano essere né l'uno né l'altro. «Le parole sono comele cipolle», disse. «Più pelli togli, più significati incontri. E quando inizi a scoprirecosì tanti significati, allora "giusto" e "sbagliato" perdono di importanza.

Queste domande sugli harem che tu e Samìr andate facendo, sono tutte belle ebuone, ma ci sarà sempre qualcos'altro da scoprire». E poi aggiunse: «Adesso tipelo un'altra pelle della questione. Ma ricordati, è solo una fra le tante».

La parola «harem», disse, era una leggera variante della parola haràm, il

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«proibito», il "vietato". Questa, a sua volta, era il contrario della parola halàl, il"lecito", il "consentito. L'harem era un posto dove un uomo dava rifugio alla suafamiglia, alla moglie o alle mogli, ai figli e ai congiunti.

Poteva essere una casa o una tenda, e il termine poteva essere riferito sia allospazio che alla gente che vi abitava. Si diceva «l'harem del signor Pinco Pallino»per designare sia i membri della sua famiglia che la sua dimora fisica. Riuscii avederci più chiaro quando Jasmìna mi spiegò che la Mecca, la città sacra, venivaanche chiamata Haràm. La Mecca era uno spazio dove il comportamento erarigidamente codificato. Nel momento in cui vi si metteva piede, si era vincolati daun gran numero di leggi e di regole. Le persone che entravano alla Meccadovevano essere pure: dovevano eseguire dei rituali di purificazione e astenersidal mentire imbrogliare e commettere azioni dannose. La città apparteneva adAllàh, e si doveva obbedire alla sua sharì'a, o legge sacra, quando si facevaingresso nel suo territorio. La stessa cosa si applicava a un harem, quando iltermine stava a designare la casa di proprietà di un uomo. Nessun altro uomopoteva entrarvi senza il permesso del proprietario e una volta entrati, si dovevanorispettare le sue regole. L'harem aveva a che fare con lo spazio privato e le normeche lo regolano. Senza contare, diceva Jasmìna, che per fare un harem, le muranon sono indispensabili. Una volta che si sa cosa è proibito, l'harem è qualcosache ci si porta dentro. Ce l'hai nella testa, «scolpito sotto la fronte e sotto lapelle».

Quest'idea di un harem invisibile, di una legge tatuata nel cervello, mi turbava

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e spaventava; non mi piaceva per niente, e chiesi alla nonna di spiegarsi meglio.Sebbene priva di mura, disse Jasmina, la fattoria era nondimeno un harem.

«C'è bisogno di mura solo dove ci sono delle strade!» allora non c'era alcunbisogno di portoni, perché si stava in mezzo ai campi e non passava nessuno. Ledonne potevano andarsene libere per la campagna, perché non c'erano stranieri ingiro a sbirciarle: potevano camminare, o cavalcare, per ore, senza vedere animaviva. Ma se per caso incontravano un contadino, e quello si accorgeva che nonerano velate, allora si copriva la testa col cappuccio della sua jallàbiyya, permostrare che non le guardava. In questo caso, disse Jasmìna, l'harem era nellatesta del contadino, scolpito da qualche parte sotto la sua fronte: le donne dellafattoria erano proprietà di Sìdi Tàzì, e il contadino, quindi, sapeva di non avere ildiritto di guardarle.

Questa faccenda di andarsene in giro con un limite dentro la testa midisturbava, e con discrezione mi portai la mano alla fronte per assicurarmi chefosse bella liscia, tanto per vedere se casomai io potevo essere libera dall'harem.

Ma proprio allora la Spiegazione di Jasmìna si fece ancora più allarmante,Perché la cosa che disse subito dopo fu che ogni spazio aveva delle regoleinvisibili sue proprie e, al momento di entrarvi, bisognava capire quali fossero. «Equando dico spazio», continuò, «può essere uno spazio qualunque - un cortile,una terrazza, una stanza, anche la strada, se è per questo. Dovunque vi sianoesseri umani, la c'è una qà'ida, ovvero una "norma" invisibile. Se ti attieni allaqà'ida, non può accaderti nulla di male». In arabo, mi ricordò, qà'ida significa

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molte cose diverse, ma tutte condividevano la stessa premessa di base. Una leggematematica o un sistema legale era una qà'ida, e così anche le fondamenta di unedificio. Qà'ida era anche un costume o un codice di comportamento. Qà'ida eradappertutto. Poi aggiunse qualcosa che mi spaventò davvero: «Sfortunatamente,nella maggior parte dei casi, qà'ida è qualcosa che va contro le donne».

«Perché?», domandai. «Questo non è giusto, vero?», e mi feci più vicina, pernon perdermi neanche una sillaba della sua risposta. Il mondo, disse Jasmìna,non era concepito per essere giusto con le donne; le regole erano fatte in manieratale da danneggiarle sempre, in un modo o nell'altro. Per esempio, disse, sia gliuomini che le donne lavorano dall'alba fino a notte fonda, ma gli uominiguadagnano soldi e le donne no - questa era una di quelle regole invisibili. Equando una donna lavora duro, e non guadagna soldi, allora si può dire che starinchiusa in un harem, anche se non se ne vedono le mura. «Forse le regole sonospietate perché non sono fatte dalle donne», fu il commento finale di Jasmìna.«Ma perché non sono fatte dalle donne?», chiesi.

«Nel momento in cui le donne si sveglieranno e invece di cucinare a puntino elavar piatti tutto il tempo, cominceranno a porsi questa domanda», rispose lei«allora troveranno il modo di cambiare le regole e di capovolgere l'interopianeta». «Quanto ci vorrà?», le chiesi, e Jasmìna disse: «Molto tempo».

Allora le domandai se poteva insegnarmi come fare a indovinare quella regolainvisibile, o qà'ida che dir si voglia, ogni volta che mettevo piede in uno spazionuovo. Non c'erano dei segnali, o qualcosa di tangibile che potessi cercare? No,

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disse, purtroppo no, non c'erano indicazioni tranne la violenza che seguiva ilfatto; perché, nel momento in cui avessi disobbedito a una qualunque di questeregole invisibili, mi avrebbero fatto del male. Comunque, osservò, molte dellecose che alla gente piace di più fare nella vita, come andarsene a spasso, scoprireil mondo, cantare, danzare, esprimere un'opinione, erano spesso annoverate nellacategoria del proibito. In effetti la qà'ida, o regola invisibile, poteva essere moltopeggiore delle mura e dei cancelli. Con mura e cancelli, almeno si sa cosa ci siaspetta da noi.

A queste parole, quasi desiderai che tutte le regole si materializzasseroall'improvviso in frontiere e pareti visibili proprio davanti ai miei occhi. Ma poi mivenne un altro pensiero sgradevole. Se la fattoria di Jasmìna era un harem, adispetto del fatto che non aveva mura visibili, allora cos'era la hurriyya, la libertà?La misi a parte di questo pensiero, e Jasmìna mi parve un po' preoccupata: disseche avrebbe voluto che giocassi come gli altri bambini, invece di tormentarmi ilcervello con tutta questa faccenda di mura, regole, costrizioni, e il significato dihurriyya. «Ti perderai la felicità, se penserai troppo alle mura e alle regole, miacara bambina», mi disse. «La meta ultima nella vita di una donna è la felicità.Perciò non passare il tempo a cercarti dei muri dove sbattere la testa». Per farmiridere, Jasmìna si alzò in piedi, andò al muro, e finse di sbatterci contro la testa,gridando: «Ahi, ahi! Il muro fa male! Il muro è mio nemico!». Io scoppiai aridere, sollevata al vedere che, a dispetto di tutto, l'allegria era ancora a portata dimano. Lei mi guardò e si portò un dito alla tempia, «Capisci quello che voglio

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dire?».Certo che capivo quello che volevi dire, Jasmìna, e la felicità sembrava

assolutamente possibile - a dispetto di tutti gli harem, visibili e invisibili. Corsi adabbracciarla, e mentre mi teneva stretta e mi lasciava giocare con le sue perlinerosa, le bisbigliai all'orecchio: «Ti voglio bene Jasmìna, davvero. Pensi che saròuna donna felice?».

«Ma certo che sarai felice!», esclamò. «Sarai una signora colta e moderna.Realizzerai il sogno dei nazionalisti: imparerai lingue straniere, avrai unpassaporto, divorerai libri, e parlerai come un'autorità religiosa. Come minimo,starai certo meglio di tua madre. Ricorda che persino io, ignorante e legata allatradizione come sono, sono riuscita a spremere un po' di felicità da questa vitadannata. Per questo non voglio che ti fissi tutto il tempo su confini e barriere.Voglio che ti concentri sul divertimento, le risate e la felicità. Questo è un buonprogetto, per una signorina ambiziosa».

(12) Maghrìb è il nome arabo per Marocco, la terra del sole calante,da Gharb,

ovest.(13) Col termine hadìth si indica una raccolta di gesta e detti del Profeta

Muhammad. Redatti dopo la sua morte, sono considerati una delle fontifondamentali dell'Islàm (la prima è il Corano, il libro rivelato direttamente daAllàh al suo Profeta).

(14)I kànùn sono dei bracieri portatili, in terracotta o metallo: gli equivalenti

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marocchini dei barbecues.

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CAPITOLO 8

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LAVAPIATTI ACQUATICHE

La fattoria di Jasmìna distava solo poche ore di viaggio da casa nostra, ma era

come se si trovasse su un'isola remota del Mar della Cina, quelle delle storienarrate dalla zia Habìba. Lì, le donne facevano cose che in città erano inaudite,come pescare, arrampicarsi sugli alberi, e fare il bagno in un torrente che correvaa incontrare le acque del fiume Sabù, per proseguire in direzione dell'OceanoAtlantico.

Dopo l'arrivo di Tàmù dal nord, le donne avevano persino cominciato aorganizzare gare di corsa a cavallo. Già da prima andavano a cavallo, ma condiscrezione, quando gli uomini non c'erano, e senza mai spingersi molto lontano.

Tàmù trasformò semplici cavalcate in rituali solenni, con regole fisse,esercitazioni, premi in palio e fastose premiazioni.

L'ultima concorrente a tagliare il traguardo doveva preparare il premio per lavincitrice, e questo consisteva in un'enorme bastìla, la più squisita di tutte leprelibate vivande di Allàh. La bastìla è una pietanza e al tempo stesso un dessert,è dolce e salata, e i suoi ingredienti di base sono le noci e la carne di piccione, lozucchero e la cannella. Oh! La bastìla è croccante da mordere, e va mangiata con

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gesti delicati, facendo molta attenzione e senza avere fretta, altrimenti si rischiadi imbrattarsi tutta la faccia di zucchero e cannella. Ci vogliono dei giorni perpreparare la bastìla, perché e fatta di diversi strati di sfoglia sottilissima, quasitrasparente, ripieni di mandorle tostate e tritate grossolanamente, insieme amolte altre deliziose sorprese. Jasmìna ripeteva spesso che se le donne fosserointelligenti si metterebbero a venderla, quella delizia, e a ricavarci denaro, invecedi servirla come parte dei loro banali doveri domestici.

Ad eccezione di Làlla Tharwa, che era una donna di città, dal colorito pallido esmorto, quasi tutte le altre donne dell'harem avevano gli inequivocabili trattirurali delle regioni montuose del Marocco. Inoltre, al contrario di Làlla Tharwache non sbrigava mai nessun tipo di lavoro domestico, e lasciava i suoi trecaffettani sciolti fino a coprire le caviglie, le altre donne erano solite infilarsi levesti nelle cinture, e tirarsi su le maniche con l'aiuto di elastici colorati disposti inmodo da sembrare il tradizionale takhmàl.l(15)

Questo abbigliamento permetteva loro di muoversi a proprio agio durante ilgiorno, per sbrigare le faccende domestiche e dare da mangiare a persone eanimali.

Una preoccupazione costante delle donne, laggiù alla fattoria, era il modo direndere più piacevoli i lavori di casa, e un giorno Mabruka, che amava nuotare,suggerì di lavare i piatti nel fiume. Làlla Tharwa, scandalizzata, respinse l'ideacome del tutto contraria alla civiltà musulmana. «Voi contadine finirete perdistruggere la reputazione di questa casa», disse, fumante di rabbia, «proprio

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come il venerabile storico Ibn Khaldùn ha predetto sei secoli fa nella suaMuqaddima», quando disse che l'Islàm era una cultura essenzialmente cittadina,e che i contadini rappresentavano una minaccia. (16) Un così alto numero diconcubine originarie delle montagne, non poteva che portare disgrazia. Jasmìnacontrattaccò, dicendo che Làlla Tharwa sarebbe stata più utile alla civiltàmusulmana se avesse smesso di leggere vecchi libri e si fosse messa a lavorarecome tutti gli altri. Ma questa era così gelosa del fatto che le altre donnetentassero di divertirsi, che riportò la questione al nonno e convocò da luiJasmìna e Mabrùka. Il nonno, allora, chiese di essere messo al corrente delprogetto, e le due donne gli esposero la loro idea di lavare i piatti nel fiume,aggiungendo che, sebbene entrambe contadine e illetterate, non erano dellesceme, e non potevano prendere per oro colato le parole di Ibn Khaldùn. Dopotutto, dissero, non era che uno storico.

Avrebbero volentieri rinunciato al progetto, se Làlla Tharwa avesse prodottouna fatwa ovvero, un parere delle autorità religiose della moschea di Qaràwiyyìnche vietava alle donne di lavare i piatti nei fiumi, ma fino a quel momento,avrebbero fatto a modo loro. Dopo tutto, il fiume l'aveva creato Allàh permanifestare la sua potenza, e se, in ogni caso, nuotare fosse stato un peccato, neavrebbero reso conto solo a Lui, una volta per tutte, nel Giorno del Giudizio. Ilnonno, colpito dalla loro logica, aggiornò la seduta, dicendosi felice che l'Islàmlasciasse la responsabilità alla coscienza individuale.

Alla fattoria, come in tutti gli harem, i lavori domestici erano eseguiti secondo

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un rigido sistema di rotazione. Le donne si organizzavano in piccole squadreformate secondo criteri di amicizia e interessi in comune, e i compiti venivanocosì equamente distribuiti. La squadra che una settimana preparava i pasti, lasettimana seguente era addetta alla pulizia dei pavimenti, la settimana dopoancora preparava il te e le bevande, e nella quarta settimana si occupava delbucato. La quinta settimana era destinata al riposo. Di rado tutte le donne siunivano in un unico gruppo per eseguire un lavoro. Un'eccezione a questa regolaera il lavaggio di piatti e stoviglie, quel compito ingrato che, in seguito all'idea diMabrùka, fu trasformato (almeno nelle estati in cui mi trovavo lì) in un fantasticospettacolo acquatico, completo di partecipanti, spettatori e ragazze pon-pon.

Le donne stavano in piedi nel torrente disposte su due file. Quelle della primafila erano immerse nell'acqua solo fino al ginocchio, e rimanevano quasicompletamente vestite, In seconda fila, dove solo le buone nuotatrici avevano ilpermesso di stare, l'acqua arrivava alla vita, e le donne erano semisvestite, con ilsolo qamìs rincalzato il più possibile nelle cinture strette per l'occasione. In più,se ne stavano a capo scoperto, perché sarebbe stato arduo lottare contro lacorrente e al tempo stesso preoccuparsi di non perdere sciarpe di seta e preziositurbanti. La prima fila intraprendeva la pulizia iniziale, sfregando pentole, tegamie tàjìn (utensili in terracotta) con la tadaqqà, un impasto di sabbia e terra dellerive del torrente. Quindi, via acqua, passavano pentole e tegami alla seconda filaper un'ulteriore pulitura mentre il resto delle stoviglie circolava contro corrente dimano in mano, con l'acqua che lavava via la tadaqqà.

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Finalmente Mabrùka, la stella del nuoto, appariva sulla scena. Rapita da unvillaggio costiero nei pressi di Agadir durante la guerra civile che seguì alla presadel potere da parte dei francesi, Mabrùka aveva passato l'infanzia a tuffarsinell'Oceano da alte scogliere. Non solo sapeva nuotare come un pesce e starsene alungo sott'acqua, ma le era anche capitato più volte di dover salvare donnedell'harem che rischiavano di venir trascinate dalla corrente fino a Kenitra, allafoce del fiume Sabù. Il suo compito durante le spedizioni di lavaggio dei piatti eraquello di andare a riprendere tutte le pentole e i tegami che scappavano di manoalle altre, lottare con la corrente, e riportarli a riva. Le donne si sprecavano inapplausi e ovazioni, ogni volta che Mabrùka emergeva dall'acqua con una pentolao un tegame sulla testa; e la «criminale» che si era lasciata sfuggire la stoviglia,doveva esaudirle un desiderio quella sera stessa. Il desiderio variava a secondadelle abilità della colpevole. Ogni volta che a sbagliare era Jasmìna, Mabrùka lechiedeva delle sfinj, le incomparabili ciambelle della nonna.

Quando tutte le stoviglie erano state lavate, venivano rimandate a Jasmìna,che le passava a Krisha, l'uomo chiave dell'intera operazione. Krisha, cheletteralmente significa "trippa", era il soprannome che le signore avevanoaffibbiato a Muhammad el-Gharbawì, il loro cocchiere preferito, e anche il piùviziato. Krisha era nativo del Gharb, la grande piana vicino al mare fra Tangeri eFez. Viveva con sua moglie Zìna a poche centinaia di metri dalla fattoria; nonaveva mai lasciato il suo villaggio natio e non riteneva di aver perso molto. «Unposto più bello del Gharb non si trova in tutto il mondo», diceva, «fatta eccezione

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per la Mecca». Era molto alto, ed era sempre vestito di un imponente turbantebianco e un pesante burnùs (cappa) marrone che si gettava elegantemente sullespalle. In effetti, aveva tutta l'aria di una figura autoritaria, ma in qualche modo,non lo era. Non gli interessava esercitare il potere o difendere l'ordine. Dare forzaalle regole lo annoiava. Era semplicemente un brav'uomo, convinto che lamaggior parte delle creature di Allàh avessero abbastanza giudizio percomportarsi in modo responsabile, a cominciare da sua moglie che faceva benpoco in casa e la passava liscia. «Se non le piacciono le faccende domestiche»,diceva, «va bene. Non divorzierò certo per questo motivo. Ci arrangiamo».

Krisha non era esattamente quel che si dice un uomo impegnato. Quando nonguidava la carretta, non faceva molto di più che mangiare o dormire; ma spessoveniva intensamente coinvolto nelle attività delle donne, soprattutto quandoqueste richiedevano il trasporto di cose e persone.

Lavare i piatti nel fiume sarebbe stato impossibile senza Krisha. Moltestoviglie da lavare erano grosse pentole in ottone, tegami di ferro, terracotte chepesavano anche più di sei chili a pezzo. (Ci volevano delle pentole enormi perpreparare i pasti per tutti, in una casa grande come la fattoria). Portarle dallacucina alla riva del torrente sarebbe stata un'impresa disperata senza l'aiuto diKrisha e della sua carretta tirata dal cavallo. Poiché Krisha, il Trippa, non sapevaresistere a un buon pasto, avrebbe spostato le montagne per qualcuno disposto apreparargli il suo cuscùs preferito, con uva passa, piccioni stufati e tante cipolle almiele.

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Uno dei compiti ufficiali di Krisha era quello di portare le donne al hammàm,il bagno pubblico, una volta ogni due settimane. Il hammàm si trovava nel vicinovillaggio di Sìdì Slimàn, a dieci chilometri dalla fattoria, e andarci con Krisha erasempre uno spasso. Le donne continuavano a saltar su e giù dalla carretta, e achiedere di fermarsi ogni due minuti «per andare a fare pipì». Lui rispondevasempre allo stesso modo, che faceva ridere e schiamazzare tutte quante: «Signore,vi consiglio e vi raccomando di farvela nei sarwàl(pantaloni). La cosa piùimportante non è che la facciate o no, ma che ve ne stiate o meno in questadannata carretta finché non arriveremo sani e salvi a Sìdì Slimàn».

Quando arrivavano là, Krisha scendeva lentamente dal suo posto di guida,metteva piede in terra, e cominciava a contare le donne sulle dita via via cheentravano nel hammàm.

«Signore, siete pregate di non dissolvervi nel vapore», diceva, «voglio cherispondiate tutte: "Presente!", quando stasera saremo di ritorno».

Oh, erano proprio scatenate, alla fattoria di Jasmìna. (15) La parola takhmàl deriva dal verbo colloquiale arabo khammal,

"impegnarsi a fondo nei doveri di pulizia». Il takhmàl è un lungo nastro colorato,o una fascia elastica, che le donne usavano per tenere indietro le maniche lunghe.Prendevano un nastro lungo un metro, lo legavano in modo da formare un anello,e lo torcevano nella figura di un otto. Poi se lo passavano intorno al braccio, con ilnodo sul retro, e infilavano la manica, perché se ne stesse su arrotolata fino

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all'ascella Per nascondere l'aspetto pratico del takhmàl, molte donne ricamavanoil nastro o la banda elastica con perle e perline, mentre le più ricche, al posto dinastri e fasce, usavano fili di perle e catene d'oro.

(16) Uno dei più brillanti storici dell'Islàm, Ibn Khaldùn, visse nella Spagnamusulmana e nel Nord'Africa nel quattordicesimo secolo. Nel suo capolavoro, laMuqaddima (I Prolegomeni), tentò di sottomettere la Storia a un'analisimeticolosa, allo scopo di individuarne i principi cardini. Nel far ciò, identificò gliabitanti delle città come il polo positivo della cultura islamica, e la gente cheviveva ai margini della civiltà urbana, cioè nomadi e contadini, come il polonegativo e distruttivo. Questa percezione delle città come centri irradiatori di idee,cultura e ricchezza, e della popolazione rurale come improduttiva, ribelle eindisciplinata, è penetrata, fino ai nostri giorni, in tutte le visioni dello sviluppoespresse dalla cultura araba. In Marocco, l'epiteto 'arùbi, cioè persona di originirurali, e ancora oggi un insulto di uso comune.

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CAPITOLO 9

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RISATE AL CHIARO DI LUNA

Alla fattoria di Jasmìna non si sapeva mai a che ora si sarebbe mangiato. A

volte, la nonna si ricordava solo all'ultimo minuto che doveva darmi da mangiare,e allora mi convinceva che un pugno di olive e un pezzo del suo buon pane,sfornato all'alba, era sufficiente. Ma pranzare nel nostro harem di Fez era tuttaun'altra faccenda.

Si mangiava sempre a orari rigidamente stabiliti, e mai tra un pasto e l'altro.Dovevamo sederci ai posti prescritti intorno a uno dei quattro tavoli comuni. Ilprimo tavolo era riservato agli uomini, il secondo alle donne di una certaimportanza, e il terzo ai bambini e alle donne di minore importanza - il che cirendeva felici, perché significava che la zia Habìba poteva mangiare con noi.L'ultimo tavolo era destinato ai domestici e a chiunque arrivasse in ritardo, senzadistinzioni di età, rango e sesso. Quel tavolo era spesso affollato, ed era l'ultimapossibilità in assoluto di trovare qualcosa da mangiare, per quelli che avevanocommesso l'errore di non arrivare in tempo.

Mangiare a orari fissi era quello che mia madre più detestava della vita incomune.

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Insisteva di continuo con mio padre perché lasciasse la casa natia e portasse lanostra famiglia a vivere per conto suo. I nazionalisti invocavano la fine dellareclusione e del velo, ma non spendevano una parola sul diritto di una coppia asepararsi dalla famiglia d'origine. Anzi, molti dei loro leader vivevano ancora con igenitori. Il movimento nazionalista, che era fatto di uomini, sosteneva laliberazione delle donne, ma non era ancora arrivato ad afferrare l'idea di anzianiche vivono da soli, o di coppie che se ne vanno a formare nuove case. Nessunadelle due idee sembrava giusta, o elegante.

Soprattutto, era il pranzo a orario fisso, quello che mia madre non riusciva amandar giù. Era sempre l'ultima a svegliarsi, e le piaceva indugiare in una tarda egenerosa colazione che si preparava da sola, con ostentato tono di sfida, sotto losguardo di disapprovazione di nonna Làlla Mànì. Si preparava uova strapazzate ebaghrìr, crespelle sottili ricoperte di miele puro e burro fresco, accompagnate datè in abbondanza. Di solito mangiava alle undici in punto, proprio quando LàllaMànì si accingeva a dare inizio ai rituali di purificazione per la preghiera dimezzogiorno. E, una volta fatta quella colazione, due ore dopo, alla tavolacomune, mia madre spesso era assolutamente incapace di fare onore al pranzo. Avolte lo saltava del tutto, specialmente quando voleva infastidire mio padre,perché saltare un pasto era considerato un atto di tremenda maleducazione, oltreche di aperto individualismo.

Il sogno di mia madre era quello di vivere sola con suo marito e i suoi figli.«Chi ha mai sentito di una decina di uccelli che vivono tutti insieme, stipati in un

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solo nido?» era solita dire. «Non è naturale vivere in gruppo, a meno chel'obiettivo non sia quello di fare star male le persone.»

Mio padre, pur ribattendo che lui non ne sapeva molto sul modo di viveredegli uccelli, simpatizzava con la mamma, e si sentiva combattuto fra i suoi doveriverso la famiglia tradizionale e il desiderio di far felice sua moglie. Si sentiva incolpa all'idea di tradire la solidarietà della famiglia, poiché sapeva fin troppo beneche le grandi famiglie in generale, e la vita dell'harem in particolare, stavanorapidamente diventando reliquie del passato. Arrivava a profetizzare che neiprossimi decenni saremmo diventati come i cristiani, che non andavano quasimai a fare visita ai loro anziani genitori. Per la verità, molti dei miei zii cheavevano già lasciato la grande casa, trovavano a malapena il tempo di far visitaalla madre, Làlla Mànì, il venerdì dopo la preghiera. «I loro figli neanche bacianole mani», era il ritornello. A peggiorare le cose, si aggiungeva il fatto che, fino apoco tempo prima, tutti i miei zii vivevano in casa con noi, e se ne erano andativia solo quando l'opposizione delle loro mogli alla vita comunitaria si era fattainsostenibile. Questo dava speranze a mia madre.

Il primo a lasciare la casa di famiglia era stato lo zio Karìm, padre di miacugina Malika. Sua moglie amava la musica, e le piaceva cantare accompagnatasul liuto dallo zio Karìm, che suonava molto bene. Ma lui raramente acconsentivaa esaudire il suo desiderio di passare una serata a cantare nel loro salone, perchésuo fratello maggiore, lo zio 'Alì, era dell'opinione che cantare o suonare unostrumento fossero attività disdicevoli per un uomo. Alla fine, un giorno, la moglie

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dello zio Karìm prese i figli e se ne tornò da suo padre, dicendo che non aveva piùintenzione di vivere nella casa comune. Lo zio Karìm, un tipo allegro che spesso siera sentito anche lui soffocato dalla disciplina dell'harem, colse l'occasione al voloe se ne andò pure lui, con la scusa che preferiva accontentare la moglie piuttostoche giocarsi il matrimonio. Non passò molto tempo che, uno dopo l'altro, anchegli altri zii si trasferirono, e rimasero solo lo zio 'Alì e mio padre. Perciò, lapartenza di mio padre avrebbe sancito la fine della famiglia tradizionale. «Finchémia madre è in vita», diceva spesso, «non tradirò la tradizione».

Tuttavia mio padre amava sua moglie, e gli dispiaceva a tal punto non poterlaaccontentare che non si stancava mai di proporle compromessi - uno dei quali,per esempio, era quello di rifornirle un'intera credenza di provviste per lei sola,nel caso volesse mangiare qualcosa, sempre con discrezione, a parte dal restodella famiglia. Infatti, uno dei problemi della casa comune era che, se qualcuno,per caso, aveva fame, non poteva semplicemente aprire il frigorifero e agguantarequalcosa da mangiare: in primo luogo, non c'erano frigoriferi a quel tempo;secondo, e più importante l'idea di fondo dell'harem era che tutti dovevanoadeguarsi ai ritmi del gruppo, per cui era inammissibile che un singolo individuopotesse prendere e mangiare solo perché gliene era venuta voglia.

Lalla Ràdiya, la moglie di mio zio, aveva la chiave della dispensa, e anche se,dopo cena, chiedeva sempre cosa volevamo mangiare il giorno dopo, si dovevacomunque accettare quello che il gruppo - al termine di lunghe discussioni -aveva stabilito. Se il gruppo si accordava per il cuscùs con ceci e uva passa, quello

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ti toccava. E se per caso non ti piacevano i ceci e l' uva passa, non avevi altra sceltache star zitto, e accontentarti di un frugale pasto a base di poche olive e moltadiscrezione.

«Che perdita di tempo», diceva mia madre, «queste discussioni interminabilisui pasti! Gli arabi starebbero molto meglio, se lasciassero decidere a ogni singoloindividuo quello che vuole mangiare. Forzare tutti a condividere tre pasti algiorno non serve ad altro che a complicare la vita. E per quale sacro proposito?Nessuno, questo è certo». Quindi proseguiva, dicendo che la sua intera esistenzaera un'assurdità, che niente aveva senso, mentre mio padre continuava arisponderle che non poteva lasciare tutto quanto. Se lo avesse fatto, sarebbemorta la tradizione: «Viviamo in tempi difficili, il paese è occupato da esercitistranieri, la nostra cultura è minacciata. Le tradizioni sono tutto quello che ciresta». A questo ragionamento, mia madre usciva completamente dai gangheri:«Tu pensi davvero che stare tutti pigiati in questa casa assurda ci darà la forzanecessaria a cacciare gli eserciti stranieri? E cosa è più importante, per te, latradizione o la felicità della gente?». Questo metteva bruscamente fine allaconversazione. Papà cercava di accarezzarle la mano, ma lei la ritirava. «La tuatradizione mi sta soffocando», gli sussurrava, con gli occhi pieni di lacrime.

Così papà continuava a offrirle dei compromessi. Non soltanto faceva in modoche mia madre avesse le sue provviste personali, ma le portava anche cose chesapeva a lei gradite, come datteri, noci, mandorle, miele, farina e olii pregiati. E leipoteva preparare tutti i dolci e i biscotti che voleva, ma non doveva mettersi in

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mente di cucinare pietanze e pasti completi. Quello avrebbe significato l'iniziodella fine dell'accordo comune. Le sue colazioni individuali, preparate conostentazione, erano già uno schiaffo in faccia al resto della famiglia. Una voltaogni tanto, mia madre riusciva a preparare un pasto completo, pranzo o cena chefosse, e a passarla liscia, pur se doveva stare attenta non solo a farlo condiscrezione, ma anche a dare alla faccenda una sorta di connotazione esotica. Disolito ricorreva allo stratagemma di mascherare il pasto da picnic notturno interrazza.

Queste occasionali cene tête-à-tête sulla terrazza, nelle notti di luna estive,erano un'altra offerta di pace, da parte di mio padre, perché la mamma potessesoddisfare il suo desiderio di privacy. Così ci trasferivamo tutti in terrazza, comedei nomadi, con materassi, tavoli, vassoi, e la culla del mio fratellino, che venivacollocata proprio al centro del bivacco. Mia madre era letteralmente fuori di sédalla gioia.

Nessuno, dal cortile, si azzardava a farsi vedere di sopra, perché si capiva fintroppo bene che mia madre stava fuggendo dalla folla. Quello che più le piacevaera cercare di far abbandonare a mio padre la sua convenzionale posa diautocontrollo. Dopo non molto, la mamma cominciava a scherzare come unaragazzina, e ben presto mio padre, provocato, si metteva a rincorrerla per tutta laterrazza. «Non puoi più correre, ti sei fatto troppo vecchio!», lo sfidava lamamma, «ora sei buono solo a star seduto e a guardare la culla di tuo figlio».Papà, che fino a quel momento aveva sempre sorriso, prima la guardava come se

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quello che aveva detto non l'avesse affatto toccato; poi, il suo sorriso svaniva, ecominciava ad inseguirla per tutta la terrazza saltando sui divani e sui vassoi deltè. A volte facevano tutti e due dei giochi che coinvolgevano anche me, mia sorellae Samìr (l'unico del resto della famiglia a venire ammesso a queste riunioni alchiaro di luna). Più spesso, però, si dimenticavano completamente del resto delmondo, e noi bambini, il giorno dopo, eravamo tutti raffreddati, perché si eranoscordati di coprirci quando eravamo andati a dormire.

Dopo queste serate di grazia, mia madre rimaneva di umore insolitamentedolce e quieto per un'intera settimana.

Poi cominciava a dirmi che qualunque cosa avessi voluto fare della mia vita,dovevo riscattare la sua. «Voglio che le mie figlie abbiano una vitaentusiasmante», diceva, «molto entusiasmante, e ricca di felicità al cento percento, né più né meno». Io alzavo la testa, la guardavo attentamente, e lechiedevo cosa intendesse per felicità al cento per cento, perché volevo farle sapereche avrei fatto del mio meglio per ottenerla. «Felicità», mi spiegava, «è quandouna persona si sente bene, leggera, creativa, contenta, quando ama, è riamata, edè libera; una persona infelice si sente dentro delle barriere che schiacciano talentie desideri». Una donna, secondo lei, era felice quando poteva esercitare ognigenere di diritti, da quello di muoversi a quello di creare, competere e sfidare e, altempo stesso, di sentirsi amata proprio perché lo fa. Parte della felicità consistevanell'essere amata da un uomo in grado di apprezzare la forza e il talento della suacompagna, e di andarne fiero. La felicità aveva a che fare anche con la privacy, il

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diritto di allontanarsi dalla compagnia degli altri e di immergersi in unasolitudine contemplativa; o quello di sedersi tutta sola a non far niente per tuttala giornata, senza dare giustificazioni o sentirsene colpevole. Felicità era poterstare con le persone care, e tuttavia sentire di esistere come essere distinto, chenon è lì solo per rendere felici gli altri. Felicità era, infine, il frutto dell'equilibriofra ciò che si dà e ciò che si riceve. Allora le chiedevo quanta felicità avesse leinella vita, giusto per farmi un'idea, e lei diceva che la sua variava a seconda deigiorni. Certi giorni ne aveva solo il cinque per cento; altri, come le sere chepassavano con papà in terrazza, aveva una piena e tonda felicità al cento percento.

Ambire a quel cento per cento mi pareva un'impresa superiore alle mie forzedi bambina, soprattutto perché vedevo quanta fatica costasse a mia madrescolpire i suoi momenti di felicità. Quanto tempo ed energia metteva nel crearequelle meravigliose serate al chiaro di luna, seduta accanto a mio padre, asussurrargli cose nell'orecchio, con la testa appoggiata alla sua spalla! A mepareva una conquista non da poco, visto che doveva cominciare a lavorarselomolti giorni prima, e poi doveva pensare lei a tutta la parte logistica, a prepararela cena e spostare la mobilia. Investire uno sforzo così ostinato solo per ottenerepoche ore di felicità mi sembrava impressionante, ma almeno sapevo che erafattibile. Tuttavia, mi chiedevo in che modo avrei potuto, io, mettere insieme tuttaquella felicità per una vita intera.

Bene, se la mamma lo riteneva possibile, di sicuro avrei fatto almeno un

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tentativo.«I tempi si vanno facendo migliori per le donne ora, figlia mia», mi diceva

sempre. «Tu e tua sorella riceverete una buona istruzione, camminerete libereper la strada, e scoprirete il mondo. Voglio che diventiate indipendenti, autonomee felici. Voglio vedervi splendere come la luna. Voglio che la vostra vita sia unacascata di gioia e di letizia. Felicità al cento per cento. Né più né meno». Maquando le chiedevo dettagli sul modo di costruirmi questa felicità, la mammaperdeva la pazienza. «Ti ci devi impegnare. I muscoli per la felicità vannosviluppati, proprio come si fa con quelli che servono a camminare e respirare».

Così, ogni mattina, mi sedevo sulla soglia a contemplare il cortile deserto e asognare del mio favoloso futuro, una cascata di gioia e letizia. Aggrapparsi aquelle romantiche notti di luna in terrazza, sfidare l'uomo amato a dimenticare ilsuo ruolo sociale, a rilassarsi e a fare il matto guardando le stelle mano nellamano, pensavo, poteva essere un modo di sviluppare i muscoli della felicità.Scolpire notti dolci, quando il suono delle risate si confonde con le brezze diprimavera, poteva essere un altro.

Ma quelle sere magiche erano rare, o almeno, così sembrava. Nei giorninormali, la vita prendeva una piega molto più rigida e disciplinata. Ufficialmente,saltellare e far follie non era permesso in casa Mernissi - tutto ciò era confinato atempi e spazi clandestini, come i tardi pomeriggi nel cortile quando gli uominierano assenti, o le sere al chiaro di luna sulle terrazze deserte.

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CAPITOLO 10

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IL SALONE DEGLI UOMINI

In casa nostra, il vero problema con i giochi, gli scherzi e gli intrattenimenti,

era che facilmente capitava di perderseli: non erano mai programmati in anticipo,a meno che non se ne occupassero la cugina Shàma e la zia Habìba, e anche inquel caso, erano soggetti a rigide limitazioni spaziali. I racconti della zia Habìba egli spettacoli di Shàma dovevano necessariamente aver luogo ai piani superiori.Giù in cortile, infatti, non era mai possibile divertirsi a lungo, perché era un luogotroppo pubblico: non appena iniziava il bello, ecco arrivare gli uomini con i loroprogetti, che spesso implicavano un bel po' di discussioni, come quandotoccavano l'argomento affari, o giocavano a carte, o si mettevano a sentire la radioe a commentare le notizie; e noi, di conseguenza dovevamo trasferirci tutti daqualche altra parte. Un buon intrattenimento richiede silenzio e concentrazione,in modo che i maestri di cerimonia, siano essi attori o narratori di storie, possanocreare la loro magia a proprio agio. E la magia era difficile da creare nel cortile,continuamente attraversato da dozzine di persone che andavano da un saloneall'altro, facevano capolino dalle scale laterali, e, in più, usavano fareconversazione da un piano all'altro della casa. E di certo era impossibile creare la

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magia quando gli uomini erano impegnati a discutere di politica, quando, cioè,ascoltavano la radio con gli altoparlanti, o leggevano la stampa locale einternazionale. In quelle discussioni di politica, gli uomini erano sempre moltocoinvolti a livello emotivo. A sentir loro, si aveva l'impressione che la fine delmondo fosse ormai alle porte (La mamma diceva che, a dare retta alla radio e aicommenti degli uomini, il pianeta, doveva già essere scomparso da un bel pezzo.)Gli argomenti più dibattuti erano quello degli «alemanni», cioè i tedeschi, unanuova razza di cristiani che stavano bastonando i francesi e gli inglesi; e di unacerta bomba che gli americani, cristiani d'oltreoceano, avevano buttato sopra ilGiappone, una nazione asiatica vicina alla Cina, migliaia di chilometri a est dallaMecca. Questa bomba era così potente che non soltanto aveva ucciso migliaia emigliaia di persone facendo letteralmente squagliare i loro corpi, ma aveva anchespazzato via foreste intere dalla faccia della terra. La notizia della bomba avevasprofondato nella costernazione mio padre, lo zio 'Alì e i miei giovani cugini,perché - ragionavano - se i cristiani avevano buttato quella bomba su popoli tantodistanti, era solo questione di tempo e presto avrebbero attaccato anche i lorovicini «Prima o poi», diceva mio padre, «saranno tentati di fare un falò anchedegli arabi».

Io e Samìr amavamo le discussioni politiche degli uomini, perché alloraeravamo ammessi nel salone affollato, dove lo zio e papà, vestiti di comodejallàbtyya bianche, sedevano circondati dagli shabàb, ovvero i giovani - cioè,quella dozzina di adolescenti e giovani scapoli che vivevano nella casa.

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Mio padre spesso prendeva in giro gli shabàb per via dell'abbigliamentooccidentale, scomodo e attillato, che avevano preso ad adottare, e diceva che oraavrebbero anche dovuto sedersi sulle sedie. Ma ovviamente nessuno amava lesedie; i divani erano di gran lunga più comodi.

Io salivo in grembo a mio padre, e Samìr in grembo allo zio. Lo zio 'Alì se nestava seduto a gambe incrociate proprio al centro del divano più alto, con indossola sua jallàbiyya bianca immacolata e la testa avvolta in un turbante delmedesimo colore, e con suo figlio Samìr appollaiato in grembo che sfoggiava unbel paio di calzoncini Principe di Galles. Io mi accoccolavo in grembo a mio padre,vestita di tutto punto, in uno dei miei bianchi e cortissimi vestitini francesi,adorni di fiocchi di raso alla vita. La mamma insisteva sempre nel vestirmiall'ultima moda occidentale - vestiti corti dai pizzi vaporosi con nastri colorati elucide scarpe nere. L'unico problema era che andava su tutte le furie se micapitava di sporcare il vestito o di disfarne i fiocchi, e così io la pregavo spesso dilasciarmi indossare i miei comodi piccoli sarwàl (pantaloni), o qualsiasi altroindumento tradizionale che richiedesse minor attenzione. Ma soltanto per le festecomandate, e su viva insistenza di papà, la mamma acconsentiva a farmi mettereil caffettano, tanto era ansiosa di strapparmi all'odiata tradizione. Mi parlava così:«Gli abiti dicono molto sui progetti di una donna. Se vuoi essere moderna,esprimilo attraverso l'abito che porti, altrimenti ti metteranno dietro le sbarre. Icaffettani possono essere di bellezza incomparabile, ma gli abiti occidentaliparlano di lavoro salariato».

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Perciò finii per associare i caffettani ai lussi vacanzieri alle feste religiose e aglisplendori del nostro passato atavico, e gli abiti occidentali ai calcoli pragmatici eal duro dovere del lavoro quotidiano.

Nel salone degli uomini, mio padre sedeva sempre di fronte allo zio, sul divanoaccanto alla radio, per avere il controllo delle manopole. Entrambi indossavanouna jailàbiyya a due strati - quello esterno, sottile, era in pura lana di color bianconeve, specialità di Wazzàn, una città religiosa del nord famosa per i filati; quellointerno, invece, era di un tessuto più pesante. In più mio padre sfoggiava la suapiccola eccentricità: un turbante a ricami giallo pallido di cotone di Shàm (Siria).

«Ma a che serve che indossiamo il nostro abito tradizionale», disse un giornomio padre, scherzando con i giovani cugini che gli sedevano intorno, «quando voigiovani vi vestite tutti alla Rodolfo Valentino?». Tutti quanti, senza eccezione,vestivano all'occidentale, a capo scoperto, e, con quei capelli corti tagliati sopral'orecchio, assomigliavano tanto ai soldati francesi di stanza in fondo alla strada.«Un giorno, forse, riusciremo a buttare fuori i francesi, solo per svegliarci escoprire che assomigliamo tutti a loro», aggiunse lo zio.

Tra i giovani cugini che frequentavano il salone, c'erano i tre fratelli di Samìr:Zìn, Jawàd, e Shakìb, più tutti i figli delle zie vedove o divorziate, e i vari parentiche abitavano in casa. La maggior parte di loro andava a scuole nazionaliste, mapochi tra i più brillanti frequentavano l'esclusivo Collège Musulman, situato apochi metri dalla nostra casa.

Il Collège era una scuola superiore francese che preparava i figli di famiglie

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eminenti a occupare posizioni chiave, dove l'eccellenza scolastica degli studenti simisurava dal grado di padronanza acquisito in lingua e storia araba e francese.

Per vincere l'occidente, la gioventù araba doveva padroneggiare almeno dueculture.

Fra tutti i miei cugini maschi, Zìn era ritenuto di gran lunga il più dotato.Quando era nel salone, di solito sedeva a fianco dello zio, con i giornali francesiostentatamente aperti sulle gambe. Era molto attraente, con i suoi finì capellicastani, gli occhi a mandorla, gli zigomi alti e i baffetti sottili. Aveva una nettasomiglianza con Rodolfo Valentino - che spesso vedevamo sullo schermo alcinema Bùjulùd, dove davano due film alla volta, uno egiziano in lingua araba, euno straniero in francese. La prima volta che Samìr e io vedemmo RodolfoValentino, lo adottammo subito come membro della famiglia, perché somigliavatutto al nostro Zìn. A quell'epoca, Zìn aveva già preso a coltivare una cupaespressione da "Sceicco", a pettinarsi i capelli con la riga, e a indossare abiti scuri,appena ravvivati da un fiore rosso nel taschino della giacca. Mio cugino nonpoteva avere nome più appropriato: Zìn, infatti, significa «bellezza». Io neammiravo il fascino, l'eleganza, la magnifica eloquenza in francese, una linguache nessun altro nella famiglia aveva imparato così bene. Avrei passato ore adascoltarlo, mentre articolava quei suoni bizzarri del francese. Tutti lo guardavanocon soggezione, ogni volta che lo zio gli faceva cenno di dare inizio alla lettura deiquotidiani francesi. Lui cominciava a leggere i titoli velocemente, poi ritornavasugli articoli che lo zio e mio padre sceglievano qua e là, più o meno a intuito,

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perché il loro francese era molto povero; e questi articoli li leggeva a voce alta,prima di mettersi a farne il riassunto in arabo.

Il modo in cui Zìn parlava francese, e in particolare il modo in cui la r glirotolava in gola, mi faceva venire i brividi. La mia r era disastrosamente piattaanche in arabo, e la maestra Làlla Tam mi interrompeva spesso, mentre lerecitavo i versetti del Corano, per ricordarmi che i miei antenati avevano delle rmolto potenti. «Devi avere rispetto dei tuoi antenati, Fatima Mernissi», midiceva. «Perché massacri in questo modo l'alfabeto che non ha fatto niente?». Iomi fermavo, l'ascoltavo educatamente, e le giuravo di avere rispetto per i mieiantenati. Quindi chiamavo a raccolta tutta la mia capacità toracica, e facevo unaudace quanto disperato tentativo di pronunciare una r bella robusta: maregolarmente finivo per strozzarmi. Ed ecco invece Zìn, pieno di talento, tantodotato nell'eloquio da discorrere in francese, che pronunciava quelle r a centinaia,senza il minimo sforzo apparente. Spesso lo fissavo con intensità, pensando che,se mi fossi concentrata abbastanza, un po' della sua misteriosa abilità adarticolare la r mi sarebbe rimasta attaccata.

Zìn lavorava sodo per diventare il nazionalista moderno ideale, cioè uno cheavesse una vasta conoscenza di storia miti e poesia araba, e parlasse fluentementeil francese, la lingua del nostro nemico, per poterne decifrare la stampa escoprirne i piani. E ci riusciva a meraviglia.

Sebbene la supremazia dei cristiani moderni fosse evidente nei campi dellascienza e della matematica, i leader nazionalisti incoraggiavano la gioventù a

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leggere i trattati di Avicenna e Al-Khwàrizmì (17) «tanto per farsi un'idea delmodo in cui funzionavano le loro menti. Può tornare utile sapere che i propriantenati erano svelti e precisi». Papà e lo zio rispettavano Zìn come unrappresentante della nuova generazione di marocchini che avrebbero salvato ilpaese. Era lui che guidava la processione del venerdì alla moschea dialQaràwiyyìn, quando tutti gli uomini di Fez, vecchi e giovani, uscivanoindossando la tradizionale jallàbiyya bianca ed eleganti babbucce di cuoio giallo,per recarsi alla preghiera pubblica. Ufficialmente, il motivo della riunione che siteneva alla moschea ogni venerdì a mezzogiorno, era di natura religiosa, ma difatto tutti, compresi i francesi, sapevano che molte importanti decisioni politichedel Majlis al-Balad, il Consiglio Cittadino, venivano prese proprio in quella sede.Prendevano parte a quella funzione non solo i membri del consiglio, fra i quali viera lo zio 'Alì, ma anche i delegati di tutti i gruppi di interesse della città, dai piùumili a quelli di maggior prestigio. La riunione alla moschea, aperta a tutti,compensava la natura esclusiva del Consiglio che era stato istituito dai francesi, adetta dello zio, come assemblea di dignitari. «Anche se al loro paese hannodeposto re e nobiltà», diceva, «qui da noi, i francesi preferiscono trattare solo conuomini di rango, e sta a noi locali il compito di essere responsabili e dicomunicare con il resto del popolo. Ogni persona che svolga un incarico politico ètenuta a partecipare regolarmente alla preghiera del venerdì. É così che ci simantiene in contatto con la base».

I cinque gruppi che, nei secoli, avevano lavorato per assicurare alla città, e alla

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sua vita economica ed intellettuale, una posizione di rilievo all'interno delMarocco, erano sempre largamente rappresentati nella moschea al venerdì. Primadi tutti venivano gli 'ulamà', ovvero gli uomini di cultura, che dedicavano la vitaalla scienza e potevano rintracciare i loro ascendenti fino ai tempi dell'Andalusia oSpagna Musulmana. Essi tenevano in vita il culto e la produzione dei libri,occupandosi di tutto ciò che li riguardava, dalla fabbricazione della carta all'artedella calligrafia e della rilegatura, fino alla promozione della lettura, dellascrittura e del collezionismo di edizioni rare. Poi venivano gli sharìf, ovvero idiscendenti del Profeta, che godevano di enorme prestigio e svolgevano simboliciruoli chiave in occasione di matrimoni, nascite e riti funebri. Gli sharìf, era bennoto, non disponevano di grandi mezzi; far soldi e accumulare fortune non era laloro preoccupazione principale. Quella era l'ossessione dei tujjàr, o mercanti, checostituivano il terzo gruppo, caratterizzato da grande mobilità e senso degli affari.Erano gli avventurieri, e nelle pause tra le preghiere, amavano spesso narrare deiloro pericolosi viaggi in Asia e in Europa, dove si recavano per compraremacchinari e merci di lusso, o nel sud, oltre il deserto del Sahara.

Quindi venivano le famiglie dei fellàh, i proprietari terrieri, il gruppo a cuiappartenevano mio padre e lo zio. La parola fellàh indicava due opposte categorie:da una parte i poveri contadini senza terra, e dall'altra i ricchi proprietari e isofisticati promotori dello sviluppo agricolo. Lo zio e papà erano fieri di essere deifellàh, ma appartenevano alla seconda categoria. Erano attaccati alla loro terra e,sebbene avessero scelto di vivere in città, niente dava loro più piacere del passare

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giornate intere alla fattoria. I fellàh si occupavano di coltivazioni su scala più omeno estesa, e spesso erano impegnati a tenersi al passo con le moderne tecnicheagricole introdotte dai coloni francesi. Molte delle famiglie di proprietari terrierierano, come la nostra, originarie del nord, della zona fra i monti del Rìf e la città,e andavano fiere delle loro origini contadine, specialmente di fronte allapresuntuosa arroganza degli Andalusi, il gruppo dei dotti.

«Gli 'ulamà sono importanti, è vero», diceva papà ogni volta che veniva fuoril'argomento delle gerarchie cittadine.

«Ma se non ci fossimo noi a produrre le derrate per loro, morirebbero di fame.Con un libro si possono fare molte cose - per dirne alcune, leggerlo, scriverlo, oriflettere sulle idee che trasmette, e così via. Ma non ci si può mangiare, questono; ed è proprio qui il problema degli intellettuali.

Perciò non bisogna farsi impressionare troppo dagli uomini di lettere. Émeglio essere un fellàh come noi, che prima di tutto amiamo e ammiriamo laterra, e poi pensiamo a farci un istruzione. Chi riesce a lavorare la terra e,insieme, a dedicarsi alle letture, non sbaglierà mai». Mio padre era moltopreoccupato per gli shabàb, i giovani di famiglia, che si appassionavano troppo ailibri e perdevano interesse per la terra, e per questo motivo insisteva perché,durante le vacanze estive, passassero il tempo con lui alla fattoria dello zio.

Il quinto e più numeroso gruppo della città era quello degli artigiani, che,prima che i francesi invadessero il mercato con le loro merci fabbricate amacchina, aveva sempre prodotto praticamente tutto ciò che serviva in Marocco. I

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rioni di Fez prendevano il nome dai manufatti che gli artigiani vi producevano.Haddàdìn, alla lettera "lavoratori del ferro", era il rione dove si fabbricavano gliarticoli in metallo, ferro e ottone. Dabbàghìn ("dei lavoratori del cuoio") era ilrione degli articoli in pelle; i vasai lavoravano nel Fakhkhàrìn (rione dei "vasi"); echi cercava dei manufatti in legno, doveva andare al NajJàrìn (rione dei lavoratoridel «legno»). Gli artigiani più facoltosi erano quelli che lavoravano l'oro el'argento, e quelli che trasformavano la seta filata in lussuosa sffìfa(passamaneria) per decorare i caffettani dopo che le donne li avevano ricamati.(18) Gli abitanti di un rione, in genere, sedevano vicini nella moschea e tornavanoa casa in gruppo, parlando e scambiandosi idee sulle ultime nuove.

Il cugino Zìn e gli altri giovani si recavano sempre a piedi al raduno delvenerdì, mentre gli uomini più maturi li seguivano a pochi metri, a volte a piedi avolte a dorso di mulo.

Io e Samìr eravamo contenti quando lo zio e papà prendevano i muli, perché inquel caso anche noi potevamo essere della comitiva. Ci sedevamo ognuno sulmulo del proprio padre, davanti alla sella. La prima volta, mio padre esitò aportarmi con sé, ma io strillai così forte che lo zio intervenne, dicendo che nonc'era nulla di male a portare una bambina piccola alla moschea. Gli hàdithriportano che il Profeta, che la pace e la benedizione di Allàh siano con lui, avevapresieduto funzioni nella moschea mentre una bimbetta gli giocava davanti.

Il venerdì era l'unica occasione in cui i giovani concedevano un tocco ditradizione al loro abbigliamento: invece di andare a capo scoperto, indossavano il

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triangolare berretto di feltro che era ormai divenuto popolare fra i nazionalistiegiziani. In tempi di agitazione, quando la polizia francese diventava isterica,questi berretti potevano mettere nei guai, perché il cappello di feltro aveva fattofurore per la prima volta, nella medìna, dopo che 'Allàl al-Fàsì (un eroe nativo diFez, più volte imprigionato e condannato all'esilio per la sua avversione allapresenza francese in Nord Africa) era apparso indossandone uno alla moschea dial-Qaràwiyyìn.

Tempo dopo, quando il nostro re Muhammad V indossò quel berretto di feltro,elegantemente spinto all'indietro sulla fronte serena, in occasione di un incontroufficiale con il Résident Général a Rabàt, gli esperti di affari arabi di tutto ilmondo conclusero che, per quanto riguardava i loro interessi, da lui non ci sipoteva più aspettare nulla di buono.

Qualunque re metta da parte il turbante tradizionale a favore di un sovversivocappello di feltro, non è più degno di fiducia. In ogni caso, tradizione e modernitàcoesistevano armoniosamente, sia nell'abbigliamento della gioventù che in casanostra, durante le sedute di ascolto delle notizie, nel salone degli uomini. Prima,ognuno ascoltava la radio sia in arabo che in francese. Poi, mio padre la spegneva,e il gruppo ascoltava i giovani che leggevano e commentavano la stampa. Venivaservito il tè, e io e Samìr, era inteso, dovevamo stare a sentire senza interromperetroppo. Tuttavia, spesso premevo la testa contro la spalla di mio padre esussurravo: «Chi sono gli alemanni? Da dove vengono, e perché fanno la guerracoi francesi? Dove si nascondono, se al sud ci sono i francesi e al nord ci sono gli

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spagnoli?». Papà mi prometteva sempre di spiegarmi tutto più tardi, quandosaremmo stati soli nel nostro salone. E me lo spiegò molte volte, ma io rimasisempre confusa, e così Samìr, a dispetto di tutti i nostri sforzi di mettere insiemele tessere del puzzle.

(17) Avicenna (980-1037 d.C.), conosciuto in arabo come Ibn Sìnà, e al-

Khwàrizmì (800-847 d.C.), erano due fra gli illustri studiosi di comunitàmusulmana di grande valore intellettuale e scientifico che iniziò a prosperare benpresto sotto la protezione della dinastia degli Abbasidi, grazie al sostegnofinanziario dello stato. Al-Ma'mùd (813-833 d.C.), il settimo califfo, fu uno diquesti statisti, che pubblicamente dimostrarono di sostenere lo sviluppo dellescienze. L'estesa opera di Avicenna raccoglie tutte le conoscenze mediche del suotempo. Al-Khwàrizmì introdusse l'uso dei numeri indiani e delle tecniche dicalcolo nella matematica araba. Questi e altri studiosi arabi, infine, preservaronoe trasmisero all'occidente cristiano un cospicuo corpus di conoscenze, fondato sulgreco classico, il persiano, il sanscrito e il siriaco.

(18) Il lavoro femminile e quello maschile erano complementari, nel processoproduttivo. Per esempio, i caffettani in seta, prima venivano disegnati da unadonna - che sceglieva modello e tessuto ed eseguiva i ricami -, e poi passavanoall'artigiano che li cuciva, aggiungendo le guarnizioni sui bordi. Lo stessoaccadeva con le calzature: gli uomini tagliavano il cuoio su misura, mandavano ipezzi alle donne addette al ricamo, e poi le donne li rimandavano a loro perché

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venissero cuciti.

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CAPITOLO 11

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LA SECONDA GUERRA MONDIALE VISTA DAL CORTILE

Gli alemanni (ovvero i tedeschi, erano cristiani, e questo era assodato.

Vivevano nel nord come gli altri, in quella che noi chiamavamo Balad Thalj, chesignifica Terra della Neve. Allàh non aveva favorito i cristiani: i loro climi aspri egelidi, li rendevano malinconici e, quando il sole non si faceva vedere per mesi,cattivi. Per riscaldarsi, dovevano bere vino e altre bevande forti, e cosìdiventavano aggressivi e cominciavano ad attaccare briga. A volte bevevano ancheil tè, come il resto del mondo, ma persino il loro tè era amaro e scottava, adifferenza del nostro che era sempre aromatizzato alla menta, all'assenzio o almirto. Il cugino Zìn, che aveva visitato l'Inghilterra, diceva che il tè, da quelleparti, era amaro a tal punto che, per poterlo bere, bisognava allungarlo con il latte.Una volta, io e Samìr, versammo del latte nel nostro tè alla menta, tanto perprovare: puah!, era terribile! Non c'era da stupirsi che i cristiani fossero sempre dicattivo umore e se ne andassero in giro ad attaccare briga.

In ogni caso, sembra che gli alemanni, o tedeschi, stessero già da tempo, e ingran segreto, armando un potente esercito. Nessuno se ne era accorto, finché, unbel giorno, quelli avevano invaso la Francia, e, una volta occupata Parigi, la

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capitale dei francesi, avevano cominciato a dare ordini alla gente, proprio come ifrancesi facevano con noi qui a Fez e noi eravamo pure fortunati, perché almeno,ai francesi, la medìna, la capitale dei nostri antenati, non era piaciuta, e si eranocostruiti la Ville Nouvelle. Chiesi a Samìr cosa sarebbe successo nel caso che aifrancesi fosse piaciuta la nostra medìna, e lui mi disse che ci avrebbero cacciativia, e avrebbero occupato le nostre case.

Ma i misteriosi alemanni non erano solo contro i francesi; avevano dichiaratoguerra anche agli ebrei, e li obbligavano a indossare un distintivo giallo tutte levolte che uscivano per la strada, proprio come i musulmani chiedono alle lorodonne di indossare il velo, così che si possano facilmente individuare. Perché maigli alemanni ce l'avessero tanto con gli ebrei, nessuno nel cortile era in grado didirlo con certezza. Io e Samìr continuavamo a far domande, correndo da ungruppo intento al ricamo ad un altro, nei quieti pomeriggi del cortile, ma tuttoquello che riuscivamo a ottenere erano delle mere supposizioni. «Forse è la stessacosa che accade qui con le donne», diceva la mamma. «Nessuno sa con certezzaper quale ragione gli uomini ci fanno mettere il velo. Sarà qualcosa che ha a chefare con la diversità. La paura del diverso fa comportare la gente in modo moltostrano. Forse gli alemanni si sentono più al sicuro quando sono tra di loro,proprio come gli uomini nella medìna diventano nervosi ogni volta che una donnasi avvicina. Se gli ebrei insistono con la loro diversità, può essere che questofaccia innervosire gli alemanni. Che mondo assurdo, però!».

A Fez, gli ebrei vivevano in un quartiere tutto per loro, che veniva chiamato la

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Mellàh. Per arrivarci da casa nostra, ci voleva esattamente mezz'ora, e gli ebreiavevano un aspetto in tutto identico al nostro, con quelle lunghe vesti simili allenostre jallàbiyya. L'unica differenza era che, al posto dei turbanti, portavanocappelli. Badavano ai loro affari e se ne stavano nella loro Mellàh, a fabbricare deibei gioielli e a preparare quelle deliziose verdure in salamoia per cui eranofamosi. La mamma aveva provato a fare lo stesso con degli zucchini, dei cetriolinie delle piccole melanzane, ma non le erano mai venuti come quelli della Mellàh.

«Si vede che usano delle formule magiche», aveva concluso.Come noi, anche gli ebrei avevano le loro preghiere, adoravano il loro Dio, e

insegnavano le Sue scritture ai loro figli. Per quel Dio, avevano costruito unasinagoga, che era come la nostra moschea; e avevano anche dei profeti in comunecon noi, fatta eccezione per il nostro amato Muhammad, che la pace e labenedizione di Allàh siano con lui.

(Non ho mai imparato a fare l'elenco completo di tutti i profeti, perché eramolto complicato e io avevo una gran paura di sbagliare. La mia maestra, LàllaTam, diceva che a fare sbagli in materia di religione c'era il rischio di andareall'inferno. Si chiamava tajdìf, o bestemmia, e siccome avevo già deciso che sareiandata in paradiso, cercavo di starmene alla larga da certi sbagli).

Una cosa era certa: gli ebrei avevano sempre vissuto insieme agli arabi,dall'inizio dei tempi, e al profeta Muhammad non erano dispiaciuti, al principiodella sua predicazione dell'Islàm. Ma poi gli ebrei avevano fatto qualcosa dicattivo, e lui aveva deciso che, se due religioni dovevano convivere nella stessa

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città, avrebbero abitato in quartieri separati. Gli ebrei erano ben organizzati eavevano un forte senso della comunità, molto più forte del nostro. Nella Mellàh, ipoveri erano sempre assistiti, e tutti i bambini frequentavano le scuoledell'Alleanza Israelita, note per la loro rigida disciplina.

Quello che non riuscivo a capire era: cosa ci facevano gli ebrei nel paese deglialemanni? Come avevano fatto ad arrivare fin lassù, nella Terra della Neve? Iopensavo che gli ebrei, al pari degli arabi, avessero preferenza per i climi caldi, eche dalla neve se ne stessero alla larga. Ai tempi del Profeta, quattordici secoli orsono, avevano vissuto nella città di Medìna, in mezzo al deserto, giusto? E primadi allora, avevano vissuto in Egitto, non lontano dalla Mecca, e in Siria. In ognicaso, gli ebrei avevano sempre bazzicato dalle stesse parti degli arabi. (19) Aitempi della conquista araba della Spagna, quando la dinastia degli Omawadi diDamasco andava trasformando l'Andalusia in un rigoglioso giardino, costruendopalazzi a Cordoba e Siviglia, anche gli ebrei furono della partita. Làlla Tam ciaveva detto ogni cosa a questo riguardo, però ne aveva parlato così tanto che ioavevo finito per confondermi, e pensavo che fosse tutto scritto nel Corano, ilnostro libro sacro.

Perché vedete, il più delle volte, Làlla Tam non si dava pena di spiegarci cosavolevano dire i versetti del Corano. Si limitava a farceli copiare nella nostra lawha,o tavoletta, il giovedì, e a farceli imparare a memoria il sabato, la domenica, illunedì e il martedì. Ognuna di noi sedeva su un cuscino con una lawha in grembo,e si leggeva ad alta voce, ripetendo e ripetendo, finché le parole non si fissavano

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nella testa. Poi, il mercoledì, Làlla Tam ci faceva recitare quello che avevamoimparato. Si doveva mettere la lawha in grembo, rovesciata dalla parte non scritta,e recitare i versetti a memoria. Se non facevi sbagli, lei ti sorrideva. Ma quandotoccava a me, era raro che sorridesse. «Fatima Mernissi», diceva, mentre la suafrusta se ne stava sospesa sul mio capo, «non farai molta strada nella vita, se leparole ti entrano da un orecchio e ti escono dall'altro». Dopo il giorno di recita, ilgiovedì e il venerdì erano praticamente una vacanza, anche se dovevamo pulire lalawha e scriverci dei nuovi versetti. Ma in tutto questo tempo, Làlla Tam non cispiegava mai il significato di quei versi: a parer suo, era energia sprecata. «Vibasta imparare quello che avete scritto sulla lawha», diceva. «Tanto, nessuno vichiederà mai la vostra opinione».

Eppure, tornava sempre con insistenza alla nostra conquista della Spagna, equando io mi confusi e credetti che quella storia facesse parte delle sacrescritture, gridò alla bestemmia e convocò mio padre, il quale ci mise un bel po' ditempo per chiarire la questione. Alla fine papà riuscì a convincerla chel'essenziale, per una signorina che volesse abbagliare il mondo islamico, eraconoscere alcune delle nostre date storiche più importanti, e tutto il resto sisarebbe aggiustato da sé. Quindi, si occupò personalmente di informarmi che larivelazione del Corano ebbe termine con la morte del Profeta, avvenuta nell'anno11 dell'Egira (l'e sodo di Muhammad dalla Mecca), che corrisponde all'anno 632del calendario cristiano. Io chiesi a mio padre se, per favore, poteva semplificarmile cose attenendosi, per il momento, al calendario islamico, ma lui disse che una

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ragazza intelligente, nata sulle sponde del Mar Mediterraneo, doveva sapersiorientare con almeno due o tre calendari. «Passare da un calendario all'altrodiventerà automatico, se comincerai presto», affermò. Ma fu d'accordo a mettereda parte il calendario ebraico, perché era molto più antico di tutti gli altri, e mivenivano le vertigini al solo pensiero di quanto si potesse risalire indietro neltempo.

Ad ogni modo, per tornare al punto, gli arabi conquistarono la Spagna quasi unsecolo dopo la morte del Profeta, nell'anno 91 dell'Egira. Pertanto, la conquistanon è menzionata in alcun passo delle sacre scritture. «E allora perché Làlla Tamcontinua a parlarne?», chiesi. Papà disse che forse era perché la sua famigliaveniva dalla Spagna. Il suo cognome era Sabata, una derivazione di Zapata, e suopadre conservava ancora la chiave della loro casa di Siviglia.

«Ha nostalgia di casa», disse papà. «La regina Isabella fece uccidere quasitutta la sua famiglia».

Andò avanti, e mi spiegò che gli ebrei e gli arabi erano vissuti in Andalusia persettecento anni, dal secondo all'ottavo secolo dell'Egira (VIII-XV secolo d.C.).Entrambi i popoli si erano trapiantati in Spagna quando la dinastia omayyadeaveva conquistato le terre dei cristiani e stabilito un impero con Cordoba percapitale. O era Granada, la capitale? O Siviglia? Làlla Tam non menzionava maiuna città senza nominare anche le altre, quindi poteva darsi che la gente avesse lafacoltà di scegliere fra tre capitali, anche se di norma non se ne poteva avere piùd'una. Ma niente era normale riguardo a questa storia della Spagna, che gli

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Omayyadi avevano ribattezzato Al-Andalus. I califfi omayyadi erano un'allegrabrigata che si era divertita a costruire un palazzo favoloso, l'Alhambra, e unatorre, la Giralda. Poi, per far vedere a tutto il mondo le enormi dimensioni delloro impero, avevano fatto costruire una torre identica a Marràkesh, e l'avevanochiamata Kutubiyya. Per quel che li riguardava, tra Africa ed Europa non c'eranofrontiere. «Tutti vanno matti per quest'idea di unificare i due continenti», dicevamio padre. «Se no, per quale motivo i francesi, adesso, verrebbero ad accamparsifuori dalla nostra porta?».

Così, per settecento anni, gli arabi e gli ebrei, soggiornarono in Andalusia,divertendosi a recitare poesie e a guardare le stelle dal cuore dei loro bei giardinidi aranci e gelsomini, che annaffiavano con un sistema d'irrigazione complesso einnovativo. Qui a Fez, tutti si erano dimenticati dei lontani cugini andalusi, finchéun giorno la città si svegliò e li vide, a centinaia, rifluire in Marocco. urlando dipaura. con le chiavi delle loro case in mano. Una feroce regina cristiana, chiamataIsabella la Cattolica, era emersa dalle nevi e ce l'aveva proprio con loro. Glieneaveva fatte di cotte e di crude, e alla fine aveva detto loro: «O pregate come noi, ovi ributtiamo in mare». Ma, nei fatti, non aveva dato loro il tempo di rispondere, ei suoi soldati avevano buttato tutti nel Mediterraneo. Ebrei e musulmani avevanonuotato insieme fino a raggiungere Tangeri e Ceuta (tranne quelli così fortunatida trovare delle navi) e poi erano corsi a rifugiarsi a Fez. Questo accadeva cinquesecoli or sono, e questo è il motivo per cui, oggi, avevamo una grande comunitàandalusa proprio nel cuore della medina, vicino alla moschea di al-Qaràwiyyìn, e,

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a poche centinaia di metri, una grande Mellàh, un quartiere tutto ebreo. Maquesto non spiega ancora in che modo gli ebrei erano andati a finire nel paesedegli alemanni, no? Io e Samìr ne parlammo un po' e decidemmo cheprobabilmente, quando Isabella la Cattolica cominciò ad alzare la voce, alcuniebrei presero la via sbagliata, andarono a nord invece che a sud, e si ritrovarononella Terra della Neve. Ma anche da là furono cacciati, perché gli alemanni eranocristiani come Isabella la Cattolica, e non volevano attorno gente che nonpregasse come loro. La zia Habìba, però, ci fece osservare che quel ragionamentonon stava in piedi, perché gli alemanni facevano guerra anche ai francesi, cheadoravano lo stesso Dio ed erano cristiani come loro. Questo mise fine alla nostrateoria. La causa della guerra che il mondo cristiano stava combattendo non era dacercarsi nella religione. Io stavo giusto per chiedere a Samìr di lasciare in sospesola misteriosa questione degli ebrei fino all'anno prossimo, ché saremmo stati piùgrandi e più saggi, quando la cugina Malika se ne uscì con una sua spiegazione,che aveva senso, ma era terrificante. La guerra aveva a che fare con il colore deicapelli! Le tribù dai capelli biondi combattevano la gente con i capelli scuri!Pazzesco! Gli alemanni, in questo caso, erano i biondi, quelli alti e pallidi, mentrei francesi erano i brunetti, più piccoli e più scuri di carnagione. I poveri ebrei, chenon avevano fatto niente, a parte sbagliare strada quando Isabella li aveva cacciatidalla Spagna, erano rimasti intrappolati fra i due contendenti. Per caso eranocapitati nella zona di guerra, e per caso si trovavano ad avere capelli castani, manon avevano preso le parti di nessuno!

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E dunque, i potenti alemanni ce l'avevano con chiunque si trovasse ad avereocchi e capelli scuri. Io e Samìr ne fummo terrorizzati. Cercammo conferma ditale teoria presso il cugino Zìn, e lui ci disse che Malika aveva assolutamenteragione. Hai-Hitler - questo era il nome del re degli alemanni - detestava i capellie gli occhi scuri e tirava le bombe dagli aeroplani dovunque individuasse popolibruni o castani. Tuffarsi in acqua non serviva a niente, perché Hitler aveva anchedei sottomarini pronti a ripescarti. Alzando lo sguardo verso il fratello maggiore,Samìr si coprì con le mani i lucenti capelli corvini, come per nasconderli, e disse:«Ma pensi che quando gli alemanni avranno battuto i francesi e gli ebrei, sispingeranno a sud e verranno anche a Fez?» Con la sua risposta, Zìn si tenne sulvago; disse che i giornali non facevano menzione dei progetti a lungo terminedegli alemanni. Quella notte, Samìr fece promettere a sua madre di tingergli icapelli con l'henné, per farli diventare rossi, la prossima volta che si fossero recatial hammàm (il bagno pubblico), e io me ne andai in giro con una sciarpa di miamadre legata ben stretta intorno alla testa, finché lei se ne accorse e mi costrinsea togliermela. «Non ti azzardare a coprirti il capo, sai!», gridò la mamma. «Haicapito? Non farlo mai più! Io mi sto battendo contro il velo, e tu te ne metti uno?!

Cos'è questa sciocchezza?». Io le spiegai tutto di ebrei e alemanni, bombe esottomarini, ma lei non si lasciò impressionare. «Anche se Hai-Hitler in persona,l'onnipotente re degli alemanni, si mettesse proprio contro di te», disse, «tu deviaffrontarlo a capo scoperto. Coprirti la testa e nasconderti non ti aiuterà.Nascondersi non serve a risolvere i problemi di una donna, ma solo a farla

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identificare come una vittima impotente. Io e tua nonna abbiamo soffertoabbastanza di questa faccenda del capo coperto, e sappiamo che non funziona.Voglio che le mie figlie stiano in piedi a testa alta, e camminino sul pianeta diAllàh con gli occhi rivolti alle stelle». Con ciò, mi strappò la sciarpa dal capo, e milasciò totalmente indifesa, a fronteggiare un esercito invisibile che dava la caccia achiunque avesse i capelli neri.

(19) Questa idea di ebrei e musulmani con radici comuni, può oggi suonare

bizzarra, ma gli eventi narrati in questo libro sono antecedenti alla creazione delloStato di Israele, che avvenne nel maggio 1948. A quel tempo, tale visione di unforte legame storico e culturale tra ebrei e musulmani era predominante,soprattutto in Marocco, dove entrambe le comunità avevano ancora vivo il ricordodell'inquisizione spagnola, che aveva portato alla loro espulsione dalla Spagna nel1492. Bernard Lewis ha scritto un interessante capitolo su questa visioneprecedente il 1948, in cui spiega che molti europei erano allora convinti che ebreie musulmani cospirassero insieme contro gli interessi cristiani, neldiciannovesimo secolo e all'inizio del ventesimo. (Bernard Lewis, "Les Juifs pro-lslamiques", in Le retour de l'Islam, versione francese; Parigi, Gallimard, 1985,p.315). La svolta radicale nella percezione delle alleanze fra le tre religioni nelMediterraneo, è avvenuta in un lasso di tempo incredibilmente breve. Infatti,ancora alla fine degli anni Quaranta, la comunità ebraica marocchina eraimponente per numero e rappresentava uno dei pilastri della tradizione in

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Nordafrica, con profonde radici che risalivano alla locale cultura berbera pre-islamica. Da allora, la maggior parte degli ebrei ha lasciato il Marocco, emigrandoin Israele e in altri paesi come la Francia e, in seguito, il Canada. Oggi il quartiereebraico di Fez è interamente popolato da musulmani, e gli ebrei rimasti nel paesesono solo poche centinaia. Perciò, molti intellettuali ebrei marocchini stannotentando di fornire quanto prima una documentazione delle caratteristicheculturali della comunità ebrea del Marocco una delle più grandi del mondo, che siè estinta in meno di una decade.

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CAPITOLO 12

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ASMAHAN, LA PRINCIPESSA CANTANTE

Qualche volta, nel tardo pomeriggio, non appena gli uomini uscivano di casa,

le donne si precipitavano alla radio, l'a privano con le loro chiavi clandestine, edavano il via a una frenetica ricerca di melodie e canzoni d'amore. Shàma fungevada tecnico, perché era l'unica in grado di decifrare le lettere straniere impresse inoro sul solenne frontale della radio. O almeno, così pareva. In realtà, gli uomini siservivano dei comandi con precisione e sicurezza, decifrando quei segnimisteriosi, mentre Shàma, pur avendo imparato da sola l'alfabeto francese, nonriusciva a decodificare quelle SW (short waves), MW (medium waves) e LW (longwaves). Aveva pregato Zìn e Jawàd, i suoi fratelli maggiori, di spiegarle cosasignificavano quelle iniziali, e quando questi si erano rifiutati, aveva minacciato diingoiare il dizionario di francese tutto intero. Al che i due avevano risposto chequand'anche l'avesse fatto davvero, non avrebbe risolto il problema, perché quelleiniziali si riferivano a dei termini inglesi. Di conseguenza, Shàma rinunciò aqualsiasi approccio scientifico, e sviluppò una straordinaria abilitànell'armeggiare a intuito, manovrando più tasti allo stesso tempo e soffocandosenza pietà tutte le stazioni che trasmettevano notiziari, sermoni nazionalisti e

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inni militari, alla ricerca di una melodia. Una volta catturata la melodia, bisognavamanovrare ulteriormente per sintonizzare la grossa radio su un segnale stabile,distinto e non disturbato.

Ma quando Shàma finalmente ci riusciva, e l'aria si riempiva di una calda etenera voce maschile, come quella dell'egiziano Abdelwahhàb che cantavasommessamente "Uhtbbu al-hayàt al-hurra" (Io amo la vita libera, senza catene),l'intero cortile cominciava a mugolare e a fare le fusa dal piacere. Meglio ancoraera quando le magiche dita di Shàma catturavano la voce ammaliante dellaprincipessa Asmahàn del Libano, che sussurrava sulle onde dell'aria, "Ahwà!

Anà, anà, anà, Ahwà!"(Sono innamorata! Io, io, io sono innamorata!). Allora ledonne andavano letteralmente in estasi. Calciavano via le scarpe dai piedi edanzavano a piedi nudi in processione intorno alla fontana, con una manoimpegnata a sollevare il bordo del caffettano e l'altra ad abbracciare un invisibilepartner.

Purtroppo, però, era difficile imbattersi in una delle melodie di Asmahàn.Molto più spesso, ascoltavamo inni nazionalisti cantati da Umm Kulthùm, unadiva egiziana capace di gorgheggiare per ore sul grandioso passato degli arabi esulla necessità di recuperare la nostra gloria contrastando gli invasori colonialisti.

Quale differenza tra Umm Kulthùm, ragazza povera ma dotata di un'ugolad'oro, scoperta in un oscuro villaggio egiziano, che attraverso la disciplina e ilduro lavoro si era fatta strada nel mondo delle celebrità, e l'aristocraticaAsmahàn, che non aveva dovuto fare il benché minimo sforzo per raggiungere la

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fama! Umm Kulthùm proiettava l'immagine di una donna araba insolitamentedeterminata e sicura di sé, che aveva uno scopo nella vita e sapeva il fatto suo,mentre Asmahàn faceva sprofondare i nostri cuori nel dubbio e nellosmarrimento. Forte e prosperosa (nei film al cinema Bùjulùd, appariva sempre inlunghe vesti fluttuanti che nascondevano il suo petto da matrona), UmmKulthùm pensava a tutte le cose nobili e giuste - la condizione degli arabi e lapena del loro umiliante presente - facendosi portavoce del nostro anelitoall'indipendenza. Eppure, le donne non l'amavano allo stesso modo di Asmahàn.

Asmahàn era il suo esatto opposto. Snella, dal seno minuto, con l'ariacompletamente smarrita e disperatamente elegante, era solita portare gonne cortee camicette di taglio occidentale. Era del tutto dimentica della cultura araba,passata e presente, e totalmente assorta nella sua tragica e fatale ricerca dellafelicità. Di quanto accadeva sul pianeta, non poteva importarle meno. Tuttoquello che desiderava era agghindarsi, mettersi fiori nei capelli, e, con lo sguardolanguido, cantare e perdersi nelle danze fra le braccia di un uomo innamorato,romantico come lei - un uomo buono e affettuoso che avesse il coraggio dirompere con le leggi del clan, e danzare pubblicamente con la donna amata. Ledonne arabe, costrette a danzare da sole nei loro cortili chiusi, ammiravanoAsmahàn perché aveva realizzato il loro sogno: stringersi a un uomo in una danzadi stile occidentale, e volteggiare con lui in un abbraccio appassionato. Il piacerefine a se stesso, a fianco di un uomo che a sua volta non fosse interessato ad altro,era l'immagine evocata da Asmahàn.

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Asmahàn aveva un collo lungo che era solita ornare con un vezzo di perle; e iopregavo Shàma di lasciarmi mettere il suo, ogni tanto, solo per pochi minuti,giusto per creare un misterioso legame fra me e il mio idolo. Una volta, miazzardai a chiedere a Shàma che possibilità avevo di sposare un principe arabo,come Asmahàn, e lei mi disse che il mondo arabo, ormai, stava andando verso lademocrazia, e i rari principi disponibili sarebbero stati dei pessimi ballerini.

«Saranno tutti presi dalla politica. Vai a cercarti un insegnante, se hai voglia diballare come Asmahàn».

Tutte noi conoscevamo la vita di Asmahàn fin nei dettagli, perché Shàma ce larappresentava di continuo, nelle recite che organizzava in terrazza. Le piacevamettere in scena la vita di ogni sorta di eroine, ma quella della romanticaprincipessa era di gran lunga la più popolare. La sua biografia era avvincentecome ogni favola che si rispetti, sebbene il finale fosse tragico - e non potevaessere altrimenti, perché una donna araba non può perseguire il piacere sensuale,la felicità e le frivolezze senza pagarne il prezzo. Asmahàn era una principessa,nata fra i monti dei Drusi del Libano. Andata sposa in tenera età ad un cugino, unricco principe di nome Hassàn, divorziò all'età di diciassette anni, e morì quandone aveva trentadue (nel 1944), uccisa in un misterioso incidente automobilisticonel quale risultarono coinvolte delle spie internazionali. Fra queste due datecruciali visse al Cairo, fece l'attrice e la cantante, ed ebbe un successo folgorantein tutto il mondo arabo. Incantava le folle con un sogno inaudito, quello dellafelicità individuale, di una vita sensuale e colma di autoindulgenza, dimentica

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delle pretese del clan e dei suoi codici.Asmahàn metteva in pratica ciò che professava nelle sue canzoni. Era dell'idea

che una donna potesse avere sia l'amore che la carriera; insisteva per vivere unapiena vita coniugale e al tempo stesso esplorare ed esibire le sue doti di attrice ecantante. Il suo primo marito, il principe Hassàn, non riuscì ad accettarlo e laripudiò. Lei tentò ancora, per due volte, e in entrambi i casi i suoi mariti, magnatidell'industria egiziana dello spettacolo, cercarono, almeno all'inizio, di esaudire isuoi desideri. Ma ben presto, anche quei matrimoni si risolsero in poco onorevolidivorzi - il suo ultimo marito finì per minacciarla con una pistola, mentre tutta lapolizia del Cairo inseguiva la coppia cercando di evitare una strage. Alla fine, iservizi segreti francesi e inglesi la coinvolsero nel loro tentativo di sabotare lapresenza tedesca nel Medio Oriente, e questo fece di lei un facile bersaglio diattacchi moralistici, e una vittima indifesa dell'esplosiva situazione politica.

In seguito, ristabilitasi in Libano, per qualche anno Asmahàn sembrò avertrovato finalmente il suo posto. Appariva bella, indipendente e felice. Ospitòriunioni di importanza internazionale nella sua residenza privata a Beirut, e al"King David's Palace" a Gerusalemme, fra il Generale De Gaulle e i presidenti diSiria e Libano. Ai suoi eclettici ricevimenti, si incontravano nazionalisti arabi egenerali europei delle Forze Alleate, banchieri e aspiranti rivoluzionari.

Asmahàn visse la vita di corsa, gustando tutto in gran fretta. «So che non vivròa lungo», era solita dire. Guadagnava molti soldi, ma sembrava sempre nonaverne abbastanza per pagarsi i costosi abiti e i gioielli, nonché i capricciosi viaggi

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che era solita intraprendere all'improvviso. Le piaceva decidere d'impulso diimbarcarsi in un viaggio non programmato - era uno dei suoi passatempi preferiti,che non finiva mai di sorprendere il suo entourage. E fu durante uno di questiviaggi improvvisati, mentre andava in macchina con un'amica, che la morte lacolse all'improvviso, a poche centinaia di chilometri dal Cairo. La sua automobilefu ritrovata in un lago. Gli ammiratori la piansero, mentre i suoi nemici parlaronodi una cospirazione in cui erano coinvolte delle spie. Qualcuno disse che eranostati i servizi segreti inglesi a eliminarla, perché aveva cominciato ad agire controppa autonomia. Per qualcun altro, fu vittima dei servizi segreti tedeschi. Altriancora, quel genere di bigotti che si autoproclamano giudici del prossimo, sicongratularono per quella fine prematura, che definirono il giusto castigo di unavita dissoluta.

Eppure, dopo la sua morte, Asmahàn divenne più leggendaria che mai, perchéaveva dimostrato alle donne arabe che una vita ricolma di deliberataautoindulgenza, per quanto breve e scandalosa, era meglio di una vita lunga eonorata nel rispetto di una letargica tradizione. Asmahàn incantava sia uominiche donne con l'idea che, in una vita avventurosa, il successo o il fallimento nonavessero importanza, e che una vita siffatta fosse molto più desiderabile di unapassata a dormire protetti da porte e cancelli. Non si poteva canticchiare una dellesue canzoni senza che si affacciassero alla mente dei frammenti della sua vitatanto incredibile ed eccitante, quanto tragica e breve.

Quando Shàma metteva in scena la prima parte della vita di Asmahàn, gettava

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un tappeto verde sul pavimento della terrazza perché potessimo visualizzare leforeste degli aspri monti dove la principessa era nata. Poi portava un divano sullascena a rappresentare il letto di Asmahàn, e si truccava con polvere di kohl perevocare i verdi occhi sognanti dell'eroina. I capelli erano il problema maggiore,perché quelli di Asmahàn erano di un color nero corvino, e così Shàma eracostretta a nascondere i suoi fastidiosi riccioli rossi in un turbante nero carbone.Asmahàn aveva anche una pelle chiarissima, ma per le vistose lentiggini di Shàmac'era ben poco da fare. Perciò, mia cugina si concentrava nel ricreare il famosoneo di bellezza dell'attrice sul lato sinistro del mento. Senza quel neo le sarebbestato impossibile interpretare Asmahan.

Quindi si adagiava sul divano, vestita di un qamìs di raso stretto in fondo condel filo metallico, in modo da suggerire un romantico vestito di foggia occidentale.Con uno sguardo afflitto e malinconico, guardava il cielo in silenzio. Poi, vocifuori campo cominciavano a cantare, su un'aria molto triste, quale assurdaperdita di tempo fosse quello starsene lì a giacere quando dovunque tutti sidivertivano.

Quelle belle voci appartenevano alle sorelle di Shàma e ad altre cugine.Accanto al letto di Asmahàn veniva sistemato un cavallo di legno. Perché,

vedete, Asmahàn aveva cominciato presto a cavalcare. Cos'altro poteva fare unadonna di estrema bellezza e di illustri natali in una remota regione araba, dovetutti ancora rammentavano le crociate di tanto tempo addietro, temevanol'occupazione straniera, e tenevano le donne sotto stretta sorveglianza? Asmahàn

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cavalcava come Tàmù nel Rìf devastato dalla guerra; per lei, correre significavalibertà. Essere liberi era potersi muovere. Il galoppare sfrenato, anche quando èsoltanto fine a se stesso, può dare il gusto della felicità - il puro e semplice piaceredel movimento. Così Shàma scendeva dal letto e cavalcava l'immobile cavallo,mentre le voci fuori campo continuavano a cantare, da dietro le tende, quantofosse deprimente sentirsi intrappolate a vita in una situazione senza alternative. Avolte, io e Samìr spingevamo il cavallo avanti e indietro per dare alla scena ilsenso del movimento, mentre il pubblico (cioè mia madre, le mie cugineadolescenti, la zia Habìba e tutte le altre donne di famiglia, vedove o divorziate)cantava insieme al coro.

Poi, io e Samìr tiravamo le tende per passare alla scena del matrimonio.Shàma non voleva che il suo pubblico sprofondasse troppo a lungo nelladisperazione. «Il fine del divertimento è sfuggire i cattivi pensieri», diceva. E quifaceva la sua apparizione il cugino Zìn, avvolto in un mantello bianco, nella partedello sposo, il principe Hassàn. Alla vista di tanta bellezza, io cadevo in deliquio etrascuravo i miei doveri di tecnico di scena. E il pubblico cominciava a lamentarsi,perché era compito dei tecnici provvedere ai rinfreschi ogni volta che aveva luogoun evento importante, quale una nascita o un matrimonio. Io e Samìr eravamoincaricati di servire i biscotti. A un certo punto, il pubblico prese a chiedere ancheil tè, per accompagnare i biscotti, e a minacciare sciopero se Shàma non avesseprovveduto. Ma i bicchieri che alla fine risultarono rotti furono così tanti, chenonna Làlla Mànì si vide costretta a intervenire e a proibirci di servire il tè

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un'altra volta. «Tanto per cominciare, il teatro è un'attività peccaminosa», disse.«Non se ne fa menzione nel Corano, e nessuno ne ha mai sentito parlare né allaMecca né a Medìna. Ora, se queste donne dissennate insistono ad indulgere sulteatro, così sia. Ognuno risponderà dei suoi peccati ad Allàh nel Giorno delGiudizio. Ma rompere i bicchieri di vetro di mio figlio solo perché si sposa quellasvergognata infingarda di Asmahàn, questa sì che è pura follia». Dopo di che,questi matrimoni teatrali dovettero essere celebrati in un'ascetica frugalità, e noici limitavamo a distribuire dei biscottini, spesso preparati all'ultimo minuto dallazia Habìba. Dovevamo trattarlo con i guanti, il nostro pubblico, se volevamo cherimanesse fino alla fine.

Ma torniamo alla recita. Non si faceva in tempo a finire i biscotti, ed ecco cheil principe Hassàn ripudiava la giovane sposa. Shàma appariva sulla scena con lacipria sulle guance che le dava un pallore cadaverico, e trascinava un grosso baulesulla via del Cairo. Il coro cantava di separazione, penoso svezzamento ed esilio,mentre la zia Habìba sussurrava alla mamma: «Asmahàn aveva solo diciassetteanni, quando divorziò. Che vergogna! Ma allora era la sua unica occasione peruscire da quelle montagne soffocanti. A pensarci, il divorzio è sempre una sorta dipasso avanti.

Costringe all'avventura, cosa di cui, nella maggior parte dei casi, si preferiscefare a meno».

Quello che rendeva tutto più interessante, era il fatto che il principe Hassànaveva ripudiato la moglie perché lei voleva portarlo al cabaret e a ballare. Non

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solo la donna insisteva a portare abiti occidentali scollati, tacchi alti, e capellicorti, ma voleva pure frequentare le sale da ballo, dove la gente se ne sta a sederesu rigide sedie occidentali intorno ad alti tavoli, parla di sciocchezze, e balla finoall'alba. Intanto Shàma camminava sulla scena, pallida e tremante, con gli occhimezzi chiusi. «Asmahàn voleva andare nei ristoranti chic, ballare coi francesi, etenere il principe fra le braccia», diceva. «Voleva ballare il valzer con lui tutta lanotte, invece di starsene tra le quinte, dietro le tende, a guardarlo deliberaredurante interminabili consigli tribali da cui le donne erano escluse. Odiava tutto ilclan e le sue leggi crudeli e insensate.

Tutto quello che desiderava era lasciarsi andare a effimeri attimi di gioia eappagamento dei sensi. La donna non era una criminale; non voleva fare del malea nessuno».

A questo punto la zia Habìba interrompeva lo spettacolo.«Io queste cose non me le sono mai sognate», cantava, imitando una delle

melodie di Asmahàn. «E sono stata ripudiata lo stesso! Quindi tenete a mente,donne, non mettetevi limiti. Una donna araba che non insegue i suoi sogni è unaperfetta idiota».

«Silenzio!», gridavano tutti, e Shàma tornava a drammatizzare la voluttuosaricerca d'amore romantico della povera Asmahàn in una società in cui il velosoffoca i bisogni più elementari di una donna. Fu assistendo a questerappresentazioni che giurai a me stessa di affiliarmi a qualche sorta di teatro,quando fossi diventata una donna adulta, alta almeno quanto lei.

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Avrei incantato le folle arabe, allineate in bell'ordine nelle file dei posti asedere, tutti col naso in su a guardare me, e avrei parlato loro di come ci si sentead essere una donna intossicata di sogni, in una terra che stritola sogni esognatori. Li avrei fatti piangere tutti sulle opportunità sprecate, la prigioniainsensata, le visioni soffocate. E poi, quando tutti si fossero sintonizzati sulla mialunghezza d'onda, come Asmahàn e Shàma, avrei cantato le meravigliedell'autoscoperta e il brivido dei salti nell'ignoto.

Oh, sì, racconterei loro dell'impossibiledi un mondo arabo nuovo, dove uomini e donneavvinti in un abbraccio, volano nella danzavia, senza più frontiere, tra loro, né paure.Oh sì, incanterei le folle ricreandocon magiche parole e gesti misuraticome Asmahàn e Shàma prima di me, un serenopianeta in cui le case sono senza portoni,e le finestre danno su strade sicure.Li condurrei per mano a camminaredove la differenza non pretende velii corpi delle donne si muovono con naturalezzae i loro desideri non portano dolore.Per loro e insieme a loro, inventerei poesielunghe poesie che dicono di non aver paura.

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Fiducia è il gioco nuovo da impararee in tutta umiltà confesserei di non saperne nienteneanche io.Guadagnerei denaro a sufficienzaper dare tè e biscotti a tutti quanti,che il pubblico si sieda e si rilassiper ore a digerire questa nuovadi un mondo dove tutti vanno senza paura.Vanno senza avvertire il gelido bisognodi veli e di confini.Vanno, mettendo un piede avanti all'altrocon gli occhi fissi al nuovo quasi inimmaginabile orizzonteignoto eppure privo di minacce.Convincerei chiunqueche la felicità fiorisce ovunqueanche nei vicoli oscuridelle medìne del mondo.Rievocherei AsmahànE lei vivrebbe ancora, non più tragica vittima, non solo.E le Asmahàn vivrebbero felici,senza dover morire alla sua etàdi trame ordite da stranieri e di incidenti d'auto senza senso. Versavo molte

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lacrime sul tragico destino di Asmahàn in quelle pomeridiane sedute teatrali, suuna terrazza isolata.

Assistevo Shàma nelle sue effimere avventure libanesi, tenendo d'occhio, nelcontempo, il moto delle stelle sopra la mia testa. Il teatro, quel dire ad alta voce ipropri sogni, quel dare corpo alle proprie fantasie, era di essenziale importanza.Mi chiedevo perché mai non venisse dichiarato una istituzione sacra.

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CAPITOLO 13

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L'HAREM AL CINEMA

Anche se spesso venivano bollati come frivolezze, in casa nostra gli spettacoli

attiravano le folle. Appena sbrigate le loro faccende domestiche, le donnecorrevano a informarsi in quale punto della casa la zia Habìba avrebbe raccontatole sue storie, o dove Shàma intendeva mettere in scena i suoi spettacoli. Gliintrattenimenti si tenevano negli spazi fuori mano, ai piani alti, o sulla terrazza.Ognuno doveva portarsi dietro una jilsa (un cuscino) per sedersi, e cercarsi un belposto in prima fila, sul tappeto che definiva lo spazio riservato al pubblico. Mamolti non rispettavano questa regola, e si portavano sgabelli o panchetti, cosicchévenivano obbligati a sedersi nell'ultima fila.

Seduta comodamente sul mio cuscino, con le gambe incrociate, potevoviaggiare per tutto il mondo, saltando da un'isola all'altra a bordo di navi cheinvariabilmente facevano naufragio e che poi, per miracolo, venivano riportate agalla da principesse intraprendenti. Quando l'entusiasmo si faceva davverointenso, mi mettevo a dondolare avanti e indietro, con il cuscino in grembo,cavalcando rapita l'incantesimo di parole gettato sugli astanti da Shàma e da ziaHabìba, grandi sacerdotesse dell'immaginazione. Zia Habìba era convinta che

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tutte noi avessimo dentro della magia, intessuta nei nostri sogni. «Quando ci sitrova in trappola, impotenti dietro a delle mura, rinchiuse in un harem a vita»,diceva, «allora si sogna di evadere. E la magia fiorisce quando quel sogno vieneespresso e fa svanire le frontiere. I sogni possono cambiare la vita, e, con il tempo,anche il mondo.

La liberazione delle donne comincia proprio da queste immagini che danzanonella vostra testolina, e che voi potete tradurre in parole. Le parole non costanonulla!». E seguitava a insistere, senza posa, su questa magia dentro di noi,dicendo che era tutta colpa nostra, se non facevamo lo sforzo di portarla alla luce.Anche io potevo far svanire le frontiere - questo era il messaggio che recepivo,seduta sul cuscino, lassù in terrazza. E tutto pareva così naturale, quando midondolavo avanti e indietro, alzando la testa di tanto in tanto per sentire la lucedelle stelle risplendermi sul volto. I teatri dovrebbero essere situati nei luoghialti, sulle terrazze imbiancate a calce, faccia a faccia con il cielo. A Fez, nelle nottid'estate, le remote galassie si univano al nostro teatro, e la speranza non avevaconfini.

Pensavo: oh sì, zia Habìba, anch'io sarò una maga.Mi lascerò alle spalle questa vita stretta e codificata che mi aspetta negli

angusti vicoli della medìna e contemplerò i sogni.Scivolerò oltre l'adolescenza, tenendomi la fuga stretta al petto come le

giovani europee stringono i loro partner nella danza. Le voglio tener care, leparole e copiarle per illuminare le notti scure, e per demolire le mura e i cancelli

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degli gnomi.Mi sembra tutto facile, a guardarvi, zia Habìba, Shàma, sparire e comparire tra

le tende del fragile teatro, fragili, voi, nel cuore della notte, sulla terrazza lontana,eppure così piene della vita, nutrici e custodi di meraviglie. Diventerò una maga.

Cesellerò parole che danno corpo ai sogni, e renderanno vane le frontiere.Durante il giorno, Shàma e la zia Habìba aspettavano pazienti la notte, il

tempo in cui potevano chiamare a raccolta l'immaginazione ed evocare i sogni,quando il sonno metteva k.o. i meno curiosi tra noi. Molte donne della casavivevano per queste notti, ma i giovani maschi, a volte chiamati a prender partealle nostre rappresentazioni, rispondevano sempre con tiepido entusiasmo. A loronon importava poi tanto dei racconti e del teatro, perché, al contrario delle donne,avevano accesso illimitato al cinema Bùjulùd, che si trovava accanto al hammàm.Si capiva che i giovani andavano al cinema quando Zìn e Jawàd si mettevano ilfarfallino rosso. Spesso, Shàma cercava di seguire i suoi fratelli, pregandoli diportarla con loro.

Riluttanti, questi le dicevano che non aveva avuto il permesso né di suo padrené del mio. Ma lei cercava di seguirli ugualmente: indossava in tutta fretta lajallàbiyya, si velava il volto con una sciarpa di chiffon nero, e si precipitava allaporta dietro di loro. Ahmed il portinaio si alzava in piedi non appena la vedevaarrivare. «Shàma», diceva, «per favore, non costringermi anche oggi a corrertidietro per la strada. Non ho avuto istruzione di lasciar uscire le donne». Ma leicontinuava a camminare come se non avesse sentito, e a volte, tanto era svelta,

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riusciva a sgattaiolare fuori. Allora, tutte le donne del cortile si precipitavanoall'ingresso per vedere cosa sarebbe accaduto. Ma non passavano molti minutiche Ahmed ricompariva, sbuffando e ansimando forte, e spingendo la fuggiascaattraverso la porta. «Nessuno mi ha informato che le donne andavano al cinema,stasera», ripeteva con fermezza. «Quindi, per favore, non createmi problemi, nonobbligatemi a correre alla mia età».

Mia madre si agitava molto quando Shàma falliva nella fuga e veniva riportataindietro come una criminale.

«Aspetta e vedrai, Ahmed», si metteva a profetizzare, «verrà presto il giornoche perderai il lavoro, perché le donne saranno libere di andare dove vogliono».Quindi passava un braccio intorno a Shàma e attraversava l'ingresso in direzionedel cortile, mentre tutte le altre donne le seguivano, mormorando di ribellione ecastighi. Shàma restava in silenzio, con le guance rigate di lacrime, e dopo un po',tutta smarrita, chiedeva a mia madre: «Ho diciassette anni e non posso vedere unfilm solo perché sono una donna?

Che giustizia è mai questa? Chi è che ci rimetterebbe se in questo mondoarabo i maschi e le femmine venissero trattati alla pari?».

Le donne di casa Mernissi erano autorizzate a recarsi al cinema solo quando ilfilm era un successo universalmente riconosciuto, e l'intera popolazione di Fezandava a vederlo. Questo era il caso di tutti i film di Asmahàn, e del film Danànìr,che parlava di una jàriya (una giovane schiava) cantante che, grazie alla sua voce eal suo spirito acuto, aveva incantato il califfo Harùn al-Rashìd a tal punto da fargli

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dimenticare le sue altre mille jàriya. A interpretare Danànìr e a riportarla in vitacon la sua voce portentosa, era naturalmente Umm Kulthùm.

La vicenda narrata in Danànìr era ispirata alla storia. Il califfo Harùnincontrava una giovane schiava di nome Danànìr durante una serata di samar. Persamar si intendeva una notte di veglia, quando un califfo sovraccarico di lavorocercava di rilassarsi e di ascoltare poesia e musica, prima o dopo eventi crucialicome battaglie, viaggi pericolosi, o negoziati particolarmente difficili. Venivanoconvocati a palazzo gli artisti di maggior talento, e poiché le donne, in questi casi,potevano competere con gli uomini, ben presto le jàriya di Baghdàd superarono iloro maestri, e i samar divennero appannaggio delle donne. Il samar era l'oppostodi un campo di battaglia.

Il califfo Harùn aveva un gran bisogno di rilassarsi, perché la maggior partedei suoi giorni li passava a combattere sotto il suo regno, l'impero musulmano siestese quasi quanto la Cina. Quando si trattò di Danànìr, il califfo Harùn si trovòa dover fronteggiare un bel problema. La schiava era di proprietà del suo vizir, ilpiù alto dignitario di corte, Yahyà Ibn Khàlid al-Barmakì. (20) E il vizir amavaDanànìr. Così il califfo tenne segreti i suoi sentimenti, e cominciò a far visitaregolarmente al vizir, nella speranza di udire ancora la voce dell'amata. Nonpoteva dichiarare apertamente l'amore che provava per lei, ma in poco tempol'intera città di Baghdàd era venuta, in un modo o nell'altro, a conoscenza del suosegreto, e undici secoli più tardi, l'intera città di Fez accorreva nelle salecinematografiche per assistere alla storia del suo amore frustrato, filmata negli

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studi egiziani.Noi bambini di solito non eravamo autorizzati ad andare al cinema; tuttavia,

proprio come le donne, mettevamo in atto le nostre ribellioni e talvoltariuscivamo a strappare il permesso. Quando dico «noi», in realtà, intendo Samìr,perché a me riusciva difficile mettermi a strillare con gli adulti e a mostrare il miodisappunto come faceva lui, vale a dire saltando su e giù, o meglio ancora,rotolandosi per terra e scalciando su chiunque gli capitasse a tiro. Inscenare unarivolta era per me un affare complicato, e tale è rimasto, non fosse altro che per lostrano atteggiamento di mia madre. Spesso mi incoraggiava a ribellarmi, eripeteva che permettere a Samìr di fare il diavolo a quattro anche per me non erauna gran bella cosa; ma ogni volta che, di mia iniziativa, mi buttavo sul pavimentoe cominciavo a strillare con lei, mi freddava subito dicendo: «Non ho detto che tidevi ribellare contro di me! Ti devi ribellare a tutti gli altri, ma a tua madre deviobbedire, altrimenti è il caos. E comunque, non devi ribellarti stupidamente. Deviconsiderare bene la situazione, e analizzare ogni cosa. Ribellati solo quando seisicura di avere qualche possibilità di spuntarla».

Da quella volta in poi, io profusi molte energie nell'analizzare le mie chancesdi vittoria, in ogni occasione in cui era evidente che le persone si approfittavano dime, ma ancora Oggi, che è passato quasi mezzo secolo, le risposte che arrivo adarmi sono sempre le stesse: inconcludenti. E sogno ancora quel giornomeraviglioso in cui potrò inscenare una rivolta spettacolare "stile Samìr", contanto di urla e di calci.

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Guardando al passato, sento di essere grata a mio cugino per aver fatto, allora,la cosa più giusta. Senza di lui, non sarei mai riuscita ad andare al cinema.

E andare al cinema era un evento entusiasmante, dall'inizio alla fine. Le donnesi vestivano come se avessero dovuto sfilare per la strada senza il velo. Lamamma passava ore e ore a truccarsi e ad arricciarsi i capelli in una pettinaturaincredibilmente complicata. Altrove, ai quattro angoli del cortile, anche le altreerano intente a fervidi preparativi, con i bambini che reggevano specchi e leamiche che davano consigli in materia di kohl, rossetti, acconciature e gioielli.

I bambini dovevano reggere gli specchi a mano e inclinarli in modo giustoperché catturassero i raggi del sole - gli specchi che adornavano le pareti deisaloni non erano di grande utilità, perché il sole non li raggiungeva quasi mai,tranne per poche ore al giorno, e solo d'estate.

Ma alla fine tutte le donne erano agghindate in modo splendido. A quel punto,si coprivano completamente, dalla testa ai piedi, con il velo e con il hayk, o lajallàbiyya - a seconda dell'età e dello status!

Alcuni anni prima, mia madre aveva combattuto con mio padre, prima sullaquestione della stoffa di cui doveva essere fatto il velo, e poi su quella del hayk, ilmanto tradizionale che le donne dovevano portare quando uscivano in pubblico.

Il velo tradizionale consisteva in un pezzo rettangolare di cotone bianco cosìpesante che anche il semplice atto di respirare diventava una vera impresa. Lamamma voleva sostituirlo con un piccolo velo nero triangolare in finissimochiffon di seta. E mio padre ci diventava matto: «É troppo trasparente! Tanto vale

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andare in giro scoperta!». Ma presto il piccolo velo, il lithàm, diventò una moda,con le mogli dei nazionalisti che lo portavano in giro per tutta Fez - ai raduni dellamoschea, e nelle celebrazioni pubbliche, come quelle in occasione del rilascio diprigionieri politici.

Mia madre, inoltre, era decisa a sostituire il tradizionale hayk femminile conla jallàbiyya, il soprabito maschile: un capo che era stato anch'esso recentementeadottato dalle signore dei nazionalisti. Il hayk consisteva in sette lunghi metri dipesante cotone bianco che andavano accuratamente drappeggiati intorno allafigura. Gli estremi del hayk, scomodamente annodati sotto il mento, andavanotenuti con le mani, per impedire che il tutto scivolasse di dosso. Shàma diceva chequell'indumento era stato inventato con il fine preciso di rendere alle donne unatortura il semplice camminare per la strada, di modo che si stancassero prestodello sforzo, tornassero indietro e non si sognassero di uscire mai più. Anche lamamma detestava il hayk. «Se ti capita di inciampare e di cadere», diceva, «rischidi romperti i denti, perché hai le mani occupate e non ti puoi riparare. E poi, ècosì pesante da portare, e io sono così mingherlina!». D'altro canto, la jallàbiyyaera un indumento maschile strettamente attillato, munito di cappuccio e diaperture laterali che permettevano il passo lungo, e maniche tagliate in modo dalasciare le mani completamente libere. Quando i nazionalisti incominciarono amandare a scuola le loro figlie femmine, per la prima volta permisero loro diindossare la jallàbiyya perché più leggera e più pratica del hayk. Andare e tornareda scuola quattro volte al giorno non era esattamente la stessa cosa che andare a

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visitare la tomba di un santo una volta all'anno. Così le ragazze cominciarono aportare la jallàbiyya maschile e, di lì a poco, le loro madri presero a imitarle. Perscoraggiare mia madre dal seguire questa moda, mio padre esprimevaregolarmente aspri commenti sulla rivoluzione in atto per le vie della medìna.«Come le donne francesi, che cambiano le gonne con i pantaloni da uomo»,diceva. «E quando le donne cominciano a vestirsi come gli uomini, allora è peggiodel caos, è il fanà' (la fine del mondo)».

Ma lentamente, a poco a poco, il caos delle strade arrivò anche In casa nostra,e il pianeta continuò miracolosamente a girare come al solito. Un giorno, lamamma apparve con indosso la jallàbiyya di mio padre, col cappuccio rimboccatoordinatamente sulla fronte, e un piccolo lithàm nero triangolare in puro chiffon diseta che pendeva da sopra il naso. Naturalmente, chiunque poteva vedereattraverso quel velo, e mio padre, arrabbiato, l'ammonì che così facendocomprometteva l'onore della famiglia. Ma l'onore delle famiglie, all'improvviso,sembrava correre seri pericoli in tutta Fez, perché le donne in jallàbiyya ecivettuoli veli di chiffon dilagavano per tutte le vie della medìna. Non passò moltotempo che le figlie dei nazionalisti cominciarono a mostrarsi per strada a visoscoperto e gambe nude, in abiti occidentali e distinte borsette alla moda europea.Ovviamente mia madre non poteva sognarsi di adottare l'abito occidentale, tantoconservatore era l'ambiente in cui viveva, ma le riuscì di tenersi la jallàbiyya e ilsemplice lithàm di chiffon. Più tardi, nel 1956, appena mia madre udì che ilMarocco aveva ottenuto l'indipendenza e che gli eserciti francesi erano in ritirata,

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si unì al corteo organizzato dalle mogli dei nazionalisti, e cantò insieme a lorofino a notte inoltrata. Quando alla fine rientrò, esausta dal camminare e dalcantare, aveva i capelli scoperti e il volto nudo. Da allora in poi, non si videro piùlithàm neri a coprire i volti delle giovani donne della medìna di Fez; solo le donneanziane e le giovani contadine appena immigrate in città portavano ancora il velo.(21)

Ma torniamo ai film. In quei rari giorni di festa, la processione delle donnepartiva da casa nel primo pomeriggio, aperta dai miei cugini maschi, come aimpedire alla gente di fare capannello e cercare di intravedere un raro barlumedelle bellezze di casa Mernissi. Subito dopo gli uomini, veniva Làlla Mànì con ilsuo hayk maestosamente drappeggiato attorno alla sottile silhouette, e con latesta sdegnosamente alta, perché anche l'anonimo passante potesse capire che leiera una donna di autorità. Làlla Ràdiya, la mamma di Samir, camminava a fiancodella suocera con passi meticolosamente misurati, e gli occhi fissi sul selciato. Leseguivano la zia Habìba e le altre parenti vedove o divorziate, ognunacamminando in silenzio e reggendosi stretto il candido hayk. Al contrario di miamadre, le donne vedove o ripudiate, che non avevano mariti a proteggerle, nonpotevano rivendicare il diritto a indossare la jallàbiyya: farlo avrebbe siglato laloro condanna immediata e irreversibile come donne perdute. Nell'ultima fila delcorteo venivano le ribelli, ognuna con indosso un'attillata jallobiyya a colori,seguite dalle timide cugine adolescenti che ridacchiavano nervosamente per tuttoil tragitto, e infine, da noi bambini, tenuti per mano da Ahmed.

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In realtà, non c'erano molte donne nella fila delle ribelli, solo mia madre eShàma, ma riuscivano ad attirare l'attenzione di tutti. Mia madre, con gli occhicontornati di kohl, e Shàma, con il suo falso neo di Asmahàn, erano sì velate, dalmomento che portavano il fine e trasparente lithàm nero, ma avevano le manilibere e, passando, lasciavano nell'aria una scia provocante di sensuali profumi.Spesso mia madre faceva ridere tutti imitando Leyla Muràd, la stella del cinemaegiziano specializzata nei ruoli di donna fatale. Camminava guardando fissodavanti a sé (col rischio di inciampare sulle pietre aguzze del selciato dellamedìna), con gli occhi ben aperti, come se avesse qualche grave infezione oculare,e lanciava sguardi a destra e a sinistra, mandando raggi magnetici e sussurrandoin tono cospiratore: «Nessun uomo può resistere alla mia terrificante bellezza!

Un solo secondo di contatto degli occhi, e la vittima innocente cadràcontorcendosi al suolo. Ci sarà una strage di uomini, oggi, per le strade di Fez!».

A mia madre quell'idea era venuta dopo aver sentito le teorie di un egizianofemminista di nome Qàsim Amìn.

Costui era autore di un best-seller, provocatoriamente intitolato La liberazionedelle donne (1899, anno 1316 secondo il calendario islamico), in cui ipotizzava chegli uomini velassero le donne perché ne temevano il fascino e l'avvenenza. Gliuomini non potevano resistere alle donne, scriveva, e spesso si sentivano venirmeno ogni volta che una bella donna passava loro accanto. Qàsim Amìnconcludeva il suo libro esortando gli uomini arabi a trovare il modo di sviluppareuna forza interiore e dominare le proprie paure, così che le donne potessero

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smettere il velo. La mamma amava Qàsim Amìn, ma poiché era analfabeta,doveva pregare mio padre di leggerle i suoi brani preferiti. Prima di acconsentire,mio padre faceva richieste di ogni tipo, che all'inizio la mamma respingeva - peresempio, che lei gli tenesse la mano durante la lettura, gli preparasse la suabevanda preferita (un frappè con mandorle fresche tritate e una goccia di essenzadi fiori d'arancio), oppure, peggio ancora, che gli massaggiasse i piedi. Però, allafine, mia madre, pur con riluttanza, acconsentiva a esaudire i suoi desideri, e loesortava a dare inizio alla lettura. Poi, proprio quando lei cominciava a divertirsi,papà si fermava di colpo, buttava via il libro, e iniziava a lamentarsi che QàsimAmìn stava distruggendo l'armonia del matrimonio arabo. «Ho bisogno dell'aiutodi questo matto egiziano per poter stare vicino a mia moglie, e perché lei siacarina con me?», si lagnava. «Non ci posso credere!». Allora la mamma correva araccogliere il libro dal pavimento, lo rimetteva nella sua custodia di pelle elasciava la stanza, imbronciata ma sicura di sé, con il suo tesoro sotto il braccio.

Shàma, con le sue lentiggini e gli occhi color del miele, rideva di gusto ognivolta che la mamma faceva la donna fatale sul tragitto da casa al cinema. Tutte edue guardavano attentamente a destra e a sinistra per vedere se qualche passantestesse per cadere al suolo. E, naturalmente, entrambe le donne facevanocommenti sugli uomini a cui passavano accanto, costringendo il cugino Zìn e isuoi fratelli a voltarsi di tanto in tanto per invitarle a non parlare così forte.

Una volta nel cinema, l'intero harem sedeva su due file, con i biglietti perquattro, in modo che restassero vuote la fila davanti e la fila di dietro. Non

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volevamo certo che qualche avventore del cinema, birbone e irriverente,approfittasse del buio per pizzicare una delle signore mentre era assorta nellatrama del film!

(20) La famiglia Barmakì era molto potente a quel tempo, e Yahyà, prima di

diventare il vizir di Harùn, era stato suo maestro e mentore. Yahyà morì nell'anno190 dell'Egira (IX secolo d.C.)

(21) Mentre le donne di classe sociale alta o media smisero il velo, lecontadine appena immigrate che vennero a Fez dopo l'indipendenza lo portavanoper proclamare la loro "urbanità", per mostrare che appartenevano alla civiltà enon più alla campagna, dove il velo non fu mai, almeno per quanto riguarda ilNordafrica indossato dalle donne. A tutt'oggi, il hljà6 islamico, un distintocopricapo, è, in Marocco, un fenomeno ristretto alle classi medie, colte e urbane.Le contadine e le donne della classe lavoratrice non seguono questa moda.

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CAPITOLO 14

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FEMMINISTE EGIZIANE IN TERRAZZA

Molte delle rappresentazioni di Shàma sulla terrazza richiedevano la presenza

di interpreti maschili, e quando il cinema del vicinato non entrava incompetizione, tutti i giovani della casa vi partecipavano. Zìn, ovviamente, eramolto richiesto, per via della sua grazia e della sua eloquenza.

Ci prendeva gusto a rubare i turbanti e i mantelli dello zio e di mio padre, e acostruirsi ogni sorta di spade di legno per interpretare in modo convincente iprincipi abbasidi. Ma recitava anche in altri ruoli, dai poeti pre-islamici aimoderni eroi nazionalisti prigionieri nelle carceri francesi e britanniche. Lecommedie che più entusiasmavano il pubblico, però, erano quelle cherichiedevano grandi scene di folla e un gran marciare e cantare, perché in talmodo tutti potevano partecipare. Queste scene facevano ammattire Shàma,perché accadeva che ogni tanto il pubblico svanisse completamente. «Ci deveessere qualcuno seduto a guardare la scena!», sosteneva. «Non ci può essere unteatro senza il pubblico!». Il problema, con Shàma, era che spesso andavasoggetta a sbalzi d'umore del tutto imprevedibili: poteva passare dall'entusiasmopiù frizzante al silenzio più profondo nel giro di pochi minuti, senza che vi fossero

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segnali visibili dell'imminente cambiamento. In più, si scoraggiava moltofacilmente quando il pubblico non si comportava a dovere; in quel caso, sibloccava nel bel mezzo di una battuta, rivolgeva un'occhiata piena di tristezza aicolpevoli dell'interruzione, e si avviava verso le scale. Non c'era molto che sipotesse fare, in quei momenti, e a volte quello stato di depressione durava deigiorni, durante i quali Shàma restava chiusa in camera sua. Ma quando era dibuon umore, questo è certo, metteva il fuoco addosso a tutti quanti!

Perché vedete, il teatro di Shàma forniva a tutti noi meravigliose opportunitàdi scoprire i nostri talenti nascosti e di darne pubblica dimostrazione, superandola timidezza e sviluppando un po' di fiducia in noi stessi. Le mie cugineadolescenti, di norma molto timide, per esempio, avevano la loro opportunità diemergere quando cantavano in coro.

Non volevano, però, che i drappi venissero sollevati - ni quel caso si mettevanoa salutare il pubblico, tormentandosi nervosamente le trecce - ma quando letende erano abbassate, le loro voci risuonavano limpide e gradevoli. Io, da partemia, diventai assolutamente indispensabile quando Shàma si accorse che sapevofare dei salti acrobatici (avevo imparato dalla nonna Jasmìna). Da quel momentoin poi, le mie acrobazie intrattenevano gli spettatori ogni volta che le cosesfuggivano di mano. Appena avevo la sensazione che qualcosa non andasse per ilverso giusto fra il regista, o gli attori, e il pubblico, mi buttavo sulla scena con legambe per aria e le mani per terra. Imparai a capire per istinto quando Shàma erasul punto di piombare nei suoi momenti di tristezza. Le mie acrobazie, inoltre,

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permettevano dei lunghi cambi di costume fra una scena e l'altra. Senza la miaassistenza, Shàma avrebbe dovuto abbreviare di molto i suoi elaborati preparativi.

Ero molto fiera di avere una parte, per quanto silenziosa e marginale, e fattasoprattutto con i piedi. Ma, come diceva la zia Habìba, non importa il ruolo che sisvolge, l'importante è essere utili. L'essenziale era averla, una parte, e concorrereal raggiungimento di una meta comune. E poi, mi diceva la zia, avrei presto avutouna parte importante nella vita reale; dovevo solo sviluppare un talento. Le facevoosservare che forse quel talento avrebbero potuto essere proprio le acrobazie, malei non ne era convinta. «La vita reale è più dura del teatro», diceva. «É poi, lanostra tradizione esige che le donne camminino sui piedi. Tirarli su in aria è unafaccenda piuttosto delicata». Fu allora che cominciai a preoccuparmi del miofuturo.

Ma la zia Habìba mi disse che non avevo niente da temere, perché tutti quantihanno doti meravigliose nascoste nel profondo; l'unica differenza è che alcuniriescono a condividerle con il prossimo, e alcuni invece no. Quelli che nonesplorano e non mettono a disposizione degli altri i doni preziosi che hannodentro, finiscono per vivere male, per essere infelici, a disagio con gli altri, earrabbiati, per giunta.

Un talento bisogna svilupparlo, in modo da poter dare, condividere, brillare. Eil talento si sviluppa lavorando sodo per diventare bravi in qualcosa, il che puòessere qualunque cosa - cantare, ballare, cucinare, ricamare, ascoltare, guardare,sorridere, aspettare, accettare, sognare, ribellarsi, saltare. «Quello che sai far

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bene, qualunque cosa sia, può cambiarti la vita». Così parlò la zia Habìba.Quindi decisi che avrei sviluppato un talento e avrei dato felicità al mio

prossimo, in modo che nessuno avrebbe più potuto farmi del male: non era forsecosì? L'unico problema era che ancora non sapevo quale potesse essere il miotalento. Ma certo qualche dote dentro l'avevo anch'io. Allàh è generoso con le suecreature e a ognuna di esse dona qualcosa di bello; lo semina nel cuore come unfiore misterioso, senza farsene accorgere. Anch'io, probabilmente, avevo ricevutola mia parte; non dovevo fare altro che attendere e coltivarla, finché non fossegiunto il mio momento. Nel frattempo, avrei imparato tutto quello che potevodalle eroine della nostra storia e della letteratura.

Le eroine che più spesso erano ritratte nel teatro di Shàma erano, in ordine difrequenza: Asmahàn, l'attrice cantante; le femministe egiziane e libanesi;Shahrazàd e le principesse delle Mille e una notte; e infine, importanti figurereligiose. Tra le femministe, o rà'idàt- pioniere dei diritti delle donne - tre erano lefavorite di Shàma: 'A'isha Taymùr, Zaynab Fawwàz e Hudà Sha'ràwì. (22) Tra lefigure della tradizione religiosa, le più popolari erano Khadìja e 'A'isha, le moglidel Profeta Muhammad, e Ràbi'a al-'Adawiwa, una mistica. Le loro vite, di solito,venivano rappresentate durante il mese di Ramadàn, quando nonna Làlla Mànì,vestita tutta in verde, il colore del Profeta - che la pace e la benedizione di Allàhsiano con lui -, prima si dava alla meditazione mistica, e poi cominciava apredicare il pentimento dai peccati, e a predire l'inferno in generale a tutti coloroche vivevano dimentichi dei comandamenti di Allàh, e in particolare alle donne

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che intendevano sbarazzarsi del velo, cantare, ballare e divertirsi.Le donne del Marocco, assetate di emancipazione e di progresso, dovettero

importare le loro femministe dall'Oriente, poiché fra quelle locali non ce n'eranessuna abbastanza famosa da diventare un personaggio pubblico in grado dinutrire i loro sogni. «Non c'è da stupirsi che il Marocco sia così arretrato»,osservava Shàma di tanto in tanto. «Schiacciati fra il silenzio del Sahara a sud, leonde furiose dell'Atlantico a ovest, e l'aggressione degli invasori cristiani dal nord,i marocchini si sono arroccati in un atteggiamento di difesa, mentre il resto deipaesi islamici sta veleggiando verso la modernità. Le donne hanno fatto progressidovunque, tranne qui. Noi siamo un museo. Dovremmo far pagare il bigliettod'ingresso ai turisti che vengono a Tangeri!».

Il problema con alcune delle femministe preferite di Shàma, specialmente conle più antiche, era che nella vita non avevano fatto molto più che scrivere, dalmomento che anche loro erano recluse negli harem. E questo significava che nonc'era molta azione da mettere in scena, e dovevamo semplicemente starceneseduti ad ascoltare Shàma che recitava le loro proteste e i loro lamenti in forma dimonologo.

La vita peggiore di tutte era quella di 'A'isha Taymùr. Nata al Cairo nel 1840,tutto quello che aveva fatto era stato scrivere incessantemente dei feroci poemicontro l'usanza del velo, fino alla morte, avvenuta nel 1906. Tuttavia, c'è da direche scriveva in molte lingue - arabo, turco, e addirittura in persiano - e questo mifaceva un certo effetto. Pensate, una donna ostaggio in un harem che impara le

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lingue straniere! Parlare una lingua straniera è sempre un po' come aprire unafinestra in un muro cieco. Imparare una lingua straniera all'interno di un haremequivale a sviluppare delle ali che permettono di volare in un'altra cultura, anchese la frontiera resta, e il guardiano pure. Quando Shàma voleva farci sapere che'A'isha Taymùr leggeva le sue poesie in turco o persiano, lingue che nessuno nellamedìna di Fez aveva mai sentito o era in grado di comprendere, buttava la testaall'indietro e, con lo sguardo fisso al soffitto o al cielo, cominciava ad articolareincomprensibili suoni gutturali privi di senso, con la scansione metrica propriadella poesia araba. Al che mia madre si faceva impaziente. «Cara, ci haiimpressionato e illuminato abbastanza con la padronanza di 'A'isha nella linguaturca», diceva. «Adesso torna all'arabo, o rischi di perderti l'uditorio». Shàma siinterrompeva bruscamente, assumeva un'aria molto offesa, e chiedeva a miamadre di scusarsi all'istante. «Io sto tessendo una magia delicatissima», le diceva,«e se tu continui a urlare, distruggerai il sogno». Allora mia madre si alzava,chinava il capo e l'intero busto, poi si raddrizzava, e giurava che non avrebbe maipiù pronunciato una parola fuori posto. Per il resto del dramma, sedeva immobile,col volto atteggiato in un sorriso di palese approvazione.

L'altra pioniera del femminismo che Shàma ammirava molto, e con cui citoccava convivere, era Zaynab Fawwàz, un'erudita autodidatta libanese, nata versoil 1850, che, da domestica nativa di un oscuro villaggio, si elevò fino a raggiungerelo status di figura letteraria celebre nei circoli intellettuali di Beirut e del Cairo,grazie a una dura disciplina e una serie di matrimoni strategicamente calcolati.

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Ma dal momento che Zaynab non era mai uscita dal suo harem, trasformare lasua vita troncata in azione scenica era un'impresa tremendamente difficile. Dalchiuso dell'harem, tutto ciò che Zaynab Fawwàz poteva realmente fare erainondare la stampa araba di articoli e poesie in cui dava libero corso alla suaavversione per il velo e condannava la pratica della reclusione femminile. Eradell'idea che queste due istituzioni costituissero il maggiore ostacolo allagrandezza dei musulmani, e che spiegassero entrambe il perché, di fronte aglieserciti imperialisti dell'Occidente, il mondo arabo avesse dato prove cosìmediocri. Per fortuna, noi della terrazza non eravamo costretti a sorbirci a lungogli sfoghi a mezzo stampa di Zaynab, ripetitivi fino all'eccesso. L' eroina, infatti,nel 1893 aveva pubblicato un WhoJs who di donne famose, in cui aveva raccoltopiù di quattrocentocinquanta abbaglianti ed eclettiche biografie di donne modello,da Cleopatra d'Egitto alla regina Vittoria d'Inghilterra, e questo forniva a Shàmaun bel po' di materiale tra cui poter scegliere. (23)

Ma la pioniera dei diritti femminili che godeva di maggiore popolarità, almenopresso il pubblico della terrazza, era Hudà Sha'ràwì, una bellezza aristocraticaegiziana, nata nel 1879, che, con i suoi discorsi infuocati e le sue marce popolari,aveva incantato i governanti dell'Egitto. La sua vita forniva a tutti quanti sullaterrazza, compresi noi bambini, ampie opportunità di calcare le scene e cantareinni militari nazionalisti. C'era, infatti, bisogno di attori che recitassero nel ruolodei manifestanti egiziani, attori che interpretassero la polizia britannica, e,naturalmente, comparse per il ruolo di passanti.

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Costretta a un precoce matrimonio all'età di tredici anni, Hudà esercitava unforte fascino su Shàma, perché, con la sola forza di volontà, era stata capace ditrasformare una società intera nel giro di pochi decenni. Hudà era riuscita in dueimprese apparentemente contraddittorie, ovvero battersi contro l'occupazionebritannica e, nel contempo, mettere fine alla propria reclusione di donna. Si tolseil velo una volta per tutte il giorno in cui guidò la prima marcia ufficiale delledonne egiziane contro gli inglesi, nel 1919, e grazie alla sua influenza suilegislatori, passarono molte leggi importanti compresa quella del 1924 che alzaval'età legale del matrimonio per le ragazze a sedici anni. Inoltre, nel 1923, quando ilnuovo stato egiziano indipendente, formatosi appena l'anno prima, varò unacostituzione che limitava il diritto di voto ai soli uomini, ne fu talmentedisgustata che creò l'Unione delle Femministe Egiziane e si batté con successoper il diritto delle donne al voto. (24) La testarda insistenza di Hudà Sha'ràwì suidiritti delle donne ispirò molti altri paesi arabi di recente indipendenza, giàattratti dagli ideali nazionalisti, al punto da includere il diritto delle donne al votoanche nelle loro costituzioni.

Noi della terrazza andavamo matti per la marcia delle donne del 1919.Momento chiave nella costruzione dell'intreccio di Shàma, la marcia dava a tuttil'occasione di invadere la scena, spingersi oltre i drappi precari che Shàma avevamesso su con molte difficoltà (erano sostenuti dai pali per stendere il bucatoinfilati dentro giare di olive), saltare qua e là, gridare insulti a immaginari soldatibritannici, e buttare in aria le sciarpe, simbolo dei detestati veli. Noi bambini, in

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particolare, ci divertivamo un mondo, deliziati alla vista di tutti quegli adulti,comprese le nostre madri, che giocavano come bambini. A volte, l'esuberanzagenerale cresceva a tal punto che Shàma era costretta ad arrampicarsi sulla scala apioli che aveva usato per sistemare il sipario, e ordinare a gran voce agli attori diuscire di scena, perché gli inglesi si erano ritirati dall'Egitto nel 1922, e oraeravamo nel 1947. Hudà, a quella data, si trovava in punto di morte, e un solennesilenzio era di rigore, dal momento che l'eroina si era spenta serenamente nel suoletto. Quando, come spesso accadeva, la gente tardava a smuoversi dalla scena, leurla di Shàma si facevano minacciose. «Se gli attori non tornano in sé e nonrispettano i tempi scenici», proclamava dall'alto della scala, «la direzione delteatro chiuderà i battenti per l'intera stagione, causa vandalismo perpetrato daelementi incontrollabili».

Passare dalla festosa manifestazione di piazza del 1919 alla scena del letto dimorte di Hudà, non era certo una cosa semplice. Non solo dovevamo uscire discena e ritornare a essere pubblico, ma eravamo pure costretti a metterci in luttoe a manifestarlo con solenne silenzio - e l'impresa non era alla portata di tutti.Una volta, la zia Habìba, fu ufficialmente espulsa dalla terrazza solo perché nonaveva potuto fare a meno di ridere quando Shàma, precipitandosi da dietro idrappi, avvolta in un lenzuolo nero frettolosamente indossato, inciampò eperdette l'equilibrio. Anche a noialtri era venuto da ridere, ma per fortuna Shàmaera così impegnata a recuperare l'equilibrio che non aveva visto le nostre facce. Lazia Habìba aveva fatto l'errore di ridere troppo forte, e Shàma si appellò al

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pubblico perché fosse cacciata dal teatro. Non potemmo fare altro cheassecondare la sua richiesta perché, in caso contrario, avrebbe proclamato unosciopero del teatro, e questo non era nell'interesse di nessuno.

In fondo in fondo, però, il vero problema con le vite delle femministe era ilfatto che non offrivano molti spunti per cantare e ballare. Shàma poteva anchedivertirsi a metterle in scena, ma il pubblico preferiva di gran lunga vedereAsmahàn, oppure una delle avventurose eroine delle Mille e una notte. Non fossealtro che perché in quelle storie c'era più amore, passione, avventura. Le vite dellefemministe sembravano tutte fatte di lotte e matrimoni infelici, e mai di momentidi gioia, notti d'amore, o qualunque cosa potesse dar loro la forza di tirare avanti.«Gli uomini arabi erano molto sensibili al fascino di queste signore iperattive,pioniere delle nuove idee», diceva la zia Habìba. «Cadevano ai loro piedi dicontinuo, ma non si è mai sentita una parola su quegli abbracci appassionati, unpo' perché le femministe pensavano che fossero politicamente irrilevanti, un po'perché si censuravano da sole, per paura di essere attaccate come donneimmorali». A volte, però, la zia Habìba si domandava in privato se non fosseShàma a operare tale censura, nel timore che, drammatizzando gli episodiromantici, il pubblico si lasciasse trascinare da quelli e si dimenticasse della lotta.Comunque stessero le cose, fu proprio a quel tempo e in quella sede che presi laseguente decisione: se mai avessi guidato una battaglia per la liberazione delledonne, mai e poi mai avrei trascurato la mia sensualità. Come diceva la ziaHabìba, «Perché mai ribellarsi e cambiare il mondo se non puoi avere quello che

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ti manca nella vita? E quello che manca in assoluto nelle nostre vite è l'amore e lapassione. A che serve organizzare una rivoluzione, se il nuovo mondo che nasce èun deserto emotivo?».

Nelle Mille e una notte, le eroine di Shahrazàd non scrivevano di liberazione -in compenso, però, la vivevano, pericolosamente e sensualmente, e riuscivanosempre a tirarsi fuori dai guai. Non cercavano di convincere la società a liberarle -iniziavano a liberarsi da sole. Si prenda, a titolo d'esempio, la storia dellaprincipessa Budùr. Eccola qua, una principessa viziata e iperprotetta, figlia delpotente re Ghayur, e moglie dell'altrettanto potente principe Qamar al-Zamàn.L'eroina parte per un viaggio con suo marito, e naturalmente e lui a prendersicura di ogni cosa; lei si limita a seguirlo, come fanno di solito le donne quandoviaggiano col marito o i parenti maschi. La carovana si spinge molto lontano interre straniere finché, un giorno, la principessa Budur si sveglia e scopre di esseresola nella sua tenda, in mezzo a una terra di nessuno. Il principe Qamar è svanitonel nulla. Temendo che gli altri uomini della carovana possano usarle violenza,rubarle i gioielli o venderla come schiava, la principessa decide di indossare ipanni del marito e farsi passare per un uomo. Non sarà più la principessa Budur,ma il principe Qamar al-Zamàn. E il trucco funziona! Non solo la donna riesce aevitare lo stupro e il disonore, ma si ritroverà con un regno tutto suo dagovernare. La terrazza acclamava la principessa Budùr come colei che aveva osatoconcepire l'impossibile, l'irreale. Come donna, era Impotente e disperatamentevulnerabile, circondata da Incalliti predoni. A pensarci, la sua situazione era

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davvero senza scampo - bloccata in una terra di nessuno, lontana da casa, nelmezzo di un'intera carovana di schiavi ed eunuchi inaffidabili, per non parlare deimercanti, tipi notoriamente poco raccomandabili. Ma quando ci si viene a trovarein una situazione così disperata, non resta che capovolgere il mondo, trasformarlosecondo i nostri desideri, e ricrearlo da principio. Ed è esattamente questo quelche fece la principessa Budùr.

(22) Le pioniere del femminismo sono molto famose nel mondo arabo, dove è

presente una forte tradizione di compilazioni del tipo Who's who chedocumentano vita, imprese e successi di donne celebri. La passione degli storiciarabi per le donne eccezionali ha prodotto un distinto genere letterario chiamatonisà'iyyàt dalla parola nìsà', donne. Salàh al-Dìn al-Munàjid, un ammiratore didonne straordinarie, ha compilato un elenco di trattati sulle donne che contaqualche centinaio di titoli, nel suo "Mà 'ullifa 'an al-nisà"' (Tutto quello che èstato scritto sulle donne, nel giornale Majallat majma' al-lugha al-'arabiyya(1941), vol.16 p.216. Sfortunatamente, le femministe arabe, che sono delle figurechiave nella storia dei diritti umani nel mondo islamico, sono poco noteall'Occidente. Un profilo molto valido delle maggiori femministe deldiciannovesimo e ventesimo secolo, che potrebbe tornare molto utile ai lettorioccidentali se venisse tradotto è il primo volume di Women Pioneers, di EmilyNasrallah, che al momento esiste solo in lingua araba (Beirut, MuassassatNawfàl, 1986).

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(23) Zaynab Fawwàz al-Amili, Al-durr al-manthùr fi tabaqàt rabbat al-khudùr(Boulaq, Egitto: Al-Matba'a al-Kubra 1895, anno 1316 del calendario islamico).Nella sua introduzione spiega che il libro è un"'opera dedicata alla causa dellecreature di sesso femminile della mia razza" (ja'altuhu khidmatan li-banàtnaw'ì).

(24) Hudà Sha'ràwì è celebre nel mondo arabo, e un barlume della sua vitaeccezionale si può cogliere nella traduzione inglese di un'antologia dei suoi scritti,ad opera di Margot Badran, intitolata Harem Years: The Memoirs of an EgyptianFeminist (Londra, Virago Press, 1986). Per una descrizione a immagini dellecampagne femministe di Hudà Sha'ràwì, si veda Sarah Graham Brown, Image ofWomen: The Portrayal of Women in Photography of the Middle East, 1860-1959(New York, Columbia University Press, 1988). Nell'ultimo capitolo, "CampaigningWomen", si possono vedere le foto della marcia del 1919.

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CAPITOLO 15

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IL DESTINO DI BUDUR

Chi andasse in cerca della storia di Budùr nelle Mille e una notte, avrebbe un

bel da fare per rintracciarla. Innanzi tutto, il suo nome non appare nel sommario.Il racconto va sotto il nome di suo marito: Storia di Qamaral-Zamàn. Secondo, lasua storia è narrata nella novecentosessantaduesima notte, quindi, prima diimbattersi in Budùr, bisogna arrivare alla fine del libro. Il motivo di ciò, a dettadella zia Habìba, era da ravvisarsi nel fatto che la narratrice, Shahrazàd, temeva dirimetterci la testa, se avesse raccontato la storia di Budùr fin dall'inizio. (25)Dopo tutto, la morale della favola è che una donna può spacciarsi per un uomo eprendersi gioco della società; non deve far altro che cambiare i suoi abiti conquelli del marito: la differenza tra i sessi è una cosa ridicola, è tutto un fatto diabbigliamento. Già questa, di per sé, era una lezione davvero insolente da dare alfurioso re Shahriyàr, figuriamoci, poi, se Shahrazàd gli avesse raccontato la fiabala prima notte! Perciò, la furba ragazza cominciò a intrattenere lo sposo con dellestorie meno inquietanti, per ammorbidirlo un poco, prima di procedere conquesta.

Un tratto particolarmente gradevole della principessa Budùr era il suo non

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essere una donna forte. Come la maggior parte delle donne sulla terrazza, non erapersona abituata a risolvere da sola i suoi problemi. Dipendente in tutto e pertutto dagli uomini, e completamente ignorante del mondo esterno, non aveva maisviluppato alcuna fiducia in se stessa, e non aveva alcuna pratica nell'analizzare lesituazioni problematiche per arrivare a delle soluzioni. Eppure, a dispetto del suoessere totalmente impedita, riuscì a prendere le decisioni più giuste - e piùazzardate. «Non c'è nulla di male nell'essere impedite, signore mie!», diceva la ziaHabìba, quando era il suo turno di entrare in scena. «La vita della principessaBudùr ce lo dimostra. Non aver mai avuto l'occasione di mettere alla prova italenti, non significa non averne».

La zia Habìba assumeva il controllo della scena ogni volta che il pubblico,annoiato dalle femministe di Shàma, si metteva a reclamare commedie più allegreche includessero danze e canti. Come direttore scenico, la zia Habìba non eracoercitiva come Shàma che investiva un'incredibile quantità di energienell'ambientazione scenica e nei costumi. La zia Habìba, al contrario, riducevatutto al minimo indispensabile. «La vita è già abbastanza complicata», era solitadire. «Quindi, per amor di Dio, non complicatela ancora di più, quando intendeterilassarvi». Durante le rappresentazioni, la zia Habìba sedeva su una comodasedia, coperta da un drappo preziosamente ricamato, che doveva suggerire untrono. Inoltre, per l'occasione, indossava il suo elegante caffettano con i ricami inoro, che di solito teneva accuratamente ripiegato nella cassapanca di cedroscampata per miracolo al naufragio del suo matrimonio. Il caffettano era tutto in

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velluto nero, tempestato delle perle che il padre della zia Habìba aveva riportatoda un pellegrinaggio alla Mecca; e i ricami erano opera della zia stessa, che avevaimpiegato tre lunghi anni a finire il lavoro. «Oggi la gente si compra i vestiti giàfatti e se ne va in giro indossando roba che non ha creato», diceva. «Ma quandoimpieghi notti dopo notti per ricamare una sciarpa o un caffettano, ecco che unsemplice capo di vestiario diventa una meravigliosa opera d'arte». (26) Di certo, ilcaffettano della zia incuteva un insolito rispetto e, dal momento che di norma erariservato ad occasioni molto speciali, conferiva alla scena un tocco di esotismo,quando la zia compariva indossandolo.

Il dramma della principessa Budùr iniziava piuttosto bene, con suo padre, il reGhayùr, che riforniva lei e l'amabile sposo, il principe Qamar al-Zamàn, di tuttociò che era necessario per il viaggio.

Il re fece condurre fuori dalle stalle cavalli marchiati a fuoco con il suo sigillo,e dromedari di razza capaci di viaggiare dieci giorni senz'acqua; e ordinò dipreparare una lettiga per sua figlia, oltre a muli e cammelli carichi di provviste; inpiù, diede loro schiavi ed eunuchi per servirli, e ogni sorta di equipaggiamenti permeglio viaggiare, e il giorno della partenza, quando il re Ghayùr prese congedo dalgenero, il principe Qamar al-Zamàn, gli fece dono di dieci splendide vestiintessute d'oro e di perle preziose, insieme a dieci cavalli da corsa e diecicammelle, più una fortuna in denaro, e gli raccomandò di amare e di aver cura disua figlia, la nobile principessa Budùr. (Quindi, il principe e la principessapartirono), senza far sosta il primo giorno, né il secondo né il terzo né il quarto;

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viaggiarono senza fermarsi per un intero mese, finché arrivarono in una pianuradi pascoli abbondanti, dove piantarono le loro tende, mangiarono, bevvero eriposarono, e la Principessa Budùr si sdraiò a dormire".(27)

E quando si svegliò il mattino dopo, si ritrovò tutta sola nella tenda. Il suosposo era misteriosamente scomparso. A questo punto noi bambini, sedutiaccanto alla tenda della principessa Budùr, facevamo ogni sorta di rumori perindicare che la carovana si stava svegliando. Samìr, bravo com'era a farl'imitazione del cavallo, nitriva e scalpitava tutto il tempo, fermandosi soltanto, econ riluttanza, quando Shàma, nella parte di Budùr, cominciava a riflettere ad altavoce sulla solitudine e l'impotenza di una donna che si trova all'improvviso senzamarito.

Se esco dalla tenda e lo dico ai servi e quelli apprendono che mio marito èscomparso, allora cominceranno a concupirmi: non ho modo di sfuggire a questasorte, a meno che non usi uno stratagemma. Quindi si alzò e indossò alcuni abitidi suo marito, e i suoi stivali per cavalcare, e si avvolse intorno al capo unturbante come quello dello sposo, usandone un capo per coprirsi il volto, come unvelo a protezione della bocca. Poi fece sedere una giovane schiava nella sualettiga, e uscì dalla tenda; e insieme alla sua corte viaggiò per giorni e notti, finchéla carovana giunse in una città che sorgeva sulle sponde del Mar Rosso, e là,presso le mura, piantarono le tende e si fermarono a riposare. La principessachiese il nome di quella città, e le fu detto che era chiamata la città dell'Ebano, ilcui re aveva nome Armanùs, e la figlia del re, Hayàt al-Nufùs.(28)

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L'arrivo alla città dell'Ebano non mise fine ai guai della principessa Budùr.Anzi, la sua situazione peggiorò, perché il re Armanùs fu così compiaciuto delfinto principe Qamar al-Zamàn da offrirgli la mano di sua figlia, Hayàt al-Nufùs.

Quale orribile prospettiva per la principessa Budùr! Hayàt al-Nufùs avrebbescoperto subito il suo trucco, e c'era il caso che, per tale truffa, il re le avrebbefatto tagliare la testa. Nella città dell'Ebano, la gente veniva decapitata ogni giornoper molto meno.

Nella scena successiva, la principessa Budùr misurava a grandi passi la suatenda, interrogandosi sul da farsi. Accettando la proposta del re, rischiava di venircondannata a morte per aver mentito. Ma se avesse rifiutato la proposta, il rischiodi condanna a morte non cambiava. Non è saggio rifiutare la proposta di unsovrano, se si vuol vivere a lungo e in buona salute, specialmente quando talerifiuto implica snobbarne la figlia.

Mentre Shàma camminava avanti e indietro, mettendo in scena il dilemmadella principessa Budùr, il pubblico si divideva in due fazioni. La prima suggerivadi dire al re la verità, perché, se Budùr gli avesse fatto sapere di essere una donna,lui poteva anche innamorarsi di lei e perdonarla. L'altra fazione suggeriva chesarebbe stato meno rischioso per Budùr accettare l'offerta di matrimonio e poi,una volta in camera, raccontare tutto alla principessa Hayàt, perché questoavrebbe fatto scattare la solidarietà fra donne. La solidarietà tra le donne era, inverità, un argomento delicatissimo, nel cortile, perché raramente le donne eranotutte dalla stessa parte contro gli uomini. Alcune di loro, come la nonna Làlla

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Mani e Làlla Ràdiya, della fazione pro-harem, erano sempre in sintonia con ledecisioni prese dagli uomini, mentre altre donne, come mia madre, non lo eranoaffatto. Anzi, mia madre arrivava ad accusare quelle che si alleavano con gliuomini di avere una grossa parte di responsabilità nelle sofferenze delle donne.«Queste signore sono ancora più pericolose degli uomini», spiegava, «perchéfisicamente sembrano come noi, ma in realtà sono lupi travestiti da agnelli. Seesistesse la solidarietà fra le donne, non saremmo qui inchiodate su questaterrazza. Potremmo viaggiare per tutto il Marocco o navigare fino alla cittàdell'Ebano, se ne avessimo voglia». La zia Habìba, che sedeva sempre nella primafila, anche quando non doveva dirigere né svolgere altri ruoli, fu incaricata daShàma di tenere sotto stretta sorveglianza gli umori del pubblico e, ogni qualvoltavenisse fuori l'argomento della solidarietà tra donne, di censurarlo all'istante,prima che potesse degenerare in più serie e amare discussioni.

Ad ogni modo, la principessa Budùr scelse la solidarietà tra donne, e la sceltasi rivelò saggia, a dimostrazione che le donne sono capaci di grandi e nobilisentimenti l'una verso l'altra. Accettò la proposta del re Armanùs di sposare suafiglia e, come immediata conseguenza di tale atto, acquisì il diritto di assumere ilgoverno della città dell'Ebano - niente male, come inizio. Noi della terrazzacelebravamo il matrimonio con la consueta distribuzione di biscotti da parte miae di Samìr. Una volta, Shàma provò ad avanzare l'obiezione che, data la paleseillegalità di un matrimonio tra donne, i biscotti non dovevano essere distribuiti.La reazione del pubblico non si fece attendere. «La regola dei biscotti va

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rispettata. Non si è mai detto che il matrimonio doveva essere legale».Dopo la cerimonia, gli sposini si ritirarono nella camera da letto di Hayàt. Ma

quella prima notte, la principessa Budùr liquidò la giovane sposa con il bacettodella buonanotte e poi cominciò a pregare per ore e ore, finché la povera Hayàtcadde addormentata. Durante questa scena, tutti noi ridevamo al ritratto cheShàma faceva di questo sposo tanto pio. «Finiscila di pregare, vai a fare il tuodovere», le gridava mia madre. Quindi, io e Samìr ci precipitavamo sulla scena atirare giù il sipario, per indicare che era passata una notte. Poi alzavamo le tendedi nuovo e il povero marito era sempre assorto in preghiera, mentre Hayàt al-Nufùs era lì seduta ad aspettare di essere baciata. E facevamo così per più volte,con lo sposo che continuava a pregare e la sposa che continuava ad aspettare,mentre il pubblico si sbellicava dalle risate.

Alla fine, dopo molte notti di preghiera, la principessa Hayàt ne ebbe piene letasche e andò a lamentarsi dal suo potente padre, il re Armanùs. Disse che ilprincipe Qamar non era interessato a darle un figlio, poiché passava le nottipregando senza sosta. Come c'era da aspettarsi, questo non piacque al re, cheminacciò di bandire all'istante lo sposo dalla città dell'Ebano, se non si fossecomportato da uomo.

Così, quella stessa notte, la principessa Budùr si confidò con la principessaHayàt, raccontandole tutta la storia e chiedendole aiuto.

Ti scongiuro, in nome di Allàh, tieni per te la confidenza che ti ho fatto, poichého tenuto nascosto il mio caso solo perché Allah possa ricongiungermi al mio

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amato Qamar alZamàn. (29)E, naturalmente, il miracolo avvenne. La principessa Hayàt simpatizzò con

Budùr e le promise il suo aiuto. Le due donne misero su una falsa cerimonia dellaverginità, come prescritto dalla tradizione.

Hayàt al-Nufùs si alzò e andò a prendere un piccione, gli tagliò la gola propriosulla sua camicia e si imbrattò del suo sangue. Poi si tolse i pantaloni che portavasotto la veste e gridò a gran voce, di modo che la sua gente accorresse, einnalzasse i consueti inni e canti di gioia. (30)

Dopo di che, le due donne vissero agli occhi di tutti come marito e moglie,mentre la principessa Budùr, da una parte governava il regno5 e dall'altraorganizzava le ricerche per trovare il suo amato Qamar al-Zamàn.

Le donne sulla terrazza applaudivano alla decisione di Budùr, che aveva osatofare l'impossibile, e, a spettacolo concluso, discutevano animatamente, sino anotte fonda, e, sul destino e la felicità, come sfuggire l'uno e perseguire l'altra. Lachiave di tutto, molte ne convenivano, era proprio la solidarietà tra le donne.

(25) Nel testo arabo in mio possesso (Beirut, Al-Maktaba al-Cha'biya, vol.4),

La storia di Qamar al-Zamàn ha inizio la novecentosessantaduesima notte, manella traduzione del Burton è alla centosettantesima notte.

(26) Sebbene gli harem siano scomparsi negli anni Cinquanta, e le donne delleclassi medie e alte siano passate all'istruzione e alle professioni, il desiderio delledonne di mantenere il controllo sulla moda rimane più forte che mai. Le migliaia

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di marocchine che negli anni Novanta lavorano come professioniste (un terzo deimedici, avvocati e professori universitari del Marocco è costituito da donne) nonhanno rinunciato alla tradizione di disegnarsi personalmente abiti e gioielli, ehanno in tal modo contribuito a un revival delle arti tradizionali Jallàbiyye ecaffettani sono stati accorciati e ridisegnati, secondo il gusto e la fantasia, in ognisorta di tessuti e colori. Non è insolito incontrare dottoresse, giudici, avvocatessenelle buie stradine della medìna, sedute sui panchetti degli artigiani a discuterecon loro del colore, del modello e dei ricami per i loro moderni capi di vestiario.

(27) The Tale of Qamar al-Zamàn, traduzione del Burton, vol. 3, p. 278 (28)Ibid., p. 283

(29) Burton, p. 289(30) Ibid. p.

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CAPITOLO 16

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LA TERRAZZA PROIBITA

Comunque sia, la felicità, lo pensavo allora e lo penso a tutt'oggi, è

inconcepibile senza una terrazza, e per terrazza intendo qualcosa di molto diversodai tetti europei che ci descrisse il cugino Zìn dopo aver visitato Balad Thalj, laTerra della Neve. Ci disse che le case, da quelle parti, non hanno le nostre terrazzepiatte, imbiancate a calce, e spesso adorne di lussuosi pavimenti, piante, fiori edivani. Al contrario, i loro tetti, concepiti per riparare le case dalla neve, sonotriangolari e appuntiti, e non è possibile neanche stare in piedi, lì sopra, perché siscivolerebbe subito di sotto.

Tuttavia, anche a Fez, non tutte le terrazze erano concepite per essereaccessibili; su quelle più elevate, di norma, era proibito sahre, perché a cadere giùda quelle altezze, si era spacciati. Nondimeno, io sognavo sempre di visitare lanostra terrazza proibita, la più alta in tutto il vicinato, dove, a memoria mia,nessun bambino aveva mai messo piede.

Ma quando, finalmente, mi avventurai su quella vetta proibita per la primavolta, mi passò di colpo la voglia di visitarla. Anzi, decisi seduta stante di rivederel'idea che i grandi fossero tutti degli esseri irragionevoli e maledettamente

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determinati a impedire ai bambini di divertirsi. Ero così spaventata, in piedi lassùin cima, che perdetti la capacità di respirare e cominciai a tremare dalla testa aipiedi.

Quanto desiderai di aver obbedito ai grandi, dopo tutto, e di essere rimastasulla terrazza bassa, cinta di parapetti alti un paio di metri! I minareti e persinol'imponente moschea di al-Qaràwiyvìn erano ai miei piedi, piccoli come giocattoliin una città di gnomi, mentre le nuvole che mi passavano sul capo parevanominacciosamente basse, con i bordi superiori infiammati di un rosa acceso, quasirosso, cosa che dabbasso non avevo mai veduto. E udii un rumore così strano espaventoso che, sulle prime, pensai fosse un uccello mostruoso e invisibile. Maquando ne chiesi ragione alla cugina Malika, lei mi disse che ero solo spaventata;che era il rumore del sangue che mi scorreva veloce nelle vene; che anche lei siera sentita così la prima volta che si era avventurata a quell'altezza. E aggiunseche se mi fossi messa a gridare o avessi detto di aver paura, si sarebbe anchescomodata per aiutarmi a scendere, ma mai e poi mai mi avrebbe portata di nuovosu con lei, e avrei passato il resto della vita a interrogarmi sul significato dellaparola "harem". Quello, infatti, era l'argomento che lei e Samìr si apprestavano adiscutere sulla terrazza. Si erano assegnati la missione di analizzare quella parolainafferrabile e, a titolo di ricompensa, si erano concessi una visita sulla favolosaterrazza proibita. Di rigore, la più assoluta discrezione; nessuno doveva venire aconoscenza del progetto.

Così le dissi in un soffio che non avevo paura; tutto quello che mi serviva era

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un consiglio su come far smettere il rumore nella mia testa. Malika mi consigliòdi stendermi supina, con la faccia rivolta al cielo, evitando di guardare oggetti inmovimento come le nuvole o gli uccelli, e di fissare lo sguardo su un punto fermo.Mi sarebbe bastato concentrarmi per un po' su quel punto, e il mondo sarebberitornato alla normalità.

Prima di stendermi, le lasciai istruzione di far sapere alla mamma che, nelcaso fosse volontà di Allàh che io morissi lì sulla terrazza, dovevo ancora ingentisomme di denaro a Sìdì Sussi, il re dei ceci tostati e delle noccioline e mandorlealla griglia, che aveva una bancarella fuori della nostra scuola coranica. Si venivaspediti all'inferno per direttissima, a detta della maestra Làlla Tam, se si arrivavaall'altro mondo senza aver saldato tutti i debiti. Una buona musulmana pagasempre i suoi debiti e, viva o morta, tiene i suoi conti in pari.

La terrazza al di sopra di quella dove avevano luogo gli spettacoli era proibitaperché priva di parapetti, e poteva bastare un falso movimento per cadere giù esfracellarsi al suolo. Cinque metri più alta della terrazza sottostante, quellaproibita costituiva il tetto della stanza dove viveva la zia Habìba. Non essendoconcepita come luogo da frequentare, la terrazza non aveva scale di accesso; ilsolo mezzo ufficiale per arrivarvi era una scala a pioli, che aveva in custodiaAhmed il portinaio. Ma tutti in casa sapevano che le donne inquiete e sofferenti dihem, una blanda forma di depressione, erano solite arrampicarsi lassù per trovarela quiete e la bellezza necessarie a curarsi.

Per hem si intende uno strano tipo di sofferenza, tutt'altra cosa rispetto a un

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mushkil, un problema. La donna che ha un mushkil conosce la ragione del suosoffrire. Ma chi soffre di hem, non sa cos'è che non va: la causa del suo malessere,quale che sia, rimane senza nome. Fortunato chi conosce la cagione del suo male- era solita dire la zia Habìba - perché può fare qualcosa per curarlo! Ma la donnache soffre di hem non può farci proprio nulla, può solo starsene seduta insilenzio, con gli occhi spalancati e il mento affondato nel palmo della mano, comese il collo non ce la facesse a sostenere il peso della testa.

Poiché solo la quiete e la bellezza potevano curare le donne affette da hem, lepoverette venivano spesso portate ai santuari su alte montagne, come Mawlày'Abdelsalàm nel Rìf, Mawlày Bu'azza sui monti dell'Atlante, o in uno dei moltiluoghi di ritiro che sorgevano sulle sponde dell'Oceano fra Tangeri e Agadìr. Nelnostro harem, eravamo fortunate, perché solo la cugina Shàma cadeva a voltepreda del hem, e anche lei non ne era completamente in balia. Di solito, ne venivacolpita solo quando ascoltava uno speciale programma di Radio Cairo, dedicato aHudà Sha'ràwì e ai progressi dei diritti delle donne in Egitto e Turchia. Allora, ilhern si impadroniva di lei. «La mia generazione è sacrificata!», si lamentava. «Larivoluzione sta liberando le donne in Turchia e in Egitto, e noi qui siamo lasciatein sospeso.

Non siamo più nella tradizione, ma ancora non godiamo i benefici dellamodernità; siamo sospese a mezz'aria, come farfalle dimenticate». Ogni volta cheShàma si lamentava così, noi la circondavamo di hanàn, cioè di una tenerezzaillimitata e incondizionata, finché non si sentiva meglio. Il silenzio, la bellezza

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della natura e la tenerezza degli umani, sono gli unici rimedi per questo tipo dimalattia.

L'altra donna della casa che spesso si arrampicava segretamente sulla terrazzaproibita, era la zia Habìba. Cominciò a servirsi della terrazza non appena venne avivere con noi, dopo il divorzio. E fu lei che ci insegnò come arrivare lassù senzausare la scala a pioli. Noi bambini venimmo a conoscenza del segreto perché la ziaaveva bisogno di noi, che tenessimo d'occhio il cortile e le scale, mentre leiprocedeva alla difficile ascesa. La zia Habìba prendeva due delle grosse perticheper stendere il bucato che si trovavano sulla terrazza bassa (e che di solito eranousate per asciugare il bucato pesante, come i tappeti e le coperte di lana, chevenivano lavate solo in agosto, quando il sole era più caldo) e se ne serviva a mo'di scala. Non era un'operazione facile: per prima cosa, la zia Habìba fissava lepertiche mettendole dentro giare di olive vuote, con dei cuscini in fondo adattutire il rumore; poi, incrociava le cime dei pali, per creare un punto d'appoggiodove posare il piede. Per raggiungere questo punto d'appoggio, ricavava degli altrigradini con le casse di legno che erano sparse un po' dappertutto sulla terrazza.Con queste riusciva a sollevarsi di tre o quattro metri dal suolo, e poi il gradinofinale, costituito dai pali incrociati, le permetteva di spingersi sulla terrazzaproibita. Non ci sarebbe mai venuto in mente un tale sistema, se non avessimovisto la zia Habìba in azione.

Le giare di olive erano essenziali all'operazione almeno quanto le pertiche. Leolive nere arrivavano in casa dalla campagna nel mese di ottobre, e, come prima

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operazione, venivano stipate in grossi recipienti di bambù, e coperte con pietre emanciate di sale marino, per farne uscire il succo amaro (le olive fresche sonotroppo amare da mangiare).

Dopo che il succo era stato spremuto tutto, le olive venivano tolte dairecipienti di bambù e messe dentro grosse giare di terracotta; quindi, sidepositavano sulla terrazza, dove il sole avrebbe completato la preparazione. Ditanto in tanto, la zia Habìba esponeva le olive all'aria aperta, sparpagliandole suun lenzuolo in un angolo isolato della terrazza, e una volta che erano pronte e sipresentavano belle raggrinzite, vi aggiungeva manciate di origano fresco e altreerbe, e le rimetteva al sicuro nelle giare. Per la fine di febbraio, le olive sipotevano mangiare, e la squadra di donne che quel giorno era di turno per lacolazione, saliva a prenderne un bel secchio pieno. Le olive nere mangiate con tèalla menta forte, khlì' (31) e pane fresco, costituivano una colazione deliziosa emolto comune. Io amavo la colazione, non soltanto per le olive salate, ma ancheper via delle shahawàt, che erano squisitezze fornite dagli eccentrici dellapopolazione del cortile che avevano voglia di mangiare cose diverse da quelle chepassava il convento. Dato che non si poteva mangiare davanti agli altri senzadividere, le shahawàt trasformavano le colazioni in veri e propri festini. Glieccentrici dovevano fornire a ognuno di noi i loro cibi preferiti, e in quantitàsufficiente per soddisfare tutti. Alcuni procuravano uova di anatra e tacchina, altriavevano voglia di miele di eucalipto delle foreste della regione di Kenitra. Altriandavano matti per le ciambelle, e ne portavano a dozzine da dividere

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democraticamente. I più apprezzati degli eccentrici, comunque, erano quelli cheprocuravano strani frutti fuori stagione, o formaggio salato del Rìf, servito nellefoglie di palma.

Ma torniamo alle olive. Sebbene noi bambini adorassimo mangiarle, ancor piùpiacevole era sapere che le giare si stavano rapidamente vuotando del lorocontenuto. Usavamo le giare per ogni sorta di progetti: arrampicarsi sulla terrazzaproibita era uno; giocare a nascondino era un altro.

Lo scopo di Samìr e di Malika, quando si arrampicavano sulla terrazza alta, eradi approfondire le loro indagini sul tema dell'harem. Ma con la nostra prima visitanon andammo molto lontano. Una volta recuperato un ritmo di respiro regolare,fummo sopraffatti dalla quiete e dalla bellezza di quel posto. Sedemmo immobilia guardare, cercando di non muoverci, perché eravamo così vicini che il minimomovimento poteva dar fastidio agli altri. Anche aggiustarmi le trecce, fissandoleindietro sulla testa, provocava lamentele da parte degli altri due. Poi Malika feceuna domanda, una domanda piuttosto semplice: «Un harem è una casa dove unuomo vive con molte mogli?». Ognuno di noi se ne uscì con una risposta diversa.Malika disse che la risposta era sì perché era il caso della sua famiglia. Suo padre,lo zio Karìm, aveva due mogli - sua madre Bìbà e la seconda moglie Khnàta. Samìrdisse che la risposta era no, perché ci potevano essere degli harem senza che cifossero più mogli, come nel caso di suo padre, lo zio LAlì, o del mio. (Una feroceavversione per la poligamia era l'unica cosa che accomunava mia madre e LàllaRàdiya, la madre di Samìr.)

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La mia risposta alla domanda di Malika fu più complessa. Dissi che dipendeva.Se pensavo alla nonna Jasmìna, la risposta era sì. Se pensavo alla mamma, larisposta era no.

Ma le risposte complesse suscitavano il risentimento dei miei interlocutori,perché non facevano che peggiorare la nostra confusione, e così sia Malika cheSamìr ignorarono il mio contributo e continuarono a discutere tra loro, mentre iomi distraevo e contemplavo le nuvole che, sopra la mia testa, parevano farsisempre più vicine. Alla fine, Malika e Samìr decisero che avevano cominciato conuna domanda troppo difficile. Dovevamo tornare alle origini, e farci la domandapiù sciocca di tutte: «Un harem è una cosa che hanno tutti gli uomini sposati?».Da qui, avremmo potuto trovare la direzione giusta.

Tutti e tre convenimmo che Ahmed il portinaio era sposato. Abitava proprioaccanto al nostro portone in due camere minuscole, con sua moglie Lùzà e i lorocinque bambini. Ma quella casa non era un harem. Quindi non era il matrimonioa fare l'harem. Voleva forse dire, azzardai, che solo un uomo ricco poteva avere unharem? Mi sentii molto in gamba per aver sollevato la questione, e si rivelòproprio una bella domanda, perché tenne in silenzio Malika e Samìr per un belpezzo. Poi Malika, che abusava regolarmente del vantaggio che la sua età leconferiva, fece una domanda volgare e indecente che non ci aspettavamo: «Forseche un uomo deve avere qualcosa di grosso sotto la jallàbiyya per potere metteresu un harem, e Ahmed magari ha solo un cosino piccolo piccolo?», ma Samìr posesubito fine a quella linea d'indagine. Disse che ognuno di noi ha un angelo seduto

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sulla spalla destra, o su quella sinistra, il quale scrive ogni parola che diciamo inun grosso libro. Nel giorno del giudizio, quel medesimo libro verrà attentamenteesaminato, le nostre azioni valutate, e alla fine solo i fortunati che non hannonulla di cui vergognarsi saranno ammessi in paradiso. Gli altri sarannoscaraventati all'inferno. «Io non voglio essere messo in imbarazzo», concluseSamìr. Quando gli chiedemmo dove aveva preso questa informazione, disse che lafonte era la nostra maestra, Làlla Tam. Al che decidemmo che, da quel momentoin poi, avremmo limitato le nostre speculazioni al campo del halàl, il lecito, ecercai di togliermi dalla mente il possibile misterioso legame fra la misura delsesso di un uomo e il suo diritto a possedere un harem.

La seconda volta che ci arrampicammo sulla terrazza proibita, eravamo moltopiù rilassati, sia perché l'altezza sembrava meno spaventosa, sia perché sapevamoche ci saremmo attenuti al halàl. La domanda stavolta era: «Un harem può averepiù di un padrone?». Era una questione difficile, una di quelle che ci facevanostare in silenzio, assorti nei nostri pensieri, per un bel po' di tempo. Samìr disseche in alcuni casi era possibile; in altri no. Paragonò il nostro harem a quello dellozio Karìm, il padre di Malika: nell'harem di Malika c'era un solo padrone, mentrenel nostro, i padroni erano due; infatti, sia mio padre che lo zio Ali potevanoconsiderarsi padroni, anche se lo zio era un po' più padrone del babbo, perché erail più vecchio dei due, e il primogenito. Però, tutti e due prendevano le decisioni, eti davano o non ti davano il permesso di fare quello che ti andava. Come dicevaJasmìna, avere due padroni è meglio che averne uno solo, perché se non riesci a

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ottenere un permesso da uno, puoi sempre rivolgerti all'altro. A casa di Malika, sesuo padre non dava il permesso (o lo dava o non lo dava, non c'era spazio per levie di mezzo), la cosa si faceva ben triste. Quando Malika volle avere il permessodi tornare a casa con noi dopo la scuola coranica, e restarci fino all'ora deltramonto, dovette chiederlo a suo padre per settimane intere. E lui non sentivaragioni. Diceva che una bambina deve tornare a casa subito dopo la scuola. Allafine Malika aveva chiesto rinforzi a Làlla Mànì, a Làlla Ràdiya e alla zia Habìba, esolo le donne erano riuscite a far cambiare idea allo zio Karìm, argomentando chela casa dello zio era la stessa cosa della casa paterna, e che, a parte questo, labambina, in casa sua, non aveva nessuno della sua età con cui giocare, dato che isuoi fratelli e le sue sorelle erano molto più grandi di lei. Più padroni significavapiù libertà e più divertimento.

Questo era il caso della fattoria di Jasmìna. Nonno Tàzì era la supremaautorità, naturalmente, ma due dei suoi figli più adulti, Hàjj Sàlim e Hàjj Jalìl,prendevano decisioni come lui. Quando il nonno era assente, si comportavanocome dei califfi, e spesso facevano di tutto per esasperare Jasmìna e le altremogli. Jasmìna, a sua volta, esasperava loro, affermando, per esempio, che ilnonno Tàzì le aveva dato il permesso di andare a pescare, prima di partire quelmattino all'alba, un'affermazione che i due figli non avevano possibilità diconfutare perché non si alzavano mai prima delle otto. Jasmìna riusciva sempre apassarla liscia proprio perché si svegliava molto presto, e mi diceva che, se volevoessere felice nella vita, anch'io avrei dovuto svegliarmi prima degli uccelli. Allora,

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diceva, la vita si sarebbe dispiegata davanti ai miei occhi come un giardino. Lamusica delle piccole creature avrebbe svegliato dentro di me la gioia, e mi sareiseduta a pensare con calma come impiegare la giornata e compiere il mioprossimo passo in avanti. Se vuole essere felice, diceva, una donna deve rifletteremolto, e in silenzio, per ore ed ore, sul modo di compiere ogni piccolo passo inavanti. «Il primo passo è riuscire a capire chi ha la sulta (autorità) su di te»,diceva Jasmìna. «Questa è l'informazione di base, ma di per sé non è sufficiente:una volta appurata la questione, si devono saper mescolare le carte, confondere iruoli. É la parte più interessante del gioco; perché la vita è un gioco. Guardala inquesto modo, e potrai ridere di qualsiasi cosa». Sulta, autorità, gioco. Questeparole chiave continuavano a tornarmi nella testa, e mi colpì l'idea che forsel'harem stesso non era che un gioco. Un gioco fra uomini e donne che si temonoreciprocamente e, pertanto, devono provarsi a vicenda quanto sono forti, propriocome facevamo noi bambini. Ma non potei, quel pomeriggio, dividere questopensiero con Malika e Samìr, perché suonava troppo pazzesco: voleva dire che igrandi non erano diversi dai bambini.

Quel giorno, quando scendemmo dalla terrazza, eravamo così presi dallanostra indagine che neanche notammo le nuvole rosa che lentamente siallontanavano verso ovest, né facemmo caso ad altro. Non eravamo venuti a capodi nulla - anzi, eravamo più confusi che mai, e ci precipitammo dalla zia Habìbaper un aiuto. La trovammo assorta nel ricamo, col capo chino sul suo mrìma, unacornice di legno orizzontale usata per elaborati lavori di cucito. Il mrìma era

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simile al grande telaio usato dagli uomini, ma più piccolo e leggero. Le donne visistemavano la stoffa in modo che fosse ben tesa quando l'ago l'attraversava. Eraun oggetto molto personale, e ognuna adattava il suo in modo da non doverpiegare troppo la testa. Il ricamo era essenzialmente un'attività solitaria, ma ledonne spesso si riunivano in gruppi, quando volevano chiacchierare un po' oerano coinvolte in un progetto che richiedeva molto lavoro. Quel giorno, la ziaHabìba stava lavorando tutta sola a un uccello verde con le ali d'oro. I grossiuccelli dalle aggressive ali spiegate non erano un disegno classico, e se Làlla Mànìlo avesse visto, avrebbe detto che era un'innovazione orribile, e che alla suacreatrice doveva essere volato via il cervello. Certo, gli uccelli apparivano neiricami tradizionali, ma erano piccoli, e spesso totalmente paralizzati, schiacciatitra piante giganti e grassi fiori fogliosi. Dato l'atteggiamento di Làlla Mànì, la ziaHabìba si dedicava a disegni canonici quando ricamava giù nel cortile, e si tenevaper sé i suoi grandi uccelli alati nella sua stanza privata, quella con l'accessodiretto alla terrazza bassa. Io le volevo tanto bene.

Era così quieta, così accondiscendente, in apparenza, alle esigenze del duromondo esterno, eppure riusciva ancora ad aggrapparsi alle sue ali. Mi rassicuravacirca il mio futuro: una donna poteva essere totalmente priva di potere, e tuttaviadare significato alla sua vita sognando di volare.

Io, Malika e Samìr, aspettammo che la zia Habìba alzasse la testa, e poi leesponemmo il nostro problema e la confusione che ci prendeva ogni qual voltacercavamo di chiarirci la faccenda dell'harem. Dopo aver ascoltato attentamente,

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disse che eravamo presi in un tanàqud, o contraddizione.Essere presi in un tanàqud significa che, per ogni domanda che si fa, Si

ottengono troppe risposte, e questo non fa che aumentare la confusione. «E ilproblema è che, quando si hanno le idee confuse», disse, «non ci si sente molto ingamba» comunque, continuò, un requisito per diventare adulti è proprioimparare come comportarsi in caso di tanàqud.

Il primo passo per i principianti è sviluppare la virtù della pazienza: bisognaaccettare il fatto che, per qualche tempo, a ogni domanda corrisponderà unmaggior grado di confusione. Tuttavia, non c'è ragione per cui un essere umanodebba smettere di usare il più prezioso dono che Allàh ci ha concesso - il 'aql, laragione. «E ricordate», aggiunse la zia Habìba «che nessuno, fino ad ora, hainventato un modo per imparare Senza fare domande».

Zia Habìba disse qualcosa anche a proposito del tempo e dello spazio su comegli harem cambino da una parte all'altra del mondo, e da un secolo all'altro.L'harem del califfo abbaside Harùn al-Rashìd, nella Baghdàd del nono secolo, nonaveva niente a che vedere con il nostro. Le sue jàriya, o giovani schiave, eranodonne molto istruite, che ingoiavano libri di storia e religione più svelte chepotevano, in modo da essere capaci di intrattenere il califfo. Gli uomini di queltempo infatti, non apprezzavano la compagnia di donne illetterate e incolte, e nonera possibile attirare l'attenzione del califfo se non si era in grado di abbagliarlocon nozioni di storia, scienze e geografia, per non parlare della giurisprudenza.Questi argomenti erano l'ossessione del califfo, che, fra un jihàd (guerra santa) e

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l'altro, passava molto del suo tempo libero a discuterne. Però, aggiunse ZiaHabìba, i califfi abbasidi erano vissuti molti anni addietro. Ora, i nostri haremerano pieni di donne illetterate, il che dimostrava solo di quanto ci Si fosseallontanati dalla tradizione.

E per quanto riguarda prestigio e potere, i governanti arabi non avevano più ilruolo dei conquistatori, ma quello dei conquistati Oppressi com'erano daglieserciti coloniali. All'epoca in cui le lariya erano istruite, gli arabi stavano sullavetta del mondo. Ora, invece, sia uomini che donne, del mondo si trovavano aipiedi, ma il desiderio di istruirsi era già un segnale che si stava per emergeredall'umiliazione coloniale. Mentre lei parlava, io tenevo d'occhio Samìr per vederese capiva tutto quello che diceva. Ma anche lui aveva un'aria smarrita. La ziaHabìba notò la nostra inquietudine e disse di non preoccuparci, che non avevamobisogno, non ancora, di immergerci nel tempo e nello spazio. Quel che contava,adesso, era che, anche senza rendercene conto, stavamo facendo progressi. Almomento, dunque, non ci rimaneva che procedere con la nostra missione.

Una settimana dopo, durante la successiva seduta sulla terrazza alta, Malikatirò fuori la questione degli schiavi.

C'è bisogno di schiavi per fare un harem? Samìr disse che quella era unadomanda pazzesca anche solo da farsi, perché nel nostro harem, di schiavi non cen'erano. Ma Malika replicò subito che c'era Mìna, che viveva con noi, e che erauna schiava. Samìr ribatté che la presenza di Mìna era puramente accidentale.Non aveva né marito, né figli, né altri parenti, e stava con noi solo perché non

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apparteneva a nessuno e non sapeva dove andare. Era maqtù'a, cioè tagliata dallesue radici, come un albero morto. Anni prima, Mìna era stata rapita dal nativoSudan, a sud del Sahara, e venduta come schiava a Marràkesh. Poi era statavenduta e rivenduta, da un mercato all'altro, finché era finita in casa nostra comecuoca. Poco tempo dopo, aveva chiesto a zio Ali di esonerarla dai lavori domesticiperché voleva ritirarsi sul tetto a pregare - il cortile era troppo affollato erumoroso E così, ad eccezione dei mesi invernali, quando il vento freddo soffiavadalle terre dei cristiani, Mìna si accampava sulla terrazza bassa, e si volgeva indirezione della Mecca.

(31) Una specie di bacon marocchino, che consiste in carne di manzo seccata

al sole di luglio e agosto, e poi cucinata con olio d'oliva e grasso aromatizzata concoriandolo secco e cumino. Come le olive, il khlì' era fatto per durare tutto l'anno,se correttamente preparato.

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CAPITOLO 17

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MINA, LA SENZA RADICI

Mìna si accampava sulla terrazza bassa, il viso rivolto alla Mecca, e se ne stava

seduta su una pelle di pecora senza età, con la schiena appoggiata contro il murodi ponente e sorretta da un cuscino di cuoio di Mauritania color zafferano. Lozafferano era il suo colore. Portava un caffettano e un turbante giallo oro chedavano un insolito splendore al suo volto nero e sereno. Era condannata a vestirsidi giallo perché posseduta da un jinn straniero che le impediva di indossare altricolori. Per jinn si intende una razza di spiriti dotati di tremenda volontà, che siimpossessano delle persone e le costringono ad assecondare tutti i loro capricci,come indossare solo colori ben precisi, o danzare su una certa musica, anche neipaesi dove la danza è ritenuta sconveniente. La tradizione prescrive che un adultorispettabile indossi solo colori discreti e che danzi di rado, e mai in pubblico. LàllaMànì diceva che solo i malvagi, i mezzi matti e i posseduti danzano in pubblico,affermazione alla quale mia madre non finiva di stupirsi. A quanto le risultava,infatti, nel Marocco rurale si danzava allegramente durante le feste religiose, congrandi girotondi di uomini, donne e bambini che si tenevano per mano esaltellavano fino al mattino. Lo faceva presente alla suocera, aggiungendo che

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quelle stesse persone riuscivano, tuttavia, a produrre cibo a sufficienza pernutrirci tutti. «Credevo che dei pazzi non potessero far bene il loro lavoro», lerinfacciava, e Làlla Mànì rintuzzava dicendo che quando si è posseduti da un jinn,si perde ogni senso dei hudùd, i limiti, cioè, che separano il bene dal male, quelloche è haràm da quello che è kalàl.

«Le donne possedute dai jinn saltano su per aria non appena sentono suonareil loro ritmo», disse, «e agitano tutto il corpo senza vergogna, con mani e gambeche volano sopra la testa.»

Dell'infanzia, Mìna rammentava frammenti della sua lingua natale, ma il piùdelle volte si trattava di canzoni che non avevano più senso per nessuno, neancheper lei. A volte, Mìna era sicura che la musica del tamburo dei jinn, quella che sisuonava durante la hadra, ovvero la danza dei riti di possessione, le riportasse inmente i ritmi conosciuti nell'infanzia. Ma altre volte non ne era poi tanto sicura.Però era in grado di descrivere alberi, frutti e animali che nessuno aveva mai vistoa Fez e che, a volte, si incontravano nei racconti della zia Habìba, specialmentequando si attraversava il deserto con una carovana diretta a Timbuktu, e in quelleoccasioni Mìna chiedeva alla zia di approfondire. La zia Habìba, che eraanalfabeta, e che aveva appreso queste cose ascoltando attentamente suo maritoleggere ad alta voce passi di storia e letteratura, chiamava Shàma in suo soccorso.Shàma allora correva al piano di sopra a prendere libri di consultazione scritti dageografi arabi. Cercava Timbuktu nell'indice e leggeva pagine e pagine ad altavoce, perché Mìna potesse ritrovare l'atmosfera della sua infanzia. Lei sedeva

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quieta ad ascoltare per tutto il tempo, anche se qualche volta chiedeva che unbrano fosse riletto più volte, specialmente quando si trattava della descrizione diun luogo di mercato, o di un rione. «Potrei imbattermi in qualcuno di miaconoscenza», scherzava, con una mano davanti alla bocca per nascondere iltimido sorriso. «Potrei incontrare mia sorella o mio fratello. Oppure potrebbericonoscermi un compagno d'infanzia». Poi si scusava per l'interruzione.

Mìna era maqtù'a, cioè vecchia e povera, ma era ricca di calore umano e dihanàn. Il hanàn è una sorta di dono divino che trabocca come una fontana,versando tenerezza tutto intorno, senza badare se chi lo riceve è qualcuno che sicomporta bene e sta attento a non infrangere i hudùd di Allàh. Solo i santi e altrecreature privilegiate sono in grado di dare hanàn, e Mìna lo era. Non mostravamai alcun segno di collera, tranne quando un bambino veniva picchiato.

Danzava una volta all'anno, durante la festa del Mawlùd, l'anniversario dellanascita del Profeta, che la pace e la benedizione di Allàh siano con lui. Inquell'occasione, in tutta la città, si celebravano numerosi riti, dai più ufficiali, masplendidi, cori religiosi maschili nel magnifico santuario di Mawlày Idrìs, alleambigue hadra, o danze di possessione, che si tenevano in diversi quartieri. Mìnapartecipava ai rituali organizzati nella casa di Sìdì Bilàl, il più abile e rinomatoesorcista di jinn dell'intera provincia di Fez. Come Mìna, Sìdì Bilàl era originariodel Sudan; e anche lui era arrivato in Marocco come schiavo privo di radici. Ma inseguito, vista la sua capacità di domare i jinn, i suoi padroni si erano messi inaffari con lui. Le cerimonie di Sìdì Bilàl non erano aperte a chiunque; occorreva

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un invito, per entrare in quella casa.I jinn tormentavano indifferentemente liberi e schiavi, uomini e donne.

Tuttavia, sembravano reclutare più facilmente le loro vittime fra i poveri e ideboli, e i poveri erano i loro più fedeli devoti. «Per i ricchi, la hadra è poco più diun divertimento», spiegava Mìna, «ma per le donne come me, è una raraopportunità di evadere, di esistere in un modo diverso, di viaggiare». Per un uomod'affari come Sìdì Bilàl, naturalmente, la rara presenza di donne appartenenti afamiglie d'alto rango era assolutamente vitale, anche per via dei costosi regali chegli portavano ogni volta. La loro presenza e generosità erano apprezzate da tutticome espressione di solidarietà femminile, e c'era un gran bisogno del lorosostegno. I nazionalisti erano scesi in campo contro le danze di possessione,dichiarandole contrarie all'Islàm e alla sharì'a, la legge religiosa. E poiché i capidelle famiglie più in vista condividevano le opinioni dei nazionalisti, le donnefrequentavano le hadra di Sìdì Bilàl in assoluta segretezza.

Poiché anche mio padre e lo zio 'Alì assentivano con tutto il cuore alle idee deinazionalisti, anche Mìna si univa alla danza in segreto - un segreto per modo didire, perché le donne e i bambini di casa ne erano ben a conoscenza, epraticamente tutto il cortile si recava con lei da Sìdì Bilàl. I posseduti, infatti,dovevano sempre avere qualche persona amica che li accompagnasse alla danza,perché dopo ore e ore di salti e di canti, spesso svenivano dalla stanchezza.

Dato che Mìna godeva di grande popolarità, tutti, in cortile, si dichiaravanosuoi amici. In realtà, amicizia a parte, eravamo irresistibilmente attratti

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dall'evidente carattere sovversivo della cerimonia, durante la quale le donnedanzavano a perdifiato, con gli occhi chiusi e i lunghi capelli fluttuanti a destra e asinistra, come se avessero abbandonato ogni modestia e controllo sul corpo.Persino noi bambini riuscivamo ad andarci, minacciando di spifferare tutto allozio e a papà. Ricattare le donne adulte ci conferiva un notevole potere, e ciassicurava il diritto a prender parte a quasi tutte le cerimonie proibite.

La casa di Sìdì Bilàl era grande quanto la nostra, anche se non aveva i nostrilussuosi pavimenti in marmo e le preziose decorazioni in legno. All'inizio dellacerimonia, centinaia di donne, tutte accuratamente abbigliate e truccate, eranoallineate in bell'ordine sui divani collocati lungo le quattro mura del cortile.Sedute a braccetto, le donne si raggruppavano intorno alla loro mariyùha, o ladonna che non poteva resistere al rìh, il ritmo che la spingeva a danzare. Sìdì Bilàlin persona stava al centro del cortile, in una fluente veste verde con pantofole eturbante di color zafferano, circondato da un'orchestra esclusivamente maschilecostituita da tamburi, ghimbrì (degli strumenti simili al liuto) e cembali.

Le quattro sale intorno al cortile erano occupate dalle donne delle famiglie piùfacoltose, quelle che avevano portato i doni più preziosi e che non volevano essereviste danzare, mentre le donne povere sedevano tutte in mezzo al cortile. Preziosivassoi da tè in argento, con bicchieri in cristallo di Boemia di tutti i colori, esamovar di bronzo che sfrigolavano di acqua calda fumante, venivano preparati aiquattro angoli del cortile e nel mezzo di ogni salone. Poi, ci veniva chiesto di nonmuoverci più. La regola essenziale, valida per tutte le cerimonie, sia religiose che

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profane, era che ognuno Si trovasse un posto e rimanesse lì immobile, motivo percui i bambini erano mal tollerati. Dato che eravamo non meno di dieci bambini asgattaiolare in casa dietro a Mìna, la zia Habìba aveva istituito una regolasemplice ma inflessibile: ognuno doveva scegliersi una persona adulta e sederleaccanto, ma chi si alzava, e cominciava a correre qua e là, o cercava di parlare congli altri bambini, o si rifiutava di tornare a sedere dopo il terzo avvertimento,veniva accompagnato alla porta senza pietà. Io non avevo problemi a rispettare laregola, tanto ero tranquilla e passiva, ma il povero Samìr non arrivò mai alla finedella cerimonia. Non riusciva a star fermo e seduto per cinque minuti di seguito.Una volta, arrivò persino a gridare insulti a Sìdì Bilàl mentre la zia Habìba loscortava alla porta. L'anno dopo, la zia dovette cucirgli un piccolo turbante pernascondergli i capelli ed evitare, così, che il maestro di cerimonia lo riconoscesse.

All'inizio, l'orchestra di Sìdì Bilàl suonava una musica lenta, così lenta che ledonne continuavano a chiacchierare tra loro come se niente fosse. Ma poi,all'improvviso, i tamburi cominciavano a battere un ritmo bizzarro, tutte lemaryùhàt balzavano in piedi, gettavano via i vari copricapo e le pantofole, sipiegavano dalla vita in giù, e si mettevano a scuotere selvaggiamente i lunghicapelli - sembrava quasi di vederli allungare a vista d'occhio, come se cercasserodi sfuggire da qualunque cosa li tenesse compressi, mentre il collo oscillava dauna parte e dall'altra. A volte Sìdì Bilàl, spaventato dalla violenza dei movimenti epreoccupato che le danzatrici potessero farsi male, faceva segno alla sua orchestradi rallentare. Ma spesso, arrivati a quel punto, era già troppo tardi, e le donne,

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ignorando la musica, continuavano la danza alla propria impetuosa velocità, comea indicare che il maestro di cerimonia non aveva più controllo su nulla. Era comese, per una volta, le donne si fossero liberate di ogni pressione esterna. Molte diloro avevano un lieve sorriso che aleggiava sul volto, e, con gli occhi semichiusi,davano l'impressione di emergere da un sogno incantato.

Alla fine della cerimonia, le donne crollavano al suolo, completamente esaustee in stato di semi-incoscienza. Allora le amiche le prendevano tra le braccia, sicongratulavano con loro, spruzzavano loro in faccia dell'acqua di rose, esussurravano cose segrete nell'orecchio. Lentamente, le danzatrici tornavano insé e riprendevano i loro posti come se nulla fosse accaduto. Mìna danzavalentamente, con il busto eretto e il capo che dondolava appena da destra asinistra. Reagiva soltanto ai ritmi più dolci, e anche allora, danzava fuori tempo,come se a farla muovere fosse una musica che le veniva da dentro. Io l'ammiravoper questo e per una ragione che ancora non comprendo. Forse perché ho sempreamato i movimenti lenti, e la vita, come la sogno io, è una danza pacata, priva difrenesia. O forse perché Mìna riusciva a combinare due ruoli apparentementecontraddittori - danzare con un gruppo, e al tempo stesso danzare controtempo alproprio ritmo. Io volevo danzare come lei, ovvero insieme alla comunità, maanche al suono della mia musica segreta, scaturita da una profonda e misteriosafonte interiore, più forte di tutti i tamburi, più forte e, nel contempo, più dolce epiù liberatoria. Una volta chiesi a Mìna perché danzava così piano quando quasitutte le altre donne si muovevano con gesti bruschi, a scatti, e lei rispose che

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molte di loro confondevano il liberarsi con l'agitarsi. «Vedi, ci sono donne incollera con la loro vita», disse, «e quindi anche la loro danza diventaun'espressione di collera». Le donne in collera, diceva, sono ostaggi della lororabbia. Non hanno modo di fuggirla né di liberarsene, e questa è una ben tristesorte. La peggiore prigione è quella che ci si crea da soli.

Secondo una leggenda, tutte le orchestre delle hadra dovevano esserecomposte esclusivamente da suonatori neri.

Questi, si narra, erano venuti da un favoloso impero chiamato Gnàwa(Ghana), che si estendeva oltre il deserto del Sahara, e oltre i fiumi, giù nel sud,nel cuore del Sudan.

Quando arrivarono al nord, non avevano con sé altro bagaglio che i loroirresistibili ritmi e i loro canti ammaliatori, e fra le molte città del Marocco, fuMarràkesh, la porta del deserto, quella che scelsero come favorita. Tutti dicevanoche Marràkesh, nota anche come Al-Hamrà', o Città dalle Mura Rosse, non avevaniente in comune con la nostra Fez, che è situata troppo a ridosso della frontieracristiana e del Mediterraneo, ed è spazzata, durante l'inverno, da venti freddi eamari. Marràkesh, invece, era in profonda sintonia con le correnti africane, esentivamo dire cose meravigliose sul suo aspetto. Fra gli abitanti del cortile, nonerano in molti ad aver visto Marràkesh, ma ognuno di noi sapeva una o due cosesul conto di quella misteriosa città.

Le mura di Marràkesh erano di un rosso fiammeggiante, e così era la terra sucui si camminava. A Marràkesh faceva un caldo rovente, eppure c'era sempre

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della neve che splendeva dalle vette dei monti dell'Atlante. Nei tempi antichi,Atlante era un dio greco che viveva nel Mar Mediterraneo; era un titano che sibatteva contro altri giganti, e un giorno, dopo aver perso un'importante battaglia,venne a nascondersi sulle sponde dell'Africa: quando si distese per dormire, posòla testa in Tunisia e allungò i piedi fino a Marràkesh. Il "letto" era così comodoche non si svegliò mai più, e diventò montagna. La neve visitava Atlanteregolarmente ogni anno per mesi, e lui pareva felice di sentirsi i piedi bloccatinelle sabbie del deserto, e ammiccava ai passanti dalla sua regale prigione.

Nella città di Marràkesh si incontravano miti e leggende dei neri e dei bianchi,le lingue si mescolavano, e le religioni si scontravano, mettendo alla prova la loropermanenza contro il silenzio intatto delle sabbie danzanti. Marràkesh era illuogo sconvolgente dove i pii pellegrini scoprivano che anche il corpo era un dio, eche tutto il resto, compresa l'anima e la ragione, con tutti i loro sacerdotiautoritari e solleciti esecutori, poteva sbiadire e scomparire del tutto, quando itamburi tagliavano l'aria. I viaggiatori riferivano che, quando la diversità dellelingue non permetteva la comunicazione, a Marràkesh, la gente danzava. Mipiaceva l'idea di una città dove le danze prendessero il posto delle parole, ogniqual volta queste fallivano nel creare legami.

Era proprio questo che vedevamo accadere nel cortile di Sìdì Bilàl,-pensavo,quando le donne, rinnovate dalla forza di quelle antiche civiltà, esprimevano nelladanza tutti i loro invincibili desideri. I loro jinn venivano da lontani paesistranieri, si insinuavano in quei corpi intrappolati, e cominciavano a parlar loro in

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lingue arcane.A volte capitava che qualcuno individuasse un suonatore bianco nell'orchestra

di Sìdì Bilàl, che, in teoria, doveva essere un'autentica orchestra Gnàwa,composta, quindi, di soli neri; in quel caso, le rispettabili signore che avevanopagato per la cerimonia, cominciavano a lamentarsi.

«Come si fa a suonare della musica Gnàwa, e a cantare autentiche canzoniGnàwa, quando si è bianchi come un'aspirina?», gridavano, furiose perl'organizzazione disastrosa. Sìdì Bilàl tentava di convincerle che, in alcuni casi,anche i bianchi potevano assorbire la cultura Gnàwa, e apprenderne la musica e icanti. Ma quelle donne erano delle puriste - gli orchestrali dovevano essere tuttineri e tutti stranieri. Meglio ancora se i neri dell'orchestra parlavano l'arabo conaccento forestiero; in caso contrario, non sarebbero stati nient'altro che neri localicapaci di battere su un tamburo. In effetti, grazie a secoli di viaggi e di commerciattraverso il deserto, Fez contava centinaia di neri locali che abitavano nellamedìna e che potevano benissimo posare da distinti ospiti in visita provenientidal prestigioso impero del Ghana. Ma i neri locali non facevano al caso, punto ebasta; perché, anche se potevano ingannare le donne, di certo non avrebberoingannato i jinn stranieri. E questo avrebbe vanificato il fine stesso dellacerimonia, che era quello di comunicare con i jinn nei loro misteriosi idiomi. Ladanza, non era forse un salto in mondi alieni? In ogni caso, le donne preferivanoche ci fosse una vera orchestra Gnàwa perché non gradivano l'idea che uominidella medìna le sbirciassero mentre erano assorte nelle loro danze.

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Preferivano esibirsi davanti a degli stranieri, ignari delle leggi e dei codici dicomportamento vigenti in città. Era, pertanto, una fortuna che tutti gli orchestralidi Sìdì Bilàl tenessero di norma la bocca chiusa, quando non erano impegnati asuonare, così non sorgeva la questione dell'accento.

A parte l'entusiasmo che accompagnava la cerimonia annuale a casa di SìdìBilàl, per il resto dell'anno la vita di Mìna scorreva ignorata da tutti. Divideva unapiccola stanza ai piani alti con altre tre anziane schiave - Dada Sa'àda Dada Rahmae 'A ishata. Tutte e tre vivevano nella casa da molto prima che arrivassero miamadre e la madre di Samìr Al pari di Mìna, non avevano un chiaro legame con lanostra famiglia, ma erano finite da noi quando i francesi misero in vigore ildivieto della schiavitù. «La schiavitù finì veramente», diceva Mìna, «solo quandoi francesi dettero agli schiavi la possibilità di ricorrere al tribunale per recuperarela libertà, e i mercanti di schiavi furono condannati alla prigione o a pagareammende. Solo quando intervengono i tribunali, si può mettere fine allaviolenza». (32)

Una volta liberate, però, molte schiave come Mìna erano troppo deboli perlottare, troppo timide per sedurre, troppo esauste per protestare e troppo povereper ritornare al paese d'origine. Oppure, erano troppo insicure di quello cheavrebbero trovato una volta ritornate là. Tutto ciò che volevano veramente erauna stanza tranquilla per distendersi e lasciare che gli anni passassero; un postodove poter dimenticare tutto il procedere insensato dei giorni e delle notti, esognare di un mondo migliore, in cui la strada della violenza e quella delle donne

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non si sarebbero mai incontrate. Ma mentre Dada Sa'àda, Dada Rahma e 'à'ishata,come la maggior parte delle parenti che vivevano ai piani alti, se ne stavano nelleloro stanze, Mìna viveva tranquilla sulla terrazza. Dal momento che nondivulgava segreti (anzi, non parlava quasi mai, tranne che con noi bambini), lasua presenza non disturbava nessuno, né i giovani che sgattaiolavano lassù perspiare le ragazze della casa accanto; né le donne che ci salivano per bruciarecandele magiche, o peggio, per fumare le rare e peccaminose sigarette americanerubate dalle tasche di Zìn e di Jawàd; e neanche noi bambini che andavamo anasconderci nelle giare vuote delle olive. Queste giare erano la mia passionesegreta, e la mia morbosa attrazione per esse turbò molte persone, tanto daconvocare in tutta fretta uno speciale consiglio di famiglia. Io però non parlai,quando Làlla Mànì, fungendo da presidente, mi domandò perché sentivo questoimpellente bisogno di infilarmi dentro quelle enormi e buie giare vuote. Non dissimai che la cosa aveva a che fare con il rapimento di Mìna, perché se lo avessifatto, lei ne sarebbe stata rimproverata. Mìna godeva di una straordinariapopolarità tra noi bambini, tanto che le madri andavano a chiederle aiuto quandoavevano difficoltà a comunicare con i figli o le figlie. Io le volevo molto bene, enon volevo metterla nei guai, soprattutto perché di guai ne aveva avuti già tanti,quando era una bambina della mia età. Perché vedete, Mìna fu rapita da piccola,un giorno che si era allontanata un po' più del solito dalla casa dei suoi genitori.Fu afferrata da una grossa mano nera, e di quanto accadde subito dopo, ricordavasoltanto una strada dove si trovava insieme ad altri bambini, e due feroci rapitori

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che brandivano lunghi coltelli. Mìna rammentava fin troppo bene il modo in cuitutto era accaduto - il modo in cui i rapitori tenevano lei e gli altri bambininascosti durante il giorno, e si muovevano solo all'imbrunire, dopo il tramontodel sole. Attraversando la foresta, per lei tanto amata e familiare, viaggiaronoverso il nord finché non ci furono più alberi, ma solo dune di sabbia bianca. «Senon hai mai visto il deserto del Sahara», diceva Mìna, «non te lo puoiimmaginare. É lì che si vede tutta la potenza di Allàh-che non ha nessun bisognodi noi! Una vita umana conta così poco, là nel deserto, dove solo le dune e le stellepossono sopravvivere. Il dolore di una bambina, lì, è un'assoluta nullità. Ma fuattraversando la sabbia che scoprii un'altra bambina che viveva dentro di me, unabambina forte, e tesa a sopravvivere. Diventai una Mìna diversa. Capii che tutto ilmondo mi era contro, e il solo bene che potevo aspettarmi doveva venire da mestessa, dal di dentro».

Ai rapitori neri, che parlavano la sua lingua materna, si Sostituirono benpresto altri uomini chiari di pelle, che dicevano parole straniere per leiincomprensibili. (33) «Fino a quel momento, avevo creduto che in tutta la Terrasi parlasse il nostro dialetto», diceva Mìna. La comitiva viaggiava silenziosa nellanotte, e si incontrava regolarmente, in luoghi prestabiliti, con amici dei rapitoriche davano loro da mangiare e li tenevano nascosti fino al tramonto successivo. Sirimettevano in marcia sempre quando le sabbie scomparivano nel buio, e quasinessuna creatura attraversava il loro sentiero. Gli avamposti francesi, sparsi qua elà nel deserto occupato, erano da evitarsi ad ogni costo, perché il commercio di

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schiavi era già stato dichiarato illegale.Un giorno attraversarono un fiume, e Mìna, per qualche strana ragione,

credette di vedere la sua amata vecchia foresta comparire all'orizzonte. Chiese aun'altra bambina, rapita dal suo stesso villaggio, se anche lei vedeva la foresta, equella rispose di Sì. Tutte e due pensarono che, per una magica serie di eventi, irapitori avessero perduto la strada e stessero tornando indietro. Oppure che illoro villaggio stesse venendo verso di loro. Ma fosse come fosse, a loro nonimportava, e quella notte stessa le due bambine fuggirono, solo per esserenuovamente catturate qualche ora più tardi. «Bisogna stare attenti nella vita»,diceva Mìna, «a non confondere i desideri con la realtà. Noi lo facemmo, e lopagammo caro».

Quando Mìna arrivava a questo punto della storia, la sua voce tradiva untremito, e tutti quanti intorno a lei si mettevano a piangere angosciati, soprattuttoquando iniziava a descrivere i particolari. «Staccarono il secchio del pozzo dallafune», raccontava, «e mi dissero che, se volevo restare in vita, dovevoaggrapparmi a un capo della fune e concentrarmi in silenzio, mentre loro micalavano dentro il pozzo buio. La cosa orribile era che non potevo neanchepermettermi di tremare dalla paura, perché se lo avessi fatto, la fune mi sarebbescivolata dalle dita, e sarebbe stata la fine».

Qui Mìna si interrompeva e singhiozzava piano. Poi si asciugava le lacrime econtinuava, mentre il pubblico piangeva con discrezione. «Ora piango», diceva,«perché mi brucia ancora il fatto che non mi avessero dato la possibilità di avere

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paura. Sapevo che presto avrei raggiunto la parte più fonda e più scura del pozzo,dove c'era l'acqua, ma dovevo reprimere quel sentimento terribile. Dovevo!Altrimenti avrei perso la presa. E così continuavo a concentrarmi sulla corda esulle mie dita che la stringevano. C'era un'altra bambina con me, un'altra Mìnache si scioglieva di paura mentre il suo corpo stava per toccare la fredda e buiasuperficie dell'acqua, piena di serpi e di cose viscide, ma dovevo dissociarmi da leiper concentrarmi solo sulla fune.

Quando mi tirarono fuori dal pozzo, rimasi cieca per giorni, non perché avessiperduto la vista, ma perché non mi interessava più guardare il mondo».

Le storie di rapimenti da parte di mercanti di schiavi sono comuni nelle Millee una notte, dove molte eroine che nascono principesse vengono rapite e vendutecome schiave, mentre con le regali carovane si dirigono in pellegrinaggio allaMecca. (34) Nessuna di queste storie, però, aveva su di me lo stesso effetto delladiscesa nel pozzo descritta da Mìna.

La prima volta che l'ascoltai ebbi degli incubi, ma quando mia madre venne adabbracciarmi e a portarmi nel suo letto, mi guardai bene dal dirle che cosa miavesse turbato. Lei e mio padre mi tennero stretta, mi baciarono e cercarono dicapire quale fosse il problema, e per quale motivo non riuscissi a riprenderesonno. Ma io non dissi nulla del pozzo, perché temevo che mi avrebbero impeditodi ascoltare di nuovo la storia di Mìna. E io avevo un gran bisogno di ascoltare dinuovo quella storia, e riascoltarla ancora, perché in quel modo anch'io avreipotuto attraversare il deserto e arrivare in salvo alla terrazza. Parlare con Mìna

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era fondamentale: dovevo conoscere tutti i particolari; dovevo saperne di più;dovevo sapere come si fa a uscire dal pozzo.

Vedete, non tutti nella casa erano d'accordo su cosa i bambini dovevano o nondovevano ascoltare. Molti membri della famiglia, come Làlla Mànì, pensavano cheai bambini non facesse alcun bene sentir parlare di violenza. Altri, invece,dicevano che prima imparavano, meglio era. Questi ultimi erano dell'idea chefosse essenziale insegnare ai bambini a proteggersi, a fuggire, e a non lasciarsiparalizzare dalla paura. Mìna apparteneva a questa seconda schiera.

«Andare in quel pozzo», diceva, «mi fece capire che, quando ci si trova neiguai, la cosa migliore da fare è impiegare tutte le forze a pensare che esiste unmodo per uscirne. E allora il fondo, il buco nero, diventa un trampolino da cui sipuò saltare così in alto da battere la testa contro una nuvola. Capite cosaintendo?».

Sì, Mìna, pensavo, capisco ciò che intendi, vedo bene Devo soltanto imparare asaltare su in alto, così da raggiungere le nuvole.

Perciò vado a infilarmi nelle giare di olive, a prepararmi, a far le prove per legrandi paure che verranno. E imparerò a risplendere anch'io, come malgrado tuttotu risplendi la schiena contro il muro di ponente e il volto in direzione dellaMecca, e tutto il tuo hanàn, la tenerezza, che sgorga eternamente.

«Io sono sicura che la Mecca sa tutto di quel pozzo, dei rapitori, non credianche tu, Mìna?», le chiesi un giorno, «Allàh li avrà puniti del male che hannofatto. Allàh li ha condannati e io - non è così? - non devo più aver paura di nulla».

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Mìna era molto ottimista e disse che no, non avevo nessuna ragione di temere.«La vita sembra migliore per le donne, oggi,» diceva, «con i nazionalisti chevogliono la loro educazione, e la fine della reclusione. Perché vedi, il problemacon le donne, oggi, è che non hanno potere. E la mancanza di potere vienedall'ignoranza, dalla mancanza di istruzione. Tu diventerai una donna importante,non è vero? Ne sarei sconvolta, se non fosse così. Devi solo concentrarti su quelpiccolo tondo di cielo che se ne sta sospeso sopra il pozzo. C'è sempre un pezzettodi cielo verso cui si può alzare la testa. Allora, non guardare in giù, guarda in alto,su, su, su, e ne verremo fuori! Prenderemo il volo!».

Dopo che Mìna, cedendo alle mie insistenze, mi raccontò più volte della suauscita dal pozzo, e dopo essermi esercitata, più o meno regolarmente, a infilarmidentro le buie giare di olive, riuscii a superare tutte le mie paure, e non ebbi piùincubi. Scoprii di essere una creatura magica. Dovevo solo fissare gli occhi alcielo, mirare in alto, e tutto sarebbe andato per il verso giusto. Anche quandosono piccole così, le ragazzine sono in grado di sorprendere i mostri. In effetti,quello che più mi affascinava della storia di Mìna era il modo in cui avevasorpreso i suoi stessi rapitori: si aspettavano che strillasse, ma lei non lo fece.Pensavo che fosse una cosa molto intelligente, e le dissi che anch'io avrei saputosorprendere un mostro, quando se ne fosse presentata la necessità. Sì, disse Mìna,ma prima devi conoscerlo bene.

Lei aveva avuto molto tempo per osservare i suoi rapitori, poiché il viaggio eradurato settimane. Poi disse che quando si è bloccati dentro un pozzo, si ha sempre

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la possibilità di scegliere se compiacere il mostro guardando in basso e urlando, osorprenderlo, guardando in alto. Se si vuole compiacerlo basta, appunto, guardarein basso, e pensare a tutti i serpenti e alle fredde creature che strisciano lente unasull'altra e che aspettano solo di impadronirsi di te. Se, invece, si sceglie di stupireil mostro, bisogna fissare gli occhi in alto, su quella piccola goccia di cielo, edevitare di emettere alcun suono. Allora, l'aguzzino che ti sta guardando dall'altovedrà i tuoi occhi e ne sarà spaventato. «Penserà che sei un jinn o due piccolestelle che brillano nel buio».

L'immagine di Mìna, la piccola Mìna, quella cosina impaurita sperduta nellasabbia tra gli estranei, che si trasforma in due stelle scintillanti, è un'idea che nonho mai dimenticato, una visione che mi ha accompagnato sempre, e che ancoraoggi non mi abbandona; e ogni volta che riesco a trovare il silenzio necessario avisualizzarla, diventa dentro di me una fonte di speranza ed energia. Ma primadovetti allenarmi a uscire dal pozzo, e così, per qualche tempo, il mio giocopreferito fu quello di saltare dentro buie giare d'olive vuote. Tuttavia, potevoindulgervi soltanto quando un adulto si trovava nei paraggi, perché Samìr eraconvinto che fosse un gioco troppo rischioso per dei bambini.

Ogni volta che Mìna mi aiutava ad uscire dal pozzo, ero così contenta chetornavo a infilarmici ossessivamente, scivolando in una di quelle enormi e buiegiare per le olive. Noi bambini usavamo le giare per giocare a nascondino,riparandoci dietro a quelle per non farci vedere, ma anche, quando propriovolevamo toccare con mano la paura, calandoci dentro a una qualsiasi. Una volta

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infilati nella giara, si correva il rischio di rimanere incastrati là dentro. E a quelpunto, ci voleva l'aiuto di un adulto. Mìna, che praticamente viveva sulla terrazza,con la schiena contro il muro di ponente, ci guardava in silenzio giocare a quelgioco morboso, aspettando che avvenisse la prossima catastrofe. Poi, quandocominciavamo a invocare aiuto, si alzava e veniva a fare capolino dalla bocca dellagiara. «Non puoi aspettare che la paura venga a cercarti», diceva, «invece dicorrerle incontro? Ora calma, niente panico. Ti tirerò fuori in un attimo». Alloradovevi solo rilassarti, cercare di riportare il respiro al ritmo normale, e focalizzarelo sguardo sul piccolo cerchio di cielo blu sopra di te. Ben presto, sentivi unrumore di piedi trascinati sul pavimento della terrazza, e la voce di Mìna chesussurrava istruzioni di soccorso a Dada Sa'àda, Dada Rahma e 'A''ishata. Subitodopo, ecco un miniterremoto, e la giara veniva coricata per orizzontale, in modoche si potesse strisciarne fuori.

Ogni volta che Mìna veniva a soccorrermi, io le saltavo al collo e l'abbracciavofestosamente. «Non mi stringere così, mi scompigli il turbante», diceva. «E cosati sarebbe successo se fossi stata in bagno o impegnata nelle mie preghiere?

Eh?». Allora, affondavo il volto nel suo collo, e le giuravo che mai più sareirimasta incastrata in una giara per le olive.

Quando vedevo che cominciava a intenerirsi e mi lasciava giocare con i capidel suo turbante, mi avventuravo a chiederle un favore. «Mìna, posso stare incollo a te mentre mi racconti come sei uscita dal pozzo?»

«Ma te l'ho raccontato un centinaio di volte! Che problema hai? L'essenziale

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lo conosci: una bambina, piccola com'è, ha abbastanza energia dentro di sé dasfidare i suoi aguzzini, essere coraggiosa e paziente, e non sprecare il tempo atremare e a piangere. Ti ho detto che il rapitore si aspettava che piangessi egridassi. Ma quando non udì alcun suono, e vide due tremule stelle fisse su di lui,mi tirò su immediatamente. Non si aspettava un silenzio di sfida e uno sguardotranquillo. Si aspettava che mi mettessi a urlare.

Ma tu lo sai già tutto questo!». Allora le giuravo che questa era l'ultima voltache avrei avuto bisogno di farmi ripetere la storia, e che con le giare l'avrei fattafinita per sempre.

Fino alla volta dopo. (32) Mìna si riferiva, probabilmente, ad una circolare dell'amministrazione

francese, emessa nel 1922, che, superando il bando della pubblica vendita dischiavi (in vigore da decenni in Marocco), diede alle vittime - gli schiavi stessi -l'opportunità di liberarsi portando in tribunale rapitori e compratori. Poco tempodopo l'applicazione di tale norma, la schiavitù in Marocco poté dirsi eliminata.Questo risultato appare tanto più notevole, se si considera il fatto che, perdecenni, dopo il bando internazionale della schiavitù, i funzionari arabi vi si eranoopposti con una strenua resistenza. Solo quando le donne ebbero la legge dallaloro parte, e poterono facilmente citare i loro aggressori, avvenne il cambiamento.Proprio come oggi accade con i diritti delle donne, che nei paesi islamici sonorespinti come aggressione dell'occidente ai valori musulmani, il bando contro la

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schiavitù, promosso dalle potenze coloniali, fu avversato come violazionedell'Islàm da molti governanti arabi, per tutto l'Ottocento e nel primo Novecento.Molti funzionari musulmani e portavoce dei membri delle classi al potere, siopposero al bando come ennesimo esempio di arroganza colonialista. Tuttavia,per amor di verità, una delle prime conquiste dell'Islàm fu proprio la sua audaceistanza antischiavista. Il Profeta Muhammad incoraggiò i suoi credenti nellaMedìna del settimo secolo a liberare i loro schiavi, come lui aveva liberato i suoi,arrivando a dare posizioni di potere al suo famoso schiavo Bilàl e al figlio diquesti, Usàma. Ma quel retaggio storico non influenzava minimamente i leaderarabi conservatori, che avversavano il bando della schiavitù facendolo passare perattacco contro la umma, la comunità musulmana, esattamente la stessa cosa cheoggi si fa nei riguardi dei diritti delle donne. E' fin troppo risaputo che non si puòpromuovere la democrazia di un paese senza l'emancipazione delle donne. L'avversione alla causa femminile equivale di fatto a un rigetto dei principidemocratici e dei diritti umani.

(33) I mercanti di schiavi del posto consegnavano le loro vittime ai mercanti

arabi, che continuavano il viaggio sulle consuete rotte verso il nord. Si vedano lemappe in E. W. Bovill, The Golden Trade of the Moors (Oxford Universiq Press,1970), specificamente al capitolo 25, "The Last Caravans", p. 236 e 239.

(34) Una delle più famose è il rapimento della principessa Nuzhatu al-Zamàn,nella Storia del re 'Omar al-Numàn e di suo figlio (traduzione del Burton, vol. 2).

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Il rapimento ha inizio alla pagina 141 ed è molto simile a quello di Mìna.

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CAPITOLO 18

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SIGARETTE AMERICANE

Giocare con le giare delle olive non era l'unica attività proibita che si svolgeva

sulla terrazza. Le adulte commettevano reati ben peggiori, come masticaregomme, dipingersi le unghie con lo smalto rosso, e fumare sigarette, sebbenequeste ultime due attività si svolgessero di rado, data soprattutto la difficoltà direperire tali articoli d'importazione. Reati più comuni erano: accendere candelemagiche per evocare il fascino del qabùl (sex appeal), tagliarsi i capelli allamaschietto, facendosi la frangia per somigliare all'attrice francese ClaudetteColbert, o progettare fughe nel mondo esterno per partecipare ai raduninazionalisti che si tenevano in qualche casa privata o alla moschea di al-Qarawiyyìn. Noi bambini avremmo potuto mettere nei guai le colpevoli andando araccontare a Làlla Mànì, a mio padre o allo zio quello che avevamo visto: cosìvenivamo trattati con straordinaria indulgenza, e su quella terrazza godevamo diuna posizione insolitamente privilegiata. Nessun adulto poteva farla da padronecon noi senza che lo minacciassimo di informare le autorità. Ed effettivamentequeste, convinte che "i bambini dicono sempre la verità", ci davano molto credito,quando subodoravano qualcosa di losco. Per questa ragione, tutti i trasgressori ci

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riservavano un trattamento da VIP, ricoprendoci di biscotti, mandorle tostate, esfinj (ciambelle), né si scordavano, quando era pronto il tè, di servirci per primi.

Mìna assisteva a queste manfrine in silenzio, raddoppiando le sue preghiereper salvare l'anima a tutti. Ma ciò che più incontrava la sua disapprovazione eral'abitudine dei giovani di casa di salire in terrazza a spiare le ragazze Bennìs.Quello, diceva, era qualcosa di assolutamente peccaminoso, una temerariaviolazione dei hudùd, i sacri confini. Vero è che la gioventù delle rispettive casenon sconfinava mai nella terrazza altrui, ma le canzoni d'amore che in quella sedevenivano cantate a voce alta, erano tali da farsi udire dai vicini. Shàma, inoltre,era solita danzare, e lo stesso facevano le ragazze Bennìs, riuscendo in tal modo ascolpire attimi fuggenti in cui l'amore adolescente e la gioia di vivere aleggiavanonell'aria, e davano al tramonto un'aura rosa di romanticismo. Ma il peggio delpeggio, secondo Mìna, era il fatto che giovanotti e signorine non si limitavano aguardarsi dalle terrazze, ma si scambiavano veri e propri sguardi d'amore.

Sguardo d'amore era quello che si rivolgeva a un uomo tenendo le cigliasemichiuse, come quando si ha voglia di andare a dormire. Shàma era bravissimaa farlo, e stava già ricevendo numerose proposte di matrimonio da promettentirampolli di famiglie nazionaliste, che l'avevano intravista mentre cantavaMaghrìbunà watanunà (Il Marocco è la nostra patria) alle manifestazioni instrada, o alle celebrazioni della moschea di al-Qarawiwìn per il rilascio deiprigionieri politici. Malika disse che avrebbe considerato l'idea di insegnarmi alanciare sguardi d'amore, se avessi promesso di cederle una parte consistente

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della mia porzione di biscotti, mandorle e sfinj. Anche Malika riceveva molteattenzioni dal sesso opposto, ovvero dai ragazzi della scuola coranica, e io nonvedevo l'ora di conoscere il suo segreto. Finalmente mi rivelò, su mia insistenza etenendosi sul vago, che combinava lo sguardo d'amore con la recita a mente diuna formula per il qabùl, presa da un libro di incantesimi del medioevo,concepita, pare, proprio allo scopo di catturare per sempre il cuore degli uominiche si desiderava conquistare.(35) Io ero estremamente interessata all'interafaccenda, e cercai di far interessare anche Samìr prendendo segretamente "inprestito" uno dei libri di Shàma; ma lui protestò che mi stavo facendo coinvolgeretroppo da questo nuovo affare dell'amore e della bellezza, e mi stavodimenticando di tutti i nostri progetti e giochi. Compresi, dunque, che Malikarappresentava la mia unica possibilità di ottenere quelle agognate e vitaliinformazioni sulla bellezza e il sex appeal, che andavano facendosi di giorno ingiorno più importanti. Tuttavia, non volevo darle l'impressione di esseredisperata, e così le dissi che dovevo pensarci su, prima di prendere una decisionein merito ai biscotti.

Gli adulti della terrazza ci trattavano - me e Samìr - come se fossimocompletamente all'oscuro dell'amore e di come nascono i bambini, e come se nonsapessimo quanto fosse importante farsi belli per attirare l'amore del sessoopposto.

In un paio di occasioni, Malika ci disse anche che l'amore era un affaretutt'altro che semplice, ed io, con grande attenzione, l'ascoltai tratteggiare le varie

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complicazioni, chiedendomi tutto il tempo perché mai non mi facesse fretta sullaquestione dei biscotti. Disse che la cosa più difficile di tutta la faccenda non erafare innamorare qualcuno, ma far sì che l'amore durasse. Perché l'amore ha le ali- viene e va. Decisi allora che, per il momento, avrei semplificato le coseconcentrandomi sulla seduzione iniziale; del problema di far durare l'amore persempre, mi sarei occupata in un secondo tempo.

Per conquistarsi l'amore di un uomo, una donna doveva fare due cose. Laprima aveva a che fare con la magia: si trattava di bruciare una candela durante laluna piena e cantare un incantesimo che tutte le ragazze, prima o poi, finivano perimparare. La seconda cosa che le toccava fare era, in realtà, un processocomplicato che durava nel tempo: doveva farsi bella, ovvero prendersi cura deicapelli, della pelle, delle mani, delle gambe e... Oh, sono certa di aver dimenticatoqualcosa. Ad ogni modo, secondo la zia Habìba non bisognava avere fretta; avevoun sacco di tempo per imparare tutto quello che c'era da sapere sulle tecniche dibellezza.

Io sapevo già cosa fare per avere dei bei capelli, perché mia madre aveva decisoche i miei erano, per natura, orribili. Erano ricci e indisciplinati, e ne avevo inquantità di molto superiore a quella ritenuta conveniente per una ragazza. Così,una volta alla settimana, la mamma metteva, in una mezza tazza d'olio d'olivabollente, due o tre foglie di tabacco fresco fatte arrivare in segreto, e a caro prezzo,direttamente dai monti del Rìf, dove c'erano grandi campi di tabacco. (Inmancanza di quello fresco, andava bene anche il tabacco secco da fiutare).

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Lasciava l'olio bollente a riposo per un po', con il tabacco dentro, e poi,pazientemente, mi divideva i capelli in ciocche sottili e le strofinava una per unacon l'unguento così ottenuto. Quindi li intrecciava e me li fermava in cima allatesta, per impedirmi di sporcare il vestito, e dovevo stare attenta a nonabbracciare o baciare nessuno, fino al momento di andare al hammàm, il bagnopubblico. Una volta là, mia madre diluiva dell'henné nell'acqua calda e me lostrofinava su tutta la testa, prima di lavare via il tutto. Diceva che non ci si puòaspettare molto da una donna che non si prende cura dei suoi capelli, e voleva chela gente si aspettasse molto da me.

Il lavaggio era la parte che più mi piaceva, perché andare al hammàm era unpo' come entrare in un'isola calda e nebbiosa. Prendevo in prestito dalla mammala preziosa ciotola turca d'argento, mi sedevo sulla sua stuoia siriana di legno emadreperla, e mi lavavo i capelli come faceva lei. Usavo la ciotola per attingere dalsecchio l'acqua calda che sgorgava dalla gigantesca fontana, e mi versavo l'acquasu tutta la testa. Mi fermavo solo quando la mamma sentiva altre personelamentarsi perché il mio henné si spargeva dappertutto e finiva negli occhi deivicini. Io lasciavo il hammàm senza degnare mai di uno sguardo i miei detrattori,e me ne andavo sentendomi bella come la principessa Budùr.

Frequentare il hammom del vicinato, con i suoi pavimenti di marmo bianco e isoffitti di vetro, era un tale divertimento che un giorno, mentre sguazzavo, decisiche dovevo assolutamente trovare il modo di averne uno con me dovunqueandassi - insieme alla mia amata terrazza - una volta divenuta adulta. Il hammàm

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e la terrazza erano i due aspetti più piacevoli della vita dell'harem, diceva lamamma, e la sola cosa che valesse la pena di mantenere. Voleva che io studiassimolto, prendessi un diploma e diventassi qualcuno, e costruissi una casa tutta perme con un hammàm al primo piano e una terrazza al secondo. Allora le chiedevodove avrei vissuto e dormito, e lei mi rispondeva: «Ma sulla terrazza, mia cara!Puoi farti un tetto di vetro mobile da usare quando fa freddo o quando vai adormire.

Con tutte le cose nuove che inventano i cristiani, per quando sarai cresciuta sipotranno comprare le case con i soffitti in vetro mobili». Viste dall'harem, lepossibilità di rendersi la vita più piacevole parevano infinite - le pareti sarebberoscomparse, e le avrebbero sostituite delle case con i soffitti fatti di vetro.Imprigionate dietro a delle mura, le donne misuravano coi passi il loro spazioristretto, e intanto sognavano orizzonti illimitati.

Ma torniamo alle sigarette e alle gomme da masticare. A noi bambini nonimportava molto delle sigarette, ma ci piacevano quelle gomme da masticarediabolicamente saporite. Tuttavia, di rado riuscivamo ad averne un pezzetto,perché i grandi se le tenevano per sé. La nostra unica possibilità era di venirecoinvolti in qualche operazione illecita, come quando Shàma voleva cheandassimo a prendere una lettera dalla sua amica, Wasìla Bennìs. Io e Samìrsapevamo che quelle lettere erano in realtà del fratello di Wasìla, Shàdli.

Questi era innamorato di Shàma, ma noi non dovevamo saperlo. Ad ognimodo, papà e lo zio non approvavano che ci fosse tutto questo andirivieni fra le

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nostre due case, sia perché i Bennìs avevano molti figli maschi, sia perché lasignora Bennìs era una tunisina di origini turche, e pertanto estremamentepericolosa. Era una che metteva in pratica le idee rivoluzionarie di Kemàl Atatürk(36), guidava a capo scoperto la nera Oldsmobile di suo marito, proprio come unadonna francese, e portava i capelli tinti color biondo platino con un taglio allaGreta Garbo. Tutti convenivano che la signora Bennìs non apparteneva veramentealla medìna.

Eppure, ogni volta che usciva per la città vecchia - e usciva molto spesso - sivestiva secondo i dettami della tradizione, con tanto di velo e jallàbiyya. Davvero,si sarebbe potuto dire che la signora Bennìs viveva due vite - una nella VilleNouvelle, o la città europea, dove se ne andava a passeggio senza il velo; e l'altranella medìna tradizionale. Era questa idea di una doppia vita che eccitava tutti, erendeva la signora Bennìs una celebrità.

Vivere in due mondi era molto più attraente che vivere in uno solo. L'idea dipoter oscillare fra due culture, due personalità, due codici e due lingue,affascinava tutti quanti! Mia madre voleva che fossi come la principessa 'A''isha(la figlia adolescente del nostro re Muhammad V, che teneva pubblici discorsi siain arabo che in francese), la quale indossava indifferentemente dei lunghicaffettani e dei corti vestiti alla francese. E in verità, a noi bambini, il pensiero dipassare da una lingua all'altra pareva un incantesimo simile a delle porte che siaprono da sole per magia. Questa abilità era apprezzata molto anche dalle donne,ma non dagli uomini; per loro era assolutamente perniciosa, e mio padre, in

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particolare, non aveva simpatia per la signora Bennìs, perché secondo lui facevapassare le trasgressioni per fatti naturali. Saltava con troppa facilità da unacultura all'altra, senza il minimo riguardo per i hudùd, i sacri confini. «E cosa c'èdi sbagliato in questo?», gli chiese Shàma, una volta. Mio padre replicò che ilconfine aveva la funzione di proteggere l'identità culturale, e che se le donnearabe si fossero messe a imitare le europee nel vestire provocante, fumaresigarette, e andarsene in giro a capo scoperto, una sola cultura sarebbe rimasta invita, e la nostra sarebbe morta. «Se è così», ribatté Shàma, «allora com'è che imiei cugini maschi se ne vanno in giro vestiti come tante imitazioni di RodolfoValentino, con i capelli tagliati al modo dei soldati francesi, e a loro nessuno sisogna di gridare che la nostra cultura sta scomparendo?». Ma la sua domandanon ottenne risposta.

Mio padre, che era un uomo pragmatico, era convinto che la vera minaccia,quella mortale, non ci veniva dai soldati dei paesi del nord, ma dai loro affabilivenditori che spacciavano prodotti dall'aspetto innocente. Pertanto organizzò unacrociata contro le gomme da masticare e le sigarette Kool. Per quel che loriguardava, fumare una lunga, sottile e bianca sigaretta Kool equivaleva asradicare secoli di cultura araba. «I cristiani vogliono trasformare le dignitosecase musulmane in piazze di mercato», era solito dire.

«Vogliono che compriamo questi loro prodotti velenosi e di nessuna utilità,per trasformare un'intera nazione in bestiame ruminante. Invece di pregare Allàh,la gente si riempie tutto il giorno la bocca di quella schifezza. Regrediscono

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all'infanzia, quando la bocca deve essere sempre tenuta occupata». L'insistenza dimio padre sui pericoli delle sigarette - diceva che erano peggio di tutte lepallottole francesi e spagnole - mi faceva vivere con disagio il fatto di tenerlosempre all'oscuro circa le attività della terrazza. Io non volevo tradire la suafiducia. Mi amava molto e si aspettava che non mentissi mai. Ma, nei fatti, eranoveramente poche le sigarette che giravano per la casa, perché procurarsele nonera impresa facile. Né le donne né i giovanotti avevano molti soldi in tasca, equindi i loro acquisti erano rari. La compravendita di merci nell'harem era sotto ilcontrollo dei maschi adulti. Noialtri ci limitavamo a consumare quello chepassava il convento. Non godevamo del privilegio di scegliere, decidere ecomprare. Così comprare qualcosa, anche solo delle sigarette, rivelava l'esistenzadi denaro clandestino. Ragion di più, per mio padre, di indagare su chi potesseessere il responsabile di tale contrabbando.

Dal momento che i soldi scarseggiavano, avere un intero pacchetto di sigarettesulla terrazza era cosa molto insolita. Il più delle volte, gli adulti se neprocuravano una o due, e le fumavano in cinque o sei. Non era questo, però, checontava, perché l'importante era il rituale, non la quantità. Prima, si introducevala sigaretta in un bocchino, meglio se lungo. Poi, si prendeva il bocchino fra duedita tese, si chiudevano gli occhi e si tirava una boccata, sempre ad occhi chiusi.Poi si aprivano gli occhi e si guardava la sigaretta fra le due dita come se fosse unasorta di apparizione magica. E la mossa successiva consisteva nel passarla allapersona seduta accanto, che a sua volta la passava al vicino, finché l'intero cerchio

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ne avesse avuto una boccata. Oh! quasi mi dimenticavo del silenzio: l'interaoperazione doveva svolgersi senza il minimo rumore, come se il piacereparalizzasse la lingua. A volte, io, Malika e Samìr imitavamo i grandi, usando unostecchino al posto della sigaretta, ma sebbene copiassimo ogni piccolo gesto, nonriuscivamo a imitare quel silenzio. Per quel che ci riguardava, era la parte piùdifficile del rituale.

Le gomme da masticare e le sigarette ci erano arrivate tramite gli americani,atterrati all'aeroporto di Casablanca nel novembre del 1942. Per anni, dopo la loropartenza, gli americani seguitarono a tornare nelle nostre conversazioni, perchétutto quello che li riguardava era un mistero dall'inizio alla fine. Erano apparsi dalnulla, quando nessuno li aspettava, e avevano stupito tutti quanti, durante la lorobreve permanenza. Chi erano mai quegli strani soldati? E cosa erano venuti afare? Né io né Samìr, e nemmeno Malika, riuscivamo a districare questi misteri.Tutto quello che sapevamo per certo, era che gli americani erano cristiani, maerano diversi dai soliti che scendevano dal nord per farci la guerra. Che ci crediateo no, gli americani non vivevano al nord, ma in una certa isola remota dell'ovestche si chiamava America, motivo per cui erano arrivati qui a bordo di navi.Riguardo al modo in cui avevano raggiunto la loro isola in prima istanza, leopinioni non erano concordi. Secondo Samìr era andata così: mentre oziavano suuna barca al largo delle coste spagnole, una corrente li aveva presi e li avevaportati al di là del mare. Malika diceva che erano andati in quell'isola in cercad'oro, si erano perduti, e quindi avevano deciso di stabilirsi lì. In ogni caso, non

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potevano raggiungere i posti a piedi, come tutti gli altri, ma dovevano volare oprendere la nave ogni volta che si annoiavano o volevano far visita ai loro cuginicristiani, francesi e spagnoli. Ma non dovevano essere cugini di primo grado,perché i francesi e gli spagnoli erano piuttosto bassi e avevano dei baffi neri,mentre gli americani erano molto alti e avevano diabolici occhi azzurri. Comenarrava Husayn Slàwì, il cantante folk di Casablanca, al loro arrivo, gli americaniavevano spaventato molti abitanti della città, con le loro uniformi dacombattimento, le spalle larghe due volte quelle dei francesi, e il fatto che, fin dalloro arrivo, la prima cosa che fecero fu correre dietro a tutte le donne. HusaynSlàwì intitolò quella canzone Al- 'ayn al-zarqà' ja'nà bì-kull khayr (Gli uominidagli occhi azzurri ci hanno portato ogni sorta di "ben di Dio"), e la zia Habìba cispiegò che era un titolo ironico, perché gli uomini di Casablanca furonoveramente sconvolti da quegli stranieri. Non solo gli americani davano la cacciaalle donne ogni volta che dalle banchine ne individuavano una, ma le riempivanoanche di regali velenosi, come gomme da masticare, borsette, sciarpe, sigarette erossetti.

Tutti dicevano che gli americani erano venuti in Marocco per combatterequalcuno, ma io e Samìr non sapevamo chi.

Qualcuno disse che erano venuti per combattere gli alemanni (i tedeschi),quei guerrieri che ce l'avevano con i francesi per via del colore dei capelli. Ifrancesi, così pareva, avevano invitato gli americani a unirsi alla guerra, peraiutarli a battere gli alemanni. Ma una simile spiegazione presentava un grosso

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problema: non c'era un solo alemanno in tutto il Marocco! Samìr, che avevaviaggiato spesso con lo zio e papà, giurava che in tutto il regno non aveva maivisto l'ombra di un alemanno. Ad ogni modo, tutti erano felici che gli americaninon fossero venuti per fare la guerra a noi. Alcuni arrivavano a dire che gliamericani erano gente cordiale e passavano gran parte del loro tempo praticandosport, nuotando, masticando gomme e gridando «O.k.» a tutti quelli chevedevano.

«O.k.» era il loro saluto, l'equivalente di Al-Salàm 'alaykum (Pace a voi). Inverità, le due lettere O e K stavano in luogo di parole più lunghe, ma gli americaniavevano l'abitudine di abbreviare le frasi in modo da poter tornare presto amasticare la gomma. Era come se noi ci salutassimo dicendo un breve «Sa»,invece di pronunciare per esteso Al-Salàm 'alaykum.

L'altra cosa intrigante sul conto degli americani era che fra loro c'erano deineri. C'erano americani dagli occhi azzurri e c'erano americani neri, la qual cosariempiva tutti di stupore. L'America era così lontana dal Sudan, il cuoredell'Africa, e solo nel cuore dell'Africa si trovavano i neri.

Mìna ne era sicura, e tutti concordavano con lei. Allàh aveva dato a tutti i neriuna grande terra di fitte foreste, fiumi abbondanti e bei laghi, appena più a suddel deserto. E allora da dove mai venivano questi americani neri? Avevano forsedegli schiavi, gli americani, come gli arabi di una volta? Che ci crediate o no,quando facemmo questa domanda a mio padre, lui rispose di sì, gli americaniavevano avuto degli schiavi, e quegli americani neri erano certamente dei cugini

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di Mìna. I loro antenati erano stati rapiti molto tempo fa, e portati in America abordo di navi per lavorare in grandi piantagioni. Ma ora le cose erano cambiate,disse mio padre. Ora, quel lavoro veniva fatto dalle macchine, e la schiavitù erastata drasticamente abolita.

Comunque, non riuscivamo a immaginare il motivo per cui, al contrario degliarabi, i bianchi e i neri americani non si erano mischiati fra di loro e non eranodiventati di pelle marrone, cosa che di solito accade quando in un popoloconvivono bianchi e neri. «Perché i bianchi americani sono ancora così bianchi»,chiedeva Mìna, «e i neri così neri?

Non si sposano tra loro?». Quando finalmente il cugino Zìn raccolseinformazioni a sufficienza per rispondere alla sua domanda, venne fuori chedavvero gli americani non si sposavano mai tra loro. Anzi, badavano bene a tenerele razze separate. Le loro città erano divise in due medìne, una per i neri e una peri bianchi, com'era a Fez per gli ebrei e i musulmani. Ci ridemmo sopra un bel po',sulla terrazza, perché in Marocco chiunque avesse voluto separare la gentesecondo il colore della pelle, si sarebbe trovato in seria difficoltà. La gente si eramischiata tanto che andava dalla tinta del miele e delle mandorle, a quella delcaffellatte, fino alle innumerevoli sfumature del cioccolato. Anzi, capitava chenella stessa famiglia ci fossero fratelli e sorelle dagli occhi azzurri e fratelli esorelle di pelle scura. Mìna era veramente stupita all'idea di separare la gentesecondo la razza. «Sappiamo che Allàh ha separato le donne dagli uomini percontrollare la popolazione», diceva, «e sappiamo che Allàh ha separato le

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religioni, così che ciascun gruppo può dedicarsi alle sue preghiere e invocare isuoi profeti. Ma a che scopo separare i neri dai bianchi?». Nessuno era in grado dirisponderle. Era un mistero che andava ad aggiungersi agli altri.

Ma in realtà, alla fine, il più inquietante di tutti i misteri restava il perché gliamericani erano approdati a Casablanca. Un giorno, ero così stanca di cercarerisposte al quesito, da dire a Samìr che forse, dopo tutto, erano venuti solo perfare una gita, così, tanto per vedere Casablanca, perché magari pensavano fosseun'isola, senza abitanti. Samìr ne fu sconvolto e mi informò che se avevointenzione di scadere nel ridicolo, avrebbe abbandonato la discussione. Lo pregaidi non farlo, e per ammorbidirlo gli dissi che ero sicura che ci fosse di mezzo «unaseria ragione politica», come diceva papà, per CUI gli americani erano approdati aCasablanca. Quindi suggerii di considerare attentamente tutti gli elementi dellasituazione.

Mentre dicevo questo, dentro di me pensavo che ultimamente avevo avutomolte difficoltà con Samìr; era diventato serio all'improvviso, tutto doveva esserepolitico, e tutte le volte che non ero d'accordo con lui, tirava in ballo la storia chenon lo rispettavo più. Così mi vedevo costretta a scegliere se assecondarlo ecensurare le mie idee, o prendere la decisione di rompere la nostra amicizia.Naturalmente non avevo mai preso in seria considerazione quest'ultimaalternativa, perché ero intimorita all'idea di dover affrontare gli adulti da sola.Ogni volta che volevo ottenere qualcosa, o inscenare una rivolta, bastava chesussurrassi l'idea a Samìr, e Ci pensava lui a piantare un inferno. Dopo di che,

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tutto quello che dovevo fare era sedermi accanto a lui, assisterlo quando avevabisogno di un incoraggiamento, e congratularmi con lui quando riuscivanell'intento. Prendiamo per esempio il mistero degli americani. Credevo che sisarebbe divertito all'idea di guerrieri che partono in nave da un'isola lontana soloper farsi una gita, ma così non fu.

«Continui a fare confusione tra le cose», disse, tutto in ansia per il mio futuro.«Una guerra è una guerra; una gita è una gita. Tu eviti sempre di guardare larealtà, perché ti spaventa. Quello che fai è pericoloso, perché potresti andare aletto pensando che i guerrieri sono a Casablanca per guardare i fiori e cantare congli uccelli, e invece magari stanno venendo a Fez per tagliarti la gola. AncheMalika, che è molto più grande di te, dice queste stupidaggini. Penso che sia unproblema delle donne». Io rimasi in silenzio di fronte a queste paroleenigmatiche, perché quello che aveva detto mi suonava al tempo stesso bizzarro egiusto.

Il più grosso problema che avevamo con gli americani era in realtà il problemadel nemico. Dal momento che non c'erano alemanni in vista, perché gli americanierano venuti a Casablanca? Dopo lunghe discussioni, Samìr se ne uscì con unaspiegazione che mi parve molto sensata. Disse che forse era come un gioco dabambini, e gli americani erano sbarcati a Casablanca per ingannare i tedeschi,proprio come noi ci nascondiamo dentro le giare delle olive per ingannarci avicenda. Il Marocco era la giara di olive degli americani. Si stavano nascondendoqui, e più tardi si sarebbero insinuati furtivamente al nord per attaccare gli

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alemanni. Pensai che Samìr era stato molto in gamba ad avere questa idea, edesiderai di poter andarmene in giro come lui, che era così in gamba proprioperché andava in giro con lo zio e papà. Sapevo che se ci si muove, la mente lavorapiù svelta, perché vede continuamente cose nuove alle quali è costretta a reagire.E di certo, in questo modo, si diventa più intelligenti di chi sta rinchiuso in uncortile. Anche la mamma ne era del tutto convinta, e sosteneva che la ragioneprincipale per cui gli uomini tenevano le donne sotto chiave, era impedire loro difarsi troppo sveglie. «Correre per tutto il pianeta fa correre anche il cervello»,disse mia madre, «e mettere il cervello a riposo è l'idea che sta dietro alla praticadi mura e serrature». Aggiunse che l'intera crociata contro le gomme da masticaree le sigarette americane era, di fatto, anche una crociata contro i diritti delledonne.

Quando le chiesi di spiegarsi meglio, disse che sia fumare le sigarette chemasticare le gomme erano delle attività stupide di per sé, ma gli uomini vi siopponevano perché davano alle donne l'opportunità di prendere decisioni perconto proprio, decisioni che non erano regolate dalla tradizione o dall'autorità.«Quindi, vedi», concluse mia madre, «una donna che mastica una gomma compiein realtà un gesto rivoluzionario. Non per il semplice atto del masticare in sé e persé, ma perché nessun codice le prescrive di farlo».

(35) Quello che in questa sede chiamo "libro di incantesimi" fa parte di un

importante genere letterario arabo, che ha a che fare con gli shifà', i rimedi, e che

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fiorì dal medioevo fino al diciannovesimo secolo. Ai margini del pensiero medicoarabo, esso consisteva in una combinazione di capitoli medico-scientifici (spessocollocati all'inizio del libro) con ricette e formule magiche molto divertenti, dallemaschere di bellezza e i trattamenti per il sex appeal, a metodi per il controllodelle nascite, preparati afrodisiaci e cure per l'impotenza. Quei libri sono ancoraoggi molto popolari. Disponibili sulle bancarelle dei tradizionali ambulanti,esercitano un fascino enorme sui bambini a causa delle loro carte con i talismanisimbolici e la particolare calligrafia delle formule magiche. Per ulterioriinformazioni vedi cap. 19, nota 1.

(36) La Turchia aveva subìto un grande rivolgimento politico e culturale, conl'avvento della Repubblica di Turchia nel 1923, ad opera del suo primo presidentel'eroe nazionale Kemàl Atatürk. Il suo governo abolì numerose istituzionitradizionali, come gli harem e la poligamia, l'uso del fez da parte degli uomini e,in misura minore l'uso del velo per le donne (che divenne facoltativo). Seguironodelle aggressive riforme economiche e sociali; alle donne fu garantito il diritto divoto nel 1934. Kemàl Atatürk morì ancora in carica nel 1938.

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CAPITOLO 19

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BAFFI E SENI

La terrazza era territorio delle donne, e gli uomini non vi erano ufficialmente

ammessi. Questo soprattutto perché, proprio tramite le terrazze, le casecomunicavano l'una con l'altra: bastava arrampicarsi e saltare, tutto qui. E comeavrebbero potuto gli harem esseri luoghi sicuri, se agli uomini fosse statopermesso di vagare da una terrazza all'altra? I contatti fra i sessi sarebberoavvenuti fin troppo facilmente.

Di certo, un contatto di sguardi fra i miei cugini maschi e le figlie dei viciniavveniva, soprattutto in primavera e d'estate, quando i tramonti sulle terrazzeerano dei veri spettacoli. I giovani non sposati di entrambi i sessi avevanol'abitudine di indugiare lassù, quando il tempo era bello, per godersi gliincomparabili tramonti di Fez, che, pazzi di nuvole rosse e violacee, spiegavanomagiche ali nel cielo.

Lassù, i passeri intrecciavano danze su danze, come in preda a una frenesia.Shàma era sempre lì, insieme alle sue due sorelle maggiori, Sàlima e Zubayda, e itre fratelli grandi, Zìn, Jawàd e Shakìb. In teoria, i suoi fratelli non dovevano maimettere piede in terrazza, perché da lì si poteva guardare dritto nella casa dei

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Bennìs, e nella famiglia Bennìs vi erano molte ragazze da marito, come purediversi giovani scapoli. Ma né i giovani Mernissi né i giovani Bennìs erano ligi alleregole, e nelle sere d'estate si radunavano tutti sulle loro romantiche terrazzeimbiancate a calce, tanto vicine alle nuvole. Ogni famiglia se ne restava sulla suaterrazza, ma le occhiate e i sorrisi si incrociavano, sconfinavano, e l'aria era saturadi desideri peccaminosi. I giovani più dotati cantavano le canzoni di Asmahàn,'Abdelwahhàb, o Farìd, tutti gli altri trattenevano il respiro.

Un giorno, a scuola, durante una lezione di biologia dedicata a quel miracoloche è l'insàn (l'essere umano, la più perfetta delle creature di Allàh), Làlla Tam cispiegò come fanno i ragazzi e le ragazze a diventare uomini e donne che possonoavere bambini. Quando si raggiunge l'età di dodici o tredici anni, disse, o forseanche prima, la voce dei maschi si fa più grossa, sulle loro facce compaiono i baffi,e all'improvviso ecco che diventano uomini. (Quando Samìr lo seppe, si disegnòun baffo nero come il carbone sopra il labbro superiore, usando del kohl che iostessa avevo rubato per lui dalla ben fornita scatola dei trucchi di mia madre.)Quanto a noi ragazze, ci si sarebbero sviluppati grandi seni e avremmo avutoquello che in arabo viene chiamato haqq al-shahr (alla lettera, "il tributomensile"), che, ci spiegò, era come una diarrea di sangue. Non faceva male, era deltutto naturale, e quando fosse accaduto, non avremmo dovuto spaventarci.Durante il periodo di haqq al-shahr avremmo portato un gheduar (un assorbente)fra le gambe, così da tenere tutto quanto ben discreto. Quando tornai da scuola,quel giorno, la prima cosa che feci fu chiedere alla mamma ulteriori dettagli circa

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il gheduar. Lei, sulle prime, ne rimase scioccata. Poi cominciò a farmi un terzogrado per sapere da chi avevo avuto, tanto precocemente, quell' informazione.

Al sentire che era stata nientemeno che Làlla Tam, la maestra della scuolacoranica, la mamma fu ancora più sorpresa. «Dobbiamo imparare tutto sul corpoumano e il disegno meraviglioso di Allàh», le spiegai per rassicurarla, giacchépareva tanto smarrita. «Un buon musulmano deve conoscere bene la scienza e labiologia, come le stelle e i pianeti». A quel punto la mamma fu sconvoltadefinitivamente, perché realizzò che ormai non ero più una bambina - non perchéfossi cambiata fisicamente, ma perché ero in possesso di nozioni che, a suoavviso, i bambini non dovevano avere. Per la prima volta, mi trovavo ad avere unasorta di potere su mia madre, ed era un potere che mi veniva dall'essereinformata.

Quella discussione segnò una svolta nei miei rapporti con la mamma, la qualesi rese conto, e in modo definitivo, che stavo diventando indipendente.Probabilmente, comprese anche che il tempo per lei stava passando, che sua figliacresceva alla svelta, e che la sua stessa bellezza non sarebbe durata in eterno. Seio stavo per diventare una giovane donna, voleva dire che lei cominciava adinvecchiare. «Cos'altro ti ha detto, Làlla Tam? mi chiese, guardandomi come sevenissi da un altro pianeta. «Ti ha detto nulla riguardo ai bambini?». Poveramamma, non poteva credere che io, la sua piccolina, fossi così infarcita diconoscenze cosmiche.

Le dissi, allora, che sapevo che, dall'età di dodici o tredici anni, avrei potuto

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avere un bambino, perché a quell'età avrei già avuto l 'haqq al-shahr e i seni«necessari per nutrire un piccolo frignone affamato». Mia madre fu colta allasprovvista. «Bene», disse alla fine, «io avrei aspettato un anno o due prima ditrattare con te questi argomenti, ma se fa parte della tua istruzione...». Io lespiegai che comunque non aveva molto di che preoccuparsi, perchésull'argomento sapevo già tutto da anni: l'avevo imparato dalle recite in terrazza,dalle storie e dai discorsi delle donne. Ora la conoscenza era ufficiale, tutto qui.Per farla ridere, cercai di scherzare, e le dissi che tra poco Samìr avrebbe avutouna voce simile a quella di Fàqih Nàsirì, l'imàm (o predicatore) della nostramoschea.

Comunque, a mia madre non dissi che ero determinata a diventareun'irresistibile ghazàla, cioè una donna fatale dall'aspetto di gazzella, e che ero giàstata iniziata a una serie di equivoche suhùr, pratiche magiche infarcite dimanipolazioni astrologiche, grazie alla fortunata distrazione di Shàma che aveval'abitudine di seminare dappertutto i suoi libri di incantesimi. Di questi libri,Shàma ne aveva dozzine in camera sua, e poiché non li teneva certo sotto chiave,diventai bravissima nel mandare a mente formule magiche e nel copiare le cartedegli incantesimi - complete di difficili apparati di lettere e numeri - in quegliintervalli, di stressante brevità, in cui mia cugina si allontanava dalla stanza. Permettere in pratica le magie sulla terrazza, dovetti anche diventare un'esperta diastronomia. Al tramonto, passavo ore a scrutare il cielo e a chiedere a chi mi stavaaccanto tutti i nomi delle stelle in ordine di apparizione. A volte le persone si

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prestavano gentilmente a darmi l'informazione; altre volte venivo bruscamentemessa a tacere con uno: «Stai zitta!

Non vedi che sto meditando? Come fai a parlare, quando la bellezzadell'universo è così travolgente?».

Per quel che ne sapevo, praticare i riti di suhùr - cioè bruciare candelinebianche nelle notti di novilunio, o decoratissime candele lunghe nelle notti diluna piena, e bisbigliare segreti incantesimi quando Zahra (Venere) o Al-Mushtarì(Giove) erano allo zenit - era di gran lunga l'infrazione più interessante fra quelleche si potevano commettere sulla terrazza. Senza contare che anche noiprendevamo parte a quelle operazioni, perché le donne necessitavano dellapresenza di noi bambini, che dovevamo reggere le candele, recitare incantesimi, ecompiere dei gesti particolari. La Via Lattea luccicava così vicina da darcil'impressione che brillasse solo per noi. Shàma, che sia benedetta, era solitascordarsi della mia tenera età quando si astraeva nella lettura a voce alta delTilsam al-qamar (Il talismano della luna piena), un capitolo dell'opuscolodell'Imàm al-Ghazàlì Kitàb al-awqàf. (37) Quel capitolo insegnava come scandiredei complessi incantesimi, nel giorno e nell'ora specifica in cui il cielo assumevadeterminate configurazioni. Tuttavia, non tutta la letteratura sull'astrologia el'astronomia era considerata di natura equivoca. Storici rispettabili comeAlMa'sùdì scrissero dell'influenza della luna piena sull'universo, dalle piante agliesseri umani, e le loro opere erano spesso lette ad alta voce. (38) Io ascoltavoattentamente quello che Al-Ma'sùdì diceva sulla luna: essa faceva crescere le

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piante, maturare i frutti e ingrassare gli animali. E faceva anche venire l'haqq al-shahr alle donne. (39) Mio dio, pensavo, se la luna può fare tutto questo, di certopuò farmi crescere i capelli più lunghi e più lisci, e affrettare lo sviluppo dei mieiseni, che sfortunatamente era ancora di là da venire. Avevo notato che,ultimamente, Malika aveva cominciato a muovere le spalle in modo bellissimo -camminava come la principessa Farìda d'Egitto prima del divorzio - ma lei se lopoteva permettere, perché le stava accadendo qualcosa. Ancora non si potevanochiamare seni, quelli che aveva, ma sotto la camicia le stavano ormaigermogliando due piccoli mandarini. Quanto a me, non avevo nulla, eccetto lasperanza disperata che presto anche a me sarebbe accaduto qualcosa del genere.

Quello che realmente mi affascinava della magia sulla terrazza era il fatto cheuna piccola nullità come me potesse ordire incantesimi intorno a queimeravigliosi corpi celesti che fluttuavano in cielo, e catturare un po' del lorosplendore. Divenni un'esperta dei nomi che gli arabi danno alla luna. La lunanuova era chiamata hilàl, o crescente, e la luna piena era chiamata qamar o badr.Sia qamar che badr si usavano per designare un uomo o una donna di notevolebellezza, cioè come la luna nella fase in cui è più luminosa e perfetta. Fra hilàl eqamar, la luna prendeva molti altri nomi. Alla tredicesima notte veniva chiamatabayàd, o bianca, a causa del cielo luminoso, mentre sawàd era la notte nera in cuila luna se ne stava nascosta dietro al sole.

Quando Shàma mi disse che la mia stella era Zahra (Venere), cominciai amuovermi lentamente, come fossi fatta di una sostanza celeste. Sentivo che avrei

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potuto spiegare le mie ali d'argento ogni volta che lo avessi voluto.Della magia astrale apprezzavo, inoltre, l'incredibile varietà di usi a cui si

prestava. Potevi accrescere la potenza di un incantesimo fino a influenzarepersone chiave come una nonna o un re, o semplicemente il droghiere accanto, ilquale, se solo avessi fatto per bene i tuoi incantesimi, avrebbe sbagliato i conti atuo favore quando stavi per pagare un oggetto costoso. Ma per quanto miriguardava, solo due cose erano importanti quando si trattava di magie. La primaera fare in modo che la mia insegnante mi mettesse dei buoni voti, e la secondaera accrescere il mio sex appeal.

Volevo, naturalmente, incantare Samìr, anche se stava accadendo esattamentel'opposto e il nostro rapporto si faceva di giorno in giorno più difficile. Per primacosa, come papà e lo zio, Samìr nutriva un profondo disprezzo per le suhùr, e lecondannava come autentiche sciocchezze. Questo, ovviamente mi costringeva adarmi alla clandestinità per buona parte della serata, e a scomparire del tuttoquando c'era la luna piena. Inoltre, ero obbligata a usare i miei incantesimi perattrarre immaginari principi arabi della mia età che ancora non avevo il piacere diconoscere. Tuttavia, ero molto cauta. Non volevo scagliare i miei incantesimitroppo lontano da Fez, Rabàt o Casablanca, e già Marràkesh mi sembrava un po'troppo distante, anche se Shàma diceva che una giovane marocchina può sposarsia Lahore, Kuala Lumpur o persino in Cina. «Allàh ha reso il territorio dell'Islàmsconfinato, e meravigliosamente vario», diceva.

Molto tempo dopo, scoprii che gli incantesimi funzionavano solo se si

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conosceva già il principe e lo si poteva visualizzare durante il rituale. Ciòsignificava che io ero seriamente impedita, perché una volta escluso - dietro suapressante richiesta - Samìr non c'era nessun altro che avessi voglia di visualizzare.La maggior parte dei ragazzi con cui giocavo a scuola erano troppo bassi e troppogiovani, e io volevo che il mio principe avesse almeno un centimetro e qualcheora più di me. Comunque sia, sapevo di magia, e questo mi dava sicurezza. Se sivoleva far innamorare un uomo alla follia, occorreva pensare a lui intensamenteun venerdì notte, nel momento preciso in cui Zahra (Venere) appariva nel cielo.In più, per tutto il tempo, era d'obbligo recitare il seguente incantesimo: Làf, Làf,Làf

Dàf, Dàf,Yàbesh, Dibesh,Ghalbesh, Ghalbesh,Da'uj, Da'uj,Araq sadrùh,Hàh, Hàh. (40)Naturalmente, perché l'incantesimo avesse un qualche effetto, si dovevano

recitare le parole magiche con voce ferma e melodiosa, senza errori di pronuncia,e questo era quasi impossibile, perché quelle parole ci erano totalmentesconosciute: non erano arabe. Come poteva essere altrimenti, dato che gliincantesimi erano frammenti di lingue dei soprannaturali jinn, carpite edecodificate da studiosi di grande talento che le misero per iscritto a beneficio del

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genere umano? Visto che salmodiare mi riusciva bene, davo la colpa alla miapronuncia difettosa, se i miei incantesimi non avevano effetto e nessun principeera ancora venuto a chiedere la mia mano. Inoltre, pronunciare male le parolemagiche era terribilmente pericoloso, perché i jinn potevano rivoltarsi contro di tee graffiarti la faccia, oppure farti venire le gambe storte per tutta la vita, se lifacevi arrabbiare. Se Samìr, il mio protettore, fosse stato con me, avrebbe potutocontrollare la mia pronuncia e salvarmi così dall'ira dei -j jinn. Ma lui restava deltutto indifferente alla mia nascente e improvvisa ossessione di diventare unadonna fatale.

Quando si trattava di magia, Mìna dava ragione a Samìr con tutto il cuore, esebbene fosse molto tollerante nei confronti dei riti che vedeva celebrarsi interrazza, aveva sempre qualcosa da obiettare, perché il Profeta era assolutamentecontrario a quel genere di cose. Tutti continuavano a spiegarle che il Profeta eracontrario soltanto alla magia nera, quella che serve a far del male alle persone, mache quando si bruciavano talismani, muschio e zafferano, o si recitavano formulemagiche con la luna piena per aumentare il proprio fascino, farsi crescere i capellipiù lunghi, diventare più alti, o ingrandire il proprio seno, allora andava bene.Allàh, così sensibile (Latìf) e pieno di tenerezza e misericordia (Rahìm) per le suefragili ed imperfette creature, era abbastanza generoso da comprendere talinecessità.

Mìna argomentava che il Profeta non faceva simili distinzioni, e che tutte ledonne che praticavano magie, di qualunque tipo fossero, avrebbero avuto delle

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brutte sorprese nel Giorno del Giudizio. I resoconti dei loro angeli le avrebberospedite direttamente all'inferno.

Ma le suhùr, le pratiche magiche non erano pericolose per l'harem quanto ladecisione dei nazionalisti di incoraggiare l'istruzione delle donne. La città interafu messa sottosopra quando le autorità religiose della moschea di al-Qaràwiyyìn,compresi i fàqih Muhammad al-Fàsì e Mawlày Bal'arbì 'Alawì, affermarono ildiritto delle donne allo studio e, col sostegno del re Muhammad V, incoraggiaronoi nazionalisti ad aprire istituti per l'istruzione delle ragazze. (41)

Appresa la notizia, mia madre presentò istanza a mio padre perché fossitrasferita dalla scuola di Làlla Tam a una "scuola vera", e lui rispose convocandoun consiglio di famiglia in piena regola. I consigli di famiglia erano affar serio, edi solito venivano convocati solo quando un membro della famiglia dovevaprendere una decisione importante, oppure affrontare qualche sorta di conflittoche non riusciva a risolvere da solo. Nel caso del trasferimento, la decisione eratroppo seria perché mio padre potesse prenderla senza il sostegno della famiglia.Si trattava di un passo di notevole importanza: lasciare un istituto tradizionale efamiliare, che fino a quel momento era stata l'unica opzione disponibile per lefiglie femmine, a favore di una scuola elementare nazionalista modellata sulsistema francese, dove alle bambine si insegnavano la matematica, le linguestraniere e la geografia, dove gli insegnanti erano spesso uomini, e dove si facevaginnastica in pantaloni corti.

Il consiglio si tenne. Lo zio, la nonna Làlla Mànì e tutti i miei cugini maschi,

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che, grazie alla stampa locale e straniera, erano ben informati sui progressidell'istruzione, vennero per aiutare mio padre a decidere. Ma non si poteva tenereun consiglio di famiglia equilibrato senza qualcuno che sostenesse la mamma, dacui era partita l'idea. Di norma, questo rappresentante avrebbe dovuto essere suopadre, ma poiché la fattoria dove viveva era troppo distante, il nonno mandò unsostituto nella persona dello zio Tàzì, fratello di mia madre, che abitava alla portaaccanto. Lo zio Tàzì era sempre invitato ai nostri consigli di famiglia, ogni voltache la mamma era in qualche modo coinvolta, per garantirle l'equità e impedireun attacco congiunto del gruppo Mernissi contro i suoi interessi. Così, lo zio Tàzìfu invitato, il consiglio ebbe luogo, e mia madre uscì di senno per la gioia quando,alla fine, il mio trasferimento fu approvato. E non ero neanche l'unica interessata:tutti e dieci i miei cugini sarebbero venuti con me. Salutammo tutti contenti LàllaTam, e ci precipitammo alla nuova scuola di Mawlày Brahìm Kattànì, a pochimetri dal portone di casa nostra.

Il cambiamento fu incredibile, e io ne ero entusiasta. Alla scuola coranica,dovevamo star seduti sui cuscini a gambe incrociate per tutto il giorno, conun'unica pausa per il pranzo che ci portavamo da casa. La disciplina era feroce -Làlla Tam te le dava con la frusta, ogni volta che non le andava bene il tuo mododi guardare, o di parlare, o di recitare i versetti. Le ore si trascinavano eterne, ilnostro apprendimento era lento, le lezioni venivano ripetute a memoria.

Invece, alla scuola nazionalista di Mawlày Brahìm, tutto era così moderno! Sistava seduti sulle sedie e si divideva un tavolo con altre due ragazze, o ragazzi.

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C'era sempre qualcuno che interrompeva e non ci si annoiava mai. Non solo sisaltava da una materia all'altra - dall'arabo al francese, dalla matematica allageografia - ma si perdeva un sacco di tempo a spostarsi da un aula all'altra. Fra levarie lezioni, poi, si poteva sgattaiolare fuori, fare acrobazie, prendere in prestitospuntini a base di ceci da Malika, e persino chiedere il permesso di andare allatoilette, che era situata dalla parte opposta dell'edificio - il che equivaleva a dieciminuti buoni di licenza autorizzata, e anche se tornavi in ritardo, tutto quello chedovevi fare era bussare dolcemente un paio di volte sulla porta dell'aula, prima dientrare. I due colpi sulla porta prima di aprire e di entrare, mi mandavano inestasi, perché in casa nostra le porte erano o chiuse o aperte, e bussare nonserviva. Non solo a causa dello spessore di quei battenti così massicci cherisultava impossibile smuoverli, ma anche perché un bambino, di norma, nondoveva aprire una porta chiusa o chiuderne una aperta.

Oltre a queste entusiasmanti novità, ora avevamo anche due lunghi intervallisolo per giocare nel cortile (uno a metà mattina e l'altro a metà pomeriggio,) piùdue pause per la preghiera - una a mezzogiorno, subito prima di pranzo, e l'altranel tardo pomeriggio, quando ci portavano alla moschea della scuola dopo lerituali abluzioni che facevamo nella vicina fontana.

Ma non era tutto. La ciliegina sulla torta era che adesso tornavamo a casa peril pranzo, e in quell'occasione noi ragazzi Mernissi seminavamo distruzione nelbreve tratto di strada fra la scuola e la casa. Saltavamo su e giù intorno agliasinelli che ci attraversavano il cammino, carichi di verdura fresca, e a volte i

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ragazzi riuscivano perfino a salire sul dorso di quelli che non avevano il carico. Ioero così elettrizzata di poter camminare per la strada in pieno giorno! Spessoriuscivo ad abbracciare gli asinelli, con quei loro occhi dolci e umidi, e a parlareloro per qualche minuto, prima che il padrone mi vedesse e mi mandasse via.Fare capannello da Maymùn, il venditore di ceci tostati, era un'altra delle nostreattività preferite, ma finivamo sempre nei guai perché il numero delle porzioniche ci dava non corrispondeva mai alla somma di denaro che riceveva in cambio.Allora ci accompagnava al portone, giurando per Mawlày Idrìs, il santo patrono diFez, che non avrebbe più fatto affari con noi, e che saremmo finiti all'inferno,perché mangiavamo tutti contenti delle cose che non avevamo pagato. Alla fine,dopo settimane di questo andazzo, Ahmed il portinaio trovò una soluzioneonorevole: tutti avremmo depositato da lui i soldi per i ceci in anticipo, e luiavrebbe pagato Maymùn alla fine di ogni settimana. Chi di noi aveva esaurito ilsuo credito, veniva avvertito da Ahmed, che provvedeva a notificarlo anche aMaymùn. La scuola moderna era un tale divertimento che cominciai a prenderevoti alti, e presto diventai intelligente, nonostante fossi ancora disperatamentelenta in ogni cosa, nel mangiare come nel parlare.

Trovai anche un altro modo per essere al centro dell'attenzione: imparai amemoria le parole di molte canzoni nazionaliste che ci facevano cantare a scuola,e mio padre ne fu così orgoglioso da chiedermi di cantarle per la nonna LàllaMànì almeno una volta alla settimana. All'inizio, le cantavo semplicementestando in piedi sul pavimento. Poi, visto che faceva un bell'effetto, chiesi il

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permesso di salire su uno sgabello. Subito dopo, alzai ancora il tiro, chiedendo amio padre di intercedere con la mamma per farmi indossare il mio vestito daprincipessa 'A''isha, in occasione delle mie esibizioni canore. Questo vestito, cheaveva un corpetto di raso e il resto di tulle, era una copia di quello che laprincipessa portava a volte quando accompagnava suo padre, re Muhammad V. Laprincipessa 'A''isha viaggiava spesso per il paese, tenendo discorsi sullaliberazione delle donne, e questo fatto aveva suggerito a mia madre di farmicucire un vestito uguale al suo. Di norma avevo il permesso di metterlo solo nelleoccasioni speciali, perché era tutto bianco e si sporcava facilmente. La mammaandava in bestia se mi sporcavo i vestiti. «Ma le macchie non si possono evitare,se vogliamo che questa povera bambina faccia una vita normale», argomentavapapà in mio favore. «E poi, nostra figlia cresce così in fretta che alla fine dell'annoquesto vestito potrebbe anche non servirle più». Alla fine, per completare la miaesibizione teatrale, suggerii a mio padre di darmi una piccola bandiera delMarocco, fatta a mia misura, da tenere accanto mentre cantavo, ma lui rifiutòsubito l'idea. «C'è una linea sottile che divide il buon teatro dal circo», disse.

«E l'arte fiorisce soltanto se questa separazione viene accuratamentemantenuta».

Ma se le cose, per me, si stavano mettendo bene, grazie ai miei nuovieducatori, per mia madre si mettevano piuttosto male. La vita del cortile le eradivenuta più intollerabile che mai, con tutto quello che si veniva a sapere sullefemministe egiziane - che marciavano nelle strade e diventavano ministri del

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governo; sulle donne turche - che venivano promosse a incarichi ufficiali di ognitipo; e con la nostra stessa principessa 'A''isha, che esortava le donne, sia in araboche in francese, a intraprendere la via della modernità. Mia madre si lamentavache la sua vita era assurda - il mondo stava cambiando, le mura e le sbarre nonsarebbero durate per molto, ma lei era ancora una prigioniera. E non vedevanessuna logica dietro a tutto ciò. Aveva chiesto il permesso di frequentare corsi dialfabetizzazione - alcune scuole del nostro vicinato ne offrivano - ma la suarichiesta era stata respinta dal consiglio di famiglia. «Le scuole sono per lebambine, non per le madri», aveva detto Làlla Mànì. «Non è nella nostratradizione». «É allora?», aveva replicato mia madre. «Chi trae beneficio da unharem? Quale bene posso fare per il paese, stando seduta qui in cortile come unaprigioniera? Perché ci si nega l'istruzione? Chi ha creato gli harem, e per cosa?Qualcuno può spiegarmelo?».

Il più delle volte, le sue domande restavano senza risposta, sospese a mezz'ariacome farfalle disorientate. Làlla Mànì abbassava lo sguardo ed evitava il contattodegli occhi, mentre Shàma e la zia Habìba cercavano di sviare la conversazione.Mia madre restava in silenzio per un po', e poi si rassicurava parlando del futurodelle sue bambine.

«Almeno le mie figlie avranno una vita migliore, piena di opportunità»,diceva. «Avranno un'istruzione, e viaggeranno. Scopriranno il mondo, locapiranno, e alla fine prenderanno parte al suo cambiamento. Così com'è, questomondo è del tutto marcio. Almeno per me. Forse voi signore avete trovato il

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segreto per essere felici in questo cortile».Poi si rivolgeva a me e diceva: «Tu cambierai questo mondo, non è vero? Tu

costruirai un pianeta senza pareti e senza frontiere, dove i portinai come Ahmedfaranno vacanza tutti i giorni dell'anno». Lunghi silenzi seguivano i suoi discorsi,ma la bellezza delle sue immagini restava nell'aria e fluttuava sul cortile comefanno i profumi o i sogni. Invisibili, ma potentissimi.

(37) É inconcepibile che l'imàm al-Ghazàlì, un colosso della cultura islamica

medievale, abbia scritto un libro siffatto che, come osservato alla nota 1 delcapitolo 18, è una raccolta di comiche ricette "fai da te" che combinano elementidi magia elementare e di astrologia spicciola. Buona per impressionare i bambinie gli adolescenti, l'opera non inganna gli studiosi. In effetti, attribuire trattati didubbia scientificità ai più brillanti tra i nostri filosofi, matematici, giuristi e imàm,e una pratica bizzarra ma piuttosto comune nella letteratura araba. 'AbdelfattàhKilito, nel suo penetrante "L'autore e i suoi doppi". Saggio sulla cultura arabaclassica, Einaudi, Torino, 1988, fornisce due ragioni per cui i veri autori dei testiricorrevano a questa strana pratica: la prima è quella che, così facendo,sfuggivano alle critiche maligne, alla censura e alle ire del califfo; la seconda è chepotevano incrementare le vendite dei libri: vendite che, da secoli, si tenevanoanimatamente sulle porte delle moschee locali.

(38) Al-Mas'ùdì, Murùj al-dhahab (Beirut, Dàr al-Ma'rifa, 1982), vol. 2, p. 212(che corrisponde a p. 505 del vol. 2 nella traduzione francese "Les prairies d'or", di

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Barbier de Meynard e Pavet de Courtelle (Parigi, Editions CNRS, 1965)(39) Ibid.(40) Dal Kitàb al-awfàq, attribuito all'imàm al-Ghazàlì (Beirut, Al-Maktaba al

Sha'biyya), p. 18.(41) Un fàqih è un'autorità religiosa musulmana, uno studioso esperto in fiqh,

o studi teologici. La sua conoscenza della teologia gli garantisce autorità, e spessofunge da consigliere a ministri e capi di stato. Tuttavia, per estensione, la parolafàqih è venuta a designare ogni sorta di insegnanti, senza distinzione di disciplina,sia a livello elementare, che superiore e universitario.

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CAPITOLO 20

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IL SOGNO SILENZIOSO DELLE ALI E DEL VOLO.

Un pomeriggio, il cortile era, come sempre, quieto e immobile, con ogni cosa

al suo posto. Ma forse era UN po' più quieto e immobile del solito. Potevo udiredistintamente la musica cristallina della fontana, come se le persone stesserotrattenendo il respiro, in attesa che accadesse qualcosa. O forse qualcuno stavalavorando alla creazione di un miraggio. Dai libri di magia di Shàma, e dallediscussioni con lei, avevo appreso che era possibile mandare delle immagini aivicini, se si sviluppava il cosiddetto tarkìz, ossia il potere di concentrazione,qualcosa di simile alla concentrazione necessaria a prepararsi alla preghiera, mapiù intenso. Làlla Tam insisteva che la preghiera era, in larga misura,concentrazione. «Pregare significa creare il vuoto, dimenticare il mondo perqualche minuto, in modo da poter pensare a Dio. Non si può pensare a Dio econtemporaneamente ai propri problemi quotidiani, così come non si puòcamminare allo stesso tempo in due direzioni opposte: chi si prova a farlo, nonarriva da nessuna parte, o perlomeno non dove vuole arrivare».

La concentrazione, aggiungeva la zia Habìba, era un esercizio indispensabileanche per finì più terreni. «Come si fa a parlare o camminare, per non dire

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ricamare e cucinare, quando la mente non è concentrata? Vuoi essere come StìlaBennìs?». Io non volevo assolutamente essere come Stìla Bennìs, una delle figliedei nostri vicini, che era incapace di tenere a mente i nomi. Chiedevacontinuamente a tutti: «Chi sei?», e non riusciva a immagazzinare la risposta nelsuo cervellino. Bastava che tu cambiassi di posto, o che lei girasse la testa, e dinuovo ti trovavi di fronte all'inevitabile domanda: «Come ti chiami?» Era statasoprannominata Stìla, che significa "secchiello ", perché tutte le informazioni chericeveva si riversavano fuori come acqua. Ma, sebbene tale esercizio fosse parteintegrante della mia istruzione, cominciai a prenderlo sul serio solo quandoShàma mi disse che, attraverso la concentrazione, avrei potuto trasmettereimmagini alle persone che mi stavano intorno. Quella magica idea mi ricordòcome avessi talvolta udito Shàma complottare con la zia Habìba e la mamma perindurre tutte quante nel cortile a farsi crescere le ali.

La zia Habìba affermava che tutti hanno la facoltà di farsi crescere le ali. Erasolo un fatto di concentrazione. Non c'era bisogno che le ali fossero visibili comequelle degli uccelli; anche invisibili potevano andar bene, e prima si cominciava aconcentrarsi sul volo, meglio era. Ma quando la pregavo di essere più esplicita, sifaceva impaziente e mi avvertiva che esistono cose meravigliose che non possonoessere insegnate. «Tieni gli occhi ben aperti, così da poter catturare il fremito diseta del sogno alato», mi disse una volta. Ma indicò anche che, per sviluppare leali, erano necessari un paio di eprerequisiti: «Il primo è sentirsi accerchiati, ilsecondo è credere di poter rompere quel cerchio».

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Dopo un breve, imbarazzato silenzio, la zia Habìba aggiunse un altro tassellod'informazione, continuando, per tutto il tempo, a giocherellare nervosamente colsuo copricapo, segno che stava per gettarmi in faccia qualche verità sgradevole.«Una terza condizione, per quanto riguarda te, mia cara, è smettere dibombardare la gente di domande. Osservare è un modo altrettanto efficace perimparare le cose.

Ascoltare, a labbra cucite, occhi aperti, e orecchie dritte, può portare nella tuavita più magia di tutto il bighellonare che fai sulla terrazza, per spiare Venere o laluna nuova!».

Quella conversazione mi suscitò ansia e orgoglio al tempo stesso. Ansia,perché, a quanto pareva, la mia iniziazione clandestina ai sortilegi, agliincantesimi e ai libri di magia, non era più un segreto. Orgoglio perché, quali chefossero i miei segreti, essi appartenevano più alla sfera degli adulti che a quelladei bambini. La magia era un segreto più serio di quanto non fosse il rubare fruttafuori dall'orario dei pasti, o correre via senza pagare il dovuto a Maymùn, ilvenditore di ceci. Ma ero anche piena d'orgoglio perché capivo che la magia, comeil gelato, esisteva in molti gusti.

Tessere fili sottili fra me e le stelle era un tipo di magia; concentrarsi su sogniforti e invisibili e dal profondo, spiegare le ali, era un altro tipo di magia, ma piùsfuggente. Pur tuttavia, nessuno aveva l'aria di volermi aiutare a capire questosecondo metodo, e anche se fosse stato descritto nei libri di Shàma, non avrei maiavuto abbastanza tempo per leggere tanto da trovarlo.

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Quel pomeriggio memorabile, avevo la strana sensazione che qualcuno stesseinfluenzando la crescita di ali, gettando visioni di voli in quel cortileapparentemente tranquillo. Ma chi era l'autore di quella magia? Mi cucii lelabbra, aprii bene gli occhi, e mi guardai intorno. Le donne, assorte nel lororicamo, erano divise in due gruppi, ognuno dei quali si concentrava in silenzio,intento al suo disegno. Ma quando in cortile c'era quel tipo di silenzio assoluto,significava che era in atto una guerra senza parole. E ogni donna intenta ascrutare il suo ricamo conosceva bene il motivo di quella guerra: l'eternaspaccatura tra ciò che è taqlìdì, ovvero tradizionale, e quanto è 'asrì, cioèmoderno. Shàma e mia madre, rappresentanti del gruppo a favore dellamodernità, stavano ricamando un oggetto poco familiare dall'aspetto simile a unagrossa ala d'uccello spiegata in pieno volo. Non era il loro primo uccello in volo,ma evidentemente, la sua forza d'urto era maggiore del solito, perché l'altrogruppo, capeggiato da nonna Làlla Mànì e da Làlla Ràdiya, aveva condannato quellavoro, come ogni altro di quel tipo, definendolo del tutto sconveniente per le lorocreatrici. Loro stesse erano intente al ricamo di un disegno tradizionale. La ziaHabìba era seduta vicino a loro, e lavorava allo stesso telaio o mrìma, ma soloperché non poteva permettersi di dichiararsi apertamente una rivoluzionaria.Cuciva in silenzio, badando ai suoi affari con modestia.

Il gruppo modernista, invece, era tutt'altro che modesto.Anzi, direi piuttosto che Shàma e la mamma si comportavano con una certa

ostentazione: entrambe sfoggiavano l'ultimo grido della moda, ossia la copia di

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uno dei famigerati cappellini di Asmahàn, un berretto di velluto nero con la tesadecorata a minuscole perline. Il berretto aveva una falda triangolare che ricadevasulla fronte, con la parola "Vienna" ricamata sopra, e di tanto in tanto, la mammae Shàma canticchiavano le parole dell'infame canzone Layàl al-uns fì Vienna(Notti di piacere a Vienna), cui il berretto era ispirato. Làlla Mànì aggrottava leciglia ogni volta che le sentiva canticchiare, perché riteneva quella canzone, il cuitema era il decadente piacere in una capitale dell'ovest, un vero e proprio affrontoall'Islàm e ai suoi principi etici. Una volta, Samìr cercò di scoprire cosa ci fosse dicosì speciale a Vienna, e Zìn gli disse che era una città dove, per tutta la notte, lagente danzava un ballo chiamato valzer. Un uomo e una donna si tenevano strettie danzavano rapiti facendo giravolte fino a svenire d'amore e di piacere, propriocome in una danza di possessione, con l'unica differenza che le donne nondanzavano da sole, ma insieme agli uomini. E tutto questo danzare abbracciatiaveva luogo in locali notturni elegantemente decorati, o, nei giorni di festa, ancheper strada, con le luci della città che brillavano nel buio, come per festeggiarel'abbraccio degli amanti. Al che, Làlla Mànì aveva sbuffato: «Quando dellerispettabili donne di casa musulmane cominciano a sognare di danze in oscenecittà europee, siamo alla fine».

Làlla Ràdiya, la madre di Shàma, sulle prime aveva proibito a sua figlia dimettersi il berretto di Vienna, e aveva accusato mia madre di avere su di lei unacattiva influenza.

Le relazioni fra mia madre e Làlla Ràdiya si erano fatte così tese che le due

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donne a malapena si rivolgevano la parola, e la cosa andò avanti così per un po'.Ma poi Shàma era stata presa da un serio attacco di hem (depressione) ed eracaduta in un tale stato di apatia che non solo Làlla Ràdiya aveva cambiato ideasull'argomento, ma era arrivata a mettere lei stessa il berretto di Vienna in testaalla figlia. Nondimeno, ci volle ancora del tempo, prima che Shàma si riscuotesseda quello sguardo fisso e immoto.

In quel pomeriggio particolarmente magico, Làlla Mànì era tornata più e piùvolte sulla necessità di conformarsi al taqlìd, la tradizione. Ogni cosa che violasseil retaggio dei nostri antenati, diceva, non poteva essere consideratoesteticamente valido, e questo si applicava praticamente a tutto, dal cibo allepettinature, dall'architettura alle leggi. Il nuovo viaggiava mano nella mano con ilbrutto e l'indecente. «Puoi star sicura che i tuoi antenati hanno già scoperto ilmodo migliore di fare le cose», diceva, guardando dritto verso mia madre. «Pensidi essere più brava dell'intera catena di generazioni che ti hanno preceduto ehanno lottato per il meglio?». Fare qualcosa di nuovo era bid 'a, una criminaleoffesa alla nostra sacrosanta tradizione.

La mamma lasciò un attimo il ricamo per rispondere a Làlla Mànì. «Ognigiorno, mi sacrifico e cedo alla tradizione, perché la vita possa svolgersipacificamente in questa casa benedetta», disse. «Ma ci sono delle cose moltopersonali, come il ricamo, che mi permettono di respirare, e io non vogliorinunciare anche a queste. Non mi sono mai piaciuti i ricami tradizionali, e nonvedo perché la gente non possa ricamare quel che più le piace. Io non faccio del

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male a nessuno se invento uno strano uccello, invece di tornare e ritornare sullostesso vecchio disegno di Fez, che è tremendamente monotono».

Le ali a cui mia madre e Shàma stavano lavorando erano quelle di un pavoneblu, e le ricamavano sulla seta rossa di un qamìs destinato a Shàma. Appenaquello fosse stato finito, ne avrebbero ricamato un secondo per mia madre. Ledonne che dividevano le stesse idee spesso si vestivano uguali, per manifestare laloro solidarietà.

Il pavone di Shàma era ispirato alla Storia degli uccelli e delle bestie diShahrazàd. Shàma amava molto quella storia, perché vi trovava combinate duecose che adorava: gli uccelli e le isole deserte. La storia ha inizio con gli uccelliche, guidati dal pavone, fuggono da un'isola pericolosa a una sicura: Mio re - disseShahrazàd al marito, la cento e quarantaseiesima notte - mi hanno riferito che intempi antichi e in un'età che fu, un pavone abitava con sua moglie in riva al mare.Ora, quel posto era infestato di leoni e di ogni sorta di bestie selvatiche, e alcontempo abbondava di alberi e torrenti. Marito e moglie, per timore delle fiere,erano costretti a passare la notte sugli alberi, mentre di giorno andavano in giro incerca di cibo. E così fu, finché la loro paura crebbe e si misero in cerca di un altroposto dove vivere, abbandonando la loro dimora. Cerca e ricerca, capitarono suun'isola che, come l'altra, abbondava di alberi e di torrenti. Quindi si stabilirono emangiarono i frutti degli alberi, e bevvero le acque dei torrenti.(42)

Quello che più entusiasmava Shàma in tutta questa storia era il fatto che lacoppia, quando non le piaceva più la prima isola, l'abbandonava e partiva in cerca

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di un posto migliore.L'idea di volarsene in giro per trovare qualcosa che può render felici, quando si

è scontenti di quel che si ha, esercitava un grande fascino su Shàma, che facevaripetere alla zia Habìba l'inizio della storia più e più volte, come se non ne avessemai abbastanza, finché il resto dell'uditorio cominciava a spazientirsi per le sueinterruzioni. «Sei una letterata, puoi leggerti il libro», le dicevano, «vai aleggertelo per cento volte, se ti piace, ma lascia continuare la zia Habìba.

Falla finita con queste interruzioni!». Erano tutte ansiose di sapere cosa fossepoi accaduto a quegli uccelli, poiché in quelle fragili ma avventurose creature,intente a viaggi pericolosi per isole straniere, le donne del cortile vedevano un po'di se stesse. Ma Shàma protestava che leggere non era la stessa cosa che ascoltarela zia Habìba. col suo modo meraviglioso di infilare le parole una dietro l'altracome perle. «Voglio che capiate il significato della storia, signore» diceva Shàma,guardando Làlla Mànì con aria di sfida.

«Questa storia non parla di uccelli. Parla di noi. Essere vivi significa muoversi,cercare posti migliori, rivoltare il pianeta in cerca di isole più ospitali. Io sposeròun uomo con il quale potrò andare in cerca di isole!». La zia Habìba, allora, lapregava di non usare la fiaba della povera Shahrazàd a fini propagandistici, e dinon seminare ancora divisioni nel gruppo. «Per favore, torniamo agli uccelli, perl'amor di Dio» diceva e andava avanti Con la storia. Ma, in verità, anche se avevamolte figlie in età di marito, necessitava di un gran numero di ricami taqlìdì per iloro corredi. Al contrario, gli uccelli che ricamavano Shàma e mia madre non

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richiedevano affatto tutto questo tempo. I punti erano più radi, eseguiti a filodoppio, e sul rovescio della stoffa restavano, come c'era da aspettarsi, molti nodiniin rilievo. Eppure, l'effetto era di una bellezza pari a quello del taqlìdì, o forseanche maggiore, grazie alla curiosità suscitata dai disegni insoliti e dalle ineditecombinazioni di colori. A differenza dei ricami taqlìdì che erano partedell'arredamento di casa.

I disegni moderni non erano fatti Der essere esposti; erano limitati a piùmodesti capi di uso personale, come il qamìs, i sarwàl, le sciarpe per la testa e altriarticoli di vestiario. La ribellione attuata nella forma del ricamo moderno eraterribilmente appagante, devo ammetterlo, perché si potevano coprire metri emetri di stoffa in soli due o tre giorni.

Se poi, si metteva il filo triplo, e si diradavano i punti, ci voleva anche meno.«E che disciplina si impara, quando i punti sono così lenti e slabbrati?», mi sfidòLàlla Mànì quando le feci notare queste cose. Io trovai la sua osservazione moltoinquietante. Tutti mi dicevano sempre che una persona senza disciplina eradestinata a restare una nullità.

Di certo non volevo essere una nullità. Così, da allora in poi, dopo quelrichiamo di Làlla Mànì, passavo la maggior parte del tempo saltando da un mrìmaall'altro, gustando un po' di libertà e rilassamento nel settore moderno, efacendola seguire un po' di rigido controllo nel settore tradizionale.

La zia Habìba non si divertiva davvero col lavoro ripetitivo ed elaborando deltaqlìdì e mia madre e Shàma lo sapevano bene, ma si rendevano conto che non

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poteva esprimere i suoi sentimenti, sia perché non aveva alcun potere, sia perchénon osava compromettere l'equilibrio tra le due fazioni.

L'equilibrio era essenziale per il cortile, e tutti lo sapevano. Di tanto in tanto,la mamma Shàma scambiavano rapide occhiate e sorrisi con la zia Habìba, perincoraggiarla e farle sapere che simpatizzavano con lei. «Per favore, zia Habìbatorniamo agli uccelli!», la pregavano. Raccontare una storia su richiestadell'uditorio, liberava automaticamente la zia Habìba dai suoi doveri di cucito, enotai che prima di riprendere il racconto, fissava lo sguardo sulla piccola toppa dicielo incorniciato che ci sovrastava, come per ringraziare Dio di tutti i talenti dicui l'aveva dotata. O forse perché aveva bisogno di ravvivare quella fragile fiammadentro di sé.

La nuova isola che i pavoni trovarono era un paradiso ricco di piantelussureggianti e di sorgenti rigogliose. Era anche, per fortuna, fuori dalla portatadell'uomo, quella pericolosa creatura che distrugge il creato: Il figlio di Adamoinganna i pesci e li porta fuori dal mare; colpisce gli uccelli con pallottole d'argillae fa cadere in trappola gli elefanti, tanta è la sua astuzia. Nessuno si salva dallasua malizia, non v'è bestia né uccello che possa sfuggirgli. (43)

L'isola era sicura perché situata in mezzo al mare, fuori dalla portata delle navie lontana dalle rotte del commercio.

La vita dei pavoni scorreva in pace e letizia, fino al giorno in cui incontraronoun'anatra inquieta, che andava soggetta a strani incubi.

E venne a loro un'anatra in stato di estremo terrore, e tale rimase, muovendosi

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a stento, finché non raggiunse la pianta dove i volatili s'erano appollaiati, e làsembrò ritrovare un po' di calma. Il pavone, non dubitando che essa avesse danarrare qualche insolito evento, le chiese la sua storia e il motivo di quelturbamento, e l'anatra rispose: «Vivevo da sempre su quest'isola in pace e alsicuro, e non avevo mai veduto alcunché di inquietante, finché una notte, mentredormivo, vidi nel sogno le sembianze di un figlio di Adamo, che discorreva con mee io con lui. Poi udii una voce che mi diceva: "O tu, anatra, guardati dal figlio diAdamo e non lasciare che si imponga su di te, né con le parole, né con i consigli;poiché egli abbonda di frodi e di insidie; guardati, dunque, con grande prudenza,dalla perfidia di costui...". E qui mi risvegliai, tremante di paura, e da quell'ora inpoi il mio cuore non ha conosciuto gioia, per il terrore del figlio di Adamo».

Shàma si agitava sempre molto, quando la zia Habìba arrivava a quella partedella storia, perché era estremamente sensibile al modo in cui gli uccelli eranotrattati sulle terrazze e per le vie di Fez. Rincorrere i passeri e dar loro la cacciadalle terrazze era uno sport comune fra i giovanotti, che in quelle occasionifacevano uso di apposite fionde o di archi e frecce presi in prestito, e il giovanottoche uccideva il maggior numero di passeri veniva ammirato e acclamato.

Ma Shàma spesso gridava, piangeva e sospirava, quando i suoi fratelli, Zìn eJawàd, si divertivano a uccidere i passeri.

Poco prima del tramonto, gli uccelli, chiassosi, riempivano il cielo a centinaia,strillando come impauriti dalla notte incipiente. I cacciatori li attiravano gettandoolive su tutto il pavimento della terrazza, quindi prendevano la mira e tiravano.

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Shàma se ne stava lì a guardare i suoi fratelli e domandava loro che razza dipiacere potevano mai ricavarne dal colpire delle creature così piccole. «Neanchegli uccelli possono vivere felici, in questa città», diceva, e poi mormorava tra séche ci doveva essere qualcosa di terribilmente sbagliato, in un posto dove persinoi passeri innocenti, proprio come le donne, venivano trattati al pari di ferocipredatori.

Per ricamare la storia dei pavoni, Shàma voleva inizialmente usare del filo diun blu molto profondo, su della seta color rosso brillante. Ma le donne dell'haremnon andavano in giro a fare acquisti. Non erano autorizzate neanche a fare unsalto alla Qaysariyya, quella parte della medìna dove rotoli di splendide sete evelluti di tutti i colori stavano ammucchiati in tanti negozietti, no: dovevanospiegare a Sìdì 'Allàl quello che desideravano, e ci pensava lui a procurarlo.

Shàma dovette aspettare dei mesi, prima di avere la seta rossa che andavacercando, e per il blu da abbinare ci volle qualche altra settimana, e anche allora icolori non erano esattamente quelli giusti. Lei e Sìdì 'Allàl non intendevano lastessa cosa, quando dicevano "rosso" e "blu". La gente, scoprii, spesso nonintendeva la stessa cosa per la stessa parola, anche quando l'argomento era deipiù banali, come il colore di un filo. Non c'era da stupirsi che la parola "harem"provocasse tali aspri dissensi e discordie selvagge. Mi dava molto conforto l'ideache gli adulti fossero confusi come me, sulle cose importanti.

Sìdì 'Allàl era un cugino di terzo grado di Làlla Mànì, e questo gli conferiva unnotevole potere. Era un uomo alto e fine, con baffi sottili e un talento fantastico

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per ascoltare la gente, il che, nel suo insieme, rendeva molte donne invidiose disua moglie, Làlla Zahra. Dotato, inoltre, di estremo buon gusto, vestiva, di norma,eleganti capi ricamati, maglie turche in lana pesante di un pallido beige, su deisarwàl alla cavallerizza, e finì babbucce in pelle di color grigio. E poi, dato che erain rapporti di amicizia con quasi tutti i mercanti della Qaysarìyya, si faceva tenereda parte i turbanti più pregiati, quelli che i pellegrini riportavano dalla Mecca. Sìdì'Allàl non si dedicava mai ai suoi doveri senza prima aver offerto ai clienti unagoccia di profumo per pacificarli. Spiegare a lui cosa si desiderava comprare eraun'esperienza molto sensuale. Le donne prendevano tempo, fra una frase e l'altra,per trovare le parole esatte che potessero descrivere la setosità di una stoffa, lasottile tonalità di un colore, o se cercavano un profumo, la delicata combinazionedi fragranze.

Far sì che Sìdì 'Allàl visualizzasse esattamente le sete e i fili necessari per unprogetto di ricamo, era un'operazione tremendamente delicata, e le donne menodotate nell'eloquio pregavano le più abili di fare quelle descrizioni in vece loro. Ledonne dovevano pazientemente spiegare i loro desideri a Sìdì 'Allàl, perché senzala sua collaborazione non si andava molto lontano. Così, ognuna descriveva ilricamo dei suoi sogni - il tipo di fiori che voleva e i colori, le sfumature deigermogli, e a volte interi alberi con tanto di rami intricati.

Altre descrivevano addirittura delle isole circondate di imbarcazioni.Paralizzate dai confini, le donne partorivano paesaggi e mondi interi. Sìdì 'Allàlascoltava, con più o meno interesse, a seconda del rango del suo interlocutore.

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Purtroppo, quando si trattava dell'importanza della tradizione e dei disegnitaqlìdì, lui stava dalla parte di Làlla Mani. Questa preferenza metteva le parentivedove e divorziate, come la zia Habìba, in una posizione imbarazzante.

Quando si trovavano a trattare con lui, non potevano sognare altro che classicidisegni taqlìdì e dovevano affidarsi a donne più potenti, come la mamma eShàma, per descrivere le sete necessarie ai loro progetti più innovativi. La ziaHabìba, quindi, era costretta a tenere i suoi uccelli per sé, sepolti nella suaimmaginazione. «La cosa più importante per chi non ha potere e avere almeno unsogno», era solita dirmi mentre stavo a guardia delle scale, così che lei avesse agiodi ricamare un favoloso uccello verde a un'ala sola, sul mrìma clandestino cheteneva nascosto nell'angolo più buio della sua stanza.

«Certo, un sogno da solo, senza il potere contrattuale necessario a perseguirlo,non basta a trasformare il mondo o ad abbattere i muri, però aiuta a conservareuna dignità».

Dignità è avere un sogno, un sogno forte che ti dà una visione, un posto tuonel mondo, là dove il tuo operato conta e come.

Sei dentro un harem quando il mondo non ti vuole Sei dentro un haremquando il tuo operato non fa la differenza, e ciò che fai non serve. Sei dentro unharem quando il pianeta gira veloce e te ne stai sepolta fino al collo nel disprezzoe nell'oblio.

Nessuno può cambiare tutto questo e far girare il mondo in senso opposto, staa te soltanto. Se ti elevi contro il disprezzo e sogni un altro mondo, sarà

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modificato il senso della Terra. Ma quello che devi evitare ad ogni costo, è che ildisprezzo ti penetri dentro.

Quando una donna crede di non valere nulla piangono i passerotti.Chi li difenderà sulla terrazza, se un mondo senza fionde, non lo sogna

nessuno?«Le madri dovrebbero parlare a figlie e figli dell'importanza dei sogni», diceva

la zia Habìba. «I sogni danno il senso di una direzione. Non basta rifiutare questocortile devi avere una visione dei prati con cui vuoi rimpiazzarlo».

Ma come si fa, chiesi alla zia Habìba, a distinguere fra tutti i desideri, glianeliti che ti assediano, e trovarne uno su cui concentrarti, il sogno importanteche ti dà la visione? Lei rispose che i bambini devono avere pazienza, il sognochiave emerge e fiorisce dentro, e poi, dal piacere intenso che dà, si capisce che èproprio quello, l'autentico piccolo tesoro che ti può dare luce e direzione. Disseanche che, per ora, non dovevo preoccuparmi, perché appartenevo a una lungacatena di donne che sognavano intensamente «Il sogno di tua nonna Jasmìna eraquesto: lei sapeva di essere una creatura speciale», disse la zia, «e nessuno è mairiuscito a farle cambiare idea. Ha cambiato tuo nonno, e lui è entrato nel suosogno per dividerlo con lei. Anche tua madre ha le ali dentro di sé, e tuo padrevola con lei ogni volta che può.

Anche tu sarai capace di cambiare le persone, ne sono sicura. Io non mipreoccuperei, fossi in te».

Quel pomeriggio in cortile, cominciato con una strana sensazione di magia e di

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sogni con le ali, finì con una sensazione sempre strana, ma gradevolissima: misentii all'improvviso contenta e fiduciosa, come se fossi entrata in una terranuova ma sicura. Sebbene non avessi scoperto nulla di particolare, capivo diessermi imbattuta in qualcosa di importante, del cui nome dovevo ancoraaccertarmi; sentivo vagamente che aveva a che fare con i sogni e la realtà, ma dicosa si trattasse, non avrei saputo dirlo. Per qualche secondo, mi chiesi se il miogioioso sentimento non fosse dovuto al tramonto insolitamente lungo. Il più dellevolte, i tramonti di Fez erano così veloci che mi chiedevo se, per caso, non avessisolo sognato che il giorno era finito. Ma le nuvole rosa che, quel pomeriggio,attraversavano il remoto quadrato del cielo, se la prendevano così comoda che lestelle avevano già incominciato ad apparire e non si era fatto ancora buio.

Mi sedetti vicino a mia cugina Shàma e le descrissi quel che sentivo. Lei miascoltò attentamente e poi disse che mi stavo facendo matura. Sentii l'irresistibileimpulso di chiederle subito cosa intendesse, ma mi trattenni. Avevo paura che siscordasse quello che stava per dire, e virasse verso la classica lamentazione sulmodo in cui infastidivo sempre gli adulti con le mie domande. Con mia sorpresa,continuò a parlare, come da sola, come se quello che diceva non riguardasse altriche se stessa. «La maturità è quando si comincia a percepire il moto del zaman(tempo) come una carezza dei sensi». Quella frase mi rallegrò tutta, perché legavainsieme tre termini che ricorrevano molto nei libri di magia: moto, tempo,carezza. Ma non mi lasciai sfuggire una parola; continuai semplicemente adascoltare Shàma, che aveva iniziato a gesticolare come chi è sul punto di fare

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un'importante affermazione.Spingendo in avanti il suo mrìma, buttò indietro le spalle e carezzò il cappello

di Vienna che aveva in testa; quindi, dopo essersi accomodata un grosso cuscinodietro la schiena, attaccò un monologo nello stile di Asmahàn. Cioè fissò losguardo su un invisibile orizzonte, e posò il mento sulla mano destra stretta in unpugno minaccioso: Zamàn (il tempo) è la ferita degli arabi.

Si sentono al sicuro nel passato.Il passato è l'illusione della tenda di defunti antenati.Il taqlìdì è il paese di morti.Il futuro fa paura ed è pieno di peccato.Il nuovo è bid'a, un crimine!Trascinata dalle sue stesse parole, Shàma si alzò in piedi e annunciò al quieto

uditorio che stava per fare un'importante dichiarazione. Sollevandosi con unamano il bianco qamìs di pizzo, camminò per un po' con aria solenne, poi siinchinò di fronte a mia madre, si tolse il cappello di Vienna, e lo tennerigidamente davanti a sé come se fosse un qualche vessillo alieno. Poi attaccò unatirata al ritmo della poesia pre-islamica: Cos è l'adolescenza per gli arabi?

Qualcuno può dirmelo in breve?É un crimine, l'adolescenza?Chi sa?Nel presente voglio vivere,É un crimine?

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La carezza sensuale dell'attimo fuggente sulla pelle,voglio sentireÉ un crimine?Qualcuno mi sa dire perché il presente è meno importantedel passato?Perché Layàl al-uns (Notti di piacere) esiste solo a Vienna?Perché non ci può esser Layàl al-uns anche nella medìnadi Fez?A questo punto, la voce di Shàma si mutò all'improvviso in quel flebile e

pericoloso sussurro già pieno, si sentiva, di pianto. Mia madre, che conoscevabene la predisposizione di Shàma a passare dal riso alla depressione, balzò inpiedi immediatamente, si chinò, e la fece tornare a sedere sul divano. Poi, congesti enfatici, come fosse una regina, si tolse il cappello di Vienna, salutòl'uditorio compiacente, e andò avanti, come se tutto fosse stato concordato inprecedenza: Signore qui presenti e signori assenti Layàl al-uns è a Vienna!

Dobbiamo solo noleggiare degli asini e partire verso il nord. E il problemafondamentale è: Come si fa ad avere un passaporto per un semplice asinello diFez?

E come vestire la nostra diplomatica bestiola?In foggia locale o straniera?'asrì o taqlìdì?Pensateci bene!

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Ma non perdete il sonno!Che rispondiate o no La vostra opinione non conta. (42) Dalla versione del Burton, vol. 3, p. 116.(43) Ibid.

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CAPITOLO 21

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LA POLITICA DELLA PELLE: UOVA, DATTERI E ALTRISEGRETI DI BELLEZZA

La rottura decisiva fra me e mio cugino Samìr avvenne quando stavo per

entrare nel nono anno di età e Shàma mi aveva dichiarata ufficialmente matura.Fu allora che capii che lui non era pronto a investire tanto quanto me nellafaccenda della bellezza. Samìr cercò di convincermi che i trattamenti di bellezzaerano di importanza marginale, e io cercai di convincere lui che non ci si puòaspettare nulla di buono da una persona che trascura la propria pelle, perché èattraverso la pelle che si percepisce il mondo. Naturalmente, dicendo questo,stavo esponendo la teoria della pelle della zia Habìba, della quale ero già divenutaun'entusiasta sostenitrice. Ma in pratica, le cose fra me e Samìr avevanocominciato a deteriorarsi già da qualche tempo. Aveva cominciato a chiamarmi'Asìla - che alla lettera si traduce "mielosa" - ogni volta che mi sorprendeva acantare una canzone da una delle opere romantiche di Asmahàn, con vocedeliberatamente tremula. 'Asìla era un insulto nelle strade della medìna;significava molle e appiccicoso. 'Asìla veniva chiamato chi non aveva l'aria moltovigile, e poiché stavo già diventando famosa per la mia distrazione, lo pregai di

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non chiamarmi più a quel modo. In cambio, gli promisi di risparmiargli i mieigorgheggi alla Asmahàn. Ma le cose seguitarono a peggiorare. Lui metteva inridicolo il mio interesse per i libri di magia, i talismani e gli incantesimi astrali, emi lasciò senza protezione ad affrontare i pericolosi jinn che stavano in agguatonei libri di magia di Shàma.

Finalmente, un giorno, il nostro conflitto giunse a una svolta critica, e Samìrindisse un incontro straordinario sulla terrazza proibita, dove mi spiegò che secontinuavo a sparire due giorni di fila per prendere parte ai trattamenti di bellezzadelle donne, e a frequentare le nostre sedute in terrazza con la faccia e i capellisporchi di maschere oleose e puzzolenti, si sarebbe cercato qualcun altro con cuigiocare.

Così non si poteva andare avanti, disse; dovevo scegliere tra il gioco e labellezza, perché di certo non potevo fare tutte e due le cose. Cercai di ragionarecon lui, e gli ripetei la teoria della pelle della zia Habìba, che già conosceva amemoria.

Un essere umano entra in rapporto con il mondo attraverso la pelle, dissi, ecome può uno che ha i pori ostruiti sentire l'ambiente ed essere sensibile alle suevibrazioni? La zia Habìba era convinta che se gli uomini si fossero fatti mascheredi bellezza invece che maschere da guerra, il mondo sarebbe stato un posto digran lunga migliore. Purtroppo per me, Samìr respinse quella teoria comeun'autentica assurdità, e mi ripeté il suo ultimatum. «Devi scegliere adesso. Nonposso continuare a ritrovarmi solo per due giorni di fila, senza nessuno con cui

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giocare». Vedendo, però, quanto fossi angustiata, si addolcì un pochino e mi disseche potevo prendermi qualche giorno per pensarci su. Ma io gli risposi subito chenon ce n'era alcun bisogno, che la mia decisione era già presa. «La pelle innanzitutto», gli dissi, «il destino di una donna è di essere bella, e io voglio splenderecome la luna!».

Ma nell'attimo stesso in cui lo dissi, fui pervasa da un pauroso sentimentofatto di rimorso e di timore, e pregai Dio che Samìr mi chiedesse di cambiare idea,così non avrei perso la faccia. Ed ecco che lo fece. «Ma Fatima», mi disse, «soloDio crea la bellezza. Non è applicando henné, ghasùl - volgarissima argilla - oqualunque altro sporco intruglio, che splenderai come la luna. E poi, Dio dice chenon è lecito cambiare il proprio aspetto fisico: quindi, rischi anche di andareall'inferno». Poi aggiunse che se avessi scelto la bellezza, lui avrebbe dovutotrovarsi qualcun altro con cui giocare. Per me si trattava di una scelta penosa, madevo confessare ché sentivo anche, nel profondo, uno strano senso di trionfo e diorgoglio, che non avevo mai avvertito prima.

Arrivai a capirlo molto tempo dopo. Quel senso di trionfo mi veniva dall'averrealizzato quanto importante fosse per Samìr la mia compagnia; non potevavivere sulla terrazza senza la mia meravigliosa presenza. Era un sentimentostraordinario, e non potei trattenermi dallo spingere oltre la mia fortuna. Così, mimisi a guardare un punto arbitrario dell'orizzonte, a pochi centimetri dall'orecchiodi Samìr; resi il mio sguardo più sognante possibile, e sussurrai con voce appenapercettibile, sperando di riprodurre il tono da donna fatale di Asmahàn: «Samìr,

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lo so che non puoi vivere senza di me. Ma penso sia ora di rendersi conto chedevo diventare una donna». Poi, dopo una pausa calcolata, aggiunsi: «Le nostrestrade si dividono qui». Al modo di Asmahàn, mentre parlavo, evitai di guardareSamìr e gli effetti devastanti delle mie parole. Vinsi quella tentazione e tenni gliocchi fissi su quel vago punto dell'orizzonte. Ma Samìr mi sorprese, e riacquistò ilcontrollo della situazione.

«Io non credo che tu sia una donna, non ancora», disse, «perché non haineanche nove anni e non hai nemmeno i seni. Dove si è mai vista una donnasenza seni?». Questo affronto non me lo aspettavo, e ne fui furiosa. Volevocolpirlo anch'io, e forte. «Samìr», gli dissi, «con o senza i seni, ho deciso che d'orain avanti mi comporterò come una donna, e investirò nella bellezza tutto il tempoche ci vuole. La mia pelle e i miei capelli hanno la precedenza sui giochi.

Addio, Samìr. Puoi cercarti qualcun altro, per giocare».Con queste fatali parole, che avrebbero introdotto grandi cambiamenti nella

mia vita, mi avviai giù per i precari pali da bucato. Samìr me li resse mentrescendevo, senza proferire parola. Una volta scesa, io ressi i pali per lui, che scivolòa terra in silenzio. Restammo faccia a faccia per un attimo, e poi ci stringemmo lamano con grande solennità, come avevamo visto fare ai nostri padri, dopo lapreghiera alla moschea nei giorni di festa. Quindi ci separammo in solennesilenzio. Io scesi giù in cortile per unirmi ai trattamenti di bellezza, e Samìrrimase, solo e imbronciato, sulla terrazza deserta.

Il cortile era un alveare fervente di attività, concentrata in gran parte intorno

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alla fontana, dove si aveva facile accesso all'acqua per lavare mani, spazzole eciotole. Gli ingredienti base come uova, miele, henné, argilla, e ogni sorta di olii,erano conservati in grossi barattoli di vetro sul cerchio di marmo che incorniciavala fontana. L'olio d'oliva abbondava, ovviamente, e il migliore veniva dal nord, ameno di cento chilometri da Fez. Ma gli olii più pregiati, come quello di mandorlee olio di argan, erano disponibili in minori quantità, perché venivano da alberiesotici che avevano bisogno di molto sole e crescevano solo al sud, nelle regioni diMarràkesh e Agadir.

Metà delle donne dell'harem avevano già assunto un aspetto orribile, conpappe e poltiglie appiccicose che coprivano completamente la faccia e i capelli.Accanto a loro sedevano le caposquadra che lavoravano in rigoroso silenzio,perché fare uno sbaglio nei trattamenti di bellezza poteva provocare danniirreparabili. Una misura sbagliata, o un passo falso nelle miscele e nei tempi dipreparazione, potevano dar luogo ad allergie e prurito, o peggio ancora, cambiareil colore di una chioma dal rosso al nero corvino. Di norma, vi erano tre squadredi addette alla bellezza: la prima si dedicava alle maschere per capelli, la secondaagli intrugli a base di henné, e la terza alle maschere per la pelle e ai profumi.Ogni squadra aveva in dotazione un kànùn (un piccolo braciere) e un tavolinocompletamente ricoperto da un imponente arsenale di terre e tinte naturali, comebuccia di melograno, scorza di noce, zafferano, e ogni sorta di erbe e fioriprofumati, compresi mirto, rose essiccate e fiori d'arancio. Molti di questi articolierano ancora nella loro carta blu, originariamente usata per avvolgere lo

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zucchero, che i negozianti riciclavano per incartare quelle costose merci. Lefragranze esotiche, come il muschio e l'ambra, erano conservate in grazioseconchiglie, racchiuse, a maggior protezione, in contenitori di cristallo, e dozzine diciotole in terracotta piene di misteriose misture erano allineate in bell'attesa peressere trasformate in magici impiastri. Tra i più magici, vi erano quelli a base dihenné. Le esperte di henné dovevano preparare almeno quattro tipi di intrugli persoddisfare i gusti del cortile. Per quelle che volevano degli energici colpi di solerosso fiamma, veniva diluito in un unguento bollente fatto di bucce di melogranoe un pizzico di carminio. Per quelle che preferivano toni più scuri, l'henné eradiluito in un unguento caldo a base di guscio di noce. Per quelle che volevano soloirrobustirsi i capelli, l'henné misto a tabacco faceva meraviglie, mentre per quelleche desideravano idratare i capelli secchi, l'henné veniva diluito a formare unapasta molto fine e mescolato con olio d'oliva, di mandorle e di argan, prima diessere usato per massaggiare il cuoio capelluto.

A proposito, la bellezza era il solo argomento sul quale tutte le donne eranod'accordo. L'innovazione non era affatto la benvenuta. Tutte, comprese Shàma emia madre, si affidavano totalmente alla tradizione, e non facevano niente senzaprima consultarsi con Làlla Mànì e Làlla Ràdiya.

Le donne avevano un aspetto spaventoso, tutte spalmate di maschere allafrutta, alle verdure e all'uovo, e vestite dei più vecchi e impresentabili qamìs cheriuscivano a trovare.

Inoltre, poiché di norma portavano elaborati turbanti e sciarpe preziose, le

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loro teste sembravano tremendamente piccole, con occhi affossati e gocce di colorscuro che colavano lungo le guance e le mascelle. Ma farsi più brutte possibile eraun imperativo, quando ci si preparava per il hammàm: tutte erano concordi sulfatto che quanto più brutte ci si faceva prima di entrare ai bagni, tanto più belle siera quando se ne usciva. Anzi, le più brave a raggiungere una bruttezzainteressante venivano applaudite e messe davanti allo "specchio repulsivo delhammàm", un misterioso specchio antico che aveva perso tutta l'argentatura eaveva l'inquietante potere di distorcere i nasi e ridurre gli occhi a dei puntinisatanici. Io non giocavo mai vicino a quello specchio, perché mi rendevaestremamente nervosa. Il nostro tradizionale rito del hammàm prevedeva un"prima", un "durante" e un «dopo». La prima fase aveva appunto luogo nel cortilecentrale, ed era lì che ci si faceva brutte, con faccia e capelli ricoperti di tutti queimiscugli indecenti. La seconda fase aveva luogo nel hammàm del quartiere, nonlontano da casa nostra, ed era lì che ci si spogliava e si passava in una serie di trecamere simili a bozzoli, piene di vapore. Alcune donne entravano completamentesvestite, altre si mettevano un panno attorno ai fianchi, mentre le eccentriche sitenevano addosso i sarwàl, che le rendeva simili agli extraterrestri, una volta chela stoffa si era bagnata. Le eccentriche che entravano nel hammàm con indosso isarwàl, venivano fatte bersaglio di ogni sorta di scherzi e battute sarcastiche deltipo: «Perché non ti metti anche il velo, già che ci sei?».

La fase del "dopo" prevedeva l'uscita da quel nebbioso hammàm in un cortiledove ci si poteva stendere per un po', con indosso il solo asciugamano, prima di

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indossare abiti puliti. Il cortile del nostro hammàm aveva degli invitanti divanilungo le pareti, posti su alte pedane di legno che li proteggevano dal pavimentobagnato. Tuttavia, dal momento che i divani non erano mai sufficienti per farsedere tutti quelli che frequentavano il hammàm, si doveva occupare il minorspazio possibile ed evitare di trattenersi a lungo. Quando uscivo dal bagno, erofelice che ci fossero quei divani, perché avevo sempre un sonno terribile. Anzi,questa terza fase del rito del bagno era la mia preferita, non solo perché misentivo rinata, ma anche perché le inservienti dei bagni, sotto istruzione della ziaHabìba (che era l'incaricata dei rinfreschi per il hammàm), distribuivano succod'arancia e latte di mandorle, e a volte anche datteri e noci, per aiutarci arecuperare le forze. La fase del "dopo" era una delle rare occasioni in cui gli adultinon dovevano dire ai bambini di star quieti e seduti, perché giacevamo tutti mezziaddormentati sugli asciugamani e sulle vesti delle nostre madri. Strane mani tispingevano qua e là, a volte sollevandoti le gambe, altre volte la testa o le mani.Sentivi le voci, ma non potevi alzare un dito, tanto il tuo sonno era delizioso.

In un particolare periodo dell'anno, una rara bevanda celestiale chiamata zarì'a(alla lettera, "i semi") veniva servita al hammàm sotto la stretta supervisionedella zia Habìba, che cercava di assicurare un'equa distribuzione. La bibita era abase di semi di melone che venivano lavati, essiccati e conservati in barattoli divetro appositamente preparati per le bevande del hammàm. (Per una ragione cheancora non mi è chiara, quella bibita meravigliosa non era servita in nessun altroluogo). I semi dovevano essere consumati molto in fretta, altrimenti andavano a

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male, e questo significava che la zarì'a si poteva gustare solo nella stagione deimeloni, non più di poche settimane all'anno. I semi venivano schiacciati, uniti alatte intero, poche gocce di acqua di fiori d'arancio, e un pizzico di cannella.Quindi, la mistura veniva lasciata a riposo per un po' di tempo, con la polpa dimelone dentro. Quando veniva servita, si doveva stare attenti a non muoveretroppo la brocca, per far restare la polpa sul fondo e versare solo il liquido. Avolte, le madri che amavano molto i loro figli, vedendoli troppo addormentati perbere dopo il bagno, cercavano di versare loro in bocca un assaggio di zarì'a, perchénon si perdessero quell'evento speciale. I bambini che avevano madri troppodistratte per ricordarsi di farlo, cominciavano a strillare frustrati se, al risveglio,trovavano le brocche vuote. «Avete bevuto tutta la zarì'a! La volevo anch'io'!»,ululavano, ma c'era poco da fare: non ne avrebbero più avuta fino all'anno dopo.La stagione dei meloni aveva una fine brusca e crudele.

Ma lasciare il cortile del hammàm, tutte vestite e debitamente velate, nonsegnava certo la fine del rituale di bellezza. C'era ancora un'altra operazione dacompiere: profumarsi. Quella sera, o il mattino successivo, le donne indossavanoi loro caffettani preferiti, sedevano in un angolo tranquillo, ognuna nel suosalone, mettevano del muschio, dell'ambra, o qualche altra fragranza su unpiccolo braciere, e lasciavano che il fumo impregnasse loro le vesti e i lunghicapelli sciolti. Poi si intrecciavano i capelli e si truccavano con il kohl e il rossetto.Noi bambini amavamo queste giornate in modo particolare, perché le nostremadri erano bellissime, e si dimenticavano di darci ordini.

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La magia dei trattamenti di bellezza e del rituale del hammàm non derivavasolo dal sentirsi rinati, ma anche dalla coscienza di essere le artefici di questarinascita. «La bellezza è dentro, basta tirarla fuori», diceva la zia Habìba,atteggiandosi a regina nella sua stanza, il mattino dopo il hammàm. Non posavache per se stessa, con la sciarpa di seta avvolta intorno alla testa come unturbante, e i pochi gioielli che era riuscita a salvare dal divorzio le brillavanointorno al collo e sulle braccia. «Ma dentro dove?», le domandavo.

«Sta nel cuore? nella testa? dove, esattamente?» Al che, la zia Habìbascoppiava a ridere. «Mia povera bambina! Non c'è bisogno di andare tantolontano e complicare le cose! La bellezza sta nella pelle! Prenditene cura, pensaad ungerla, pulirla, levigarla, profumarla. Mettiti i vestiti migliori, anche se nonc'è un'occasione speciale, e ti sentirai una regina.

Se la società è dura con te, reagisci coccolando la tua pelle. La pelle è politica(Al-jild siyàsa). Altrimenti, perché gli imàm ci ordinerebbero di nasconderla?».

Per quel che riguardava la zia Habìba, massaggiare e tonificare la pelle era ilpunto di partenza dell'emancipazione femminile.

«Se una donna comincia a maltrattare la sua pelle, si espone a ogni tipo diumiliazioni», diceva. Io non capivo bene il significato di quell'ultima frase, ma lesue parole mi ispirarono la decisione di imparare tutto sulle maschere per il viso ei capelli. Anzi, diventai così brava che la mamma mi mandava a spiare la nonnaLàlla Mànì e Làlla Ràdiya, per vedere che cosa mettevano nelle loro pozioni dibellezza. Dovevo spiarle perché, come molte altre donne, seguivano la credenza

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tradizionale che i loro trattamenti di bellezza avrebbero perso in efficacia, sefossero stati divulgati. Nello svolgere tale missione, divenni così ben informatache arrivai a considerare l'idea di farmi una carriera nel campo della bellezza,della magia e della speranza, se diventare una narratrice di successo come la ziaHabìba si fosse rivelata un'impresa troppo ardua. Una delle maschere di bellezzache più mi piacevano era quella usata da Shàma per far sparire lentiggini,foruncoli e altre imperfezioni. Io avevo tante lentiggini da bastarmi per una vitaintera. La formula di Shàma, da usare solo per pelli grasse, recitava così: «Primo,prendi un uovo fresco. L'unico modo per sapere con certezza che è fresco èospitare una gallinella sulla terrazza per qualche settimana. Se la cosa si rivelatroppo difficoltosa, prendi un uovo dal droghiere più vicino. Se non ti pareabbastanza fresco, dipingilo fino a raggiungere un bianco perfetto. Poi, lavati lemani con del sapone naturale.

Ovviamente, neanche questo è sempre facile da reperire, oggigiorno, ma senon riesci a trovare niente di naturale, lavati le mani con un liquido il piùpossibile privo di detergenti. Una volta che hai le mani pulite, rompi l'uovo conattenzione e getta via il tuorlo. Quindi, metti il bianco su un piattino di terracotta.La terracotta o qualche altro tipo di ceramica è essenziale; non si deve usaremetallo. Prendi un po' di shabba (allume) bianco e puro, quel tanto da riempirtiappena il palmo della mano, e sbattilo vigorosamente con il bianco dell'uovofinché non diventa tutto a grumi. Poi, prendi una dose abbondante di questabianca e grumosa mistura e spalmatela sulla faccia. Aspetta dieci minuti finché

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non la senti asciutta. Quindi, lavati la faccia delicatamente con un panno in fibranaturale, se possibile, imbevuto di acqua tiepida. I tuoi pori si sentirannofantasticamente puliti, e la tua pelle bella liscia».

Di certo, questa maschera non andava bene per la zia Habìba, che aveva unapelle molto secca. A lei ci voleva una formula tutta diversa, una di poco prezzo,ma che richiedeva una certa pianificazione e un occhio alla stagione. Era così:durante la stagione dei meloni, ne sceglieva uno succoso e ben maturo, ci facevaun buco, e lo riempiva con tre manciate di ceci appena lavati. Poi metteva ilmelone ripieno fuori sulla terrazza, e se lo dimenticava là per circa due settimane,finché non diventava una cosetta tutta rinsecchita. Quindi metteva il melone inun grosso mortaio (oggigiorno, è più comodo il frullatore), e con un pestello loriduceva in polvere fine. Poi conservava questa polvere preziosa in un postoassolato, accuratamente incartata, e dentro un recipiente di latta per proteggerladall'umidità. Ogni settimana, tirava fuori un po' di questa polvere e la mischiavacon semplice acqua naturale (andava bene anche l'acqua in bottiglia) ottenendoneun composto che applicava sul viso per un'ora circa. Quando se lo puliva con untiepido panno inumidito, sospirava di piacere e diceva: «La mia pelle mi ama».Ma le maschere per il viso di Shàma e della zia Habìba andavano bene solo per lapulizia. Nessuna delle due dava molto nutrimento alla pelle. Così, una settimanausavano le loro maschere di pulizia, e la settimana dopo ne usavano altre per ilnutrimento. Il trattamento a base di papaveri rossi di Jasmìna e la ricetta aidatteri di Làlla Mànì erano le maschere migliori.

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L'unico problema con entrambe era che non si mantenevano a lungo, edovevano essere usate immediatamente. La maschera ai papaveri, per di più, eradrammaticamente legata alla stagione. Tutti gli anni, Jasmìna aspettava laprimavera con grande impazienza, e non appena il grano arrivava all'altezza delleginocchia, usciva a cavallo insieme a Tàmù, per dare la caccia ai primi papaveri.

Questi crescevano nei ricchi campi di grano verde intorno alla fattoria, maspesso Tàmù e Jasmìna dovevano andare molto lontano, oltre la ferrovia, perrubare i primi fiori della stagione dai campi confinanti, che erano meglio espostial sole. Per quelli della loro fattoria, si doveva aspettare ancora qualche settimana.Quando trovavano i papaveri, ne facevano un abbondante raccolto e ritornavano acasa con giganteschi bouquet rossi. Quella sera stessa, reclutavano l'aiuto diqualche altra moglie e stendevano sul tavolo un lenzuolo bianco, poi,delicatamente, smembravano i fiori, tenendo petali e polline e buttando via igambi. I fiori così smembrati venivano messi in grossi vasi di cristallo, e Tàmùmandava qualcuno alla limonaia a prendere i frutti dai rami più alti, quelliribollenti di sole e pronti a versare i loro succhi. Spremeva il succo di limone suifiori e li lasciava a macerare per alcuni giorni finché diventavano un sofficeimpasto. Alla fine, quando erano pronti, tutte le donne venivano invitate aprendere parte al trattamento di bellezza. Le mogli si precipitavano, facevano lafila aspettando il loro turno, e per alcune ore l'intera fattoria pullulava di creaturedalla faccia rossa. Solo gli occhi restavano scoperti. «Quando ti laverai la faccia, latua pelle splenderà come i papaveri», diceva Jasmìna, con quella insolente

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sicurezza di sé che hanno i maghi.Nella medìna di Fez, la mia mamma sognava i papaveri, ma il più delle volte

doveva ripiegare su maschere di bellezza più accessibili. Anche i buoni datteri cheLàlla Mànì usava per le sue maschere erano difficili da reperire, perché dovevanoessere importati dall'Algeria, ma di sicuro erano più alla portata dei papaveri. Miva attribuito il merito di aver scoperto la maschera ai datteri, perché se non avessispiato la nonna Làlla Mànì, mia madre non sarebbe mai venuta a conoscenza delsuo segreto. E la pelle di Làlla Mànì era uno splendore, c'era poco da discutere.L'età non faceva alcuna differenza. Il più delle volte Làlla Mànì non metteva nullasulla pelle, ma una volta alla settimana portava per tutto il pomeriggio unamaschera di bellezza. Nessuno riusciva a capire di quali ingredienti fosse fattaquella maschera, finché mia madre non mi mandò a spiare e io scoprii dei datterie del latte. Làlla Mànì fu molto seccata quando capì che sapevamo della suamaschera segreta e, da quel momento in poi, noi bambini fummo cacciati via dalsuo salone, ogni volta che si metteva a lavorare ai suoi trattamenti di bellezza.

Per fare la sua maschera, Làlla Mànì metteva due o tre datteri belli carnosi inun bicchiere di latte intero, li copriva, e li lasciava a riposo per qualche giornovicino a una finestra soleggiata. Poi lavorava la mistura con un cucchiaio di legno,se la applicava sulla faccia ed evitava di esporsi al sole. La maschera dovevaasciugarsi molto lentamente, un dettaglio che non ero riuscita a cogliere spiando,e che mia madre, con un bel po' di pazienza, era arrivata a scoprire da sola. «Devisederti davanti a una finestra aperta», mi disse dopo aver scoperto il segreto della

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nonna, «o meglio ancora, sederti sotto un ombrello su una terrazza con una bellavista».

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CAPITOLO 22

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HENNÉ, ARGILLA E GLI SGUARDI DEGLI UOMINI

Mio padre detestava l'odore dell'henné, e la puzza dei trattamenti all'olio di

oliva e di argania che mia madre usava per irrobustirsi i capelli. Sembrava semprea disagio il giovedì mattina, quando la mamma indossava il suo orribile qamìs untempo verde, ora grigio (un vecchio regalo di Làlla Mànì, ricordo di unpellegrinaggio alla Mecca che aveva avuto luogo prima della mia nascita), ecominciava ad andarsene in giro con i capelli pieni di henné e la facciaimpiastricciata da un orecchio all'altro di maschera al melone e ceci. I suoi capelli,lunghi fino alla vita, inumiditi con un impasto a base di henné, quindi intrecciatie fermati sulla testa, prendevano l'aspetto di un elmo imponente. Mia madreaderiva con tutto il cuore alla scuola secondo la quale più brutte si entra nelhammàn, più belle se ne esce; e investiva un'incredibile quantità di energie pertrasformarsi, al punto che, sotto quelle maschere, la mia sorellina non lariconosceva più e si metteva a strillare ogni volta che la vedeva avvicinarsi.

Già dal mercoledì pomeriggio, mio padre cominciava ad assumere un'ariaafflitta. «Dùja, io ti amo al naturale, come Dio ti ha fatta», diceva. «Non haibisogno di prenderti tutto questo disturbo per piacere a me. Io sono felice con te,

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per come sei, nonostante il tuo temperamento vivace. Te lo giuro, Dio mi ètestimone, sono un uomo felice. Quindi, per favore, perché domani non lasciperdere quell'henné?».

Ma la risposta di mia madre era sempre la stessa. «Sìdì (mio signore), ladonna che tu ami non è affatto al naturale!

Io faccio uso di henné dall'età di tre anni. Senza contare che ci sono anchedelle ragioni psicologiche per cui devo sottopormi a questo trattamento: mi fasentire rinata. E poi, la mia pelle e i miei capelli diventano più setosi, dopo.Questo lo ammetterai, no?».

Quindi, tutti i giovedì, mio padre sgattaiolava fuori di casa il prima possibile.Ma se, per caso, aveva necessità di rientrare, fuggiva a gambe levate ogni volta chemia madre gli veniva vicino. Era un gioco che piaceva molto a tutto il cortile. Leoccasioni in cui gli uomini si mostravano terrorizzati di fronte alle donne, eranoveramente rare. Mia madre si metteva a inseguire papà fra le colonne, e tuttiridevano a crepapelle, finché Làlla Mànì compariva sulla soglia dei suoiappartamenti, inalberando il suo autorevole copricapo. Allora, tutto si fermava dicolpo. «Sai bene, signora Tàzì», apostrofava mia madre usando il suo nome daragazza, per ricordarle che era un'estranea nella famiglia, «che in questa casarispettabile non si usa terrorizzare i mariti. Forse le cose vanno diversamente allafattoria di tuo padre. Ma qui, nel centro di questa devotissima città, a pochi metridalla moschea di al-Qaràwiyyìn - centro dell'Islàm tra i più famosi del mondo - ledonne si comportano secondo il Libro. Sono obbedienti e rispettose. Un

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comportamento oltraggioso del tipo praticato da tua madre Jasmìna, è buono soloper divertire i villici». Al che, mia madre lanciava a mio padre uno sguardofurioso, e scompariva al piano di sopra.

Odiava l'assenza di privacy dell'harem e le costanti intromissioni di suasuocera. «Anche il suo modo di comportarsi è insopportabile e volgare», diceva,«specialmente per una che sta sempre a predicare sulle buone maniere e ilrispetto degli altri».

All'inizio del loro matrimonio, mio padre aveva cercato di tener lontana lamamma dai tradizionali trattamenti di bellezza, facendole usare dei cosmetici difabbricazione francese, che richiedevano tempi di preparazione minori egarantivano risultati immediati. I cosmetici erano l'unico campo in cui mio padrefavoriva il moderno a scapito della tradizione. Dopo lunghe consultazioni con ilcugino Zìn, che gli traduceva le pubblicità di cosmetici da giornali e rivistefrancesi, compilò una lunga lista e, insieme al nipote, andò a fare compere allaVille Nouvelle, tornando con una sporta di bei pacchetti, tutti avvolti nelcellophane e legati con nastri di seta colorati. Mio padre chiese a Zìn di sedere nelnostro salone, mentre la mamma apriva i pacchetti, nel caso avesse avuto bisognodi aiuto per capire le istruzioni in francese, e rimase a guardare con grandeinteresse mentre lei apriva con cura ogni pacchetto. Era evidente che aveva spesouna fortuna. Alcuni pacchetti contenevano tinture per capelli, altri degli sciampi,e c'erano anche tre tipi di creme sia per VISO che per capelli, per non parlare deiprofumi conservati in bottigliette che parevano gioielli. A mio padre risultava

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particolarmente sgradita la fragranza muschiata che mia madre insisteva amettersi nei capelli, e così l'aiutò con impazienza ad aprire il flacone di ChanelN°5, giurando che «ha dentro tutti i fiori che ti piacciono di più».

Mia madre guardò tutto quanto con molta curiosità, fece alcune domandesulla loro composizione, e chiese a Zìn di tradurle le istruzioni. Alla fine, si rivolsea mio padre e gli fece una domanda che lui non si aspettava: «Chi ha fatto questicosmetici?». Lui fece l'errore fatale di dirle che erano stati fatti da uomini discienza, in laboratori clinici. Al sentir questo, mia madre si tenne il profumo, ebuttò via tutto il resto. «Se gli uomini, ora, incominciano a derubarmi delle solecose che ancora controllo, i miei cosmetici, finirà che saranno loro ad aver poteresulla mia bellezza. Io non permetterò mai una cosa del genere. Io sola creo la miamagia, e non intendo abbandonare il mio henné».

Questo sistemò la questione una volta per tutte, e mio padre dovetterassegnarsi, come tutti gli uomini del cortile, agli inconvenienti dei trattamenti dibellezza.

La notte prima del hammàm, quando la mamma si metteva l'henné sui capelli,mio padre disertava i nostri appartamenti e si rifugiava in quelli di sua madre. Mavi ricompariva immediatamente, non appena la mamma faceva ritorno a casa,tutta profumata di Chanel N°5, dopo essersi fermata da Làlla Mànì per ilbaciamano rituale. Era una delle tante tradizioni: una nuora di ritorno dalhammàm era obbligata a passare da sua suocera per baciarle la mano. Tuttavia,grazie alla rivoluzione nazionalista e a tutto quello che si andava dicendo sulla

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liberazione della donna, quel rituale era quasi ovunque in via di estinzione, esopravviveva solo in occasione di importanti feste religiose. Ma dal momento cheLàlla Ràdiya continuava a osservarlo, mia madre era tenuta a fare lo stesso.Tuttavia, il baciamano rituale le offriva l'occasione di scherzare un po'. «Carasuocera», diceva, «pensi che tuo figlio sia pronto, ora, a guardare in faccia suamoglie, o preferisce restare da mammina?». La mamma sorrideva nel dir questo,ma Làlla Mànì rispondeva con un cipiglio, e alzava il mento, perché era dell'ideache l'umorismo in genere fosse una mancanza di rispetto, e quello di mia madre,in particolare, fosse una forma di aggressione diretta. «Lo sai, cara», replicavainevitabilmente, «sei fortunata ad aver sposato un uomo accomodante come miofiglio. Un altro avrebbe ripudiato una moglie così disobbediente da insistere amettersi l'henné nei capelli quando lui la prega di non farlo. E poi, non scordartiche Allàh ha dato agli uomini il diritto di avere quattro mogli. Se mio figliovolesse, un giorno, esercitare il suo sacrosanto diritto, se ne andrebbe nel lettodella seconda moglie, quando lo allontani con quel tuo maleodorante henné».Mia madre, calma e tranquilla, ascoltava il sermone della nonna dall'inizio allafine. Poi, senza aggiungere parola, le baciava la mano e procedeva verso il suosalone, lasciandosi dietro una scia di Chanel N°5.

Il hammàm dove ci recavamo per fare il bagno e lavarci di dosso gli impiastridi bellezza, era tutto in marmo bianco, pavimenti e pareti, con grandi lucernari suisoffitti che riversavano luce all'interno. Quella combinazione di luce, avorio,nebbie, donne e bambini che andavano in giro nudi, faceva pensare al hammàm

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come a una specie di isola esotica e calda di vapori che fosse, in qualche modo,andata alla deriva fino al cuore della disciplinata medìna. Davvero, poteva essereun paradiso, il hammàm, se non fosse stato per la sua terza camera.

Nella prima camera del hammàm c'era del vapore, sì, ma niente di eccezionale,e noi vi passavamo in fretta, tanto per abituarci al calore fumoso. La seconda erauna delizia, con quel tanto di vapore che bastava ad offuscare la realtà e a farneuna sorta di luogo fuori dal mondo, ma non tanto da rendere difficile il respiro. Inquella seconda camera, le donne si davano a una pulizia frenetica, strofinandosivia la pelle morta con i mhakka, dei pezzi di sughero dalla forma tondeggianteavvolti in foderine di lana lavorate all'uncinetto.

Per lavare via l'henné e i vari olii, le donne adoperavano il ghasùl, sciampo elozione insieme, miracoloso impasto a base di argilla che regalava unamorbidezza incredibile a pelle e capelli. «É il ghasùl che trasforma la pelle inseta», affermava la zia Habìba, «e che ti fa sentire come un'antica dea quando escidal hammàm». Ci volevano molte stagioni, e due o tre giornate di duro lavoro, perpreparare il ghasùl che, in pratica, consisteva in scaglie di argilla secca eprofumata. Una volta ottenute le scaglie, bastava sbriciolarle in acqua di rose peravere una magica soluzione.

La preparazione del ghasùl aveva inizio in primavera, e vi prendeva parte tuttoil cortile. Per prima cosa, Sìdì 'Allàl portava dalla campagna grandi quantità diboccioli di rosa, mirto e altre piante profumate, che le donne si precipitavano aportare di sopra e a stendere su dei lenzuoli puliti, al riparo dal sole. Una volta

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seccati, i fiori venivano messi via fino al gran giorno dedicato alla preparazionedel ghasùl, a metà estate, quando venivano mescolati con l'argilla e nuovamenteseccati in una crosta sottile - stavolta dal cocente sole estivo. Nessun bambinovoleva perdersi quel giorno, perché allora, gli adulti non solo avevano bisognodella nostra assistenza, ma ci permettevano anche di pasticciare con la terra e disporcarci come piaceva a noi, senza nessuno che si lamentasse. La terraprofumata aveva un odore così buono che veniva voglia di mangiarsela, e unavolta io e Samìr ne assaggiammo un po', solo per ricavarci un gran mal di stomacoche ci guardammo bene dal rendere pubblico.

Come tutti gli altri trattamenti di bellezza, la preparazione del ghasùl avvenivaintorno alla fontana. Le donne vi accostavano sgabelli e bracieri, e si sedevanovicino all'acqua, per poter lavarsi le mani e sciacquare pentole e pentolini senzatroppa difficoltà. Per prima cosa, chili di rose e mirti seccati venivano separati,messi in pentole fonde, e lasciati a sobbollire lentamente per un po' di tempo. Poivenivano tolti dal fuoco e fatti raffreddare. Le donne che amavanoparticolarmente un certo tipo di fiori - come mia madre, che adorava la lavanda -ne mettevano un po' a bollire in un pentolino a parte. Come per altri trattamentidi bellezza, alcune donne credevano che tutti i magici effetti del ghasùl sarebberocessati se la loro formula personale fosse divenuta di pubblico dominio, epertanto sparivano negli angoli bui dei piani alti, chiudevano le porte, emescolavano fiori ed erbe in gran segreto. Altre, come la zia Habìba, seccavano leloro rose al chiaro di luna. Altre ancora si limitavano a fiori di specifici colori, e

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altre, infine, recitavano incantesimi sulle loro piante per rafforzarne i poteriammaliatori.

Quindi, aveva inizio il processo dell'impasto. La zia Habìba ne dava il segnale,mettendo poche manciate di argilla grezza in un largo contenitore di terracottasimile a quelli usati per impastare il pane. Poi versava lentamente una scodella diacqua di rose o di mirto sull'argilla, lasciava che vi penetrasse, e cominciava alavorare il tutto fino a ridurlo a un impasto fine. Quindi, stendeva il composto suuna tavola di legno, e chiamava noi bambini per portare la tavola sulla terrazza aseccare. Noi bambini amavamo quel compito, e a volte qualcuno di noi si eccitavaal punto da scordarsi che l'argilla era ancora fresca, e si metteva a correre semprepiù veloce, finché l'intero contenuto della tavola gli scivolava sulla testa ed erauna cosa tremendamente imbarazzante, soprattutto perché, poi, doveva farsiguidare da qualcun altro per ritornare in cortile, dato che aveva gli occhi sigillatidall'argilla. Questo tipo di incidenti, però, a me non accadevano mai, perché io erodisperatamente lenta in ogni cosa, e il giorno del ghasùl era una delle rareoccasioni in cui quella qualità veniva apprezzata. Una volta che noi bambiniemergevamo sulla terrazza, con le tavole di legno in testa, sbuffando e sospirandoa più non posso per dimostrare quanto fosse importante il nostro contributo,entrava in azione Mìna. Il suo compito era quello di vegliare sulle tavole econtrollare il processo di seccatura. Di notte, ci dava istruzione di riportare letavole al coperto, perché non si sciupasse tutto con l'umidità della notte, e ilgiorno dopo, intorno a mezzogiorno, quando il sole era più caldo, ci dava

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istruzione di riportarle di nuovo all'aperto. Dopo cinque giorni, l'argilla si eraseccata formando una crosta sottile, e si presentava spaccata in piccoli pezzi. Aquel punto, Mìna rovesciava il tutto su un grande lenzuolo pulito, e lo distribuivaalle donne. Quelle con figli ne ricevevano sempre un po' di più, in proporzionealla necessità.

Il ghasùl veniva usato come sciampo nella seconda camera del hammàm, ecome crema levigante e ammorbidente nella terza e ultima camera, dove avvenivala pulizia più energica. Io e Samìr odiavamo quella terza camera, al punto dichiamarla camera delle torture, perché era lì che le donne insistevano a prendersicura "seriamente" di noi bambini.

Nelle prime due camere del hammàm, le madri si scordavano del tutto dellaprole, impegnate com'erano nei loro trattamenti di bellezza. Ma nella terzacamera, un attimo prima di dare inizio ai rituali di purificazione, le madri sifacevano prendere dai sensi di colpa per averci trascurato, e cercavano dirimediare trasformando in un incubo i nostri ultimi attimi al hammàm.

Era quello il luogo e il momento in cui tutto all'improvviso si volgeva alpeggio, e si cominciava a cascare dalla padella nella brace.

Prima di tutto, le madri riempivano alle fontane dei secchi di acqua calda efredda che ci versavano in testa senza prima averne provato la temperatura - emai che indovinassero quella giusta. L'acqua era sempre o gelata da levare il fiatoo bollente da levar la pelle, mai una via di mezzo. Inoltre, nella terza camera, ciera ufficialmente proibito strillare perché tutto intorno a noi vi erano donne

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intente ai rituali di purificazione. Per purificarsi, ovvero prepararsi alla preghierache aveva luogo subito fuori dal hammàm, le donne adulte dovevano usare la piùpura delle acque. Il solo modo di assicurarsi di tale purezza era di stare il piùvicino possibile alla fonte (in questo caso, alle fontane). Ciò significava che laterza camera era sempre affollata, e bisognava fare la fila ordinatamente per poterriempire i secchi. «In effetti, la terza camera del hammàm è l'unico luogo dove ioabbia visto delle donne marocchine mettersi in fila ordinatamente». Ogni minutopassato ad aspettare alla fontana era semplicemente intollerabile, a causa delcalore.

Non appena riempiti i secchi, le donne davano subito inizio al rito, propriodavanti alla fila. L'abluzione rituale si distingueva dal lavaggio abituale per laconcentrazione silenziosa e l'ordine con cui era prescritto si dovessero lavare levarie parti del corpo - mani, braccia, faccia, testa, e alla fine i piedi. Non si dovevacorrere davanti a una donna che effettuava il rituale, il che significava che inpratica non ti potevi muovere. Quindi, fra questo e l'acqua troppo calda o troppofredda versata sulla testa, tutto il posto risuonava di urla e lamenti di bambini.Alcuni di loro riuscivano a scappare dalla presa materna per un istante, ma poichéil pavimento di marmo era reso scivoloso dall'acqua e dall'argilla, e la stanza eracosì sovraffollata, non andavano mai molto lontano. Altri preferivano agire amonte, tentando di evitare l'ingresso in quella terza camera, ma in tal caso, cosache spesso accadeva a me, venivamo semplicemente presi in braccio e portatidentro con la forza, a dispetto di tutti gli strilli.

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Quelli erano i pochi terribili istanti che in pratica annullavano tutto ildelizioso effetto della seduta al hammàm, cancellando d'un sol colpo il lungosusseguirsi di ore meravigliose passate a nascondere il prezioso pettine in avoriodel Senegal della zia Habìba, per farlo magicamente riapparire quando questacominciava freneticamente a cercarlo; a rubare le arance che Shàma teneva in unsecchio d'acqua fredda; ad osservare le donne grasse con le tette enormi, e quelletutte pelle e ossa con il sedere sporgente, o le madri mingherline con giganteschefiglie adolescenti e, soprattutto, a correre in aiuto delle adulte quando scivolavanosui pavimenti cosparsi di argilla e di henné.

A un certo punto, inventai un modo per abbreviarmi il soggiorno nella cameradelle torture e obbligare mia madre a portarmi fuori di corsa. Fingevo di svenire,un talento che avevo perfezionato per impedire alla gente di darmi fastidio.Svenire quando gli altri bambini imitavano i jinn mentre correvamo giù dallescale di notte, sortiva l'effetto di indurre il bambino colpevole di avermispaventata a trascinarmi giù in cortile, o perlomeno ad avvertire mia madre. Ilche, a sua volta, produceva un altro effetto, ovvero mia madre piantava un infernoe andava a lamentarsi per me dalla madre del bambino. Ma inscenare i mieisvenimenti strategici al hammàm, quando venivo portata a forza nella terzacamera, era molto più appagante, perché là potevo disporre di un pubblico. Perprima cosa, stringevo la mano della mamma, così da assicurarmi che guardassenella mia direzione; quindi chiudevo gli occhi, trattenevo il respiro, e cominciavoad afflosciarmi sul pavimento di marmo bagnato. La mamma chiamava aiuto.

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«Per l'amor di Dio, aiutatemi a portarla fuori di qui! La bambina ha avuto dinuovo un collasso!». Rivelai il mio trucco a Samìr, e ci provò anche lui, ma fucolto nell'atto di sorridere mentre sua madre invocava aiuto. Làlla Ràdiya fecerapporto allo zio 'Alì, e Samìr venne pubblicamente ripreso il venerdì successivo,prima della preghiera, per essersi preso gioco di sua madre, «la più sacra creaturache cammini su due gambe nel vasto pianeta di Allàh». Samìr dovette quindichiederle perdono e baciare la mano a Làlla Mànì, e chiederle di pregare per lui.Per andare in paradiso, un musulmano deve passare sotto i piedi di sua madre (al-janna tahta aqdàm al-ummahàt), e le prospettive di Samìr in quel momentoparevano molto scarse.

Poi venne il giorno in cui Samìr fu buttato fuori dal hammàm, perché unadonna aveva notato in lui "uno sguardo da uomo". Quell'evento mi fece realizzareche, in qualche modo, entrambi venivamo risucchiati in una nuova era, forsenell'età adulta, sebbene all'aspetto fossimo ancora piccoli e terribilmenteimbranati, in confronto agli adulti formato gigante che ci stavano intorno.

L'incidente si verificò un giorno nella seconda camera del hammàm, quandouna donna, di punto in bianco, si mise a gridare indicando Samìr: «Di chi è questoragazzo? Non è più un bambino!». Shàma si precipitò ad informarla che Samìraveva soltanto nove anni, ma la donna fu intransigente. «Potrebbe anche avernequattro ma, te lo dico io, mi guarda il seno come fa mio marito». Tutte le donnesedute lì intorno a sciacquarsi l'henné dai capelli smisero di fare quello chestavano facendo per ascoltare la discussione, e scoppiarono tutte a ridere quando

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la donna, portando avanti il fatto suo, affermò che Samìr aveva "uno sguardomolto erotico". A quel punto, Shàma si fece cattiva: «Forse ti guarda in quel modoperché hai dei seni fatti in modo strano. O forse sei tu che vuoi vederci qualcosadi erotico, in questo bambino. Se è così, allora sei sulla via di una seriafrustrazione». Al che, tutte le altre cominciarono a ridere fragorosamente, eSamìr, in piedi in mezzo a tutte quelle donne nude, realizzò all'improvviso,senz'ombra di dubbio, di possedere una sorta di potere non comune. Gonfiò ilmagro petto e, con disinvoltura, diede la sua risposta, destinata a rimanere storicae a diventare una sorta di motto di spirito in casa Mernissi: «Non sei il mio tipo:mi piacciono le donne alte». Questo mise Shàma in una situazione imbarazzante.Non poté più continuare a difendere il fratello, rivelatosi sorprendentementeprecoce, specialmente perché lei stessa non poté fare a meno di unirsi al corodelle risate che risuonava in tutta la stanza. Ma quel comico incidente segnò,senza che io e Samìr potessimo rendercene conto, la fine della nostra infanzia,quel felice periodo della vita quando non si dà peso alla differenza fra i due sessi.Dopo quell'episodio, Samìr fu sempre meno tollerato nel hammàm delle donne,perché sempre più signore cominciarono a sentirsi infastidite dal suo "sguardoerotico". Ogni volta che accadeva, Samìr veniva riportato a casa come un maschiotrionfatore, e il suo comportamento virile diventava, per giorni, oggetto di scherzie commenti in tutto il cortile.

Alla fine, però, la notizia di tali episodi arrivò all'orecchio dello zio 'Alì, e questidecise che per suo figlio era venuto il momento di smettere di andare al hammàm

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con le donne e di unirsi ai bagni degli uomini.Fui molto dispiaciuta di dover andare al hammàm senza Samìr, specialmente

perché non potevamo più giocare insieme, come eravamo soliti fare in quelle treore che passavamo là. Anche Samìr riportò cose tristi dalla sua esperienza albagno degli uomini. «Gli uomini non mangiano neanche, sai», diceva, «nientemandorle, niente bibite, e non si parla e non si ride. Ci si lava e basta». Io gli dissiche, se poteva evitare di guardare le donne in quel modo, forse era ancorapossibile convincere sua madre a lasciarlo venire con noi.

Ma, con mia grande sorpresa, disse che questo non si poteva più fare, e chedovevamo pensare al futuro. «Sai», disse, «io sono un uomo, anche se ancora nonsi vede, e uomini e donne devono nascondersi il corpo a vicenda. Per questodevono essere separati». Un pensiero profondo, o almeno così mi suonò, e ne fuimolto colpita, ma non del tutto convinta. Quindi, Samìr osservò che al hammàmdegli uomini nessuno faceva uso di henné e di maschere per la faccia. «Gliuomini non hanno bisogno dei preparati di bellezza», disse.

Quell'osservazione mi riportò alla nostra vecchia discussione in terrazza, e laintesi come un attacco personale. Io ero stata la prima a mettere a repentaglio lanostra amicizia, insistendo sulla necessità di partecipare ai trattamenti dibellezza, e così cominciai a difendere la mia posizione. «La zia Habìba dice che lapelle è importante», attaccai, ma Samìr non mi lasciò continuare. «Credo che gliuomini abbiano una pelle diversa», tagliò corto. Mi limitai a fissarlo.

Non c'era nulla che potessi dirgli perché, per la prima volta nei nostri giochi di

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bambini, capii che tutto quello che Samìr aveva detto era giusto, e qualunque cosaavessi detto io non avrebbe avuto la stessa importanza.

Di colpo, tutto mi parve strano e complicato, al di là della mia portata. Capivoche stavo oltrepassando una frontiera, varcando una soglia, ma non riuscivo aimmaginare che tipo di spazio fosse quello in cui mi accingevo a entrare.

Di colpo, mi sentii triste senza ragione, me ne andai da Mìna, sulla terrazza, emi sedetti vicino a lei. Mìna mi scompigliò i capelli. «Perché siamo così calmioggi?», mi domandò. Le raccontai della mia conversazione con Samìr, e anche diquello che era successo al hammàm. Lei mi ascoltò, con la schiena appoggiata almuro di ponente, e il suo turbante giallo più elegante che mai, e quando ebbifinito di raccontare, mi disse che la vita, d'ora in avanti, si sarebbe fatta più dura,sia per me che per Samìr. «Da bambini la differenza non conta», disse. «Ma daora in poi, non potrete più sfuggirle. La differenza, con la sua legge, governerà levostre vite. E il mondo si farà più spietato».

«Ma perché questo?», le chiesi. «E perché non si può sfuggire alla legge delladifferenza? Perché i maschi e le femmine non possono continuare a giocareinsieme, anche quando crescono? Perché questa separazione?».

Mìna replicò senza dare risposta alle mie domande, ma dicendo che, a causa diquesta separazione, uomini e donne vivono delle vite molto infelici. Laseparazione crea un enorme divario nella comprensione. «Gli uomini noncapiscono le donne», disse, «e le donne non capiscono gli uomini, e tuttocomincia quando i bambini vengono separati dalle bambine al hammàm. Allora,

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una frontiera cosmica spacca il pianeta in due metà. E la frontiera indica la lineadel potere, perché dovunque esista una frontiera, ci sono due categorie di esseriche si muovono sulla terra di Allàh: i potenti da una parte e i senza poteredall'altra».

Chiesi a Mìna su quale metà del pianeta mi trovassi io. La sua risposta furapida, breve e chiara: «Se non puoi uscirne, allora sei dalla parte di quelli chenon hanno potere».