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La distribuzione commerciale nella moda A cura di Clemente Tartaglione, Fabrizio Gallante, Marco Ricchetti

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La distribuzione commerciale nella moda

A cura di Clemente Tartaglione,

Fabrizio Gallante, Marco Ricchetti

La distribuzione commerciale nella moda

A cura di Clemente Tartaglione,

Fabrizio GallanteMarco Ricchetti

4

Promosso da

Finanziato da

Curato e realizzato da

in collaborazione con

Con il contributo di

A cura diClemente TartaglioneFabrizio GallanteMarco Ricchetti

Progetto GraficoLaura Salomone

Cura redazionaleElena De Luca

Finito di scrivere nel 2011

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1. Il ruolo della distribuzione nella moda pag. 051.1 Introduzione pag. 051.2 Il negozio è il reparto finale del processo di produzione di valore pag. 061.3 La gestione del rischio tra distribuzione e industria pag. 091.4 I costi della moda: moltiplicatori e margini dei negozi pag. 12

2. L’evoluzione della distribuzione in Italia dagli anni Ottanta ad oggi pag. 18

3. I format distributivi pag. 233.1. I negozi multimarca indipendenti pag. 233.2 Le catene di negozi pag. 253.3 Grandi magazzini pag. 263.4 Le grandi superfici specializzate pag. 283.5 I factory outlet centers pag. 293.6 e-Commerce pag. 32

4. I grandi mercati europei dell’abbigliamento pag. 354.1. Un approfondimento geografico: Germania e Regno Unito pag. 36

5. Casi studio pag. 425.1 Luisa via Roma: la rivoluzione dell’e-commerce in uan boutique multimarca pag. 425.2 La trasformazione della formula tradizionale del Grande Magazzino:

il turnaround di COIN pag. 45

Sommario

1. Il ruolo della distribuzione nella moda

1. Location, Location,Location: Analyzing the RetailEnvironment, era il titolo di un libro di Jones e Simmonsuscito nel 1990

1.1 Introduzione

“Il negozio è da considerarsi the moment of truth, il momento culminante e supremo nel quale lastrategia di marca si materializza. Il successo delle aziende della moda e del lusso si è realizzato graziealla qualità del loro prodotto, alla loro innovazione, alla loro cura dei dettagli, ma si è consolidato graziealla coerente e alla sapiente realizzazione della rete dei negozi”. (Domenico de Sole, Presidente delGruppo Gucci per dieci anni, tra il 1995 e il 2004).

L’evoluzione del sistema distributivo ha avuto dagli anni Novanta ad oggi, un impatto sullastruttura e le performance del settore della moda almeno pari, se non più rilevante, di quellogenerato dalle politiche di delocalizzazione nei Paesi a basso costo.

Lo sviluppo di reti distributive monomarca è stato uno dei principali obiettivi degli investimentidei grandi marchi che hanno spostato il baricentro delle competenze delle imprese in un area piùprossima al retail che alla manifattura.

D’altro canto la grande distribuzione organizzata, ormai controlla una quota molto importantedel mercato e agisce con logiche globali influenzando le direzioni del commercio internazionale.

Infine, i modelli di business emergenti e di maggior successo fanno leva principalmente su unnuovo rapporto tra produttori e distribuzione.

In altre parole, è impossibile comprendere l’evoluzione dell’industria italiana della moda senzauna attenta considerazione di quella del sistema distributivo.

Per l’impresa, anche quella con solide basi manifatturiere, sia piccola che grande, la gestione deicanali distributivi è un area cruciale che comporta scelte da cui possono dipendere il successo o ilfallimento dell’impresa stessa, in un continuo riequilibrio di competenze, decisioni di investimentoe organizzazione.

Per i rapporti tra produttori e retailer si tratta di una rivoluzione dei ruoli e nella tradizionalesuddivisione tra chi svolge il ruolo di produrre i capi d’abbigliamento e si occupa (in diversecombinazioni date dal posizionamento sul mercato) di: progettare in modo creativo e innovativo,produrre in modo efficiente, contenendo i costi, rispettare standard di qualità adeguati, realizzareazioni di marketing e comunicazione, e chi invece si occupa di distribuirli ai consumatori, per iquali le tre principali variabili competitive si usa dire siano “location, location, location”1, cioècollocarsi il più possibile vicino al luogo in cui i consumatori si trovano.

Nella moda, come e più che in altri settori dei beni di consumo, una suddivisione netta di ruolinon è oggi più possibile. L’offerta di un marchio si compone indissolubilmente di prodotto,creatività, servizi e ambiente di vendita. Le attività di marketing, ma in un certo senso anche quelle

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di progettazione, che possono avere il consumatore non solo come destinatario, ma anche comecodesigner, richiedono di essere sviluppate da produttore e retailer come un tutt’uno.

La peculiare importanza della distribuzione al dettaglio nella moda trova conferma nei marginicommerciali (il “ricarico” o “moltiplicatore”) normalmente applicati nel settore che sono molto piùelevati della media.

Per comprenderne le ragioni si devono considerare due aspetti: quanta parte del valore per ilconsumatore viene effettivamente generato proprio nel punto vendita e quanta parte dell’elevatorischio insito nel business della moda grava sulle spalle dell’ultimo passaggio che i prodotti devonosuperare per raggiungere i consumatori.

1. 2 Il negozio è il reparto finale del processo di produzione di valore

I produttori e i grandi marchi, nella moda come in altri settori, competono offrendo aiconsumatori un’offerta composita, il cui valore distintivo (la value proposition, o unique sellingproposition) dipende da una combinazione di fattori di cui il prodotto è soltanto una parte e cheinclude elementi immateriali (stile, moda, simboli, cultura) e servizi.

Il processo di generazione del valore si estende quindi ben oltre i cancelli della fabbrica e affidaalle azioni di marketing un ruolo di crescente importanza.

Lo sfaldarsi della suddivisione dei compiti tra industria e retail richiede un riassetto delle attivitàdi marketing che impegna, da un lato l’industria ad integrare il negozio tra gli strumenti principali,e dall’altro il retail ad espandere la gamma di servizi offerti al cliente.

Per comprendere come si realizza l’espansione della gamma dei servizi offerti dal negozio sideve partire dall’analisi delle funzioni della distribuzione.

La distribuzione commerciale moderna si configura come un insieme di servizi elementari concaratteristiche molto diverse, usualmente suddivisi dagli studiosi di marketing in servizi core eservizi non core 2.

I primi sono quelli più tradizionali e strettamente legati alla logistica di prossimità, che porta ilprodotto dell’industria vicino al consumatore come lo stoccaggio e la scelta di un assortimento.

Il negozio, da questo punto di vista è considerato un semplice canale di distribuzione dellemerci, un modo efficiente di mettere a disposizione dei consumatori quanto è stato prodotto nellefabbriche manifatturiere.

Questa visione della funzione del commercio al dettaglio la troviamo limpidamente espressanella definizione che ne da il manuale delle Nazioni Unite che contiene le raccomandazioni per la

2. Si veda ad esempioPellegrini (1990)

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redazione delle statistiche nazionali sul commercio3: l'attività commerciale consiste nel "serviziodi stoccaggio ed esposizione di una selezione di prodotti resi facilmente disponibile alla clientela".

Il punto vendita è un semplice collegamento spaziale tra la produzione, concentrata in pocheunità manifatturiere e il consumatore, disperso sul territorio.

Il secondo tipo di servizi ha assunto un’importanza maggiore nei tempi recenti ed è oggi unodei fattori verso cui la competizione tre le imprese commerciali si sposta.

Sono servizi che ampliano il principio del "rendere il prodotto facilmente disponibile alla clientela",e proprio in essi sta tutta la differenza tra la distribuzione tradizionale e il retail dei giorni nostri.

E’ una gamma ampia di attività, che va dalla ristorazione all’interno del negozio, alla creazionedi spazi ludici –non solo per i bambini!- a servizi di riparazione ecc. Questi servizi hanno una naturafunzionale (rendere più agevole l’acquisto, combinare in un unico luogo più servizi, trattenere ilconsumatore all’interno dello spazio di vendita).

Una classe di servizi appartenenti al secondo tipo e di fondamentale importanza nella moda,è quella dell’informazione al consumatore.

Questi servizi possono limitarsi a fornire informazioni di base, ma anche realizzarsi come unpotenziamento della dimensione emozionale dello shopping, attraverso l’utilizzo di strumenticome il visual merchandising4, l’ambiente, l’architettura del negozio, l’illuminazione ecc.

Si pensi all’informazione fornita dal personale di vendita. Può riguardare esclusivamente lecaratteristiche funzionali dei prodotti, oppure, in presenza di personale adeguatamente formatoe di materiale illustrativo adeguato, trasmettere soprattutto sensazioni e coinvolgereemozionalmente il consumatore.

Lo stesso si può dire di media più tecnologici: da un lato l’apparato per il self-scanning permetteal consumatore di verificare prezzo e caratteristiche del prodotto prima di andare alle casse,dall’altro, per fare un esempio, i chioschi interattivi nei negozi Sephora attivati dal codice a barreo dal tag RFID del prodotto, mostrano il filmato pubblicitario collegato a quel prodotto.

Nel caso dei prodotti della moda la connessione tra i due tipi di servizi, quelli cosiddetti core ei non core, diventa inscindibile, viene meno lo stesso significato di servizi core, come se fosserorelativi ad una funzione primaria, in contrapposizione a quella secondaria dei servizi altri.

La ragione è evidente se si considera la natura ibrida dei prodotti della moda, a metà traprodotti manifatturieri e prodotti culturali.

La quantità e qualità di risorse umane e finanziarie che nelle imprese della moda sono dedicatea funzioni che hanno il principale obiettivo di incorporare negli abiti elementi di tipo estetico esemantico, sotto forma di contenuti espressivi, comunicativi ed emozionali è molto elevata(Ricchetti, 2006).

3. InternationalRecommendations forDistributive Trade Statistics(United Nations 2008)

4. Si intende qui il visualmerchandising in sensoampio, come l’insieme delle attività dicomunicazione verso il clientesul punto vendita

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Al processo industriale manifatturiero, che ne determina le caratteristiche funzionali, l’industriadella moda aggiunge una forte carica progettuale in grado di riflettere, nella sua mutevolezza, lospirito del tempo.

Ai consumatori viene offerto, insieme ai semplici vestiti, un medium per manifestare la propriaidentità e mantenerla al passo coi tempi.

La moda è un prodotto industriale a contenuto culturale, il risultato della combinazione dielementi materiali e immateriali (Malossi, 1998).

Per quanto l’interazione tra prodotto e consumatore sia preparata con azioni di marketing,come campagne di comunicazione diretta (pubblicità) e indiretta (testimonial, i commenti deicritici della stampa della moda ecc.) è nel negozio, al momento dell’acquisto che la capacitàseduttrice di un capo di abbigliamento è effettivamente messa alla prova e il suo valoreimmateriale e simbolico portato a compimento in un ambiente adeguato.

Nei negozi della moda - si pensi non solo ai flagship stores più sofisticati, come l'Armani Megastoredi via Manzoni a Milano o la Nike Town di Londra, il flagship di Sephora nella Fifth Avenue di New York,o un Epicenter di Prada, ma anche a qualunque boutique indipendente - si mette in scena un ambientee si genera un’interazione con il consumatore in grado di trasmettere i valori immateriali del prodotto.

L’ambiente in cui si realizza la vendita è dunque una variabile importante nella generazionedel valore che il consumatore percepisce.

Il valore si crea anche grazie all’interazione con un’ampia gamma di stimoli generati da fattoriche è difficile distinguere tra core e non core. Vi concorrono infatti: l’assortimento di prodotti venduti,si pensi ad esempio a concept stores come Corso Como 10 a Milano, in cui la gamma merceologica èampia ma tutta iscritta all’interno della ricerca stilistica di frontiera; il visual merchandising, i materialidi cui è fatto l’interno, la segnaletica dei prodotti i colori e le luci, ma anche i profumi; la strutturafisica dell’ambiente e anche dello stabile in cui è collocato, fino alla via in cui il negozio si colloca.

Altrettanto, se non più importanti sono le persone che si trovano all’interno del negozio, ilpersonale di vendita e il modo con cui si rapporta ai clienti, ma anche gli altri clienti chefrequentano il negozio con cui ogni consumatore si rapporta o identifica.

Non si tratta, evidentemente, di caratteristiche esclusive della distribuzione della moda, siritrovano infatti anche nella vendita di altri beni di consumo. Nella moda, tuttavia, a causa dellanatura ibrida del business, a metà strada tra produzione manifatturiera e industria culturale, questecaratteristiche sono intrinseche nei prodotti e inseparabili da essi.

Più che per gli altri beni di consumo vale inoltre nella moda il principio che lo shopping non èsolo un atto di consumo, ma comprende una dimensione interattiva del consumatore con i prodottidell’assortimento (Falk e Campbell, 1997) e con l’ambiente in cui si perfezionano gli acquisti.

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Per le imprese della moda, quindi, la distribuzione al dettaglio è da considerare come unacomponente importante di un più ambio sistema di comunicazione verso il consumatore, assiemea pubblicità, eventi, rapporti con la stampa.

Ma non è solo questo, è anche il principale veicolo di informazioni dal consumatore all’impresa,un monitor per captare in tempo reale e senza mediazioni i segnali del mercato.

Questa funzione del negozio è particolarmente importante in un business rischioso comequello della moda, in cui il disallineamento tra lo Zeitgeist dei consumatori e la visione del mercatodei designer e delle imprese è una eventualità ad elevata probabilità e non può essere controllatoa priori, ma solo dopo che la collezione è avviata alla vendita.

1.3 La gestione del rischio tra distribuzione e industria

Il rischio nell’industria della moda è in larga parte il risultato della volatilità e imprevedibilitàdelle preferenze dei consumatori riguardo ai contenuti estetici e simbolici dei capi diabbigliamento.

In questo, il mercato della moda assomiglia molto a quello dei prodotti culturali: un attore omusicista affermato anche se fortemente sostenuti da azioni di marketing possonoimprovvisamente essere percepiti come passati di moda, mentre nuovi portatori di significato (onuovi significati) possono altrettanto improvvisamente emergere o essere adottati dai consumatori.

Si può affermare che il consumo dei prodotti di moda, come di tutti quelli ad elevato contenutoimmateriale e culturale, come la musica, i libri e il cinema, è soggettivo e non guidato da razionalità(Hesmondhalgh, 2002).

La difficoltà di prevedere i comportamenti è accresciuta dal fatto che tra le motivazioni diconsumo di un prodotto culturale vi può essere anche quella dell’antimoda, cioè della ricerca di unadifferenziazione e di una distinzione dagli altri consumatori di prodotti culturali (Garnham, 1990).

Il consumo di un bene può quindi anche svilupparsi in opposizione ad un trend socio-culturaledominante.

L'elevata incertezza e variabilità si traduce in elevato rischio di previsione che a sua voltacomporta un'alta percentuale di insuccessi nel lancio di nuovi prodotti e servizi, nella modapraticamente ad ogni stagione o addirittura settimanalmente quando si adottano modelli dibusiness fast.

L’esempio più noto e studiato di un business ad alta percentuale di insuccessi che ha moltipunti di contatto con quello della moda è l’industria del cinema.

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E' noto che la maggior parte dei film prodotti genera perdite. Una regola pratica negli USA èconsiderare che su dieci film sette siano in perdita, due raggiungano il break-even e uno realizziincassi superiori ai costi compensando le perdite degli altri. In sostanza gli incassi delle casecinematografiche dipendono quasi interamente da pochi grandi hit.

In uno libro sull’industria di Hollywood (Goldman 1984) lo scrittore e sceneggiatore WilliamGoldman ha coniato l’espressione “nobody knows” per descrivere il problema che le industre adelevato rischio devono affrontare: non ci sono elementi che permettano a priori di fare previsionisul successo o l’insuccesso.

Anche nell'industria della moda il rischio di previsione è una componente di grande importanza.I fattori che possono influenzare il successo o il completo insuccesso di un capo di vestiario e

farlo diventare il best seller o il flop della stagione sono molteplici, variabili e imprevedibili. Dunque, al lancio di una nuova collezione la probabilità di introdurre prodotti non di successo

è elevata e maggiore che in altri settori industriali dei beni di consumo. "Nessun osservatore esterno, per quanto qualificato, è in grado di produrre uno studio di mercato

che sia in grado di prevedere quanti capi si venderanno della giacca X nel tessuto Y venduta al prezzo Z"(Maramotti, 2000).5

Maramotti traduce l’espressione nobody knows di William Goldman, nei termini della moda: iproduttori e i creativi, all'interno delle imprese possiedono una sensibilità al mercato e unaconoscenza dei passati successi ed insuccessi sulla base delle quali cercano di prevedere al megliogli esiti di un nuovo progetto, un film o una collezione, ma, almeno nella fase iniziale del progettosono in grado solo in minima parte di anticiparne il successo o l'insuccesso.

Il problema non è di poco conto se si considera che ad ogni stagione i nuovi prodotti/modellirappresentano da un minimo del trenta per cento delle vendite ad un massimo del cento per centoper chi è specializzato nei prodotti più trendy.

Si stima che almeno il 20% del costo di produzione di una collezione sia la componenteimputabile agli errori di previsione, valutati sulla base del costo dell’invenduto a fine stagione(Centro Einaudi-SISIM 2002).

L'incertezza riguardo al gradimento da parte dei consumatori cresce al crescere dell'intensitàdel contenuto moda dei capi. E' molto basso nei prodotti basici e per quelli continuativi, tra questiultimi vi sono anche i classici di ogni fascia di prezzo incluse quelle del lusso. Cresce sia nelle fascedi prezzo medie che in quelle del lusso per tutti quei prodotti la cui vita è limitata al massimo peruna stagione e che sono scelti proprio per il loro contenuto di novità.

Il rischio si concretizza nell’invenduto, che per i prodotti moda si traduce in realtà nelle venditea prezzi ribassati nelle stagioni dei saldi.

5. Su questo si veda anche il paragrafo: “Una nota sulleindagini di mercatoquantitative nel capitoloProgettazione e sviluppodelle collezioni”

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La dimensione del fenomeno dei saldi ha nell’abbagliamento una dimensione non comparabilea quella degli altri beni di consumo, secondo l’Osservatorio Cartasì sugli acquisti (Cartasì, 2011)l’abbigliamento rappresenta oltre il 61% delle vendite effettuate a saldo, pur pesando soltanto peril 14% del totale degli acquisti di beni di consumo.

La parte delle vendite a saldo è cresciuta enormemente dagli anni Settanta ad oggi. La NationalRetail Federation americana ha rilevato l’andamento delle vendite a saldo nei Department Storesdal 1970 al 1995 (è l’unica fonte statistica disponibile con dati sui saldi più che ventennali).

I dati mostrano una crescita da valori intorno all’8% del totale delle vendite annue nel 1970 aoltre il 30% nel 1995. Secondo Peter Pashigian (1998) la crescita della quota dei saldi è in strettarelazione con l'aumento della variabilità e imprevedibilità connessa all'introduzione del fattore moda.

Le cifre per l’Italia sono oggi, secondo le stime di Confcommercio (2010) superiori al 26% nellamedia dell’abbigliamento (circa 10miliardi di €), che comprende sia i prodotti continuativi, pocointeressati ai saldi, che i prodotti moda.

Il fattore distintivo del prodotto moda è che il suo valore per il consumatore tende rapidamentea zero quando il ciclo della moda cambia e ciò che è stato di moda durante la stagione non lo saràpiù in quella successiva.

Il mercato va quindi immediatamente sgombrato dai prodotti che non hanno corrisposto alledecisioni di spesa dei consumatori durante la stagione, ai prezzi di stagione.

Nei settori in cui la presenza di prodotti a ciclo di vita breve è maggiore, il rischio tende adessere più elevato: al problema della selezione del prodotto giusto si aggiungono quello delmomento giusto in cui deve arrivare sul mercato e quello del ristretto arco temporale in cui i costidevono essere recuperati.

La combinazione di scarsa prevedibilità e frammentazione dei comportamenti dei consumatori,con la rapidità con cui il ciclo di vita di un prodotto si esaurisce è tra le cause della scarsa diffusionenelle imprese della moda dello strumento della ricerca di mercato (Sinha, 2001).

L’impatto dei saldi sul conto economico dei negozi è rilevante. Il risultato di cattiva selezionedell’assortimento per un negozio multimarca o la proposta di una collezione “sbagliata” è unaconsistente riduzione dei margini.

Per fronteggiare questo rischio, la risposta tipica del retail è stata, ma lo è ancora oggi, diimporre prezzi elevati sui cartellini dei capi venduti in stagione, che generano sovramarginidestinati a compensare i mancati margini delle vendite a saldo.

Un effetto collaterale del “knobody knows problem” è dunque quello di avere prezzi più altidurante la stagione, effetto che per oltre due decenni è stato accettato dai consumatori, che oggisono molto meno disposti ad accettare che in passato.

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1. 4 I costi della moda: moltiplicatori e margini dei negozi

Il nobody knows problem e i costi di gestione relativi alla funzione di aggiungere valoreimmateriale ai prodotti coinvolgendo il consumatore contribuiscono ad accrescere i moltiplicatoridi prezzo applicati dai negozi e i margini lordi.

In una recente dichiarazione il presidente dell’associazione nazionale dei calza-turifici hadichiarato che:

“il settore calzaturiero ha un mark up troppo elevato..! Sembrerebbe una battuta di spirito in boccaal presidente dei distributori di calzature, ma non è così. Non è così, perché se il mark up in Italia èindicativamente del 90-120 (sell-in a 100 e prezzo in vetrina 190-220) ed all’estero addirittura del 150-200, in tutto il comparto food e grocery è del 25 (sell-in a 100 prezzo sullo scaffale 125)”.

Depurato dall’effetto dei saldi, il margine lordo, tuttavia si ridimensiona, e tenuto conto deicosti di gestione il margine netto non si discosta troppo da quello medio della distribuzione.

Come si vede nella Figura 1, facendo l’ipotesi che il moltiplicatore che il negoziante applica alprezzo di sell-in sia del 2.2 (prezzo di sell-in 100, prezzo al consumatore 220) e che il ribasso mediodei saldi sia del 46%, se tutti i capi vengono venduti in stagione il margine lordo (al lordo dellespese di gestione) è del 55%, ma se la quota dei saldi arriva al 30% il margine lordo scende al 46%e se arriva al 50% scende al 38%.

Figura 1 Margini lordi sulle vendite in relazione alla quota dei saldi

Fonte: Hermes Lab

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Anche le funzioni di comunicazione, di rappresentare i contenuti simbolici ed estetici dei capie di marketing emozionale che il negozio svolge, hanno ovviamente effetto sui margini netti.

In questi casi i costi assumono sia la forma di investimento, trasmettendosi sui marginiattraverso il volume di ammortamenti, sia la forma di spese correnti con un impatto diretto sulconto economico.

Le spese con natura di investimento riguardano l’impianto del negozio, inclusa la key money(buonuscita): la progettazione e l’allestimento del negozio e il suo rinnovo periodico, secondo unciclo che può andare dai 3 ai 6 anni in relazione alla tipologia (Cietta, 2006).

Tra quelle di natura corrente vi sono invece costi di gestione come il visual e l’allestimento dellevetrine, il merchandising in-store, il personale e gli affitti. Ovviamente si tratta di spese che i negoziincontrano in qualunque settore merceologico, ma nella moda presentano alcune particolarità.

Per quanto riguarda i costi di allestimento dei negozi delle moda, due studi realizzati da HermesLab nel 2000 (Centro Einaudi-SISIM 2001) e nel 2006 (Cietta, 2006) mostrano come per questosettore la funzione centrale nel negozio nella rappresentazione dei valori simbolici e culturali delprodotto determini un incremento consistente dei costi, che si amplia al crescere del contenutomoda dei prodotti venduti e al posizionamento per fascia di prezzo.

A titolo di esempio un negozio di vicinato che tratta abbigliamento esterno di fascia bassa haun costo di progettazione e allestimento che si aggira sui 450/500 euro al mq, mentre per controun negozio di fascia alta ha un range di investimento che va dai 1.700 ai 3.000 euro; le boutiquesdelle griffe più importanti partono da cifre superiori ai 3.500 euro al mq. (Cietta, 2006) (Figura 2)

Figura 2 Costi di impianto e tempi di rinnovo dei punti vendita delle catene di negozi di abbigliamento

Settore Posizionamento Periodo di rinnovo Format distributivo Costo al mq del concept (anni) (Mg di superficie) (in euro)

Abb. Esterno Basso 5 120-200 450-550Abb. Esterno Medio 3-5 120-201 650-1250Abb. Esterno Alto 3-5 120-202 1700-3000Abb. Esterno Lusso 3 80-150 3500 e oltre

Abbigliamento Medio 6 oltre 1000 300-400Fonte: stime Hermes Lab (estratto da Ricchetti e Cietta, 2006)

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Le funzioni di comunicazione e marketing emozionale non si arrestano però sulla soglia delnegozio, si estendono anche all’esterno, in particolare nella scelta della location, che per i negozidella moda, soprattutto nei segmenti alti, ma non solo significa, scegliere le vie della moda nellecittà grandi e piccole.

Uno studio del 2003 (Nomisma-SISIM 2003) ha calcolato che nelle vie dei centri storici dellegrandi città la moda detiene una quota elevatissima - oltre il 43% solo per l’abbigliamento, il 58%considerando anche le calzature - del numero di negozi6.

Secondo Cietta (2006) è peculiare della moda attribuire una grande valore all’apertura dei puntivendita nelle strade universalmente riconosciute come deputate allo shopping modaiolo:

“Non si tratta infatti solo di sfruttare il traino e il flusso generato da marchi più noti come avvieneper centri commerciali; l’azienda emergente ha la necessità di usare il valore simbolico del puntovendita come segnale di appartenenza ad una selezione ristretta dei marchi che contano a livelloglobale. Il valore simbolico è particolarmente importante per segnalare ai propri clienti in giro peril mondo di rappresentare una realtà aziendale che conta e che ha credibilità sul mercato. In un settore in cui il prodotto è strutturalmente orientato al cambiamento, le regole degli scambiinternazionali sembrano richiedere credenziali non soltanto finanziarie, ma anche rispetto allacapacità di stabilire relazioni dirette con i propri (selezionati) consumatori. Il punto vendita all’interno di alcune zone commerciali è quindi un investimento di comunicazionee marketing prima ancora che commerciale sia nei confronti dei propri clienti/operatori delladistribuzione che dei propri clienti/consumatori.”

In un intervento alla CCIAA di Milano nel 2006, Arturo dell’Acqua Bellavitis, preside della Facoltàdi Design del Politecnico di Milano, si chiedeva se la moda, per il suo concentrarsi in alcune vie equartieri della città non costituisse per Milano un “fattore di strutturazione urbana” (Bellavitis 2006)e citava tre diverse e ben precise aree di localizzazione:

– il Quadrilatero: Via Montenapoleone, Via della Spiga, e una parte di Via Manzoni e Corso Venezia,dove si collocano le grandi firme della moda e i grandi sarti che creano per una clientelainternazionale ma ridotta, nei loro atelier situati nelle vie più note del mondo, ma estendono il loromercato a una più vasta clientela e si internazionalizzano. – La zona Ticinese / Navigli: esempio di “lenta e progressiva metamorfosi della città in marcia versoun completo restyling” diventata la meta prescelta dai nuovi stilisti, designers e artisti, in cui siallineano i negozi e i concept stores della moda giovanile dell’Urbanwear.– La zona Tortona: compresa tra il Naviglio Grande e via Solari che ha conservato memoriestoriche, del tessuto urbano ottocentesco e del successivo periodo industriale con fabbriche e

6. La ricerca ha preso inconsiderazione: Via Indipendenza, Via Farini(Bologna), Via deí Calzaiuoli,Via dei Tornabuoni (Firenze),Corso Vittorio Emanuele, Via Monte Napoleone(Milano), Via Scarlatti, Via Calabritto (Napoli), Viale della Libertà, Via Ruggero Settimo(Palermo), Via Condotti, Via Cola di Rienzo (Roma), Via Garibaldi, Via Roma(Torino), Corso Italia,

Via San Nicolò (Trieste), Via XXII Marzo, Strada Nova/Canna-regio (Venezia)

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residenze per gli operai. Le fabbriche dismesse si sono trasformate in laboratori, studi, e showroomattraendo nuove attività e caratterizzando ex novo la zona, con una forte presenza di attivitàconnesse alla moda, alla comunicazione e all’immagine.

La moda insomma si concentra in aree specializzate con un forte valore segnaletico: a Milanoad esempio il lusso nelle strade intorno a via Montenapoleone, il mass market delle catene a prezzobasso e medio nelle altrettanto centrali Corso Vittorio Emanuele e via Torino, la moda giovanile inzona Ticinese/Navigli, le showroom in Zona Tortona.

Il risultato è un razionamento dell’offerta di spazi commerciali che si traduce in affitti e costi disubentro (key money) molto elevati e pone il rilevante problema della crescita degli spazicommerciali, di cui per fare ancora l’esempio di Milano lo sviluppo dell’area Ticinese negli ultimi duedecenni è stato un esempio di successo.

Per questa ragione, i costi di subentro sono molto elevati7 e in continua crescita: escludendo icosti di progettazione e realizzazione del negozio, che per le griffes del lusso possono superare i3.500 euro al mq, la buonuscita in una via primaria del centro cittadino può raggiungere i 50 milionidi euro.

Pur escludendo le punte massime, anche per un negozio di 70/80 mq la buonuscita costituiscedi gran lunga la componente di investimento più importante. Se per un’azienda di moda che vuolesviluppare una propria rete commerciale diretta le dimensioni minime sono di circa 5/10 milionidi euro, nel caso di aperture in vie cittadine di altissimo prestigio tali dimensioni salgono a circa40/50 milioni di euro di fatturato.

Lo stesso si può dire per gli affitti, cresciuti nelle vie della moda a tassi del 5-6% all’anno nellaprima metà degli anni dieci e che hanno raggiunto in strade come via Montenapoleone a Milanoo via Condotti a Roma i 6.700/6.800€ annui al metro quadro (Figura 3).

Complessivamente quindi le tre componenti di valore immateriale del prodotto attribuibili alpunto vendita (progettazione, allestimento, locazione) rappresentano una quota tra l’11% e il15,5% del valore complessivo acquistato dal cliente (del prezzo di vendita NdR).

Si tratta di percentuali che dimostrano l’attenzione con la quale le aziende oggi progettano leproprie reti distributive e confermano l’importanza della componente immateriale del prodottogenerata dal layout e dalla location del punto vendita. (Cietta, 2006)

7. I costi di subentro vengonocontabilizzati comeinvestimenti immateriali e quindi ammortizzati in relazione agli anni residui di locazione, o se la vita utiledella locazione è indefinitautilizzando altri metodicontabili sulla base di quantoprevisto dai principi contabiliinternazionali IFRS (IAS38). Al momento della cessazionedel contratto d’affitto, il negozio generalmenteottiene, a sua volta, dal nuovo

entrante un fee di subentro(key money) contabilizzabilecome altri proventi

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Figura 3 Gli affitti per i negozi nelle vie della moda in Europa. 2010

Città Zone Miglia di € per mq - annoLondra New Bond Street 7,3Parigi Avenue des Chamos Elysèes 7,0Milano Via Montenapoleone 6,8Roma Via Condotti 6,7Zurigo Bahnhofstrasse 6,0Parigi Rue du Faubourg St Honorè 4,8Parigi Avenue Montaigne 4,8Londra Oxford Street 4,8Milano Via della Spiga 4,7Milano Corso Vittorio Emanuele 6,4

Fonte: Cushman&Wakefield

I fattori elencati (rischio e funzione di marketing-comunicazione del negozio) contribuisconoa spiegare gli elevati ricarichi (moltiplicatori) della distribuzione nella moda.

Il margine lordo medio dell’anno tiene conto dei ribassi nei saldi e il margine netto dei costi digestione peculiari della moda.

A semplice titolo esemplificativo nella Figura 1 è invece riportato un caso pratico, relativo alcanale e format più tradizionale della moda italiana, il negozio indipendente di fascia alta(boutique), di medie dimensioni e focalizzato su prodotti ad elevato contenuto moda.

Il caso in questione è uno dei più noti negozi della moda milanese con tre importanti puntivendita. E’ la tipologia di negozio su cui si è basato per oltre un ventennio il modello di business eil successo dei marchi del Made in Italy, oggi mes-so in difficoltà dall’emergere di nuovi modelli eformat, che offrono soluzioni meno costose ai problemi del nobody knows e della relazione con ilconsumatore.

Il moltiplicatore in questa tipologia di negozio è intorno al 2.5 o superiore, tuttavia l’elevataquota di saldi (dovuta alla specializzazione in prodotti moda) riporta il margine lordo al 41%,dedotti i costi di gestione (elevati come si è visto per i costi delle funzioni di comunicazione emarketing emozionale) si arriva ad un margine netto inferiore al 3%.

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Figura 4 Ricavi, margini e redditività di una boutique della moda

Voce Mln € %Ricavi 9,9Acquisti 7,0Margine lordo 41,5%Costi di gestione (servizi, affitto, costo del lavoro) 2,5Margine operativo netto (EBITDA) 0,2 2,4%Ammortamenti 0,1Capitale investito (Attivo netto) 5,4Rendimento dell’attivo (ROA) 4,3%Costi variabili (escluso costo del lavoro) 7,0Costi fissi (incluso costo del lavoro) 2,6

Fonte: elaborazioni Hermes Lab su bilanci aziendali

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Nel periodo d’oro del Made in Italy, dalla metà degli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta,il modello italiano della distribuzione della moda presentava tre principali caratteristiche:

– una numerosità molto elevata di punti vendita – un peso ancora significativo dell’ambulantato e dei mercati rionali che contavano per il 7,6%, peso peraltro che mantengono sostanzialmente inalterato anche oggi– una centralità del canale dei negozi indipendenti, la cui quota di mercato era a metà anniOttanta di oltre il 75% - contro una media europea in quegli anni già del 45% (oggi scesa al 34%).

Fino al termine degli anni Ottanta, la distribuzione al dettaglio italiana, non solo nella moda, èrimasta ingessata in questa struttura tradizionale e impermeabile allo sviluppo dei nuovi formatcommerciali (grandi superfici, libero servizio, catene) che in quegli anni si diffondevano in Europa,soprattutto a partire dalla Francia.

La stessa presenza dei grandi Department Stores o Grandi Magazzini - che nei Paesianglosassoni e nel nord Europa hanno accompagnato lo sviluppo della moda come mercato dimassa - è stata estremamente limitata (Figura 5).

E’ solo dai primi anni Novanta che il sistema distributivo italiano della moda ha cominciato atrasformarsi e a modernizzarsi, sostanzialmente importando nuovi format e modelli distributivi –spesso introdotti da insegne straniere al momento del loro ingresso sul mercato italiano - eriadattandoli alla realtà italiana.

Alla fine degli anni Novanta, la quota dei negozi indipendenti era scesa, ma restava ancoramaggioritaria (58% del mercato) per poi diminuire fino al 34%, mentre era esplosa la quota dellecatene, salita prima al 17% e poi al 27% dal 3% del 1986. Anche la grande distribuzione ha fattoregistrare una dinamica simile, con una progressione dal 5% al 18%.

Figura 5 La modernizzazione della distribuzione di abbigliamento in Italia. Quote di mercato per canale. 1986-2009

* Comprende outlet e negozi specializzati in articoli sportivi. Entrambi questi segmenti nel 2009 hanno fatto registrare una quota del 3% del mercato della distribuizioneFonte: elaborazioni Hermes Lab su dati SITA-Ricerca

2. L’evoluzione della distribuzione in italia dagli anni Ottanta ad oggi

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ALTRI

AMBULANTI

INDIPENDENTI

GDOCATENE

ALTRI

AMBULANTI

INDIPENDENTI

GDO

CATENE

ALTRI

AMBULANTI

INDIPENDENTI

GDO

CATENE

Malgrado i grandi cambiamenti, la rete distributiva in Italia resta ancora oggi estremamenteframmentata, con un numero elevatissimo di imprese e punti vendita sia in termini assoluti cherelativi alla popolazione.

Ancora nel 2007 il numero di abitanti impresa commerciale al dettaglio specializzatanell’abbigliamento8 è in Italia la metà (473) della media europea (938), un quinto della Germaniae meno di un sesto dei quello inglese (Figura 6), al 2010 il numero di abitanti per negozio ècresciuto a 603.

Figura 6 Negozi specializzati in tessile, abbigliamento e calzature: numero di abitanti per negozio (*) nei principali Paesi europei

* Calcolato come: abitanti/numero di imprese commerciali specializzate. Un’impresa commerciale può avere più punti venditaFonte: elaborazioni Hermes Lab su dati Eurostat

8. Calcolato come rapportotra il numero di abitanti e il numero di impresecommerciali specializzate nel tessile, abbigliamento e calzature. Il calcolo quindiesclude i negozi nonspecializzati che trattanoanche abbigliamento (es. Grandi Magazzini eipermercati). Si ricordi inoltreche un’impresa commercialepuò avere più punti vendita.Una catena con 20 negozi ad esempio è qui calcolata

come un’unica impresacommerciale

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United Kingdom

Germany

France

TOT. COMPLESSIVO

Italy

Spain

2007

2000

1996

0 1000 2000 3000 4000

Al 31 dicembre 2010, il numero di imprese del commercio al dettaglio specializzatenell’abbigliamento in sede fissa - esclusi quindi gli ambulanti - superava ancora le 100mila unità,con un numero complessivo di 158mila punti vendita e quindi una media di poco più di 1,5 puntivendita per impresa (Figura 1).

Dei 158mila negozi, 130mila sono specializzati nell’abbigliamento, 28mila nelle calzature epelletteria e 21mila in prodotti tessili (tessuti, biancheria per la casa).

A questi punti vendita si aggiungono quelli non specializzati, tra i quali hanno tradizionalmentesvolto un ruolo importante i Grandi Magazzini Oltre 1.000 punti vendita in Italia, sia per i volumiintermediati, che per essere stati il simbolo della modernizzazione del consumo e della societàitaliana, in particolare negli anni del boom economico.

Figura 7 Consistenza della distribuzione fissa al dettaglio dei prodotti moda. (numero di negozi) 2010

Dati al 31 dicembre 2010 Sede principale Altri p.vendita TotaleNon specializzati 3.964 11.238 15.202Ipermercati 49 612 661Supermercati 3.773 9.703 13.476Grandi Magazzini 142 923 1.065Specializzati 100.050 58.363 158.413

Prodotti tessili 17.667 3.530 21.197Articoli di abbigliamento 82.177 47.960 130.137Non specificato 43.446 29.865 73.311Confezioni per adulti 18.363 9.456 27.819Confezioni bambini e neonati 6.948 2.915 9.863Biancheria, maglieria, camicie 10.954 4.519 15.473Pellicce e abbigliamento in pelle 509 276 785Cappelli, ombrelli, guanti e cravatte 1.957 929 2.886Calzature e articoli in pelle 17.873 10.403 28.276Non specificato 752 205 957Calzature e accessori 13.839 8.026 21.865Articoli di pelletteria e da viaggio 3.282 2.172 5.454Fonte: Osservatorio Nazionale del Commercio

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La regione italiana con il più elevato numero di negozi è la Campania con quasi 15mila impresedi commercio al dettaglio e oltre 21mila negozi (1,42 negozi per impresa). La Campania è anchequella con la maggior densità di negozi: 276 abitanti per ogni negozio (Figura 8).

Al secondo posto per numerosità si trova la Lombardia: 10.513 imprese, 18.684 negozi. Perdensità di negozi la Lombardia - regione con 526 abitanti per negozio, il valore più elevato tra leregioni italiane - si trova all’estremo opposto dello spettro rispetto alla Campania.

Tra le altre regioni italiane quelle con il numero di abitanti per negozio più basso sono: Abruzzo(315), Liguria (322), Calabria (328), Basilicata (342), Puglia (345) e Sicilia (437), in queste regionianche il numero di negozi per impresa commerciale tende ad essere più basso della media, segnodi una maggiore presenza di negozi indipendenti singoli.

Tra quelle con l’indicatore più alto si trovano: Piemonte (453), Veneto (450), Trentino e Friuli(448) ed Emilia (402), in queste regioni anche il numero di negozi per impresa commerciale tendead essere più alto della media.

Figura 8 Numero di imprese al dettaglio e negozi della moda. Abitanti per impresa e per negozio. Per regione. 2010 (esclusi ambulanti)

Fonte: elab. Hermes Lab su dati Osservatorio Nazionale del Commercio

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Regione Imprese Negozi Abitanti/imprese Abitanti/negozi Negozo/impreseItalia 100.050 158.413 603 381 1,58Campania 14.881 21.095 391 276 1,42Lombardia 10.513 18.684 935 526 1,78Lazio 10.026 15.299 567 371 1,53Sicilia 9.929 14.521 508 347 1,46Puglia 8.215 11.832 497 345 1,44Emilia 6.619 10.944 664 402 1,65Veneto 5.899 10.914 833 450 1,85Toscana 6.249 10.605 597 352 1,70Piemonte 5.985 9.820 743 453 1,64Calabria 4.373 6.123 459 328 1,40Liguria 3.246 5.018 498 322 1,55Sardegna 2.729 4.677 613 358 1,71Abruzzo 2.596 4.252 516 315 1,64Marche 2.462 4.150 633 376 1,69Friuli 1.454 2.756 849 448 1,90Umbria 1.587 2.497 568 361 1,57Trentino 1.283 2.294 801 448 1,79Basilicata 1.224 1.721 481 342 1,41Molise 567 878 565 365 1,55Valle D'Aosta 213 333 600 384 1,56

Come si è già osservato, negli ultimi tre decenni la struttura per canale della distribuzione dellamoda in Italia è cambiata notevolmente, in particolare per il crollo della quota di mercato deinegozi indipendenti che a metà anni Ottanta contava per ¾ degli acquisti delle famiglia. Al 2009tuttavia gli indipendenti sono ancora il canale con la quota di mercato più ampia (Figura 9), circa1/3 degli acquisti.

Il canale che ha avuto la maggiore espansione è stato quello delle catene di negozi (28,1%degli acquisti), che ha ormai quasi raggiunto la quota di mercato dei negozi indipendenti.

Anche le Grandi Superfici e i Grandi Magazzini hanno aumentato la loro quota e hannoraggiunto il 15% del mercato.

L’elemento forse più interessante degli ultimi anni è però stata la rapida crescita di canalialternativi. In qualche caso si è trattato di un ampliamento delle vendite di abbigliamento/calzatureda parte di canali che in precedenza trattavano il vestiario come categoria minore marginale, inparticolare la tendenza all’ampliamento di gamma ha riguardato i supermercati - GDO food - e inegozi di articoli sportivi.

In altri casi – Outlet e Online - si è trattato di una trasformazione talmente radicale di formatidistributivi tradizionali – gli spacci e i cataloghi postali - che ne ha completamente alterato ilmodello di business, le strategie, l’organizzazione e il rapporto con i consumatori, e spinge aconsiderarli come canali del tutto nuovi.

L’insieme di questi nuovi canali rappresenta ormai circa 1/5 della spesa complessiva diabbigliamento delle famiglie e il suo sviluppo si inscrive in una tendenza a perseguire strategiemulticanale da parte di molti operatori, tendenza che il mercato della moda condivide con altrisettori dei beni di consumo.

Figura 9 Quote di mercato dei canali distributivi. Totale abbigliamento, 2009 (dati in valore)

Fonte: Sita Ricerca

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3.1 I negozi multimarca indipendenti

I punti vendita indipendenti multimarca in Italia al 2008 sono 51.900, (Figura 10) e possonoessere suddivisi secondo la specializzazione per prodotto, prezzo, ubicazione e layout.

La boutique/concept store offre un prodotto di fascia alta, è localizzato nelle vie centrali dellecittà o nei centri storici.

È in questa tipologia di negozi che vengono veicolate le prime proposte moda della stagione. Le vetrine delle boutique più note rappresentano un campionario dei prodotti che hanno più

probabilità di diventare il best-seller stagionale.Il loro investimento in comunicazione è molto alto e tra questi costi rientra anche la rendita

differenziale (in termini di canone di locazione o di costo opportunità di utilizzare muri di proprietà)pagata per la localizzazione in una via, tale da offrire la massima visibilità sia nei confronti delmercato locale che di quello internazionale (turisti, compratori stranieri).

Il negozio di confezioni tradizionale offre un prodotto più classico e di fascia inferiore rispettoalla boutique, pur mantenendo un posizionamento medio-alto.

Il negozio misto si rivolge ad un pubblico più eterogeneo sia per tipologia di prodotto (oltrealle confezioni, vende anche maglieria e camiceria) sia per fascia di prezzo (dalla medio-alta allamedio-bassa).

Una evoluzione del negozio misto è il negozio di moda giovane-unisex/jeanseria, che offre unprodotto di fascia medio-alta nel casual (camiceria, felpe, maglieria leggera, jeans) e di fasciamedio-bassa nel capospalla classico.

L'ultima categoria di una certa rilevanza è il negozio sportivo, che ha riconvertito/integratol’offerta iniziale di attrezzatura sportiva con l'abbigliamento per lo sport attivo e per il tempo libero.

I punti di forza dei negozi riconducibili alla categoria del multimarca indipendente, possonoessere sintetizzati su cinque punti: 1. la diffusione e prossimità sul mercato locale; 2. la conoscenzadei gusti dei clienti abituali, 3. la capacità di creare rapporti fiduciari con la clientela, 4. la capacitàdi selezionare all’interno delle collezioni presentate dai marchi e l’offerta personalizzata, 5. lagamma ampia di marchi e modelli.

Naturalmente a questa categoria sono riconducibili anche alcune criticità. Il negozioindipendente è infatti esposto più delle catene monomarca ad un rischio elevato di errore nella

3. I format distributivi

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selezione dell’offerta. La maggior parte dei negozi multimarca indipendenti segue il ciclotradizionale degli ordini stagionali. Ciò richiede di effettuare gran parte delle scelte di assortimentodiversi mesi prima dell’avvio della stagione di vendita, durante e subito dopo le fiere di settore – agennaio e febbraio per la stagione invernale successiva e a giugno luglio per l’estivo dell’annosuccessivo - quando ancora non tutti gli elementi che influenzeranno le scelte dei consumatori sonoancora definiti.

Un secondo aspetto critico è la raccolta e gestione dell'informazione sulle tendenze delmercato. Se si escludono i punti vendita nelle vie centrali delle città, la forza commerciale delnegozio indipendente si fonda su una conoscenza limitata quasi esclusivamente al mercato locale.Questo vantaggio competitivo oggi risulta però indebolito, rispetto alla situazione degli anniOttanta e Novanta, dall'allargamento dei confini del mercato potenziale: i consumatori sono piùdisposti a spostarsi per lo shopping e a scegliere tra una molteplicità di canali alternativi.

La logica della trasversalità delle mode richiede inoltre di specializzarsi in nicchie di stili diconsumo invece che in nicchie di consumatori (quelli abituali e di prossimità), come era solito fareil negozio indipendente.

Per queste ragioni, nell’ultimo decennio la formula degli ordini stagionali è stata sottoposta acontinue revisioni, ed è aumentata la quota degli ordini ad inizio stagione e dei riassortimenti e siè diffusa la pratica dei flash intra-stagionali, senza tuttavia alterare la connotazione strutturale dellaformula che presuppone un elevato rischio per il negoziante.

La possibilità di continui riassortimenti per piccoli lotti e, soprattutto, il continuo rinnovo delleproposte per allineare l’assortimento con i mutevoli gusti dei consumatori è invece resa più faciledall’adozione del modello del fast fashion, inizialmente introdotto dalle grandi catene, ma oggipraticato anche da una quota, sia pur ancora minoritaria dei negozi multimarca, almeno per quantoriguarda le fasce di prezzo bassa e media.

Un terzo significativo elemento di debolezza è il valore comunicazionale del punto vendita: seda un lato la forza comunicativa della vetrina offre un vantaggio al negoziante locale, dall'altro sirende necessario un coordinamento tra la comunicazione del prodotto e quella del negozio.

Per i produttori il negozio indipendente è un importante medium con il consumatore ma, allostesso tempo, è al di fuori della loro sfera di controllo diretto. Il commerciante, d'altra parte, nonha incentivi a «sottomettersi» alle strategie di comunicazione di uno specifico marchio industrialeche costituisce soltanto una delle sue fonti di reddito ed è in conflitto con quelle degli altri marchitrattati.

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3.2 Le catene di negozi

Sono soprattutto tre i vantaggi che il sistema organizzato delle catene ha sul negozioindipendente:

1. il miglioramento del flusso dei dati sugli andamenti delle vendite e delle scorte dai singolinegozi. Nei casi più sofisticati i magazzini periferici, la gestione degli ordini, il magazzino centralee gli input produttivi sono gestiti da un unico sistema informatico che consente di ridurre il tempodi risposta rispetto alle richieste del mercato. Questo abbattimento del time-to-market riduce ilrischio di mismatching tra la collezione e le scelte di consumo dei clienti e consente l’integrazionedell’offerta standard con collezioni flash infra-stagionali o addirittura continue.

2. l'ottimizzazione della logistica che è la diretta conseguenza del miglioramento della raccoltae della gestione dell'informazione. È soprattutto attraverso una razionalizzazione della logisticache le aziende di moda migliorano l’efficienza sia dal punto di vista produttivo che distributivo. Ladiminuzione dell’invenduto e del conseguente deprezzamento del prodotto è l’effetto piùconsistente di una gestione informatizzata della logistica produttiva e distributiva.

3. la comunicazione sul punto vendita coerente con l'immagine del prodotto. Anche nellaformula più soft di integrazione a valle (il franchising) l'affiliato ha più capacità e più incentivinell'operare in linea con la strategia comunicazionale dell'insegna. Il layout, la progettazione el'arredamento del punto vendita, il materiale informativo (brochure e houseorgan), gli allestimentidelle vetrine, le promozioni periodiche sono infatti elementi spesso disciplinati direttamente dalcontratto di franchising. Il rapporto con il consumatore è filtrato secondo modalità predefinite ein sintonia con gli obiettivi che l'azienda si prefigge.

E’ proprio quest’ultimo aspetto a risultare determinante per il successo delle catene nel modellodistributivo italiano. La spinta decisiva di questo processo nasce infatti dalla necessità dell’azienda diproduzione di non delegare il prodotto ad altri ed in particolare al sistema distributivo indipendente.

L’integrazione di molte aziende produttive verso la distribuzione è senza dubbio la variantenazionale di questo format, innovazione che comincia a prendere forma sin dall’inizio degli anni’90, trasformando il loro marchio in insegna.

La ragione è evidente: le aziende di moda investono molte risorse nella cura dell’immagine edel posizionamento presso il consumatore dei propri prodotti, cura che si traduce in una

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spasmodica attenzione nella scelta della location del punto vendita, del layout del negozio, dellaselezione dei prodotti sugli scaffali. Tutte attività sulle quali, con il crescere della competizione,occorre esercitare il massimo controllo e che diventano quindi più difficilmente delegabili a negoziindipendenti e multimarca e tanto meno alla mediazione di importatori o agenti plurimandatari.

Ciò ha finito per rendere più sfumato il confine tra produzione e distribuzione non solo comeesito di un’integrazione a valle di imprese di produzione, ma anche perché le stesse imprese delladistribuzione, per ragioni simili al produttore, seppure sul fronte opposto, hanno iniziato unaprogressiva integrazione a monte.

La crescita delle catene di negozi non ha caratterizzato solo il mercato interno: le aziende dimoda hanno infatti sfruttato la distribuzione diretta come strumento di internazionalizzazione,quasi a voler recuperare terreno sulla delocalizzazione produttiva che le aveva colte impreparaterispetto ai concorrenti nord-europei.

3.3 Grandi Magazzini

Oltre che la prima forma di distribuzione organizzata, il grande magazzino è statonell'abbigliamento, storicamente, il primo canale ad introdurre la produzione industriale di seriee il libero servizio.

I punti vendita sono generalmente situati nei centri urbani (spesso nelle vie più centrali) ehanno dimensioni superiori ai 400 metri quadri.

Proprio la loro ubicazione favorisce lo sviluppo verticale della superficie di vendita, strutturatasu diversi piani occupati da reparti specializzati.

L'offerta è orientata al non-food e divisa in macro-aree merceologiche. All'interno di una stessamerceologia, tuttavia, sono possibili divisioni secondo categorie di prodotto, marchio aziendale einfine secondo stili di consumo.

È frequente l’introduzione di un marchio del distributore (private label) a prezzi inferiori a quellidei marchi industriali, il che permette al distributore stesso di accaparrarsi una maggior quota divalore aggiunto e di migliorare nel consumatore la percezione dell’insegna.

Il Grande Magazzino in senso stretto ha un'offerta piuttosto ampia e profonda, e generalmentesi colloca nella fascia medio-alta, sia pure a prezzi inferiori rispetto a quelli del dettaglio specializzato.

Il magazzino popolare è invece una formula più orientata al prezzo: qui l'ampiezza di gamma è

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sacrificata a favore del contenimento dei prezzi medi. L'ubicazione può essere anche semiperiferica,per sfruttare una maggiore area piana di sviluppo.

Un punto di forza dei grandi magazzini, per entrambe le formule, è certamente la possibilità diaccostare più tipologie di prodotto, sia nell'area persona che nell'area casa (e nell'alimentare).

Per quanto riguarda invece gli elementi di debolezza, si può dire che la formula del grandemagazzino, che fino alla fine degli anni Novanta è stato uno dei principali traini dellamodernizzazione della distribuzione della moda, incontra da qualche anno forti difficoltà e perdeterreno nel confronto con altre forme di distribuzione organizzata.

Manifestazioni della crisi di questa formula distributiva si trovano in quasi tutti i grandi Paesi europei: – in Germania con il fallimento nel 2009 di Arcandor, il più importante operatore del settore,nato dalla fusione di Karstadt (il maggior department store tedesco) con il leader delle venditeper corrispondenza Quelle. Fino al 2008 Arcandor si trova ancora in cima alla classifica deimaggiori retailer al dettaglio di abbigliamento in Germania con 4.116 milioni di euro di venditenell’abbigliamento. L’arrivo della crisi finanziaria del 2008, ha portato il gruppo a dichiarareinsolvenza nel giugno 2009 e a chiedere l’intervento pubblico per evitare il fallimento – nel Regno Unito, dove Marks&Spencer (il simbolo stesso del modello del department store)dopo la crisi che lo ha portato quasi alla chiusura alla fine degli anni Novanta e la faticosasuccessiva ripresa, per la prima volta nel 2010 è stato superato da Arcadia Group comeprincipale gruppo della distribuzione inglese– in Italia negli ultimi anni il più importante department store italiano, il Gruppo Coin ha avviatouna revisione significativa della formula ampliandone le potenzialità sia verso il modelloemergente del fast fashion, con l’insegna OVS Industry, sia verso il lusso con l’apertura di unnuovo format nel centro di Milano – sempre in Italia, l’insegna storica simbolo dei department store italiano, La Rinascente è statoceduto ad un gruppo tailandese nel maggio del 2011. La Rinascente aveva subito seguito latendenza sviluppatasi negli anni Novanta a rinnovare la formula destinando una quota rilevantedello spazio espositivo alla creazione di corners dei grandi marchi dell'abbigliamento, cercandodi conciliare la grande dimensione con una maggiore personalizzazione dell'offerta attraversouna disposizione dei prodotti per stili di vita. Il miglioramento della frequenza di rinnovodell'assortimento, delle modalità espositive e della qualità dei servizi (ad esempio, la sartoria)ha contribuito a giustificare l’aumento del prezzo medio del venduto.

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Figura 10 Numerosità dei negozi per format. 2000-2009

Fonte elab. Hermes Lab su dati Dimark, Sita Ricerca, Ministero Sviluppo Economico

3.4 Le grandi superfici specializzate

Nelle statistiche delle società di ricerche di mercato le grandi superfici specializzatenell’abbigliamento sono assimilate agli ipermercati, sia perché la loro quota di mercato è ancorapiuttosto marginale, sia perché storicamente la formula di questa tipologia distributiva si colloca in unsegmento di mercato molto simile. Le grandi superfici specializzate si caratterizzano per una dimensionemedia superiore ai 500 metri quadri e di norma appartengono a organizzazioni più complesse, anchese in Italia non mancano casi di punti vendita indipendenti. Hanno solitamente un'ubicazione periferica,o al più semiperiferica, per contenere i costi e sfruttare la disponibilità di parcheggio.

Punto di forza delle grandi superfici specializzate certamente la capacità di offrire un ottimorapporto qualità/prezzo dei prodotti, nonché, una ottima proposta per ampiezza e profondità digamma. Si tratta infatti di un'offerta specializzata nell'abbigliamento (anche se possono essere inseriti

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2000 2009 %2000 %2008MULTIMARCA INDIPENDENTI(2000 e 2008) 66130 100 51900 100Esterno 33000 50 25450 49Intimo 7580 11 6800 13Mercerie 17400 26 12600 24Abb. Sportivo 4150 6 3600 7Abb. Bambino 4000 6 3450 7CATENE MONOMARCA 11710 100 16100 100Esterno 8000 68 10200 63Intimo 1900 16 2800 17Abb. Sportivo 1260 11 2450 15Abb. Bambino 550 5 650 4GRANDI MAGAZZINI 1072 1415IPERMERCATI 349 570GRANDI SUP.SPECIAL. (2002-2009) 255 396AMBULANTI (2005 -2009) 63181 66560OUTLET n.d 600

accessori e tessile casa), ma trasversale ai diversi segmenti (esterno uomo e donna, intimo, infanzia,ecc.) e pensata per risultare funzionale per tutto il nucleo familiare, nella logica del one-stop-shop.

Rispetto agli ipermercati, l'assortimento è molto più ampio e il concept distributivo è orientatoverso consumatori più esigenti. Si cerca di rafforzare nel consumatore la percezione di un effettivorisparmio nella spesa familiare piuttosto che puntare sulla banalizzazione del consumo.

Un altro punto di forza del canale è l'industrializzazione dei servizi post-vendita, con losfruttamento delle economie di scala nell'offerta di servizi pre e post-vendita (parcheggi, sartoria,Kinderheim, gestione dei resi, ecc.).

Sul mercato interno, la crescita della quota di mercato dipenderà necessariamente dallacapacità di offrire un prodotto di qualità a prezzi contenuti, ma soprattutto non banale, ossia noneccessivamente svuotato di un contenuto moda.

Benché il raggiungimento di una dimensione nazionale sia una conquista abbastanza recenteda parte di insegne che fino a poco tempo prima rimanevano concentrate soprattutto nel Nord-Est del Paese, esempi significativi di grandi superfici specializzate in Italia non mancano.

Fra i più importanti c’è Sorelle Ramonda, insegna che punta più alla qualità del prodotto cheal servizio e che si colloca all'interno di centri commerciali o aggregati commerciali periferici;oppure nel segmento sportivo, Sport Specialist e Cisalfa che resistono alla aggressività sui prezzidel leader europeo Decathlon. Anche in questo caso, la formula del servizio post-vendita a prezzicompetitivi o addirittura inclusi nel costo del prodotto costituisce un elemento di fortedifferenziazione rispetto al canale indipendente.

3.5 I Factory Outlet Centers

Come si è osservato a proposito della natura del business le perdite derivanti dalla percentualedi produzione che a fine stagione resta invenduta sono uno dei principali problemi delle impresedella moda.

La selezione dei creativi, le politiche marketing, la scelta di canali distributivi, gli stessi modelliorganizzativi della filiera sono tutti strumenti per ridurre i rischi di invenduto. Ma per quanto si cerchidi minimizzarle restano una costante di ogni stagione. E’ quindi necessario mettere a punto formuledi gestione delle rimanenze di fine stagione. In un contesto in cui le decisioni in questo campo sonoparticolarmente delicate e incorporano rischi di valorizzazione del marchio e possono ingenerarenei consumatori l’effetto rinvio degli acquisti in attesa dei saldi, le pratiche di gestione delle rimanenzesi sono evolute sviluppando canali di vendita paralleli a quelli dei saldi nei negozi tradizionali.

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In questo ambito, le formule sono state quelle dello spaccio, dello stocchista e successivamedell’outlet.

Il pericolo di un «inquinamento» del mercato e la mancanza di un controllo diretto sulladestinazione finale del prodotto hanno indotto molte aziende a sfruttare spazi commerciali diproprietà e localizzati nelle adiacenze dei propri stabilimenti.

Lo spaccio ha così assunto una funzione aggiuntiva a quella tradizionale di offrire prodotti aprezzi scontati ai propri dipendenti ed è diventato un canale di smaltimento dell’invenduto.

Dai primi esperimenti, molto spartani, si è passati a formule più evolute, con un layout piùaccattivante e ricercato e con servizi di assistenza all'acquisto per i quali frequentemente venivanocoinvolti gli addetti dell'area commerciale.

Con questa evoluzione, se da un lato è andata progressivamente riducendosi la percentuale disconto per il consumatore, dall'altro lato si è rafforzata la possibilità per il produttore di effettuareuna sorta di test commerciale sui consumatori.

Lo stocchista inizialmente è stato soprattutto il venditore ambulante a cui i produttoriaffidavano l’invenduto di stagione per essere proposto a prezzi molto basi e senza marchio neimercati rionali, ma già alla fine degli anni Novanta ha spesso cominciato ad organizzarsi con puntivendita stabili e anche piccole catene e a non rispettare il vincolo dell’assenza del marchio odell’indicazione del produttore, il marchio, tolto dal capo veniva in ogni caso esibito sullo scaffale,pratica ovviamente non gradita ai produttori, in qualche caso si è anche occupato di reimmetterei capi nel circuito principale delle vendite, in canali distributivi diversi, ad esempio negli ipermercati.

L’inopportunità di queste pratiche per il produttore e la quota significativa di mercato chequesto canale ha cominciato ad occupare hanno stimolato la ricerca di nuove formule da partedelle imprese, che con i Factory Outlet hanno rivitalizzato l’idea della vendita diretta, cambiandonetotalmente caratteristiche e funzioni rispetto alla formula dello spaccio.

La formula moderna e di maggior successo nell’ultimo decennio di vendita diretta degliinvenduti di stagione è quella dei Factory Outlet Center (FOC). Sviluppatasi negli Stati Uniti attornoagli anni Ottanta, questa formula si è sviluppata notevolmente in Europa, prima nelle periferie diParigi e Londra poi, in misura molto consistente, in Italia.

I FOC sono per lo più localizzati lungo le grandi arterie di collegamento e propongonoun'offerta di medio-alto livello (fino ai marchi più prestigiosi). Generalmente occupano unasuperficie di 13-16.000 metri quadri e raggruppano 30-40 spacci.

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Figura 11 Il modello insediativo del Factory Outlet Centre

PRINCIPIOAggregazione spaziale di più punti vendita specializzati monomarca,

INSEDIATIVOesercizi di vicinato e medie superfici di vendita, con configurazioneinsediativa di tipo areale.In ambiti extraurbani, con buona dotazione infrastrutturale ad alta accessibilità, spesso in prossimità di un asse autostradale, spesso a

LOCALIZZAZIONE vocazione turistica secondo una logica simile a centri commerciali extraurbani. Connotazione urbanistica simile alle grandi superfici di vendita, pur nel quadro di una diversa organizzazione interna.

AUTORIZZAZIONE Autorizzazione commerciale generalmente di competenza comunaleE ATTUAZIONE e regionale. Attuazione unitaria dal punto di vista urbanistico.URBANISTICA

Sono organizzati per sfruttare le sinergie e le capacità di vendita dei diversi CAPACITà "marchi" e l’integrazione con altri format di offerta legati a tempo libero DI ATTRAZIONE e intrattenimento, ai servizi di ristorazione, alla promozione turistica.

Bacini gravitazionali estesi di scala sovracomunale (interprovinciale e interregionale).

Figura 12 Tipologie di Factory Outlet Center per superficie e periodo di maggior sviluppo

Soglia dimensionale Formula distributiva Periodo di sviluppoDa 50 a 1.500mq Spaccio 1970-90Da 150 a 3.000ma Stocchista 1980-90Fino a 6.000mq Outlet park 1990-2000Oltre 9.000mq Outlet village 2000-oggi

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3.6 e-Commerce

Lo sviluppo dell’e-Commerce nel mercato della moda è stato un fenomeno inatteso per velocitàdi sviluppo. Inatteso dagli stessi operatori di tutta Europa (i casi riferiti più sotto relativi al mercatoinglese sono in questo senso significativi) che solo pochi anni fa erano molto scettici sullepossibilità di sviluppo di questo canale nella moda.

Lo scetticismo era basato sulle considerazioni riguardo al ruolo cruciale dello spazio fisico delnegozio, a cui si è fatto riferimento anche nella prima parte di questo studio. Lo scetticismo hadeterminato in qualche caso il ritardo nell’avvio di sperimentazioni di e-Commerce, in altri casil’avvio di sperimentazioni molto leggere e poco innovative che si limitavano a riprodurre sul webmeccanismi simili a quelli sperimentati nel passato dai predecessori dell’e-Commerce: i cataloghidi vendita postali.

Il canale dei mail order in Europa ha avuto grande diffusione in Germania che oggi dopo gliUSA, è il più grande mercato mondiale con circa 15 miliardi di Euro di vendite. Rilevante è anchela sua diffusione in Francia e nel Regno Unito, mentre non ha mai registrato un successo in Italia.

L’arrivo di internet ha permesso, prima agli specialisti dei cataloghi postali, poi via via a glioperatori degli altri canali tradizionali di sviluppare strategie di integrazione multicanale,aggiungendo quello via internet al tradizionale canale di vendita, strategia che va comunementesotto etichetta di click and mortar e che rende oggi più labili che nel passato i confini tra i canali.

Tra i primi a muoversi con investimenti significativi su web sono stati gli operatori tedeschi, apartire dalla solida base dei cataloghi postali.

Gli e-tailers tedeschi sono oggi tra quelli che ne possono trarre un importante vantaggio. Otto-Versand è già il secondo più grande retailer mondiale dopo Amazon ed ha recentemente avviatoanche una linea di acquisti su telefonia mobile.

Il salto di qualità si è però avuto quando l’e-Comemrce ha smesso di essere una versionemoderna dei cataloghi postali ed è riuscito a riprodurre, modernizzandole e arricchendole moltedelle caratteristiche dei canali tradizionali.

E’ ad esempio il caso del canale della gestione degli invenduti (stocchisti e outlet) che ha ispiratola rivoluzione di Yoox, il maggiore on-line store italiano della moda italiana, con una presenzasignificativa anche sui mercati esteri, attraverso versioni del sito di e-Commerce dedicate,specializzate per i diversi mercati europei (lingua, livello dei prezzi, scelta dell’assortimento).

L’idea che ha portato al grande successo di Yoox è stato portare, attraverso il web, a tutti iconsumatori e con facilità l’opportunità di acquistare a prezzi ridotti i capi delle stagioni precedenti,in particolare delle grandi griffes e dei marchi della moda a prezzi molto convenienti.

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Nel caso di Yoox il modello iniziale di business si è sviluppato in senso multicanale, da un latosi è ampliata la gamma dei prodotti, non più formata soltanto dai capi a prezzi ridotti dalle stagioniprecedenti, ma anche da capi trendy della stagione in corso.

Yoox, inoltre offre la sua piattaforma per lo sviluppo di negozi virtuali mono-brand ai marchinoti della moda, garantendo servizi di standard molto elevato, sia sotto il profilo informatico cheriguardo alla gestione delle informazioni raccolte presso gli utenti che entrano nei negozi virtuali.

Figura 13 % di individui che ha effettuato acquisti di vestiario in Internet nell'ultimo anno(*) dati 2008

Fonte: elab Hermes Lab (2010) su dati Eurostat

Come accade per i negozi materiali, tuttavia i modelli di business applicabili all’e-Commerce sisono tuttavia moltiplicati e vanno dalla riproduzione delle caratteristiche dei negozi mono-brandalla gestione integrata multi prodotto dei department stores.

E’ interessante a questo proposito l’esperienza sul mercato inglese, quello in cui oggi l’e-Commerce sta crescendo più velocemente.

Come sul mercato tedesco, gli operatori che hanno dato inizio alla crescita dell’e-Commece nelRegno Unito sono quelli che precedentemente operavano con i cataloghi postali, che si sonoriconvertiti ad internet come ASOS, Boden, o Artigiano (specializzato in prodotti italiani).

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Il boom degli ultimi anni, dal 2007-2008 in poi, è stato però trainato dalle insegne tradizionali,con l’ingresso in questo canale di gran parte dei big players e della distribuzione di abbigliamentocome Next, Marks&Spencer (che ha una partnership con Amazon), Arcadia Group, Debenhams,Monsoon, Tesco, Peacocks, New Look, e John Lewis.

Littlewoods si è invece sviluppata da insegna di department store a retailer a operatore di e-Commerce con Littlewoods.com, uno dei brand di direct shop (1,2miliardi di euro di vendite).

Il comparto abbigliamento, calzature ed accessori è il primo per crescita tra i settori dell’e-Commerce inglese. E gli operatori del settore stanno scalando la classifica dei più importanti sitidi e-Commerce del Regno Unito. Secondo uno studio CapGemini nel 2008 le vendite on-line diabbigliamento sono cresciute del 30%.

Negli ultimi due/tre anni lo sviluppo on-line è stato quindi molto rapido, probabilmenteinaspettato per gli stessi operatori. Debenhams ad esempio ha dichiarato che la scelta di investiresignificativamente nelle vendite on line è avvenuta, a fine 2006, solo dopo che un web-sitesperimentale era stato sommerso in poche settimane da richieste d’acquisto. Tesco dopo averavviato il web-site a fine 2007 ha interrotto le operazione on-line nell’abbigliamento per valutarneil ritorno, a settembre 2009 ha rilanciato il sito con un catalogo di 3.500 linee di prodotti (1000 deiquali disponibili solo on-line) e 20 marchi.

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Il mercato dei consumi di abbigliamento in Europa è fortemente concentrato in pochi Paesi. I primi quattro mercati Italia, Germania, Francia e Regno Unito pesano per circa 2/3 del totale

dei consumi europei di abbigliamento (Figura 14).In ciascuno dei 4 mercati il sistema distributivo presenta peculiarità nazionali. Come si è già osservato, l’Italia si distingue per una quota di mercato elevata dei negozi

indipendenti nettamente più elevata che negli altri tre grandi mercati e paragonabile solo a quelladella Spagna.

All’estremo opposto dell’Italia si trova il Regno Unito dove la quota degli indipendenti è scesasotto il 10%, e la Francia dove la quota è sotto il 20%.

Sia in Francia che in Germania la quota di mercato più elevata è detenuta dalla catenemonomarca. Anche nel Regno Unito la quota più elevata è detenuta dai monomarca anche se, lagrande tradizione britannica dei department stores resta, pur con molte difficoltà particolarmenteimportante con una quota di mercato prossima al 25%.

Figura 14 I principali mercati europei dell'abbigliamento: composizione % 2008

Fonte: elaborazioni Hermes Lab su dati Eurostat

4. I grandi mercati europei dell’abbigliamento

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Figura 15 Quota % di mercato del dettaglio indipendente nei principali Paesi UE: totale abbigliamento 2008

Fonte: elaborazioni Hermes Lab su dati IFM e Sita Ricerca

4.1 Un approfondimento geografico: Germania e Regno Unito

LA GERMANIACon circa 71 miliardi di Euro di consumi di vestiario, di cui quasi 60 miliardi di abbigliamento,

la Germania è il più grande mercato europeo dopo l’Italia. Dopo un lungo periodo di stagnazione-contrazione, in cui la dinamica del vestiario si era

separata, in peggio, da quella dei consumi generali, dal 2005 i consumi di vestiario hanno ripresoquota.

La distribuzione è molto concentrata: i primi 12 retailer rappresentano 1/3 di tutte le vendite.Il canale più importante è diventato quello delle grandi catene (29% del mercato). Una peculiarità del canale dei negozi indipendenti (in forte calo) è il sistema di

approvvigionamento che passa per grandi gruppi d’acquisto (è associata a gruppi d’acquisto circala metà dei dettaglianti indipendenti).

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Tra il 1992 e il 2007, il numero di imprese nel commercio al dettaglio di abbigliamento è scesoda 37mila a 26mila (-27%), lasciando spazio alla grande distribuzione.

A negozi di abbigliamento si aggiungono quasi 10mila retailer del tessile (casa, stoffe a metro,ecc.) e quasi 8mila retailer delle calzature.

I dettaglianti di abbigliamento sono stati costretti a continue politiche di trading down, alcontinuo inseguimento dei consumatori attenti al prezzo, sia attraverso il contenimento dei listiniper i brand più noti che con l’introduzione di private label.

L’unico segmento finora riuscito a sottrarsi a questa tendenza è quello del lusso, peròcomplessivamente ridimensionato dal trend verso acquisti cheap.

Il canale più aggressivo è stato nell’ultimo decennio quello delle catene: sia quelle internazionalicome H&M, Mango, ZARA, sia quelle locali come C&A (belga/tedesca) Vero Moda o Tally Weij.

Ne sono state influenzate anche le politiche di approvvigionamento:– sul piano della selezione geografica dei fornitori, come si vede dalle statistiche sull’originedelle importazioni– sul numero dei fornitori, che le catene hanno ridotto compattando la supply chain;– sulla tipologia del rapporto, il modello è quello della filiera PULL o del replenishment oncustomer demand, la gestione informatizzata e lo scambio elettronico dei documenti è unacondizione indispensabile sui tempi di approvvigionamento (secondo una recente indaginedi Textilwirtschaft il 69% dei retailer tedeschi intende incrementare gli acquisti sul breve,seguendo le tracce del modello del fast fashion).

La concentrazione è proseguita negli anni recenti. Secondo la Bundesverband des DeutschenTextileinzelhandels (BTE), tra il 2001 e il 2007 i retailers con vendite inferiori ai 5mln di Euro (negozisingoli o micro catene di pochi negozi) hanno perso 6 punti percentuali di quota di mercato, quellicon fatturato tra 5 e 100mln di Euro ne hanno persi solo 2 e il ristretto gruppo dei retailers con oltre100 milioni di Euro di fatturato (29 grandi operatori) ne ha guadagnati quasi 9.

Al 2008, i primi 3 retailers contano per il 15% del mercato, i primi 7 per il 25% e i primi 12 per 1/3. La quota di mercato dei negozi indipendenti (25% delle vendite) è simile a quella francese e più

elevata di quella inglese, ma molto più bassa che in Italia. Le catene pesano per quasi il 30%, menoquindi che nel Regno Unito e in Francia, ma nettamente più che in Italia.

In passato, in Germania come in Italia e diversamente che in Francia e Regno Unito, i piccolinegozi indipendenti hanno avuto un ruolo importante nella vendita al dettaglio di abbigliamento.

Alla metà degli anni Sessanta la loro quota era ancora del 60%, ma già alla fine degli anniNovanta era scesa sotto al 30%. Allo stesso modo, la quota delle grandi superfici specializzate

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multimarca, come ad esempio Breuninger, un grande retailer di fascia medio-alta, sul modello Coin,con base a Stüttgart e con punti vendita nella maggiori città di tutta la Germania, che fino all’iniziodegli anni Novanta avevano spiazzato gli indipendenti, si è a sua volta progressivamente ridotta.

Alcuni dei maggiori player di questa categoria alla metà del decennio in corso hannoabbandonato il mercato, come ad esempio Hettlage e Boecker, rispettivamente quarto e quintoretailer multimarca specializzato fino ai primi anni del decennio in Germania.

Lo stesso è avvenuto per i grandi magazzini non specializzati, come Karstadt o Kaufhof, permolti dei quali si è trattato di un calo assoluto del fatturato.

Il mantenimento di posizioni di leadership ha richiesto ai maggiori operatori di perseguirestraregie multicanale attraverso acquisizioni. La più importante è stata quella di Karstadt, che haacquisito Quelle nel 2005, il più importante operatore delle vendite per corrispondenza con lacreazione di KarstadtQuelle AG poi confluito nel gruppo Arcandor.

Facendo leva su un’efficiente logistica e una maggiore flessibilità e rapidità dell'offerta le catenespecializzate, spesso denominate in Germania retailer verticali hanno, al contrario, registratonell’ultimo decennio tassi di crescita elevati ed incrementi delle quote di mercato. Gli esempi vannodalle catene internazionali come H&M o Zara o il danese Bestseller a quelle nazionali come NewYorker o Bonita.

La loro crescita è stata cosi massiccia e continua da rappresentare oggi il maggiore pericoloper le formule tradizionali.

A questo riguardo, secondo uno studio di KPMG Deutsche (2006) gran parte dei retailerstradizionali che non hanno sviluppato una integrazione di filiera a monte sono schiacciati tra:

– le politiche di prezzo aggressive, dei discount anche non specializzati, come ad esempioLidl (oltre 1mld di Euro di vendite nell’abbigliamento, secondo le stime di TextilWirtschaft),altro canale storicamente più importante in Germania che negli altri Paesi europei– la freschezza delle catene fast fashion, in grado di rinnovare l’offerta rapidamente e più voltein una stagione– le private label a prezzi contenuti della Grande Distribuzione (iper, super e discount) comeMetro o Tengelmann che sono stati in costante crescita nell’abbigliamento negli ultimi diecianni e che hanno ampliato la quota dell’ abbigliamento nella gamma offerta.

Una peculiarità della distribuzione tedesca è il peso del canale delle vendite per corrispondenza(15% del mercato). La consuetudine dei consumatori tedeschi ad utilizzare questo canale è unpotente traino per l’e-Commerce.

In Germania un consumatore su 4 nel 2008 ha acquistato capi di vestiario su internet. Una quota

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decisamente più elevata di quella media europea, di poco superiore anche a quella inglese eincomparabile con la situazione italiana.

Secondo un recente studio di AGOF, società tedesca specializzata nell’e-Marketing, il 72% (paria 31 milioni di consumatori) degli utenti di internet in Germania si dichiarano interessati alla modain generale (abbigliamento e scarpe) e il 53% degli internauti (circa 22 milioni di persone) cercanoinformazioni per l’acquisto di capi di abbigliamento on-line. Il 34,7% (quasi 15 milioni di persone)ha già comprato capi di moda su internet, una percentuale leggermente superiore a quella rilevatada Eurostat che però si riferisce agli acquisti effettuati negli ultimi 12 mesi.

Utilizzando i giusti servizi di e-Commerce, questo canale rappresenta quindi uno sbocco diparticolare interesse sul mercato tedesco. La circostanza che uno dei maggiori operatori europeinell’e-Commerce della moda sia italiano (Yoox, 101 milioni di euro nel 2008, di cui il 49% sonoesportazioni in altri paesi dell’UE, tra i quali la Germania ha un peso importante) rende il canaledell’e-Commerce tra quelli da esplorare con particolare attenzione.

REGNO UNITOCon quasi 58 miliardi di Euro di consumi di vestiario, di cui più 49 miliardi di abbigliamento, il

Regno Unito è il terzo mercato europeo dopo l’Italia e la Germania.In questo paese, i consumi di vestiario crescono più della media europea, soprattutto in volume.

Il decennio in corso è infatti caratterizzato da una marcatissima discesa dei prezzi medi (-41%nell’abbigliamento donna tra il 1998 e il 2008), anche in conseguenza di importanti cambiamentinel comportamento d’acquisto dei consumatori.

La distribuzione è la più concentrata d’Europa: i primi 10 retailer rappresentano la metà delmercato, i primi 3 oltre 1/3 del mercato. Il settore è dominato da insegne come Arcadia,Marks&Spencer e Next e nelle calzature C&J Clark e Stylo.

Catene, iper-super e discounter hanno sottratto quote di mercato soprattutto ai department stores.Gli indipendenti sono focalizzati sulle fasce alte del mercato e l’e-Commerce è in crescita

rapidissima.Tra il 2000 e il 2008, il numero dei retailer specializzati è sceso da 14mila a 13.500 (-27%), ma è

in ripresa dal punto di minimo del 2003, quando il numero era sceso a 13mila. Sono invece incontinua discesa gli specializzati nelle calzature, da 4.600 nel 2000 a 3.600 nel 2008.

Nell’ultimo decennio, i leader tradizionali hanno subito la concorrenza di numerosi nuovientranti che hanno innovato i format distributivi, tra i quali i più significativi sono le cateneinternazionali Zara, H&M e Gap e i discounters inglesi come Primark e Matalan.

Una ulteriore minaccia ai leader è venuta dai super e iper mercati, una tendenza che nel Regno

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Unito ha avuto una tappa importane a fine anni Novanta con l’acquisizione shock di ASDA da partedi Wal-Mart e l’ introduzione della linea di abbigliamento low price George.

Nel Regno Unito, a differenza che nei paesi come l’Italia, il format messo in difficoltàdall’evoluzione del mercato non è quello degli indipendenti, ma quello dei department stores, chehanno rappresentato fino agli anni Novanta la colonna portante della distribuzione di abbigliamento,primo fra tutti Marks & Spencer, dominatore incontrastato fino alla fine degli anni ‘90.

Sia rispetto alla diffusa pratica dell’approvvigionamento verso fornitori extra-europei siarispetto all’evoluzione delle forme di distribuzione, un elemento decisivo è stata la crescita delmercato Value for Money.

Il mercato inglese si è infatti sempre caratterizzato per elevati volumi d’acquisto (in numerocapi acquistati procapite) con bassi prezzi unitari. La tendenza, già presente negli anni Novanta siè accentuata notevolmente nell’ultimo decennio, in cui i prezzi medi dell’abbigliamento nel RegnoUnito sono scesi rapidamente.

A fronte di un indice generale dei prezzi in crescita, nei 10 anni tra il’98 e il 2008 i prezzi delvestiario sono scesi del 21% nell’abbigliamento esterno uomo, del 41% nella donna, del 26% nelbambini, del 7% nelle calzature.

Secondo Eurostat nel 2007 mediamente i prezzi erano del 25% più bassi che in Italianell’abbigliamento e del 20% per le calzature.

Il trading down ha interessato soprattutto i canali delle catene e dei super-iper mercati, ma adesso può venire assimilato anche il canale dei discount che rappresenta nel 2008 1⁄4 del mercatototale, con punte elevate in particolare per l’abbigliamento bimbo.

L’abbigliamento bimbo infatti è un mercato di grande successo per il segmento di basso prezzo,la cui quota è cresciuta in 5 anni dal 26% al 36%. Secondo uno studio di Verdict i fattori chedeterminano la sensibilità al prezzo nell’abbigliamento bimbo sono due, il primo è strutturale:l’alta frequenza degli acquisti che seguono la crescita dei bambini; il secondo è stato l’aumentodegli acquisti effettuati direttamente dai ragazzi nel segmento oltre i 10 anni, stimolato da unamaggiore attenzione alla componente moda.

Non meno rilevante è la quota di acquisti di prodotti di basso prezzo nell’abbigliamento donnache nel decennio è cresciuta dal 18% al 23% (l’abbigliamento donna è oltre la metà del segmentovalue nel 2008).

I due leader del trading down sono il discounter Primark (1,9 miliardi di Euro di fatturato) chesecondo le stime di Verdict detiene il 18,5% del mercato value e ha superato nel 2008 il marchioGeorge della catena di supermercati ASDA, a cui invece è attribuita una quota del 16,3%. I dueleader quindi controllano cumulativamente oltre il 34% del segmento.

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La crescita del segmento value continua ad essere più rapida di quella complessiva dei consumidi abbigliamento. I dati mostrano però che è ormai in fase di rallentamento e sembra aver esauritola sua spinta avendo probabilmente raggiunto la sua massima espansione e provocato la reazionedi difesa degli altri canali che hanno a loro volta rivisto verso il basso i prezzi.

Sulla base dei dati disponibili ad oggi, non è possibile valutare se la crisi finanziaria del 2008-2010 abbia riaperto la forbice tra la crescita del segmento e il resto del mercato.

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Nell’ambito di questo lavoro di ricerca sono stati individuati due casi studio che percaratteristiche coprono una gamma ampia di format distributive e canali. Precisamente,l’approfondimento avrà ad oggetto:

• la boutique indipendente multimarca, nella sua versione più sofisticata, quella del conceptstore. In questo ambito si è scelto un caso particolarmente innovativo e noto, quello di Luisa viaRoma, storico negozio di Firenze che dal 2004 ha adottato una strategia estremamente innovativadi multicanalità con l’apertura di un area di e-Commerce che ha ottenuto uno straordinario successo• un deparment store. Anche in questo caso si è selezionato un caso particolarmenteinnovativo, quello del gruppo Coin che dal 2005 ad oggi ha avviato un opera di rivitalizzazione eridefinizione della formula del department store, anche in questo caso con un notevole successo.

5.1 Luisa Via Roma: la rivoluzione dell’e-commerce in una boutique multimarca

Luisa via Roma è una delle storiche boutique di Firenze, l’insegna esiste dal 1903 ed attiva nelsegmento del prèt à porter e del lusso fin dagli anni 30 del secolo scorso.

E’ un negozio molto noto a livello nazionale, fa parte della Camera dei Buyer che associa unristretto numero di prestigiosi negozi multibrand italiani di alta gamma.

Luisa via Roma ha le tipiche caratteristiche del concept store: un immagine elevata del puntovendita e dell’insegna, una gamma ampia di marchi.

Nel merito, il negozio offre 400 collezioni e 5000 articoli uomo, donna, accessori e calzature deiprincipali marchi del prèt à porter e della ricerca stilistica tra cui: Balmain, Burberry, Chloè, ChristianLouboutin, Dior, Dsquared, Dolce & Gabbana, Givenchy, John Galliano, Lanvin, Marc Jacobs, RickOwens e Yves Saint-Laurent. Ma anche di maison d'avanguardia come Alexander Wang,Christopher Kane, Gareth Pugh e Rodarte.

La decisione di sviluppare una presenza sul web risale alla fine degli anni Novanta. La primamotivazione della scelte è stato il tentativo di mantenere i contatti con i molti turisti internazionaliche erano una quota importante dei clienti del negozio, che però, come tipico di questo tipo diclientela, acquistavano generalmente una sola volta, in occasione della visita alla città in cuidifficilmente ritornavano con frequenza. L’idea era quindi di capitalizzare i contatti con la clientelastraniera e in qualche modo fidelizzarla.

Fino al 2004 il web-site è stato però una tradizionale vetrina di vendita, gestita in realtà da unasocietà esterna. Dal 2004 la funzione del web-site si è di molto allargata e la sua gestione è statainternalizzata.

5. Casi studio

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Negli anni successivi il ruolo delle vendite on-line è cresciuto notevolmente: nel 2008 questocanale ha infatti raggiunto come valore il livello del negozio tradizionale e negli ultimi due anni lacrescita è proseguita sul web a ritmi più elevati di quelli del negozio tradizionale. Gli acquisti viaweb ormai superano stabilmente i 500 euro giornalieri.

Le cifre della presenza di Luisa via Roma sulla rete sono impressionanti: un milione di visitatorial mese e quattrocentomila contatti giornalieri, in crescita di oltre il 200% dal 2008 al 2010. Laprincipale provenienza degli acquirenti sono gli USA.

Sul sito web sono disponibili più di 100 collezioni di top tra cui Chloè, Dior Homme, Dolce &Gabbana, Dsquared, Lanvin and Moncler. Alcuni grandi brand globali, come Levi’s Strauss e Lacostehanno anche creato articoli e collections in edizione limitata appositamente per luisaviaroma.com.

L’intuizione iniziale, dell’estensione on-line del negozio come strumento per rafforzare il legamecon i clienti lontani, e tenerli legati al negozio è stata costantemente mantenuta nell’evoluzione delwebsite, considerato non un semplice canale di vendita, ma di comunicazione con il cliente.

Secondo Felice Limosani, il direttore creativo del negozio:“Grazie ad internet il dialogo con il pubblico è diventato un rapporto costante e diretto, e non parlo

solo più dell'e-commerce. E' infatti l'interazione fra il retail, il web e i nuovi social network il segreto delsuccesso di Luisa via Roma.

Il futuro è in assoluto il web 2.0 se io iniziassi oggi la direzione creativa di questo progetto puntereiancora di più, ed in modo più estremo, su questo tipo di comunicazione: maggiore velocità, maggioreinterazione, e non più le classiche slide di foto che mostrano i prodotti, ma un vero e proprio dialogoistantaneo con il cliente, possibile oggi grazie ad un canale come quello di Facebobok".

La presenza di Luisa via Roma sul web non si limita infatti al website di e-Commerce, ma sfruttatutti gli strumenti del web 2.0, Facebook, Twitter, Youtube, Weibo, il blog ecc.

L’idea è di sviluppare uno “social shopping”, integrando vendite online, vetrine ed esperienzein store, invece di mantenerle separate, in una logica multicanale, secondo Andrea Pancoresi, iltitolare: “in un mondo che naviga creativamente sulle rotte web non è più tempo di comprare un abitotra grucce e camerini. Per questo vorrei trasformare l’atto di acquisto in un’esperienza multisensoriale.Attraverso alcuni programmi informatici esclusivi e con un look grafico di design contemporaneo, daglischermi disponibili in negozio il cliente può visionare il prodotto che non è presente in boutique edordinarlo, anche con l’aiuto di un personal shopper, soprattutto ad inizio stagione, quando, cioè, sonodisponibili solo le pre-collezioni...”.

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L’abito richiesto tramite questo processo viene recapitato direttamente all’indirizzo del cliente in 24ore e per l’Italia gratuitamente, una sorta di acquisto on-line effettuato dall’interno del negozio reale.

Nella homepage del sito di e-Commerce si trovano nella parte centrale dello schermo immaginimolto grandi ed in movimento che vengono cambiate in conco-mitanza di news ed eventi che ilnegozio vuole comunicare ai suoi clienti.

In vendita si trovano sia collezioni della stagione in corso che collezioni di anni precedentimantenute distinte in diverse aree del website.

In linea di principio, l’assortimento on line è la stesso di quello presente nel negozio di Firenze,e dal sito di ecommerce si può accedere direttamente ai canali dei social network e al blog dovesono presentate le collezioni, gli eventi organizzati dal negozio, le tendenze moda.

5.2 La trasformazione della formula tradizionale del Grande Magazzino: il turnaround di COIN

Coin viene fondata nel 1916 da Vittorio Coin che ottiene la licenza di venditore ambulante inparticolare per la vendita di tessuti e articoli di merceria. Nel 1997 nasce il Gruppo con la fusioneper integrazione di Coin e Oviesse.

Il gruppo opera secondo il modello distributivo dei department store, con posizionamentimolto differenziati delle due insegne: Oviesse nel segmento dei magazzini popolari che offronoprodotti a basso prezzo, in una fascia solo di poco più elevata di quella dei mercati rionali e bassocontenuto moda; Coin nel segmento medio-medio fine di prodotto, combinando private label(che diventeranno molto numerose) e prodotti dei marchi più noti della moda italiana, sviluppandoperaltro in modo estensivo il concept dei corner e degli shop in shop.

Tra il 1997 e il 2000 il gruppo realizza una forte espansione, la quotazione in Borsa el’internazionalizzazione, esportando la formula tradizionale del department store di fascia mediae medio fine, con l’apertura di una rete di negozi in Germania e in Svizzera, senza però otteneresignificativi successi e in un contesto di stagnazione generale delle vendite.

E’ tra il 2005 e il 2006 che si realizza la svolta che porterà ad un rilancio del gruppo che stavasoffrendo la crisi del modello distributivo dei department store e condurrà il gruppo al suo attualeposizionamento sul mercato.

Nel maggio del 2005 il fondo di Private Equity PAI Partners, ha acquisito dalla famiglia Coin lamaggioranza del gruppo e viene nominato come Amministratore Delegato Stefano Beraldo. Ilnuovo management interviene per il rilancio di Oviesse e Coin attraverso un piano di turnarounded il rinnovo sia del prodotto che dell’immagine dei negozi.

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Un primo significativo passo è avvenuto nel 2006 con il riposizionamento dell’insegna Oviesseche ha implicato restiling dell’insegna rinominata “OVS industry” e lo sviluppo di una nuovaimmagine, e di un modello comunicativo più fresco e giovane.

I valori chiave del vecchio marchio: massima convenienza e posizionamento di prezzo basso;format a libero servizio, target ampio che coinvolge tutta la famiglia sono stati ridefiniti per offrireun continuo rinnovo nell’assortimento, secondo il modello del fast fashion, un layout e un visualin stile urbano e giovanile che valorizza l’esposizione della merce con un impatto visivo/esteticocontemporaneo che si distacca completamente da quello tradizionale dei magazzini popolari.

In questo contesto di ringiovanimento nasce una partnership con Elio Fiorucci per lo sviluppo dellanuova linea di prodotti Baby Angel, un marchio per giovani e giovanissimi nel segmento femminile.

Con questo nuovo schema strategico nel 2007 Oviesse ha lanciato un piano di espansioneall’estero aprendo punti di vendita nei Paesi dell’Europa dell’Est e del Medio Oriente.

La trasformazione dell’insegna Oviesse e il suo riposizionamento è di grande interesse poichéconfigura una rapidissima trasformazione da un modello tradizionale in netto declino in unmodello distributivo che interpreta la formula di maggior successo di questi anni nella moda,quella del Fast Fashion. In una intervista l’amministratore Delegato del gruppo Coin StefanoBeraldo spiega le ragioni che hanno indotto il gruppo a realizzare il cambiamento:

“Il negozio (Oviesse) non generava alcuna emozione, la merce veniva acquistata più per il suorapporto qualità-prezzo e per la sua funzionalità che per il suo essere al passo con la moda. La base deiclienti era perciò in contrazione e di età medio alta. Il bambino, tradizionale punto di forza di Oviesserappresentava una percentuale sul venduto decisamente superiore a quella della donna, in nettocontrasto con il mercato generale. Le vendite complessive risultavano in calo, per la donna inparticolare, da molti anni” Il nuovo orientamento ad un target di consumatori più attratti dalmodello del Fast Fashion che OVSindustry definisce “consumatori giovani, curiosi ed attenti allo stile”oltre a generare una ripresa del fatturato ha determinato un incremento di visibilità, interesse etraffico nei negozi, sia quelli esistenti che in quelli di recente apertura e di conseguenza dellaprofittabilità di OVS.

Attualmente, il Gruppo Coin, dopo il lungo percorso di riposizionamento descritto, è il piùgrande operatore italiano della distribuzione di abbigliamento, con un fatturato consolidato (2010)di 1.736 milioni di euro, un Margine Operativo Lordo a 202 milioni di euro (pari a 12,5% sullevendite nette) e un Risultato Netto positivo per 48 milioni di euro. La quota di mercato italiano èpari a quasi il 6% (Fonte: relazione di bilancio Gruppo Coin). Opera con tre marchi distinti, OVSindustry, Coin e Upim e conta oltre 900 negozi e 9.800 dipendenti.

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Coin. È il marchio storico del gruppo. Oggi conta 100 stores presenti nei centri storici delle piùimportanti città, propone un’esperienza multibrand e multicategory ed è un punto di riferimentoper lo shopping. Ha intrapreso negli ultimi anni un intenso piano di rilancio che ha visto il rinnovodi gran parte dei suoi negozi, tra cui la flagship di Milano Piazza 5 Giornate, che grazie alla facciatacompletamente interattiva è diventata protagonista della vita dei Milanesi.

OVS industry è invece la prima azienda in Italia per quota di mercato nel settore abbigliamentomoda: 579 negozi in Italia e all’estero, più di 11 milioni di clienti all’anno, 33 milioni di scontrini, oltre100 milioni di capi venduti. Per lo sviluppo delle collezioni, collabora con creativi conosciuti comeElio Fiorucci che disegna la linea Baby Angel, Davide De Giglio che firma la collezione Grand & Hillsed Ennio Capasa che ha creato il marchio EEQUAL.

Upim, in ultimo, acquisita a gennaio 2010, era presente sul territorio nazionale con 135 negozidiretti con il marchio Upim e 15 negozi con il marchio BluKids, oltre a una rete in franchising dioltre 200 negozi. Ad oggi 54 punti vendita sono stati trasformati in OVS industry, 9 in Coin e 6 nelnuovo format Upim POP, uno shopping mall di centro città che mescola stile e modernità con unaproposta merceologica che soddisfa le esigenze più diverse.

Figura 18 I numeri chiave di Coin e OVS

Punti vendita ad insegna COIN in Italia 92Punti vendita ad insegna OVS Industry in Italia 408Punti vendita ad insegna OVS Industry all’estero 62Numero di clienti dell’insegna Coin 32,2 milioniNumero di clienti dell’insegna OVS 12 milioniNumero di capi acquistati nel 2010 nei negozi OVS oltre 100 milioniNumero di titolari della CoinCard 434 milFonte: documenti aziendali

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Figura 19 Il turnaround di Oviesse

DA OVIESSE A OVS INDUSTRY

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