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Di mestiere faceva la tata e nei giorni liberi scattava foto Alessandro Baricco ci racconta la storia di un’artista che solo ora il mondo sta scoprendo LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 MARZO 2014 NUMERO 470 CULT La copertina MOHSIN HAMID e GABRIELE ROMAGNOLI Tv contro romanzi Come i serial mettono in crisi gli scrittori Il libro GIANCARLO DE CATALDO Una fiaba ferma l’orrore nel Messico dei Narcos All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Giuliano Montaldo “Così il cinema si è preso tutta la mia vita” L’opera ANGELO FOLETTO La Scala fischia la bella “Sposa” di Tcherniakov e Barenboim La serie WALTER SITI La poesia del mondo Il dio geloso di John Donne Maman Duras che non credeva alle favole L’inedito MARGUERITE DURAS e ANAIS GINORI Marzo 1944, l’ultimo ringhio del Vesuvio L’anniversario ERRI DE LUCA TOURS S i chiamava Vivian Maier, e se il nome non vi dice nien- te, la cosa è abbastanza normale. Nella vita faceva la ta- ta, lo stesso mestiere di sua madre e di sua nonna: lo fa- ceva per le famiglie upper class di Chicago, e lo faceva bene, con limitato entusiasmo, pare, ma con inflessibile diligenza. Lo fece per decenni, a partire dai primi anni Cinquanta: i suoi bam- bini di allora adesso sono adulti che, piuttosto increduli, si vedono arrivare giornalisti o ricercatori che vogliono sapere tutto di lei. Un po’ spaesati, annotano che non è il caso di immaginarsi Mary Pop- pins: era un tipo maniacalmente riservato, un po’ misterioso, piut- tosto segreto. Faceva il suo dovere, e nei giorni di vacanza, spariva. Non c’è traccia di una sua vita sentimentale, non pare avesse ami- ci, era solitaria e indipendente. Non scriveva diari e che io sappia non ha lasciato dietro di sé una sola frase degna di memoria. Le pia- ceva viaggiare, naturalmente sola: una volta si fece il giro del mon- ALESSANDRO BARICCO do, così, perché le andava di farlo: è anche difficile capire con che soldi. Una cosa che tutti ricordano di lei è che accatastava oggetti, fogli, giornali, e la sua stanza era una specie di granaio della me- moria, immaginato per chissà quali inverni dell’oblio. Colleziona- va mondo, si direbbe. L’altra cosa che tutti ammettono è che sì, in effetti, girava sempre con una macchina fotografica, le piaceva scattare foto, era quasi una mania: ma certo, da lì a immaginare quel che sarebbe successo… Quel che è successo è questo: arrivata a una certa età, tata Maier si è ritirata dall’attività, si è spiaggiata in un sobborgo di Chicago e si è fatta bastare i pochi soldi messi da parte. Dato che accatastava mol- to, come si è visto, affittò un box, in uno di quei posti in cui si metto- no i mobili che non stanno più da nessuna parte, o la moto che non sai più che fartene: ci ficcò dentro un bel po’ di roba e poi finì i soldi, non riuscì più a pagare l’affitto e quindi finì come doveva finire. (segue nelle pagine successive) DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI © RIPRODUZIONE RISERVATA Si chiamava Maier Vivian AUTORITRATTO, GIUGNO 1953 © VIVIAN MAIER/MALOOF COLLECTION/COURTESY HOWARD GREENBERG GALLERY, NEW YORK

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Di mestiere faceva la tatae nei giorni liberi scattava fotoAlessandro Baricco ci raccontala storia di un’artistache solo ora il mondo sta scoprendo

LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 9 MARZO 2014

NUMERO 470

CULT

La copertina

MOHSIN HAMIDe GABRIELE ROMAGNOLI

Tv contro romanziCome i serialmettono in crisigli scrittori

Il libro

GIANCARLO DE CATALDO

Una fiabaferma l’orrorenel Messicodei Narcos

All’interno

Straparlando

ANTONIO GNOLI

Giuliano Montaldo“Così il cinemasi è presotutta la mia vita”

L’opera

ANGELO FOLETTO

La Scala fischiala bella “Sposa”di Tcherniakove Barenboim

La serie

WALTER SITI

La poesiadel mondoIl dio gelosodi John Donne

Maman Durasche non credevaalle favole

L’inedito

MARGUERITE DURASe ANAIS GINORI

Marzo 1944,l’ultimo ringhiodel Vesuvio

L’anniversario

ERRI DE LUCA

TOURS

S i chiamava Vivian Maier, e se il nome non vi dice nien-te, la cosa è abbastanza normale. Nella vita faceva la ta-ta, lo stesso mestiere di sua madre e di sua nonna: lo fa-ceva per le famiglie upper class di Chicago, e lo faceva

bene, con limitato entusiasmo, pare, ma con inflessibile diligenza.Lo fece per decenni, a partire dai primi anni Cinquanta: i suoi bam-bini di allora adesso sono adulti che, piuttosto increduli, si vedonoarrivare giornalisti o ricercatori che vogliono sapere tutto di lei. Unpo’ spaesati, annotano che non è il caso di immaginarsi Mary Pop-pins: era un tipo maniacalmente riservato, un po’ misterioso, piut-tosto segreto. Faceva il suo dovere, e nei giorni di vacanza, spariva.Non c’è traccia di una sua vita sentimentale, non pare avesse ami-ci, era solitaria e indipendente. Non scriveva diari e che io sappianon ha lasciato dietro di sé una sola frase degna di memoria. Le pia-ceva viaggiare, naturalmente sola: una volta si fece il giro del mon-

ALESSANDRO BARICCO

do, così, perché le andava di farlo: è anche difficile capire con chesoldi. Una cosa che tutti ricordano di lei è che accatastava oggetti,fogli, giornali, e la sua stanza era una specie di granaio della me-moria, immaginato per chissà quali inverni dell’oblio. Colleziona-va mondo, si direbbe. L’altra cosa che tutti ammettono è che sì, ineffetti, girava sempre con una macchina fotografica, le piacevascattare foto, era quasi una mania: ma certo, da lì a immaginarequel che sarebbe successo…

Quel che è successo è questo: arrivata a una certa età, tata Maier siè ritirata dall’attività, si è spiaggiata in un sobborgo di Chicago e si èfatta bastare i pochi soldi messi da parte. Dato che accatastava mol-to, come si è visto, affittò un box, in uno di quei posti in cui si metto-no i mobili che non stanno più da nessuna parte, o la moto che nonsai più che fartene: ci ficcò dentro un bel po’ di roba e poi finì i soldi,non riuscì più a pagare l’affitto e quindi finì come doveva finire.

(segue nelle pagine successive)

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LA DOMENICA■ 30DOMENICA 9 MARZO 2014

la Repubblica

Gente, simmetrie urbane, il suo volto riflesso in vetrina. Scatti rubatiper strada da una sconosciuta signora americana che solo orail mondo riconosce come una grandissima fotografa

La copertinaVivian Maier

ALESSANDRO BARICCO

NEW YORK EAST STREET N. 108. 28 settembre 1959 SENZA TITOLO CHICAGO

NEW YORK SENZA TITOLO. 3 settembre 1954 AUTORITRATTO

La tata con la Rolleiflex(segue dalla copertina)

Quelli dei box, se non paghi,dopo un po’ mettono tuttoall’asta. Non stanno nem-meno a guardare cosa c’èdentro: aprono la porta, gliacquirenti arrivano, dan-

no un’occhiata da fuori e, se qualcosa liispira, si portano via tutto per un pugnodi dollari: immagino che sia una formasofisticata di gioco d’azzardo. L’uomoche si portò via il box di tata Maier si chia-mava John Maloof. Era il 2007. Più che al-tro si portò via scatoloni, ma quando ini-ziò a guardarci dentro scoprì qualcosache poi avrebbe cambiato la sua vita, e,immagino, ingrassato il suo conto inbanca: un misurato numero di fotostampate in piccolo formato, una ma-rea di negativi e una montagna di rulli-ni mai sviluppati. Sommando si arriva-

va a più di centomila fotografie: tataMaier, in tutta la sua vita, ne aveva vistoforse un dieci per cento (pare non aves-se i soldi per lo sviluppo, o forse non leimportava neanche tanto), e non nepubblicò nemmeno una. Ma Maloofinvece si mise a guardarle per bene, asvilupparle, a stamparle: e un giorno sidisse che o era pazzo o quella era unadei più grandi fotografi del Novecento.Optò per la seconda ipotesi. Volendocredergli, si mise anche a cercarla, que-sta misteriosa Vivian Maier, di cui nonsapeva nulla: la trovò, un giorno del2009, negli annunci mortuari di ungiornale di Chicago. Tata Maier se n’e-ra andata in silenzio, probabilmente insolitudine e senza stupore, all’età di 83anni: senza sapere di essere, in effetti,com’è ormai chiaro, uno dei più grandifotografi del Novecento.

La prima volta che ho incrociato que-sta storia ho naturalmente pensato chefosse troppo bella per essere vera. Tut-

tavia le foto erano davvero pazzesche,tutte foto di strada, quasi tutte in bian-co e nero: pazzesche. Così ho setaccia-to un po’ il web scoprendo che in effet-ti il mito della Maier era già lievitatoniente male, sebbene all’insaputa miae dei più: mostre, libri, perfino due film,uno prodotto dalla Bbc: insomma, seera un falso, era un falso fatto maledet-tamente bene. Quindi una certa curio-sità continuava a ronzarmi dentro fin-ché ho scoperto che a Tours, amabilecittadina della provincia francese,neanche poi tanto lontana, c’era unamostra dedicata a tata Maier. Non so,ho pensato che volevo andare a vedereda vicino, a toccare con mano, a scopri-re qualcosa. Insomma, alla fine ci sonoandato. Dopotutto, Tours è anche il po-sto in cui è nato Balzac, un pellegrinag-gio letterario non ce lo si nega mai, po-tendo. (Balzac, lo dico per inciso, è unalettura molto particolare. Quel che hocapito io è che per apprezzarlo vera-

mente bisogna leggerlo in alcuni, circo-scritti, momenti della vita: quelli in cuisi vive con un filo di gas. Non saprei de-finirli in altro modo, quindi fatevi ba-stare questa definizione. Ma è certo chese uno è felice, Balzac è palloso, se unosta male davvero, Balzac è inutile.Quando state lì, sospesi tra una cosa el’altra, leggerlo è una delizia. Ah, un’al-tra cosa su Balzac, se posso approfitta-re della parentesi: io sono convinto chequando parliamo di letteratura inten-diamo una cosa che è nata nel passag-gio da Balzac a Flaubert ed è morta nel-l’ultima pagina della Recherche: il restoè un lunghissimo, geniale e grandiosoepilogo, in certo senso perfino più inte-ressante. Fine della digressione).

Tours era una città mirabile, una vol-ta: per i francesi era la capitale di riser-va, quella che stava in panchina e en-trava in campo quando Parigi dava for-fait. Adesso è rimasto poco, e questoperché degli allegri ragazzoni america-

La trovò un giorno del 2009negli annuncimortuaridi un giornale di Chicago Se n’era andatain silenzioall’età di 83 anni

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■ 31DOMENICA 9 MARZO 2014

la Repubblica

A Tours, in Francia, finalmente una mostra dedicata a lei Alessandro Baricco è andato a visitarla. Per tentare di scoprirequalcosa di più su “una storia troppo bella per essere vera...”

LA MOSTRAIl Jeu de Paume,

nel castello di Tours,nella regione francese

della Loira, ospita fino al primo di giugno

l’esposizioneVivian Maier

A Photographic RevelationCentoventi fotoin bianco e nero

e a colori tratte dai negativi, dalle lastre

e dai film Super 8 realizzatidalla Maier

tra gli anni ’50, ’60 e ’70La scoperta di questo

materiale avvenne per caso nel 2007 in un’asta

SENZA TITOLO SENZA TITOLO. 1954

SENZA TITOLO NEW YORK

ni, nei loro bombardieri, l’hanno spia-nata cercando di centrare il ponte sullaLoira, e presumibilmente facendolocon una certa generosità di mezzi o de-ficienza di mira, non so.Alla fine è rima-sto poco. Nel poco, una sfolgorante cat-tedrale, una di quelle che offrono il pri-vilegio di pronunciare l’elegantissimafrase Sono entrato nella cattedrale adammirare le vetrate(blu e rossi magnifi-ci, un’emozione, se posso dire la mia). Epoi un castello, almeno un pezzo del ca-stello, proprio sulla riva del fiume: ed è lìche tenevano tata Maier. Ingresso gra-tuito, devo registrare. Francesi.

Insomma, sono salito al primo pia-no, e lei era lì. Foto che, quando andavabene, lei si era vista in un formato chestava nel portafogli, sfavillavano bellegrandi sulla pareti bianche: formatoquadrato, stampa impeccabile. Comeho detto, sono tutte foto rubate per stra-da: per lo più gente, ma anche simme-trie urbane, cortili, muri, angoli. Un ca-

vallo morto su un marciapiede, le mol-le di un materasso abbandonato. Ognivolta, tutto perfetto: la luce, l’inquadra-tura, la profondità. E, sempre, una spe-cie di equilibrio, di armonia, di esattez-za finale. Come facesse, non si sa. Vo-glio dire, per azzeccare il ritratto di unpassante e ottenere qualcosa di quellaintensità, e forza, e impeccabile bellez-za, bisognava avere un talento mo-struoso. Lei l’aveva. Aveva dodici colpi,nella sua Rolleiflex, per ogni rullino.Dato che poi li teneva a marcire in unbox, quei rullini, noi adesso possiamovedere come sparava: mai due colpisullo stesso bersaglio. Se ne concedevauno, le era estranea l’idea che nella ri-petizione si potesse migliorare. L’unicosoggetto a cui abbia dedicato ripetuti ri-tratti, inaspettatamente, è se stessa: sifotografava riflessa nelle vetrine, neglispecchi, nelle finestre. L’espressione ètragicamente identica, anche a distan-za di anni: lineamenti duri, maschili,

sguardo da soldato triste, una sola vol-ta un sorriso, il resto è una piega al po-sto della bocca. Impenetrabile, anche ase stessa. Le piacevano le facce, i vecchi,la gente che dorme, le donne eleganti,le scale, i bambini, le ombre, i riflessi, lescarpe, le simmetrie, la gente di spalle,la rovina e gli istanti. Si vede lontano unmiglio che adorava il mondo, a modosuo — ne adorava l’irripetibilità di ogniframmento. Probabilmente le andavadi produrre quello che ogni fotografiaambisce a produrre: eternità. Ma nonquella friabile delle foto dei mediocri:lei otteneva quella, incondizionata, deiclassici.

Poi non so, magari mi sbaglio. Ma de-vo registrare il fatto che, nel caso, ini-ziamo ad essere molti, a sbagliarci.Quindi darei per buono che, in effetti,c’è un grande fotografo del Novecentoin più. Naturalmente adoro l’idea chenon abbia detto una sola frase sul suolavoro, né abbia guadagnato un dollaro

dalle sue foto, né abbia mai cercato unaqualunque forma di riconoscimento.Ma la storia non è ancora finita, e ma-gari, nel tempo, qualcosa verrà fuori, aincrinare tanta irreale purezza. Ma lefoto resteranno, su questo è difficileavere dubbi. Tra l’altro, sfido chiunquea fissarle senza percepire, in un attimodi lucidità, la smisurata vigliaccheriadel fotografare digitale: devo a tataMaier il mio definitivo disprezzo perPhotoshop.

Le devo anche il fatto che poi sonouscito, tirava vento gelido, e piovevaorizzontale, a folate, mi sono rifugiatonella cattedrale di prima, giusto pernon inzupparmi, e aspettando che pas-sasse ho alzato gli occhi verso le vetrate,e nelle vetrate, spente dal cielo nero deltemporale, le storie dei santi avevanoquella bellezza uccisa che tante voltevedo negli umani, sempre cercando ditrovarle un nome, senza trovarlo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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LA DOMENICA■ 32DOMENICA 9 MARZO 2014

la Repubblica

L’anniversarioNapoli ’44

estate da ragazzo in vacanza sull’isola d’Ischia sa-livo di notte sul Monte Epomeo per aspettare l’au-rora. Nello stretto terrazzo di cima ho conosciutole mie prime notti senza riparo. La Via Lattea erauna cucitura che teneva insieme le due metà delcielo. Poi la luce spuntava dietro la spalla del Ve-suvio, scaraventata fuori dall’energia di sorgenteche ha l’Oriente.

Visto dalla distanza dell’isola, il vulcano era unapagnotta lievitata, appena uscita dal forno.

Per chi abita Napoli è invece l’incubo maestropiantato sopra uno dei golfi più celebri del pia-neta. In qualunque stanza si trovi, anche al buio,il napoletano sa da che parte sta ‘o Vesuvio. Il

santo protettore del luogo,Gennaro, è specialista ineruzioni: la sua statua venivaportata in processione con-tro l’avanzata del fiume difuoco. Le cronache riferisco-no di buoni e miracolosi ri-sultati ottenuti arginando lapiena col suo aiuto. Il vulca-no sta piantato a est dellacittà. La sua forma attuale,arrotondata come la panciadi un Buddha, è opera digrandiosi squarci e sconvol-gimenti. Anche il resto delgolfo, la sua presunta armo-nia, proviene dal lavoro dicesello dei terremoti. La bel-lezza da quelle parti è scatu-rita dalla violenza del sotto-suolo. La bellezza di natura a

Napoli è scatarro di viscere infiammate. In su-perficie ha forma di sorriso, ma sotto è ringhio.Così è anche il carattere della gente locale, il suosistema nervoso dipende dalla geologia. La lororesidenza in terra non è da proprietari, ma da in-quilini sotto minaccia di sfratto. Così anche ilsentimento religioso non proviene dall’alto deicieli ma dal fondo dei pozzi e del caffè. Dove sfia-ta lo zolfo di un vulcano spento, presso Pozzuo-li, da Puteoli cioè maleodoranti, in quei paraggigli antichi immaginarono l’ingresso nel buio dei

defunti. Virgilio avviò là sotto il povero Enea, fre-sco di sbarco. Oggi lo avremmo rinchiuso in unCentro di identificazione e di espulsione, in unodei nostri hotel per ospiti: li chiamiamo ospiti,quelli rinchiusi lì senza reato.

Quando si accese la fornace dell’ultima eruzio-ne, nella primavera del 1944, la guerra aveva da po-co lasciato Napoli, risalendo un po’ più a nord. Lacasa di mio padre, figlio di una donna americana,era stata distrutta da un bombardamento aereoamericano. I loro bombardieri avevano i gentilinomi dei sette nani più Biancaneve e le operazio-ni di attacco in codice portavano il titolo di “Bian-caneve e i sette nani contro Pulcinella”.

La casa di mia madre fu distrutta invece dall’u-nico bombardamento aereo tedesco, dopo che lacittà era insorta e si era liberata, da sola e tutta in-tera. In quell’occasione il Vesuvio non se la sentìdi aggiungersi alle stragi e fece una sua rara eru-zione non catastrofica. S’incendiò, sputò cenereda cancellare il cielo, ma non straripò con le cola-te in fiamme.

Il golfo era pieno di navi da guerra grigiochiare,della Marina degli Stati Uniti, i liberatori guarda-vano incantati lo spettacolo. I napoletani invece abocca chiusa erano intenti a spalare la cenere datetti e da terrazze: non è leggera, basta poco accu-mulo per sfondare solai.

In quella primavera, prima e vera perché senzaguerra, mia madre e le altre ragazze scopavano ce-nere da mattina a sera. Il cielo era velato di fuliggi-ne con un punto rosso rovente, una cresta di gallo,in cima al vulcano.

Ma non è stato capace solo di cancellazione: suamateria è il tufo, pietra lavica spenta con la quale èfatta la casa del napoletano. Scavata, estratta findall’epoca greca è stata il solo materiale da costru-zione della città di sopra. Di sotto Napoli poggia sucave e cavità gigantesche, come su un alveare,molto meno geometrico.

Sono stato forza lavoro in edilizia per un muc-chio di anni e ho maneggiato blocchi di tufo a mi-gliaia. Assorbono acqua e diventano pesanti, mapoi la lasciano andare. Possono essere rifilati, ta-gliati perfino dalla sega da legno. Sono di pastasgranata e porosi: se messi a dividere due stanze,in verità le collegano. Lasciano passare le voci,dalle ingiurie ai canti. Attraverso il tufo ho ascol-

Memoriesottosuolodal

Quando il Vesuvio ringhiòERRI DE LUCA

LE TAPPE

LA ZONA ROSSADal 2013 la zonainteressataa evacuazionein caso di eruzioneè stata estesada 18 a 27 comunicompresi alcuniquartieri dell’areaorientale di Napoli

L’URBANIZZAZIONEAlle pendicidel Vesuvioabitano circasettecentomilapersone. Ancheper questo motivoviene consideratouno dei vulcani piùpericolosi al mondo

IL RIPOSOIl Vesuvio vieneoggi definito in fasedi acquiescenzaA 8 chilometridi profondità si trovaun accumulodi magmache si estendeper 400 kmq

L’ERUZIONEIl clou dell’ultimaeruzione del Vesuvioviene datato tra il 18e il 24 marzo 1944Molti i paesiinteressatidalle colate lavicheNapoli lo fu soloparzialmente

D’tato le storie del mondo che mi aveva preceduto.

L’intonaco sulla sua buccia non dura, finiscestaccato, respinto. Così pure le pubbliche auto-rità poco riescono a attecchire, a fare presa. L’a-desione politica sul napoletano è quella dell’in-tonaco sul tufo.

Il Vesuvio è stato accusato da Plinio di avere di-strutto Pompei. L’ha invece serbata largamenteintatta. Noi che l’abbiamo scavata per esporla allenostre intemperie dell’incuria, noi la stiamo di-struggendo pezzo a pezzo.

Napoli durante la guerra si è accollata il nume-ro maggiore di bombardamenti aerei su una cittàitaliana, mannaggia al porto che le assegnava ilrango di bersaglio primo. Sulle macerie fresche,durate oltre dieci anni, la tosse convulsa del Vesu-vio si stese come una benda sporca, a sigillare la fi-ne dei fuochi con la sua cenere. Le piogge la porta-rono a concimare il mare.

Le storie dei bombardamenti aerei e dell’eru-zione sono state la materia epica della mia infan-zia, narrativa assorbita anche dai pori. Erano in na-poletano e contenevano tutti gli accidenti in chia-ve di una partitura musicale, diesis e bemolle, tra-giche e ridicole.

Pochi cittadini si sono offerti una salita sul Ve-suvio. Meglio non andare a sfottere il gigante e poic’entrava pure il terrore di una diceria: magari do-po la salita di quel tale, se il vulcano faceva unamossa, la fama di iettatore sarebbe stata marchia-ta a fuoco sulla sua porta.

Ci sono salito un paio di volte, la prima con miopadre, una domenica negli anni Cinquanta. Erainverno, c’erano chiazze di neve, stavamo dentrouna nuvola avvolgente e un silenzio da orecchietappate. Raggiungemmo il bordo del cratere, unatazza e una piazza vuota. Lanciammo un gridodentro, come un sasso in un pozzo.

Mio padre è stato alpino in guerra, amava lemontagne e così anch’io, per una sua consegna. IlVesuvio è stata la prima e l’unica salita insieme.

La seconda volta fu verso i vent’anni, era estate,salii con un amico, in gara di sveltezza, arrivandoal cratere svuotati di sudore. In cima vidi il più bellargo di orizzonte della mia vita. Una brezza acco-gliente ci asciugò la pelle e ci strofinò gli occhi men-tre il sole paonazzo scendeva dietro Ischia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LE IMMAGINISopra, la nube prodottadall’eruzione del Vesuviovista dalla collinadi Poggioreale:è il 24 marzo 1944Nella pagina accanto,un disegno di Gipiper Repubblica

A settant’anni dall’ultima eruzione di uno dei vulcanipiù pericolosi e urbanizzati del mondo,il ritratto di uno scrittore nato alla sua ombra“L’hanno accusato di aver distrutto Pompei, e invece l’ha serbata intattaSiamo noi che la stiamo distruggendo pezzo a pezzo”

■ 33DOMENICA 9 MARZO 2014

la Repubblica

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LA DOMENICA■ 34DOMENICA 9 MARZO 2014

la Repubblica

Un racconto provocatorio e sorprendente, mai pubblicato in Italia,viene rieditato in Francia in occasione del centenario dell’autricede “L’Amante”. E ne mostra uno dei lati meno noti al pubblico:quello di mamma. Che immagina il gran rifiutodel piccolo Ernesto di andare a scuola e di imparare

“La sua folliaè voler disporredi una libertàstrabordante,eccessiva,rivoluzionariain un mondototalmenteassoggettatoal consenso”

L’ineditoRagazzi selvaggi

PARIGI

Imparare senza studiare, cono-scere senza sapere, istruirsi so-lo grazie alla “forza delle cose”.La storia del piccolo Ernesto

che non vuole andare a scuola è una fa-vola sovversiva. Pubblicata in modoquasi clandestino nel 1972, è l’unico li-bro per bambini di Marguerite Duras.La scrittrice francese avrebbe compiu-to cento anni il prossimo 4 aprile ed èproprio in occasione dell’anniversarioche l’editore Thierry Magnier ha deci-so di ritirare fuori dal cassetto Ah! Er-nesto. «A scuola mi insegnano cose chenon so» ripete ossessivamente il bam-bino alla mamma e al papà, e poi ancheal maestro sempre più allibito da tantainsubordinazione.

Duras incominciò a pensare a que-sta favola nel 1967, su richiesta dell’e-ditore François Ruy-Duval convintoche dietro ai suoi romanzi di passionitravolgenti e spesso disperate, na-

scondesse un’anima da fanciulla. «Diquali bambini mi parla? Se sono moltopiccoli, non credo di poterli interessa-re. Se hanno dieci o dodici anni, anco-ra meno» risponde Duras la prima vol-ta che Ruy-Duval le fa la proposta. Daquel momento, però, la scrittrice co-mincia a rifletterci. «Tra le mie carte,ho ancora le favole che raccontavo amio figlio, e ora mi chiedo: perché nonpubblicarle?». La maternità è l’aspettobiografico forse più sconosciuto diDuras. La scrittrice diventò mammanel 1947, dopo aver perso un figlio infasce nel 1942, dal primo marito Ro-bert Antelme. Jean Mascolo nasce nel-la casa di rue Saint-Benoit, salotto in-tellettuale di Duras e Dionys Mascolo,frequentato tra gli altri da Edgar Mo-rin, Georges Bataille, Maurice Blan-

chot, Elio Vittorini. Un appartamentodove ci sono sempre feste, riunioni perrifare il mondo, innamoramenti e vio-lenti litigi.

È così che mamma Duras immagi-na la favola di Ernesto, ribelle già dalnome, ispirato a Che Guevara. Unbambino che vuole distinguere tra sa-pere e conoscenza, che predilige l’e-sperienza diretta alla teoria sui banchidi scuola. A Parigi è appena scoppiatoil ’68, si diffonde una nuova pedago-gia, critica della tradizione. Duras hagià riflettuto sui limiti dell’istruzione.Sua madre era insegnante in Indoci-na, come racconta nel suo primo ro-manzo, Una diga sul Pacifico. Nel1957 la romanziera ha pubblicato unarticolo contro le rigidità dell’inse-gnamento dal titolo Alunno Dufresne,

deve migliorare. Come tanti intellet-tuali dell’epoca si batte per dare la pa-rola ai bambini. Nel 1965, lei che è giàun mito della cultura francese, si pre-sta a fare l’intervistatrice televisivacon François, sette anni. Fa domandetipo: a cosa serve la televisione? Qualisono i tuoi sogni? Un giorno andremoin vacanza sulla Luna?

«La follia di Ernesto — racconta nelvolume Ah! Duras che accompagna lafavola ed è curato da Thierry Magnier— è voler disporre di una libertà stra-bordante, eccessiva, rivoluzionaria inun mondo totalmente assoggettato alconsenso. È il suo rifiuto di ogni valoreprestabilito, nella sua volontà di di-struggere e sabotare il sapere per ritro-vare l’innocenza universale». Anche seebbe poco successo all’epoca, tanto

che l’editore ha parlato di un libro“maledetto”, la favola Ah! Ernesto è di-ventata poi un film, Les Enfants, realiz-zato nel 1985 proprio insieme al figlioJean. Poi, nel 1990, sei anni prima dimorire, la scrittrice riscoprirà il perso-naggio di Ernesto nel romanzo Lapluie d’été.

Duras è affascinata dall’età dell’in-nocenza, il cui ricordo nutre i suoi ro-manzi e che la lega al figlio “Outa”, no-mignolo ispirato a una micidiale spe-cie di zanzara, aoûtats, che proliferavaa Château-Chinon, allora dimora diFrançois Mitterrand. Fu lì che Mar-guerite Donnadieu, in arte Duras, pas-sò l’estate dopo aver partorito. Outacresce senza regole, allo stato brado,passando Giornate intere fra gli alberi,come s’intitola una pièce di Duras, che

maman

Una favola per un figlioche non crede alle favole

Duras

ANAIS GINORI

■ 35DOMENICA 9 MARZO 2014

la Repubblica

Prima figlianon amata,poi amante,infine madrefuori dagli schemi“La maternitàè un amoreche non passa maiUna calamitàmeravigliosa”

racconta proprio delcomplesso rapportotra una madre e un figlio selvatico chenon si conforma alla società. Outa nonfinirà la scuola, lei lo prende a lavorarenei suoi film. Quando compie vent’an-ni gli offre un furgoncino Bulli dellaVolkswagen per fare un viaggio fino inAfghanistan. Non c’è da stupirsi se loscabroso L’Amante sia stato ispiratodalle didascalie che Duras aveva fattoper un album di fotografie dedicato alfiglio.

Il ruolo di madre tradizionale nonpoteva calzare a un’intellettuale dallegrandi passioni, tenebrosa, ambigua etormentata, come raccontano le bio-grafie in uscita per l’anniversario, dalnuovo volume di Laure Adler, con gliarchivi dell’Imec (Institut Mémoires © RIPRODUZIONE RISERVATA

Ernesto va a scuola per la prima volta. Torna. Vadritto da sua madre e dichiara: «Non tornerò più ascuola». La mamma smette di sbucciare le patate.

Lo guarda. «Perché?» chiede. «Perché sì!» risponde Er-nesto. «A scuola mi insegnano cose che non so».«Un’altra delle tue!» dice la madre riprendendo la suapatata. Quando il papà di Ernesto torna dal lavoro, lamamma lo informa della decisione di Ernesto. «Ec-co! Questa è davvero grossa!» dice il padre. L’indo-mani, il papà e la mamma vanno dal maestro discuola per metterlo al corrente della decisione diErnesto. Il maestro non si ricorda particolarmen-te del bambino Ernesto. «Un piccolo castano —lo descrive la madre — sette anni, con gli oc-chiali... Non fa molto rumore ma insomma!...».«No, non vedo nessun Ernesto» risponde ilmaestro dopo averci riflettuto. «Nessuno lovede, ha un’aria da nulla!» dice il padre. «Por-tatemelo» conclude il maestro.

Il giorno dopo, il papà, la mamma e Erne-sto si ritrovano davanti al maestro. Il mae-stro guarda Ernesto: «Sei tu Ernesto?» chie-

de. «Esatto» dice Ernesto. «In effetti! Non ticonosco!». «Io sì» risponde Ernesto. La mamma alza le

spalle: «Avete capito che tipo è!» dice. Dopodiché, ognuno tace.Il maestro riflette... anche il papà. La mamma di Ernesto e Ernesto,invece, guardano il materiale didattico nell’aula: il Treno, la Rosa, laFarfalla, la Terra, il Presidente, il Negro, il Cinese, l’Uomo. «Allora?»riprende il maestro. «Rifiuti di istruirti?». «Esatto» dice Ernesto. «Eperché? Sì, dimmi perché, bambino Ernesto?». «È già durata abba-

stanza» dice Ernesto. Il maestro non si contiene più. Urla:«L’istruzione è obbligatoria». «Non dappertutto»

dice Ernesto. «Viviamo qui» urla più forte ilmaestro, «non dappertutto». «Io sì» risponde Er-

nesto. (…) Il maestro prosegue il suo ragiona-mento: «Ho fatto una domanda, mi pare: che co-

sa sai, bambino?». Ernesto, questa volta, non si fapregare per rispondere: «NO, so dire NO ed è suffi-

ciente». Il maestro non può sopportare altro. Alza lamano, ma la madre fa un balzo. «Non toccatelo o la

picchio» dice infervorata. Il padre la trattiene. Si guar-dano con desolazione. «Allora!» dice il maestro. «Allo-

ra va bene!». Torna a sedersi dietro alla scrivania. Sor-ride. Anche la mamma sorride. Il papà sorride. Ernesto

sorride alla sua mamma. La mamma sorride a Ernesto.Il maestro, più calmo, torna alla carica: «Ma perché, sì

PERCHÉ il bambino Ernesto rifiuta di imparare quelloche non sa? ... PERCHÉ?». «Rispondi Ernesto — dice ilpapà — rispondi se hai capito». «PERCHÉ? ...» chiede an-cora il maestro in un sussulto di rabbia. «Perché non nevale la pena!» dice Ernesto. «In fondo...» dice la mam-ma, alzando le spalle. «In fondo, in fondo...» riprende ilpapà con un aria pensierosa. Il maestro si alza di nuo-vo e si gira verso Ernesto: «Allora come il bambino Er-nesto saprà leggere? E scrivere? E contare? Eh? Comesaprà una qualsiasi cosa in queste condizioni?». «Iosaprò» dice Ernesto. «Sì, ma come?» urla il maestro.«Oh... per forza di cose!».

Da Ah! Ernesto© Editions Thierry Magnier

I LIBRI Tra le iniziative in occasionedei cento anni dalla nascita di Marguerite Duras(4 aprile 1914 - 3 marzo 1996) c’è anche la ripubblicazione in Francia della favola Ah! Ernestodi cui in queste pagine pubblichiamo alcuni stralciUscita originariamente nel 1972, si aggiudicò la fama di “libro maledetto”. Per l’occasioneoggi viene arricchita dal saggio Ah! Duras scrittodall’editore Thierry Magnier. Per quanto riguardal’Italia è da segnalare invece l’uscita della biografiaromanzata di Sandra Petrignani, Marguerite(Neri Pozza, 16 euro, 224 pagine)

MADRE E FIGLIOQui sopra,la Durascon il figlio JeanLa scrittricediventò mammanel 1947,dopo aver persoun figlio in fascenel 1942,dal primo maritoRobert AntelmeJean Mascolonascenella casapariginadi rueSaint-Benoit

PAGINEJean a scuola

e, nella foto a colori, al mareA destra, le pagine originali

della favola Ah! Ernesto

© RIPRODUZIONE RISERVATA

de l’édition contemporaine), alla rie-dizione di C’était Marguerite Duras diJean Vallier, mentre in Italia esce Mar-gueritedi Sandra Petrignani. La mater-nità, secondo Duras, è l’unico amoreincondizionato. «È quello che nonpassa mai, che è al riparo da qualsiasiintemperie. È una calamità meravi-gliosa». Lei si è sentita prima una figlianon amata e poi una madre fuori daglischemi. Nel 1985, prende la difesa diuna donna accusata di infanticidio,Christine Villemin, firmando un pro-vocatorio articolo su Libération. «È giàsuccesso che una madre non ami suofiglio, né la sua casa, o che non sia unabrava casalinga, una buona madre,una moglie fedele». Duras non crede-va alle favole.

“Sono stufo di studiare cose che non so”

MARGUERITE DURAS

Costo:30mila euro

ARCTIC SPLEEN(2013)

Regia: Piergiorgio CasotTrama: viaggio in Groenlandia per scoprire la vita dei giovani tra i ghiacci

In unascena de La grande bellez-za il protagonista Jep Gambar-della guarda i postribolari treni-ni umani della sua festa in ter-razza e afferma che «sono belliperché non vanno da nessuna

parte». Nel cinema italiano partonocontinuamente tanti trenini che peròsfuggono alle vecchie regole del party e,ogni tanto, arrivano pure. Sono i custo-di delle prossime Grandi Bellezze, ci-neasti che, un po’ per forza e un po’ perindole, affrontano un viaggio fatto diestrema riduzione dei costi, finanzia-mento dal basso, scambio di prestazio-ni e sfida alle leggi del mercato. Chia-mateli pure “quelli del low budget”. Avolte proprio “no budget”; i vincitorimorali dell'Oscar di arrangiarsi. Esem-pio recente è Spaghetti Story di Ciro deCaro, girato in undici giorni — dopoaver venduto la propria auto — e costa-to appena quindicimila euro, ma capa-

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la Repubblica

SpettacoliGrandi speranze

ce di diventare un caso, dato che s’è fat-to largo nelle sale e sta incassando cin-que volte il budget. È l’ultima stella cheispira il cammino della speranza, insie-me ai docufilm premiati a Venezia e Ro-ma, Sacro Gra e Tir. La vitalità del feno-meno è perfettamente descritta dallasua assoluta indescrivibilità, la formulacerta non c’è, perché non è solo que-stione di pecunia, ma anche di linguag-gio e sguardo col quale ridiscutere le re-gole del fare cinema. «Girare con quin-dicimila euro è follia pura — dice Cirode Caro, trentanovenne romano —.Non si può e, chissà, forse nemmeno sideve. Tant’è vero che un produttore unpo’ scherzando mi ha chiesto se nonpensassi di poter aver un effetto negati-vo rispetto al mercato e al lavoro dellemaestranze. Gli ho domandato “qualemercato e quali maestranze?”. Perchéquesto film non lo voleva fare nessunoe di maestranze non ne avevamo. Era-vamo solo un gruppo di amici che havoluto darsi una possibilità. Se voglia-mo che le maestranze lavorino a com-pensi adeguati, occorre produrre più

(Oktober, un revenge movie) nel qualeraccontiamo un rapporto padre-figlio.Ecco, lo sceneggiatore ha 23 anni...».

Molti registi ricorrono al crowdfun-ding, il finanziamento dal basso attra-verso una sottoscrizione popolare. An-che su internet. «Kickstarter: dove un’i-dea diventa una nomination per l’O-scar»: è così che, nella homepage, lapiattaforma internazionale di crowd-funding, mostra i muscoli. Ultimoesempio èThe Square (nomination co-me miglior documentario agli Oscar2014, già nei nostri cinema), il docufilmegiziano (che in Egitto non vedranno)sulla caduta di Mubarak. La registaJehane Noujaim puntava a centomiladollari e ne ha raccolti centoventiseimi-la. In Italia c’è www.produzionidalbas-so.com: più di 44 mila utenti, 451 pro-getti finanziati in un volume di transa-zioni confermate che supera il milionedi euro. Tra i film in cerca di sostegno, Ilmio giorno di Stefano Usardi (280 euroraccolti sui 18 mila richiesti): il tariffarioda 20 a mille euro per il contributo pre-vede, in cambio, dalla citazione nei ti-toli di coda al book autografato e laproiezione privata, fino a un ruolo da fi-gurante sullo schermo.

Il regista-fotografo reggiano Pier-giorgio Casotti, per il suo Arctic Spleenda trentamila euro è andato in Groen-landia a sue spese «A parte cinquemilaeuro dall’Associazione Corso Salani.

CRISTIANO GOVERNA

BELLEZZELE PICCOLE

Il cinema che sogna low cost

LA FABBRICAÈ PIENA (2012)

Regia: Irene Dionisio Trama: documentariosu due uomini che trovano alloggio in una fabbrica dismessa

Costo:10mila euro

Costo:9mila euro

MIGNON (2012)

Regia: Massimo Ali MohammadTrama: storia di un cinemaporno ferraresenato in una chiesasconsacrata

film che costino meno». Anche Massi-mo Ali Mohammad, trentenne napole-tano, pensa di spenderne quindicimila:«Il mio Amore tra le rovineè un falso do-cumentario sul ritrovamento di un filmmuto ferrarese ritrovato dopo il sismadel 2012. Nasce grazie all’impegno diun professore di Seattle esperto di cine-ma muto, Richard Meyer».

Si parte dunque da film quasi fatti incasa, che probabilmente lì resteranno,fino a produzioni indipendenti daibudget medio-bassi rispetto ai colossi.Una discriminante di questi nuovi ta-lenti è aver chiara la differenza tra il vo-ler dire qualcosa e l’aver qualcosa da di-re: «Un cinema che parla al pubblico enon sopra al pubblico, un cinema nu-do» dice Massimiliano De Serio, torine-se classe ’78, affermatosi col gemelloGianluca, con Sette opere di misericor-dia (settecentomila euro). «L’attenzio-ne alle spese si sposa con la costruzionedi un percorso estetico sobrio ma cherende la bellezza che vogliamo raccon-tare: ripartendo dai volti. Spesso peròanche noi giovani abbiamo paura a la-vorare con i coetanei e, se riusciamo afare un film, chiamiamo lo sceneggia-tore o il montatore di fama. Io e mio fra-tello stiamo lavorando a un nuovo film

Scambiodi manodopera,collette sul web,debiti. E c’è anchechi si vende l’autoFare un film,e soprattutto farlo arrivare agli spettatori,in Italia è una vera impresaNon impossibile

t

fra uomo e danaro ai tempi della crisi.«Volevo rimanere in Italia a fare cinema,ma mi pento di aver scelto una vita sen-za vacanze, soste e diritti. Dopo questalunga rincorsa senza fiato, non vedoprospettive ma solo una disperata cac-cia all’oro. Le difficoltà nel coniugare laqualità e la buona riuscita, sono gradiniverso la perdita di dignità. Al momentosto lavorando anche per il documenta-rio Banks/Il partito preso delle cose (Vin-citore Solinas doc 2012): spero possiatevederli». Vite da nuovi cineasti, ognuna

col proprio destinoma tutte coraggio-

si anagrammidella frase da Ilbanchiere anar-chico di Fernan-

do Pessoa: “Io fac-cio il mio dovere

verso il futuro, che ilfuturo faccia il suo dove-

re verso di me”.

Costo:90mila euro

THE SQUARE (2013)

Regia: Jehane NoujaimTrama: documentariosulla rivolta di piazzaTahrir e la caduta di Mubarak

SETTE OPERE DI MISERICORDIA(2011)

Regia: Gianluca e Massimiliano De SerioTrama: il bell’incontro fra un anziano e una giovane clandestina

tti

Costo:700mila euro

VOCI IN NERO(2012)

Regia: Riccardo MarchesiniTrama: il lato oscurodell’Emilia Romagnaraccontato dai suoi giallisti

Costo:50mila euro

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la Repubblica

Costo:29mila euro

Il maestro

Tutti possono girarepiù difficile è emergere

ETTORE SCOLA

Ho lavorato da solo, senza troupe, pa-gandomi il viaggio con una colletta.Quello che sto scoprendo è che ci sonoaltre vie per far vedere i lavori. Visioniprivate, associazioni, librerie e spesso ilpubblico è più di qualità». Mattia Co-lombo è il vincitore dell’ultimo concor-so Salani (in palio un servizio di tutoringe ottomila euro) con Voglio dormire conte. Classe ’82 da Trezzano sull’Adda, exaspirante pittore e oggi docente a Mila-no presso Officine: «I premi sono utili,ma non possono fare più di tanto. Se inFrancia mandi il progetto al Centro na-zionale di cinematografia e se passa ilvaglio ti danno seimila euro. In Italial’importo è pressappoco lo stesso, mafinisce nelle tasche di uno solo al termi-ne di un procedimento a eliminazione.Tipo Amici di Maria de Filippi». Voglio

quattrocentomila nel resto del mondo:«Decisivo è stato il supporto nel circui-to dei festival internazionali: ripensareil modo di fare cinema significa usciredagli uffici degli amici, in Italia, costrin-gendoli a misurarsi e a dialogare conrealtà di respiro mondiale. Io facevo do-cumentari per strada. Chi è in grado difar dialogare lo sguardo documentari-stico con la fiction ha compreso che èpossibile ridurre il budget senza ridur-re le idee».

Roberto Minervini sta convincendola critica e scovando il suo pubblico.Quarantaquattrenne di Monte Uranoin provincia di Ascoli con il suo ultimoStop the Pounding Heart — prodottocon poche decine di migliaia di dollari epresentato fuori concorso a Cannes —attende il 21 marzo, giorno della pre-miere americana al New Film/New Di-rectors di New York. Il regista marchi-giano ha ultimato la sua trilogia (ThePassage e Low Tide i precedenti) sul

STOP THE POUNDINGHEART(2013)

Regia: Roberto MinerviniTrama: la relazione tra un giovane cowboy e una fervente cattolicanel profondo Texas

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Costo:15mila euro

SPAGHETTI STORY(2013)

Regia: Ciro de CaroTrama: storie di giovaniprecari (un aspiranteattore, un pusher...)raccontate con autoironia

dormire con te (circa centomila euro dibudget) arriverà nelle sale «grazie a unsistema di amici che hanno deciso di la-vorare senza venire immediatamentepagati, sperando che poi ci sia effettiva-mente qualche soldo in circolo».

Produttori di se stessi, ma non solo. Igemelli De Serio hanno messo a puntoun meccanismo nel quale chi vuole fa-re cinema si mette personalmente a di-sposizione come risorsa artistica-pro-fessionale per il lavoro altrui. «Si chiamaPiccolo Cinema (società di mutuo soc-corso cinematografico) ed è una retegrazie alla quale i cineasti si aiutano, siscambiano competenze, testi, parole,storie. Una scuola di cinema senzascuola, senza docenti, senza allievi». Cisono le idee e c'è un pubblico che le at-tende; come stabilire questo contatto?Chi lo capisce prende il volo. Andrea Se-gre, classe ’76 da Dolo (Venezia) con ladelicata forza di Io sono Li, ha fatto cen-tocinquantamila spettatori in Italia e

Texas, dove attualmente abita. «Io sonoun regista adequate budget: vorrei poterdisporre delle cifre giuste in rapporto aciò che devo fare. In Italia la I WonderPictures lo ha distribuito in maniera mi-rata miscelando capoluoghi e piccolipaesi. Abbiamo evitato i canali dimarketing tradizionali puntando tuttosul web, in controtendenza con il trenddell’attuale distribuzione».

Viaggiatore per il largo e non per illungo, il bolognese Riccardo Marche-sini invece, assistente alla regia di PupiAvati nella recente fiction Un matri-monio, ha risolto il problema «Le storieche mi interessano sono piccole e pra-ticamente sotto casa. Non passerò il re-sto della vita bussando a soldi, preferi-sco affacciarmi alla finestra...». Classe'75 (autore de Gli ultimi e Voci in nero)sta lavorando a Paese mio, docufictionche narra di una music band on theroad nei luoghi di cantanti emiliano-romagnoli (Nomadi, Ligabue, Zucche-ro, Milva, Caselli, Pausini, Vasco). Infi-ne, Irene Dionisio, torinese, 28 anni,già autrice, fra le altre cose, de La fab-brica è piena, premiato a Film-maker 2011. Meno di diecimilaeuro di budget. Irene sta com-battendo la sua battaglia dacinque anni, e lavora al suolungometraggio d’esor-dio, Le ultime cose (pro-duzione Tempe-sta), storia sulr a p p o r t o

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Un confronto tra i giovani autori di oggi e quelli della mia gene-razione è impossibile, e sarebbe inopportuno. Noi non aveva-mo le tecnologie e i mezzi che permettono nuovi linguaggi e

una certa facilità di creare immagini. Impensabile all’epoca. Eppure,paradossalmente, oggi sono molto di più le difficoltà per emergere.Come mai?

Solo un piccolo esempio, esperienza personale. Ai miei tempi nonc’era internet, d’accordo, ma tutti i giornali avevano una pagina umo-ristica. Fu così che io a sedici anni trovai subito impiego, al Marc’Au-relio. Oggi dove va un ragazzo con i suoi disegni? A chi li mostra? Io co-nobbi Metz e Marchesi, mi presero come “negretto” e fu da lì che poiarrivò il cinema. Forse quella del “negro” era una figura non propriogiusta, ma era il solo modo di fare la classica gavetta. Oggi temo si fac-cia fatica a fare persino quella.

È come se i linguaggi si fossero moltiplicati, ma la voce per espri-merli fosse stata strozzata. Del resto, in un paese come il nostro, maperché mai dovrebbe andare bene il cinema? Si possono anche fare ifilm a costo zero, o quasi, ma il cinema ha bisogno di un’industria —che non c’è — e di un mercato — che non c’è — in grado di rischiarecon i giovani. Certo, esistono le eccezioni, per fortuna: da Pif fino a Sor-rentino, ma il cinquanta per cento dei film italiani non esce, non arri-va al pubblico.

Vorrei poter essere più ottimista. Nei miei film, in genere, c’è sem-pre stata una sorta di ottimismo, anche nelle storie drammatiche c’e-rano leggerezza e sentimenti positivi. Non mi sembra giusto conta-giare con il pessimismo giovani che comunque continuano ad amareil cinema. Il loro è un piccolo, prezioso segno di speranza. E per que-sto mi fermerei qui.

I Bronzi vengonoimbrigliaticon cinghie e fasceper essere sollevatie posizionatisu lettigheche ne riproduconole curve esterne

Sono sottopostia radiografiecon raggi gammaper capire il lorostato di salute

Un trapano da dentista rompela terra e un aspiratore porta viai detriti, vengono asportati saliche hanno corroso il bronzo

Sono inseriti in due cassemunite sul fondodi ammortizzatori per evitareche scosse e movimentidovuti al trasportocreino danni

Al microscopiosi osservano gli occhi:si scopre chenon sono d’avorio,come si pensava,ma di calcite

Vengono effettuateindagini endoscopiche

LASERLa tecnologia applicataha ottenuto ottimi

risultati nella pulituradi superfici lapidee, metalliche,affrescate. Ora toccaa dipinti su tavola e tela

GELI solventi liquidi dannosiper restauratori

e ambiente, sono sostituitida gel: consentono una facilestesura senza dispersionedi sostanze tossiche

BATTERIInnovazione nel campo del biorestauro:

sono coltivati ed educatiaffinché si cibino di colleanimali e di vernici stese sulle opere d’arte

ALGHEL’uso come vernicidi prodotti derivanti

da alghe risale al ’600e viene dal Giappone. I MuseiVaticani stanno adattandoall’uopo alghe del litorale laziale

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la Repubblica

NextAggiustatutto

IL GLOSSARIO

Paola Donati piacerebbe ricevere in regalo «unrobottino». Se esistesse, lo spedirebbe dentro iBronzi di Riace per raggiungere l’unico puntodove non è riuscita a far arrivare il video endo-scopio, il sondino del trapano e l’ablatore a ul-trasuoni: nel braccio piegato dei due divi diReggio Calabria. «Troppe curve, oltre il gomitoquei due sono ancora pieni di terra di fusioneda portare via». Terriccio del V secolo a.C. cheminaccia di rimettere in moto la corrosione delmetallo. Donati e Cosimo Schepis — restaura-tori rispettivamente dell’Istituto superiore perla conservazione e il restauro (Iscr) di Roma edella Soprintendenza archeologica della Cala-bria — del lavoro sui Bronzi parleranno al Salo-ne del restauro che si terrà a Ferrara dal 26 al 29marzo. I loro colleghi dell’Opificio pietre duredi Firenze — con l’Iscr uno dei maggiori istitu-ti al mondo per la ricerca e la formazione in que-sto settore — illustreranno invece i progressi

pera. Ma non tutti seguono questa strada. An-na Maria Marcone preferisce la gelatina. La re-staturatrice dell’Iscr, nel laboratorio del SanMichele a Roma, ha da poco concluso la prati-ca dell’Arrivo a Colonia di Sant’Orsola di Car-paccio. Per liberare il telero del ’400 da pesantiridipinture fatte nel 1983, si è affidata al gel diGellano: «Sta su anche sulla tela in verticale,contiene il solvente, ed è trasparente: puoi co-sì osservare mentre si imbeve della parte daasportare senza intaccare la pittura sottostan-te e senza liberare nell’aria so-stanze tossiche nocive pernoi». Già, c’è anche lo stato disalute dei restauratori da tene-re sott’occhio. Il tema sarà alcentro di un convegno orga-nizzato in Vaticano per il 20marzo. Ulderico Santamaria,capo del Gabinetto di ricercascientifica dei Musei Vaticani,racconta: «Ci stiamo occupan-

ottenuti con il laser sui bronzi rinascimentalidi Donatello e Ghiberti. Ma anche sulla fibra dicui sono fatti gli Achrome di Piero Manzoni:«Sono fragili opere degli anni Sessanta, im-possibile usare solventi liquidi: si sarebberosciolte. La pulitura con il raggio laser è stata in-vece indolore e perfetta» dice Marco Ciatti, so-printendente dell’Opificio.

Sui metalli e sulla pietra il laser fa miracoli.Sui dipinti su tavola e su tela è invece un tabù.«A livello di sperimentazione, bisogna muo-versi in direzione di lunghezze d’onda diversedall’infrarosso o verso regimi d’impulso, ossiala durata, non convenzionali: ma è ancoratroppo presto» spiega Alessandro Zanin, re-sponsabile dell’area “Light for art” di El. EnGroup, una delle quattro-cinque società almondo che produce laser per restauratori.Dunque un raggio verde per liberare gli oli e leantiche tempere da alterate colle, vecchie e re-centissime: potrebbe essere questo il domanidel restauro. E senza danni collaterali per l’o-

do dei batteri coltivati appositamente per di-vorare le vecchie colle e i dannosi polimeri usa-ti per trent’anni. Ma anche della linea di ricer-ca che estrae dalle alghe sostanze utili per ilconsolidamento dei dipinti: sono stabili e nonfanno male all’uomo. L’unico problema è chesono care». Vengono dal Giappone e costano140 euro al grammo. «Però ce ne sono di simili,anzi migliori, nel mare del Lazio. E così abbia-mo deciso con la Sapienza di provare a colti-varcele da noi».

ACARLO ALBERTO BUCCI

Il restauro ai tempi di laser, robot e gel

RigatinoÈ la tecnica principe che rispetta l’istanzastorica: le lacune di un dipinto sono colmatecon un tratteggio eseguito con coloriche rendono il reintegro riconoscibile

VelaturaÈ il ritocco eseguito con stesuredi colore diluito e sottotono in mododa rendere l’intervento individuabile,come avviene con il rigatino

L’OPERAZIONE

LE TECNICHE

Per entrare nel resto del corposi passa dai fori sotto ai piedi:mediante un’asta flessibilelunga 250 centimetri: non è statopossibile raggiungere le braccia

Si effettuanoindagini chimichesulle patinesuperficiali

Le statue vengono poggiatesu nuovi basamentiantisismici in marmocostituiti da due blocchi

La testa viene svuotataentrando da un foropreesistente in cima al cranioLe ciglia superiori,

dimenticate per anniin una scatola,vengono riattaccate

All’interno dei blocchi sono state scavatequattro calotte concave e inserite quattro sferedi marmo che, in caso di terremoto,non fanno cadere il Bronzo

All’interno della statuasono posizionati sensoriper monitorare in temporeale il microclimainterno e l’andamentodelle lesioni

MALTEQuelle miglioriper il restauro

architettonicoe degli affreschi sono a bassocontenuto di sali. Pocheindustrie le producono

SABBIEPer la pulituradei marmi si usa

acqua nebulizzatao sabbie. Sul colonnatodi San Pietro è stata utilizzatala Garnet: non è tossica

SENSORISempre più piccolie precisi, i sensori

permettono di rilevarei dati relativi a umidità,temperatura, luce, movimentodelle opere dove sono applicati

VIRTUALEDalla tecnologiadigitale nuovi software

per simulare interventidi restauro e studiarne gli effettiMa anche per offrirericostruzioni virtuali

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Il futuro del restauro potrebbe insommatendere al verde. Di certo non sarà roseo. Laspending review ovviamente ha colpito duroanche qui. «C’era la Mac che aveva prodottoun’ottima malta, la Albaria, apposta per que-sto settore. Ma poi l’ha dismessa perché pocoremunerativa. Così rimaniamo relegati in unanicchia», si sfoga Gisella Capponi, direttricedell’Iscr che in quattro anni ha visto ridurre ifondi statali da un milione a 470mila euro an-nui, con sessanta allievi da finire di formare. «Io

spero che ce la faremo a inaugurare il nuovocorso. Ci diamo da fare per trovare i soldi fuori,e ci riusciamo. Ma non bastano più». Nel glo-rioso istituto fondato nel 1939 da Argan, dipar-timento di fisica, ci si occupa anche di sensori-stica. Elisabetta Giani, fisica, con Chiara Pe-trioli, informatica della Sapienza, sta speri-mentando sistemi elettronici adatti a rilevare«gli shock, termici e meccanici, subiti dalleopere durante i trasporti». Anche perché, co-me succede in questi giorni per il viaggio dellesculture di Augusto dalle Scuderie del Quirina-le a Parigi, «un imballaggio più sicuro abbat-terà gli esorbitanti costi di assicurazione».

Ma anche nell’arte contemporanea c’è mol-to campo per la ricerca. «Fino al Settecento siusavano una ventina di pigmenti in tutto, poila chimica ha cambiato il mondo e dal Nove-cento gli artisti non fanno che sperimentarenuove tecniche, le più anticonvenzionali: pernoi è una sfida continua» dice Marco Ciatti. Ilprimo istituto ad aver aperto al contempora-

versità di Urbino. «A furia di intervenire, ci stia-mo giocando l’arte italiana. Dopo la prima,ogni successiva pulitura di un Caravaggio è uncrimine perché sempre qualcosa si perde» è ilsuo j’accuse. Questo non significa però ferma-re la ricerca. Affidata al digitale. E al virtuale. Za-nardi ha condiviso la tesi di un suo allievo, Lu-ciano Ricciardi. Due tempere del Trecento del-la Galleria nazionale dell’Umbria sono statepassate ai raggi infrarossi per rilevare il disegnosottostante e alla luce ultravioletta per stanarele ridipinture. Armato di Autocad e di Photo-shop, ha ricostruito esattamente le parti man-canti dell’Annunciazionee rimosso, dalle spal-le della Vergine col Bambino, il tendaggio po-sticcio così da far risplendere l’originario fon-do oro. Tutto però solo sull’immagine elettro-nica. «I Federico Zeri di domani potranno fareattribuire le opere collegandosi semplicemen-te a un pc. Evitando così di danneggiarle» gon-gola Zanardi.

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neo è stato, negli anni Novanta, l’Iscr. Il labo-ratorio è guidato da Paola Iazurlo e Grazia DeCesare. Ora hanno per le mani la Cosmogoniadi Giulio Turcato. Il pittore aveva provato a ri-parare gli scollamenti avvenuti sulla pelle del-l’asfalto da lui steso nel 1960. Ma il problema siè ripresentato. «Abbiamo analizzato e ripro-dotto il bitume in laboratorio per studiarlo neldettaglio — spiega Iazurlo — quindi siamo in-tervenute scaldando le creste prima di farle ria-derire alla tela con una colla ad hoc». Ora il Tur-cato restaurato a Roma fa giurisprudenza.

Il futuro del restauro può però voler dire an-che ritorno al passato. Se lo augura GiovannaMartellotti, della Cbc, cooperativa nata nel1977: «Assistiamo a un declino progressivodella manualità. I corsi aperti da accademie euniversità privilegiano l’aspetto teorico. Ep-pure il restauratore deve allo stesso tempo sa-pere e saper fare». Un futuro che può voler di-re in un certo modo la “fine” del restauro èquello proposto da Bruno Zanardi dell’Uni-

ReversibilitàCon la riconoscibilità, è la caratteristicafondamentale di un buon restauro:ogni intervento deve poter essere rimovibilein ogni momento e in breve tempo

MimeticoPer rimediare a perdite di colore nei quadri,il restauratore che lavora su committenza privataspesso esegue un reintegro che si mimetizzacompletamente con l’originale

StaccoSi usa per estrarre un affresco e trasportarlosu tela. Diversamente dallo strappo,prevede l’estrazione della pellicola pittoricacon il primo strato di intonaco

Dai Bronzi di Riace ai dipinti su tela e tavola. Armati di trapano e Autocad,ma anche aiutati da batteri coltivati proprio per divorare vecchie colle,ecco come si portano a nuova vita le opere del passatoPossibilmente senza danni collaterali

LA DOMENICA■ 40DOMENICA 9 MARZO 2014

la Repubblica

Né semplice né banale, quello del pesce crudo è un rito che richiedetempo, tecnica e molta attenzione agli ingredientiMa si può fare. In sei tappe (e magari con l’aiuto di un abbattitore domestico)

I saporiOrientali

Stendere l’alga norisul bordo inferiore della stuoia di bambù(makisu), con la parte lucidarivolta verso il basso

Disporre uno strato di risoe un filetto di salmone sopra l’alga nori. A piacere,aggiungere fettine di cetriolo o avocado

Piegare un lembo della stuoia sugli ingredienti e formare un involtinoesercitando una leggerapressione con le dita

Disporre i maki sushisu un tagliereo piatto da portata: vannoserviti con le bacchettetradizionali (hashi)

Tagliare l’involtino con il tipico coltello (sushikiri-bocho) in rondelleda circa due centimetridi spessore (maki sushi)

«Sushi. Così mi chiamava la mia ex-moglie. Pescefreddo». Difficile pensare che il sarcastico com-mento dell’investigatore Deckard (HarrisonFord) in Blade Runnerabbia contribuito alla dif-fusione del tandem culinario riso-pesce. An-che perché il sushi vale molto più di un sem-

plice pesce freddo: è cultura, storia, nutrimento, a partire dalla pa-rola “acido” (sushi, in giapponese), che ne identifica l’origine.

Duemila anni fa, infatti, i giapponesi conservavano il pesce fa-cendolo fermentare con riso e sale e il sapore acido segnava la fi-ne del processo. Da allora a oggi, saperi e tecnologia hanno pro-dotto un doppio miracolo, prima facendo assurgere il sushi a ci-bo-culto, capace di far nascere migliaia di ristoranti dedicati,poi permettendo che le tante declinazioni create in scia alla ri-cetta primordiale entrassero prepotentemente nelle cucine dicasa, in un tourbillon di zenzero e wasabi, simboli del fai-da-tenippo-gastronomico.

In realtà, fare il sushi a casa non è semplice né banale, a me-no di non voler ingollare anonimi bocconi intrisi di salsa di soia.Rapiti dalla sequenza di maki, inari e nigiri, troppo spesso ac-crocchiamo in qualche modo l’arte della preparazione nata neimonasteri buddisti, mentre solo se nasce da un magico mix ditempo, dedizione e abilità — sostengono i cultori — il sushi sadiventare poesia per il palato. Tecnica e attenzione, a partire dal-la scelta degli ingredienti. In Giappone, per esempio, tutto si sadell’anisakis, il pericoloso parassita migrato insieme alle impor-tazioni ittiche dal Pacifico, che si annida soprattutto negli organidel pesce azzurro. Al di là dei severi controlli nei mercati all’in-

grosso, i sushi-master sanno perfettamente dove scoprirlo, a seconda dellavarietà del pescato, dalle branchie della rana pescatrice alle viscere del ton-no. Un scelta di responsabilità figlia del rispetto assoluto per la consistenzadelle carni, tanto che i cuochi migliori fanno riposare il pesce sfilettato in car-te a diverso gradiente di assorbenza, per riportarlo alla stessa textura di quan-do era vivo, prima di trasformarlo in sushi e sashimi.

In Europa, abbiamo semplificato tutto obbligando chi commercializza ilpesce crudo ad “abbatterlo” in specifici surgelatori: potenza e rapidità degliabbattitori — ora anche in versione casalinga — sono fondamentali perché icristalli di ghiaccio della surgelazione siano i più piccoli possibili, salvaguar-dando la consistenza oltre a uccidere il parassita (che ovviamente muore an-che in cottura).

Ma non di solo pesce vive il sushi, se è vero che nel mondo dilagano i localiche offrono l’altro sushi, vegetariano e vegano. Niente di punitivo, al contra-rio, come dimostra il successo clamoroso del locale newyorchese Beyond theSushi (Chelsea Market), perennemente affollato di clienti carnivori, che han-no scoperto il piacere di verdure, semi e salsine sfiziosissime, assemblate incento ricette differenti.

Che il pesce rientri o meno nella vostra quotidianità culinaria, non perde-te il docu-film Jiro e l’arte del sushi, dove l’ottantacinquenne guru di Tokyospiega la sua filosofia. Imparerete poco su come si impugna un sushikiri-bo-cho, ma il vostro sushi sarà il più zen del quartiere.

Stasera giapponesesenza uscire di casa

Sushifai-da-te

LICIA GRANELLO

Come si prepara

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MakisuMini stuoia di bambù legatagrazie a cordinidi cotone,essenzialeper preparare i maki sushi(sushi rolls)

HangiriCiotola a fondopiatto in legno:qui il riso bollitoviene mescolatocon lo shamoji(cucchiaio) ad aceto di riso,zucchero e sale

UchiwaIl ventaglio di carta rigida,sventolatomentre si condisce il riso: raffredda e fa evaporareprima l’aceto

Sushikiri-bochoIl coltello affetta-sushi con lama in acciaio speciale: può tagliare otto maki alla volta

HashiIn bambù, legno,avorio, metallo,plastica: le bacchetteoriginarie della Cina, da appoggiarevicino al piatto

1 2 3 4 5 6Mettere il riso bollito nella ciotola (hangiri), condirecon aceto di riso, zucchero e sale. Raffreddare con il ventaglio (huchiwa)

■ 41DOMENICA 9 MARZO 2014

la Repubblica

Sulla strada

Immaginateche sia

un sandwich

Ammiri un sushi e più che alpalato sembra ammiccare altuo senso estetico, minuto

effimero capolavoro che soltantouno chef pittore potrebbe concepi-re, un minimalista al quale basta unpo’ di riso, qualche alga, del pescecrudo o del caviale di uova di salmo-ne rosse come rubini, per creare ungioiello. Negli anni Ottanta ancorada noi non si conoscevano i sushi, eio ammiravo queste composizioni diogni tipo e varietà esposte nelle vetri-ne dei ristoranti o in quei luoghi didelizia culinaria che in Giappone sitrovano al piano sotterraneo di ognifamoso Grande Magazzino. Banco-ni dove il cibo, cotto o da cuocere, op-pure crudo come deve essere il pescedel sushi tradizionale, è offerto emesso in mostra con una eleganzatanto raffinata che ti domandi se sialecito mordere tanta bellezza. E in-fatti ho esitato a lungo con i sushi chemi attiravano come espressionemassima della giapponesità, unamaniera di portare a perfezionequalsiasi nonnulla: ma mangiarli,come potevo? Non osavo, mi dicevoche era quasi sacrilego farlo. O, forse,diffidavo del pesce crudo...

Un giorno però ho compiuto ilgrande passo all’indietro, cioè sonopassata dal “cotto” — il mio pescefritto — al “crudo” di sushi e sashi-mi, invertendo così il passaggio che,secondo Lévi Strauss, avrebbe por-tato l’uomo dalla natura alla cultu-ra. E che delizia è stata tornare allanatura, se questa elaborata creazio-ne giapponese può mai chiamarsinatura perché di più elaborato pocopuò essere messo in bocca. Da allo-ra mai e poi mai, in tutto il periodoche ho vissuto in Giappone, mi sononegata spuntini di sushi, gustati albar, in piedi, velocemente comefossero dei sandwich, invenzione diun lord inglese e, a quanto si rac-conta, snack rilanciato dai giappo-nesi che ispirandosi a una loro anti-ca ricetta popolare rispondevano alpanino imbottito dei mangiatori diriso e di pesce.

RENATA PISU

Dove comprare

PER LA QUINOA50 g.di quinoa15 g. di aceto bianco25 g. di zucchero

PER LA GIARDINIERA50 g. di cavolfiori50 g. di carote200 g. di brodo

PER LA SALSA TONNATA25 g. di carote25 g. di sedano50 g.di tonno bianco

6 g. di capperi dissalati6 g. di acciughe sott’olio100 g. di rapa rossa250 g. di tonno bianco

Nella cucinade “La Madonninadel Pescatore”, davantial mare di Senigallia,Moreno Cedroni - inventoredel susci mediterraneo -crea piatti sorprendentie squisiti, come quello ideatoper i lettori di Repubblica

Maki di tonno e quinoaIngredienti per 4 persone

TORINOYUKIKOVia Monginevro 33Tel. 011-4279890

MILANOPOPOROYAVia Eustachi 17 Tel. 02-29406797

TREVISOIKIYAVia Manzoni 52Tel. 0422-583130

GENOVASHANGHAI SUPER MARKETVia Gramsci 171/R Tel. 010-2466452

BOLOGNAJAPAN KOREA MARKETVia Oberdan 24/HTel. 051-221878

FIRENZEASIA MARKETVia S. Egidio 5 Tel. 055-2342745

ROMANIPPONIA SUSHICASH&CARRYVia di Trigoria 45Tel. 06-5062737

CATANZAROCENTRO ASA BIOVia Poerio 26 Tel. 0961-702064

CAGLIARIIL SUQVia Napoli 19/21Tel. 070-660223

CATANIACRISTALDICorso Sicilia 81Tel. 095-316422

LA RICETTA

Zenzero Si chiamano gari le fettine di zenzero bollite pochi minuti,scolate, coperte con sakè, su (aceto di riso), zucchero e mirin

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Riso KomeChicchi piccoli e tondi sciacquatia crudo, cotti col coperchio per far assorbire l’acqua. Poi sale e zucchero sciolti nel mirin caldo

Semi tostati Per il sushi di pesce, sesamobianco o nero spadellato senzacondimenti. Nella versione veganche papavero, zucca, girasole

In tavolaI vari tipi di sushi: nella partesinistra del piatto nigiridi salmone, tonno, seppia, branzino. A destra, maki sushi

Mirin Colore paglierino e gradazionealcolica pari a un vino rosso, per il fermentato di riso mochi-gome, usato in salse e marinature

Salsa di soia Due le tipologie-base: shoyu— ottenuta fermentando soia,grano tostato, sale — e tamari,più densa, scura, senza grano

Carta di riso A base di acqua e farina di riso,cotta a vapore dopo averla stesasottilissima su una griglia fittafoderata di garza

Wasabi Appartiene alla famiglia di rafanie cavoli la Wasabia japonica, la cui radice verde chiaro ha sapore forte e piccante

Alga nori Ricche di iodio, ferro e vitamina A,le sette varietà di porphyratritate, essiccate, tostate e ridotte in fogli di pochi grammi

Avocado Giallo o verde, liscio o rugoso, la Persea americana vantaconsistenza vellutata e gusto dolciastro

Yuzu L’aromatico Citrus junos, ibrido di mandarino e limone giapponese,regala un tocco fresco e ammorbidisce la salsa di soia

Cuocere la quinoa in un litro di acqua salata per 20’, scolarla e condirla con aceto, salee zucchero. Per la salsa tonnata, stufare in un pentolino coperto carote, sedano e cipollain 30 g. di olio, scolare e frullare con tonno, capperi dissalati, acciughe e acetoPer la giardiniera cuocere 7’ in un litro di acqua con aceto le cimette dei cavolfiorie 4’ le carote a dadi, farle riposare in un brodo di acqua, aceto, zucchero e sale. Frullarela rapa con acqua e sale. Spadellare il filetto di tonno in un’antiaderente ben caldaStendere un foglio di pellicola trasparente, spatolare sopra la quinoa, appoggiareil filetto di tonno, ruotando la pellicola fino a chiuderlo. Affettare allo spessore di 3 cmogni pezzo.Stendere sul piatto un cucchiaio di salsa tonnata, appoggiare il makie riccioli di daikon. Intorno, giardiniera, salsa di rapa e fettine di rapanelli

LA DOMENICA■ 42DOMENICA 9 MARZO 2014

la Repubblica

“Di’ il mio nome a un bambinoe non saprà chi sono. Ma se gli cantiil topolino che mio padre comprò...”Voleva suonare il pianofortema gli mostrarono un violino

Ha nostalgia di quando i dischisi vendevano a milionima a casa non ne haneppure uno “Sempre avuto

capelli ribelli: volevo solodiventassero bianchi,finalmente ora ci siamo”

ROMA

Le canzoni italiane eranofatte d’acqua azzurra, ac-qua chiara e piccoli grandiamori. Oppure avevano

locomotive in fiamme e il profilo di Sai-gon, avevano zingari felici. Finché è ar-rivato Branduardi, di nome Angelo,flauto dolce e violino, uno che vestiva dimusica le parole di Esenin, citava Calvi-no e si ispirava a Musil. Bum. Sono qua-rant’anni che è qui, a vivere la sua scenacome un’anomalia, «non per provoca-zione, non per scelta, è stata questa mu-sica a venire da me».

È seduto in poltrona, la pipa accesa,gli occhi che fissano il vuoto per scava-re dentro la memoria. «La prima voltache ho composto avevo diciassette an-ni. Musicai Dante». Canticchia. «Tantogentile e tanto onesta pare, la donna miaquand’ella altrui saluta… Ho semprecercato suoni naturali, poi l’unpluggedè diventato una moda. Sono stato fra iprimi, con Maurizio Fabrizio. Ricordoun concerto in Francia, gli spettatorigridavano “in piedi, in piedi”. Volevanovedere il violinista che saltava». Bran-duardi è così. Puoi restare un’ora a par-larci del Concilio di Nicea e dell’eresiadei Catari, e da qualche parte dentro luici trova sempre un po’ di musica. «Pren-diamo il Vangelo di Giovanni, il più mi-stico dei quattro. La frase iniziale è sta-ta difficile da interpretare. In principioera il Verbo, il Verbo era presso Dio e ilVerbo era Dio. Ecco. La parola “ver-bum” in aramaico significa “suono”, oqualcosa di simile. Tutte le cosmogoniedei popoli primitivi partono da questoassioma. Creature sonore e splendenti

diventano materiali e opache quando aloro viene dato un nome. Ha ragioneMorricone: è l’arte più vicina a Dio. Pri-ma viene la musica, poi la parola».

Tutte le note di Branduardi sono unacatena, una lunghissima lauda allo spi-rito, alla ricerca del soffio vitale. MarcoMangiarotti, critico musicale, disse cheè come l’aglio: o ti piace o non ti piace.L’ultimo disco, Il rovo e la rosa, ha persottotitolo: Ballate d’amore e morte.Ballate “Elisabettiane”, una ripresa deldiscorso avviato nel 1986 con il disco suYeats. «Arrangiamento è una parola or-ribile, si preoccupa di aggiungere. Lamia invece è musica per sottrazione.Cerco il vuoto, al contrario dei barbariche ne avevano terrore. La musica èguardare oltre una porta chiusa, perde-re il senso del tempo e dello spazio. To-gliere certezze ritmiche e armoniche».Sta portando il suo violino in giro perl’Europa, partenza dalla Germania, tut-to esaurito all’Olympia di Parigi, tra po-co in Italia (il 26 a Torino e il 29 marzo aRoma)

«In realtà da bambino avrei volutostudiare pianoforte. Vengo dai vicoli diGenova, i caruggi. Abitavo a via dellaMaddalena, la strada decumana che ta-glia l’angiporto e che prosegue verso viadel Campo, poi via di Pré. Prostitute,contrabbandieri, gente che entrava eusciva di galera, ma mia madre non hamai chiuso la porta di casa. Si mangiavaquel che usciva dal porto con il con-trabbando. Per un mese solo banane,poi arrivava la carne congelata dall’Ar-gentina e per un mese si andava avantisolo con la carne. Infatti odio banane ecarne. Ma è stata un’infanzia bellissi-ma». Bellissima, eppure senza pia-noforte. «Abbiamo avuto l’acqua in ca-sa che ero piccolo, il Comune lanciòdelle iniziative per i bambini disagiatidella zona, nella mia scuola c’era il pia-noforte. Mio padre non suonava, maera un melomane, gli dissi che avrei vo-luto studiarlo, però costava troppo. Epoi in casa non entrava. Mio padre co-nosceva qualcuno che insegnava alconservatorio Paganini di Genova. An-dammo dal maestro Augusto Silvestri,che aprì una scatola e mi fece vedere unviolino tirolese del ’700. Fui colpito dalcolore e dall’odore. L’odore della cera. Iviolini antichi sono stati suonati percentinaia d’anni alla luce delle candele.Dissi: “È lui”». Amore totale. «Il pia-noforte adesso lo considero una mac-china per scrivere, i pianisti mi perdo-nino, non ho una grande passione. L’ho

studiato come strumento complemen-tare, passai l’esame perché volevo to-gliermelo dai piedi». Solleva mignoli eindici nell’aria. «Oggi il piano lo suonocosì, soltanto per armonizzare mentrecompongo».

Tutta questa dedizione alla musicacon i coetanei è stato un problema. Ungrande problema. «Coetanei? Da bam-bino non ne avevo. Il più piccolo conme al conservatorio era Angelo Costajunior, figlio del grande armatore, die-ci anni più di me. Giocare a pallone nonpotevo: si rovinano le mani. Giocare apallavolo lo stesso. Farsi le pippe ugua-le. L’unica cosa che i miei mi lasciava-no fare era il nuoto, ho il diploma di“Squaletto” del Coni. Due volte ho avu-to delle crisi di rigetto, per fortuna miopadre mi convinse a non smettere. Glidevo tantissimo. Ho scoperto che esi-stevano le donne soltanto a sedici anni,quando siamo arrivati a Milano». L’in-fanzia gli ha lasciato un’altra eredità vi-sibile. I capelli. «Erano ingovernabili.Mia madre cominciò a farmi le banane,lei le chiamava così: cioè arricciava i

boccoli, li avvolgeva all’ingiù. Non homai più cambiato. Ho solo desideratoper anni che diventassero bianchi, fi-nalmente ci siamo».

L’icona del menestrello è nata inquesto modo, la conoscono pure i bam-bini, insieme al “cane che morse il gat-to e si mangiò il topo”. Alla Fiera dell’E-st. La musica colta che parla all’infan-zia. «Prendi un bambino delle materneo delle elementari, gli fai il mio nome ecertamente non sa chi sono. Ma quan-do gli canti il topolino, be’ allora col to-polino cambia tutto. Eppure è una bal-lata terribile, drammatica, con il macel-laio che uccide il toro, l’angelo dellamorte. È stato un successo enorme pu-re in francese, è sui libretti, sui canzo-nieri per bambini. Così come la Ballatain fa diesis, un brano che comincia: “So-no io la morte e porto corona”. Parte lacanzone e tutti a fare gli scongiuri, ibambini no. Perché hanno un sensodifferente della morte. Hanno reso AllaFiera dell’Est popolare. Da tempo quelbrano non è più mio, il che mi garanti-sce — con un po’ di immodestia — l’im-mortalità».

Nessuna nostalgia per le hit parade.«È tutto così cambiato. Non voglio fareil reduce, ma ho avuto la fortuna di vi-vere l’epoca d’oro. Dagli anni ’70 aglianni ’90. Il ventennio più proficuo dellamusica nel mondo. Quando il Discod’oro arrivava per 500mila copie ven-dute. Adesso te lo danno a 12.500, unavolta su 12.500 copie ci sputavi sopra.Essere in hit parade oggi significa avervenduto quattro dischi». In casa Bran-duardi non ce ne sono di suoi. «Ho i na-stri incisi, sono di mia proprietà. Ma di-schi no, forse mia moglie li terrà da qual-che parte, io non li ho mai visti. Ognitanto ne chiedo qualcuno, la casa di-scografica mi spedisce delle copie per-ché io ne regali. Devo averne fatti tanti,forse, non lo so. Ho riascoltato quello suYeats poco prima di partire per questatournée, per capire come all’epoca ave-vamo ricostruito quella polifonia. In ge-nere quando ne pubblico uno, lo sentouna volta al giorno per dieci giorni, poimai più. Lo troverei insopportabile». Ilprimo uscì nel ’74, quando Branduardiaveva ventiquattro anni, fresco ancoradi lezioni in classe con il poeta FrancoFortini. «Credevo che da musicista misarebbe servito saper parlare inglese,francese e tedesco. Ma il liceo linguisti-co era a quei tempi privato, non potevopermettermelo. Trovai perciò un com-promesso iscrivendomi all’Istituto tec-

nico statale per il turismo. E guarda tu:chi è il professore di italiano? Fortini. Al-cuni di noi avevano con lui un rapportocome con un maestro di bottega. Lui ciportò in classe Pasolini ed Enrica Col-lotti Pischel, mi ha fatto conoscere tut-to. Un giorno passa tra i banchi e mi la-scia un bigliettino. C’era scritto: “Nonperdetelo il tempo ragazzi, non è poitanto quanto si crede, date anche mol-to a chi ve lo chiede, dopo domenica èlunedì”. È diventato il testo di una miacanzone. Tutte le volte che rientravo acasa dopo una tournée passavo da lui.Fino al giorno in cui è morto».

La musica italiana che oggi Bran-duardi ascolta è un elenco scarno di fi-gure. «Mi piace Battiato, mi piace PaoloConte. Direi basta. Altri nomi non mene vengono in mente». Nell’ultimo di-sco, tra le ballate rinascimentali propo-ste, spunta pure la Geordie cantata daDe André. «La eseguo in modo rigoroso,filologico, con l’arciliuto, poche notinedi improvvisazione. Fabrizio lo cono-scevo bene, ci siamo sempre stimati,anche se frequentavamo ambientimolto diversi. Lui era figlio di uno degliuomini più ricchi di Genova, io di unodei più poveri. Non c’è mai stato mododi fare qualcosa insieme. Solo una voltaricevetti una telefonata da Dori Ghezzi.Ne ho un vago ricordo, penso fosse il pe-riodo in cui stavo fuori per sei mesi. An-che se musicalmente c’è troppo Bras-sens per chi Brassens lo conosce, credoche La Buona Novella sia il disco piùbello mai fatto in Italia».

E comunque a Branduardi l’agliopiace. «Lo metto dappertutto. Da un po’a Genova si sono messi in mente di fareil pesto senza l’aglio. Ma diventa unaspremuta di basilico. Fa schifo».

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L’incontroMenestrelli

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AFP

Noi eravamoi più poveridi Genovai De Andréerano i più ricchiCome potevamolavorare insieme?

AngeloBranduardi

ANGELO CAROTENUTO

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