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SYMBOLON STUDI E TESTI DI FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALE Direttore: Francesco Romano UNIVERSITÀ DI CATANIA - DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA CULTURA, DELL’UOMO E DEL TERRITORIO LA FISICA DI ARISTOTELE OGGI PROBLEMI E PROSPETTIVE Atti del Seminario Catania, 26-27 settembre 2003 a cura di R. Loredana CARDULLO e Giovanna R. GIARDINA Prefazione di Francesco ROMANO CATANIA 2005 CUECM ISBN 88-86673-75-2 14,00 (i.i.) SYMBOLON LA FISICA DI ARISTOTELE OGGI PROBLEMI E PROSPETTIVE R. LOREDANA CARDULLO GIOVANNA R. GIARDINA 28 28

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testo fondamentale sulla fisica aristotelica

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SYMBOLONSTUDI E TESTI DI FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALE

Direttore: Francesco Romano

UNIVERSITÀ DI CATANIA - DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA CULTURA, DELL’UOMO E DEL TERRITORIO

LA FISICA DI ARISTOTELE OGGI

PROBLEMI E PROSPETTIVE

Atti del Seminario

Catania, 26-27 settembre 2003

a cura di

R. Loredana CARDULLO e Giovanna R. GIARDINA

Prefazione di

Francesco ROMANO

CATANIA 2005 CUECMISBN 88-86673-75-2 € 14,00 (i.i.) SY

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SYMBOLONSTUDI E TESTI DI FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALE

Direttore: Francesco Romano

UNIVERSITÀ DI CATANIA - DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA CULTURA, DELL’UOMO E DEL TERRITORIO

LA FISICA DI ARISTOTELE OGGI

PROBLEMI E PROSPETTIVE

Atti del Seminario

Catania, 26-27 settembre 2003

a cura di

R. Loredana CARDULLO e Giovanna R. GIARDINA

Prefazione di

Francesco ROMANO

CATANIA 2005 CUECM

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SYMBOLON

STUDI E TESTI DI FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALEDirettore: Francesco Romano

UNIVERSITÀ DI CATANIA - DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA CULTURA, DELL’UOMO E DEL TERRITORIO

11. AA.VV., Momenti e Problemi di Storia del Platonismo (1984)

12. Luciano Montoneri, I Megarici (1984)

13. Francesco Romano, Porfirio e la Fisica Aristotelica (1985)

14. R. Loredana Cardullo, Il Linguaggio del Simbolo in Proclo (1985)

15. Concetto Martello, Simbolismo e Neoplatonismo in G. Scoto Eriugena (1986)

16. Francesco Romano e Antonio Tiné, cur., Questioni Neoplatoniche (1988)

17. Francesco Romano, Proclo. Lezioni sul Cratilo di Platone (1989)

18. Daniela P. Taormina, Plutarco di Atene. L’Uno, l’Anima, le Forme (1989)

19. Thomas Leinkauf, Il Neoplatonismo di Francesco Patrizi (1990)

10. Daniela P. Taormina, Il Lessico delle Potenze dell’Anima in Giamblico (1990)

11. Concetto Martello, Analogia e Fisica in Giovanni Scoto (1990)

12. Eva Di Stefano, Proclo. Elementi di Teologia (1994)

13. Maria Di Pasquale Barbanti, Filosofia e Cultura in Sinesio di Cirene (1994)

14. R. Loredana Cardullo, Siriano Esegeta di Aristotele, vol. I (1995)

15. R. Loredana Cardullo, Siriano Esegeta di Aristotele, vol. II (2000)

16. Francesco Romano e R. Loredana Cardullo, cur., Dunamis nel Neoplatonismo (1996)

17. Rosario V. Cristaldi, Saggi (Filosofia, Ermeneutica, Iconologia) (1997)

18. Concetto Martello, Fisica della creazione. La cosmologia di Clarembaldo di Arras

(1998)

19. Maria Di Pasquale Barbanti, Ochema-Pneuma e Phantasia nel Neoplatonismo.

Aspetti psicologici e prospettive religiose (1998)

20. Giovanna R. Giardina, Giovanni Filopono matematico. Commentario a Nicomaco

(1999)

21. Francesco Romano, Domnino di Larissa. La svolta impossibile della filosofia mate-

matica neoplatonica (2000)

22. Concetto Martello, Lanfranco contro Berengario nel Liber de corpore et sanguine Do-

mini (2001)

23. Giovanna R. Giardina, I fondamenti della fisica. Analisi critica di Aristotele, Phys. I

(2002)

24. Maria Barbanti e Francesco Romano, cur., Il Parmenide di Platone e la sua Tradi-

zione (2002)

25. Maria Di Pasquale Barbanti, Origene di Alessandria tra Platonismo e Sacra Scrittu-

ra. Teologia e Antropologia del De principiis (2003)

26. Giovanna R. Giardina, Erone di Alessandria. Le radici filosofico-matematiche della

tecnologia applicata (2003)

27. Francesco Romano, L’uno come fondamento. La crisi dell’ontologia classica (2004)

28. R.L. Cardullo e G.R. Giardina, cur., La Fisica di Aristotele oggi (2005)

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In copertina: testa di Aristotele, Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Nel frontespizio: Ecate raffigurata in un amuleto (da C. Bonner, Studies inMagical Amulets, Michigan Univ. 1950).

Department of Sciences of Culture, Man and TerritoryUniversity of Catania

Proprietà letteraria riservata

© Catania 2005 - Cooperativa Universitaria Editrice Catanese di MagisteroVia Etnea, 390 - 95128 Catania - Tel. e fax 095 316737 - C.c.p. 10181956

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INDICE

Prefazione (Francesco Romano) p. 7

Premessa » 15

Le origini della teoria aristotelica delle cause (Mario Vegetti) » 21

Primato della fisica? (Enrico Berti) » 33

L’analogia tevcnh-fuvsi~ e il finalismo universale in Aristotele, Phys. II (R. Loredana Cardullo) » 51

La “causa motrice” in Aristotele, Phys. III 1-3 (Gio-vanna R. Giardina) » 111

Le cose mosse da altro per natura (Ferruccio Franco Repellini) » 151

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LA FISICA DI ARISTOTELE OGGIPROBLEMI E PROSPETTIVE

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LA “CAUSA MOTRICE” IN ARISTOTELE,PHYS. III 1-3

Giovanna R. Giardina*

Premessa

Sin dalle prime linee del libro III della Fisica, Aristotele è im-pegnato nell’avviare concretamente la trattazione della nozione dimovimento, allo scopo di completare le problematiche affrontateprecedentemente, ovvero quella del divenire del libro I e quelladella fuvsi~ del libro II. Ora, la nozione di divenire, così come ri-sulta dalla trattazione del libro I, discende teoreticamente dallafondazione dei principi dell’ente naturale, il quale è definito al-l’interno della trattazione della fuvsi~ del libro II come ciò che hain se stesso il principio del movimento e della quiete.1 Quindi, do-po aver discusso dell’ente naturale come di “ciò che diviene” (to;gignovmenon) e di “ciò che cresce” (to; fuovmenon),2 Aristotele pro-segue studiandolo come “ciò che è mosso” (to; kinouvmenon), conla differenza che quest’ultimo non può essere sganciato dal suocorrelativo, ovvero da “ciò che muove” (to; kinou'n). Ma il movi-mento – con il quale rimane costantemente legata la causa motri-ce –, così come è trattato nei primi tre capitoli del libro III, sem-bra costituire il cuore stesso della Fisica aristotelica, nella misurain cui, oltre che perfezionare le argomentazioni che lo precedono,gioca un ruolo fondamentale nella progressione del trattato, per-

111

* Università di Catania.1 Per tutto questo discorso si cf. la premessa di Phys. I 1, 184a10-16 e la

fondazione dei principi del divenire in Phys. I 7; cf. anche Phys. II 1, 192b13-14.2 Il termine natura (fuvsi~) precisa quello di generazione (gevnesi~) in quan-

to specifica che si tratta di una generazione naturale, di una gevnesi~ fusikhv, poi-ché la dottrina della generazione e, in generale, del divenire è, nella prospettivaaristotelica, la fondazione di una scienza fisica, ovvero di una scienza degli entinaturali.

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ché rende possibile la trattazione del mutamento e si pone comeelemento determinante dei tre studi distinti e annunciati da Ari-stotele in Phys. II 7, 198a29-31: a) lo studio di ciò che è immobi-le,3 b) quello di ciò che è mosso ma incorruttibile,4 c) quello del-l’essere mosso e corruttibile.5 L’analisi del movimento in Phys. III1-3, quindi, ha un carattere tale che la rende applicabile tanto aglienti del mondo sublunare quanto a quelli del mondo sopralunarefino a giungere a ciò che trascende il movimento stesso, il PrimoMotore Immobile. Di conseguenza si può dire che la Fisica aprala strada alla filosofia prima.6 Infine, per dovizia di completezza,occorre non trascurare il fatto che tale dottrina del movimento,che in Phys. III 1-3 è trattata in modo generale, è utilizzata secon-do modi specifici nei vari trattati fisici particolari, e anzitutto nelDe motu animalium e nel De generatione animalium.7

La tesi di fondo di questa mia argomentazione è che la pro-blematica del movimento è legata a quella della causa motrice,nella misura in cui “ciò che è mosso” (to; kinouvmenon), come hogià detto, non può esistere senza “ciò che muove” (to; kinou'n).Parlando del divenire nel libro I, Aristotele ha evitato a ragion ve-duta di spiegare nei particolari il ruolo che in esso ha il movimen-to e la stessa cosa è avvenuta nel caso della natura, ma, una voltaacquisite le nozioni di divenire e di natura, la progressione dell’ar-gomentazione esige la conoscenza precisa di che cosa sia il movi-mento, come Aristotele stesso ci dice in Phys. III 1, 200b12-15:«poiché la natura è principio di movimento e di mutamento e lanostra ricerca riguarda la natura, occorre che non resti nascostoche cosa sia movimento, perché ignorando questo si ignora neces-sariamente anche la natura (∆Epei; d∆ hJ fuvsi~ mevn ejstin ajrch; kinhv-sew~ kai; metabolh'~, hJ de; mevqodo~ hJmi'n peri; fuvsewv~ ejsti, dei' mh;lanqavnein tiv ejsti kivnhsi~: ajnagkai'on ga;r ajgnooumevnh~ aujth'~ aj-

112 GIOVANNA R. GIARDINA

3 Scil. il Primo Motore Immobile.4 Scil. gli enti del mondo sopralunare.5 Scil. gli enti del mondo sublunare.6 Cf. L. Couloubaritsis (2001), pp. 213 ss.7 Non è un caso che all’inizio del trattato De generatione animalium Aristo-

tele affermi che egli tratterà il problema avvalendosi della causa motrice.

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gnoei'sqai kai; th;n fuvsin)». Così, la causa motrice, che aveva fattola sua apparizione nel libro II, trova la sua trattazione dettagliatanel libro III.

In Phys. II 3 Aristotele affronta il problema delle cause in mo-do esplicito,8 teorizzando che le cause sono solo di quattro specie,e sono cioè la causa materiale, la causa formale, la causa motrice ela causa finale.9 Tuttavia, di queste quattro cause, solo le causemateriale, formale e finale trovano posto in questi primi due libri:la causa materiale in Phys. I 7-9, la causa formale in Phys. I 7-9 eII 1, e la causa finale in Phys. II 4-8, mentre la causa motrice è tra-scurata: la ragione potrebbe essere che Aristotele considera la

LA “CAUSA MOTRICE” IN ARISTOTELE, PHYS. III 1-3 113

8 È noto che sul concetto aristotelico di causa è in atto da diversi anni unvasto dibattito che continua, fino ai nostri giorni, a impegnare e a separare glistudiosi. Si registrano infatti molte posizioni, provenienti soprattutto dall’areaanglosassone, tali da rendere difficile anche una loro sintesi. Il problema nascedal fatto che la dottrina aristotelica delle quattro cause è molto lontana dal mo-do moderno di intendere la causa e i rapporti causali – cf. D.J. Allan (1965), pp.1-18; M. Bunge (1959); W.A. Wallace (1972-1974) –, e a questo si aggiunge ilfatto che Aristotele utilizza due termini per dire la causa, e cioè aijtiva e ai[tion,che a mio modo di vedere (e come peraltro ho cercato di dimostrare con una re-lazione presentata al Colloquio internazionale Aristote et la question de la causa-lité tenutosi a Bruxelles nei giorni 26-28 agosto 2002) non sono affatto sinonimi.Una corrente ermeneutica piuttosto corposa, anche questa principalmente diarea anglosassone, tende a comprendere e spiegare la dottrina aristotelica dellecause come una dottrina dell’explanation o del because, sulla base di quanto Ari-stotele dice sia in Phys. II 7 sia in APo. I 13. Si vd. a questo proposito J. Annas(1982), pp. 311-326; M. Frede (1987), pp. 125-150; M. Hocutt (1974), pp. 385-399, contro il quale si vd. la riflessione di G.R.G. Mure (1975), pp. 356-357. Sul-l’argomento si vd. ancora i contributi di J.M.E. Moravcsik (1974), pp. 3-17, Id.(1975), pp. 622-638, Id. (1995); di C. Natali (1997), pp. 113-124.

9 Poiché è compito del fisico conoscere le quattro cause (Phys. II 7, 198a22-24), si potrebbe ritenere che dei fenomeni naturali il fisico debba trovare sempretutte e quattro le cause. In realtà, come fa notare W. Charlton (Aristotle’s Phy-sics I-II, by W. Charlton, Oxford 1971), Aristotele intende che è compito del fi-sico cercare di conoscere un ente naturale indagandolo sulla base di tutte e quat-tro le cause, ma ciò non significa che per ciascun ente fisico ci siano semprequattro cause. Ad esempio, le eclissi, che pure non hanno né causa materiale nécausa finale, tuttavia sono fenomeni naturali. Quindi, compito del fisico è inda-gare ricercando tutte e quattro le cause, ma il fisico non può essere certo di tro-varle tutte in ogni fenomeno naturale (cf. anche J. Follon (1988), pp. 330-331).

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causa motrice come particolarmente legata al movimento, che èoggetto specifico del libro III: infatti, la indica di volta in volta ocome “ciò che muove” o “ha mosso” (to; kinou'n o to; kinh'san), ocome “ciò da cui ha origine il movimento” (to; o{qen hJ kivnhsi~), ocome “ciò da cui ha origine il principio del mutamento o dellastasi (o{qen hJ ajrch; th'~ metabolh'~ h] stavsew~)”.10

Un’ultima considerazione per completare questa premessa. Ilibri VII e VIII della Fisica accentuano il ruolo della causa motri-ce, anche se l’apparire di un Primo Motore Immobile apre la pos-sibilità di una causa finale per ciò che è ultimo. Come è noto, ènel libro L della Metafisica che quest’ultima causa si manifesta inmodo decisivo, grazie alla definizione di Dio come ciò che muovein quanto è amato. Ma, fra l’indeterminatezza di questo argomen-to in Fisica VIII e la sua formulazione definitiva in Metafisica L, sicolloca una differenza sottile fra fisica e metafisica. Tale differen-za ci permette di supporre che, nella Metafisica, la questione dellacausalità stabilita nella Fisica deve giocare un ruolo che è specificodella filosofia prima. Quindi, se per Aristotele non c’è veramentescienza se non attraverso la conoscenza delle cause, si comprendenon soltanto il costante ricorso alle cause dei trattati fisici che fan-no seguito alla Fisica, ma anche il ruolo che le cause occupanonella Metafisica: il problema della causalità potrebbe allora costi-tuire un argomento discriminante fra la fisica e la filosofia primase si comprende quale sia la differenziazione, all’interno di unamedesima dottrina, quella della causalità appunto, che conducealla conoscenza sia dell’essere in divenire sia dell’essere in quantoessere.

114 GIOVANNA R. GIARDINA

10 Questa prospettiva sfuma un poco la correttezza dell’interpretazione tra-dizionale che attribuisce una particolare forza alla causa formale, perché se è ve-ro che l’ente naturale trova la sua spiegazione principalmente grazie alla causaformale, tuttavia risulta vero anche che tale ente naturale non può essere spiega-to nella sua pienezza e completezza soltanto sulla base della causa formale, per-ché senza la causa motrice non ci è possibile conoscere ciò a partire da cui unente è ciò che è.

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Definizione di movimento in Phys. III 1-2, 200b12-202a3

Dopo aver premesso, alle linee 200b12-28, il programma distudio che intende seguire,11 Aristotele intraprende immediata-mente la trattazione del movimento in generale, esponendo quat-tro assiomi che gettano le basi indispensabili per la definizionedel movimento e per lo svolgimento dell’argomentazione su diesso. Le cose che Aristotele ha interesse di stabilire sono questequattro:

1) ci sono enti che sono in potenza e in entelechia “insieme”(200b 26-28): questo assioma ci sarà chiarito dall’esempio di cal-do-freddo che si legge alle li. 201a19ss.;

2) il movimento è possibile soltanto tramite una relazione, cheè subito stabilita come la relazione fra “ciò che è capace di agire”(poihtikovn) e “ciò che è capace di patire” (paqhtikovn), e, in gene-rale, come fra “ciò che è capace di muovere” (kinhtikovn) e “ciòche è mobile” (kinhtovn) (200b28-32). In questo secondo assiomala nozione di causa motrice viene ancora presentata allo stato po-tenziale di poihtikovn-kinhtikovn;

3) il movimento non può esistere fuori delle cose12 e precisa-mente fuori da quelle che cadono sotto le categorie di sostanza,quantità, qualità e luogo. In realtà, qui Aristotele non sta pensan-do al movimento soltanto, ma ha in mente in modo più specificoil divenire nel suo complesso, cioè il nascere e il mutare tramite ilmovimento che li attua, e per questa ragione Aristotele:

– assume tutte e quattro queste categorie, anche quella di so-stanza, che invece dovrebbe rimanere esclusa se si trattasse sem-plicemente di movimento e non anche di mutamento, dal mo-

LA “CAUSA MOTRICE” IN ARISTOTELE, PHYS. III 1-3 115

11 Si tratta, come si può facilmente notare, della materia trattata nei libri IIIe IV della Fisica, poiché nel terzo libro Aristotele si occupa del movimento(capp. 1-3) e dell’infinito (capp. 4-8), mentre nel IV libro si occupa del luogo(capp. 1-5), del vuoto (capp. 6-9) e del tempo (capp. 10-14).

12 L’espressione generica ta; pravgmata indica ovviamente gli enti naturali,quindi indagare sugli enti naturali significa immediatamente indagare sul movi-mento e, viceversa, indagare sul movimento è necessario se si vuole conoscere glienti naturali.

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mento che, secondo Aristotele, non c’è movimento della so-stanza;13

– nell’usare espressioni quali: «infatti ciò che muta muta sem-pre o secondo la sostanza o secondo il quanto o secondo il qualeo secondo il luogo (metabavllei ga;r ajei; to; metabavllon h] kat∆ ouj-sivan h] kata; poso;n h] kata; poio;n h] kata; tovpon)» (200b33-34); e«sicché non ci sarà né movimento né mutamento di nulla oltre itipi già detti (w{st∆ oujde; kivnhsi~ oujde; metabolh; oujqeno;~ e[stai pa-ra; ta; eijrhmevna)» (201a1-2), mostra di pensare al mutamento cosìcome al movimento, se non più al primo che al secondo;

4) ciascuna di queste categorie che vengono predicate dellecose in movimento appartiene a queste in un duplice modo: comeforma (morfhv) e come privazione (stevrhsi~), per cui del “questodeterminato” ci sarà la sua forma o la sua privazione, del “quale”il bianco o il nero, del “quanto” il compiuto o l’incompiuto, “se-condo la traslazione” l’alto o il basso oppure il leggero o il pesan-te. Tutti questi sono esempi di forma e privazione di ciascun mo-do della suddetta predicazione (Phys. 201a3-9).

Mediante tali assiomi il discorso del movimento è impostatosulla base delle coppie potenza-entelechia e privazione-forma, èimpostato cioè come un processo che conduce l’ente da uno statodi privazione della forma a uno stato il cui termine ultimo è ilpossesso compiuto della forma: sotto questo profilo il movimentocomincia a delinearsi come un passaggio fra due determinazionicontrarie.14 A questo punto Aristotele può fornire la sua definizio-ne generale di movimento: «l’entelechia di ciò che è in potenza inquanto tale è movimento (hJ tou' dunavmei o[nto~ ejntelevceia, h|/toiou'ton, kivnhsiv~ ejstin)»,15 definizione che viene specificata se-

116 GIOVANNA R. GIARDINA

13 Cf. Phys. V 2, 225b10-11; si vd. G.R. Giardina (2002), pp. 33 ss.14 Si tratta invece del “passaggio” fra due contraddittori nel caso della so-

stanza, della quale secondo Aristotele c’è mutamento ma non movimento. Cf.Cat. 6, 6a17-18 e De Interpr. cap. 14 oltre che cap. 6, 17a31-34. Sulla contraddi-zione si cf. Cat. 9-10, 11b17-23. Si vd. sull’argomento J.P. Anton (1957). Sulproblema dei contrari nel mutamento si cf. anche J. Bogen (1992), pp. 1-21.

15 Phys. III 1, 201a10-11, cf. D.W. Graham (1988), pp. 209-215 e, sul signi-ficato cinetico di entelechia, in questo passaggio aristotelico, si vd. Chung-Hwan

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condo i quattro modi di predicazione già enunciati, ivi compresala sostanza, di cui c’è generazione e corruzione, segno questo cheAristotele ha ancora una volta in mente un movimento di cose co-me sostanze, cioè un movimento-mutamento. Per chiarire la suadefinizione egli propone l’esempio del costruibile (to; oijkodomh-tovn) che, in quanto tale è nel suo stato potenziale, mentre quandoè in entelechia, ovvero in movimento, si costruisce (oijkodomei'tai)e questo costruirsi è una costruzione nel senso della costruzionein corso (oijkodovmhsi~).

Il primo termine dell’esempio, to; oijkodomhtovn, con la suastessa desinenza di aggettivo verbale, si qualifica come ente in po-tenza, come un dunatovn, ma è un dunatovn con una sua specificitàintrinseca, come avviene sempre in Aristotele, poiché questo spe-cifico dunatovn si presenta come oijkodomhtovn, cioè come una casache si può costruire: evidentemente, diremmo noi, si tratta dimattoni, di pietre e cose simili. Quando questo ente potenziale,che possiede una sua specificità, sia in entelechia, ovvero quandosi avvia il suo processo di realizzazione verso ciò che esso è in po-tenza, cioè verso la forma di cui è privo, nella fattispecie versouna forma di casa, allora si ha movimento, e questo particolaremovimento di cui stiamo discutendo è la costruzione della casa,cioè la oijkodovmhsi~. Se avessimo ancora il dubbio di come dob-biamo intendere questo termine, cioè se dobbiamo intendere lacostruzione della casa come il processo del suo attuarsi oppurecome momento finale del suo attuarsi, cioè come la casa in costru-zione o la casa già costruita, il dubbio ci viene subito dissolto daquanto Aristotele ci dice subito dopo. La stessa definizione, ci di-ce infatti Aristotele, possiamo dare ad altri movimenti, ad esem-pio all’apprendimento (mavqhsi~), alla guarigione (ijavtreusi~), allarotazione (kuvlisi~), al salto (a{lsi~), alla crescita (a{drunsi~) e al-l’invecchiamento (ghvransi~): tutti termini che hanno la desinenza-si~, la quale indica la processualità, dal momento che lo Stagiritanon dice, ad esempio, ijatreiva, che significa pure guarigione, ben-

LA “CAUSA MOTRICE” IN ARISTOTELE, PHYS. III 1-3 117

Chen (1958), p. 14 nota 1. Cf. anche Metaph. K 9, 1065b33, in cui si legge: hJ tou'dunatou' kai; h|/ dunato;n ejntelevceia kivnhsiv~ ejstin.

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sì ijavtreusi~, che significa l’esercizio della guarigione, la guarigio-ne nel suo farsi, e così non dice gh'ra~, che significa la vecchiezzanel suo stato compiuto, ma dice ghvransi~ che significa il processodell’invecchiamento. Allo stesso modo la mavqhsi~ è l’apprenderenel processo dell’apprendimento mentre la maqhteiva è l’appren-dimento come compiuta istruzione. Sulla base di questa termino-logia potremmo allora dire, insieme ad Aristotele, così: quandochi è capace di apprendere, cioè colui che noi diciamo “capace diapprendere” in quanto tale, si trovi in entelechia, allora sta ap-prendendo, e questo processo lo chiamiamo apprendimento, mav-qhsi~ (e non maqhteiva). L’entelechia che entra in gioco nella defi-nizione del movimento, allora, non è, per forza di cose, atto nelsenso dell’ejnevrgeia, cioè nel senso della compiutezza di un enteche ha completato l’acquisizione di una forma determinata, poi-ché quando c’è l’ejnevrgeia non c’è più movimento e quindi nonc’è più entelechia.16 Semmai l’ejnevrgeia è presente come tevlo~,come termine e causa finale del movimento, cioè come orienta-mento del movimento verso una determinata forma già realizzata.

Poiché Aristotele ha definito il movimento nei termini che egliutilizza per determinare il primo assioma, quello cioè degli entiche sono al tempo stesso in potenza e in entelechia, egli deveadesso chiarire il suo discorso, il che gli consente anche di passare

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16 Credo che sul significato di ejntelevceia e di ejnevrgeia occorra ancora di-scutere a lungo, ma non sono d’accordo, evidentemente, con chi, come M.L.Gill (1980), p. 130 e p. 134, ritiene ed afferma che ejntelevceia ed ejnevrgeia sianosinonimi in Aristotele. L’intendere come sinonimi questi due termini induce aconfusione e imprecisione ermeneutica, come nel caso, ad esempio, del passag-gio di Aristot., Phys. III 1, 201a27-29. Per quanto concerne il dibattito sul signi-ficato di ejntelevceia: tale termine viene inteso nel senso di attualizzazione daRoss (cf. la sua traduzione della Fisica del 1936, p. 536); J.L. Ackrill (1965), pp.138-140; T. Penner (1970), pp. 427-433; è invece inteso nel senso di attualità daL.A. Kosman (1969), pp. 40-62 e (1984), pp. 121-149; J. Hintikka (1977), pp.59-77. Per una discussione dettagliata della differenza che sussiste fra ejntelev-ceia ed ejnevrgeia si cf. anche L. Couloubaritsis (1997), pp. 266 ss., M.Th. Liske(1991), pp. 161-179; Chung-Hwan Chen (1956), pp. 56-65 e (1958), pp. 12-17.Confonde ejntelevceia ed ejnevrgeia R. Brague (1991), pp. 107-120. Legate a que-sto articolo di R. Brague mi sembrano poi le argomentazioni di B. Besnier(1997), pp. 15-34.

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alla coppia di termini che ci ha introdotto nel secondo assioma,cioè poihtikovn-paqhtikovn, che altro non sono che kinhtikovn-kinhtovn. Occorre spiegare, infatti, in che senso un ente può dirsiin potenza e insieme in entelechia. Ovviamente, un ente, se guar-dato sotto il medesimo rispetto, non può possedere contempora-neamente due determinazioni contrarie, ma per farci comprende-re la sua espressione Aristotele ricorre all’esempio del caldo e delfreddo: uno stesso ente può essere caldo in potenza e freddo inentelechia, nel senso che è una cosa fredda che sta diventandocalda. Questo provoca una reciprocità di azione e passione, per-ché nella stessa cosa il caldo agisce sul freddo e quest’ultimo subi-sce il caldo di modo che nella cosa si va realizzando ciò che è inpotenza. Se Aristotele, anziché dire qermo;n me;n dunavmei yucro;n de;ejnteleceivaÛ avesse detto qermo;n me;n dunavmei yucro;n de; ejnergeivaÛ,nel senso cioè che l’ente fosse in atto freddo e per nulla caldo, al-lora la qualità in potenza dell’ente, cioè il caldo, sarebbe stata sol-tanto in potenza e neppure dinamicamente in atto, cioè in entele-chia, per cui non ci sarebbe stata alcuna reciprocità di azione-pas-sione fra qualità contrarie e, di conseguenza, non ci sarebbe alcunmovimento. Al contrario, nell’ente che diventa caldo, il freddo c’èancora, anche se non è più freddo in atto, perché il caldo in po-tenza comincia a realizzarsi: e questo ci risulterà evidente da ciòche Aristotele ci dirà fra poco, alle li. 201b5-15. Questo rapportodi qualità contrarie, che nell’esempio sono caldo-freddo, rendepossibile l’agire e il patire di uno stesso ente contemporaneamen-te (a{ma), perché se è vero che uno stesso ente non è contempora-neamente e sotto il medesimo rispetto caldo e freddo, tuttavia l’a-gire dell’uno è, contemporaneamente, in esso, il patire dell’altro.17

Questo ci introduce al rapporto motore-mobile. Nella frase suc-cessiva, infatti, Aristotele trae la conseguenza del suo ragionamen-to dicendo: «sicché anche ciò che muove nell’ambito degli entinaturali è mobile (w{ste kai; to; kinou'n fusikw'~ kinhtovn), perché

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17 Aristotele non avrebbe potuto dirci freddo in potenza e freddo in entele-chia, perché se è freddo in entelechia non lo è più solo in potenza. Ciò che l’enteè in entelechia, in questo caso freddo, è l’indicazione di un movimento, sia chesia agito sia che sia subito.

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tutto ciò che è siffatto muove essendo esso stesso in movimento(pa'n ga;r to; toiou'ton kinei' kinouvmenon kai; aujtov)».18 Unica avver-tenza di Aristotele è che questo non vale sempre, perché esiste an-che un motore immobile, il cui studio è oggetto di altre trattazio-ni. La conclusione è quindi che: «l’entelechia di ciò che è in po-tenza, quando, essendo in entelechia, opera19 non in quanto èquello che è ma in quanto mobile, è movimento (hJ de; tou' dunavmeio[nto~ ãejntelevceiaÃ, o{tan ejnteleceiva/ o]n ejnergh'/ oujc h|/ aujto; ajll∆ h|/kinhtovn, kivnhsiv~ ejstin)».20 Il movimento si realizza quando unente in potenza opera non in quanto se stesso, cioè in quanto èpuramente in potenza ciò che può divenire, ma quando, essendoin entelechia, sta realizzando la sua potenza, cioè è mobile o comeciò che si sta costruendo, o come colui che sta apprendendo o co-me colui che sta guarendo, eccetera. L’importanza del fatto chel’ente deve essere in potenza e in entelechia contemporaneamenterisiede in questo: se l’ente è visto in se stesso, cioè come atto com-piuto o come pura potenza, per cui non è in fase di attuazione,non ha movimento alcuno, perché ha movimento solo quando lapotenza si sta realizzando, per cui è in entelechia, in quanto, nonessendo ancora del tutto realizzato, è ancora in potenza. E se cisono contemporaneamente la potenza e l’entelechia c’è, contem-poraneamente, la reciprocità dell’agire e del patire, perciò ci sonotutte le condizioni del movimento, cioè il movimento stesso e lasua causa.

Come se il discorso non fosse già di per sé chiaro, Aristoteleprecisa ancora quanto ha detto: la sua preoccupazione è quella difar capire che cosa sia propriamente il potenziale, il dunatovn dicui l’entelechia è movimento. Innanzi tutto, quindi, egli chiariscein che senso dice dell’ente in potenza “in quanto se stesso”. Ilbronzo è, ad esempio, una statua in potenza, ma il movimento delbronzo che diviene statua non è affatto entelechia del bronzo co-me bronzo, perché il bronzo in potenza è soltanto se stesso e

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18 Phys. III 1, 201a23-25.19 Qui il verbo indica un’azione processuale dell’ente intesa all’attuazione

della sua potenza.20 Cf. Phys. III 1, 201a27-29.

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niente altro, è cioè ciò che è in atto, cioè bronzo, e ciò che è inpotenza nel senso della pura possibilità di diventare statua: nell’u-no e nell’altro caso non c’è alcun movimento del bronzo e questobronzo, visto in questi termini, non diverrà mai una statua, percui non ci sarà alcun movimento. Al contrario, il bronzo non an-cora formato come statua diverrà bronzo formato come statuaqualora lo si consideri dal punto di vista della sua mobilità speci-fica di divenire statua, cioè se lo si consideri, in ultima analisi, co-me un potenziale privativo.21 Infatti, il bronzo in potenza, che al-tro non è che bronzo, e il bronzo come potenziale privativo, ciòche è capace di patire il movimento specifico di divenire statua,non sono la stessa cosa:22 allora l’entelechia di un potenziale-pri-vativo è movimento, cioè è movimento il realizzarsi verso una for-ma compiuta di statua di un bronzo che non è considerato sottol’aspetto del fatto che è bronzo, bensì sotto l’aspetto di ciò che ècapace di acquisire la forma di statua, quindi come mobile. Se ilbronzo in potenza, cioè il bronzo come bronzo, e il bronzo comemobile, cioè il bronzo come ciò che è capace di patire il movi-mento specifico di divenire statua, fossero la stessa cosa in sensoassoluto e secondo la definizione, allora sì, sarebbe movimentol’entelechia del bronzo in quanto bronzo. Ma non è così, ed èchiaro dai contrari, perché il poter essere in buona salute e il po-

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21 Cf. anche M.L. Gill (1980), p. 132.22 Nel De aeternitate mundi contra Aristotelem, anticipando un argomen-

to che riprenderà nel più tardo De opificio mundi, Giovanni Filopono attaccal’argomento aristotelico dell’eternità del mondo distinguendo giustamente i con-trari in contrari propri e contrari privativi. I contrari propri, infatti, come adesempio caldo-freddo, umido-secco, bianco-nero, non possono essere considera-ti alla stessa stregua dei contrari privativi, come ad esempio uomo-non uomo.Da qui Filopono obiettava ad Aristotele l’errore di avere considerato per il cieloun contrario proprio al moto circolare, contrario che non esiste, ma di non averconsiderato il suo contrario privativo: l’immobilità, cf. G.R. Giardina (1999),p. 29. In effetti, questa lezione aristotelica è abbastanza chiara già a partire dal Ilibro della Fisica, perché nel cap. 7 di questo libro, in cui Aristotele fonda la suateoria del divenire, è proprio la predicazione privativa che consente di stabilireche il sostrato, nel divenire di una sostanza, è già qualcosa di sostanziale privodella forma che acquisirà dopo il processo di divenire, cf. G.R. Giardina (2002),pp. 107-108.

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ter essere malato non sono la stessa cosa, e comunque il soggetto(to; uJpokeivmenon), di cui si afferma il sano o il malato, è unico e lostesso (taujto;n kai; e{n).

In altri termini, il problema è quello di comprendere che cosasia il dunatovn in questione. Infatti, il bronzo è un dunatovn, inquanto è in potenza una statua o qualsiasi altra cosa fatta di que-sto materiale. Se noi pensiamo al bronzo in quanto bronzo, allorala sua entelechia non sarà un diventare statua, perché il bronzo inquanto bronzo non è un dunatovn specificamente indirizzato ad as-sumere la forma di statua, ma è o un ente in atto, perfettamentecompiuto in se stesso, perché è appunto bronzo, oppure è un en-te che in potenza può essere qualsiasi cosa e non necessariamenteuna statua. Ma se noi pensiamo al bronzo come un dunatovn infunzione di un fine determinato, del tevlo~ di statua, allora questobronzo è in potenza una statua e la sua entelechia di bronzo po-tenzialmente statua è movimento verso la realizzazione della sta-tua. Allo stesso modo potremo dire, ad esempio, che l’entelechiadel legno non in quanto tale, ma in quanto in potenza un letto,sarà il movimento della realizzazione del letto, e così via. Questodunatovn è, quindi, un mobile nel senso di qualcosa che è giàorientato verso l’acquisizione di una forma,23 che è il suo fine eche è potenzialmente contenuta nell’ente stesso, una forma che,come vedremo fra poco, ha bisogno di un ente esterno per poteressere realizzata.

Da quanto si è detto appare chiaro che, per comprendere ildiscorso che Aristotele fa sul movimento, occorre tenere presentequanto ci ha insegnato nel libro I della Fisica. Aristotele ha inmente un divenire dell’ente che si fonda su tre principi: il sogget-to, la privazione e la forma. Che con il problema del movimentoegli abbia in mente il problema di come questo divenire, fondatosu questi tre principi, divenga, cioè come il soggetto passi dal suostato privativo al suo stato di compiuto possesso della forma, èchiaro sia da questi passaggi che ho appena analizzato, in cui Ari-stotele si preoccupa di definire il dunatovn (per cui, ad un certo

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23 Cf. R. Brague (1991), p. 117.

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punto, utilizzando la terminologia del I libro, ci spiega che il sog-getto, to; uJpokeivmenon, comunque è uno e lo stesso anche se si af-ferma di esso che è sano e malato), sia dal secondo capitolo diquesto libro III. Infatti, la critica che Aristotele indirizza ai Pita-gorici e a Platone,24 a causa del loro modo di collocare il movi-mento, gli è funzionale a chiarire meglio il discorso, perché gliconsente di mostrare che costoro hanno posto il movimento fra iprincipi della seconda sustoiciva (dicendo che esso è alterità, di-suguaglianza e non essere),25 in quanto è sembrato loro esserequalcosa di indefinito alla stessa maniera di quei principi, che ap-paiono indefiniti per il fatto che sono privativi (dia; to; sterhtikai;ei\nai ajovristoi).26 Il problema di Aristotele è qui quello di diffe-renziare la potenza dalla privazione, che sotto certi aspetti potreb-bero sembrare la stessa cosa, perché l’ente in potenza è una so-stanza, e quindi composto di materia e forma, e inoltre, in quantoè in potenza, è già orientato verso qualcosa, nella misura in cui,ad esempio, il legno è in potenza un letto o un tavolo o una sediaeccetera, ma non è, ad esempio, in potenza un uomo. La priva-zione, in quanto privazione, è sotto certi aspetti una potenza, per-ché è, ad esempio, il legno che può divenire un letto, ma non èuna semplice potenza, perché è il legno che può essere un letto enon un’altra cosa, quindi è l’ente visto sotto l’aspetto particolare

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24 Cf. Plat., Soph. 256d-e e Tim. 57e-58c.25 Si tratta di un’allusione alle due colonne di termini opposti di origine pi-

tagorica, di cui i termini dell’una erano quelli positivi e i termini dell’altra eranoquelli negativi o privativi. In Metaph. A 5, 986a22-26, Aristotele riporta le cop-pie che compongono le due colonne di termini opposti: limite-illimitato, dispari-pari, uno-multiplo, destra-sinistra, maschio-femmina, in riposo-mosso, retto-cur-vo, luce-tenebra, bene-male, quadrato-rettangolo. Tuttavia, come fa notare F.De Gandt (1991), p. 87, in questa lista non c’è la coppia essere-non essere, comeci si aspetterebbe dall’affermazione che Aristotele fa in Phys. III 2, 201b15-21,secondo cui il movimento sarebbe “alterità, disuguaglianza e non-essere”.

26 Cf. Metaph. Q 6, 1048b29-35. Aristotele dice che nessuno dei principi diquesta seconda colonna appartiene ad alcuna delle categorie. È alquanto curiosoche Aristotele dica che tutti i termini della seconda colonna non appartenganoad alcun genere. Filopono, In Phys. 365,10 fa notare questa difficoltà. Si può tut-tavia comprendere il testo nel senso che l’alterità, la disuguaglianza e il non esse-re non appartengano a nessun genere, ed escludere gli altri principi.

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del poter essere specificamente qualcosa e non un’altra, anch’es-sa possibile a livello potenziale. È allora la privazione che consen-te il movimento e non la potenza in quanto tale, per cui il movi-mento sarà entelechia del mobile e non di ciò che è in potenzatout court.27

Ma occorre fare un piccolo passo indietro. Dopo aver chiaritoin che senso occorra considerare l’ente in potenza di cui l’entele-chia sia movimento, Aristotele ritorna a chiarire il senso dell’enteche essendo in entelechia opera, di cui aveva parlato alla li.201a28 (o{tan ejnteleceiva/ o]n ejnergh'/) e in cui risiede il senso del-l’entelechia e della compresenza di potenza ed entelechia in unmedesimo ente. Afferma infatti Aristotele: «che dunque il movi-mento sia questo e che accada che, allora c’è movimento, quandol’entelechia sia questa, e né prima né dopo, è chiaro (o{ti me;n ou\nejstin au{th, kai; o{ti sumbaivnei tovte kinei'sqai o{tan hJ ejntelevceiah\/ aujthv, kai; ou[te provteron ou[te u{steron, dh'lon)».28 Quindi, nonsolo si ha movimento a certe condizioni dell’entelechia, ma nonc’è movimento né prima né dopo che l’entelechia agisca nel modoche si è detto. Il prima e il dopo, infatti, come si scoprirà nel cor-so di Phys. V 1-2, sono i due momenti del mutamento, momentodella privazione il prima e della forma il dopo, mentre il movi-mento è ciò che collega questi due momenti realizzando il passag-gio dall’uno all’altro. Ma vediamo meglio che cosa sia questo agi-

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27 F. De Gandt (1991), p. 86, nota acutamente che in Phys. III 2 Aristoteleinvoca l’opinione dei pensatori che lo hanno preceduto (senza nominarli), cosache gli è perfettamente abituale, ma che questo breve ripasso storico in questocaso non è situato prima del testo in cui Aristotele fornisce la sua visione perso-nale sull’argomento. Al contrario, prima di Phys. III 2, Aristotele ha già definitoil movimento. «D’abitude – scrive De Gandt – l’historia est un préalable à l’éta-blissement correct des principes, ici elle est placée après la définition, pour mon-trer que celle-ci est bien adéquate et faire comprendre pourquoi il a fallu formu-ler une définition aussi étrange et contournée. C’est que le mouvement lui mêmeest une entité si étrange». Ma la motivazione per cui Aristotele pone a questopunto il riferimento a Pitagorici e Platonici consiste nel fatto che, proprio a que-sto punto, lo Stagirita ha di fronte a sé la difficoltà di far comprendere quale siala differenza fra la potenza e la privazione.

28 Phys. III 1, 201b5-7.

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re dell’ente che è in entelechia. «Infatti – ci dice Aristotele – cia-scuna cosa ammette talvolta di operare e talvolta no (ejndevcetaiga;r e{kaston oJte; me;n ejnergei'n oJte; de; mhv), ad esempio ciò che ècostruibile e l’attuazione di ciò che è costruibile (oi|on to; oijko-domhtovn, kai; hJ tou' oijkodomhtou' ejnevrgeia), in quanto costruibile(h|/ oijkodomhtovn), è la costruzione (oijkodovmhsiv~ ejstin), perché lacostruzione è l’attuazione di ciò che è costruibile oppure è la casa(h] ga;r oijkodovmhsi~ hJ ejnevrgeia tou' oijkodomhtou' h] hJ oijkiva), maquando c’è la casa non c’è più il costruibile (ajll∆ o{tan oijkiva h\/,oujkevt∆ oijkodomhto;n e[stin), mentre ciò che è costruibile si costrui-sce (oijkodomei'tai de; to; oijkodomhtovn)».29 In altri termini: dobbia-mo distinguere ciò che è costruibile nel senso del dunatovn di cui siè detto – cioè nel senso di un ente in potenza che, tuttavia, contie-ne in se stesso l’orientamento verso l’acquisizione di una formapossibile piuttosto che di un’altra, la quale rientra ugualmentenella sua capacità o possibilità –, e l’atto che riguarda questo entecostruibile che, da una parte è la costruzione della casa, oijkodovmh-si~, e dall’altra parte è la casa, oijkiva. Tuttavia, l’ejnevrgeia nel sen-so della casa è un’ejnevrgeia che ha eliminato totalmente l’ente po-tenziale, cioè il costruibile, l’oijkodomhtovn, mentre quando l’aspet-to potenziale dell’ente non è stato eliminato, perché non ha anco-ra compiutamente acquisito la forma che esso acquisirà alla finedel movimento in cui è coinvolto, allora c’è un operare che è il co-struibile nel suo venire costruito, oijkodomei'tai de; to; oijkodomhtovn,quindi c’è un’ejnevrgeia nel senso di ejnergei'n (li. 201b8, cf. ejnergh'/di 201a28), cioè un processo dell’ente inteso all’attuazione dellasua potenza.30 Al contrario, quando c’è la casa, l’ente non ammet-

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29 Phys. III 1, 201b7-12.30 Ha torto, quindi, A. Stevens che traduce l’espressione oijkodomei'tai de; to;

oijkodomhtovn con “le costructible qui est en train d’être construit”, perché conquesta traduzione mostra di aderire alla concezione di Couloubaritsis (1997),pp. 276-279, relativa all’entelechia. Quest’ultimo distingue, infatti, in Aristotele,sulla base del De anima, un’entelechia prima e un’entelechia seconda esemplifi-cate dagli esempi di colui che possiede una scienza e non ne fa uso e di colui chepossiede una scienza e ne fa uso. Per Couloubaritsis, infatti, lo stato in potenzadi questo esempio è l’ignoranza, cioè la possibilità pura di acquisire scienza.Questo tipo di concezione dell’entelechia in Aristotele viene intesa da Coulou-

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te l’operare, cioè è il caso detto da Aristotele con le parole oJte; de;mhv. È allora in questa processualità che sta il movimento, né pri-ma né dopo, cioè né nel costruibile in quanto pura potenza nénella casa come forma realizzata di quella potenza, bensì nel co-struibile che si va costruendo.

È necessario quindi, conclude Aristotele, che la costruzionedella casa sia atto, oijkodovmhsi~ = ejnevrgeia, e che sia un tipo dimovimento, oijkodovmhsi~ = kivnhsiv~ ti~, quello cioè della costru-zione. Per la proprietà transitiva possiamo dire, allora, che ejnevr-geia = kivnhsi~, ma con l’accorgimento che Aristotele ci ha inse-gnato proprio in queste linee, e cioè non nel senso della casa giàcostruita, che è il caso in cui l’ente non ammette di operare (ejndev-cetai ga;r e{kaston … ejnergei'n oJte; de; mhv), ma nel senso della co-

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baritsis come l’avere in sé il telos, e tuttavia mi sembra che l’ente in entelechiapossieda in sé il telos in modo molto potenziale. In altri termini, se prendiamol’esempio non aristotelico della maternità: una donna è madre in potenza quan-do non ha figli, madre in atto, nel senso dell’ejnevrgeia, quando ha figli nati, e ma-dre in entelechia, io credo, quando ha in sé il telos nel senso di essere gravida delfiglio. In questo senso, dal punto di vista della maternità, la donna è in ben altrostato che quello di essere madre in potenza ed esserlo in atto. Inoltre, è vero cheper Aristotele la potenzialità non è mai pura potenzialità, perché altrimenti lamateria bronzo, ad esempio, potrebbe essere madre. Al contrario, risiede giànello stato potenziale dell’ente una potenzialità orientata, cioè la possibilità dimutare in tutta una serie di cose e non in altre. Per cui, ridurre l’entelechia nelsenso di avere in sé il telos, come intende Couloubaritsis, mi sembra ridurre l’en-telechia alla potenza aristotelica. Allo stesso modo, lo stato di chi possiede unascienza e la esercita mi sembra lo stato del motore che muove, cioè un’ejnevrgeia,una attuazione compiuta. Se, seguendo il nostro esempio, la donna in potenzamadre fosse in entelechia nel senso di avere semplicemente in sé il telos dellamaternità, tale donna non sarebbe affatto in movimento. Ma tale donna sarà nelmovimento specificamente orientato verso una maternità compiuta quando saràgravida del figlio: questo è il movimento volto alla maternità! Del resto, Aristote-le nell’espressione oijkodomei'tai de; to; oijkodomhtovn usa il verbo che indica l’azio-ne della costruzione e non lo stato immobile della materia, che può ricevere laforma di casa in procinto di ricevere tale forma. La nozione di “stare per riceve-re” indica un futuro, quindi il movimento non è ancora iniziato. Se tale fossel’entelechia, Aristotele starebbe definendo il movimento mediante uno stato del-l’ente che ci mostra l’ente immobile e questo non avrebbe senso, perché la defi-nizione finirebbe per non dire nulla di ciò che vuole definire, ben lungi dal dir-cene l’essenza.

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struzione della casa, che è il caso in cui l’ente ammette di operare(ejndevcetai ga;r e{kaston oJte; me;n ejnergei'n …).

Quanto segue nel secondo capitolo di questo III libro dellaFisica ci conferma in questa lettura e aggiunge delle sfumature alnostro discorso. La prova che Aristotele non intende identificarequi il movimento con l’ejnevrgeia nel senso di atto perfetto e quin-di l’entelechia con l’ejnevrgeia sta, del resto, in un’affermazioneche segue a breve distanza, alle li. 201b27-29. Traendo le conse-guenze che la sua critica ai Pitagorici e a Platone gli offre, Aristo-tele ci spiega in che senso il movimento sembri indefinito (dokei'najovriston ei\nai): il motivo è che il movimento non risiede in sensoassoluto, aJplw'~,31 né nella duvnami~ né nell’ejnevrgeia. Il movimen-to, infatti, «sembra essere un certo atto, ma incompiuto (h{ tekivnhsi~ ejnevrgeia me;n ei\naiv ti~ dokei', ajtelh;~ dev)».32 Il movimen-to, quindi, è propriamente ejntelevceia, che non è più duvnami~ enon è ancora ejnevrgeia. Di fatto, l’ejntelevceia altro non è che unaejnevrgeia ajtelhv~, cioè un atto incompiuto, ed è incompiuto per-ché è ancora presente il potenziale, il dunatovn, come nell’oijko-dovmhsi~ c’è ancora l’oijkodomhtovn. Per questo motivo, prosegueancora Aristotele, è difficile concepire il movimento nel suo “checos’è” (tiv ejstin): proprio perché, aggiungeremmo noi, sta inqualcosa che non è più e non è ancora, perché non è più in poten-za e non è ancora in atto. È necessario collocare il movimento –prosegue Aristotele – o nella privazione, o nella potenza o nell’at-to puro (ed ecco ancora una volta intervenire la triade dei princi-pi del divenire, privazione-soggetto-forma), ma nessuna di questetre operazioni è consentita:33 qui Aristotele sta mettendo sul tavo-lo gli stati dell’ente che corrispondono ai tre principi del primo li-

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31 H. Carteron, nella sua edizione della Fisica, ad. loc. presenta in aggiuntaaJplw'~, cioè “in modo assoluto”. Questa lezione è meglio attestata nei manoscrit-ti, anche se Ross ha scelto la versione che sopprime questo termine. Pellegrin loconserva e così Zanatta e anche a me pare che vada conservato ai fini di una mi-gliore comprensione del testo.

32 Phys. III 2, 201b31.33 Phys. III 2, 201b33-35: h] ga;r eij~ stevrhsin ajnagkai'on qei'nai h] eij~ duvnamin

h] eij~ ejnevrgeian aJplh'n, touvtwn d∆ oujde;n faivnetai ejndecovmenon.

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bro (privazione-soggetto-forma), ed è interessante che citi lo statodi compiuto possesso della forma con un aggettivo di accompa-gnamento che ci aiuta a distinguerlo ancora una volta nei suoiaspetti diversi, perché si tratta qui dell’ejnevrgeia aJplh' e non del-l’ejnevrgeia ajtelhv~. In altri termini, nell’ejnevrgeia ajtelhv~ c’è movi-mento, mentre nell’ejnevrgeia aJplh' non c’è, e questo conferma an-cor di più l’interpretazione che abbiamo dato dell’ultimo passag-gio di Phys. III 1.

Resta quindi il modo che si è detto (oJ eijrhmevno~ trovpo~), cidice Aristotele, cioè che il movimento è una certa ejnevrgeia, maun’ejnevrgeia tale quale si è detto, difficile a vedersi ma che tutta-via sussiste.34

A questo punto, dopo aver definito il movimento, Aristotelece lo mostra in concreto, introducendo il rapporto fra motore emobile che, fino ad ora, aveva soltanto sfiorato. In questo passag-gio finale di Phys. III 2 ci imbattiamo nella causa motrice. Ma,prima di iniziare questo discorso, è utile riepilogare quanto finqui si è detto sul movimento.

Nel libro I della Fisica Aristotele ci ha presentato il mondodella natura come il mondo degli enti in divenire e ci ha spiegatoquesto divenire come un processo fondato su tre principi – sog-getto, privazione e forma –, per cui il divenire sarebbe un proces-so completo che comprende un passaggio di un soggetto, che nelpassaggio permane, da un suo stato privativo di una forma deter-minata a uno stato di possesso di tale forma. Tale divenire, givgne-sqai, ci è presentato come un ejx a[llou a[llo o come un ejx eJtevroue{teron. Nel libro III, poi, Aristotele mostra concretamente “co-me” il divenire si realizzi, cioè come un a[llo o un e{teron divengaejx a[llou o ejx eJtevrou. La definizione completa di che cosa siaquesto “come”, cioè di che cosa sia il movimento, è quella diPhys. III 1, 201a27-29 di cui ho già parlato: «ma <l’entelechia> diciò che è in potenza, quando, essendo in entelechia, agisce non inquanto è quello che è ma in quanto mobile, è movimento (hJ de;

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34 Phys. III 2, 201b35-202a3: ejnevrgeian mevn tina ei\nai, toiauvthn d∆ ejnevr-geian oi{an ei[pamen, caleph;n me;n ijdei'n, ejndecomevnhn d∆ ei\nai.

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tou' dunavmei o[nto~ ãejntelevceiaÃ, o{tan ejnteleceiva/ o]n ejnergh'/ oujc h|/aujto; ajll∆ h|/ kinhtovn, kivnhsiv~ ejstin)».35 Chiariti i termini che co-stituiscono questa definizione, diviene chiaro quello che, secondoAristotele, è movimento: movimento è entelechia di un dunatovnnel senso che agisce in quanto kinhtovn. Questo vuole specificaresia il modo in cui dobbiamo intendere il dunatovn sia il modo incui dobbiamo intendere l’entelechia, cioè come una certa ejnevr-geia. Abbiamo visto il primo, cioè il dunatovn. Dall’analisi dei pas-saggi Phys. III 1, 201a29-201b5 e Phys. III 2, 201b16-27 abbiamovisto che non è possibile considerare l’ente in potenza nel sensodi ciò che ha capacità di accogliere questa o quella forma, perchéin questo senso esso non ammette alcun movimento (cf. Phys. III2, 201b34-35), ma dobbiamo vederlo come specificamente predi-sposto ad accogliere una forma specifica, e cioè come un poten-ziale privativo. Esso, quindi, non sarà bronzo come dunatovn-uJ-pokeivmenon, ma sarà bronzo come kinhtovn, ad esempio come spe-cificamente predisposto ad accogliere la forma di statua di cui èprivo. L’entelechia di questo è il movimento verso la formazionedella statua, che è in un certo senso una ejnevrgeia. Dai passaggiPhys. III 1, 201b5-13 e Phys. III 2, 201b27-202a3 si è appresoquali siano i due sensi dell’ejnevrgeia e in quale dei due risiedal’entelechia. L’ejnevrgeia può essere intesa in due sensi, o come co-struzione di ciò che è costruibile, oijkodovmhsi~ dell’oijkodomhtovn,oppure il risultato della costruzione, cioè come casa, oijkiva: inquesto secondo caso c’è un atto compiuto, cioè la casa, e non c’èpiù l’aspetto potenziale, l’oijkodomhtovn, quindi siamo davanti aduna ejnevrgeia aJplh'; nel primo caso, invece, abbiamo un’ejnevrgeiache non ha ancora eliminato il potenziale, l’oijkodomhtovn, per cui èun’ejnevrgeia ajtelhv~, in questo secondo caso abbiamo il costruibi-le che si va costruendo, oijkodomei'tai de; to; oijkodomhtovn, e abbia-mo quindi la costruzione, oijkodovmhsi~, nel senso di movimentodel costruire, cioè entelechia. In ultima analisi, il movimento èun’ejnevrgeia ajtelhv~ = ejntelevceia di un kinhtovn specificamenteinteso.

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35 Phys. III 1, 201a27-29.

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Causa motrice in Phys. III 2-3: 202a3-b29

Dopo aver definito il movimento e aver chiarito tutte le partidella definizione di esso, Aristotele passa, alla fine di Phys. III 2, amostrare come il movimento avvenga e, anzitutto, come esso na-sca da una relazione fra motore e mosso: «si muove poi, come si èdetto (w{sper ei[rhtai) – scrive Aristotele –, anche ciò che muove(kinei'tai de; kai; to; kinou'n), <e cioè il motore che muove> tuttociò che quando è in potenza è mobile (pa'n to; dunavmei o]n kinhtovn)e la cui assenza di movimento è quiete (kai; ou| hJ ajkinhsiva hjremivaejstivn), perché l’assenza di movimento è quiete per quell’ente peril quale il movimento sussiste (w|/ ga;r hJ kivnhsi~ uJpavrcei, touvtou hJajkinhsiva hjremiva).36 Infatti, in relazione a questo (scil. in relazione

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36 Questo passaggio, cioè Phys. III 2, 202a3-5, presenta qualche difficoltà,infatti Ross e Carteron, nelle loro edizioni della Fisica, adottano una punteggia-tura differente, fornendo di conseguenza una propria interpretazione del testo.Taluni traduttori, infatti, fra i quali lo stesso Carteron, attribuiscono l’espressio-ne pa'n to; dunavmei o]n kinhtovn al motore, per il fatto che Aristotele, dicendow{sper ei[rhtai alla linea precedente, si riferisce evidentemente a qualcosa che hagià detto, che potrebbe essere identificato verosimilmente con Phys. III 1,201a23-24, e cioè con l’espressione to; kinou'n fusikw'~ kinhtovn. In realtà, però,con il passaggio finale di Phys. III 2, Aristotele sta preparando l’argomento chesvilupperà nel capitolo 3, e cioè quello del rapporto tra il motore e il mobile, percui, da questo momento in poi, il motore e il mobile sono nettamente distinti e ilmotore in potenza viene sempre indicato con “ciò che è capace di muovere” emai con il mobile. Il motore in potenza è quindi kinhtikovn e non kinhtovn. Non acaso, infatti, Aspasio propone di cambiare il kinhtovn della li. 202a4 con kinh-tikovn. In realtà, l’espressione che Aristotele ha usato in Phys. III 1, 201a23-24,cioè to; kinou'n fusikw'~ kinhtovn, ha un senso in quello specifico contesto, perchéAristotele ha necessità lì di distinguere un motore mobile da un motore che, puressendo motore, è tuttavia immobile, mentre nel contesto che stiamo analizzan-do, cioè III 2, 202a3-4, Aristotele ha interesse a mettere in evidenza il rapportoche sussiste tra motore e mobile. Se l’espressione pa'n to; dunavmei o]n kinhtovn nonsi riferisse al mobile, rimarrebbe anche incomprensibile il pro;~ tou'to che seguealle li. 202a5-6 e che indica proprio il mobile in relazione al quale l’agire del mo-tore è movimento. Con l’espressione pro;~ tou'to, Aristotele esprime bene la con-dizione del secondo assioma sul movimento, di cui si occupa da questo momen-to in poi, e cioè che il movimento nasce da una relazione. Quindi, pro;~ tou'to in-dica l’agire del motore sul mobile, cioè su ciò con cui il motore deve essere in re-lazione per avviare il movimento.

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al mobile) –37 continua Aristotele –, l’operare in quanto tale è ilmuovere stesso (to; ga;r pro;~ tou'to ejnergei'n, h|/ toiou'ton, aujto; to;kinei'n ejsti); questo poi (scil. il motore) agisce per contatto, sic-ché contemporaneamente anche patisce (tou'to de; poiei' qivxei,w{ste a{ma kai; pavscei), perciò il movimento è entelechia del mobi-le, in quanto mobile, e questo avviene per contatto di ciò che ècapace di muovere, sicché contemporaneamente anche patisce(dio; hJ kivnhsi~ ejntelevceia tou' kinhtou', h|/ kinhtovn, sumbaivnei de;tou'to qivxei tou' kinhtikou', w{sq∆ a{ma kai; pavscei)».38

In questo passaggio Aristotele sta traendo le fila del discorsoche ha fin qui fatto, mostrando al tempo stesso la vera natura delmovimento come relazione fra motore e mosso, e quindi metten-do sul tappeto direttamente la causa motrice. Il motore agisce suun dunatovn che è un kinhtovn, come abbiamo già detto, cioè su unente la cui potenzialità corrisponde all’essere privo di una specifi-ca forma che è atto ad acquisire, e l’operare del motore su questoente in potenza concepito in questo modo, h|/ toiou'ton, è il muo-vere stesso. In altri termini, per il motore ejnergei'n = kinei'n e que-sto operare avviene per contatto, per cui c’è anche una compre-senza di agire e patire, come avveniva nell’esempio del caldo e delfreddo che spiegava la compresenza di potenza ed entelechia nel-lo stesso ente della quale si tratta nel primo assioma (Phys. III 1,201a19 ss.). Riassumendo, quindi, per quanto concerne il motorele cose stanno in questo modo:

to; kinou'n: ejnergei'n = kinei'n = poiei'n/pavscein (la condizioneè il contatto).

La definizione del movimento può essere, quindi, riformulatain questo modo: «il movimento è entelechia del mobile in quantomobile, ed esso avviene per contatto di ciò che è capace di muo-vere, sicché <quest’ultimo> contemporaneamente anche patisce(hJ kivnhsi~ ejntelevceia tou' kinhtou', h|/ kinhtovn, sumbaivnei de; tou'toqivxei tou' kinhtikou', w{sq∆ a{ma kai; pavscei)».39 Schematizzando an-cora si ha la seguente formulazione:

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37 Cf. la nota precedente.38 Phys. III 2, 202a3-9.39 Phys. III 2, 202a7-9.

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kivnhsi~ = ejnergei'n = kinei'n = poiei'n/pavscein del motorekivnhsi~ = ejntelevceia = kinei'sqai = pavscein del mobileA questo punto la causa motrice, riaffiorata nella relazione

motore-mosso, ci viene esplicitata ulteriormente nella conclusionedel capitolo. Scrive infatti Aristotele: «ma ciò che muove (to; ki-nou'n) porterà sempre una certa forma (ei\do~ de; ajei; oi[setaiv ti),cioè o un questo determinato, o un quale, o un quanto (h[toi tovdeh] toiovnde h] tosovnde), che sarà principio e causa del movimento (o}e[stai ajrch; kai; ai[tion th'~ kinhvsew~), qualora <il motore> muova(o{tan kinh'/), ad esempio l’uomo in entelechia crea, dall’uomo cheè in potenza, l’uomo (oi|on oJ ejnteleceiva/ a[nqrwpo~ poiei' ejk tou'dunavmei o[nto~ ajnqrwvpou a[nqrwpon)».40

Questo passaggio è estremamente interessante per compren-dere il pensiero di Aristotele, perché in esso scopriamo che, perun certo verso, il motore, to; kinou'n, è causa motrice, perché è ciòche trasmette una certa forma, ei\dov~ ti, che Aristotele spiega se-condo quelle che sono le categorie del mutamento, cioè sostanza,quantità, qualità. Ciascuna di queste forme è detta ajrch; kai;ai[tion th'~ kinhvsew~, quindi to; kinou'n può benissimo essere defi-nito come o{qen hJ ajrch; th'~ metabolh'~, oppure come o{qen hJ kivnh-si~, come Aristotele ha più volte definito la causa motrice in Phys.II. Del resto, lo stesso Aristotele ci ha detto della causa motriceche, in generale, è ciò che agisce, to; poiou'n, nel senso di soggettoagente.41 D’altra parte, però, è molto contestabile asserire che è laforma stessa ad essere causa motrice, come sembrerebbe evincersidal fatto che Aristotele afferma che il motore trasferisce sempreun’ei\dov~ ti, che è esso stesso principio e causa di movimento, ajr-ch; kai; ai[tion th'~ kinhvsew~.42 Questo discorso, infatti, si deve ri-

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40 Phys. III 2, 202a9-12.41 Cf. Phys. II 3, 195a22.42 Nel libro G.R. Giardina (2002) pp. 133-134, riflettendo su Phys. V 1,

224a34-224b8 ho scritto, sottolineando l’importanza di questo passo, che occor-re in primo luogo notare la considerazione di Aristotele secondo cui la forma, illuogo e la quantità non sono né motori né mossi. Dopo aver distinto, infatti, treimportanti termini del movimento, e precisamente ciò che si muove, ovvero to;me;n o{, ciò a partire da cui si muove, ovvero to; d∆ ejx ou|, e ciò verso cui si muove,

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collegare con quanto Aristotele ci ha detto in Phys. II 7, 198a24-26. In quelle linee, invero, egli ci aveva avvertito che tre delle cau-se spesso si raccolgono in una sola (e[rcetai de; ta; triva eij~ ªto;º e}npollavki~:), perché il “che cos’è” e il “ciò in vista di cui” sono unasola causa, e “il ciò da cui come primo deriva il movimento” è perspecie identico a queste (to; d∆ o{qen hJ kivnhsi~ prw'ton tw'/ ei[deitaujto; touvtoi~), infatti un uomo genera un uomo. In questo ragio-namento la causa motrice appare sì specificamente identica a cau-sa formale e causa finale, ma questo non significa che tutte e tre lecause siano la stessa identica cosa. Infatti, nell’esempio dell’uomoche genera l’uomo, letto come ci viene esposto alla fine di Phys.III 2, cioè “l’uomo in entelechia crea, dall’uomo che è in potenza,l’uomo”, l’uomo in entelechia è specificamente identico all’uomoin potenza che diviene uomo in atto, ma fra l’uno e l’altro c’è una

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ovvero to; d∆ eij~ o{, Aristotele pone la sua attenzione sul kinou'n e sul kinouvmenon,cioè sul motore e sul mosso. La cosa importante è che Aristotele afferma nellaFisica che il movimento avviene secondo la qualità, secondo la quantità e secon-do il luogo, termini che in questo passaggio sono espressi quando dice «infattiné muovono né si muovono la forma, il luogo e il quanto determinato», ma nonavviene secondo la sostanza. In altre parole, secondo la sostanza non c’è movi-mento, ma c’è solo mutamento, ossia generazione o corruzione. In questo pas-saggio noi ne troviamo la spiegazione, perché scopriamo che né la qualità, né laquantità né il luogo agiscono o subiscono il movimento, mentre ad agire o subireil movimento è ciò che si muove (l’ente), cioè il to; me;n o{ di cui Aristotele ha par-lato qualche linea prima. In altri termini, come ho già spiegato più diffusamentenel volume già citato, possiamo dire con Aristotele che c’è movimento “nella”sostanza, ma non che c’è movimento “della” sostanza. Questo ci spiega meglioanche il rapporto che intercorre fra movimento e mutamento, dal momento chedella sostanza, secondo Aristotele, c’è mutamento. Quando un ente nasce omuore è evidente che c’è un movimento, tuttavia Aristotele sembrerebbe esclu-dere questa ipotesi, ammettendo soltanto il mutamento come generazione e cor-ruzione. Ciò accade perché, propriamente, generazione e corruzione, sono mu-tamenti “della” sostanza. In realtà, se ammettiamo che il movimento è un pro-cesso e che quindi, in rapporto al mutamento e, in generale, al divenire, rappre-senta il loro realizzarsi, cioè il dinamismo che realizza il mutamento o il divenire,possiamo comprendere facilmente come vi sia mutamento “della” sostanza, equindi come Aristotele ammetta che un tipo di metabolhv sia appunto quella se-condo la sostanza, ossia generazione e corruzione, ma come non vi sia movimen-to “della” sostanza, perché è la sostanza stessa ad agire o subire il movimento: ilmovimento quindi avviene “nella” sostanza.

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bella differenza, perché l’uomo in entelechia è il padre che agisce,cioè l’uomo come causa motrice, ovvero ancora l’uomo nel suomovimento di trasmissione della forma “uomo” e quindi agentecome padre, mentre l’uomo in potenza e l’uomo che si genera,ovvero l’uomo in atto, è il figlio che prima non c’è e poi c’è, e che,per Aristotele, è tale da esserci sempre, prima in potenza comesoggetto, uJpokeivmenon, e poi in atto, come ente che possiede com-piutamente la forma uomo, dal momento che Aristotele non con-cepisce un non esserci in assoluto. Qui interviene un’altra diffe-renza, cioè quella tra to; kinou'n come ai[tion, in particolare comecausa motrice, e il “questo determinato”, il “quale” o il “quanto”come determinazioni dell’ei\dov~ ti che Aristotele ha chiamato“principi e cause del movimento”, ajrch; kai; ai[tion th'~ kinhvsew~,e che si riducono alle due cause formale e finale. Lo scarto avvie-ne fra to; kinou'n, che è causa, e l’ei\dov~ ti, che è principio e causa,ovvero causa in quanto principio. Infatti, l’uomo in potenza el’uomo che si genera sono, rispettivamente, la privazione e la for-ma in atto di un processo di generazione, mentre l’uomo in ente-lechia, cioè in movimento quale motore, è solo causa e non prin-cipio, intervenendo ad attivare il processo generativo, ma agendodall’esterno, poiché non si può identificare con nessuno dei treprincipi della generazione di cui Aristotele ci ha ampiamente par-lato nel libro I. Faccio queste considerazioni a ragion veduta, per-ché ho in mente la riflessione di F. Franco Repellini sulla causamotrice.43 Egli appunta la sua attenzione su un passaggio di Phys.II 3, 195b21-25, in cui Aristotele scrive: «Si deve sempre, qui co-me altrove, ricercare di ciascuna cosa la causa del grado più alto(per esempio: un uomo costruisce perché costruttore, il costrutto-re costruisce secondo la tecnica del costruire; questa è dunque lacausa di grado anteriore; del pari negli altri casi) – (oi|on a{nqrwpo~oijkodomei' o{ti oijkodovmo~, oJ d∆ oijkodovmo~ kata; th;n oijkodomikhvn:tou'to toivnun provteron to; ai[tion, kai; ou{tw~ ejpi; pavntwn)» trad. F.Franco Repellini. Franco Repellini afferma che, in questo esem-

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43 Cf. Aristotele, Fisica, Libri I e II, a cura di F. Franco Repellini, Milano1996, pp. 94-95.

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pio, il costruttore è causa motrice, ma l’arte del costruire è causamotrice di grado anteriore. Da qui ricava un concetto di causamotrice come di ciò che trasmette la forma, ma afferma che lacausa motrice vera e propria è la forma, che l’artigiano ha in men-te quando realizza una statua, oppure che il padre possiede pernatura e quindi trasmette al figlio all’atto della generazione. Lacausa motrice, quindi, sarebbe l’agente di trasmissione di una for-ma che c’è già prima della trasmissione stessa e che governa taletrasmissione, ma più ancora la causa motrice è la forma. Tutto ciòconclude che la causazione, per Aristotele, resta incentrata sullaforma.44

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44 Quando Franco Repellini afferma che la causazione, per Aristotele, restaincentrata sulla forma, mi sembra che stia pensando a un primato di un tipo dicausa sulle altre. In effetti, per quanto concerne Aristotele, si parla sempre di unprimato di una cosa sull’altra, della Fisica sulla Metafisica, o di quest’ultima sullaprima, o della causa finale nella lettura del mondo della natura, o della formanella dottrina della causalità, eccetera. A me tutti questi sembrano discorsi unpoco falsati, anche se nascono su basi veritiere. A me sembra, infatti, che Aristo-tele, con una lucidità mirabile, riesca a dar ragione e spiegazione della straordi-naria varietà e molteplicità delle cose e della conoscenza di esse, stabilendo rela-zioni continue fra principi, elementi, cause, strumenti di ricerca che sono tuttiindispensabili alla comprensione e lettura della realtà, del mondo fenomenico edi quello metafisico. Ma, in quanto tutti i componenti sono indispensabili a talelettura, nessuno di essi ha minore importanza di un altro, al di là di apparenzeche spesso, nel testo aristotelico, sono funzionali all’interno di una determinataargomentazione, ma che, in un altro passaggio, vengono fugate. Nel caso dellacausa motrice, ad esempio, potrebbe sembrare che essa abbia la minore impor-tanza fra le cause, dal momento che il divenire degli enti naturali, fondato su treprincipi, ci ha mostrato come sia indispensabile avere il soggetto, la privazione ela forma. Quindi, la materia è indispensabile e, ancor più di essa, la forma. Masenza la materia nemmeno la forma avrebbe la sua esistenza, per cui si scopre lafallacia di un discorso che metta l’una a un livello superiore dell’altra. E ancora,senza la causa motrice nessun divenire avrebbe mai luogo. Secondo un’altra let-tura, se gli enti della natura sono caratterizzati dall’essere perennemente coinvol-ti nel movimento, allora sembrerebbe che la causa ad esso legata, cioè la causamotrice, sia nell’ambito della causalità fisica quella che più da vicino debba ri-guardare gli enti naturali, mentre il primato di altre cause potrebbe spettare adesse in altri ambiti che non siano quello della natura. Ad esempio, ci sono deiluoghi aristotelici in cui la causa motrice sembrerebbe avere un primato sulle al-tre, mi riferisco a Metaph. B 2, 996b22-23 ed E.E. II 6, 1222b20-22, ma in real-tà si tratta di luoghi in cui Aristotele riprende dialetticamente le opinioni di al-

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Il passo in questione, Phys. II 3, 195b21-25, deve essere a mioavviso letto diversamente. Infatti, è vero che l’uomo costruisceperché è costruttore e il costruttore, in questo caso, è la causa mo-trice, ma tale uomo è costruttore, ci dice Aristotele, in virtù del-l’arte di costruire: l’espressione è kata; th;n oijkodomikhvn. Questo,però, non significa affatto, io credo, che occorra intendere chel’arte del costruire sia la causa motrice di grado superiore rispettoal costruttore, ma semplicemente che, la causa motrice, cioè il co-struttore, agisce da causa motrice perché possiede una forma cheegli ha appreso dall’arte del costruire, una forma, quindi, che èconforme a tale arte, kata; th;n oijkodomikhvn. Allora, questo po-trebbe significare che la causa formale, cioè la forma della costru-zione conforme all’arte del costruire, kata; th;n oijkodomikhvn, è lacausa più elevata (to; ai[tion to; ajkrovtaton), perché in effetti essaviene prima, giacché se non ci fosse una forma da trasmettere nonci sarebbe nemmeno una causa motrice che trasmette tale forma.Ora, occorre non confondere la causa motrice con la forma comecausa formale e come fine, perché questo ci condurrebbe a con-fondere o{qen hJ ajrch; th'~ metabolh'~ o kinhvsew~, che è la causamotrice, con ajrch; kai; ai[tion th'~ kinhvsew~, che sono le cause for-male e finale.45 In effetti, per certi versi, queste due ultime coinci-dono, perché nella dinamica del divenire il soggetto acquisisce laforma di cui esso era privo e che è anche il fine del processo chelo conduce da una condizione potenziale-privativa ad una acqui-sizione completa di forma, mentre la causa motrice è ciò che at-tiva questo processo rimanendo sempre esclusa dall’articolazio-ne dei principi del divenire. Intendo dire che, una lettura del di-venire di cui Aristotele ci ha parlato nel I libro, si imposta in que-sto modo: nel divenire espresso con la formula “un uomo nonmusico diviene uomo musico”, la forma, cioè musico, compare sianel momento iniziale in cui si presenta in stato privativo, sia nel

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tri. Anche stabilire una superiorità della causa motrice sulle altre è, quindi, un’o-perazione che falsifica e inficia la comprensione della filosofia aristotelica, nellamisura in cui, per Aristotele, tutto è necessario al verificarsi della molteplice va-rietà del mondo.

45 Cf. anche J. Follon (1988), pp. 331-332.

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momento finale in cui si presenta come attualmente acquisita.Quindi, la forma come principio, tradotta nei termini delle cause,si presenta sia come causa formale sia come causa finale. La causamotrice è assente dai principi, perché è esterna rispetto al proces-so generativo che essa attiva. Per comprendere appieno il discor-so di Aristotele, occorrerebbe, semmai, comprendere meglio checosa fa somigliare e che cosa fa differire i principi dalle cause,perché, se si fa l’errore di confondere gli uni con le altre, allora sidovrà concludere che anche la natura è causa motrice, dal mo-mento che Aristotele usa per la natura espressioni che sarebberoancor più significative e suscettibili di questa interpretazione diquanto non lo siano le espressioni discusse precedentemente. Ari-stotele, infatti, ci dice che gli enti naturali «appaiono avere in sestessi il principio di movimento e di quiete», tra l’altro specificatisecondo i tre modi del movimento, cioè secondo il luogo, secon-do la quantità e secondo la qualità (ejn eJautoi'~ ajrch;n e[cei kinhv-sew~ kai; stavsew~, ta; me;n kata; tovpon, ta; de; kat∆ au[xhsin kai;fqivsin, ta; de; kat∆ ajlloivwsin)» (Phys. II 1, 192b13-14), e che lanatura «è un certo principio e causa del muoversi e dello stare inquiete in ciò a cui appartiene primariamente per se stessa e nonper accidente (ou[sh~ th'~ fuvsew~ ajrch'~ tino;~ kai; aijtiva~ tou' ki-nei'sqai kai; hjremei'n ejn w|/ uJpavrcei prwvtw~ kaq∆ auJto; kai; mh; kata;sumbebhkov~)» (Phys. II 1, 192b21-23). Da quanto ho detto prece-dentemente si comprenderà facilmente che non è un caso, invece,che la natura venga considerata da Aristotele, nel corso di Phys.II, principalmente come forma e come causa finale, che sono det-te l’una e l’altra ajrch; kai; ai[tion th'~ kinhvsew~. Sembrerebbe,quindi, che delle cause aristoteliche, tre si possano riscontrare frai principi del divenire, e cioè la causa materiale, principalmentenel soggetto, la causa finale nella privazione, e la causa formalenella forma compiutamente acquisita. Il collocare la causa finalenella privazione significa individuare nel punto di partenza delprocesso l’orientamento del processo stesso, per cui l’inizio con-terrebbe già la fine, ma nessun processo avviene se non per l’in-tervento di una causa che sfugge a queste tre, perché sfugge aiprincipi, e cioè della causa motrice. Quest’ultima rientra nei prin-

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cipi, diciamo così, solo dalla porta di servizio, nella misura in cuila causalità, per Aristotele, non è mai disconnessa dall’ente, e an-che la causa motrice è un ente che, a prescindere dalla sua funzio-ne di motore, è anch’esso costituito secondo i tre principi del di-venire e coinvolto nel divenire esso stesso, al punto che risultamobile anche nell’atto di muovere.

Un’ultima considerazione. Quando Aristotele, alla fine di III2, ci dice che il movimento è apportatore di una certa forma, ciparla sulla base delle categorie di sostanza, qualità e quantità,mentre noi sappiamo bene che non esiste movimento della so-stanza ma solo mutamento della sostanza.46 In questo senso, quin-di, la causa motrice è giustamente definita da Aristotele o{qen hJ ajr-ch; th'~ metabolh'~, perché essa attiva un processo di mutamentodi cui il movimento non è altro che la componente dinamica, ov-vero la realizzazione del processo.

Il rapporto motore-mosso, con l’inizio di Phys. III 3, ci apparesubito presentato da Aristotele a partire da un’aporia, di modoche accade che lo Stagirita, contemporaneamente, ci dica qual è lasua posizione e le soluzioni delle obiezioni che potrebbero esseresollevate. L’aporia nella sua forma iniziale è espressa in questi ter-mini: «e ciò che fa difficoltà – afferma Aristotele – è chiaro (Kai;to; ajporouvmenon de; fanerovn): cioè il fatto che il movimento è nelmobile (o{ti ejsti;n hJ kivnhsi~ ejn tw'/ kinhtw'/)».47 Le parole che inte-ressano l’aporia sono queste ultime tre: ejn tw'/ kinhtw'/, e soprattut-to la preposizione ejn, perché questo potrebbe essere inteso nelsenso che il movimento appartiene solo al mobile. Ciò che inte-ressa, infatti, ad Aristotele è la preposizione “in”, al punto che an-che nell’aporia che Aristotele chiama logica, si chiede “ejn tivni;”,“in che cosa?” stanno le due forme di ejnevrgeia che comporta ilmovimento, cioè quella del motore e quella del mobile. In realtà,

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46 Questa è una lezione che Aristotele insegna in Phys. V 1-2 (cf. G.R. Mor-row (1969), pp. 154-167, ma soprattutto p. 158). Per un confronto fra movimen-to e mutamento e per il problema del mutamento (non movimento) della sostan-za rimando a quanto ho già scritto in G.R. Giardina (2002), principalmente pp.133-134.

47 Phys. III 3, 202a13-14.

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l’affermazione secondo cui la difficoltà evidente è che il movimen-to risieda nel mobile, deve essere presa insieme a quel che seguee, per comprenderla appieno, è utile riproporre uno schema cheho già discusso e che deriva dalla lettura di Phys. III 2, 202a3-9:

kivnhsi~ = ejnergei'n = kinei'n = poiei'n/pavscein del motorekivnhsi~ = ejntelevceia = kinei'sqai = pavscein del mobileIl movimento nasce dalla relazione fra un motore e un mobile

ed è uno solo il movimento che nasce da tale relazione. Tuttavia,se guardiamo al movimento dal punto di vista del mobile, vedia-mo che esso è entelechia del mobile, ma nasce ad opera di ciò cheè capace di muovere, per cui è ejnevrgeia di quest’ultimo, ejnevrgeiatou' kinhtikou', la quale però non è cosa diversa dall’entelechia delmobile, per cui occorre che sia entelechia per entrambi. Aristotelesta ragionando in un modo che ci è perfettamente chiaro a partiredal senso dell’ejnevrgeia che egli ci ha spiegato in Phys. III 1,201a5-15. Occorre, infatti, notare che nel passo suddetto di Phys.III 3 relativo all’aporia, egli non dice che questo movimento è ej-nevrgeia tou' kinou'nto~, bensì ejnevrgeia di un ente che mantiene ilsuo aspetto potenziale, ed è quindi realizzazione nel suo farsi enon nella sua compiutezza: in questo senso, questa ejnevrgeia èun’entelechia. Non a caso, infatti, Aristotele aggiunge, con unesplicativo gavr, che il motore può essere visto sotto due aspetti,come ciò che è capace di muovere a livello potenziale e come mo-tore a livello attuale (kinhtiko;n me;n gavr ejstin tw'/ duvnasqai, kinou'nde; tw'/ ejnergei'n), mettendo in gioco ancora una volta il movimentocome lo stato di ciò che non è più in potenza, ma non è ancora inatto, cioè come lo stato in cui il suo aspetto potenziale specifico,cioè privativo, non si è ancora del tutto realizzato, perché l’entenon è ancora compiutamente in atto. Se guardiamo, invece, almovimento dal punto di vista di “ciò che è capace di muovere”,to; kinhtikovn, vediamo che questo agisce sul mobile, sicché simil-mente una sola deve essere l’ejnevrgeia per entrambi,48 per ciò che

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48 Su questo argomento cf. A. Edel (1969), pp. 59-64. Questo stesso discor-so conduce M.L. Gill (1980), pp. 129-147 a sviluppare la tesi secondo cui Phys.III 3 mostrerebbe che ciò che agisce muta così come ciò che patisce.

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è capace di muovere e per il mobile. In altri termini, se guardiamosia al motore sia al mosso nella condizione in cui non è scomparsoil loro stato potenziale-privativo, per cui si mostrano ancora comeciò che è capace di muovere e come mobile, l’entelechia del mo-bile è identica all’ejnevrgeia di ciò che è capace di muovere, e ilmovimento che nasce dalla relazione fra i due è uno solo. La solu-zione di questa aporia ci viene fornita subito dopo da Aristotele:per il motore e il mosso le cose stanno così come stanno per l’in-tervallo da 1 a 2 e da 2 a 1, che è uno solo, sebbene non sia unicala definizione dell’uno e dell’altro, o come la strada in salita e indiscesa, che è una, mentre la definizione non è una sola.

A questa aporia si aggiunge, come dicevo, una difficoltà logi-ca,49 la cui soluzione risolverà in modo più chiaro anche l’aporiaprecedente. Tale aporia logica consiste nel fatto che, forse, è ne-cessario che l’ejnevrgeia di “ciò che è capace di agire”, tou' poih-tikou', debba essere diversa dall’ejnevrgeia di “ciò che è capace dipatire”,50 tou' paqhtikou': da un lato c’è l’azione, poivhsi~, e dal-l’altro lato la passione, pavqhsi~, ambedue nel loro svolgimento;dei quali opera e fine sono rispettivamente l’azione e la passionecompiuti.51 La domanda allora è: se sono movimenti entrambi,

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49 P. Pellegrin traduce “difficulté dialectique” e spiega in nota che si trattadi una argomentazione che procede da opinioni comuni (endoxa), che non èconvincente se non a livello del ragionamento e che non si fonda sui fatti. Oppu-re, sulla base di Simplicio, In Phys. 440,22, potrebbe trattarsi di un’argomenta-zione che non riguarda una scienza particolare, ma solo un proposito generale,per cui non è effettivamente “scientifica”.

50 poihtikou' e paqhtikou' hanno il suffisso potenziale, quindi non è oppor-tuno, soprattutto data la sottigliezza del discorso di Aristotele, tradurre poih-tikou' come se fosse poihtou' e paqhtikou' come se fosse paqhtou'.

51 Traduco così, perché è chiaro che la desinenza -si~ di poivhsi~ e pavqhsi~indica la processualità del loro significato. Poivhsi~ e pavqhsi~ si distinguono,quindi, nettamente da poivhma e pavqo~, i quali hanno il medesimo significato dipoivhsi~ e pavqhsi~, ma non nel loro realizzarsi, bensì nello stato concluso e com-piuto. La stessa cosa era avvenuta quando Aristotele aveva espresso la dimensio-ne potenziale di poihtikov~ e paqhtikov~, sempre ricavati dai verbi di agire e pati-re. P. Pellegrin mi dà ragione della mia interpretazione, infatti egli traduce: «Ilest en effet sans doute nécessaire qu’il y ait un certain acte de ce qui peut agir etun autre de ce qui peut pâtir, l’un étant l’action, l’autre la passion, le produit fi-

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cioè l’ejnevrgeia di ciò che è capace di agire e l’ejnevrgeia di ciò cheè capace di patire (che tradotti nei termini del movimento sonociò che è capace di muovere e il mobile), in quale di questi duesono? (ejn tivni;). Le possibilità che si offrono sono le seguenti:

a) entrambi i movimenti sono in ciò che patisce e che è mosso,ejn tw'/ pavsconti kai; kinoumevnw/;52

b) l’azione nel suo svolgimento è in ciò che agisce, hJ me;n poivh-si~ ejn tw'/ poiou'nti; la passione nel suo svolgimento è in ciò chepatisce, hJ de; pavqhsi~ ejn tw'/ pavsconti.

Aristotele non esamina queste due possibilità nell’ordine, per-ché prende anzitutto in esame la seconda di queste due possibi-lità, anche se non lo dichiara esplicitamente. La prima, infatti, vie-ne presa in considerazione successivamente. Se l’azione nel suosvolgimento è in ciò che agisce e la passione nel suo svolgimento èin ciò che patisce, e occorre in qualche modo chiamare anche lapassione nel suo svolgimento azione nel suo svolgimento, cioè oc-corre chiamare la pavqhsi~ poivhsi~, allora pavqhsi~ e poivhsi~ sa-ranno omonimi. Aristotele non spiega chiaramente come si possaverificare logicamente questa ipotesi, ma io ritengo che si possanotrovare almeno due possibili spiegazioni. La prima è questa: èpossibile chiamare poivhsi~ anche la pavqhsi~ nella misura in cui èpossibile chiamare poivhsi~ ogni attività, anche quella che viene

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nal de l’une étant un fait accompli, de l’autre une affection». Egli distingue, giu-stamente, come anche segnala in nota, i termini che hanno la stessa radice verba-le, e cioè poihtikov~, poivhsi~, poivhma, poiou'n, con il significato di “ciò che puòagire”, “azione”, “fatto compiuto”, “agente”. Allo stesso modo distingue i termi-ni che derivano dal verbo pavscw, per cui si avrà “ciò che può patire”, “passio-ne”, “affezione”. Pavqhsi~, come fa notare Filopono, In Phys. 377,10, è terminenon tipico del greco ma, si può dire, forgiato da Aristotele e poi entrato nell’uso.Un buon utilizzo ne fa, ad esempio, Plotino, nell’Enneade VI 1.

52 Io credo che Aristotele non prenda in considerazione la possibilità cheentrambe le ejnevrgeiai siano in ciò che agisce e che muove, cioè nel motore, per-ché ha già detto che il motore patisce e si muove, per cui la prima possibilità in-clude già sia il motore che il mosso. Inoltre, la riduzione del secondo caso aduno solo, cioè a ciò che agisce e muove, fa diventare il secondo caso esattamenteil contrario di questo primo caso, quindi aggiungere al primo caso la possibilitàche i due movimenti siano in ciò che agisce e muove diverrebbe pleonastico.

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subita. Infatti, anche se il mobile subisce l’azione del motore, essoè comunque il soggetto del suo movimento. Ma sembra più con-vincente la seconda delle due possibili spiegazioni: alle li. 202a14-15 Aristotele ci ha detto che l’ejnevrgeia53 di ciò che è capace dimuovere non è cosa diversa dall’entelechia del mobile su cui siesercita l’agire del motore, e alle precedenti li. 202a3-9 ci avevagià detto che per il motore ejnergei'n = kinei'n = poiei'n/pavscein.La conseguenza di queste premesse è ovvia: se nell’elemento atti-vo insieme al poiei'n c’è anche il pavscein, allora il movimento ènel motore e non nel mosso, contrariamente a ciò che Aristoteleaveva detto nella aporia iniziale. Lo stesso discorso che si è fattoper ciò che agisce e che patisce si può applicare, infatti, a ciò chemuove e a ciò che è mosso, sicché o tutto ciò che muove si muo-verà, il che avrebbe gravissime conseguenze in campo teologico econtraddirebbe l’affermazione di Aristotele secondo cui esiste an-che un motore immobile (cf. Phys. III 1, 201a27), oppure il moto-re, pur avendo movimento, non si muoverà. In termini più chiari:hJ me;n poivhsi~ ejn tw'/ poiou'nti/hJ de; pavqhsi~ ejn tw'/ pavsconti, se pav-qhsi~ = poivhsi~ perché sono omonimi, allora tutto si risolve ejn tw'/poiou'nti, che nei termini del movimento diventa ejn tw'/ kinou'nti.

Consideriamo adesso la prima possibilità, e cioè che entrambii movimenti – cioè ancora il movimento come ejnevrgeia di ciò cheè capace di agire e il movimento come ejnevrgeia di ciò che è capa-ce di patire – siano in ciò che patisce e che è mosso (eij d∆ a[mfw ejntw'/ kinoumevnw/ kai; pavsconti). Se le cose stanno in questo modo,allora l’azione e la passione nel loro svolgimento, hJ poivhsi~ kai; hJpavqhsi~, o, se si vuole specificare un agire e un patire determina-ti, l’insegnamento e l’apprendimento nel loro svolgimento, hJ div-daxi~ kai; hJ mavqhsi~, pur essendo due movimenti, sono entrambiin colui che apprende (duvo ou\sai ejn tw'/ manqavnonti). Le conse-guenze sono: in primo luogo che l’attività, ejnevrgeia, di ciascunacosa non sarà in ciascuna cosa (prw'ton me;n hJ ejnevrgeia hJ eJkavstououjk ejn eJkavstw/ uJpavrxei), ad esempio l’insegnamento non sarà in

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53 ∆Enevrgeia qui significa l’operare del motore, che è il muovere (cf. Phys.III 2, 202a5-6).

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chi insegna ma in chi apprende, e in secondo luogo – cosa assur-da – due movimenti si muoveranno contemporaneamente (ei\taa[topon duvo kinhvsei~ a{ma kinei'sqai): «infatti – ci dice Aristotele,mostrando di tenere d’occhio sempre un processo che si svolgesulla base dei tre principi del divenire –, quali saranno le due alte-razioni di un’unica cosa e verso un’unica forma? Ma è impossibi-le! (tivne~ ga;r e[sontai ajlloiwvsei~ duvo tou' eJno;~ kai; eij~ e}n ei\do~…ajll∆ ajduvnaton)».54

Colte le assurdità che conseguono da una simile impostazionedel problema, Aristotele ci fornisce la sua soluzione: c’è una solaattività (ajlla; miva e[stai hJ ejnevrgeia). Tuttavia, occorre usare degliaccorgimenti nel comprendere questa soluzione, perché lo stessoAristotele ci mette in guardia da fraintendimenti, proponendo al-tre assurdità. Egli ci dice, infatti, che è illogico pensare che ci siaun’unica identica attività di due cose diverse per la forma, cioèun’unica identica ejnevrgeia di chi insegna e di chi apprende, e sa-rebbe assurdo anche se l’insegnare e l’apprendere, e, in generale,l’agire e il patire, fossero la stessa cosa, per cui la conseguenza sa-rebbe che chi insegna apprende tutto ciò che insegna e nel mo-mento stesso in cui lo insegna, e che chi agisce quindi patisce. Inrealtà, le cose stanno in modo diverso e, con una serie di precisa-zioni, Aristotele risponde alle singole assurdità che sono derivatedal ragionamento fin qui fatto.

Alle li. 202b5-8 Aristotele risponde a quanto aveva detto alleli. 202a31-36: l’ejnevrgeia è una sola, ma è attuazione di una cosain un’altra cosa diversa da essa, e dico “attuazione” perché il ter-mine ejnevrgeia deve essere qui inteso nel senso della processuali-tà che Aristotele ha precisato, tant’è che egli chiarisce nell’esem-pio che l’insegnamento nel suo svolgimento, divdaxi~, è l’ejnevrgeiadi “colui che è capace di insegnare”, tou' didaskalikou', e che taleejnevrgeia, pur non essendo separata da colui che l’esercita, cioèdalla causa motrice, tuttavia risiede in qualcos’altro (hJ divdaxi~ejnevrgeia tou' didaskalikou', e[n tini mevntoi), per cui è attuazionedi questa cosa in quest’altra cosa (ajlla; tou'de ejn tw'/de). Se questa

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54 Phys. III 3, 202a34-36.

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ejnevrgeia fosse intesa nel senso di atto compiuto dell’ente, questecondizioni non sarebbero comprensibili, perché allora ogni ejnevr-geia dovrebbe stare solo nell’ente di cui è appunto atto, mentreAristotele ci dice che l’ejnevrgeia è dell’agente ma nel paziente,quindi è entelechia e movimento.

Alle li. 202b8-10 Aristotele risponde a ciò che aveva detto al-le li. 202a36-b2: nulla impedisce, ci dice Aristotele, che la stessaejnevrgeia appartenga a due cose, a condizione che questo non siintenda nel senso che l’essere di queste due cose sia lo stesso,bensì nel senso della relazione che sussiste fra ciò che è in potenzae ciò che opera, cioè fra l’ente e la sua causa motrice.

Alle li. 202b10ss. Aristotele risponde a quanto aveva detto alleli. 202b2-5: non è necessario, come prima si era concluso assurda-mente, che chi insegna apprenda, perché si deve intendere chel’agire e il patire sono la stessa cosa non nel senso che sia una solala definizione che ce ne dice l’essenza, ma come noi diciamo che èla stessa cosa la strada che da Tebe porta ad Atene e da Atene eTebe,55 perché tutte le proprietà uguali che fanno l’identità vera epropria di due enti appartengono soltanto alle cose la cui essenzasia identica. Quindi, noi non dobbiamo intendere che l’insegna-mento nel suo svolgimento sia la stessa cosa dell’apprendimentonel suo svolgimento, come se la loro essenza fosse la stessa, cosìcome, se è vero che è unico l’intervallo fra due punti, noi peròdobbiamo intendere che è una e la stessa la distanza da qui a lì eda lì a qui. In generale, precisa Aristotele, non dobbiamo dire chel’insegnare e l’apprendere, oppure l’agire e il patire siano la stessacosa in senso proprio (to; aujto; kurivw~), ma a ciò a cui apparten-gono entrambe queste cose, cioè l’agire e il patire, appartiene an-che il movimento. Quindi, in conclusione e in termini più chiari,l’entelechia di ciò che in potenza è capace di agire e di patire, inquanto tale, sia in senso assoluto che, ancora, in modo particola-re, è la costruzione della casa nel suo farsi e la guarigione nel suoprocedere, e così per gli altri movimenti specifici. In ultima ana-lisi, allora, il movimento è il procedere verso un fine di un ente

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55 Questo si aggiunge agli esempi già fatti alle li. 202a18-20.

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che è nel suo aspetto potenziale e anche nella sua entelechia comeejnevrgeia non compiuta e che, in quanto è in movimento, è capa-ce di compiere il suo movimento e di patire tale movimento dauna causa motrice, per cui le due determinazioni contrarie sonocompresenti nello stesso ente, e nel procedere del movimento l’u-na agisce sull’altra che patisce. Nella costruzione della casa, adesempio, le pietre e i mattoni e quant’altro possono divenire casa,patiscono via via la perdita del loro essere materiali da costruzio-ne (e quindi solo costruibile in potenza) per divenire sempre piùcompiutamente casa, e nella guarigione la malattia dell’individuopatisce sempre più, lasciando via via il posto alla salute.

Conclusione

Per concludere brevemente, allora, occorre dire quanto segue.Aristotele, con una lucidità mirabile, riesce a dar ragione e spiega-zione della straordinaria varietà e molteplicità delle cose, sia ricor-rendo alla distinzione fra principi, elementi e cause, sia avvalen-dosi della relazione dinamica fra potenza e atto, eccetera. Egliadopera strumenti di ricerca che gli risultano validi per la com-prensione e la conoscenza della realtà, sia del mondo fenomenicoche di quello metafisico. Ma in quanto tutti questi strumenti sonoindispensabili alla lettura della realtà – al di là di apparenze chespesso, nel testo aristotelico, sono funzionali nel contesto dell’ar-gomentazione, ma che in un altro passaggio vengono fugate –,nessuno di essi ha minore importanza di un altro. Nel caso dellacausa motrice, ad esempio, potrebbe sembrare a qualcuno che es-sa abbia la minore importanza fra le cause, dal momento che il di-venire in cui sono coinvolti gli enti naturali è fondato su tre prin-cipi (soggetto, privazione e forma), che servono a individuare co-me fondamentali la materia e la forma vista ora come privazione eora come fine del divenire stesso. Ma senza la causa motrice nes-sun divenire avrebbe mai luogo e, quindi, la dottrina dei tre prin-cipi del divenire degli enti naturali ha bisogno di tale causa peressere vera, ed è di per sé impostata da Aristotele in modo dina-

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mico se è vero che, permanendo il soggetto, tuttavia la forma co-me privazione e la forma come fine si fronteggiano in attesa cheuna causa motrice attivi un processo di realizzazione che conducalo stato privativo dell’ente a divenire uno stato di attuale possessodi forma. Se gli enti della natura sono caratterizzati dall’essere pe-rennemente coinvolti nel movimento, allora si comprende facil-mente il ruolo che la causa motrice, legata al movimento, debbaoccupare nell’ambito di una dottrina della causalità che riguardagli enti naturali.

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IN CATANIA NEL MESE DI FEBBRAIO 2005PER CONTO DELLA

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CATANIA - VIA ETNEA, 390 - TEL. E FAX 095 316737COMPOSIZIONE E PELLICOLE: DI PIETRO MARLETTA

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