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09- Rivelatori per l’Astronomia Spaziale S. Fineschi 24 Febbraio 2010 1 Rivelatori per l’Astronomia Spaziale SILVANO Fineschi Istituto Nazionale di Astrofisica Osservatorio Astronomico di Torino

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09-Rivelatori per l’Astronomia Spaziale S. Fineschi 24 Febbraio 2010 1

Rivelatori per

l’Astronomia Spaziale

SILVANO Fineschi

Istituto Nazionale di Astrofisica

Osservatorio Astronomico di Torino

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10:00-11:00

Introduzione ai rivelatori a semiconduttore

11:30-12:30

Introduzione ai rivelatori a fotoemissione

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Solar and

Heliospheric

Observatory

(SOHO)

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Immagini dei Rivelatori di SOHO

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Rivelatori a semiconduttore: generalità

I rivelatori a semiconduttore sono basati sull’effetto fotoconduttivo intrinseco,

per cui un fotone incidente che possiede un’energia h maggiore dell’energy

gap Eg caratteristica del materiale è in grado di produrre una coppia elettrone-

lacuna. Sia l’elettrone nella banda di conduzione, sia la lacuna nella banda di

valenza partecipano al meccanismo di conduzione elettrica.

Ecco quindi che dalla misura della corrente elettrica prodotta dall’interazione

della radiazione luminosa con il materiale semiconduttore è possibile

determinare l’intensità della radiazione incidente.

Vi sono due categorie principali di rivelatori a semiconduttore:

costituiti da un unico materiale (ad esempio i fotoresistori in silicio per il

visibile, o quelli in InSb e InGaAs per l’infrarosso)

costituiti dalla giunzione di due diversi materiali (fotodiodi):

Fotovoltaici (non polarizzati)

Fotoconduttori (polarizzati inversamente)

Fotodiodi a valanga (necessitano sempre di alimentazione esterna)

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Fotodiodi a giunzione

Lo scopo dei fotodiodi è di rivelare la radiazione luminosa (visibile o

infrarossa) che colpisce il corpo del diodo stesso. La struttura

interna di un fotodiodo è molto simile a quella dei diodi PIN: la zona

intrinseca è progettata per reagire alla luce generando una coppia

di portatori (un elettrone e una lacuna) che contribuiscono al

passaggio di corrente attraverso il diodo.

Si usano in polarizzazione inversa: in questa condizione, la corrente

che attraversa il diodo è dovuta (quasi) esclusivamente alla luce

incidente, ed è proporzionale all'intensità luminosa.

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Fotodiodi a giunzione in Si

Quando si applica una tensione ad un fotodiodo al “buio”, si osserva la curva

corrente-tensione . Quando però la luce incide sul fotodiodo, la curva

corrente-tensione misurata è la . Se si aumenta il segnale luminoso, la

curva trasla parallelamente come la , proporzionalmente all’intensità della

radiazione incidente.

Se il fotodiodo si trova in un circuito chiuso, allora esso produce una corrente

dall’anodo al catodo proporzionale all’intensità della radiazione. Se il circuito

è aperto, si genera una tensione ai capi del fotodiodo, con l’anodo come

terminale positivo.

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Fotodiodi PIN in InGaAs

I fotodiodi PIN in InGaAs sono rivelatori per il NIR a basso rumore, con ottime

caratteristiche di risposta in frequenza ed ad alta velocità.

Possono essere raffreddati, raggiungendo bassissime correnti di buio ed

elevata sensibilità.

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Rivelatori HCT (HgCdTe) fotoconduttivi

I rivelatori HCT hanno il grande vantaggio che l’energy gap del cristallo

HgCdTe può essere variato variando il rapporto dei componenti base HgTe e

CdTe: in questo modo si possono ottenere caratteristiche spettrali diverse.

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Rivelatori a semiconduttore composti: risposta spettrale

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Charge Coupled Device (CCD)

Il CCD è un dispositivo in Si

organizzato in modo da formare una

matrice di elementi fotosensibili in cui

accumulare cariche (prodotte dalla

radiazione incidente) e leggerne il

contenuto successivamente.

La struttura di un elemento base del

CCD è quella di una capacità MOS.

Applicando un potenziale all'elettrodo,

questa particolare struttura consente

di creare una regione dove

accumulare le cariche generate dai

fotoni interagenti con il dispositivo.

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Funzionamento del CCD

Schematizzando, si possono individuare

quattro operazioni fondamentali:

generazione delle cariche per effetto

fotoelettrico

raccolta delle cariche nelle capacità

MOS, tramite la creazione di buche di

potenziale

trasferimento delle cariche, variando i

potenziali degli elettrodi in modo

opportuno, verso lo stadio di lettura

(shift register analogico);

estrazione del segnale mediante il

circuito di uscita che converte la carica

in una tensione proporzionale e la

amplifica opportunamente

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Funzionamento del CCD: raccolta delle cariche

La raccolta delle cariche nel CCD

avviene tramite la creazione di una

buca di potenziale nella struttura

MOS: questo avviene tramite la

tensione applicata ad un contatto in

polisilicio cristallino trasparente alla

radiazione visibile depositato sopra il

sottile strato di ossido. Dopo la

generazione buca-elettrone, gli

elettroni si accumulano nello strato di

inversione.

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Funzionamento del CCD: il pixel

Un pixel (picture element) del CCD è

realizzato (in un CCD a tre fasi) tramite

tre elettrodi in polisilicio posti trasver-

salmente a due regioni channel-stop.

Se il potenziale nell’elettrodo mediano è

più positivo degli altri due, si crea un

minimo locale di energia potenziale ed i

fotoelettroni si raccolgono sotto a

questo elettrodo. Le lacune diffondono

nel materiale e vengono raccolte nel

substrato P.

La carica raccolta nella buca è

linearmente collegata all’intensità del

flusso di fotoni e al tempo di

integrazione.

NB Esistono anche CCD con pixel a

due e a quattro fasi

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Funzionamento del CCD: trasferimento della carica

Il trasferimento di carica è

l’operazione che sposta i

pacchetti di carica lungo gli

elementi del CCD fino alla porta

di lettura.

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09-Rivelatori per l’Astronomia Spaziale S. Fineschi 24 Febbraio 2010 16Strumentazione ottica per satellite G. Naletto

Introduzione ai rivelatori a semiconduttore 16

Il CCD come rivelatore bidimensionale

Tipicamente il CCD consiste di un array rettangolare di pixels: attualmente si

realizzano CCD fino a 2k 4.6k pixels (tipicamente per applicazioni

scientifiche).

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Il CCD a frame transfer e a full frame

Vi sono due modi principali di funzionamento per i CCD bidimensionali:

modalità TV (frame transfer)

modalità full frame

Nel primo caso, il CCD è diviso in due zone identiche: area immagine, sensibile

alla radiazione incidente, e area memoria, in cui l’immagine è trasferita per la

successiva lettura sequenziale.

Nel secondo, l’intera superficie del CCD costituisce l’area immagine.

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Il CCD a interline transfer

Una telecamera digitale tipicamente

ha un CCD a interline transfer.

Questo tipo di CCD trasferisce la

carica accumulata in una colonna di

pixel in uno shift registers adiacente

(uno per ogni colonna).

A causa della “extra” elettronica

richiesta, il “fill factor”, cioè l’area

sensibile del pixel è relativamente

piccola (circa il 30% dell’area del

pixel). Per migliorare quindi

l’efficienza di rivelazione di questi

dispositivi si mettono delle microlenti

sull’are attiva, in modo da raccogliere

più luce; in questo modo si hanno dei

fill factor effettivi dell’ordine del 70%.

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Risposta spettrale del CCD

Front Illuminated CCDBack Illuminated CCD

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Il CMOS APS (Active Pixel Sensor)

Il CMOS (Complementary Metal-Oxide-Semiconductor) active pixel sensor

(APS) è un sensore a stato solido di seconda generazione inventato nel 1980

al JPL (NASA Jet Propulsion Laboratory, Pasadena, CA, USA). Il goal di

questa tecnologia è quello di realizzare una “camera on a chip” che abbia una

completa interfaccia digitale.

In questo modo, un sistema di acquisizione di immagini completo consiste di:

ottiche, un alimentatore, un array CMOS APS con on-chip ADC ed un

microprocessore per caricare le istruzioni al sistema e scaricare i dati.

Tra CCD e APS non ci sono sostanziali differenze nei processi di generazione

delle cariche (eccitazione fotonica) e della raccolta delle cariche nelle buche di

potenziale; le differenze tra i due sensori si hanno nel trasferimento e nella

lettura delle cariche.

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09-Rivelatori per l’Astronomia Spaziale S. Fineschi 24 Febbraio 2010 21Strumentazione ottica per satellite G. Naletto

Introduzione ai rivelatori a semiconduttore 21

Confronto CMOS APS - CCD (I)

La tecnologia CMOS APS è completamente CMOS compatibile (largamente

utilizzata in elettronica per realizzare componentistica digitale basata sui

transistor), per cui è facile integrare il timing on-chip e l’elettronica di controllo,

riducendo i costi e la complessità di realizzazione.

Il costo per realizzare un wafer CMOS è un terzo di quello necessario per

fabbricare un simile wafer per CCD (che utilizza una tecnologia dedicata)

Per realizzare una qualsiasi operazione con i circuiti CMOS basta una sola

alimentazione (il CCD ha

tipicamente tre diverse

linee di alimentazione).

Inoltre, lo shuttering

elettronico, la finestratura

della regione attiva,

l’impostazione del tempo

di integrazione possono

essere fatti in modo

completamente

indipendente.

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Confronto CMOS APS - CCD (II)

I CMOS presentano una maggiore flessibilità nelle architetture e geometrie

dei pixel

Nei CMOS basta una bassa potenza: sono stati realizzati array APS che

hanno operato a 3.3 V con una potenza di soli 300 mW.

È possibile implementare la tecnologia CMOS per realizzare componenti rad

hard, che sono di estremo interesse per le applicazioni spaziali.

La corrente di buio è minore nei CCD:

CMOS: 1 nA/cm²

CCD: 1-10 pA/cm²

La qualità delle immagini ottenute con rivelatori APS è minore di una

corrispondente immagine a CCD a causa dell'architettura dei pixel CMOS

Attualmente i rivelatori APS presentano una relativamente scarsa uniformità

dei pixel (Fixed Pattern Noise)

Siccome molta area del pixel CMOS è occupata dai transistor di

amplificazione, i rivelatori APS hanno un basso fill-factor

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Problema del Fill-Factor negli APS

Oscuramento da metallizazione

La maggior parte della superficie del pixel è usata per il circuito di lettura e di

amplificazione: di conseguenza, il fill-factor per i normali APS è piccolo (meno

del 30%).

Purtroppo un semplice aumento delle dimensioni del fotodiodo aumenta la

dimensione del pixel e la capacità parassita del fotodiodo (e quindi il rumore).

Un’altra tecnica utilizzata è quella di porre delle microlenti di fronte al

fotodiodo: purtroppo queste microlenti hanno una bassa efficienza per grandi

aperture, non hanno un buon coating antiriflesso, e necessitano di processi di

fabbricazione non standard (aumento dei costi di produzione).

Fotoelettroni raccolti dalle giunzioni

non sensibili del pixel

Dimensioni ridotte della

giunzione sensibile

Ricombinazione dei fotoelettroni

fotodiodofotodiodo

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APS: il sensore IBIS4-14000 (FillFactory-Cypress)

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Sorgenti di rumore nei rivelatori ad array

ARRAY

(CCD/APS)

Photon shot noise

Dark current shot noise

Fixed pattern noise

Photo Response Non Uniformity

SENSE NODE

Reset noise

AMPLIFIERS

White noise

1/f noise

ADC

Quantization noise

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Rumore fotonico e distribuzione di PoissonPer rumore fotonico si intende sia la casualità nel tempo di arrivo dei singoli

fotoni emessi da una sorgente, sia la casualità nella rivelazione dei fotoni, e

quindi nella casualità delle fluttuazioni temporali del segnale dal rivelatore.

A causa della natura probabilistica dell’emissione di fotoni (o della loro

rivelazione), il numero di fotoni effettivamente emesso durante un intervallo di

tempo T in generale devierà dal valore medio µ di fotoni emessi nello stesso

intervallo di tempo. La probabilità p(N) che durante un intervallo di tempo di

lunghezza T siano emessi N fotoni è dato dalla funzione di distribuzione di

Poisson.

Quando il valor medio tende a infinito, la

distribuzione di Poisson tende ad una

distribuzione normale.

Un’altra proprietà della distribuzione di

Poisson è che la varianza della distribuzione è uguale alla media µ; quindi la

deviazione standard, che è data dalla radice quadrata della varianza, è .

Quindi il rapporto segnale/ rumore del flusso di fotoni è

eN

Np!

)(

// NS

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Rumore fotonico e distribuzione di Poisson

Consideriamo ora un rivelatore con efficienza quantica , e indichiamo con nq

il numero medio di fotoni incidenti sul rivelatore (quindi nq si identifica con µ).

Il numero ne di elettroni creati nel rivelatore dall’assorbimento di nq fotoni è pari a

Siccome la statistica degli elettroni generati nel rivelatore segue anch’essa una

distribuzione di Poisson, possiamo dire che la deviazione standard nel numero

di elettroni generati è pari a

Di conseguenza, il rapporto segnale/rumore del segnale rivelato è

Questo rapporto segnale/rumore è funzione della natura dell’emissione dei

fotoni, e non può essere migliorato usando migliori rivelatori o migliori

elettroniche: è una limitazione fisica fondamentale.

qe nn

qe n

qqq nnnNS //

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Rumore shot: fotonico e di corrente di buioSi definisce come rumore di tipo shot (shot noise) il rumore dovuto alla natura

discreta dei portatori di informazione, descritto da una distribuzione di Poisson.

Lo shot noise fotonico produce quindi una fluttuazione del segnale di uscita che

è proporzionale alla radice quadrata del livello del segnale. L’importanza di

questo rumore aumenta quindi con l’aumentare del numero di portatori. Tuttavia,

il contributo dello shot noise diventa percentualmente meno critico all’aumentare

del segnale: infatti, nelle misure a conteggio (fino a qualche centinaio di eventi

per intervallo di tempo e/o superficie) lo shot noise è indicativamente superiore

al 5% (ad esempio N/S = 20/400, se consideriamo l’efficienza del rivelatore

unitaria); ma nelle misure a integrazione, dove si raccolgono moltissimi eventi, lo

shot noise ha percentuali spesso irrilevanti rispetto ad altre sorgenti di rumore.

Si capisce quindi che lo shot noise sia presente solo quando si opera in regime

di conteggio di portatori di informazione, o di poco superiore.

Anche la corrente di buio, che è una grandezza che si cerca sempre di

minimizzare, e che spesso è di pochi elettroni per evento temporale considerato,

presenta uno shot noise, dovuto alle fluttuazione della stessa.

Mentre il valor medio della corrente di buio è sottraibile al segnale, queste

fluttuazioni del segnale di buio rimangono. Solitamente, lo shot noise della

corrente di buio è il rumore dominante se si opera in integrazione.

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Rumore di pattern

Il rumore di pattern (pattern noise) si riferisce a pattern spaziali che non

cambiano in modo significativo da acquisizione ad acquisizione.

Il FPN (Fixed Pattern Noise, o Dark Current Non Uniformity, DCNU) si riferisce

alla variazione pixel a pixel quando il detector è al buio. È quindi una differenza

di corrente di buio che ciascun pixel ha rispetto agli altri. È un rumore

indipendente dal segnale che si somma agli altri rumori.

In genere, il FPN è dovuto a differenze nelle dimensioni dei pixel del rivelatore,

alla densità del drogaggio e a trappole create durante la fabbricazione dovuta

ad agenti esterni.

La PRNU (PhotoResponse Non-Uniformity) è invece la variazione di risposta

nei pixel e si osserva quando il detector è illuminato. È dovuto a piccole

differenze nelle dimensioni dei pixel del rivelatore, alla risposta spettrale e allo

spessore dei vari strati di materiale.

Il contributo predominante al pattern noise di un CCD è la PRNU, in quanto nei

CCD la corrente di buio diminuisce raffreddando il detector.

In un APS invece, nel pattern noise si devono considerare entrambi i contributi

perché la corrente di buio (benché anche qui diminuisca con la temperatura) è

più significativa.

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Rumore di reset

Il rumore associato al reset del nodo di sensing è anche detto rumore kTC,

perché dovuto al rumore termico generato dalla resistenza del FET di reset.

La corrente di rumore è data da

dove k è la costante di Boltzmann, T è la temperatura misurata in Kelvin, R è la

resistenza del circuito e f è la banda passante in frequenza.

Siccome la resistenza è in parallelo con la capacità C del nodo di sensing, si

trova che la banda equivalente di rumore è f = RC/4 da cui

Il rumore rms in elettroni è quindi dato da

In pratica <Nreset> rappresenta l’incertezza nella quantità di carica che rimane nel

condensatore dopo il reset.

Il rumore di reset può essere fortemente ridotto grazie alla tecnica di Correlated

Double Sampling (CDS).

fR

kTin

42

kTCin 2

e

kTCNreset

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Rumori di amplificazione

Il rumore dovuto agli amplificatori include due componenti.

Rumore bianco (white noise): è un processoche introduce oscillazioni casuali del segnaledi uguale potenza su ogni banda di frequenza(analogo alla luce bianca, che contiene tuttele frequenze). Anche il rumore termico è unesempio di rumore bianco.

Rumore 1/f (flicker o pink noise): è un processo che introduce oscillazioni casuali del segnale con una densità spettrale di potenza proporzionale al reciproco della frequenza.

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Rumore di quantizzazione

Questo rumore è dovuto alla conversione analogico digitale che produce dei

livelli di uscita discreti. Esso corrisponde all’errore di arrotondamento tra la

tensione analogica in ingresso al convertitore analogico-digitale (ADC) ed il

valore di uscita digitalizzato. Ovviamente questo errore è al livello del bit meno

significativo (LSB).

In genere il rumore di quantizzazione deve essere minore del rumore di fondo e

questo si ottiene dimensionando opportunamente la risoluzione del convertitore

(numero di bit).

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Diverse classificazioni dei tipi di rumore

RANDOM FIXED PATTERN

Photon Shot Noise

Dark Current Shot Noise

Reset Noise

Thermal

1/f noise

PRNU

DCNU

Amplification Gain Non Uniformity

Column Amplification Offset

DIPENDENTE DAL

SEGNALE

DIPENDENTE DALLA

TEMPERATURA

DIPENDENTENTE DAL

TEMPO DI ESPOSIZIONE

Photon Shot Noise

PRNU

Amplification Gain Non

Uniformity

Thermal

1/f noise

Reset Noise

Dark Current Shot Noise

Photon Shot Noise

DCNU

Thermal

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Rivelatori a semiconduttore per spettroscopia (I)

Differentemente dai fotoni “visibili”, quando un fotone di energia elevata (ad

esempio radiazione X) interagisce con un semiconduttore, esso genera molte

coppie elettrone-lacuna.

Statisticamente si trova che c’è un legame proporzionale tra il numero di

cariche generate e l’energia della radiazione incidente: ad esempio nel silicio il

numero N di elettroni generati per ogni fotone di energia E è circa pari a

N = E(eV)/3.65 .

Questo numero può essere relativamente grande (basta ricordare che i raggi X

arrivano ad energie fino a 200 keV) e sufficiente ad originare un segnale

intenso al punto da consentire di operare in regime di conteggio di fotoni. In

pratica, ogni fotone X incidente produce un numero di elettroni elevato e

sufficiente a essere rivelato di per sé. Se la frequenza di lettura delle immagini

è veloce al punto da non avere più fotoni che cadono sullo stesso pixel nel

tempo di lettura, il sistema può lavorare in regime di conteggio di fotoni.

Inoltre, sulla base della relazione indicata sopra, dalla misura del segnale

prodotto per ogni fotone rivelato (considerando il fattore di guadagno

dell’elettronica) si può determinare il valore di energia del fotone stesso.

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Rivelatori a semiconduttore per spettroscopia (II)

La risoluzione in energia è in effetti limitata

dal rumore di buio (servono tipicamente

rivelatori raffreddati), dalle fluttuazioni

statistiche intrinseche, dall’efficienza di

raccolta di carica, dal rumore elettronico di

lettura. Tutti questi contributi di rumore

fanno in modo che il numero di elettroni

“letti” per fotoni incidenti della stessa

energia non sia sempre lo stesso, ma vari

statisticamente

Questo causa un allargamento nella

distribuzione spettrale (cioè in energia) del

segnale raccolto, per cui l’energia della

radiazione osservata si misura con una

indeterminazione data dal valore a mezzo

massimo (FWHM o HEW) del picco di

intensità (cioè del numero di fotoni a quella

energia) misurato.

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09-Rivelatori per l’Astronomia Spaziale S. Fineschi 24 Febbraio 2010 3636

Esempio di spettroscopia con Si-PIN

Rivelatore Si-PIN raffreddato per spettroscopia con

risoluzione 190 eV a 6000 eV

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Esempio di spettroscopia con CdTe

Rivelatore CdTe raffreddato per spettroscopia con risoluzione 800 eV a 120

keV

Un rivelatore bidimensionale, ad esempio un CCD, usato come rivelatore per i

raggi X dà quindi sia l’informazione spaziale (cioè le coordinate del punto di

arrivo del fotone) sia quella spettrale (cioè l’energia del fotone) in quanto dal

numero di cariche prodotte si determina l’energia del fotone incidente. Si

ottiene quindi un rivelatore tridimensionale.