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SOMMARIO PAG. BELLA O FEDELE: Un’occasione mancata (Cristina Cona) 2 NOTE TERMINOLOGICHE: Mi scusi, ma quel neo è posticcio (Cristiano Maria Gambari) 5 Attuazione e recepimento (Giuliano Castellan, Stefania Dragone ) 7 CULTURALIA: In giro per mostre (Clara Breddy-Buda) 7 Le città dei poeti (Giulia Gigante) 10 FOTOGRAFIE: Foto della mostra di Folon-Firenze (Mark Breddy) 32 Giugno 2005 trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea http://europa.eu.int/comm/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm QUALE FUTURO? Comitato di redazione: C. Breddy, C. Cona, A. De Martino, R. Gallus, C. M. Gambari, G. Gigante, C. Gracci, D. Murillo Perdomo, E. Ranucci Fischer, D. Vitali Collaboratori: G. Castellan, S. Dragone Grafica: A. A. Beaufay D’Amico (Anna-Angela.Beaufay-D'[email protected])

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SOMMARIO PAG. BELLA O FEDELE: Un’occasione mancata (Cristina Cona) 2

NOTE TERMINOLOGICHE: Mi scusi, ma quel neo è posticcio (Cristiano Maria Gambari) 5

Attuazione e recepimento (Giuliano Castellan, Stefania Dragone ) 7

CULTURALIA: In giro per mostre (Clara Breddy-Buda) 7

Le città dei poeti (Giulia Gigante) 10

FOTOGRAFIE: Foto della mostra di Folon-Firenze (Mark Breddy)

32 Giugno 2005

trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea

http://europa.eu.int/comm/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm

QUALE FUTURO?

Comitato di redazione: C. Breddy, C. Cona, A. De Martino, R. Gallus, C. M. Gambari, G. Gigante, C. Gracci, D. Murillo Perdomo, E. Ranucci Fischer, D. Vitali Collaboratori: G. Castellan, S. Dragone Grafica: A. A. Beaufay D’Amico (Anna-Angela.Beaufay-D'[email protected])

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Boston, 1865. Il poeta Henry Wadsworth Longfellow lavora, insieme con un gruppo di studiosi suoi amici, alla prima traduzione americana della Divina Commedia, che dovrebbe essere completata in concomitanza con il seicentesimo anniversario della nascita di Dante. L’iniziativa si scontra con le posizioni conservatrici del mondo accademico statunitense (nella fattispecie l’università di Harvard), che considera le lingue classiche come le uniche degne di studio e vede perciò con scarso favore, per non dire aperta ostilità, ogni tentativo di familiarizzare il pubblico colto del paese con le letterature straniere moderne.

Fin qui, storicamente, tutto vero. Recentemente però un giovane autore americano, Matthew Pearl, si è basato su questi fatti per dare vita ad un giallo in cui il procedere della traduzione dell’Inferno si trova inestricabilmente connesso con una serie di omicidi che scuotono i quartieri alti di Boston e che riproducono nei dettagli più raccapriccianti le punizioni inflitte ai dannati di certi gironi danteschi. I traduttori, riuniti in quello che Longfellow ha battezzato “The Dante Club”, comprendono che è in gioco l’avvenire stesso del loro lavoro: Harvard infatti osteggia la traduzione della Commedia non solo perché mossa dal pregiudizio antimoderno cui si è già accennato, ma anche, e principalmente, perché ritiene quest’opera sovversiva della morale pubblica.

Ad essere paventati sono tra l’altro gli effetti destabilizzanti che il linguaggio e le forti tinte del poema potrebbero esercitare su una società come quella americana, ancora scolvolta e traumatizzata

dalla guerra civile e dall’assassinio di Lincoln, senza contare che a molti non è gradita un’opera letteraria proveniente dall’Italia, paese che oltre a v e n i r e c o n s i d e r a t o i m m o r a l e e violento è - considerazione importante - di religione cattolica: la stessa professata dagli i mmigrati irlandesi la cui massiccia presenza a Boston è vissuta come una minaccia per i valori del New England protestante. “We have released demons into the very air we breathe”, lamenta fra gli altri il tesoriere della Harvard Corporation, uno dei più accaniti avversari di Longfellow.

È chiaro dunque che se la Divina Commedia si ritrovasse associata, agli occhi del grande pubblico, con le pratiche di un serial killer particolarmente sadico e ripugnante, l’opera del Dante Club non sopravviverebbe allo scandalo. Longfellow e i suoi collaboratori si mobilitano allora nella caccia all’assassino, svolgendo per conto proprio un’indagine che per lungo tempo si muove in parallelo con quella svolta dalla polizia e utilizzando proprio la loro conoscenza dell’opera dantesca per interpretare gli indizi e, al termine del libro, prevenire un ennesimo omicidio.

Il Dante Club era in origine l’argomento della tesi di laurea presentata da Pearl a Harvard: ricerca che egli aveva dapprima considerato una sorta di r ipiego, essendosi trovato nell’impossibilità di passare alla facoltà di lingue romanze e quindi di lavorare direttamente su Dante come avrebbe desiderato. La consultazione delle fonti storiche effettuata in questa occasione è servita da base quando si è trattato di inquadrare più precisamente la vicenda nel contesto culturale e sociale dell’epoca.

L’autore ha così utilizzato (e talvolta inserito nella narrazione) frammenti di lettere, diari, saggi ed opere di narrativa dei fondatori del Dante Club, ricostruendo l’atmosfera della Boston ottocentesca, le abitudini, il modo di vestire e financo di salutarsi in auge tra i protagonisti e arricchendo la narrativa di piccoli episodi realmente accaduti; nella postfazione al libro dichiara anzi di essersi ispirato a figure storiche presenti in quegli anni a Boston anche per la creazione di diversi personaggi minori.

Gli ingredienti dunque ci sarebbero tutti: un

bella o fedele UN’OCCASIONE MANCATA

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bella o fedele UN’OCCASIONE MANCATA

stile al contempo turgido ed anemico, che induce nel lettore un diffuso tedio e spegne ogni affanno di sapere “who done it”. Tutto questo a prescindere da certi marchiani errori lessicali (“connive” quando si intende dire “extort”; “invincible” in luogo di “invulnerable”) ovviamente sfuggiti all’occhio non troppo vigile del suo editor.

La riprova, insomma, del fatto che le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. A salvare Pearl dall’eterna dannazione permettendogli di beneficiare di un soggiorno più o meno lungo in purgatorio potrebbero comunque essere, a nostro avviso, gli effetti secondari senz’altro benefici che il suo libro ha esercitato sul pubblico d’oltreoceano: The Dante Club ha infatti stimolato l’interesse dei lettori americani nei confronti del poeta fiorentino e fatto aumentare in misura significativa le vendite della Divina Commedia. Chissà, forse lo stesso fenomeno di riscoperta potrebbe ripetersi in Europa. E allora ben venga anche un libro come questo: come diceva un concittadino di Dante, il fine giustifica i mezzi.

intreccio fra storia letteraria e sviluppi immaginari, perdipiù sotto forma di thriller; un’attenta ricostruzione storica; la descrizione tutt’altro che acritica di una città che per lungo tempo si è vantata di essere la capitale intellettuale degli degli Stati Uniti; un ritratto circostanziato di poeti ed autori che per lungo tempo hanno esercitato un’influenza fondamentale sulla cultura nazionale, ripresi nell’intimità della loro vita quotidiana; la proble-matica della discriminazione razziale (rappresentata, nel romanzo, dalla figura di un poliziotto di colore) all’indomani della guerra civile; la tragedia che quest’ultima, con la sua brutalità e ferocia, ha rappresentato per il paese; l’evidente passione che l’autore prova per l’opera di Dante. Non solo, ma Pearl ha voluto ancorare il romanzo ad una problematica ben precisa e di grande attualità, ricordando in un’intervista: “By placing Dante and Virgil in the underworld, Dante’s implied message is that even poets must confront violence and horror (…) Even though the killings in The Dante Club are fictional, in order to solve the mystery the poets are forced to break out of their insulated world and face reality”.

Tutto bene, senonché … verrebbe fatto di dire “or incomincian le dolenti note”. Gli ingredienti ci sono, ma il piatto risulta scipito anzichenò, e francamente si fatica a comprendere il successo di questo libro, che nella prima settimana di pubblicazione si è piazzato nella classifica dei primi dieci bestseller stilata dal New York Times per ricevere in seguito lodi sperticate ed essere tradotto in oltre una trentina di lingue.

Sin dalle pagine iniziali l’abbondanza di dettagli storici scade nell’accumulo pletorico, in lungaggini che gonfiano in misura spropositata il testo e rallentano il ritmo della narrazione (peccato mortale, questo, in un genere che pre-suppone al contrario proprio l’incalzare di episodi ed immagini); i dialoghi saranno “d’epoca” secondo le intenzioni dell’autore, ma suonano lievemente ridicoli e del tutto implausibili.

Più in generale a Pearl è riuscita l'impresa, apparentemente ossimoronica, di produrre uno

Fonti: Tim Teeman, To Hell with Poets, The Times, 17 January 2004 www.thedanteclub.com

Historical Note, a postfazione di: Matthew Pearl, The Dante Club, Vintage/Random House, London 2003

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Divina Commedia, Inferno I, canto 1 (Longfellow Tr.) (2.1 MB, audio formato mp3, scarica player)

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.

(vv. 1-3) Midway upon the journey of our life I found myself within a forest dark, For the straightforward pathway had been lost.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!

(vv. 4-6) Ah me! how hard a thing it is to say What was this forest savage, rough, and stern, Which in the very thought renews the fear!

Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l'altre cose ch’i’ v'ho scorte.

(vv. 7-9) So bitter is it, death is little more; But of the good to treat, which there I found, Speak will I of the other things I saw there.

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.

(vv. 10-12) I cannot well repeat how there I entered, So full was I of slumber at the moment In which I had abandoned the true way.

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valle che m’avea di paura il cor compunto,

(vv. 13-15) But after I had reached a mountain’s foot, At that point where the valley terminated, Which had with consternation pierced my heart,

guardai in alto, e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle.

(vv. 16-18) Upward I looked, and I beheld its shoulders Vested already with that planet’s rays Which leadeth others right by every road.

bella o fedele

Cristina Cona

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note terminologiche

MI SCUSI, MA QUEL NEO È POSTICCIO?

È diventato ormai piuttosto difficile scorrere un articolo di argomento economico senza imbattersi nel termine neoliberismo, ed ogni volta che ciò mi capita mi ritrovo a chiedermi se non si tratti di una denominazione fuorviante – quello che in inglese si chiama misnomer.

A quanto mi risulta, solitamente il prefisso neo- davanti ad un sostantivo sta ad indicare che ci troviamo in presenza di una realtà (anche solo concettuale) nuova, ma che si richiama ad una passata – magari mitizzata – (per es. Neoclassicismo), oppure il ripresentarsi (magari dopo una temporanea eclissi) di una realtà già conosciuta con modalità o in contesti tali da rappresentare un quid novum (per es. Neocolonialismo o Neostalinismo).

Orbene, cosa c’è di nuovo nel neoliberismo dal punto di vista delle idee e delle pratiche rispetto al passato? Dov’è l’interruzione nella continuità storica del fenomeno “liberismo” che consentirebbe di parlare di una sua nuova forma? Non mi sembra si possano individuare novità o soluzioni di continuità degne di nota. Gli articoli di cui sopra generalmente biasimano il “neoliberismo” per fenomeni quali chiusure d’imprese causate dalla concorrenza di paesi in cui i salari sono a livelli estremamente bassi. Nessuno nega la drammaticità e gli effetti dirompenti sul piano sociale di tali fenomeni, ma il punto è un altro: presentano un carattere di novità? Mi sembra proprio che la risposta a questa domanda sia “no”. Le delocalizzazioni non sono concettualmente una novità, anche se la crescente complessità della struttura economica ne moltiplica le forme e se in passato s’inserivano talvolta in contesti economici di tipo coloniale. Non è purtroppo una novità neanche lo sfruttamento della manodopera a buon mercato o del lavoro giovanile, né lo sono gli altri fenomeni negativi imputati al “neoliberismo”. La crescita degli scambi commerciali a livello mondiale e la graduale apertura delle frontiere sono fenomeni di lungo periodo, che due guerre mondiali sono magari riuscite a perturbare ma mai ad interrompere veramente. È quindi possibile argomentare che sotto il profilo dei contenuti non vi siano novità sostanziali.

Effettivamente, anche se per vari anni è stato un argomento con scarso valore d’attualità e quindi piuttosto negletto dai quotidiani, il liberismo di cui parliamo è sempre lo stesso, che a varie riprese ci ha dato il Kennedy Round, gli accordi Gatt, l’OMC (con il benessere economico che ne è risultato), ed è tra l’altro alla radice della costruzione europea. L’idea di base, per quanto opinabile come tutte le idee, ha sempre avuto ed ha tuttora esponenti di tutto rispetto (come Samuel Brittan, il cui libro Against the Flow è uscito poche settimane fa).

Ammettendo che la creazione del termine neoliberismo non abbia senso dal punto di vista strettamente semantico resta quindi da chiedersi sotto quale profilo ce l’abbia. Perché un senso questo termine deve averlo, dato che esiste e gode manifestamente di considerevole favore.

Per trovarlo facciamo un passo indietro e torniamo agli articoli da cui siamo partiti. In essi, come si è già detto, in esito ad un’analisi della cui correttezza si può magari discutere, ma in altre sedi, generalmente il “neoliberismo” viene indicato come la causa di una serie di mali che affliggono le nostre economie e si ripercuotono sul nostro tessuto sociale. E se si trattasse solo di un’etichetta da appiccicare all’avversario per demonizzarlo e scatenare una reazione automatica (e soprattutto acritica) di attacco nei suoi confronti? La tattica non è nuova, ed è stata utilizzata a varie riprese da tutti i quadranti dello schieramento politico. Le uniche a cambiare son le etichette, dato che le varie ideologie si rifanno a linguaggi e mitologie differenti.

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note terminologiche

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Proviamo a vedere se e come funzionerebbe questo meccanismo in altri casi. Se per esempio parlassimo di neomarxismo per Bertinotti & Co. il messaggio sottinteso potrebbe essere che il marxismo è morto, e che i personaggi suddetti cercano (invano?) di resuscitarlo, oppure che la loro versione di tale ideologia non è quella autentica (allarme, revisionismo!). Analogamente suggerirebbe idee particolari definire neopacifisti i manifestanti con la bandiera arcobaleno: come il liberismo, anche il pacifismo ha una lunga tradizione – si può discuterlo ed addirittura avversarlo, ma non è serio farlo col mezzuccio di aggiungergli un neo, ad esempio per far sembrare i suoi sostenitori giovani imberbi che non han capito come funziona il mondo e che pensano d’aver scoperto l’acqua calda.

Scrivendo questo non intendo proporre conclusioni, ma solo una possibile chiave di lettura degli avvenimenti a titolo di esercizio mentale. È peraltro perfettamente ipotizzabile che se un’intera classe dirigente (a livello tanto politico quanto industriale) volesse nascondere di non essere all’altezza dei problemi che la situazione le pone, e/o di aver compiuto per troppo tempo scelte ispirate dall’inerzia o dall’ignavia per amore del quieto vivere (è molto più facile per esempio sovvenzionare un settore industriale che si sa decotto piuttosto che ristrutturarlo tempestivamente - almeno fino a quando l’economia fornisce i necessari capitali), inventare un nuovo e diabolico nemico potrebbe risultare un espediente come un altro. Dal nostro punto di vista la cosa presenta l’interesse professionale di un impiego abusivo della lin-gua, e pone eventualmente il problema di come tradurre questo termine: lasciando il prefisso od eliminandolo ?

Cristiano Maria Gambari

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note terminologiche

Si segnala ai traduttori che il termine espresso in francese ed inglese con "transposition" va tradotto in italiano con "attuazione", allorché si riferisca ad una direttiva. Il termine è da preferirsi a quello di "recepimento", che si utilizza propriamente per l'inserimento di un atto normativo straniero nell'ordinamento nazionale. Nel caso della direttiva si preferisce l'uso di un termine che ne rispetti la natura di atto del diritto comunitario, il quale ultimo mira ad una sempre maggiore integrazione e osmosi con gli ordinamenti interni degli Stati membri.

Castellan Giuliano, Dragone Stefania

Attuazione e recepimento

Siena- Palazzo Squarcialupi - dal 24 marzo al 28 agosto

Hugo PRATT – Periplo immaginario

In giro per mostre

Si tratta della prima mostra antologica delle opere di Hugo Pratt, allestita in occasione del decennale della sua scomparsa. Dalle prime tavole dell’Asso di picche del 1945, fino agli ultimi acquerelli realizzati poco prima della morte, la mostra spazia su tutta la produzione artistica di Pratt con ben 350 opere.

L’esposizione è stata suddivisa in 7 sezioni geografiche: Venezia, Asia, Pacifico, Mondo Celtico, Africa, America latina e Nord America.

Compongono la mostra bellissimi acquerelli, qualche tempera, chine, una vettura di Formula 1, la Ligier Renault, interamente decorata dall’artista e vari filmati video nei quali Hugo Pratt parla della sua visione del mondo e dell’arte. Da notare 161 tavole originali di Corto Maltese, il personaggio che più di ogni altro ha reso famoso Hugo Pratt nel mondo intero.

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Rimasta vedova nel 1610 e nominata reggente si adoperò per proseguire la politica delle alleanze matrimoniali riuscendo ad assicurare un trono a tutti i figli. Il suo capolavoro fu il doppio matrimonio della figlia Elisabetta con Filippo IV di Spagna e del figlio Luigi XIII con la sorella di Filippo, allo scopo di consolidare il trono francese difendendolo dal pericolo, sempre in agguato, di una ribellione ugonotta. Ma Richelieu non era favorevole all’apertura verso la Spagna e dopo lunghi contrasti nei quali furono coin-volti anche i figli, Maria fu costretta all’esilio. Fra i bellissimi ritratti che si possono ammirare a Palazzo Pitti spicca quello di Van Dyck realizzato durante l'esilio ad Anversa, quando la regina aveva già 58 anni.

In effetti la mostra è composta in larga parte da ritratti che ripercorrono la vita di Maria de’ Medici, dall’infanzia alla vecchiaia, e da opere che ci presentano i familiari e i protagonisti delle vicende dell’epoca in varie circostanze celebrative.

Dai primi ritratti di Santi di Tito e di Pourbous il giovane, alla maniera del Bronzino, che minimizzano il prognatismo asburgico delle fattezze della giovane principessa, fino alle opere di Rubens e Van D y c k , è a f f a s c i n a n t e d e d u r r e dall’osservazione dei dettagli i gusti dei personaggi e le abitudini dell’epoca. Fanno parte della mostra anche molti pregevoli manufatti (fra cui tessuti, indumenti, calzature), esempi dell’estrema raffinatezza della corte medicea che non aveva rivali in Europa, alcune lettere autografe e numerosi altri documenti. Si apprende così che, per la realizzazione del Palais du Luxembourg, Maria diede all’architetto francese i piani di Palazzo Pitti affinché ne riproducesse lo schema.

Nell’insieme la mostra è molto ricca e ben articolata e ha il merito di farci riscoprire non solo un personaggio fino ad ora ingiustamente sottovalutato, ma anche un’epoca affascinante.

La mostra di Palazzo Pitti ci presenta il personaggio di Maria de’ Medici nell’arco di tutta la sua straordinaria esistenza (Firenze 1573, Colonia 1642) cercando di rivalutare la figura di una grande regina, vittima di una perdurante “damnat io memoriae” riconducibile per lo più a Richelieu.

Figlia del Granduca Francesco e di una principessa asburgica, era predestinata a svolgere un ruolo importante nella politica europea come parte integrante dell’ambizioso progetto di alleanze matrimoniali avviato già dal nonno Cosimo I. Assieme alla sorella Eleonora aveva pertanto ricevuto una raffinata educazione affidata a letterati e musicisti crescendo in una Firenze nella quale i Medici avevano forgiato il concetto di “Rinascenza”, più tardi chiamato Rinascimento. Il mecenatismo artistico e culturale era senza dubbio uno degli strumenti politici più efficaci e raffinati della politica del casato fiorentino.

Il 5 ottobre 1600, Maria, forte di questa eredità culturale e politica, andò sposa a Enrico IV, re di Francia e di Navarra, portando, fatto non trascurabile, una dote di oltre 600.000 scudi d’oro, che annullava più della metà del debito della corona di Francia.

Nel destino di colei che i francesi soprannominarono impietosamente “la grosse banquière” si iscrivevano la ricostruzione di un paese dilaniato dalla guerra civile, la nascita di 6 figli e il rinnovamento delle arti e delle lettere francesi, ponendo solide basi per il regno del nipote, Luigi XIV.

FIRENZE- Palazzo Pitti

dal 19 marzo al 4 settembre

"Maria de' Medici. Una principessa fiorentina sul trono di Francia"

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Numerosi acquerelli e serigrafie ci presentano l’evoluzione dell’artista dal 1970 ad oggi, ma la vera novità della mostra sono le sculture in bronzo, pietra e marmo. Folon ha intrapreso, con grande successo, questa attività soltanto negli ultimi 15 anni e quella di Firenze è la prima rassegna esaustiva della sua opera scultorea. Gli spazi esterni del Forte Belvedere, di cui questa mostra segna la riapertura al pubblico, sono la cornice ideale per la presentazione dei temi più cari all’artista: il dialogo fra l’uomo e l’ambiente, il pensiero, lo sguardo, il viaggio, gli uccelli.

Per l’amore che lo lega da lungo tempo a Firenze, da quando studente ventenne girava per la Toscana in autostop, Folon ha curato personalmente la presentazione delle oltre 250 opere dell’esposizione e la collocazione all’aperto dei 30 bronzi di grandi dimensioni. Le figure senza tempo di Folon dialogano con il cielo, con la luce e con la città di Firenze e ci parlano di armonia o di angoscia, guardano assorte il mondo degli uomini, messaggeri di un silenzio che non può lasciare indifferenti.

Ovviamente in una mostra di Folon non potevano mancare gli acquerelli e qui possiamo ammirarne 100 fra quelli più amati dall’artista, assieme a diverse serigrafie e a sculture e oggetti in legno. Sul piano grafico vanno segnalate numerose opere, fra le più recenti, che hanno come tema centrale la nave e, dunque, il viaggio. Sono navi fatte di pezzi di legno spinti sulla riva dal mare e ricomposti dall’artista per proseguire un viaggio incompiuto (“des voyages imaginaires venus de mon enfance”), fatte di un pezzetto di carta strappato e incollato sulla linea dell’orizzonte di un foglio che diventa mare e cielo infiniti o, ancora, composte da un collage di legnetti e materiale di scarto dal quale viene fuori un vecchio vapore, che affronta onde gigante-sche in un drammatico mare color inchiostro.

Nella sala di Palazzo Vecchio, oltre ad un commovente omaggio a Federico Fellini, amico e sognatore anche lui, in un locale separato, un cielo stellato e una musica inconfondibile (di Michel Colombier) fanno da cornice alle lente evoluzioni su una scala a pioli dell'uomo-acrobata, un automa dalla silhouette inconfondibile, che volteggia nello spazio, come anni fa, con la stessa sigla musicale, si librava fra i pianeti azzurri nel filmato di chiusura delle trasmissioni di Antenne 2.

Completa la presentazione un interessante filmato nel quale l'artista parla a lungo della sua visione del mondo e del suo lavoro e ci rende partecipi della sua filosofia. Per dirla con le sue parole:“ Toutes mes sculptures régardent le ciel, c'est une façon de mettre le ciel dans la sculpture” … in questo caso, il cielo di Firenze.

Clara Breddy-Buda

FOLON - FIRENZE

Forte Belvedere e Sala d’Arme di Palazzo Vecchio

dal 13 maggio al 18 settembre

culturalia

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LE CITTA’ DEI POETI L’incontro tra un poeta e una città è una storia fatta di sguardi, talvolta obliqui o apparentemente distratti, di brandelli di strade o di quartieri che trovano echi e risonanze nella scrittura, di fuggevoli impressioni che si intrecciano e si rincorrono nell’immaginazione in un complesso gioco di specchi… È una storia che si compone di luci e suoni inconsueti e i cui protagonisti sono spesso figure collaterali, quasi sempre ignote alla Storia scritta con la « s » maiuscola, fantasmi la cui esistenza sopravvive all’attimo fuggevole solo grazie a un verso, un’immagine, una parola…

Ed è per questo che un libro come Le città e i poeti (curato da Carlo Felice Colucci e uscito in questi giorni per i tipi della Guida di Napoli) - nonostante le intenzioni un po’ velleitarie e la tendenza a mescolare nel calderone delle sue 270 pagine i poeti più vari per età, cultura e provenienza geografica accomunati solo dal secolo di appartenenza (il nostro) e dal filo conduttore della città - risulta inaspettatamente affascinante. Gli autori che, quasi sempre inconsapevolmente, partecipano a quest’antologia sono per la maggior parte dei grandi e ci offrono una carrellata di immagini spesso di notevole efficacia espressiva, talvolta indimenticabili per intensità ed originalità.

Gli autori, più di cento, sono prevalentemente italiani, ma non mancano i russi (Blok e Majakovskij), gli spagnoli (Garcia Lorca, Machado) e tanti altri poeti stranieri: dal premio Nobel Wislawa Szymborska a Seamus Heaney, da Rafael Alberti a Yeats, da Kavafis a Prévert, da Apollinaire a Rilke, da Hora a Senghor.

In questa lunga passeggiata poetica si passa attraverso le suggestioni di un’imprecisata città straniera descritta da Salvatore Quasimodo e che appare, con le sue luci e i suoi rumori, carica di presagi :

Un’altra ora che cade; aperta a stella una buccia di banana vive sul fiume. Il rombo d’un frantoio che macina pietrame sulla cala, presso barconi inerti, la sabbia gialla che trabocca ; e al flutto arido la pena a cui mi fingo leggero ogni giorno non mio […].

Città tutta battuta camminata scarpinata frugata nei suoi vicoli discesa e risalita sulla schiena inarcata dai suoi ponti, sorpresa nei suoi inferi, sorvolata in sogno città datami in sorte o in uso […].

Si insegue la grazia sfuggente di Firenze con i versi sferzanti di Mario Luzi :

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A volte, mentre vado per le strade della città tumultuosa solo, mi dimentico il mio destino, d’essere uomo tra gli altri e, come smemorato, anzi, tratto fuor di me stesso, guardo la gente con aperti occhi estranei […].

Ci si lascia pervadere dall’inquietudine dei segreti di Napoli con i versi di Enrico Fagnano che chiudono la raccolta:

Il mio non arrivo nella città di N. è avvenuto puntualmente. Eri stato avvertito con una lettera non spedita. Hai fatto in tempo a non venire all’ora prevista. Il treno è arrivato sul terzo binario. E’ scesa molta gente. L’assenza della mia persona si avviava verso l’uscita tra la folla. Alcune donne mi hanno sostituito frettolosamente in quella fretta. A una è corso incontro qualcuno che non conoscevo, ma lei lo ha riconosciuto immediatamente.

LE CITTA’ DEI POETI

Solo ombre sui muri correndo veloci la notte raccontano la mia città. Solo ombre, di notte.

Ma la città può essere anche paradosso come accade con Wislawa Szymborska :

Si condivide il tormento esistenziale che serpeggia nelle immagini della Liguria di Camillo Sbarbaro :

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Si percorrono le vie di Varsavia con Angelo Maria Ripellino : Come gufi si arruffano tremule spoglie di gialle cipolle di fumo, e in aprile fioriscono sempre le gialle Forsythia. Ma ormai tutto è a brandelli, è fuliggine, scoria.

O quelle di Sofia con Nazim Hikmet : A Sofia, vien prima l’albero della pietra, è più bello della pietra. A Sofia, l’albero e l’uomo si mescolano […].

Ma, tra tante immagini di città storiche e memorabili, in fondo quel che conta è il cielo che le so-vrasta, è la luce della luna o di una stella a renderle speciali. Come scrive Aldo Palazzeschi nella sua celebre Rio Bo:

Una stella innamorata ? Chi sa se nemmeno ce l’ha una grande città.

Si sono scambiati un bacio non nostro […]. La stazione della città di N. ha superato bene la prova di esistenza oggettiva […]. E’ avvenuto persino l’incontro fissato. Fuori dalla portata della nostra presenza. Nel paradiso perduto delle probabilità. Altrove.

culturalia

LE CITTA’ DEI POETI

Giulia Gigante