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COS’E’ QUELLA LUCE LAGGIU’? CRONACHE CINEMATOGRAFICHE DALLA TOSCANA Rubrica di IDEE SULLA TOSCANA. PERIODICO ON-LINE DELL’ISTITUTO PER LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA DELLA TOSCANA (IRPET) a cura di STEFANO BECCASTRINI 1

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COS’E’ QUELLA LUCE LAGGIU’?

CRONACHE CINEMATOGRAFICHE DALLA TOSCANA

Rubrica diIDEE SULLA TOSCANA.

PERIODICO ON-LINEDELL’ISTITUTO PER LA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA DELLA

TOSCANA(IRPET)

a cura di STEFANO BECCASTRINI

“Cos’è quella luce laggiù?”“E’ la Toscana”

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da “Fiorile”,regia di Paolo e Vittorio Taviani

IN MORTE DI GILLO PONTECORVO

E’ morto qualche giorno fa a Roma, ove viveva da molti anni, uno dei più illustri rappresentanti del cinema italiano del secondo dopoguerra, Gilberto (Gillo) Pontecorvo. Aveva 87 anni. Era infatti nato, a Pisa, in una solida famiglia d’origini ebraiche, nel 1919. In famiglia c’era il culto della scienza (un fratello maggiore, Bruno, fu un noto fisico atomico, allievo di Enrico Fermi eppoi recatosi, per scelta ideologica, a lavorare in URSS) e anche Gillo, inizialmente, fece studi scientifici, iscrivendosi alla facoltà di chimica dell’università pisana. I suoi veri interessi, però, si rivelarono ben presto altri: la politica, il giornalismo, il cinema. Andò a Parigi a scuola di giornalismo, si iscrisse colà – in piena guerra mondiale - al partito comunista, fece poi l’aiuto-regista di celebri cineasti francesi, come Yves Allegret, e belgi, come il grande documentarista Joris Ivens (dal quale, oltre che da Rossellini e dal cinema sovietico degli anni Venti e Trenta, trasse ispirazione il suo stile cinematografico). Tornato in Italia, partecipò alla Resistenza, fu dirigente della gioventù comunista, realizzò alcuni cortometraggi di forte impronta prosovietica (come Missione Timiziarev, 1953) ma capaci di una sincera attenzione verso il mondo del lavoro (come Pane e zolfo, 1956, sui minatori delle solfatare marchigiane). Nel 1956, dopo la repressione - approvata dal PCI - della rivoluzione democratica d’Ungheria, uscì dal partito, cui peraltro restò sempre sentimentalmente e culturalmente legato, approvandone in seguito le svolte antitotalitarie. Sempre in quell’anno cruciale, girò Giovanna, un cortometraggio che avrebbe dovuto far parte di un film collettivo – La rosa del venti, coordinato da Ivens - sulla condizione della donna: Pontecorvo narrò le vicende d’un’operaia tessile pratese, impegnata con le sue compagne di lavoro nell’occupazione di una fabbrica, contro i licenziamenti previsti nel piano aziendale. Il film, dopo essere stato presentato fuori concorso a Venezia, non circolò poi nelle sale ed è stato restaurato, e

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alfine proiettato da qualche parte (poche, in verità), nel 2002 su iniziativa della CGIL. Realizzò, nel 1957, il suo primo lungometraggio, La grande strada azzurra, da un romanzo di Franco Solinas, con cui aveva sceneggiato Giovanna e che da allora era diventato, come poi diventeranno Marcello Gatti per la fotografia e Ennio Morricone per la musica, suo assiduo collaboratore filmico. Era la storia di un pescatore di frodo, interpretata dal pistoiese francesizzato Yves Montand. Venne poi Kapò, 1960, ambientato in un lager nazista. Infine, nel 1966, il suo capolavoro: La battaglia di Algeri, Leone d’Oro a Venezia, tra le proteste francesi (in parte giuste: quell’anno a Venezia concorreva anche Au hasard, Balthazar, sublime opera del grande Robert Bresson, cineasta di gran lunga più poetico del buon Gillo; in parte ingiuste: dettate dal livore politico di chi non aveva ancora imparato a rileggere una pagina poco onorevole della propria storia colonialista). In seguito, Pontecorvo girò soltanto altri due film: Queimada, 1969, addirittura con Marlon Brando, e Ogro, 1979, sull’attentato dell’Eta contro Carrero Branco. Dal 1992 al 1996 fu direttore della Mostra d’arte cinematografica di Venezia e dal 1996 al 1999 presidente dell’Ente Cinema. Adesso che non c’è più, lascia in noi un bel ricordo di uomo intelligente, aperto, capace sempre di schierarsi con impegno profondo ma senza dogmatismi e intolleranze, curioso verso la realtà sociale e verso il lavoro umano (fu uno dei pochi cineasti italiani – per esempio – attento alla condizione operaia). Fu anche un grande regista? Personalmente non lo credo e non perché abbia fatto pochi film (soltanto cinque in una pur lunga carriera) ma perché nessuno di essi, salvo La battaglia d’Algeri, mi pare memorabile. La battaglia d’Algeri sì, per la vena coralmente epica con cui sa narrare il sollevarsi d’un intero popolo alla ricerca della propria libertà e indipendenza. A suo tempo, il film fu attentamente studiato, per impararne le tecniche di guerriglia urbana, dalle Black Panthers americane. Oggi sarebbe assai adatto per riflettere, senza ideologismi né moralismi artefatti, sul terrorismo, nelle sue diverse, storiche incarnazioni, e forse (non lo so, per questo dico che servirebbe rifletterci) in certe sue, altrettanto diverse e storiche, possibili giustificazioni.

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AITALEIA. ROBERTO ROSSELLINI E LA TOSCANA

Roberto Rossellini, a mio avviso il più grande cineasta che l’Italia abbia mai avuto, instancabile innovatore di temi e di stilemi, curioso del mondo e dell’animo umano, capace di far film sui partigiani padani come sui ragazzi indiani, di raccontare gli etruschi e di intervistare Salvator Allende, di cercar di spiegare col cinema chi fosse Francesco d’Assisi e cosa avesse detto Cartesio, nacque a Roma nel 1906 (da famiglia d’origine pisana imparentata con l’architetto e scultore quattrocentesco Bernardo Rossellino). Si celebra dunque, quest’anno, il centenario della sua venuta al mondo. Durante il fascismo fece tre film, certamente non critici col regime (che altrimenti non glieli avrebbe fatti fare) ma altrettanto certamente assai poco retorici, guerreschi, inneggianti ai virili e duceschi ideali del regime medesimo: son storie umili d’umili personaggi, che fanno la guerra perché li hanno mandati a farla e cercano di comportarsi almeno dignitosamente. A Rossellini le grandi ideologie non sono mai interessate: lui diceva di voler praticare, col suo cinema, la “intelligenza delle cose”. Tale intelligenza lo portò, durante l’occupazione nazista di Roma, ad avvicinarsi alla Resistenza, di cui narrò l’epica quotidiana – ancora una volta umilmente, neorealisticamente come poi si sarebbe detto, mostrando che il cinema e la realtà possono avvicinarsi straordinariamente quando dietro la macchina da presa c’è un uomo che non interpone tra il proprio occhio e il mondo troppi filtri artefatti e preconcetti – in “Roma città aperta” (1945). Un film che riscattò l’Italia e gli italiani – che erano stati fascisti e avevano perso la guerra – agli occhi del mondo intero, narrandone in modo assieme sobrio e drammatico la tragica sofferenza e la coraggiosa redenzione: il regista austro-americano Otto Preminger affermò: “La storia del cinema mondiale ormai è divisa in due: prima e dopo ‘Roma città aperta’…”. In seguito, Rossellini girò un altro capolavoro resistenziale, “Paisà” (è del 1946 e dunque ha l’età della Repubblica: ne ricorre quest’anno il sessantesimo e io l’avrei fatto proiettare in tutte le scuole d’Italia). Infine, da par suo,

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abbandonò la facile carriera di “poeta della Resistenza” per esplorare, ulissico viandante del cinema, altre questioni morali, altri argomenti sociali, altre sollecitazioni della storia e della sua mente, dell’evolversi del mondo e del suo cuore. Non è questa la sede per ricostruire puntigliosamente una lunga, travagliata, sempre cangiante carriera che approdò in ultimo alla convinzione che il cinema dovesse, sulla soglia della società della conoscenza e della globalizzazione del pianeta, farsi educativo, diventare strumento di apprendimento equalitario, trasformarsi da forma si spettacolo in forma di educazione permanente per la democrazia. Morì nel 1977, mentre stava lavorando a un film, sulla vita e l’opera di Karl Marx, che si sarebbe intitolato “Lavorare per l’umanità”. Ricordandolo - nel centenario della sua nascita - in questa sede, vorrei dedicare un po’ di attenzione ai suoi rapporti con la Toscana, aldilà delle pisane origini familiari. Son stati rapporti, cinematograficamente parlando, non frequenti ma intensi. Cominciarono proprio con “Paisà”: si tratta di un film in sei episodi, che narrano dell’avanzata, da sud a nord, degli Alleati, del loro liberare l’Italia dai tedeschi, del loro sempre più profondo dialogo con gli italiani, fino al collaborare organicamente e proficuamente con quanti di loro combattevano nella Resistenza (una pagina gloriosa della nostra storia, che ha certo avuto le sue mitologie e i suoi lati oscuri come ogni pagina di storia ma che in troppi si divertono ormai, lucrandoci, ad infangare). Il quarto dei sei episodi, uno dei più belli, è ambientato a Firenze e narra della battaglia scatenatasi in città, mentre gli inglesi la guardavano col binocolo dalle colline d’Oltrarno, tra partigiani e cecchini fascisti. Rossellini aveva scritto questo episodio con Vasco Pratolini: tornerò a parlarne in una prossima puntata di queste mie cronache cinematografiche di Toscana, in quanto rappresenta l’ingresso solenne della nostra Regione, in tutta la sua modernità, nel cinema italiano, che fino ad allora s’era ricordato della Toscana soltanto per ambientarvi variopinte storie di guelfi e ghibellini. Dopo “Paisà”, Rossellini tornò a girare in Toscana due volte. La prima, nel 1964, per la serie televisiva, ormai appartenente alla sua fase pedagogica, “L’età del ferro” (ufficialmente, ne risultava regista suo figlio Renzo). La Toscana è presente nel primo e nell’ultimo dei cinque episodi del telefilm, entrambi ambientati nel piombinese. L’uno tratta degli etruschi, antichi ma già esperti precursori della moderna metallurgia. L’altro, del tentativo degli operai piombinesi di salvare gli impianti delle acciaierie che i tedeschi volevano smantellare e portare in Germania. Su entrambi, varrà la pena di tornare in qualche prossima cronaca. La seconda volta che Rossellini tornò a filmare la Toscana fu nel 1972, con la serie televisiva (bellissima, certamente una delle sue opere più intense) dedicata a “L’età di Cosimo” (tre puntate, l’ultima delle quali aveva come protagonista Leon Battista Alberti). Anche su tale film, ove compaiono Cosimo e Lorenzo de’ Medici, Pippo Brunelleschi e il Ghiberti, la memoria di Masaccio da poco morto in quel di Roma e appunto l’Alberti, sarà d’uopo tornare, a tempo debito, con un’apposita cronaca. Per adesso, avviandomi a concludere, mi limiterò a ricordare quanto Rossellini affermò in un’intervista mentre girava, a Piombino, parte de “L’età del ferro”. Disse di aver scoperto donde provenisse il nome Italia, che oggi caratterizza la nostra patria nazionale: da “Aitaleia”, la parola con cui i Greci chiamavano la terra ove gli etruschi lavoravano, fondendolo, il ferro. In greco, “Aitaleia” vuol dire “paese del nerofumo”: la Toscana, appunto, terra delle prime, antiche e già moderne, attività metallurgiche. Insomma, è la Toscana ad aver dato il suo nome all’Italia intera!

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LE NOTTI TOSCANE DI LUCHINO VISCONTI

Quest’anno, il 2006, ricorre il centenario della nascita, oltre che di Roberto Rossellini (cui era dedicata la scorsa “cronaca”), anche di Luchino Visconti, altro maestro del cinema italiano del secondo dopoguerra. Entrambi son stati considerati, con Vittorio De Sica, i “padri” del cosiddetto neorealismo, ma erano assai lontani tra loro, per cultura, stile, concezione del cinema così come della società e forse della vita stessa. Su tale lontananza si potrebbero scrivere pagine e pagine, ma non è questa la sede. Sceglierò un solo esempio, per farla capire al lettore: quello dei loro film parallelamente risorgimentali, parallelamente girati in Sicilia agli inizi degli anni Sessanta del Novecento. Rossellini fece di Garibaldi l’eroe del suo Viva l’Italia!, 1961 (un Garibaldi genialmente un po’ rozzo, che s’inventa la strategia bellica lì per lì, che forse non ha letto molti libri ma è curioso del mondo e delle persone: l’autoritratto di Rossellini, insomma) mentre Visconti fece del principe di Salina l’eroe del suo Il Gattopardo, 1963 (un colto aristocratico, nostalgicamente legato alla tradizione del suo nobile casato ma consapevole del destino funebre della sua classe e capace di guardare al potere borghese che avanza con disincanto quasi marxista: un autoritratto di Visconti, insomma). Ma veniamo a dire qualcosa sui rapporti tra Visconti e la Toscana. Sono due i suoi film in Toscana narrativamente ambientati, anche se uno solo di essi è stato in Toscana effettivamente girato. Nel 1957 (l’anno successivo alla rivoluzione democratica ungherese, repressa nel sangue dai carri armati sovietici col plauso - almeno ufficiale - del PCI: Visconti si schierò decisamente col suo partito ma sentiva la crisi nell’aria, ne soffriva, provava il bisogno di fare un film riflessivo, intimista, politicamente e storicamente meno impegnato del solito), egli decise di trarre la sua nuova opera cinematografica da Dostoevskij. Il testo prescelto fu “Le notti bianche”, che racconta la vicenda d’un sognatore solitario e desideroso d’amore e d’una donna dall’amore delusa che s’incontrano, vagano, parlano nottetempo lungo i canali di San Pietroburgo (anni dopo

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anche il sommo Robert Bresson trasse un film dallo stesso testo: Quattro notti di un sognatore, 1971). Pare che il libro, da cui trarre il film, sia stato suggerito a Visconti da quell’uomo d’immensa ma non accademica cultura – letteraria, pittorica, cinematografica (varrà la pena di dedicargli una prossima “cronaca”) - che fu il toscanissimo Emilio Cecchi, “babbo” della sceneggiatrice di cui Visconti si fidava di più, Suso Cecchi d’Amico. Fu deciso di ambientare la storia, modernizzandola nonché italianizzandola o meglio toscanizzandola, non lungo i canali della Neretva bensì lungo i fossi del quartiere Venezia, a Livorno. Peraltro, forse per motivi tecnici (la necessità di filmare in inverno e di notte) forse poetici (la necessità di un’ambientazione, pur livornese, il più astratta e favolistica possibile), il film alla fine fu tutto girato in studio, a Cinecittà, ove il quartiere Venezia fu ricostruito. I protagonisti furono impersonati da Maria Schell e Marcello Mastroianni. Il film, generalmente considerato minore nella filmografia viscontiana, sarebbe da rivedere, con qualche positiva sorpresa. Un altro film notturno segnò il ritorno di Visconti in Toscana, per ambientarvi – ma questa volta anche per girarvi realmente – una sua opera cinematografica: Vaghe stelle dell’Orsa, 1965, con Claudia Cardinale (tenebrosamente bellissima, come già era stata scandalosamente bellissima in La viaccia, 1961, di Mauro Bolognini e luminosamente bellissima in Otto e mezzo di Federico Fellini, 1963) e Jean Sorel. Il film è ambientato e girato a Volterra, città di vento e di silenzio, di funebri memorie etrusche, vuota d’esseri umani e piena di fantasmi. Il titolo è chiaramente leopardiano, l’ispirazione deriva in parte dalla tragedia greca (dall’ “Elettra” sofoclea, soprattutto) in parte da D’Annunzio (quello di “Forse che sì, forse che no”: Visconti non ammise, all’epoca, la derivazione dannunziana – eran tempi in cui sarebbe apparso disdicevole che un regista comunista fosse anche dannunziano – ma non a caso proprio da D’Annunzio fu esplicitamente tratto il suo ultimo film, girato l’anno stesso della morte: L’innocente, 1976). La città di Volterra non fa da semplice, seppur fascinoso, sfondo bensì da protagonista primaria della filmica storia, teatro simbolicamente angoscioso d’una fosca vicenda di tradimento e d’incesto. Vaghe stelle dell’Orsa vinse il Leone d’oro a Venezia, ove per squallidi complotti di bassa politica, manovrati dai governi centristi del tempo, quel premio era stato negato a suoi ben più alti capolavori come Senso, 1954 (accusato di “disfattismo” perché mostrava l’esercito italiano sconfitto a Custoza: roba da far ridere i polli) e come, seppur io lo ami di meno, Rocco e i suoi fratelli, 1960 (film troppo operaista per i gusti degli allora reggitori d’Italia). Vaghe stelle dell’Orsa permise al Festival di Venezia di pagare il suo debito con Visconti. Del resto il film, ancorchè meno bello di quelli bocciati in precedenza, quel premio lo meritò, se non altro perché finalmente rivelava ciò che in tutti i film prima realizzati restava celato: il fatto che in Luchino Visconti, qualora l’equilibrio faticosamente raggiunto tra il suo essere – e in fondo voler restare - un aristocratico esteta e il suo essere – e fortemente voler diventare – un intellettuale marxista (o meglio, gramsciano: Gramsci l’aveva letto davvero, Marx non so), si fosse man mano andato usurandosi, sarebbe stato l’aristocratico esteta a restar padrone della scena. E quell’equilibrio, quand’egli si recò a Volterra, andava giustappunto cominciando a usurarsi, avendo ormai raggiunto la sua più alta incarnazione: quella nel principe di Salina, l’ultimo dei Gattopardi.

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MARIO SOLDATI: UNA TRAGICA NOTTE IN TOSCANA

Dopo quelli di Roberto Rossellini e di Luchino Visconti credo valga la pena di ricordare, su queste “Cronache”, anche il centenario della nascita di Mario Soldati, che venne al mondo a Torino giustappunto nel 1906 (lasciandolo poi - a Tellaro, il delizioso paesino presso La Spezia ove aveva acquistato una casetta - nel 1999). Soldati è stato uno dei più poliedrici, moderni, simpatici uomini di cultura del Novecento italiano: romanziere, giornalista e saggista (da parte mia, innamorato come sono del cinema americano, trovo ancora bellissimo il suo “America primo amore”, resoconto di un soggiorno a New York tra il 1929 e il 1930: “…vissi a New York due anni. Era l’epoca degli holdups, del proibizionismo, degli speakeasies. Miseria, disoccupazione, mendicanti per le vie. Il cinema sonoro appena inventato, Janet Gaynor la stella più in voga…”), uomo di cinema (sia come sceneggiatore sia come regista, in proprio, di una venticinquina di film, da La principessa Tarakanova del 1938 a Policarpo ufficiale di scrittura del 1959: qualcuno bellissimo, come Piccolo mondo antico del 1941, qualcun altro meno bello e addirittura bruttino, tra cui il, peraltro a me caro per averlo visto con passione da ragazzetto ed avido lettore di Salgàri, Jolanda la figlia del corsaro nero del 1953), inventore dei primi reportage dell’appena nata televisione italiana (girò in lungo e in largo – più in lungo, in verità, visita la forma della penisola – l’Italia, con una troupe della RAI al seguito, per parlare agli italiani, anche facendo molte interviste alla gente che avvicinava nelle varie regioni e nelle varie città, sul vino, sulla lettura e così via). Per questo ho parlato di lui come di un uomo di cultura, oltre che poliedrico, anche moderno e simpatico: proprio per questa suo precoce e intelligente interesse, non frequente tra i letterati, verso i nuovi media, il cinema giustappunto e la televisione. “Bravo Soldati… – diranno tra sé e sé, a questo punto, i lettori (se ce ne sono, io spero di sì) di queste “Cronache cinematografiche di Toscana” - …ma la Toscana che c’entra?”. Il fatto è che, tra la venticinquina di film che Soldati ha realizzato come regista, ce n’è anche uno ambientato, ed effettivamente girato, in Toscana. Si tratta di Tragica notte, del 1942, interpretato da due attori (anzi, un’attrice e un attore) anch’essi toscani: la stupenda livornese Doris

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Duranti – una delle vamp del cinema del periodo fascista, dalla chioma corvina e lo sguardo maliardo, amante del già federale di Firenze e poi gerarca del regime e ministro della cultura Alesaandro Pavolini: crollato il fascismo, e fucilato dai partigiani Pavolini, se n’andò a far la signora in America Latina ed è morta a Santo Domingo nel 1995 - e il fiorentino Andrea Checchi, uno dei volti più scabri ed intensi del cinema italiano degli anni Trenta/Cinquanta. La storia è tratta dal romanzo “La trappola” di uno scrittore – peraltro dimenticato - anch’egli fiorentino, il nobil’uomo Delfino Cinelli: narra d’un bracconiere – la cui bellissima sposa gestisce una locanda campagnola - che finisce in galera a causa d’un guardiacaccia e che, uscito dal carcere, si vendica picchiandolo nottetempo e pensando di non essere stato da lui riconosciuto. In realtà, il guardiacaccia l’ha riconosciuto eccome e si vendica a sua volta – rustico Jago – facendogli credere che sua moglie – del resto abbastanza delusa della vita che il suo non felicissimo matrimonio la costringe a fare – l’ha tradito, durante la sua prigionia, con un conte tornato a vivere da quelle parti (ciò che il guardiacaccia non sa è che davvero la donna è stata, riamata, innamorata del conte ma nulla era avvenuto tra loro, in quanto la donna era ormai legata al bracconiere). Una tragica notte – giustappunto – il bracconiere si fa convincere dal guardiacaccia ad ammazzare il conte ma poi, capendo il perfido gioco dell’altro, spara su di lui. Sarà proprio il conte a scagionarlo, testimoniando il falso e cioè che s’è trattato d’un incidente di caccia. Il film fu girato tra le crete senesi (un paesaggio nudo ed anzi, come diceva Mario Luzi, “scorticato”, scenario quanto mai simbolicamente appropriato per una vicenda di cuori dolentemente induriti) nonché (l’ho appreso da “Come onde del mare”, il bel libro su “Siena e la sua terra nello specchio del cinema” – dice il suo sottotitolo – di Franco Vigni: varrà la pena di dedicargli una prossima “cronaca”) a Chiusure, il borgo fortificato che guarda dall’alto l’Abbazia di Monte Oliveto ed è noto ai buongustai per la bontà dei suoi carciofi, e presso il Castello della Chiocciola, vicino a Monteriggioni. Della lavorazione del film (alla cui sceneggiatura parteciparono, oltre all’autore del romanzo e allo stesso Soldati, anche Alberto Moravia e Mario Bonfantini, illustre storico della letteratura francese che si dilettava, anche, di cinema: la supervisione fu del gran tosco Emilio Cecchi) Soldati ha narrato in un articolo del 1980, “Regista in tempo di guerra” (lo si può leggere, oggi, nel volume “Cinematografo”, una raccolta di scritti soldatiani edita da Sellerio). Nell’articolo egli racconta di come, tra il 1940 e il 1942, avesse realizzato ben tre film (oltre ai già citati Piccolo mondo antico e Tragica notte, anche Malombra) e commenta: “Ma come? Chiederanno i giovani e gli ignari, ma come? In quegli anni angosciosi, dal ‘40 al’ 42, gli italiani continuarono a fare del cinema? E di che cinema, in ogni caso, si trattava?”. Si trattava, per lui, di tre filmici adattamenti di altrettanti romanzi (Soldati, da buon letterato, ha sempre avuto bisogno, per fare i suoi film, di partire da un testo letterario preesistente): due di Fogazzaro, giustappunto “Piccolo mondo antico” e “Malombra”, e uno del buon Cinelli, quel “La trappola” che divenne, sullo schermo, Tragica notte. La sceneggiatura fu scritta a Villa Scacciapensieri, nella primavera del 1941. Ricorda Soldati: “Lavoravamo la mattina sotto un bel pergolato, con il lontano panorama delle torri di Siena in fondo alla valle… “. Però, egli non amava quella storia, non era convinto della sceneggiatura alfine completata e iniziò a girare, in estate, di malavoglia. Il film non ebbe poi, nelle sale, alcun successo. “Non l’ho mai rivisto… – scrisse Soldati nel 1980 - Pare che oggi piaccia ai giovani dei cineclub. Qualcuno dice addirittura che è un capolavoro. Mi contento di pensare che si salvino due o tre sequenze…”. Forse proprio un capolavoro Tragica notte non è, seppure il suo narrar di truci fatti popolari e alquanto sensuali rifugga dal cinema di regime e paia anticipar quasi quell’esordio del neorealismo che fu, di lì a poco, Ossessione, 1943, di Luchino Visconti. Però certe cose (e non solo due o tre sequenze) restano, a mio avviso, memorabili e cioè il paesaggio toscano (Soldati è sempre stato, nel suo far cinema, un grande paesaggista: anche in ciò Piccolo mondo antico è, tra i suoi film, insuperabile) e la figura di Armida, la moglie del bracconiere interpretata dalla Duranti, con la sua inquietudine fatta di desiderio e di frustrazione, il suo duplice amare due uomini ma restando fedele a quello dei due che forse ama di meno, insomma il suo esser donna assai più irrequieta e moderna di quel che s’usasse allora (ma forse, a lungo, anche dopo) vedere sullo schermo.

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QUANDO I SOGNI MORIRONO ALL’ALBAE INDRO MONTANELLI SI FECE REGISTA

Quest’anno, 2006, ricorre il cinquantenario della rivoluzione democratica d’Ungheria, 1956, nell’immediato sanguinosamente repressa dai carri armati sovietici ma alla lunga, almeno moralmente ma anche politicamente, vittoriosa: l’Ungheria, infatti, oggi è democratica e fa parte dell’Unione Europea, l’URSS invece non esiste più (cominciò a non esistere più, almeno nella mente e nel cuore di tanti che avevano guardato al Paese dei Soviet con speranza emancipatrice, proprio da quell’anno terribile e cruciale, da quella repressione crudele e furibonda). Nella sinistra italiana la cosiddetta, da molti, “rivolta” (ma, come già il lettore si sarà accorto, io amo chiamarla invece “rivoluzione democratica”) degli ungheresi provocò più d’un terremoto: sancì la rottura dell’unità d’azione tra PCI e PSI, per esempio, avviando un distacco dei socialisti dai comunisti chesarebbe approdato nei primi anni Sessanta alla costituzione dei governi di centro-sinistra nonchè causò più d’un dramma in casa comunista, alfine malamente conclusosi con l’uscita dal partito di alcuni, ma importanti, uomini di cultura (uno per tutti: Italo Calvino) e di alcuni giovani, ma promettenti, dirigenti (uno per tutti: Antonio Giolitti). In realtà, io credo, quel dramma fu per il PCI assai più grave di quel che non risultasse testimoniato dalle, pur traumatiche, uscite suddette: fu il dramma di un appuntamento perduto, quello che Giuseppe Di Vittorio (giustamente convinto che quando i comunisti sparano sugli operai, un vero e sincero dirigente del movimento operaio sta con le vittime non con gli assassini) aveva indicato al suo partito – peraltro non abbandonato, perché Di Vittorio era un uomo all’antica, di quelli che alla fine piegano il capo con dolore e rabbia pur di non lasciare la famiglia d’origine, anche quando stia sbagliando – ovverosia il porsi alla testa di un rinnovamento della sinistra comunista europea che la sapesse alfine distaccare dall’URSS. Quel passo il PCI lo farà, dodici anni dopo, condannando l’invasione della Cecoslovacchia eppoi, con Berlinguer, dando vita all’eurocomunismo e così via: dodici anni perduti, per la sinistra e il movimento operaio italiano (e forse varrebbe la pena, alla luce di ciò, farsi venire qualche dubbio sulla intelligenza politica togliattiana, ma son questioni da non trattare in una umile cronaca

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cinematografica). Il lettore si chiederà, qualunque cosa pensi di quanto finora affermato: ma il cinema e la Toscana cosa c’entrano? C’entrano eccome, perché era toscano, di Fucecchio per la precisione, il giornalista italiano che meglio d’ogni altro raccontò, in presa diretta verrebbe da dire, i fatti prima esaltanti poi tragici di quella rivoluzione e perché proprio lui, tornato in Italia e portando dentro di sé il ricordo di quelle terribili e toccanti giornate, scrisse su di esse la sceneggiatura d’un film che poi egli stesso, facendosi cineasta per la prima e l’ultima volta in vita sua, volle girare. Sto parlando di Indro Montanelli e del suo I sogni muoiono all’alba, 1961. Montanelli, della tragica epopea ungherese di cui fu testimone attento e partecipe, seppe narrare la cronaca in maniera anche letterariamente, oltre che politicamente, pregevole e innovativa: lo si può vedere andando oggi a rileggere i suoi “pezzi” da Budapest raccolti in un volume intitolato “La sublime follia della rivolta” (personalmente ho da ridire soltanto sul giudizio almeno inizialmente critico dato da Montanelli su Imre Nagy, giudicato un uomo d’apparato opportunisticamente cavalcante l’insurrezione popolare: in realtà, Nagy seppe, con Pal Malater – come lui biecamente attirato in trappola dai russi e ammazzato dopo un ridicolo processo – diventare l’eroe e il martire di quella drammaticamente bella pagina di storia europea). E’ che quei fatti l’avevano colpito dentro, messo in discussione, costretto a riflettere anche su se stesso: “La società ungherese – egli scrisse - è in pezzi… Non ha più una gerarchia. Non ha più una economia… Mai, credo, si era visto in Europa un fallimento così clamoroso, sfacciato, mortificante… Eppure, questa società di operai, di studenti e di contadini in cenci e ciabatte, questa società socialista, in cui non è più discernibile nessun brandello, né fisico né morale, di aristocrazia e di borghesia, emerge da undici anni di comunismo con un orgoglio, con un rispetto di se stessa, con una serietà d’impegni, con un’eroica determinatezza, con un senso drammatico della vita, dinanzi ai quali io borghese di occidente, mi sono sentito coperto di vergogna...” Ma veniamo al film. Certamente non è un capolavoro, non essendo il suo improvvisato regista un grande regista (anzi, non essendo un regista per nulla). Peraltro Lea Massari, la bella e intelligente attrice che del film montanelliano fu l’interprete femminile, ha recentemente affermato: ''Come regista Indro era un dilettante. Eppure come attrice non rammento un'altra esperienza paragonabile a quella che lui mi fece vivere sul set. Tutto era all'insegna del rigore, del rispetto e dell'armonia…''. Il film narra la storia di un gruppo di giornalisti italiani che si sono ritrovati nella Budapest della rivoluzione e della repressione, ne sono stati in varia misura coinvolti, finiscono col passare assieme, svegli e preoccupati (e dunque insonnemente chiacchierando, riflettendo a voce alta, ogni tanto mettendo il naso fuori dall’albergo in cui si sono asserragliati per vedere e capire ciò che sta avvenendo in strada), la notte precedente il secondo, e decisivo, sopraggiungere dei carri armati russi in città e il definitivo schiacciamento nel sangue della follemente sublime rivoluzione degli operai e degli studenti ungheresi. Spicca tra loro il corrispondente dell’Unità, personaggio che Montanelli tratteggia in modo tutt’altro che schematico e fazioso ma anzi dipingendolo come un uomo in crisi, percorso da dubbi e dissidi intimi, alla fine spinto a schierarsi con gli insorti (il fatto mi pare interessante: mostra che l’anticomunista Montanelli sperava in un ripensamento – infatti poi giunto, seppur non ai tempi dell’Ungheria bensì a quelli, più tardivi, della Cecoslovacchia - dei comunisti italiani, altrimenti avrebbe potuto, forse con gran gioia dei suoi lettori borghesi, dipingere un giornalista/comunista italiano biecamente schierato coi russi repressori). Del film, vari anni dopo, lo stesso Montanelli scrisse, sulle pagine del “Corriere della sera”: “Quando, dopo il '56, tornai da Budapest, dove avevo assistito alla famosa rivolta, mi trovai bersaglio di violente polemiche per l'interpretazione che nei miei articoli ne avevo dato. Ecco perché, quando…Rizzoli mi offrì di fare un film su quell' avvenimento, accettai ma ponendo una condizione: di essere io a dirigerlo. Giustamente Rizzoli mi obiettò che io non avevo mai visto una macchina da ripresa. Gli risposi che per questo mi sarei affidato a due eccellenti operatori di mia e sua completa fiducia, Craveri e Gras, ma sotto il mio controllo… Come film forse non valeva molto… ma come documento quel film…valeva…”. Ne son convinto anch’io e per questo ho ritenuto opportuno parlarne ai lettori di queste mie, tosche, cronache di cinema.

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VERSILIA, UN MARE DI CINEMA

Nella mia “geografia emotiva” - quella mappa senti/mentale che esiste in ciascuno di noi ma che soltanto di recente gli studiosi si son messi a studiare - la Versilia ha un posto d’onore, accanto a varie altre terre, città, distese di mare, isole del Pianeta, comprese quelle – visitate soltanto sulle pagine letterarie ma non per questo meno conosciute e amate - joyciane e di Borges, dumasiane e di Calvino, melvilliane e di Salgari, stevensoniane e di Verne. Figlio della Toscana terragnola, e di una famiglia economicamente modesta, i primi viaggi che mi capitò, ragazzetto, di compiere furono proprio quelli, estivi, in Versilia, per farci una settimana di mare (erano gli ultimi anni Cinquanta, si andava preannunciando il “boom economico” e anche le famiglie modeste della Toscana terragnola avevano cominciato ad andare in vacanza). Quante cose imparai e scoprii in Versilia e a Viareggio in particolare! Innanzitutto a nuotare: da allora mi piace moltissimo farlo, ovunque trovi una pozza d’acqua dolce o salata che mi possa contenere. Poi, gli spaghetti alle vongole e il cacciucco: di quei tempi a Cavriglia, ov’ero nato e ancora vivevo, quando si mangiava pesce era baccalà o aringhe e acciughe o tonno in scatola. Scoprii il gusto d’andare in giro per le librerie - per esempio, alla Galleria del Libro - e quello di frequentare le gallerie d’arte, alla ricerca degli amati - colà avendo imparato ad amarli - Lorenzo Viani con i suoi vàgeri, Carlo Carrà con le sue spiagge deserte, Walter Lazzaro con le sue barche solitarie (mi capitava, per esempio, di scendere sovente le scale della Navicella, una galleria dalle parti del molo, inizialmente provocando lo stupore dei gestori, non abituati ad esser frequentati da un ragazzino). Scoprii anche le prime visioni (a Cavriglia i film

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giungevano vari anni dopo la loro realizzazione e le pellicole erano solitamente assai usurate e, dunque, si rompevano spesso, tra il nostro urlare, fischiare, ridere): vidi a Viareggio, nel 1955, “Caccia al ladro” di Alfred Hitchcock e, nel 1959, “Lo specchio della vita” di Douglas Sirk (l’uno e l’altro divennero subito registi da me amatissimi e lo sono tuttora). Certamente scoprii tante altre cose, ma sarebbe inutile tediare con esse il lettore di questa rubrica. Quelle elencate bastano per motivare la gioia con cui ho accettato di ospitare nella collana “Viaggio in Italia”, che ho ideato e dirigo per un editore fiorentino, il libro di Umberto Guidi “Questo mare infinito. La Versilia e il cinema”, che uscirà all’inizio del 2007. La Versilia è stata ed è tuttora terra cinematografica per eccellenza e Guidi ne parla con competenza, puntualità, amore. Insomma in Versilia è stato realizzato, nel corso dell’ormai più che centenaria storia del cinema italiano, un “mare di cinema”. Beninteso, non tutti i film che - essendo in Versilia totalmente o almeno parzialmente girati - quel mare compongono sono artisticamente memorabili. Qui è stato girato di tutto: persino il primo e unico film in cui compaia come attrice cinematografica la grande Eleonora Duse (Cenere, 1916, regia di Febo Mari, tratto da Grazia Deledda ); persino il primo western all’italiana (L’imperatore della California, 1935, regia di Luis Trenker); persino il primo film di quel finto versiliese (nel senso che lui dice d’essere nato a Viareggio ma non è vero perché è nato a Roma: però testimonia più amore, il luogo di nascita, sceglierselo che nascerci veramente!) Mario Monicelli (Pioggia d’estate, 1937); persino uno dei primi film su Pinocchio (Le avventure di Pinocchio, 1947, regia di Gianni Guardone); persino scene seppur fugaci di film di Pier Paolo Pasolini (Comizi d’amore, 1963) e di Carmelo Bene (Un Amleto di meno, 1973); persino un film in cui Amedeo Nazzari e Philippe Leroy discettano sul cacciucco e Vittorio Gassman teme d’essere un omosessuale (Frenesia dell’estate, 1963, regia di Luigi Zampa); eccetera eccetera, passando anche per molte boiate, come s’usava dire una volta, realizzate da registi convinti che basti un po’ di “sapore di mare” per tenere in piedi film sciocchini e mal girati. Personalmente, tra i tanti film girati in Versilia, ne amo molto soprattutto tre: Puccini, 1952, regia di Carmine Gallone (la scena del funerale delle barche sul Lago di Massaciuccoli, ispirata alla luminosa scuola pittorica che in quel luogo fiorì tra Ottocento e Novecento e con la colonna sonora della Butterfly, è una pagina cinematografica da grande antologia: ma ai rapporti tra Puccini e il cinema dedicherò una delle prossime cronache); Guendalina, 1957, regia di Alberto Lattuada (credo che mai Viareggio sia stato ritratto dal cinema, nei suoi aspetti quotidiani, nel suo mare non più estivo e nelle sue spiagge vuote di turisti, nei suoi quartieri popolari come la Darsena, con così attenta e malinconica poesia); Una vita difficile, 1961, regia di Dino Risi (con la celebre, amara e patetica assieme, scena in cui Sordi, povero diavolo esasperato e tradito, sputa sulle auto della gente-bene che va in giro per il lungomare a sollazzarsi tra night e pizzerie). Guendalina in particolare mi è caro, perché sa narrare i primi turbamenti amorosi d’una adolescente (è la bella e brava Jacqueline Sassard, una delle molte scoperte femminili di Lattuada, sempre in cerca, con gran fiuto, di ragazzette da portare sullo schermo), i primi contrasti con la famiglia (oltre tutto, il padre e la madre, impersonati da Silva Koscina e Raf Vallone, si stanno separando e si disinteressano del, anzi provano fastidio per il, suo amore estivo ma per lei importante con un giovanotto viareggino) e, appunto, il suo malinconico spaesamento in una Viareggio malinconica pur essa in quanto l’estate è finita, i turisti se ne sono andati quasi tutti (anche lei sta per partire), le spiagge sono ormai vuote e finalmente lasciate al loro incessante – ma disturbato nei mesi estivi da torme di bagnanti – dialogo col mare. A me pare che Guendalina resti tuttora il film in cui il mare viareggino è raffigurato nel modo più intenso ma assieme quotidiano, commovente ma assieme non retorico né ridanciano. E col mare, Viareggio tutta, dalla passeggiata alla pineta, dal molo alla darsena… Son gusti personali, beninteso, e molti altri film, tra quelli citati nel libro di Guidi, valgono la pena di essere visti. Forse addirittura tutti, persino i più brutti perché tutti, persino i più brutti, permettono in alcune loro scene di vedere, o almeno intraveder sullo sfondo, la Versilia, la sua gente un po’ matta ma col cuore in mano, le sue spiagge di velluto, il suo mare infinito (come diceva Montale).

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GIACOMO PUCCINI E IL CINEMA

Andava di moda, tempo fa, un giochino forse un po’ coglione ma tutto sommato capace di farci meditare sui nostri gusti talora inconsapevoli. Consisteva nel chiederci vicendevolmente quali – logicamente pochi - libri (ma anche, modernizzandolo, CD musicali o filmici DVD) ci saremmo portati dietro dovendo andare a vivere per un po’ su un’isola deserta. Se una delle prossime cronache lo renderà utile, dirò al lettore anche quali libri e quali film porterei con me su quell’isola però in questa occasione mi limito alla musica: porterei con me tutti i CD possibili di Bach, Mozart e Puccini. La musica di Bach e quella di Mozart sono state spesso utilizzate dal cinema: fu sublime, per esempio, l’uso di entrambe (e in particolare della “Passione secondo Matteo” dell’uno e della “Messa funebre massonica” dell’altro) fatto da Pasolini ne Il vangelo secondo Matteo, 1964, e anche alle loro vite sono state dedicate opere cinematografiche memorabili: per esempio, rispettivamente, la Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1967, di Jean Marie Straub e Daniéle Huillet (film straordinario, in cui il sommo Johann Sebastian era interpretato dal grande clavicembalista Gustav Leonhardt: ho avuto la fortuna di sentirne un concerto, vari anni fa, nel duomo di Fiesole e me lo ricordo ancora con la pelle d’oca) e Amadeus, 1964, di Milos Forman

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(ma la vita del genio salisburghese era stata narrata anche da un regista italiano, Carmine Gallone, specialista nel far film sui musicisti: il titolo era Melodie eterne, 1940, e Mozart era impersonato niente meno che da Gino Cervi). Mozart, essendo non soltanto sinfonista ma anche operista, ha avuto anche alcune sue opere liriche adattate a film: basti qui ricordare il bel Don Giovanni, 1979, di Joseph Losey (con il preromantico sciupafemmine sivigliano - ma veneziano nella versione filmica loseyana - interpretato da Ruggero Raimondi). Ma veniamo, alfine, al lucchese Giacomo Puccini e ai suoi rapporti col cinema. Intanto va detto che, a differenza di Bach e Mozart, Puccini ebbe modo, il cinema, di vederlo. Non so se gli piacesse né mi risulta che mai gli siano state chieste, dai cineasti, musiche (musiche, non colonne sonore, un concetto che al tempo del cinema muto non esisteva: però le musiche erano richieste, come la celebre “Sinfonia del fuoco” di Ildebrando Pizzetti, appositamente scritta per il film Cabiria, 1914, di Giovanni Pastrone). Comunque, dopo la sua morte avvenuta a Bruxelles – ove s’era recato per operarsi di un tumore alla gola - nel 1924, il cinema si buttò a man bassa sulle sue opere, portando sullo schermo una dozzina di Manon Lescaut, Butterfly, Tosca, Mimì e Boheme, Turandot. Quasi mai, a dire il vero, cogliendo tutta la tragica eroicità delle protagoniste pucciniane: il maestro infatti, oltre che – così almeno si diceva e si continua a dire - un donnaiolo, era – e la cosa mi pare almeno per noi molto più importante - un profondo analista e un appassionato narratore dell’anima femminile (non a caso quasi tutte le sue opere portano un nome di donna). Chi l’avrebbe probabilmente colta, e degnamente rappresentata, sarebbe stato il grande regista francese Jean Renoir il quale venne a Roma nel 1940 per realizzare, nei luoghi stessi ove la vicenda era stata da Puccini ambientata (la chiesa di Sant’Andrea in Valle, Palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo), una sua filmica Tosca. Che meraviglioso evento cinematografico sarebbe stato l’incontro di Renoir con l’eroina pucciniana! Per impedire avesse luogo ci si mise un evento ben più drammaticamente grande: Mussolini dichiarò guerra alla Francia e Renoir – diventato improvvisamente, e involontariamente, nemico della da lui amatissima Italia – dovette far ritorno di corsa a Parigi. Insomma, tra le gravi (peraltro non la più grave: ben altri dolori dovette patire, a causa di quella sconsiderata decisione del suo “duce”, il popolo italiano) conseguenze della guerra ci fu anche la mancata realizzazione di quel film, che mi manca molto. Ma non è di film tratti dalle opere pucciniane che voglio parlare in questa cronaca, bensì di un film dedicato alla vita stessa del grande musicista lucchese. Ne fu regista il già citato, per un suo film mozartiano, Carmine Gallone. Egli - che filmò anche le vite di Bellini, Verdi e Mascagni - girò nel 1952 un Puccini con Gabriele Ferzetti nella parte del musicista, Marta Ton in quella di sua moglie Elvira e Paolo Stoppa in quella d’un tal Giocondo (personaggio, credo, inventato di sana pianta: un burbero ma simpatico vinaiolo lucchese che ama Elvira, inizialmente odia Puccini per avergliela soffiata, poi diventa un suo ammiratore nonché amico sempre pronto a correre in suo aiuto). Il film non è male, a mio avviso, pur con molte, del resto inevitabili e tutt’altro che sgradevoli, concessioni al romanzesco e al patetico. Si sente molta musica pucciniana, si vedono varie scene delle sue bellissime opere, gli attori son bravi, la vicenda narrata appassionante. Si vede anche Torre del Lago, luogo a me caro da quando mio padre, amante della lirica (come avrebbe potuto non esserlo, visto che mio nonno gli aveva messo nome Trovatore e si era sposato con una ragazza, poi mia madre, di nome Fenice?), mi ci condusse bambino, proprio per visitare la casa-museo ove il Maestro era vissuto e aveva composto le principali sue opere. Di Torre del Lago ebbe a scrivere lo stesso Puccini, appassionato di cacciai: “ Gaudio supremo, paradiso, eden, empireo, turris eburnea, vas spirituale, reggia... abitanti 120, 12 case. Paese tranquillo, con macchie splendide fino al mare, popolate di daini, cignali, lepri, conigli, fagiani, beccacce, merli, fringuelli e passere. Padule immenso. Tramonti lussuriosi e straordinari. Aria maccherona d'estate, splendida di primavera e di autunno. Vento dominante, di estate il maestrale, d'inverno il grecale o il libeccio. Oltre i 120 abitanti sopradetti, i canali navigabili e le troglodite capanne di falasco, ci sono diverse folaghe, fischioni, tuffetti e mestoloni…”. A Torre del Lago la famiglia Puccini ebbe per domestica una ragazza del luogo, Doria Manfredi. Cacciata di casa dalla gelosissima (forse a ragione, però che moglie antipatiche sono – almeno al cinema - quelle gelose!) signora Elvira, che l’accusò di essere l’amante del marito, la giovanetta si avvelenò. Il colpo di genio di Gallone è di

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inventare invece un suicidio nel lago, col corpo non più recuperato. Ciò gli permette di costruire, con una splendida sensibilità pittorica ispirata alla postmacchiaiola scuola giustappunto detta di Massaciuccoli (ne fu esponente, tra gli altri, il notevole paesaggista livornese Plinio Nomellini), d’un funerale di barche, sul lago. Il turchino del cielo rispecchiato dallo specchio lacustre, il corteo coloratissimo ma tristissimo delle barche, i fiori gettati e poi galleggianti sull’acquea tomba, la colonna sonora fatta dalla malinconica aria senza parole della “Butterfly” (Gallone immagina, e fa credere agli spettatori, che proprio assistendo al toccante funerale Puccini abbia concepito quell’aria) raggiungono le vette del filmico melodramma, nel suo senso più nobile. Prima di concludere, vorrei ricordare al lettore come sia tempo di superare un’idea riduttiva ma diffusa di Puccini quale autore, musicalmente un po’ banale, di opere strappalacrime, capaci di commuovere il pubblico – evidentemente di bocca buona e orecchio non troppo esigente - con le vicende patetiche di donne piagnucolanti e masochisticamante (o meglio, dall’autore, sadicamente) destinate a morire sulla scena. In realtà, Puccini è musicista insigne, tra i più alti del Novecento europeo, attento alle innovazioni stilistiche della più avanzata ricerca musicale del suo tempo e capace di creare una serie di figure femminili indimenticabili per il loro tragico eroismo (tutte quante, persino la piccola Butterfly: mi è capitato anni fa di vederla, a Roma, impersonata da Raina Kavaibanska la quale riusciva a trasformare la piccola farfalla in un’eroina da tragedia greca). Quando seppe della morte di Puccini, Arnold Schonberg (che era generalmente assai severo nei confronti dei suoi colleghi musicisti) scrisse: “La morte di Puccini mi ha recato un profondo dolore. Non avrei mai creduto di non dover più rivedere questo così grande uomo”.

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MASACCIO E IL CINEMA

Quando il cinema nacque, nel 1895, sembrava più un parente tecnologico del circo, delle fiere di paese e di altri intrattenimenti e spettacoli rivolti a un pubblico popolare disposto a stupirsi ma di bocca buona che una nuova forma espressiva e artistica. A farne il linguaggio artistico per eccellenza del XX secolo furono in tanti, anche italiani, ma il più noto di essi è l’americano David Ward Griffith. Avviato a diventare, appunto, una forma artistica il cinema cominciò a guardare, per darsi un tono e trovare ispirazioni sia narratologiche che figurative, al preesistente sistema delle arti e soprattutto alla letteratura e alla pittura (però credo che il melodramma ottocentesco vada considerato una delle forme di spettacolo, a un tempo colto e popolare, che più hanno, col cinema, un rapporto di stretta parentela se non proprio di paternità). Alla letteratura, il cinema cominciò presto ad attingere a piene mani, trovando storie interessanti da portare sullo schermo nei grandi classici così come nei testi più commerciali, nei poemi così come nei romanzi, non disdegnando neppure la produzione di film biografici sulla vita di questo o quel celebre letterato (Dante Alighieri, per esempio, alle cui vicende amorose oltre che letterarie e politiche fu dedicato un Dante e Beatrice, girato da Mario Caserini, già nel 1912). Da anni ho voglia di scrivere un libro sui rapporti tra il cinema e la letteratura italiana: lo farò non appena troverò un editore interessato a pubblicare un simile libro. Nell’attesa, intendo dedicare alcune prossime “cronache” al rapporto intercorso, lungo tutta la sua storia ormai più che centenaria, tra il cinema e gli scrittori toscani: da Dante, giustappunto, a Boccaccio e poi al Cellini narratore, su su fino a Pratesi, Tozzi, Campana, Pratolini, Tobino e vari altri ancora. Ho però accennato anche alla pittura: anche con essa il cinema ha ben presto cominciato a instaurare rapporti tutt’altro che occasionali. In certi casi si è ispirato alla vita di pittori dall’esistenza più o meno movimentata e comunque ritenuta degna d’essere filmicamente narrata: da Andreij Rubliov a Michelangelo, da Pontormo a Caravaggio, da Van Gogh a Modigliani, da Picasso a Pollock… Anche di ciò parlerò in qualche prossima cronaca, in riferimento ai pittori toscani (sicuramente, quanto prima, ne dedicherò una al livornese Amedeo Modigliani, con particolare attenzione al film più bello che alla sua vita e alla sua figura sia stato dedicato: Montparnasse 19, 1958, regia di Jacques Becker). In altri casi il cinema si è invece ispirato al modo di dipingere d’una certa epoca, per rendere storicamente credibili e figurativamente

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affascinanti molti film in costume: basti pensare alla pittura trecentesca e quattrocentesca cui hanno attinto, per allestire scene e costumi, i tanti registi che hanno portato sullo schermo la tragica vicenda di Romeo e Giulietta (per esempio, George Cukor nel 1936, con grande attenzione alle modalità pittoriche dell’Angelico e di Botticelli); a quella di Gainsborough - e del Settecento inglese in genere - cui fa continuamente riferimento Barry Lindon, 1975, di Stanley Kubrick; a quella macchiaiola di Giovanni Fattori e Telemaco Signorini, così evidentemente ispiratrice di film d’ambientazione ottocentesca quali Senso, 1954, di Luchino Visconti e La viaccia, 1961, di Mauro Bolognini; e così via. Ci sono poi film che citano espressamente, come in una sorta di “tableaux vivant”, questo o quel quadro celebre. Pochi esempi per tutti: la famosa scena dei picari del film Viridiana, 1961, di Luis Bunuel, che imita quasi fotograficamente la disposizione figurativa del cenacolo leonardesco e le altrettanto famose scene della deposizione di Cristo nel breve film La ricotta, 1963, di Pier Paolo Pasolini, che imitano intenzionalmente e manieristicamente la deposizione di Rosso Fiorentino che sta al museo di Volterra e quella del Pontormo che sta a Firenze, nella cappella Capponi della chiesa di Santa Felicita). E qui mi fermo, sulle considerazioni generali sul rapporto tra cinema e pittura, in quanto il vero tema di questa cronaca è un libro uscito pochi giorni prima di Natale e del quale sono l’autore: Il messaggio incompiuto. Masaccio e il cinema, ASKA, Firenze, 2006. I lettori di questa rubrica non pensino che ne stia parlando qui per farmi un po’ di pubblicità a buon mercato: il libro è già stato ampiamente recensito su stampa e televisione… Lo faccio per condividere con loro, che ormai considero amici seppur non direttamente conosciuti, la mia gioia di vedere alfine in libreria quest’opera cui ho molto lavorato, molto penando poi per trovare un editore interessato a pubblicarla (non son libri destinati a diventare bestseller, poiché non narrano di esoterici codici aventi a che vedere col Santo Graal né del fatto che la Resistenza italiana sarebbe una grande bugia inventata dai comunisti e altre vendibili e dunque lucrose corbellerie del genere). Il titolo del libro riprende una frase di Roberto Longhi (notoriamente uno dei più profondi esegeti dell’arte masaccesca), il quale, a proposito del grande pittore toscano troppo presto morto a Roma (era nato a San Giovanni Valdarno nel 1401, morì giustappunto a Roma nel 1428: dunque a soli ventisette anni), usa proprio l’espressione “messaggio incompiuto” per fare intendere come il messaggio, aperto sul futuro fino ai nostri giorni e oltre, di Masaccio sia in sé incompiuto poiché soltanto i secoli e le espressioni artistiche venute dopo di lui (cinema compreso) lo vanno compiendo. A prima vista Masaccio è, tra i grandi pittori europei, quello più trascurato dal cinema: non ci sono film biografici sul suo personaggio (si parla di lui, lui essendo però già morto, soltanto in un paio di scene – peraltro sublimi - de L’età di Cosimo, 1973, di Roberto Rossellini), non ci sono – o son poche – le esplicite citazioni cinematografiche tratte dalla sua opera (ce n’è più d’una, però, nel bellissimo Accattone, 1961, di Pier Paolo Pasolini), non ci sono molti registi che abbiano esplicitamente fatto riferimento a lui come fonte d’ispirazione figurativa per questo o quello dei loro film (se non, di nuovo, Pasolini e il Paolo Benvenuti de Il bacio di Giuda, 1988). Allora: perché scrivere un libro su Masaccio e il cinema? Perché sono convinto, e nel libro cerco di mostrarlo se non di dimostrarlo, che l’influenza di Masaccio sul cinema, ancorchè poco superficialmente evidente ed esplicita, sia, in profondità, assai più intensa e significativa di quella dei tanti pittori apparentemente dal cinema più corteggiati e utilizzati. Quando, durante il lungo periodo in cui l’ho scritto, avevo occasione di parlare di questo libro con amici e conoscenti, essi finivano sempre col chiedermi: “Ma che c’entra Masaccio col cinema?”. Il libro cerca proprio di essere la risposta a tale domanda. Essa, peraltro, mi è sempre suonata assai strana, ogni volta che mi veniva posta. Come si può pensare che il sempre giovane pittore che rivoluzionò, agli inizi dell’era moderna, le arti visive dell’Occidente, non abbia legami con quell’arte cinematografica che, qualche secolo dopo, ha aggiunto a quella innovativa visività uno specifico, affascinante, peculiarmente tecnologico linguaggio espressivo? Longhi disse di Masaccio: “…fu la rivelazione ineffabile di una nuova naturalezza…A Masaccio non si chiedeva una regola per ben comporre o ben colorare, ma quasi di voler svelare il segreto dell’esistenza corporea in una fisica nobilitata dall’azione…”. Cercare di svelare il segreto dell’esistenza corporea in una fisica nobilitata dall’azione è quanto il cinema, vero erede del messaggio

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incompiuto di Masaccio, sta facendo fin dalla sua nascita. Paolo Benvenuti, valente regista pisano dalle solide conoscenze pittoriche, ha sostenuto in una sua intervista che tutti i grandi pittori del passato son stati tali, invece che cineasti, soltanto perché il cinema non era stato ancora inventato. Pur stimando molto Paolo Benvenuti, personalmente ho qualche dubbio su quel “tutti”. Sono però certo la sua affermazione vale almeno per uno di essi: Tommaso Cassai detto Masaccio.

LA TOSCANA DEI MALEDETTI TOSCANIMALAPARTE E IL CRISTO PROIBITO

Nel mio libro “Vista Nova. Il cinema in Toscana, la Toscana nel cinema” (ASKA Editore, Firenze, 2002) ho dedicato un capitolo ai registi toscani, classificandoli in varie, certamente un po’ artificiose ma simpaticamente ermeneutiche, categorie: i “riappaesati” (Monicelli, Bolognini, i fratelli Taviani, Zeffirelli: cineasti che sono diventati famosi girando film fuori dalla Toscana ma alfine sono tornati anche, e spesso dando il meglio di sé, a girare nella propria regione), gli “esuli” (Franciolini, Rossi, Pontecorvo, Orsini, Ferrara: cineasti nati in Toscana ma che mai, o quasi, sono tornati a filmarvi qualcosa), i “moderni” (Chiti, Zagarrio, Paolo Benvenuti, Cinzia Th. Torrini, Falaschi, Virzì, Bargellini: cineasti più giovani, tematicamente e stilisticamente un po’ anomali, spesso innovativi), i “comicautori” (Benigni, Alessandro Benvenuti, Nuti, Pieraccioni, il non toscano - e non cineasta in quanto non sa fare cinema per nulla – Panariello: un filone che ha avuto un grande successo anni fa ma oggi s’è usurato, lasciando i soli Benigni e Benvenuti a far cose interessanti) e, infine, gli “outsiders”, uomini di cultura che poco hanno avuto a che fare col cinema, che hanno fatto altri mestieri e non quello di cineasta, ma che nel corso della loro vita almeno un film l’hanno fatto. Tra essi ho collocato Sergio Staino (cartoonist con qualche allegra incursione nel mondo del cinema), Indro Montanelli (grande giornalista fattosi regista di I sogni muoiono all’alba, 1961, un film sulla tragica ma eroica rivoluzione democratica d’Ungheria di cui già s’è parlato in queste nostre “cronache”) e Curzio Malaparte, romanziere e autore, anch’egli come il suo conterraneo e rivale Montanelli (non si sopportavano: soprattutto era Indro a non sopportare Curzio, per il suo istrionismo e, penso, per il suo essere stato sia fascista che comunista, mentr’egli è stato poco attratto da entrambe le, pur diversissime e contrapposte, ideologie), di un solo film: Cristo proibito, 1950. Chi sia stato Curzio Malaparte (pseudonimo artistico di Kurt Suckert, pratese di origini tedesche per parte di padre) penso che tutti, o quasi, lo sappiano: narratore e giornalista di vaglia, autore di romanzi celebri quali “La pelle” (del 1946: Liliana Cavani ne ha tratto un film nel 1981), di vari reportage di viaggio, di un arguto libello sui suoi conterranei intitolato “Maledetti toscani”, 1956 (libro delizioso anche se il suo titolo è diventato un’espressione ormai antipaticamente stereotipata con cui anche quei toscani che “maledetti” non sono per nulla, anzi

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soprattutto loro, un po’ presuntuosamente si autodefiniscono). Forse non tutti sanno, però, che fece anche tale suo unico film, del quale scrisse soggetto, sceneggiatura, dialoghi e persino la musica della colonna sonora. In realtà, Malaparte aveva concepito la vicenda per farne un romanzo ma decise di farne invece un film nel corso di un soggiorno a Parigi, ove parlò di questa sua stramba idea con vari amici tra i quali il pittore, valente paesaggista, Orfeo Tamburi, cui chiese una collaborazione per la scenografia. Il film fu girato per buona parte in Val d’Orcia, tra Siena, Montepulciano, Pienza, le lunari e riarse crete, lo sfondo del Monte Amiata di lazzerettiana (ma per me anche balducciana) memoria. Il paesino cui il protagonista, un reduce della seconda guerra mondiale, fa ritorno dalla Russia con l’intenzione di vendicare il fratello ammazzato dai tedeschi perché tradito da un compaesano, è invece Sarteano. La coppia degli attori principali furono Raf Vallone (volto neorealista quant’altri mai, calabrese finito a Torino a fare il giornalista dell’Unità, prima di darsi al cinema) e sua moglie Elena Varzi (ma c’erano, nel cast tutt’altro che usuale, anche Alain Cluny, Anna Maria Ferrero e Gino Cervi). Il reduce assetato di vendetta si scontra con l’omertà dei compaesani, che non vogliono riaprire ferite ormai scordate. Improvvisamente uno del luogo, una specie di santone, si autoincolpa e si fa ammazzare, per dare pace all’animo tormentato del protagonista e fare da capro espiatorio per la comunità tutta quanta. Il reduce, poi, capirà chi è il vero colpevole ma lo risparmierà, poiché ormai un innocente s’è fatto volutamente vittima catartica affinché nel paese, che ha patito la tragedia della guerra eppoi della guerra civile, torni la pace, gli animi possano riconciliarsi e sul sanguinante passato si possa porre alfine una pietra definitiva. Per fare, nell’Italia aspramente lacerata del secondo dopoguerra, un film simile, quasi un sermone sulla necessità di superare in nome dell’amore gli odi e i lutti appena provati, ci voleva un certo, sfrontato e dunque malapartiano, coraggio. Il film è sovraccarico di tutto: di avventati sincretismi ideologici (tra paganesimo, cristianesimo, comunismo), di afflati melodrammatici spesso eccessivi ed effettistici, di crisi esistenziali e di nostalgie populiste rese gonfie dalla retorica. Molti, all’epoca, parlarono persino di pretenzioso qualunquismo. Tutto vero, probabilmente, però il film sa mostrare una Toscana tutt’altro che scontata e banale, sanguigna e sognatrice, intensamente misticheggiante e cupamente esaltata, al fondo religiosissima (è un fondo in cui la religione del Cristo si mischia con quella degli antichi Etruschi, cultori della morte), vendicativa e generosa, coralmente drammatica ed emotivamente disorientata, materialistica e spiritualistica a un tempo. Una Toscana malapartiana, insomma: quella dei “maledetti toscani”, che non sono per nulla quei simpaticoni da barzelletta che vuol far credere certo cinema o certo cabaret scioccamente toscaneggiante. I veri toscani pregano anche quando bestemmiano e bestemmiano anche quando pregano, dice più o meno Malaparte in un passo del suo anche troppo famoso (ma sempre bello, seppur largamente frainteso) libro e il film è proprio tale Toscana a volere, e in fondo a sapere, mostrare. Per questo. e per aver saputo filmare una Val d’Orcia lunare e lunatica, agli antipodi dal luogo ameno tutto collinette e cipressini di troppo cinema cortolineggiante, resta un’opera che andrebbe rivista (io l’ho fatto un paio d’anni fa, a San Gimignano, durante un convegno sul Sacro) e fatta rivedere. In fondo, quando un romanziere si mette dietro la macchina da presa per fare un film di cui ha scritto personalmente tutto (soggetto, sceneggiatura, dialoghi nonchè, come già detto, anche la musica) qualcosa di interessante ne viene fuori sempre, magari qua e là anche di bello e qua e là anche di brutto.

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MODI’. UN LIVORNESE A PARIGI.

Dopo la “cronaca” dedicata a Masaccio, torniamo a parlare di un pittore toscano, nei suoi rapporti con il cinema. Questa volta si tratta di Amedeo Modigliani, livornese. Egli, che fu anche scultore (chi non si ricorda della stupida beffa delle “teste alla Modigliani”, giocata qualche anno fa agli storici dell’arte da tre o quattro ragazzotti labronici che avrebbero potuto impegnare il loro ingegno in qualche impresa di più intelligente utilità?), nacque giustappunto a Livorno, nel 1884, da un padre d’origine ebraica (“Amedeo Modigliani, pittore ed ebreo” amava provocatoriamente presentarsi Amedeo, a coloro cui veniva presentato) e una madre francese. Il padre era ricco ma si rovinò con investimenti sbagliati e l’infanzia dei figli fu misera. Amedeo s’ammalò ben presto di tubercolosi, la malattia che, assieme all’alcool, lo portò alla morte precoce. Studiò arte prima a Firenze eppoi a Venezia ma nel 1906 andò a vivere nella città che, all’epoca, veniva considerata la capitale mondiale della pittura: Parigi. Abitò inizialmente a Montmartre, come tutti i pittori poveri. Divenne amico di altri artisti accorsi nella “Ville Lumiére”, come lui alla ricerca dell’assoluto, oltre che di un po’ di gloria e di qualche soldo con cui sbarcare il lunario: Picasso, Gris, Utrillo, Brancusi. Poi, dopo un breve ritorno a Livorno e avendo cominciato a vendere qualcosa, si trasferì a Montparnasse e Montparnasse 19 (realizzato nel 1958 dal cineasta francese Jean Becker) è infatti intitolato il più bel film a lui dedicato (non l’unico: va anche ricordato, ma non perché sia memorabile, un I colori dell’anima. Modigliani, realizzato da Mick Davis nel 2004: il pittore è

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impersonato da Andy Garcia). Prima di parlare del bellissimo film di Becker, però, vale la pena di dire ancora qualcosa a proposto di Modì (questo era il suo soprannome, che giocava con la pronuncia del termine francese “maudit”, maledetto, l’aggettivo con cui, fin dai tempi di Arthur Rimbaud, venivano chiamato in Francia gli artisti e i poeti che cercavano nella droga e nell’alcool, oltre che in una vita per così dire spericolata, la propria fonte d’ispirazione, insomma le proprie “illuminations”). Dell’artista “maudit”, Amedeo ebbe tutte le caratteristiche: era bello, era ammirato e corteggiato dalle donne, era geniale, era malato, faceva una vita bohemien, beveva e si drogava, dava spesso in escandescenze, morì giovane. Insomma, un “maledetto” da manuale. Ciò, debbo confessarlo, me l’ha reso a lungo un po’ sospetto, quanto a valutazione delle sue reali altezze artistiche. Ho sempre il timore che pittori come lui, o come Van Gogh, siano celebri più per la loro vita tormentata e tragica che per la loro arte (in tal senso, pur amando molto Van Gogh, mi sento più a mio agio con artisti dalla vita tranquilla e meditabonda, ma capaci di rivoluzioni artistiche radicali, quali Monet o Cezanne). Però mi sono man mano convinto, vedendoli e rivedendoli in un’infinità di mostre e musei, che sia Van Gogh che Modigliani, fama da vita disgraziata a parte, fossero grandi artisti davvero! La sublime capacità di Amedeo di unire, in una sintesi assolutamente originale e personale, l’eredità dell’arte toscana del Trecento (quella senese soprattutto: Duccio, Simone Martini) all’influenza del cubismo del tempo suo e alla passione per le espressioni artistiche orientali e africane (che, pure, furono tipiche del tempo suo), è davvero mirabile: lo ha condotto a dipingere ritratti teneramente malinconici e profondamente introspettivi (“ci spoglia l’anima” pare abbiano affermato alcuni di coloro che per lui posarono) e i suoi nudi di donna sono certamente tra i più belli dell’intera arte moderna (sono, giustappunto, ritratti di donne nude non di corpi nudi di donna). Il film di Becker racconta gli ultimi anni, anzi soprattutto l’ultimo anno, della sua vita: già dal 1916 conviveva con Jeanne Hébuterne, una studentessa conosciuta quando aveva diciassette anni, di famiglia cattolicissima e conservatrice, scandalizzata – tanto da disconoscerla – dal fatto che Jeanne si legasse, fuori dal matrimonio, con un perdigiorno, ubriacone e per di più ebreo. Ebbero una figlia che venne chiamata Jeanne, come la madre. Amedeo, negli ultimi anni di vita, produsse molto, anche durante un breve ma intenso soggiorno nel Midi. Tornato a Parigi, con la moglie di nuovo incinta, nel 1920 crollò definitivamente: la tisi (precipitata in meningite tubercolare), il bere, il lavoro sfrenato degli ultimi tempi lo condussero alla morte, tra le braccia di Jeanne. Ella, due giorni dopo la scomparsa del compagno, si gettò dalla finestra, morendo a sua volta, col figlio che aveva in pancia. La piccola Jeanne fu adottata dalla sorella di Amedeo, che viveva a Firenze: crebbe così in Toscana, ove scrisse anche un libro, assai bello, dedicato al padre. Ai funerali di Modigliani, immensi, partecipò tutta la Parigi dell’arte. Il suo corpo riposa al cimitero del Pere Lachaise (quello ove son sepolti anche, oltre ai martiri della Comune, Abelardo ed Eloisa, Corot e Balzac, Rossini e Chopin, Moliere e Delacroix, Ingres e Marcel Proust, Piero Gobetti e Paul Eluard, Edith Piaf e Jim Morrison: io vado sempre a trovarli per qualche ora, quando capito a Parigi). Jeanne Hébuterne, invece, fu sepolta nella cappella di famiglia (gli ottusi genitori ne rivollero il corpo, dopo morta) a Bagneux. Da una simile storia poteva esser tratto un piagnucoloso melodramma ma Jean Becker, cineasta amatissimo dai Cahiers du Cinéma e dalla Nouvelle Vague (da Truffaut e da Godard, soprattutto, che di Montparnasse 19 scrisse: “un film oscuro in cui tutto diventa chiaro…un film vertiginoso, seducente e spiazzante… “), ne trasse invece uno straziante, sobrio ma indimenticabile, capolavoro (la cui sceneggiatura era stata scritta da un altro grande cineasta, Max Ophuls, che però morì prima che le riprese del film, che alla sua memoria è dedicato, potessero iniziare). Ne sono protagonisti Gerard Philippe (altro che Andy Garcia: Philippe, che poi morì precocemente come Modigliani, fu un Modì bello, oltre che bravo, quanto l’originale), Lilli Palmer (un’ebrea polacca sfuggita ai nazisti, diventata soubrette e quindi attrice: questa fu certamente la sua migliore interpretazione) e la città di Parigi. Parigi fu il vero, costante, appassionato nucleo poetico d’ogni film del parigino Becker, figlio d’industriali, poi marinaio, poi assistente del grande Jean Renoir, esordiente come regista nel 1937 con un documentario finanziato dal PCF, partigiano (fu arrestato dai tedeschi ma riuscì a fuggire), autore di alcuni filmici capolavori giustappunto a Parigi ambientati e della città capaci di mostrare e narrare la vita più tipica, segreta,

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umana: oltre a Montparnasse 19 vale la pena ricordare Grisbi (con quella vera icona del cinema francese che fu Jean Gabin) e soprattutto Casco d’oro (un film sublime, con una sublime Simone Signoret). Insomma, il povero Modì ebbe, tra tante disgrazie, la fortuna di trovare, nel farsi cinematografico personaggio, un regista e un attore degni di lui. Non capita spesso, ai grandi personaggi della storia e dell’arte, quando divengono personaggi dello schermo.

LA TOSCANA MODERNA ENTRANEL CINEMA ITALIANO: PAISA’

Una giovane infermiera inglese, che sta assistendo alcuni partigiani feriti in un ospedale da campo situato sulla collina di Arcetri, chiede a uno di essi – che vengono da Firenze - notizie di un pittore fiorentino, conosciuto e amato anni prima. Gli vien risposto che, col nome di battaglia di Lupo, egli è diventato il capo della resistenza contro i nazifascisti ma che forse è stato ferito. La giovane allora, per cercare di rivederlo, decide di recarsi in città, ove i resistenti combattono per le strade contro i tedeschi e i cecchini fascisti mentre i soldati inglesi stanno a guardare la battaglia di Firenze, col binocolo, dal giardino di Boboli. Si reca dunque nel piazzale di Palazzo Pitti, ov’è radunata tanta gente in attesa di notizie provenienti dall’altro lato dell’Arno, dal centro della città. Trova qui un suo vecchio amico fiorentino, che vuole anch’egli recarsi in città per cercare i propri familiari. Vengono a sapere che c’è soltanto un modo per traversare l’Arno, visto che i tedeschi hanno fatto saltare tutti i ponti, escluso Ponte Vecchio che però sorvegliano strettamente: il corridoio vasariano. Lo percorrono, escono in Piazza Signoria, poi vanno in Piazza Duomo, sempre attenti a sfuggire alle pattuglie naziste e alle fucilate dei cecchini. A piedi, percorrendo strade deserte o trasformate in pericoloso teatro di guerra, giungono dalle parti di piazza San Jacopino ove assistono alla morte di un partigiano colpito da un cecchino fascista, poi catturato e giustiziato sul posto. Dalle ultime parole del partigiano, pronunciate prima di spirare tra le sue braccia, la giovane ragazza inglese apprende che Lupo, il suo amato pittore diventato capo della resistenza di Firenze,

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è morto. Questa semplice, seppur drammatica, storia è narrata nel quarto episodio, noto appunto come “l’episodio fiorentino”, del bellissimo film di Roberto Rossellini Paisà, 1946. Un annoi dopo aver girato Roma città aperta, 1945, Rossellini torna sul tema della resistenza e della liberazione, questa volta filmando, in sei episodi (ambientati rispettivamente in Sicilia, a Napoli, a Roma, a Firenze, in Emilia e nella valle padana), il cammino da sud a nord delle armate angloamericane, il loro incontro col popolo italiano, il loro combattere a fianco dei partigiani per cacciare i tedeschi dal Paese. Del film, ha detto lo stesso Rossellini: “E’ ancora un film di guerra, sulla guerra in Italia. Segue idealmente l’itinerario degli alleati sbarcati in Sicilia e che a poco a poco sono risaliti lungo la penisola fino al nord. Racconta anche tutte le tragedie che la guerra aveva lasciato dietro di sé o aveva prodotto. …Il film si basava molto sul movimento della resistenza e le storie, anche se appena abbozzate, non erano del tutto inventate ma non erano neppure del tutto reali, erano probabili. Sono la combinazione di fatti veri, di fatti di cronaca, riuniti e armonizzati perché il film potesse reggersi, perché potesse dare il senso preciso di ciò che era la guerra in qual momento…”. L’episodio fiorentino è uno dei più belli del film, assieme a quello padano, davvero sublime. Merito di Rossellini, certamente, e della sua capacità di narrare la tragedia e l’eroismo quotidiani di una città martoriata (le rovine che, tutto intorno a Ponte Vecchio, si vedono nel film sono quelle reali, essendo Paisà stato girato soltanto un anno dopo la fine della guerra, quando la ricostruzione non era ancora avvenuta) ma merito anche di un grande scrittore fiorentino, che dell’episodio scrisse il soggetto e la sceneggiatura: Vasco Pratolini. Grazie a Rossellini e a Pratolini, e al loro aver portato sullo schermo il drammatico tragitto fatto, da Palazzo Pitti a piazza San Jacopino, dall’inglesina e dal suo amico fiorentino, la Toscana moderna, anzi contemporanea, fece irruzione nel cinema italiano, da cui era stata troppo a lungo esclusa. Tantissimi film, nei primi decenni del Novecento, erano stati girati, o almeno ambientati, in Toscana ma nessuno di essi (escluso, ma era davvero un caso a parte, Palio, 1932, di Alessandro Blasetti) narrava vicende dei giorni nostri. La Toscana interessava i cineasti italiani, e anche stranieri, unicamente per la sua vetusta storia, per i suoi antichi monumenti, per le dispute tra guelfi e ghibellini o per i personaggi danteschi o altre (rispettabilissime ma un po’ antiquate) cose del genere. La Toscana novecentesca non suscitava alcuna cinematografica emozione: i film a sfondo contemporaneo venivano ambientati a Torino, a Milano, a Roma, a Napoli, persino ad Ancona (Ossessione, 1943, di Luchino Visconti) o ad Orvieto (Treno popolare, 1933, di Raffaello Matarazzo) ma non a Firenze o a Siena, ad Arezzo o a Lucca. L’unica Toscana che interessasse il cinema è rimasta, per decenni, quella in costume, quella de La cena delle beffe, 1941, di Alessandro Blasetti o di Pia de’ Tolomei, anch’esso del 1941, di Esodo Pratelli e di decine e decine di altri film del genere (alcuni belli, alcuni brutti ma tutti quanti lontanissimi, nella loro ambientazione medievale o rinascimentale, dalla storia contemporanea). Con l’episodio fiorentino di Paisà, invece, la Firenze contemporanea, e con essa tutta la Toscana contemporanea, entrò per la prima volta, coi suoi personaggi, il suo linguaggio, le sue case, le sue vicende nella storia del cinema. E fu un ingresso trionfale: dolente ma bellissimo, tragico ma indimenticabile. Da allora il cinema, italiano e non, non ha più relegato nei soli secoli antichi il proprio rappresentare la Toscana: la strada aperta, con ispirato coraggio e artistica maestria, da Roberto Rossellini e da Vasco Pratolini è stata in seguito percorsa da tanti, tanti altri cineasti, che sono venuti a girare in Toscana per narrare vicende e mostrare paesaggi non più ambientati al tempo di Dante o a quello dei Medici bensì ai giorni nostri, quelli complessi, travagliati, pieni di problemi ma anche di speranze dei toscani del Novecento e, ormai, del Duemila.

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IN MEMORIA DI LUIGI COMENCINI

Tra vari altri, profondi lutti che il 2007 ha causato agli amanti del cinema (in luglio, quello legato alla scomparsa simultanea di Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni) c’è stata anche la morte di quella brava persona, e grande regista, che fu Luigi Comencini. Egli nacque nel 1916 a Salò (che piacere, poter legare ogni tanto a un bell’evento – in tal caso, la nascita di uno straordinario cineasta – il nome di questa graziosa cittadina sul lago di Garda generalmente ricordata per il turpe staterello, fantoccio del nazismo, che l’ebbe a capitale per un breve ma terribile periodo della storia d’Italia). Visse da ragazzo in Francia, ove la famiglia s’era recata nel 1924, e poi fece ritorno a Milano, ove si laureò in architettura. S’andava intanto occupando anche di cinema, sua immensa passione, e fondò nella città lombarda, con un gruppo d’amici parimenti appassionati (tra cui Alberto Lattuada), la Cineteca Italiana. Prima della guerra, girò soltanto un documentario in 16 millimetri. Dopo, oltre a fare per anni il critico cinematografico de “L’Avanti”, girò ancora un documentario, intitolato “Bambini in città” (il tema dell’infanzia, spesso sofferente a causa della crudeltà o della stupidità degli adulti, gli fu sempre caro) e infine esordì nella regia di un vero e proprio lungometraggio a soggetto. Il tema era ancora l’infanzia, il titolo era “Proibito rubare” (1947), la storia narrava d’un gruppo di ladruncoli napoletani, costretti al furto dalla miseria postbellica, che un prete cercava con scarsa fortuna di redimere (il film ricordava “La città dei ragazzi” , 1938, di Norman Taurig, una pellicola americana di clamoroso e lacrimoso successo che parlava d’un prete capace di rimettere sulla via dell’onestà centinaia di piccoli delinquenti:

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Comencini peraltro, razionalista disincantato e un po’ beffardo già a quei tempi, a simili miracoli ci credeva poco e il suo film era meno agiografico, nei confronti del prete). Divenne poi uno dei padri (con Risi e Monicelli, ma egli portava nel genere una vena più amara, più commossa, più europea) della cosiddetta “commedia all’italiana”: “Pane, amore e fantasia” (1953) fece divertire, con garbo e intelligenza, tutta l’Italia (tra l’altro, facendo conoscere agli italiani, dell’Italia, un mondo periferico e arcaico che non si usava mostrare, né durante il fascismo e neppure democristianamente dopo, nei burocratici cinegiornali “Luce”). Fu peraltro con “Tutti a casa” (1960: una sorta di picaresco “viaggio in Italia” da Nord a Sud compiuto da un soldato sbandato dell’8 settembre - un eccellente Alberto Sordi - che finirà col trovarsi a Napoli in tempo per partecipare, alfine eroicamente, alle gloriose quattro giornate) che Comencini dimostrò a quali vette di riflessione morale e politica potesse giungere la pur comica vena d’un genere troppo spesso decaduto, in altri registi, nel qualunquismo ridanciano. Eccetera eccetera fino agli ultimi film, risalenti alla fine degli anni Ottanta, e al prolungato silenzio artistico durato fino alla morte, avvenuta appunto nell’aprile del 2007. E la Toscana – si chiederanno a questo punto gli affezionati lettori di queste cronache al cinema in Toscana dedicate - che c’entra? Il fatto è che tre film di Comencini, alla Toscana, sono molto legati. Il primo, in ordine di tempo, è “La ragazza di Bube” (1963). La vicenda di Mara (la ragazza che attese il fidanzato, restandogli fedele, fino alla sua scarcerazione: interpretata da una indimenticabile, contadina e atemporale, Claudia Cardinale) e di Bube (l’ex partigiano condannato a lunghi anni di carcere per un omicidio politico compiuto a liberazione avvenuta: interprete chissà perché George Chakiris, ballerino portoricano in “West Side Story” ma dalla faccia tutt’altro che etrusca) era stata narrata da Carlo Cassola in quello che resta, probabilmente, il suo più bel romanzo. Comencini la portò sullo schermo e chiese allo scrittore una collaborazione all’adattamento (da letterario a filmico) ma la cosa non funzionò. Cassola – letterato afflitto da un’idea assai tradizionale e un po’ presuntuosa dell’esser letterati - non era Pratolini, romanziere rispettoso dell’autonomia narratologica del cinema, e dunque non partecipò eppoi restò scontento del cinematografico prodotto finale. Sbagliando, io credo, ma confesso di non amare granchè Cassola e di ritenere che il film sia persino più bello del romanzo. Girato tra Colle Valdelsa e Volterra, con un bianco e nero intenso che valorizza persone e paesaggi, poco interessato (a differenza del romanzo) a far polemica col PCI che avrebbe abbandonato a se stesso il compagno Bube e molto interessato invece a ritrarre l’odissea eroica (molto più eroica di quella del suo fidanzato dal grilletto facile) d’una donna rimasta sola ma decisa a resistere (Comencini ha sempre compreso, oltre a quello dei bambini, l’animo segreto e socialmente ignorato delle donne), si tratta d’un film bellissimo, molto ricco di non esibite situazioni drammatiche, sobrio nel suo essere toccante, commovente ma non piagnucoloso. Alla fine Mara, la donna che non sapeva nulla d’ideologie e dava importanza soltanto all’amore, sarà l’unica a saper riaccogliere Bube, a dare un senso alla sua vita, a dimostragli che esiste anche una resistenza delle donne (anzi, esiste da più tempo, e durerà assai più a lungo, di quella di cui son capaci gli uomini). Venne poi, nel 1966, “Incompreso”. Anche questo film fu ambientato e girato da Comencini in Toscana, a Firenze (raramente così affascinante sullo schermo: nelle sue signorili ville collinari, nelle sue chiassose piazzette antiche, nei suoi popolari lungarni così dolci verso sera). Già questa decisione, di trasferire dall’Inghilterra vittoriana alla Firenze contemporanea, la dolente vicenda del ragazzino orfano di madre e incompreso (fino a morirne) dal padre raccontata a suo tempo - in un romanzo ottocentesco alquanto melenso - da Florence Montgomery, risulta geniale, soprattutto nell’espediente con cui la si rende narrativamente credibile. Non si poteva fare del ragazzino e del padre, così inglesi nella loro reciproca rigidezza psicologica, due italiani, anzi due fiorentini: Comencini, perciò, fece del padre il console inglese di Firenze e del figlio un ragazzino inglese a Firenze residente in quanto al seguito del padre. Fu una trovata, appunto, geniale. Non sarebbe certamente bastata, da sola, a fare del film il gioiello che è ma Comencini, da gran maestro, seppe tirare fuori, dal piatto romanzo della Montgomery, un’opera che non saprei definire, ed è complimento immenso, se non mozartiana. Egli seppe distinguere (come pochi cineasti sanno fare) dramma vero da melodramma da strapazzo nonchè situazioni strazianti da situazioni banalmente strappalacrime, sapendole altresì alternare a

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situazioni non sciattamente ironiche, allegre, assieme di rilassamento emotivo e di premonizione della tensione tragica susseguente (come sapeva fare Mozart, appunto, ispiratore quanto mai – in senso buono - patetico della colonna sonora del film). A casa mia, ogni tanto, mia moglie e mia figlia e io ci guardiamo con occhio complice, e in fondo desideroso, e ci diciamo: Piangiamo assieme rivedendo “Incompreso”? Avviene almeno tre o quattro volte all’anno, con grande, cioè lacrimosissimo, piacere comunitario. Resterebbe, in tema di rapporti tra Comencini e la Toscana, da parlare del suo “Pinocchio”. A mio avviso, si tratta della più bella versione cinematografica (anzi, in tal caso e almeno originariamente, televisiva) del capolavoro collodiano, pur con tutto il rispetto per Walt Disney e Roberto Benigni. Si tratta chiaramente e dunque comencinianamente, per esempio, di un “Pinocchio” poco mammaione e dunque poco innamorato della fatina dai capelli turchini, interpretata da una Gina Lollobrigida persino un po’ in là con gli anni. Però, preferirei parlarne in una cronaca tutta quanta alle filmiche versioni dello stravagante romanzo di Collodi dedicata. Qui mi fermo, non senza mandare un estremo saluto a Luigi Comencini, uomo di cultura moderna, antiretorica. Fu persino capace di trarre un film non retorico da “Cuore” di De Amicis. Quando un regista è grande sa trarre film, da romanzi altrui, anche più belli dei romanzi stessi. A Comencini l’impresa è riuscita più volte.

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I MACCHIAIOLI E IL CINEMA

Si è da poco conclusa, al Castello Pasquini di Castiglioncello, un’interessante mostra dedicata a “Il cinema dei pittori”, ov’era testimoniato, seppur con poche opere, anche il rapporto del cinema italiano, sia di quello d’anteguerra che di quello del dopoguerra, coi Macchiaioli ovverosia con quel movimento pittorico, prevalentemente se non esclusivamente toscano e comunque alla Toscana e ai suoi paesaggi profondamente legato, che rivoluzionò, nella seconda metà del XIX secolo, l’arte italiana, rendendola più moderna, più europea. Per fortuna si sono spente da un pezzo le discussioni dedicate al problema, a mio avviso fasullo, se i Macchiaioli fossero originali artisti, autonomi e persino superiori rispetto agli Impressionisti francesi oppure soltanto gli italici e dunque provinciali epigoni degli Impressionisti medesimi. Alcuni Macchiaioli furono grandissimi pittori (Giovanni Fattori soprattutto - che usò modernamente la “macchia” ma restò fedele a una solida costruzione volumetrica delle figure e degli ambienti di derivazione quattrocentesca, masaccesca - ma anche Signorini e altri) e il movimento ebbe un suo peculiare, autonomo profilo, nel contesto europeo, che non merita d’esser considerato epigonicamente secondario e provincialmente derivato rispetto ai colleghi parigini. Ciò detto, nessuno, e men che mai chi come me considera Monet e Cezanne i genialissimi padri della più innovativa arte novecentesca, si sogna d’affermare che i Macchiaioli, e persino il più grande di loro cioè Fattori, abbiano raggiunto i risultati artistici dei più grandi (dei

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meno grandi, sì, eccome) tra gli Impressionisti e i Post-Imperssionisti. L’arte, peraltro, non è il Giro d’Italia e lo stender classifiche porta poco lontano sulla via della sua comprensione. Ma torniamo al cinema italiano e alla sua ispirazione figurativa d’ascendenza macchiaiola, assai forte nei film d’ambientazione ottocentesca e risorgimentale. Mi ha sempre stupito che, a oggi, non esistano in Italia, sull’argomento, studi e ricerche abbastanza approfondite da aver generato almeno un volume d’una qualche consistenza e cioè paragonabile al libro di Raffaele Monti su “Les Macchiaioli et le cinéma” (che potrebbe, almeno, essere tradotto in italiano: nel catalogo della mostra di Castiglionecllo è riportato, in traduzione italiana, un brano da tale opera ma giustappunto soltanto di un brano si tratta). In attesa che qualcuno traduca integralmente il libro di Monti o che scriva un nuovo volume, italiano, sul tema (per quanto mi riguarda, ho voglia di farlo da anni ma, oltre che il tempo, non ho finora trovato neppure l’eventuale editore), può valer la pena di dire qualcosa sull’argomento per i lettori di queste mie “cronache” on-line. Già vari film degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta, quali 1860 (1934) di Alessandro Blasetti (voluto e sostenuto produttivamente proprio da quell’appassionato, e coltissimo, studioso della pittura macchiaiola, oltre che di cento altre cose, che fu Emilio Cecchi, all’epoca direttore della Cines, l’ente nazionale di produzione cinematografica) o Piccolo mondo antico (1941) di Mario Soldati, connotarono la loro ambientazione risorgimentale ricorrendo a chiari richiami, nello scegliere sfondi paesaggistici e nel costruire scene d’ambiente, alla pittura italiana dell’Ottocento, macchiaiola compresa. Fu peraltro nel dopoguerra, e per merito principalmente di due cineasti dalla cultura figurativa ricca e raffinata, che le pittoriche ombre dei Macchiaioli andarono al cinema, non per starsene comodamente sedute in poltrona ma per riempire di sé lo schermo. I due cineasti erano Luchino Visconti e Mauro Bolognini e i loro “film macchiaioli” furono “Senso” (1954) e “Il Gattopardo” (1963), per Visconti, e “La viaccia” (1961) e “Metello” (1970), per Bolognini. Per limitarsi, in occasione d’una breve “cronaca” come questa, a “Senso” e a “La viaccia” (che considero, del resto, i film più belli dell’intera carriera cinematografica dei loro due autori) va detto che i pittori di riferimento furono Fattori, Signorini e Lega, per il primo film, e il solo Telemaco Signorini per il secondo. Nel girare “Senso”, i grandi quadri fattoriani sulle battaglie risorgimentali, per esempio “Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta”, costituirono per Visconti una fonte assai precisa, fino alla citazione diretta, per l’allestimento delle scene relative alla battaglia di Custoza, che nel film ha un ruolo centrale. Il modo di rappresentare le divise e gli atteggiamenti degli ufficiali e dei soldati, lo schieramento dell’esercito sul campo, perfino la forma dei carriaggi che compaiono sullo schermo fur da Visconti ricavato dalle varie battaglie risorgimentali dipinte da Fattori.

Ma anche il da me, per varie ragioni anche non artistiche, amatissimo Telemaco Signorini è presente in “Senso” e precisamente nella scena che mostra gli ufficiali austriaci circondati da belle e

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disponibili donnine, chiaramente ispirata alla sua bellissima “Toilette mattutina”, raffigurante un bordello di Firenze dal pittore evidentemente frequentato (magari, soltanto a fini ispirativi). E troviamo, in “Senso”, anche Silvestro Lega, soprattutto nell’abbigliamento della protagonista (l’italianissima contessa Serpieri, interpretata da una sublime Alida Valli, travolta dalla passione amorosa per un futile ufficialetto austriaco) e delle sue amiche, direttamente ispirato alle tante, eleganti signore di città o di campagna che compaiono nei quadri – in “Dopo pranzo”, per esempio, ove un gruppo di signore borghesi, giustappunto vestite alla moda del tempo risorgimentale, riposa e conversa all’ombra d’un pergolato - di questo pittore (e ardente fautore dell’unità d’Italia: dipinse tra l’altro un commoventissimo e bellissimo ritratto di Giuseppe Mazzini morente) romagnolo fattosi artisticamente toscano.

La toilette nel bordello fiorentino dipinta da Telemaco Signorini la si ritrova anche in “La viaccia” di Mauro Bolognini, splendido film tratto da un romanzo dello scrittore ottocentesco Mario Pratesi (al film collaborò, come sceneggiatore, anche Vasco Pratolini). Buona parte del film si svolge proprio in un bordello fiorentino – quello ove viveva e lavorava la protagonista femminile, impersonata da una stupenda Claudia Cardinale, e ove si recava anche troppo spesso, essendosene innamorato, il protagonista maschile, impersonato da un ombroso Jean-Paul Belmondo - e il quadro di Signorini orienta Bolognini, lungo tutto lo svolgimento della cinematografica vicenda, a rappresentare l’ambiente del bordello medesimo nonché l’abbigliamento, generalmente succinto, delle sue residenti.

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Ma anche le scene de “La viaccia” che si svolgono non nel bordello ma per le strade sia di Firenze che del contado trovano in Signorini il loro figurativo ispiratore, così donando al film una pittorica patina d’Ottocento toscano che contribuisce non poco alla credibilità storica, oltre che alla bellezza estetica, del suo risultato.

PINOCCHIO, UN TOSCO – MA ANCHE CINEMATOGRAFICO –

BURATTINO

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Quando, nel 1881 e dunque ormai cinquantacinquenne, Carlo Lorenzini (che aveva scelto, per firmare i suoi libri, lo pseudonimo di Collodi, dal nome del paese d’origine della madre) cominciò a pubblicare, a puntate su “Il giornale dei bambini”, il suo romanzo “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” (uscì in volume nel 1883, lo stesso anno di pubblicazione di “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll e de “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson: che anno memorabile!), aveva alle spalle una lunga carriera di giornalista, scrittore di testi narrativi e teatrali, estensore di varie opere scolastiche. Però è proprio per aver inventato l’ormai amatissimo (in tutto il mondo, dai ragazzi e dagli adulti) burattino di legno chiamato Pinocchio che il toscanissimo e apparentemente un po’ provinciale Collodi è diventato un autore di fama universale. La storia è nota: un burattino combinaguai, le cui scapestrate avventure lo portano immancabilmente a gravi disavventure, riesce alfine a diventare un bambino vero nonchè buono. Nelle intenzioni collodiane la morale del libro era, forse, di tipo tradizionalmente pedagogico: i bambini disubbidienti rischiano di fare una brutta fine… Però, oltre che nello spigliato stile narrativo e nella geniale capacità di mescolare il fiabesco (un burattino pensante, una miracolosa Fatina, animali parlanti) con un ritratto realistico della Toscana agreste della seconda metà dell’Ottocento (coi suoi artigiani, i suoi vagabondi, i suoi carabinieri, le sue trattorie ove si mangia giustappunto alla toscana: trippa e cibreo, per esempio), il fascino del libro consiste proprio nel continuo ribellarsi di Pinocchio alle regole della vita sociale, nel suo permanente trasgredire, nel suo non ubbidire né alle patetiche prediche di Geppetto né agli antipatici indottrinamenti d’un Grillo Parlante (che palle, i Grilli Parlanti: oggi, ahimé, c’è pure un Grillo vociante e arringante le piazze). Soltanto la Fatina dai capelli turchini (un colore che, credo, esista soltanto in Toscana) aiutandolo nei momenti di difficoltà, lo spinge alla fine a crescere. Allora, la segreta pedagogia del libro risulta meno banale di quel che superficialmente non appaia: non è con le prediche che si aiutano i bambini a crescere, bensì permettendo loro, ma senza abbandonarli a se stessi, di esprimere la loro libertà, di vivere le loro avventure, di fare i loro sbagli. L’eccezionale, e durevole, successo mondiale de “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”, è testimoniata non soltanto dal fatto che il libro è stato ormai tradotto in decine e decine di lingue, venendo così diffuso e letto in tutti i continenti, ma anche dalla quantità degli studi critici che ne hanno indagato stile e significati (spesso trovandone di quelli cui certamente Collodi non aveva mai pensato, ma questo è, per così dire freudianemente, normale), dalle molte versioni teatrali, dalle varie opere d’arte da esso ispirate nonché dai numerosi film da esso tratti. Dunque, Pinocchio è diventato anche, più volte, un filmico burattino! Cominciò, nel 1911, il regista romano Giulio Cesare Antamoro, filmando un Pinocchio, logicamente muto, le cui avventure lo portavano addirittura, poco collodianamente, a cader prigioniero dei pellirossa (Antamoro era uso a reinventare, sullo schermo, storie anche un po’ strane: nel suo Christus, 1916, mostra un Gesù adulto che, aldilà d’ogni evangelica tradizione, va a predicare all’ombra della sfinge e delle piramidi e guarisce, e converte, anche una principessa egiziana). Vennero poi altre opere cinematografiche, dalle vicende del burattino collidano ispirate: persino un cartone animato russo, del 1939, intitolato Pinocchio e la chiave d’oro, regia di Aleksander Lukic Ptusko, il quale – come già aveva fatto Antamoro - modificò molto la vicenda narrata dal libro (ma, come si sa, il cinema non è mai obbligato a rispettare più di tanto i libri cui si ispira). I più celebri film che hanno come protagonista Pinocchio sono però quello, anch’esso un cartone animato e anch’esso del 1939, di Walt Disney; Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini del 1972; il Pinocchio di Roberto Benigni del 2002. Il Pinocchio disneyano suscitò in Italia, presso la critica sia letteraria che cinematografica (oltre che presso gli eredi di Collodi), molte proteste e molte condanne. Gli si rimproverava, per esempio, di aver vestito il tosco burattino alla tirolese: rimprovero sciocco, a mio avviso, in quanto che differenza volete ci sia, per un americano che non sia mai stato in Italia, tra i costumi dell’Alto Adige e quelli della Toscana (terre distanti tra loro quanto due città della California)? E, del resto, quale regista italiano saprebbe distinguere tra il modo di comportarsi, o di vestirsi, di un abitante del Montana e quello di un abitante dell’Utah? In realtà si tratta d’un film molto bello, forse non quanto i sommi capolavori di Disney (Biancaneve o Bambi, per esempio) ma senza sfigurare troppo nei loro confronti. Prima di dedicare la giusta attenzione ai film di

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Comencini e di Benigni, occorre ricordare il Pinocchio viareggino di Gianni Guardone: si intitolava Le avventure di Pinocchio (come il libro di Collodi e il film di Comencini, mentre il film di Benigni si intitola come quello di Disney ovverosia, semplicemente ma poco filologicamente, Pinocchio) e fu girato nel 1947, in un’Italia ancora segnata dai lutti e dalle rovine della guerra (e fu bello che qualcuno, per reagire a quei lutti e a quelle rovine, pensasse a Pinocchio). Fu l’intera città di Viareggio, a cominciare dal ragazzino che impersonò il burattino – si chiamava Sandro Tomei – e dai maestri artigiani dei carri carnevaleschi, a rimboccarsi le maniche, con entusiasmo tutto versiliese, per la buona riuscita del film. Esso, però, ebbe poi scarsissimo successo. Venne alfine, nel 1972, il film di Luigi Comencini, il più grande poeta dell’infanzia del cinema italiano. Mettendo assieme un cast indovinatissimo (memorabile Nino Manfredi nei panni di Geppetto), Comencini realizzò un’opera corale, epica, picaresca, fortemente realistica. Un intelligente critico francese scrisse che il Pinocchio comenciniano sembrava “…un Huck Finn degli Appennini…”. L’amore per l’infanzia incompresa e ribelle che aveva sempre caratterizzato il cinema di Comencini (basti pensare al bellissimo Incompreso, 1966) trovò nella storia del trasgressivo burattino una fonte di grandiosa, forse insuperata ispirazione. Quanto fedele all’opera collodiana, ammesso (e da me non concesso) che ciò sia importante? Molto, mi pare, pur con due, non necessariamente negative, forzature. La prima riguarda il ruolo della Fatina, ridimensionata nel suo ruolo di educatrice del burattino: Comencini, regista fortemente “protestante”, ha sempre odiato il mammismo italiano, per cui ha disegnato una Fatina piuttosto antipaticamente e poco efficacemente matura – brava, nell’impersonarla, Gina Lollobrigida - invece che la dolce, e magicamente protettiva, bambina del romanzo. La seconda, artisticamente più importante, riguarda giustappunto lo stile del film, che valorizza la componente realistica del romanzo collodiano sacrificandone, invece, la componente fiabesca (che pure, in Collodi, è presente: gran parte del fascino del suo capolavoro risiede proprio nell’equilibrio tra i suoi due registri narrativi, quello realistico e quello fiabesco). Il contrario insomma di quanto farà poi, nel suo Pinocchio del 2002, Roberto Benigni. Il film di Benigni valorizza proprio quella componente fiabesca che Comencini aveva trascurato, trascurando a sua volta e quasi del tutto la componente realistica, picaresca, epica delle avventure del burattino di legno. Il risultato è un’opera con alcuni momenti di alta, giustappunto fiabesca, poesia (l’inizio, per esempio, che è assai bello) ma che appare complessivamente più esangue, più evanescente, meno ricca di ritmo e di energia de Le avventure di Pinocchio sia collodiane che comenciniane. Occorre infine ricordare, prima di chiudere questa “cronaca” dedicata alle cinematografiche incarnazioni dell’immortale, e toscanissimo oltre che universale, burattino anche il piccolo protagonista di A.I. - Artificial Intelligence, 2001, di Steven Spielberg (da un’idea di Stanley Kubrick). Egli pure è una filmica incarnazione di Pinocchio: in tal caso non si tratta d’un burattino bensì di un “robottino” che vuol diventare, proprio come Pinocchio, un bambino vero. A riprova dell’universalità del romanzo del buon Collodi, le cui tracce vanno ormai ben oltre, nel mondo globalizzato, gli agresti o borghigiani paesaggi di Toscana.

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