impariamo a stare bene

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Prof. Dott. Ivo Neviani Impariamo a stare bene

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Raccolta di articoli di educazione sanitaria scritti negli ultimi anni per il "Portico" da un novellarese illustre come il professore Ivo Neviani.

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Prof. Dott. Ivo Neviani

Impariamo a stare bene

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E’ per me un piacere presentare questa raccolta di articoli di educazione

sanitaria scritti negli ultimi anni per il "Portico" da un novellarese illustre

come il professore Ivo Neviani. Tanto più che il volume viene pubblicato

in occasione dell’apertura del Centro dei servizi socio-sanitari in via della

Costituzione, un evento degno di nota per i novellaresi e per il Comune di

Novellara.

L’entrata in funzione del Centro risponde all’esigenza di potenziare i servizi

sociali. E’ una nuova tappa della politica welfare municipale varata più di

trent’anni fa dal Comune di Novellara. Nel 1973 mettemmo in pratica gli

indirizzi della Regione Emilia Romagna sulla politica sociale per gli anziani

puntando sui servizi per la domiciliarità (assistenza sanitaria e tutelare, pasti

a domicilio, trasporti, sociali, telesoccorso, lavanderia) e costruendo, nel

giro di quindici anni una rete di servizi che comprendeva mini appartamenti

senza barriere architettoniche dedicate agli anziani, centro diurno, centro

sociale e casa protetta per le persone non autosufficienti.

Ieri come oggi, l’obiettivo principale è di mettere a disposizione delle fami-

glie un ventaglio di servizi ampio, gestito in modo da ottimizzare le risorse,

che consenta di rispondere ai bisogni degli anziani in maniera elastica,

intervenendo nei diversi momenti della prevenzione, della riabilitazione,

dell’assistenza tutelare.

L’informazione sanitaria, secondo criteri di divulgazione e rigore scientifico,

può essere un valido supporto della "continuità assistenziale" che intendia-

mo praticare. Perciò abbiamo pensato di dare alle stampe questa raccolta di

scritti del Professore Ivo Neviani un uomo che allo studio e all’insegnamen-

to delle scienze ha dedicato la vita.

Ivo Neviani è una figura di studioso che dà lustro alla nostra città. Vicino al

fatidico traguardo degli ottant’anni (il 6 dicembre ne compie 79), il Prof.

continua la sua militanza attiva nel mondo scientifico. Di recente ha ricevuto

una targa d’oro dalla SEI la casa editrice che pubblica i suoi libri adottati da

scuole di tutta Italia- "Per chi in modo tanto importante ha contribuito all’in-

segnamento delle scienze nei nostro Paese”.

A nome del Comune di Novellara e dei novellaresi tutti, rivolgo al Prof. Ne-

viani il mio plauso. Con la pubblicazione di questo volume – che verrà dona-

to a tutte le famiglie di Novellara come strenna Natalizia 2006 – confidiamo

di esaudire il desiderio del nostro illustre concittadino di scrivere qualcosa di

importante e di utile per quella che ama chiamare la sua "tribù".

Il Sindaco

Raul Daoli

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Nello scorrere le note biografiche di Ivo Neviani si ha l’impressione di

trovarsi davanti non solo e non tanto ad una persona di eccezionale ed

approfondita cultura in molti e diversi campi del sapere, ma ad un vero e

proprio “personaggio”, che ha scelto di intraprendere un proprio percorso

intellettuale e –presumo- spirituale, al di fuori delle convenzioni accademi-

che. Uno che a 29 anni ha già quattro lauree, ci si aspetta di trovarlo, qual-

che anno dopo, comodamente seduto su una cattedra universitaria. Non

Ivo Neviani, che doveva avere in mente un progetto di vita decisamente

alternativo, ,a cominciare dalla sua scelta di fare non il professore univer-

sitario in una sede prestigiosa, ma il maestro elementare in una frazione

di questo Comune. Poi la sua curiosità lo ha spinto a fare altre esperienze

al di fuori dell’ambiente scolastico, ad es. nel campo dell’industria (ENI) e

delle comunicazione (RAI). Ma la sua vera vocazione è rimasta quella della

raccolta e della trasmissione del sapere, come testimoniato dalle pubbli-

cazioni per la libera docenza e dai numerosi libri di testo su vari aspetti

delle scienze naturali. Per ragioni anagrafiche, la attività pubblicistica e di

pensiero di Neviani fa riferimento ad un preciso scorcio del ventesimo

secolo, diciamo la prima parte della sua seconda metà. Vien da chiedersi

quale sia l’atteggiamento di Neviani oggi nei confronti dei più recenti, tu-

multuosi progressi della biologia e della genetica e di tutte le conseguenze.

Pensiamo al progetto menoma, pensiamo alla clonazione, o alle cellule

staminali, problematiche appassionanti sulle quali si può esser certi che il

Prof. Neviani abbia da esprimere un suo pensiero originale ed un saggio

insegnamento alle nuove generazioni. Da lui ci aspettiamo ancora questo

genere di contributi e, perché no, anche un contributo letterario che vada a

completare a tutto tondo questa personalità complessa e poliedrica, que-

sto “personaggio” di cui Novellara non può che essere orgoliosa.

Giovanni Neri

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Premessa

Quando nel campo delle ricerche “scienza” fa rima con “coscienza”.

Mi sento molto lusingato e fiero quando il Prof. Giovanni Neri si chiede:

“quale sia il mio atteggiamento, oggi, nei confronti dei più recenti, tumul-

tuosi progressi della biologia e della genetica e di tutte le conseguenze

applicative ed etiche che ne sono conseguite”.

Confesso che non mi sento più in prima linea, ma come uomo sono

ammirato per quello che sta accadendo alla scienza e mi fa paura lo

scollamento sempre più accentuato che si sta creando fra scienza ed

applicazioni pratiche, cioè la tecnologia. Lo scopo e la finalità ultima della

scienza è la ricerca della verità. Il perseguimento della verità impone il

principio della fratellanza degli uomini e rifiuta l’applicazione di certe,

troppo affrettate tecnologie. La tecnologia vuole acquisire un predomi-

nio rispetto alla scienza, vuole apportare innovazioni culturali e sociali a

livello globale, ma del tutto estranee a norme etiche (cioè morali, filoso-

fiche e religiose) che sono in generale alla base della nostra formazione

culturale.

All’inizio del terzo millennio gli scienziati rivendicano il loro diritto di in-

tervenire in un settore ritenuto in passato di esclusiva competenza e

giurisdizione di filosofi e religiosi: quello dei valori. Il loro apporto in que-

sto campo potrebbe essere anche maggiore di quello universalmente

loro riconosciuto. Certo, gli scienziati non detengono il monopolio della

saggezza. La soluzione dei problemi che affliggono l’intero genere uma-

no fino a metterne in pericolo la sopravvivenza, spetta in pari misura a

filosofi, uomini di religione, educatori, esponenti delle varie discipline.

Il processo della conoscenza, qualunque ne sia l’oggetto, è irreversibile,

e nessuna spugna può cancellare quello che si viene apprendendo, ma

è necessario che noi, discendenti dell’Homo sapiens, sappiamo fare un

adeguato uso di queste nuove conoscenze.

Nessuno, pur essendo in possesso della chiave che apre lo scrigno dove

è rinchiuso il più prezioso patrimonio dell’uomo, cioè quello del suo

patrimonio di geni, cioè il suo programma genetico, ha ancora avuto

l’ardire di modificarlo ufficialmente. La chiave dello scrigno cellulare è in

mano di biologi molecolari. Il suo utilizzo non può essere immediato. E’

necessario un momento di riflessione, di sperimentazione e di un ulte-

riore ripensamento.

Le nuove scoperte devono essere applicate dopo una accurata conoscen-

za e con profonda competenza. E, fra gli altri problemi, penso appunto al

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al progetto genoma, alla clonazione, alle cellule staminali, all’ingegneria

genetica che pretende di correggere certi “errori” della natura, ecc.

Le pratiche di manipolare la vita ai fini di debellare le malattie ed allon-

tanare la morte ha creato molta euforia in campo tecnologico e fra i

non addetti ai lavori, ma anche tanta angoscia in molta parte del campo

scientifico, in quanto i risultati riportati fino ad oggi sui mammiferi fanno

ritenere possibile (e già dietro l’angolo) l’estensione di queste pratiche su

individui della specie umana. Teniamo però ben presente che esistono-

possibilità di un impiego non sempre favorevoli delle scoperte scientifi-

che.

Più conoscenze nuove facciamo, più la scienza “tocca” la coscienza e

potrebbero rendersi necessari ulteriori controlli per arginare i pericoli in

continuo aumento. Non il progresso scientifico, ma una maldiretta carica

emotiva e l’assenza di un sistema di valori che regoli i nostri comporta-

menti, sono responsabili dello stato di confusione che è causa dell’attua-

le crisi. La specie umana, a differenza di tutte le altre specie viventi, non

solo è responsabile di se stessa e per se stessa, ma possiede la facoltà

di controllare e dirigere le proprie azioni. Certo, non tutto quello che la

ricerca scientifica ci dice che si può fare, è lecito fare.

Mi creda, Prof. Neri, io, e mi ripeto, sono soltanto un “campagnolo”

approdato nel campo delle scienze e, a questo punto, pronto a ritornare

umilmente alla mia terra, fra la gente della mia “tribù” per tenerla infor-

mata, seppure a livello divulgativo.

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PREFAZIONE

Perchè scrivo su “Il portico” una rubrica di Educazione alla salute. Quando negli anni sessanta cominciarono a circolare le prime riviste a carattere medico, sui quotidiani ed alla televisione comparvero le prime rubriche di medicina, molti furono i medici che si opposero (o meglio, ten-tarono di opporsi) a questa “divulgazione”. Per due, si ai loro occhi, buoni motivi. Il primo, essenziale, era che non sempre la divulgazione risponde-va a criteri di scientificità e poteva ingenerare dunque equivoci o peggio,

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aspettative sbagliate. Il secondo era che questo tipo di trasmissione di conoscenza riduceva, in modo rapido e sensibile, il potere del medico nei confronti del paziente.Si apriva in questo modo una nuova stagione di rapporti, non più domina-ti da una cieca obbedienza alle direttive di chi indossava un camice, bensì uno scambio che metteva il paziente in grado di capire ed eventualmente “discutere” (nel bene e nel male) quanto gli accadeva.Ci sono stati dunque momenti in cui l’idea della divulgazione è stata per certi versi “intralciata”, fino ad arrivare ai nostri giorni. Giorni nei quali un uomo di questo mondo, di questa epoca e di questa società, non può non possedere quegli elementi indispensabili di conoscenza del proprio corpo e delle malattie alle quali esso è esposto. Questa conoscenza oggi, pur a livello divulgativo, può essere di grande aiuto proprio ai medici, perché consente loro di analizzare un quadro clinico in tutti i suoi aspetti, con un interlocutore attento, accorto e “preparato” e, dunque, disposto a collabo-rare nella individuazione dei sintomi più validi, nella ricerca delle cause ed anche nella successiva fase di terapia. Un paziente che può comprendere meglio quello che il medico gli propone è senza dubbio un paziente più docile e, dunque più disponibile a seguire l’intero percorso terapeutico con coscienza.I miei articoli di educazione alla salute vogliono essere anche questo: uno strumento utile per affrontare quanto è connesso con il nostro organismo. Un modo semplice per conoscere, espresso in modo facile per capire, per cercare di risolvere. Con grande attenzione non solo a quello che dobbia-mo noi tutti (nessuno escluso), mettere in atto per prevenire le malattie. Anche per quello che dobbiamo fare quando ci accorgiamo che una ma-lattia ci colpisce e si affaccia alla nostra vita con il suo carico di dubbi e di paure.La scienza medica compie ogni giorno progressi enormi ed il pensare con fiducia dovrebbe essere alla base di ogni buon rapporto fra l’esistenza, il medico ed il cittadino. Una sorta di parola d’ordine, insomma: le malattie esistono, non possiamo nasconderlo, ma dobbiamo imparare a cono-scerle insieme ed a gestirle insieme, ognuno secondo il proprio livello culturale.Siamo ad una grande svolta: è il momento in cui abbiamo cominciato a parlare di salute senza tabù ed a prenderci cura di noi stessi, anche se stia-mo bene. Siamo entrati così nella cultura del benessere, che non significa soltanto affrontare in maniera giusta le malattie, ma stare sempre meglio. C’è però ancora bisogno di tanta informazione chiara, c’è ancora bisogno di rispondere a molte domande. Anche questa è educazione alla salute. Anche questa è qualità di vita. Tutti dobbiamo sentirci in dovere di gestire la nostra salute insieme. Purtroppo, per quanto mi riguarda, anche solo a livello divulgativo.Alla fine della mia carriera mi compiaccio con me stesso di essere stato considerato al Ministero della Pubblica Istruzione ed alla Rai-TV, il “Piero Angelo della scuola”; un campagnolo approdato nel campo delle scienze, ma pronto a ritornare umilmente alla sua terra,… alla sua gente.

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Parlare di educazione sanitaria richiama immediatamente il concetto di salute. La Salute non consiste soltanto in un’assenza di malattia o di infer-mità, ma di uno stato di completo benessere del corpo e della mente, cioè una condizione di armonico equilibrio funzionale fisico e psichico, che si realizza pienamente quando l’individuo si è ben inserito nel suo ambiente naturale, familiare e sociale. Il concetto di salute risulta pertanto legato a quello di persona umana nel contesto dell’ambiente e della società nella quale vive.Così intesa la salute non riguarda più soltanto l’individuo, ma anche ciò che lo circonda e lo condiziona, nonché il comportamento che ciascuno di noi assume di fronte a sé stesso, all’ambiente ed alla collettività nella quale vive.La salute, quindi, si può considerare come il benessere della persona umana nelle tre dimensioni: fisica, psichica e socio-ambientale. Di conse-guenza, la tutela della salute non è più da intendersi soltanto come lotta contro le malattie fisiche e psichiche, ma è una continua ricerca dell’inte-grazione di un corpo ed una mente sana con un ambiente ed una società sani.Individuare e cercare di raggiungere modelli di comportamento i più ido-nei a questi fini ed a questa integrazione: questo è l’educazione sanitaria, l’educazione alla salute. Per ogni essere umano, qualunque sia la sua etnia, la religione, le opinioni politiche, le condizioni economiche e sociali, l’essere nel migliore stato di salute possibile è uno dei diritti fondamentali. L’art. 32 della stessa Costi-tuzione della Repubblica Italiana dice che “La tutela della salute è fonda-mentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività”.Pertanto, essendo essa interesse della collettività della quale ciascuno di noi è componente, il “diritto” alla propria salute diventa “dovere”, dovere di concorrere anche alla salute degli altri. E’ evidente che le condizioni di salute non possono necessariamente essere uguali per tutti noi, perché esistono differenze biologiche, di età, di comportamento, ma ciascuno di noi ha il diritto di essere aiutato dalla società (di cui fa parte integrante ed attiva) a raggiungere il miglior stato di salute che gli è biologicamente possibile raggiungere. Attenzione però, aiutato non vuoi dire che si deb-ba attendere passivamente che altri si preoccupino di noi e della nostra salute, ma, al contrario vuol dire imparare a diventare protagonisti della difesa della conservazione e del miglioramento della nostra salute. Solo se e quando cominceremo a diventare protagonisti della difesa della no-stra salute e di quella altrui, potremo pretendere che tutti i mezzi possibili vengano messi a nostra disposizione. E’ questo il punto chiave su cui si basa il concetto: educazione sanitaria = educazione alla salute.Intesa come un diritto, ma anche come un dovere, la salute chiama in causa direttamente la responsabilità di ciascuno di noi e di tutti nell’or-ganizzare i nostri comportamenti. Ciascuno di noi ha il diritto di essere aiutato dalla collettività a raggiungere il miglior stato di salute possibile, ma prima deve compiere il proprio dovere fino in fondo assumendo com-portamenti i più idonei a tal fine. Ma...

EducazionE alla salutE

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L’educazione alla salute, cioè l’educazione sanitaria, oggi non può consi-stere soltanto in un’elencazione di norme igieniche da seguire (anche se non può prescindere dall’igiene); non è un bagaglio d’informazioni più o meno elementari di anatomia o di fisiologia umana messe in rapporto con la salute; non è un’enciclopedia di termini farmacologici su che cosa sono, come e quando si devono assumere determinati farmaci e in che quantità. La diagnosi e la cura restano compito esclusivo del medico, la dispensa dei farmaci è compito del farmacista, spetta agli infermieri ed ai vari operatori sanitari di completare l’opera del medico. All’educazione sanitaria spetta il compito di collaborare correttamente all’opera degli uni e degli altri. Il suo compito è propedeutico e complementare a quello del medico.Se l’educazione sanitaria fino a ieri (in base alle malattie di ieri) poteva es-sere essenzialmente concepita come una serie di atteggiamenti ottenibili in seguito alla conoscenza di buone nozioni di igiene, oggi (di fronte alla vasta gamma di nuove patologie medico-socio-sanitarie), quel modo di pensare è superato dallo stretto collegamento che la vita odierna fa tra salute ed ambiente di vita e di lavoro, coinvolgendone anche gli aspetti sociali.E’ proprio la consapevolezza di certi problemi igienici, individuali e collet-tivi che siano, di certi problemi legati all’ambiente di vita e di lavoro, che può portare alla scelta di determinati comportamenti (e non di altri fino ad ora passivamente seguiti per abitudine, convenienza, indifferenza,...). I nuovi comportamenti che mirano a farci star meglio, educandoci alla salute, vanno: dalla rinuncia ad abitudini dannose, all’utilizzazione con-sapevole dei servizi che la comunità mette a disposizione per la preven-zione, da una corretta gestione comune dell’ambiente, alla protezione ed al recupero della salute, alla maturazione di ogni individuo reso capace (attraverso un’informazione mirata) di vedere, ricercare, valutare libera-mente e criticamente le aggressioni dell’ambiente e rimuoverle operando insieme agli altri appartenenti alla comunità. Si tratta dunque d’informare il cittadino affinché sappia come deve comportarsi in maniera positiva per la difesa e la promozione della sua salute e di quella altrui. L’educazione sanitaria vuole responsabilizzare il cittadino ad assumere quei comporta-menti, quelli atteggiamenti che esso, una volta informato, ritiene più con-soni a far valere il proprio diritto alla salute e verso la formazione di una vera coscienza sanitaria.Proprio perché è parte del processo educativo generale, primo compito dell’educazione sanitaria è d’informare. Deve cioè:- far conoscere di volta in volta il nostro corpo e le sue esigenze per

mantenere o perseguire un buon stato di salute;- far conoscere le condizioni di rischio alle quali si espone ciascuna

persona con un certo comportamento individuale: un fumatore, ad esempio, corre un rischio maggiore di ammalarsi di infarto del miocardio o di un tumore ai polmoni del non fumatore;

- puntualizzare quei problemi sociali che possono interferire con la salutepositivamente (spazi verdi, città più umane, ambiente di lavoro...), o negativamente (inquinamento, sovrappopolamento, infortuni, stress...);

impariamo a star bEnE

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- illustrare le cause delle malattie più comuni ed il modo con il quale sidiffondono.

L’educazione sanitaria, dunque, è essenzialmente un problema d’infor-mazione. Ma, essere informati non basta. Per essere attendibile un’infor-mazione deve essere vera, completa, comprensibile, senza deformazioni personali dell’informatore. Non basta ancora. Perché possa essere poi accettata e perché possa influire nel modificare un certo comportamento già acquisito, un’informazione deve soddisfare qualche bisogno fonda-mentale o voluttuario che sia. Deve cioè essere assimilata, interpretata e fatta propria. Solo cosi, un’informazione può indurre ad assumere com-portamenti più idonei, responsabili e duraturi.

Una proposta dell’educazione sanitaria: modificare certi comportamenti.Ho parlato fino ad ora tante volte di comportamenti. Un comportamento è una scelta consapevole (è possibilmente duratura) di atteggiamenti e di azioni atti a promuovere lo stato di salute. L’educazione sanitaria può consistere in una serie di interventi diretti ad aiutare l’individuo il gruppo a conoscere, ad accertare, cioè ad acquisire dei modi d’agire (i comporta-menti, appunto) che siano utili a mantenere o a migliorare la salute pro-pria ed altrui. Obiettivo dell’educazione, oggi, viene inteso come la scelta ed il fare propri dei comportamenti. A volte si tratterà di rinforzare un com-portamento già acquisito (per esempio, il lavarsi regolarmente i denti); a volte di modificare, per correggerlo un comportamento ritenuto negativo (per esempio, rinunciare al fumo, ridurre la dieta, limitare l’uso di bevan-de alcoliche, ecc.). In ogni caso l’educazione sanitaria tende a modificare, però in modo consapevole e duraturo, i nostri comportamenti di fronte ai problemi della salute.

Come può nascere un nuovo comportamentoComportarsi in un certo modo è una conseguenza, come una risposta ad uno stimolo, ma perché un comportamento nuovo si realizzi, c’è bisogno come di una molla che spinga l’individuo a fare qualcosa, la motivazione può essere biologica (ricerca del cibo, istinto di difesa, istinto sessuale, ecc.), un’informazione, una comunicazione interpersonale, una lettura,... Per essere da supporto ad un comportamento, un’informazione deve essere veritiera, completa, essere esposta con un linguaggio ed una ter-minologia comprensibile. Per influire su di un comportamento in modo positivo deve essere accertata, cioè deve soddisfare un bisogno. E’ quello che fa la pubblicità sfruttando l’uno o l’altro di questi “bisogni”. L’educa-zione sanitaria, cioè l’educazione alla salute, consiste proprio in una serie di interventi diretti ad aiutare l’individuo o il gruppo a conoscere, ad ac-cettare, ad acquisire e fare propri dei modi di agire, cioè ad assumere dei comportamenti che siano utili a mantenere e migliorare la salute proprio ed altrui. La salute non si persegue e non si tutela aspettando passivamen-te leggi protettive o garanzie assistenziali, senza un impegno personale e

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duraturo del singolo cittadino e di tutta la collettività, ovviamente secondo ruoli diversi.

Ogni epoca ha le sue malattieLe malattie sono una realtà da sempre esistente nel mondo ed hanno se-guito l’evoluzione dell’umanità.Le malattie di ieri. Fino a tutto il secolo scorso ed ai primi decenni di que-sto, la salute dell’umanità è stata minata da malattie infettive e parassitarie. Malattie all’origine delle quali c’è sempre stata una causa unica, un fattore naturale: un germe o un parassita vivente, quindi vulnerabile, necessaria-mente esterno al nostro organismo. Resosi conto di ciò, l’uomo ha fatto il possibile per combattere e distruggere i germi patogeni prima ancora che potessero arrivare a contaminarci. Tutto questo giustifica perché si sia cominciato a parlare di igiene; quasi un galateo per cercare di prevenire e combattere le malattie più diffuse e vivere in salute il più a lungo possibile. In realtà, certe malattie (infettive) sono state però debellate o quasi grazie alla scoperta di vaccini, di sieri, di sostanze estremamente efficaci contro i germi (come i sulfamidici, gli antibiotici, il D.D.T. ed altri disinfettanti) e la messa a punto di nuovi presidi diagnostici e terapeutici sempre più per-fezionati. A tutto ciò ha poi contribuito la costruzione di opere pubbliche particolari (acquedotti, fognature, centrali del latte, macelli, ecc.). Le malattie di oggi. Debellati (o ritenuti ormai debellati) quasi tutti i germi di malattie infettive che nel passato hanno causato pestilenze ed epidemie memorabili e che hanno colpito indiscriminatamente bambini, adolescenti e adulti, si sono messe in evidenza altre malattie non meno temibili (AIDS, epatiti, ecc.). Del resto, oggi, i tempi sono veramente mutati: lo sviluppo tecnologico, l’aumento della popolazione, la mescolanza di etnie varie, il fenomeno dell’urbanesimo (che ha portato al concentramento di grandi masse di popolazione in aree limitate), l’enorme aumento del numero di autoveicoli e del traffico, il ritmo di vita intenso, la scoperta di nuove so-stanze chimiche continuamente riversate nell’ambiente attraverso gli sca-richi industriali e domestici, o immesse nei vari cibi a scopo conservante, l’accumulo di rifiuti, la grande diffusione di strumenti e tecniche nonché di materiali capaci di emettere radiazioni pericolose, i rumori, ecc.. hanno provocato l’aumento di un altro complesso di malattie non infettive, ma di natura tossica, tumorale, traumatica, psicosomatica, allergica, da tarmaci, ecc.Le malattie più frequenti che oggi preoccupano di più sono caratterizzate invece dal non avere come causa un fattore (un germe o un parassita) uni-co, naturale ed esterno al nostro organismo, ma un complesso di cause.Cause multiple da ricercare in noi stessi, in modi errati di alimentarci per esempio, o in fattori legati ai nostri comportamenti di fronte si problemi della salute e al nostro ritmo di vita. Le malattìe di oggi hanno una genesi complessa, con inizio spesso indefinito, un andamento subdolo poiché s’installano in un organismo che per un tempo più o meno lungo, conti-nua ad essere apparentemente in buona salute, poi, quando la malattia si manifesta chiaramente, i danni sono ormai irreversibili. Tali malattie

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affondano le loro radici nella organizzazione della società, nel vivere quo-tidiano, nelle aggressioni costantemente operate dall’uomo sull’ambiente e su se stesso e che, poi, si ripercuotono sulla comunità.Da tutto questo deriva che non basta più attenersi soltanto ad una serie di norme igieniche come per il passato, ma occorre aiutare l’individuo a conoscere in modo chiaro, completo, comprensibile i problemi legati alla salute; a conoscere e valutare i fattori di rischio ad essi connessi; a discu-terli consapevolmente e criticamente; a considerare eventuali soluzioni ed infine accettare e fare propri nuovi “comportamenti” ritenuti i più validi per il miglioramento ed il mantenimento della salute.E’ subito evidente che non è facile; ci sono da vincere forti resistenze cul-turali ambientali e sociali, c’è da educare l’individuo (ciascuno di noi) alla salute. Per questo motivo si parla oggi di educazione sanitaria, e l’obiettivo dell’educazione sanitaria è appunto il “comportamento”, che essa cerca di modificare, migliorandolo se è sbagliato, rinforzandolo se è già acquisito e ritenuto valido. Ancora una volta è perciò evidente che occorre far comprendere ai citta-dini che la tutela della salute è particolarmente e prima di tutto affidata a ciascuno di noi, che non può prescindere da fattori ambientali e compor-tamentali e che oggi più che mai si basa sulla prevenzione.

L’educazione sanitaria e le malattie della nostra epocaLe malattie che possono essere tipiche della nostra epoca sono: le ma-lattie cardiovascolari, fra le quali la più importante è l’arteriosclerosi e le sue conseguenze, in particolare l’infarto del miocardio. I fattori di rischio di queste malattie sono vari, molti di tipo comportamentale e sociale: attività fisica, l’alimentazione, l’obesità, la tensione emotiva. il fumo, ecc. E’ necessario una corretta educazione sanitaria che possa incidere sulle abitudini alimentari sull’attività fisica, l’attività sportiva, l’eliminazione del fumo, una riduzione dell’uso dell’automobile.Le malattie tumorali, in continuo aumento e per le quali sono ormai chia-mati in causa il fumo, gli inquinamenti, molte sostanze chimiche ingerite o inalate, certe radiazioni, ecc. I fattori di rischio di queste malattie sono vari e quasi tutti legati al comportamento individuale e sociale. L’educazione sanitaria in questi casi ha direttamente il compito di informare i cittadini, soprattutto se giovani, e renderli consapevoli delle ragioni che consigliano di assumere certi comportamenti piuttosto che altri per cui tutti possono prendere liberamente delle decisioni consapevoli.Le malattie da incidenti traumatici (in massima parte infortuni a cui seguono quelli domestici ed in parte quelli sul lavoro) che purtroppo colpiscono indiscriminatamente a tutte le età. In questo caso mi rivolgo particolarmente ai futuri automobilisti, alle mamme (per gli incidenti sulla strada). Non è vero un dato positivo di educazione alla salute la massiccia pubblicità per le macchine particolarmente veloci e per le motorette che invitano a provare l’emozione dell’alta velocità e delle spericolate acroba-zie, anche se si crede di avere raggiunta la maturità e la padronanza del

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veicolo.Le malattie psicosomatiche, che abbracciano un campo vastissimo di for-me morbose che vanno dalle modesta nevrosi, alle grandi psicosi e che ogni anno affliggono un sempre maggior numero di persone. Anche in questo caso l’educazione sanitaria è estremamente importante soprattutto se finalizzata ad una buona igiene mentale e ad una buona impostazione di più corretti rapporti interpersonali prima nella famiglia, poi nella socie-tà.Le malattie dell’apparato respiratorio, quali le bronchiti, che sono tornate clamorosamente alla ribalta in questi ultimi anni (soprattutto a causa della presenza delle varie sostanze che inquinano l’aria), nonché la mai comple-tamente debellata tubercolosi che è in considerevole aumento.L’educazione sanitaria trova particolare giustificazione durante le campa-gne schermografiche (nelle scuole), nei casi di accertamento precoce della tubercolosi attraverso il saggio tubercolinico, fino alla vaccinazione antitu-bercolare quando è richiesta. Le malattie da farmaci, o malattie iatrogene, causate appunto da un uso scorretto e indiscriminato dei farmaci dai quali in pochi decenni siano stati sommersi, esponendo così la nostra salute a possibile miglioramento, certo, ma anche a nuovi rischi. Vuole essere essenzialmente questo lo scopo dei miei interventi qui, nel campo dell’educazione sanitaria. L’edu-cazione sanitaria, che in questa sede chiamerei più “educazione alla sa-lute”, potrebbe cominciare da una spiegazione corretta del significato di farmaco; da un richiamo che mi ostino a fare, che i farmaci vanno usati con cautela seguendo scrupolosamente le prescrizioni del medico e le modalità segnalate nel foglietto sempre allegato ad ogni tipo di farmaco; dalla pericolosa abitudine di assumere farmaci senza che vi sia stata la re-lativa prescrizione medica o quando se ne modificano spontaneamente le dosi (senza chiedere il parere del proprio medico); dall’errore di interrom-pere spontaneamente la cura appena scompaiano i primi sintomi acuti, prima che siano stati eliminati tutti i germi (spesso questo accade per gli antibiotici); dal segnalare eventuali conseguenze negative nell’assunzio-ne di farmaci (per esempio: antibiotici, antidolorifici, antispastici), i quali possono far scomparire sintomi preziosi ai fini di una più esatta diagnosi medica; dal rendenrsi conto che i farmaci oltre ad azioni principali provo-cano spesso degli effetti collaterali che non sempre sono da sottovalutare; dalla necessità di fare particolare attenzione ad assumere farmaci attivi sul sistema nervoso centrale (sedativi, tranquillanti, psicofarmaci, ecc) presi spontaneamente con l’intento di risolvere o rimediare a condizioni di ma-lessere (insonnia, ansia, stress, ecc.) la cui origine non è quasi mai a causa patologiche organiche, ma è più spesso legata a problemi psicologici e sociale dell’individuo sui quali i farmaci non hanno alcuna azione e la cui soluzione deve avvenire in altro luogo.

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Uso e abuso dei farmaci In pochi decenni siamo stati sommersi da una enorme massa di prodotti farmaceutici. In un primo momento ci siamo compiaciuti di questo, perché abbiamo aumentato le nostre possibilità di lotta contro un sempre maggior numero di malattie. Oggi, invece, la cosa preoccupa, perché il prodotto si è immediatamente trasformato in un oggetto di consumo come merce qualsia-si e viene somministrato in quantità irrazionali.In più l’abuso o superconsumo di farmaci, tende ad aggravarsi col passare del tempo. L’incremento del consumo dei farmaci, però, non è stato in rap-porto né con la crescita della popolazione, né con l’aumento del numero dei mutuati né con I’allungamento della durata media della vita, quindi con il nu-mero degli anziani che oggi si rivolge ai medici per provare sollievo dei danni dell’usura del tempo. Di conseguenza si può soltanto pensare che tutti noi siamo ricorsi più frequentemente all’uso dei farmaci, cioè ne consumiamo di più. Nonostante questo incremento nell’uso dei farmaci lo stato di salute della popolazione non è affatto migliorato, anzi. Infatti se da un lato le nuove scoperte farmacologiche hanno permesso di trattare le malattie con farmaci più appropriati ottenendo risultati decisamente positivi, dall’altro l’uso non sempre appropriato ha portato malattie tipiche da iperconsumo.

Perchè consumiamo tanti farmaci? Noi vediamo ancora nel farmaco qualcosa di magico, crediamo che la scienza medica disponga di pillole per guarire ogni malattia, pretendiamo che il medi-co ce le prescriva, influenzando così la sua disponibilità alla prescrizione dei farmaci. Molti poi hanno acquistato la mentalità che qualsiasi manifestazione morbosa, anche di lieve entità, debba essere combattuta con medicinali per cui ne scaturisce il comportamento errato di ricorrere sempre più frequente-mente, quasi obbligatoriamente al farmacista anche a scopo preventivo. Ci assilla una vera e propria farmacomania. Dalla nascita alla morte continuia-mo ad ingerire pillole, gocce ed intrugli vari; pretendiamo di curarci da soli, o dopo un consulto tra amici con o senza il consiglio del medico o almeno del farmacista, per quanto è di sua competenza. Se la tendenza ad accedere sempre più ai servizi sanitari, alle prestazioni mediche e farmaceutiche può essere valutata positivamente come primo segno dell’acquisizione della co-scienza dei propri diritti sanitari, va giudicato il fatto che l’accesso ai presidi sanitari venga di nostra iniziativa concentrato sul medicamento anziché sulla difesa della salute attraverso un’oculata prevenzione delle malattie stesse.Su di noi, inoltre, influisce in modo elevato la pubblicità diretta e indiretta (non sempre specificatamente esatta), di cui ci si avvale per aumentane le vendite. E così che viene introdotto il concetto di necessità di un farmaco o di un altro prodotto sanitario in ogni occasione ed in ogni momento della vita: dal lassativo al calmante, dal digestivo al ricostituente, dall’antinfluenzale all’antidolorifico.Il farmaco in Italia, sembra diventato un bene di consumo come qualsiasi prodotto industriale. E così pensando e così facendo finiamo per assumere un comportamento decisamente negativo nel mantenimento o nel persegui-mento di uno stato di buona salute. Infine aumentiamo i rischi verso deter-

combattiamo l’abuso dEi farmaci

Perché oggi tutto finisce in una pa-stiglia?L’uso scatenato del farmaco è imposto alla rapidità con la quale intendiamo risolvere i nostri problemi esisten-ziali.La scorciatoia ha il sapore di una resa.

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minate malattie da farmaci (malattie iatrogene) ed aumentiamo le spese sia private che pubbliche per l’acquisto di medicinali non sempre necessari.

Perché i farmaci possono fare male. I danni provocati dai farmaci possono derivare: da errori di dosaggio, da erra-ta e non idonea somministrazione, da errori nel tempo di somministrazione, da associazioni non corrette di farmaci. Queste quattro cause entrano nella competenza del medico e della sua preparazione quindi non c’interessano. C’interessa, invece, l’abuso che noi possiamo fare dei farmaci e questo si verifica: quando si assumono farmaci senza che sia stata fatta una diagnosi ben precisa o senza che ne sia stata fatta la prescrizione (ricetta) da parte del medico, quindi senza la reale necessità di un determinato farmaco o se ne aumentano consapevolmente le dosi prescritte dal medico; quando, essendo scomparsi i sintomi acuti di una patologia, riteniamo di essere già guariti per cui sospendiamo la cura prescritta mentre non sono stati ancora eliminati completamente i germi (come spesso capita con gli antibiotici).In ogni caso, ciò che introduciamo nel nostro corpo per guarire può anche provocare dei danni. Non esiste alcun farmaco che sia senza effetti colla-terali, cioè da azioni esercitate dal farmaco stesso parallelamente all’azione principale, su altri organi e funzioni.I danni più frequenti derivanti da alcuni fra i farmaci di maggior consumo sono in relazione con: - una particolare sensibilità individuale verso la strut-tura chimica della molecola di cui i costituito un farmaco; - manifestazioni allergiche; - effetti tossici a carico di organi ed apparati (sistema nervoso, fegato, rene, midollo osseo, apparato digerente): - effetti cancerogeni; danni al patrimonio genetico, che si rendono evidenti nella prole.

Nel 1975 gli italiani hanno speso ben 1691 miliardi in farmaci, spesa sostenuta quasi interamente dalla Stato attraverso il sistema mutualistico. Non è un po’ troppo?

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Senza alcun ordine prioritario, i farmaci più consumati sono: i ricostituen-ti, gli epatoprotettori, le vitamine, gli antibiotici (soprattutto in capsule e sciroppi), i tranquillanti, gli analgesici, i diuretici, i digestivi, i cardiotonici (specie nelle persone di una certa età), gli psicofarmaci, gli ipnotici, i dima-granti, ecc. Molti di essi sono attivissimi, certamente nessuno è esente da effetti collaterali. Ci sono dei medicinali per il cui acquisto occorre la pre-scrizione del medico ed altri di libero consumo. In entrambe le categorie ci sono dei farmaci dei quali in certi casi si potrebbe anche fare a meno, o sull’efficacia dei quali si sono avanzati molti dubbi.Il consumo di farmaci “inutili”, anche se sono privi di effetti collaterali spiacevoli, è da ridurre perché sottrae senza motivo ingenti fondi ai bilanci familiari e degli enti mutualistici (e quindi denaro della collettività). Questo denaro, avrebbe potuto essere convogliato verso altri importanti settori quali la medicina preventiva, la profilassi ambientale, l’assistenza domici-liare ecc. rendendo possibili finanziamenti più redditizi dal punto di vista della difesa della salute. Ricordiamo qui i principali effetti nocivi di alcune categorie di (armaci mol-to in uso, in ordine alfabetico:Antipiretici (contro la febbre) ed analgesici (contro il dolore). I più comuni sono: l’acido acetilsalicilico (più noto come Aspirina) che non cura la causa della malattia, ma soltanto i sintomi (nel caso specifico febbre e dolore), quindi è soltanto un farmaco sintomatico; il ketoprofene (Orudis), dotato di una spiccata azione anti-glogistica, cioè antinfiammatoria, analgesica (mitiga il dolore agendo sul sistema nervoso centrale), antipiretica; azioni simili hanno pure il piroxicam (Feldene), il diclofenac (Voltaren), l’ibupro-fene (Moment), ecc. La maggior parte di questi farmaci vanno assunti con attenzione soprattutto in presenza di gastriti, ulcera gastrointestinale, gravi disturbi epatici e renali, in soggetti asmatici predisposti all’insorgere di broncospasmi (contrazioni delle fibre muscolari che circondano pareti di bronchi), in caso di alterazioni ematiche in atto, ecc. Sono comunque da ingerire a stomaco pieno, o in presenza di un protettore della mucosa gastrointestinale. Il loro abuso o il loro non corretto uso può far registrare danni diversi che, caso per caso, possono riguardare le mucose dell’ap-parato digerente, la coagulazione del sangue, la funzionalità del rene, anemie di tipo emolitico, ecc.Recentemente, nel trattamento sintomatico delle affezioni febbrili, quali, l’influenza e le affezioni dell’apparato respiratorio, viene molto utilizzato il paracetamolo (Tachipirina). Ha anche una modesta azione analgesica, per cui trova impiego nel mal di testa (cefalee), nelle nevralgie, nelle mialgie ed in altre manifestazioni dolorose di modesta entità e di varia origine. È ben tollerato, ma dosi elevate o prolungate possono provocare sofferen-ze del fegato, del rene e del sangue. La sua somministrazione non deve andare oltre i 10 giorni continuativi senza consultare il medico. Non si somministra ai bambini di età inferiore a 3 anni.Quando ci si ammala di influenza, quindi, le uniche medicine che si pos-sono prendere per stare meglio sono quelle che servono a calmare i sinto-mi, ma non hanno alcun potere terapeutico contro la causa della malattia

Quali farmaci consumiamo di più

Sonniferi, sedativi, tran-quillanti: a volte efficaci, spesso dannosi

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stessa, che può essere debellata soltanto dalle difese naturali dell’organi-smo. Nelle forme influenzali, quindi possiamo assumere:- farmaci antifebbrili, per far scendere la febbre quando supera i 38°;- farmaci antidolorifici, per calmare i dolori muscolari, i dolori alle ossa

ed il mal di testa;- farmaci contro la tosse, se l’influenza indebolisce le vie respiratorie. È anche bene tener presente che gli antibiotici sono inutili per curare questa malattia. Essi necessitano soltanto quando si manifestano sovrainfezioni batteriche (infezioni provocate da batteri che si sovrappongono ad infe-zioni provocate da virus), perché l’infezione virale abbassando le difese immunitarie, permette a batteri di entrare nell’organismo e di scatenare la malattia di cui sono responsabili. Ma questo, soltanto il medico può constatarlo e prescrivere i farmaci più appropriati. Poi, gli psicofarmaci: la grande bugia.Gli psicofarmaci sono medicinali che agiscono direttamente sul sistema nervoso centrale e comprendono: gli ansiolitici, gli antidepressivi ed i neu-rolettici (antipsicotici).Ogni tipologia di psicofarmaco presenta delle controindicazioni, talune assai pericolose.Il nemico più subdolo è il senso comune che dice: prendili senza timore e torni efficiente e svelto. Grave errore che ci conduce presto alla dipen-denza. Il loro effetto è solo apparente: basta solo sospenderli ed il male ritorna.Danno soltanto finte guarigioni!

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Prima sedotti, poi ridotti in schiavitù.Per millenni le sostanze psicotrope (cioè capaci di agire sulla sfera psi-chica) sono state ben poche. I sacerdoti maya e gli egizi le utilizzavano nelle cerimonie di culto. E solo nel 1950 che inizia la moderna psicofar-macologia nella terapia antidepressiva e nel 1961 che entrano in com-mercio le benzodiazepine come ansiolitici di grande successo, portando grandi innovazioni nel campo degli psicofarmaci. Vengono chiamati genericamente psicofarmaci i farmaci (ansiolitici, tranquillanti, sonniferi e antidepressivi), perché sono in grado di in-fluenzare lo stato d’animo e l’umore di una persona. Essi sono in grado di allontanare l’ansia, che rende incapaci di guardare le cose nel loro giu-sto valore, di conciliare il sonno, di tenerci su quando ci sentiamo abbat-tuti, o di dominare certi stati patologici come la depressione. Oggi, infatti, c’è chi non riesce ad affrontare un incontro, un impatto importante se non dopo aver ingerito una pillola o qualche goccia di sedativo. E, oggi, l’abuso di questi farmaci è diventato un vero problema in tutto il mondo. Conciliare il sonno, abbassare la soglia di irritabilità, di ansia è infatti uno degli effetti dei tranquillanti e dei sonniferi. In Italia le benzo-diazepine, ad esempio, usate soprattutto per indurre il sonno, risultano i farmaci più venduti, seguiti da altri farmaci come gli antibiotici, che hanno uno spettro d’azione su molte infezioni. Gli psicofarmaci non sono però tutti delle sostanze che la medicina utilizza soltanto nei casi di patologie mentali, o che possano alterare la personalità, o che imman-cabilmente diano dipendenza. È tutto un complesso di farmaci ciascuno dei quali ha azioni diverse e ben specifiche sul sistema nervoso centrale. Alcuni di essi sono in grado di risolvere patologie importanti, altri sono in grado di attenuare gli stati ansiosi e di indurre un senso di pace interio-re. Proprio perché ogni psicofarmaco ha un’azione ben mirata si rende indispensabile la prescrizione medica durante il periodo del loro utilizzo. L’interruzione o il prolungamento di una cura, l’aumento delle dosi, non possono essere autogestiti. È il medico che può rendere gli psicofarmaci alleati della nostra salute con tempi e dosi ben determinati. Un’autogestione personale degli psicofarmaci (compresi certi comuni tranquillanti), può innescare una vera e propria dipendenza psicologica e fisica. Solo se usati razionalmente ed in modo farmacologicamente appropriato gli psicofarmaci possono essere dei veri alleati della nostra salute. E questo, soltanto il medico e ancor di più lo specialista, possono determinarlo. Quasi tutti gli psicofarmaci non sono mutuabili, richiedono la prescrizione su ricetta medica e si devono pagare.

Dai barbiturici...alle benzodiazepineTramontata l’epoca dei barbiturici come sedativi e come sonniferi, il si-stema nervoso ha oggi a disposizione una vasta gamma di sostanze in grado di modulare la propria attività. I primi farmaci utilizzati per questo scopo terapeutico sono stati i barbi-turici, o ipnotici, molecole chimiche che hanno come bersaglio le aree del cervello che regolano lo stato di veglia. Oggi, però, sono impiegati

Gli psicofarmaci /1

Ci illudono di libe-rarci dai malesseri, ma ci rendono di-pendenti.

Non hanno un’azione mirata, ma “sparano nel mucchio”

Non prendono in con-siderazione il singolo individuo

I trattamenti non han-no mai un termine chiaro

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essenzialmente come antiepilettici (l’epilessia è una malattia del sistema nervoso caratterizzata da improvvise crisi convulsive e da manifestazioni psicotiche) e non più come sonniferi, perché la loro azione farmacologica è piuttosto forte, dura a lungo ed al risveglio rimane un senso d’inton-timento che può pesare sui normali ritmi della vita quotidiana. Come farmaci che inducono al sonno e come ansiolitici, si fa attualmente uso, anzi ampio abuso di benzodiazepine.

Le benzodiazepine: Halcion, Lexotan, Valium, Prazene, Tavor ecc., poi RoipnoI, Mogadon, ecc.Le benzodiazepine sono una famiglia di farmaci il cui effetto è quello di sedare l’attività cerebrale e, conseguentemente di indurre il sonno. Han-no tale azione perché le loro molecole vengono intercettate da particolari strutture cerebrall atte a ricevere segnali e stimoli e a produrre conse-guentemente ben specifiche sostanze ad azione inibitoria, cioè capace, ripeto, di sedare l’attività cerebrale e di indurre il sonno. I farmaci della famiglia delle benzodiazepine (Tavor, Valium, Lexotan poi Mogadon RoipnoI ecc.) si differenziano l’uno dall’altro soprattutto per quanto riguarda: la potenza farmacologica, la rapidità d’azione e la dura-ta dell’azione. Quest’ultima dipende dalla velocità con la quale il nostro organismo elimina la molecola chimica introdotta. Si parla di emivita delle benzodiazepine, cioè del periodo di efficacia di questi farmaci prima che l’organismo elimini i principi attivi in esse contenuti. Una lunga emivita permette di assumere un farmaco una sola volta al giorno, mentre un’emivita breve è più indicata nei casi in cui sia necessario un effetto di breve durata. Per esempio Halcion, Xanax ecc. sono considerate benzodiazepine ad emivita breve e vengono usate per curare l’insonnia; Lorans, Lexotan, Tavor, ecc.. ad emivita media sono utilizzate per l’ansia; Valium, Prazene, ad emivita lunga, nei casi di de-pressione. Secondo le caratteristiche e l’entità dello stato patologico del paziente, è solo il medico che può stabilire la scelta di una o dell’altra benzodiazepina da assumere. Come tutti gli psicofarmaci richiedono una ricetta obbligatoria in genere “ripetibile” (che ha cioè una validità di un-mese dalla data del rilascio e da diritto all’acquisizione di tre confezioni). Le benzodiazepine (considerate erroneamente delle molecole della feli-cità) hanno dei limiti e il loro uso crea degli inconvenienti: - il nostro organismo si abitua alla presenza del farmaco per cui si è in-dotti ad aumentare sempre più le dosi per ottenere gli stessi effetti, sono cioè del farmaci che danno assuefazione.- con il loro uso prolungato e autogestito, il nostro organismo si rende incapace di fare a meno di questi farmaci, cioè danno dipendenza.- la sospensione o anche la riduzione istantanea di questi farmaci, può innescare vere e proprie crisi di astinenza. Queste si manifestano con l’insorgere degli stati di ansia, di agitazione, d’insonnia, ecc. cioè proprio di quei sintomi che si volevano eliminare. Per evitare queste crisi gli spe-

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cialisti dicono che l’uso della benzodiazepina non deve cessare in modo drastico, ma gradualmente, diminuendo le dosi giorno per giorno. Nel loro complesso le benzodiazepine, se assunte sotto il diretto controllo del medico, sono da considerare dei tranquillanti che calmano, sedano e riducono lo stato di elevata tensione emotiva: tendono cioè al recupero di un buon equilibrio fisico e psichico e non in grado di stimolare e di portare a dei comportamenti diversi da quelli che fanno parte della pro-pria personalità. Non sono droghe, ma anch’esse, come tutti i farmaci, presentano dei limiti ed hanno degli inconvenienti.

Un piccolo grande “delitto”: psicofarmaci an-che nel mondo dell’infanzia.Complici i genitori che sperano di spegnere malesseri ed irrequietezze di cui sono in molti casi i primi artefici ed impedendo ai figli di trovare da soli la via della guarigione. Gli psicofarmaci sono spesso prescritti con grande facilità anche ai bambini perchè considerati a torto innocui o poco dannosi. In realtà andrebbero usati con grande prudenza: gli effetti che provocano nei giovani pazienti sono ancora più gravi di quelli riscontrati negli adulti. Vanno ad alterare, inibendole, le funzioni mentali, proprio nel periodo in cui queste si stanno sviluppando. Ad esempio, mi chiedo se i bambini non dovrebbero essere accolti ed affrontati in modo diretto sul piano della realtà, invece di essere resi “silenziosi” attraverso la som-ministrazione di tranquillanti e/o antidepressivi. Secondo me i bambini funzionano da “catalizzatori” di tutte le tensionipresenti nell’ambiente fa-migliare e sociale di appartenenza. E, secondo una miriade di fattori, essi organizzano una modalità del tutto personale di approccio alla vita, strut-turando le loro “difese” per riuscire a sopravvivere a tutte le difficoltà che incontrano. Possono chiudersi o diventare iperattivi. Possono ammalar-si. Possono abbassae il loro rendimento scolastico, smettere di dormire e perdere l’appetito. Possono diventare molto tristi ed aggressivi.E gli psicofarmaci? Questi farmaci spengono questi “segnali di vita” che il bambino manda come richiamo al mondo degli adulti. E con essi az-zera anche la sua libertà di esprimere il proprio dolore... un dolore che fa più paura ai genitori che, sentendosi incapaci di gestirlo, fingono di non conoscere. Gli psicofarmaci “appiattiscono” l’individualità (sofferente) del bambino, nel tentativo di renderla più conforme ad un “modello di normalità più semplice da gestire. quindi, gli psicofarmaci sopperiscono all’incapacità degli adulti di dare risposte adeguate? E’ anche questo, ma attenzione, perché i bambini sono “attori” che mettono in scena le dina-miche “malate” della famiglia e dell’ambiente che li circonda, facendosi carico di esprimere il malessere che non riguarda soltanto loro. Con il disagio che manifestano essi dicono “basta” a noi, non “basta a sè stes-si”. La cura, pertanto, dovrebbe il più delle volte essere rivolta ai genitori. Allora, mai psicofarmaci ai bambini? Come biologo e come farmacista, ritengo che in alcune situazioni, specie in presenza di gravi e ben deter-minate patologie, i farmaci sono necessari. Ma non si può generalizzare: ogni storia è a sé. Il medico,sa bene che prima di effettuare una prescri-

Prima di cambiare qual-cosa in un bambino ve-diamo se non è il caso di cambiare noi stessi.

Complici i genitori che sperano di spegnere malesseri e irrequietez-ze di cui sono in molti casi i primi artefici.Impedendo ai figli di trovare da soli la via della guarigione.

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zione farmacologica appropriata ad un paziente in età evolutiva, non può prescindere da un’anamnesi molto accurata ed appurare l’assenza di altre problematiche per cui sarebbero necessari altri tipi di intervento. Dovrebbe anche, e sopratutto, verificare lo “stato di salute” dell’ambiente familiare in cui il bambino è inserito, dal punto di vista sanitario, sociale ed economico; la situazione relazionale di coppia dei genitori, ilgrado di riconoscimento e di accettazione del bambino all’interno della famiglia.

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Gli psicofarmaci si possono sospendere quando si vuole ?Non tutti gli psicofarmaci si possono sospendere quando si vuole: le ben-zodiazepine ed i neurolettici esigono un’eliminazione graduale. È ancora una volta necessario parlarne con il proprio medico che, insieme a noi, va-luterà il momento più adatto per chiudere le cure e ci indicherà le modalità più indicate per non influire sui benefici già ottenuti con le terapie iniziate.

Gli psicofarmaci sono efficaci subito ?Alcuni sì, altri no. Le benzodiazepine, ad esempio, inducono rapidamente il sonno e sono efficaci già dopo qualche minuto che sono state assunte. I neurolettici, dopo qualche ora o pochi giorni, gli antidepressivi richiedono anche tempi più lunghi.

È meglio usare gli ansiolitici in gocce o in compresse ? Poiché i principi attivi e l’efficacia del medicamento contenuto sono gli stessi, si tratta solo di comodità d’uso. Le compresse sono più pratiche da assumere; le gocce sono più graduabili e, quando si decide di sospendere il medicamento, è più facile diminuirle gradatamente o come si dice sca-landole una goccia alla volta ogni 10-15 gg.

Gli psicofarmaci riducono il desiderio sessuale ? Sì, più facilmente con gli antidepressivi e con i neurolettici, meno con le benzodiazepine ed i mepabramati (Quanil, Sedanil, Oasil, Perequil...). Nella donna possono provocare una diminuzione dell’orgasmo e della li-bido; nel maschio problemi di erezione, diminuzione del desiderio, ritardo nell’eiaculazione. Sono comunque effetti transitori e reversibili al cessare dell’assunzione del farmaco.

Perché un’interruzione troppo brusca di questi farmaci determina le sindromi di astinenza ? Abbassando bruscamente il dosaggio o addirittura sospendendo in modo repentino l’assunzione delle benzodiazepine (attualmente le regine dei farmaci ansiolitici), vengono a mancare improvvisamente le loro mole-cole, per cui determinati “recettori” del sistema nervoso centrale vengono a sentirsi privati all’improvviso di una sostanza ormai consueta nella loro attività, e reagiscono.

Si possono ingerire bevande alcolictie durante una terapia con psicofarmaci ? No, bisogna abolire il consumo di alcolici, perché l’alcol potenzia l’effetto sedativo degli psicofarmaci in genere. In particolare, nel caso delle ben-zodiazepine è invece il farmaco che amplifica gli effetti dell’alcol. L’alcol,

Gli psicofarmaci /2

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inoltre, può accelerare lo smaltimento degli psicofarmaci rendendoli meno efficaci. Già a piccole dosi psicofarmaci più alcol possono generare episodi di confusione mentale.

Gli psicofarmaci hanno influenza sulla guida ? Gli psicofarmaci e le stesse benzodiazepine più comuni (Tavor, Valium, Lexotan, ecc.) in rapporto alle modalità d’impiego, alla dose e alla sensibi-lità individuale, possono influenzare la capacità di reazione nella guida di un autoveicolo, nella circolazione stradale, o operando su macchine che richiedono particolare attenzione e prontezza di riflessi.

Si possono usare in caso di gravidanza, di allattamento o impiegare per i bambini ? L’assunzione di benzodiazepine durante la gravidanza può causare danni al feto, quindi bisogna sempre evitare la loro somministrazione nei primi tre mesi di gravidanza. Successivamente, tali farmaci devono essere som-ministrati soltanto in casi di effettiva necessità e sotto lo stretto controllo dei medico. Lo stesso Tavor (lorazepam), pur essendo secreto con il latte in quantità insignificanti, non dovrebbe essere somministrato se non in casi che il medico stesso ritiene clinicamente giustificati.

Perché oggi si fa un così grande abuso di questi tarmaci ? Perché negli ultimi anni i casi di ansia e di stress sono aumentati enorme-mente. Ma l’ansia e gli stress, se mantenuti a livelli tali che non determini-no degli stati psicologici, non richiedono cure farmacologiche particolari, e rappresentano soltanto una reazione del nostro organismo da considerar-si del tutto positiva.

NO AGLI PSICOFARMACILa mente ingannata: primasedotta e poi ridotta in schiavitù

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Il sonno è un istinto di cui non si conosce ancora la funzione biologica, ma un fatto è certo: durante il sonno c’è un riposo fisico e mentale dai quali l’individuo trae un fondamentale benessere e, se ne viene privato, finisce per morire. Del sonno, oggi si conoscono sempre meglio fasi e caratteristiche e sono stati anche scoperti i meccanismi fisiologici che regolano l’alternarsi dello stato di veglia e di riposo. Con particolari appa-recchiature si è in grado di registrare l’attività elettrica del cervello (e delle altre funzioni) anche durante il sonno e di valutarne durata e qualità.Di notte il nostro cervello lavora molto intensamente per impedire che molti fattori estemi (luce, rumore, ansia preoccupazioni, ecc.) possano svegliarci. Studiando la microstruttura del sonno si è scoperto che nel corso della notte il sonno non è sempre uguale. Ogni notte compiamo in media da 4 a 6 cicli di sonno, che comprendono a loro volta alcune fasi:

sonno E… insonnia /1

Il sonno ed i suoi misteri.

- Una fase di preludio al sonno caratterizzata da immagini e pensieri va-ghi, percepiamo i suoni che ci circondano, ma non riusciamo più a reagi-re e diventano sempre più sfumati; ci sentiamo sempre più leggeri e non comprendiamo più le parole; a poco a poco perdiamo la coscienza.- Una fase di sonno profondo che è quella più riposante.- La fase di sonno Rem (Rapid eyes moviments o dei movimenti oculari rapidi). Non è un sonno profondo, è di breve durata e precede la sveglia. In questa fase il cervello ricarica le batterie e rielabora la giornata trascor-sa (il tracciato encefalografico eseguito in questa fase è simile a quello

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che si presenta da svegli). Finita la fase Rem ci si sveglia o si comincia di nuovo a dormire.Recentemente un gruppo di studiosi dell’Università di Parma ha scoperto che sotto le fasi di sonno in cui si sogna (fase di sonno Rem) e di sonno non-Rem si nasconde un sonno Cap (Cyclic alternat pattern o sonno con particolari onde elettriche). Questo è un sonno leggero, pieno di microrisvegli in cui il cervello, pur non lavorando freneticamente, non riesce ad impedire che rumori ed ansie ci disturbino ed il sonno si faccia precario. È proprio il sonno Cap (che fa da sottofondo al sonno REM ed al sonno non-Rem) la causa per cui certe persone, pur avendo un nu-mero sufficiente di ore di sonno all’attivo, riposano male: nelle loro notti prevale un sonno Cap, per cui basta un minimo rumore per svegliarlo. In breve: non è detto che un sonno che dura ad esempio diverse ore sia quantitativamente sufficiente; perché un sonno si possa considerare ben strutturato, lo deve essere sia quantitativamente (numero di ore suffi-ciente) sia qualitativamente (ben strutturato in fasi raggruppate in cicli e non interrotto da continui microrisvegli).Se negli anni 60’ questi cattivi “dormitori” costituivano il 30% della popo-lazione, oggi il loro numero è notevolmente aumentato. Perché ? Perché i nostri stili di vita le abitudini a rischio ci costringono involontariamente ad assumere, rispetto alla qualità ed alla quantità di riposo, dei compor-tamenti sbagliati che modificano il naturale ritmo sonno-veglia. Non ci preoccupiamo più di difendere il nostro corpo da rumori, da stress, da continue ansie e inutili sollecitazioni. Anziché rendere più tranquille e più riposanti le ore che precedono l’arrivo del sonno, mettiamo il cervello in uno stato di attenzione con attività fisiche e psichiche varie (palestra, ginnastica, footing, TV, videogiochi, ecc.).Parlando in precedenza del significato di educazione alla salute, suggeri-vo di cercare di cambiare i nostri comportamenti. Un buon sonno è una garanzia di un buon stato di benessere, di salute. Tutti sappiamo che un cattivo riposo, invece, finisce per incidere profondamente sulla qualità della nostra vita, sulla nostra attività professionale, sui rapporti che dob-biamo mantenere con gli altri.

Quante ore è bene dormire?È difficile stabilire la quantità corretta delle ore che dobbiamo riservare al sonno, perché questa esigenza varia da individuo ad individuo. In generale si ritiene sia necessario dormire 7-8 ore per notte, ma ci sono persone per le quali è sufficiente anche un sonno più breve. In questi casi si tratta di individui che hanno un sonno ben organizzato dal punto di vista strutturale, cioè un sonno nel quale vengono concentrate tutte le fasi di un sonno capace di arrecare un bene reale e non avere disturbi al risveglio. Sei, sette ore di buon sonno si ritengono sufficienti per individui che sono preoccupati di mantenersi in salute.La durata del sonno varia comunque con l’età. I bambini necessitano di un numero maggiore di sonno rispetto agli adulti. Nella terza età si dor-me molto meno, occorre molto tempo prima di essere presi dal sonno,

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ci si sveglia molto presto. Abituandosi a dormire poco si innesca però tutta una serie di disturbi che si manifestano poi nelle ore diurne, come sonnolenza, stanchezza, difficoltà di concentrazione, irritabilità, ecc. Per cui si ha la tentazione di assumere sostanze eccitanti come caffè, tè, bere alcolici, particolari farmaci, stupefacenti, nicotina (cioè fumare), ecc.Oppure si sente la necessità di fare un pisolino diurno. È bene, però, che quest’ultima tentazione rimanga un’eccezione e non diventi un’abitudi-ne, altrimenti si rischia di disturbare il delicato equilibrio sonno veglia, che è regolato da una zona del nostro cervello chiamata centro del son-no e dà un ormone: la melatonina.

Perché si parla di ritmo biologico veglia-sonno ?All’interno del nostro cervello c’è una zona chiamata ipotalamo, che come un orologio interno è in grado si regolare i ritmi di sonno e di ve-glia. Questo ritmo è in relazione principalmeme con la luce e dipende dalla secrezione di un ormone, la melatonina, che viene stimolala al buio e inibita dalla luce, quando questa colpisce la rétina. La sommini-strazione di melatonina al fine di indurre il sonno è in fase di studio e di sperimentazione: in alcuni individui questa sostanza non si è dimostrata di essere in grado di produrre ulcun effetto, in altre invece ha risolto al-cune forme di insonnia.

Che ne è delle altre funzioni vitali del nostro organismo durante il sonno ?È essenzialmente la fase di sonno profondo che determina in riposo fisico che è necessario alla vita. Durante il sonno tutti i processi biologici avvengono con maggior lentezza, per cui c’è un recupero di energia. Si fa prevalere l’azione del sistema nervoso parasimpatico che ha un’azione calmante generale: diminuisce infatti la temperatura corporea; rallenta il battito cardiaco; cala il ritmo respiratorio; viene inibita la funzionalità del-le ghiandole surrenali, quindi la produzione di ormoni (cortisolo, adrena-lina, noradrenalina) che sono anche responsabili degli stati di stress.

La cura del sonno?Non serve a nulla

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L’insonnia, che cos’è ?L’insonnia non è una malattia. È il più diffuso disturbo del sonno, caratte-rizzata da un sonno non buono sia dal punto di vista della quantità, sia da quello della qualità. Si manifesta con: difficoltà a prendere sonno, continui risvegli durante la notte, incapacità di riaddormentarsi. L’insonnia è la per-cezione di un sonno insufficiente, disturbato o, comunque, non riposante. E’ un insieme di sintomi che il giorno dopo si traducono in un stato di son-nolenza cronica, di stanchezza generale, d’incapacità di svolgere le attività abituali. E un disturbo la cui percezione varia da individuo a individuo, cioè molto soggettivo e complesso, per cui diventa difficile anche per il medico farne la diagnosi e poi curarlo.

Esistono diversi tipi d’insonnia.La neurologia, in base alle rispettive origini, considera alcune forme d’in-sonnia ed ogni individuo “vive” queste condizioni in modo del tutto parti-colare, personale.Passare una notte in bianco capita a tutti. Questo sintomo è spesso legato ad un fattore contingente, superato il quale scompare e perciò non può destare alcuna preoccupazione. Può trattarsi di un periodo di superlavoro, di stress, di problemi affettivi, ecc. capita anche di dormire male di tanto in tanto, ma non dobbiamo preoccuparci tanto. È questo un caso di una insonnia occasionale. E’ probabile che in certi periodi siamo soltanto dei “cattivi dormitori”, non degli insonni. Ci può aiutare facilmente il medico di famiglia con un appropriato psicofarmaco a riconciliarci con la notte e a toglierci lo spauracchio dell’insonnia. Ricordiamoci, come ho detto da qualche altra parte di preferire la forma del farmaco in gocce (quando è possibile) alle compresse, perché la quantità del farmaco si dosa meglio in rapporto alle necessità di ogni paziente sia in crescita che in scalare, come ha stabilito il medico curante.Esiste un’insonnia transitoria, che ha maggiore durata ed è essa pure legata ad una situazione contingente, ma che può pericolosamente croni-cizzare, se non viene interrotta da un intervento medico ben finalizzato.Esiste un’insonnia cronica che è spesso uno stato patologico serio ed invalidante, che persiste mesi e talvolta anni e che il medico affronta con una strategia articolata. Nell’insonnia cronica gli psicofarmaci che induca-no il sonno sono efficaci sì, ma alla lunga danno dipendenza ed il loro ef-fetto diminuisce gradualmente. L’insonnia cronica è quella che più spesso ricorre in famiglia anche per motivi di predisposizione.L’insonnia cronica è talora riconducibile a certe malattie particolari (asma, difficoltà respiratorie), all’uso di alcuni farmaci assunti per altre malattie (cortisone, ad esempio), per cui spetta ancora al medico curante la ricerca dell’origine effettiva dello stato di insonnia.Occasionale, transitoria o cronica, bisogna cercare di bloccare sul nascere ognuno di questi tré tipi d’insonnia più comuni. Punto di partenza è ca-pire il tipo d’insonnia. La strategia successiva può essere farmacologica o comportamentale, o entrambe. I farmaci possono essere risolutori nelle

Insonnia: svegli sotto le lenzuola

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insonnie occasionali e nelle insonnie transitorie; talvolta, però inutili nelle insonnie croniche. Non esiste un farmaco miracoloso contro quel disturbo del sonno che è, appunto, l’insonnia.

Alcune regole comportamentali per una “buona notte”.I disturbi del sonno sono spesso legati a nostri comportamenti sbagliati e che, perciò, dobbiamo cercare di correggere, di modificare. Possiamo cercare di favorire il nostro sonno e gli specialisti suggeriscono una serie di misure comportamentali, strategiche, che possono prepararci a superare l’insonnia o a non disturbare il sonno: bere un bicchiere di latte prima di coricarsi; cercare di andare a letto sempre alla stessa ora; evitare caffè, thè. Evitare Coca Cola, alcool, cioccolato in tazze alla sera; non guardare la TV a letto; footing o palestra dopo cena; coricarsi qualche ora dopo l’ultimo pasto; evitare di fumare alla sera; evitare di appisolarsi davanti al televiso-re, alla sera; evitare, quando è possibile il pisolino pomeridiano; evitare il più possibile l’assunzione di farmaci che possono interferire con il sonno; non abusare mai di psicofarmaci che inducano il sonno; il luogo dove si dorme deve essere sufficientemente silenzioso, non troppo riscaldato, ma nemmeno troppo freddo (attenzione ai condizionatori); ecc.Ricordiamo ancora una volta che: soltanto quando ci siamo imposti di collaborare con i ritmi della natura, possiamo chiedere aiuto ai farmaci. Per chi non dorme non può bastare un sonnifero. E, poiché a parte le benzodiazepine (i principali e quasi esclusivi farmaci oggi usati per i di-sturbi del sonno) con i loro effetti collaterali, non esiste un farmaco che possa debellare l’insonnia, bisogna adattarsi all’idea di convivere con que-sto problema che però può essere migliorato. Se è compito del medico capire l’origine della nostra insonnia e prescrivere poi gli opportuni rimedi farmacologici, è nostro dovere cercare di assumere una serie di misure comportamentali idonee a migliorare la situazione ed a ripristinare uno stato di salute conveniente.Diversi sono i fattori che possono disturbare il sonno, scatenando l’in-sonnia. Essi riescono a superare la barriera protettiva che il cervello crea intorno a sé.

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Ansia, tensione, paura, tristezza, malumore, ecc. sono degli stati emotivi non sempre e non solo da considerare negativi. Lo sono si, ma soltanto in apparenza, perché in realtà sono strumenti di sopravvivenza. Sono dei fenomeni psichici che hanno la loro utilità. Sono essi che ci mettono in condizioni di fronteggiare cambiamenti e situazioni di pericolo inci-pienti. Sono essi che preparano l’organismo a reagire in modo adegua-to a stimoli che provengono dall’estemo, ma anche dal nostro intimo. Sono dei campanelli d’allarme che avvertono che dobbiamo adattarci a condizioni nuove, creando in noi uno stato di tensione psichica e fisica che ci può rendere capaci di fronteggiare una situazione particolare. Studi recenti alla facoltà di psichiatria dell’Università del Michigan e del dipartimento di scienze neuropsichiche dell’ospedale San Raffaele di Milano, vedono nell’ansia una funzione positiva che si rivela con un au-mento della capacità di rendimento dell’individuo. Ad esempio, se deve affrontare un colloquio di lavoro o un esame (io lo so bene, perché nella conquista delle sole mie quattro lauree ho dovuto sostenere ben 97 esami), l’ansia che prende ogni volta che si devono affrontare particolari difficoltà permette di raccogliere tutte le forze necessarie per reagire ad una situazione a rischio. Talora, invece, l’ansia può diventare eccessiva ed arrivare a produrre tensione, irrequietezza, apprensione con tachicar-dia (accelerazione del battito cardiaco), sudorazione, tremori, ecc. Può cioè evolvere in un disturbo psichico che impedisce all’organismo stesso di reagire in modo positivo. In caso di situazioni difficili e di pericolo, il nostro corpo ha la possibilità di reagire in vari modi: il cervello libera particolari ormoni (Acth e Tsh) che stimolano per esempio ghiandole surrenali o la ghiandola tiroide a secemere altri ormoni i quali, a loro volta, favoriscono l’utilizzo degli zuccheri o dei grassi disponibili. Una volta messe in circolo tutte queste sostanze permettono di poter contare su di una maggiore quantità di energia disponibile, quindi di aumentare il rendimento del cervello e del nostro fisico nel suo complesso renden-doci più sicuri e più lucidi.L’importante è che questi nostri momenti negativi non si protraggano a lungo o non si ripetano frequentemente e che ci sforziamo di limitarli soltanto al periodo necessario alla nostra mente e rielaborare l’evento doloroso in emozioni diverse, evitando così che esso sfoci in uno stato patologico vero e proprio. Lo stesso accade quando ci poniamo obiettivi superiori alle nostre possibilità, per cui non riuscendo a raggiungerli ci sentiamo tristi e frustrati. Se non riusciamo a staccarci dall’idea di aver fallito gli obiettivi che ci eravamo proposti e non riusciamo ad astenerci dal nutrire in futuro ambizioni irraggiungibili, l’ansia da fattore amico di difesa, diventa un fattore nemico che rivela la mancanza di consapevo-lezza ad una situazione critica. L’ansia può essere una forma di difesa utile per superare le difficoltà, uno strumento di difesa a disposizione del nostro organismo per reagi-re in modo adeguato a situazioni avverse, perché queste restino degli eventi transitori che non si ripetano troppo spesso.

l’ansia non è sEmprE nEmica

E’ una forma di difesa?

È un campanello d’allarme?

È una reazione di sopravvivenza?

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Che cos’è l’artrosi?L’artrosi è una malattia degenerativa che porta all’assottigliamento e all’alterazione della normale struttura di quel tessuto, la cartilagine, che riveste la parte delle ossa contigue che si articolano fra loro, nonché delle ossa stesse che si fanno più dure, si deformano e diventano meno elastiche.

Che cos’è un’articolazione? Le articolazioni sono delle strutture mobili del nostro scheletro, molto complesse, che determinano i movimenti. Senza di esse sarebbe im-possibile sollevare un braccio o piegare una gamba o flettere la colonna vertebrale.

Come è costituita un’articolazione?Un’articolazione è essenzialmente costituita da: strutture rigide, quali le ossa; la cartilagine articolare (un tessuto che riveste la superficie delle ossa nei tratti che devono scorrere uno rispetto all’altro); i muscoli (che contraendosi, determinano il movimento delle ossa).

Quali sono le sedi più colpite? L’artrosi colpisce in particolare le articolazioni che sopportano maggior peso e carico, cioè: il tratto cervicale e lombare della colonna vertebrale, ma anche l’articolazione coxo-femorale (anca), il ginocchio, ecc. L’artro-si può colpire più articolazioni insieme e, quando un processo degenera-tivo articolare s’innesca in un punto, può portare differenze di carico su altre articolazioni e modificare così una corretta posizionatura (postura). Ad esempio, un’artrosi della colonna vertebrale può portare negli anni ad un’artrosi del ginocchio o dell’anca.

Perché l’artrosi peggiora o si risveglia in inverno?È il dolore che può diventare più acuto con il freddo. L’umidità ed il cat-tivo tempo non agiscono sulle ossa, ma sui muscoli che circondano una articolazione. Per questo in inverno si soffre di più.

Che tipo di dolore è quello artrosico?II dolore dovuto ad artrosi è caratteristico, perché, a differenza delle altre malattie reumatiche (per esempio l’artrite), compare particolarmente spiccato dopo inattività (come al risveglio o dopo essere stati fermi per un certo tempo). Un’altra caratteristica del dolore artrosico è che tende a scomparire spontaneamente con il movimento. È sempre il dolore che concorre a rendere più compatta, più rigida un’articolazione, generando così ulteriore dolore. Il tipico dolore artrosico è un dolore in un certo senso “utile” perché (pur comparendo in uno stadio piuttosto avanzato del processo degenerativo, quando cioè oltre alle strutture cartilaginee ed ossee vengono compromesse anche quelle muscolari e nervose, irri-

l’artrosi: un malE ormai di tutti

Quando si avvicina l’inverno ci si comin-cia a preoccupare perché sì risvegliano il male di schiena ed i vari “dolori reuma-tici”. Questi termini, però, sono molto vaghi e comprendo-no dolori che pos-sono essere causati da varie patologie. Tra queste la più diffusa è l’artrosi.

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tandole ed infiammandole) costringe il paziente a ricorrere decisamente al medico.

Quali sono i sintomi dell’artrosi?I sintomi dell’artrosi dipendono dalla zona colpita, ma generalmente si riscontra: dolore (dovuto al processo di distruzione delle strutture arti-colari e di irritazione di quelle muscolari e nervose); scricchiolii (dovuti al fatto che la superficie della cartilagine articolare non è più liscia, ma si fa irregolare ed il suo scorrimento diventa difettoso; si ha inoltre un irrigidimento della parte colpita (causato dalla maggiore tensione riflessa dei muscoli circostanti l’articolazione).

Perché la cartilagine degenera? Normalmente le sostanze che costituiscono la cartilagine sono sì con-sumate nei movimenti, ma vengono anche riprodotte dall’organismo. Quando però questo processo di rigenerazione non riesce più a star dietro al processo di consumo, la cartilagine si assottiglia e finisce per scomparire dando il via a quello stato patologico che è l’artrosi. La sua produzione non riesce a compensarne l’usura e con il passare del tempo i capi delle due ossa tendono a toccarsi, perché non c’è più cartilagine che funga da cuscinetto ammortizzatore.

Che differenza c’è fra artrosi e artrite?L’artrosi è un’affezione degenerativa delle articolazioni (nella loro parte sia cartilaginea sia ossea); l’artrite è un’infezione localizzata nei tessuti molli di un’articolazione.

Colpisce più gli uomini o le donne?L’incidenza è pressoché uguale nei due sessi, ma mentre nell’uomo può essere ricondotta all’attività lavorativa, nelle donne la causa sarebbe da ricercare nelle alterazioni del metabolismo indotte da fattori ormonali.

Esistono posizioni scorrette che possono favorire l’artrosi? Si: rimanere a lungo con il dorso curvo; stare in piedi appoggiandosi a lungo su di una sola gamba; guidare incurvati o troppo distesi (occorre mantenere la schiena diritta o totalmente appoggiata allo schienale, con il tronco e le cosce ad angolo retto); stare seduti in modo non idoneo (dobbiamo imparare a stare seduti sia alla scrivania sia in casa nel tem-po libero); ecc. sono tutte posizionature scorrette. Molti dei fastidiosi do-lori al collo o alla schiena possono essere evitati cercando di mantenere sempre una postura giusta. Dobbiamo renderci conto che i problemi della colonna vertebrale dipendono essenzialmente dal cattivo stato di salute dei dischi intervertebrali, cioè di quelle strutture tampone poste fra una vertebra e l’altra che hanno il compito di assorbire gli urti ed

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evitare il contatto fra due ossa contigue. Quando si mantiene troppo a lungo una posizione di carica su un disco vertebrale (come ad esempio il collo leggermente piegato in avanti con le spalle contratte) si determina un forte stress per il disco stesso, che non si muove, quindi non riceve nutrimento. Si accelera così l’invecchiamento di tutta la struttura, che diventa meno elastica e meno pronta ad assorbire gli urti. La situazione potrebbe portare alla formazione di un’ernia, la fuoriuscita della parte interna più molle del disco stesso. I disturbi dolorosi del collo e della schiena, dunque, possono essere evitati cercando di mantenere la giu-sta posizionatura, cioè una corretta postura correggendo così certi nostri comportamenti sbagliati.

Perché le persone sottoposte a continui stress soffrono facilmente di mal di schiena? Lo stress, come il freddo non è di per sé causa di artrosi, ma agisce sui dolori muscolari che sono una conseguenza di un processo artrosico in atto. La tensione continua provocata dagli stati di stress, può accentuare il dolore dando una fibromialgia (una malattia infiammatoria che colpi-sce le fibre muscolari costituenti dei muscoli) che comporta un aumento del tono muscolare ed irrigidisce quindi le articolazioni.

Come si cura l’artrosi ed i mali ad essa collegati? Non esistono ancora dei tarmaci specifici che possono ricostruire una cartilagine danneggiata dall’usura e soprattutto da comportamenti scorretti per quanto riguarda la postura. Per ora il medico può soltanto ricorrere a farmaci antinfiammatori o a farmaci analgesici (che alleviano il dolore) e a miorilassanti (che diminuiscono la rigidità dei muscoli di un’articolazione). In particolare vengono utilizzati soprattutto dei tarmaci antinfiammatori i cosiddetti FANS, ma anche dei tarmaci cortisonici. I primi, se usati per periodi prolungati hanno lo svantaggio di provocare disturbi gastrointestinali; i secondi di provocare gli effetti indesiderati del cortisone. Tra i FANS si possono ricordare: ASPIRINA, NOVALGINA, BRUFEN, ORUDIS, VOLTAREN, AULIN, SALONPAS, ecc.; tra i tarmaci steroidei: DELTACORTENE, URBASON, LEDERCORT, BENTELAN, ecc. La somministrazione di questi ultimi deve essere limitata a brevi periodi, in quanto gli steroidi possono determinare effetti collaterali importanti come gonfiori, osteoporosi, disturbi di fegato, gastriti e ulcere, eritemi, (modificazioni del colore della pelle), problemi agli occhi (cataratta), ecc. Dovendo assumere dei farmaci FANS, il medico suggerisce di usare contemporaneamente altri farmaci, che hanno la funzione di proteggere le mucose a rischio (per esempio: ZANTAC, RANIDIL, CITOTEC, GLIPTI-DE, ecc.). Per ovviare a questo problema, assai recentemente sono stati realizzati nuovi antinfiammatori (come il nabumetone, nell’ARTAXAN), che hanno maggiore tollerabilità e producono minori effetti collaterali a livello gastroenterico. Ma, ancora una volta attenzione: farmaci si, ma con cautela. L’artrosi è un disturbo cronico e una cura può essere cali-

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brata dal medico in tempi lunghi e controllati. FANS è una sigla che sta per Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei.

In che cosa consistono le terapie “dolci” per la cura dell’artrosi?I dolori artrosici possono essere attenuati anche con terapie non esclusi-vamente a base di farmaci. Fondamentale con la fisioterapia i cui scopi, oltre alla scomparsa del dolore, sono: la prevenzione e la diminuzione della tensione muscolare; la conservazione o il miglioramento del mo-vimento dell’articolazione colpita; la stimolazione dei muscoli (il movi-mento favorisce anche la guarigione delle articolazioni più acciaccate), con conseguente miglioramento dello stato psichico generale.Fra gli altri la fisioterapia propone solitamente questi trattamenti:- la ionoforesi. E’ una tecnica che utilizza placche da applicare ai lati della zona malata, portanti cariche elettriche di segno opposto, una delle quali viene imbevuta di un farmaco antinfiammatorio. Le molecole del farmaco, attratte dalla placca con cariche di segno opposto, attraversano la zona malata e realizzano la loro azione terapeutica. La ionoforesi con-sente un assorbimento dei farmaci antinfiammatori, per cui si evitano le iniezioni.- L’elettroterapia. Tale trattamento, utilizzato nella cura dell’artrosi viene chiamato “tens” o “diadinamica”, secondo il tipo di corrente utilizzata. Presenta il vantaggio che non si devono assumere farmaci.- I massaggi. Determinando un aumento del tono dei vasi sanguigni e una distensione generali dei muscoli, esercitano i loro effetti non tanto sulle articolazioni, ma sui muscoli ad esse vicini soprattutto se in stato di lunga contrattura. Scopo di queste terapie altemative è quello di aiutare l’azione dei farmaci, consentendo di ingerirne il meno possibile.

Perché le persone sottoposte a costanti stress o a ritmi di vita troppo accelerati soffrono di mal di schiena?Oggi all’origine di alcuni disturbi della colonna vertebrale, oltre a fatti degenerativi delle strutture delle articolazioni, si considerano anche i problemi psicologici della persona che è colpita da questa patologia geriatrica. Anche questi si riflettono sulla muscolatura della schiena ren-dendola contratta per troppo lunghi periodi di tempo e questo genera i più classici dolori acuti o persistenti della colonna vertebrale. La colonna vertebrale viene infatti considerata una zona di proiezione di conflitti neurotici non indifferenti, che si riflettono soprattutto nella zona cervicale e lombare.

Dobbiamo imparare come e quanto stiamo sedu-ti.Una delle cause principali del mal di schiena è legato ad un eccesso di

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sedentarietà, perché quando si sta troppo seduti si danneggiano i di-schi intervertebrali, cioè quei cuscinetti cartilaginei che sono posti come ammortizzatori fra una vertebra e l’altra. Per mantenerli in efficienza occorre invece interrompere spesso la fissità della posizione alzandosi dalla scrivania o scendendo dall’auto per sgranchirsi un po’ le gambe. La colonna vertebrale non soffre se ci si muove, ma se ci si muove in modo scorretto. Chi esegue lavori pesanti deve alternare spesso con momenti di riposo e deve imparare ad eseguire i movimenti senza caricare ecces-sivamente la colonna in modo squilibrato. Tutti dovremmo imparare anche a stare seduti.

Perché proprio la colonna vertebrale?Perché è una zona del corpo umano in cui le articolazioni fra vertebra e vertebra sono numerose e perché sono esse che devono sopportare la maggior parte del peso e del carico. Le cartilagini dei dischi interverte-brali si consumano progressivamente e si assottigliano, mentre la strut-tura dei tratti delle ossa coinvolte, pure degenera.

Quali sono le cause dell’artrosi?L’invecchiamento di certo, perché comporta un deterioramento delle strutture articolari, ma l’artrosi non è legata soltanto all’età. Molte perso-ne anziane conservano strutture articolari che funzionano in modo qua-si perfetto. Devono perciò esistere altre condizioni, cioè concause che possono contribuire a scatenare il processo artrosico. La causa primaria dell’artrosi è rappresentata dal fatto che le strutture articolari, in con-seguenza di carichi eccessivi o di posizionature (postura) non idonee, cioè non corrette per periodi di tempo molto lunghi, sono costrette a lavorare male. Questo conduce facilmente a processi degenerativi, cioè all’artrosi.

Chi rischia?L’artrosi compare più facilmente e con maggiore aggressività quando più cause scatenanti si sommano contemporaneamente. Tra queste si possono ricordare: l’obesità, che costringe le articolazioni portanti (co-lonna vertebrale e ginocchia) a sopportare carichi eccessivi; certe malat-tie genetiche (lussazione dell’anca); alterazioni della postura (chi sta a lungo fermo in posizioni sbagliata) chi sta seduto a lungo in modo scor-retto; chi lavorando al computer, deve stare seduto e fermo per molte ore (mantenendo a lungo la stessa posizione, irrigidisce la muscolatura e provoca contratture soprattutto a livello cervicale che si riflettono sulle articolazioni); chi ha subito dei traumi; ecc. Dunque tutte le articolazioni possono essere colpite dall’artrosi e, in particolare, in una colonna ver-tebrale sofferente, il ridotto o non corretto movimento produce atteg-giamenti destinati ad aggravarsi. Le articolazioni, come del resto tutto lo scheletro, svolgono funzioni vitali; di esse, però, ci accorgiamo solo quando cominciano a dolere.

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Bisogna cominciare da giovani a prendersene cura per mantenerle in salute. Il segreto è di non esporle a sforzi eccessivi o a posizioni errate, e questo anzitutto nell’ambito del lavoro, ma anche nel tempo libero. L’at-tività fisica (camminare, nuotare, andare in bicicletta) aiuta a mantenere sane le articolazioni, ma bisogna moderare quelle attività che possono dare sollecitazioni troppo forti alle giunture (tennis, equitazione, moun-tain bike, ecc.).

Quando un’articola-zione intervertebrale, per esempio, è colpita da un processo artro-sico il disco cartilagi-neo si assottiglia, le vertebre si avvicinano e le strutture interpo-ste (nervi compresi) vengono compresse provocando dolore.

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Un addio ad un intimo tabù.A tutti gli uomini può capitare di “fare cilecca”, ma il problema della disfunzione erettile (impotenza) non è più un intimo tabù. Oggi l’uomo non si vergogna di rivolgersi direttamente (o tramite il proprio medico a base) all’andrologo (lo specialista che s’interessa della fisiologia e delle patologie dell’apparato genitale maschile).

Che cosa s’intende per disfunzione di erezione?Per definizione la disfunzione erettile (o più semplicemente “impoten-za”) è l’impossibilità di raggiungere e/o mantenere l’erezione del pene. È un’affezione che coinvolge il 13% della popolazione maschile fra i 18 ed i 65 anni, anche se questi dati sono inferiori alla realtà per evidenti motivi di riservatezza che trattiene il paziente dal parlarne anche con il proprio medico. È comunque un problema che va inevitabilmente a turbare la serenità psicologica di chi ne è colpito e la situazione del “bel paese” non è molto diversa da quella del mondo intero. Le ultime ricer-che rivelano che non c’è diabete, infarto, tumore, ipertensione arteriosa o obesità che tenga: passata la soglia dei 40 anni, l’impotenza diventa il più diffuso disturbo maschile, con il 52% degli uomini che accusa lievi o gravi deficit erettili..

Quali sono le cause delle disfunzioni di erezio-ne?Fino agli anni ’70 si riteneva che la maggior parte delle cause delle defi-cienze erettili fosse dovuta a cause psicologiche... Fra queste si possono ricordare: l’ansia di prestazione per il timore di non essere in grado di soddisfare la partner; senso di colpa o di vergogna per un’educazione molto rigida ricevuta; situazioni di stress o di forte tensione emotiva; problemi di depressione; conflitti sopraggiunti all’interno della coppia per la presa d’atto dell’eventuale inadeguatezza della figura femminile sul piano sessuale; ecc.Oggi, invece, si ritiene che la stragrande maggioranza delle cause delle disfunzioni erettili sia da ricondurre a cause cosidette organiche. Per esempio: cause vascolari, cioè legate a problemi relativi a particolari si-tuazioni dei vasi; cause neurologiche, cioè legati a disturbi delle connes-sioni nervose; lesioni di strutture nervose coinvolte nell’erezione a causa di traumi o di malattie, ecc.Tra le cause organiche della disfunzione erettile è anche la ridotta produ-zione dell’ormone maschile per eccellenza (il testosterone, prodotto nei testicoli); disturbi della tiroide, ecc., quindi cause ormonali.Certi farmaci possono scatenare come effetti collaterali serie disfunzioni erettili. Si possono ricordare alcuni farmaci antipertensivi, (cioè contro la pressione alta), la cimetidina (un’antiulcera oggi assai spesso usato), la finasteride (un antiprostatico), buona parte degli psicofarmaci (com-prese le benzodiazepine), i diuretici, gli antidepressivi, gli stupefacenti

in attEsa dEl “ViaGra”

Nel mondo accade anche questo. I maschi in fila, stanchi ma ordinati, davanti alle farmacie in cui è in vendita il VIAGRA.Le femmine in fila, ma ancora piene di ardo-re, davanti al cinema in cui viene proiettato “Titanic” con Leonar-do Di Caprio.

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in generale e altre droghe (anche leggere). Attenzione dunque ai farmaci nemici del sesso”, ma anche ai vizi (alcol e fumo di sigaretta possono interferire negativamente sul raggiungimento della erezione).Fra le cause, anche se hanno minor rilevanza, possono essere ricordati gli interventi di chirurgia nella regione del bacino; più seria, invece è la cosidetta “induratio penis”, che causa anomale curvature dell’organo in erezione, ecc.Probabilmente le due componenti, psicologica ed organica si integrano e si alimentano a vicenda.E non dimentichiamo quali importanti fattori contribuiscono a determi-nare disturbi di deficienze erettive: l’arteriosclerosi, il colesterolo alto, una glicemia elevata (eccessiva concentrazione di zuccheri nel sangue, caratteristica dei diabetici), ecc.

Per tutti si é cercata una soluzione adattaPer guarire le disfunzioni erettili, fino ad oggi sono stati utilizzati dagli specialisti vari metodi: da diversi farmaci somministrati per bocca, agli ormoni sessuali maschili, ecc. Recentemente in (Svizzera e San Marino) sono entrate in commercio delle microsupposte (“tecnica MUSE”) a base di prostaglandina, che vanno introdotte nell’uretra maschile prima di ogni rapporto sessuale.Gli ultimi ritrovati sono stati i “cerottini” da applicare a livello dell’inguine (a base di sostanze vegetali ad azione vasodilatatrice) i quali, aumen-tando l’afflusso di sangue in zona, dovrebbero aumentare la potenza dell’erezione. Nei casi in cui le varie cure farmacologiche non abbiano dato risultati positivi si é ricorso anche a particolari tecniche chirurgiche che abbiamo visto anche alla TV.Per gli oltre 3 milioni di italiani che hanno problemi di disfunzioni di ere-zione sta tornando il sereno! Esiste un farmaco che sembra dare ottimi risultati e sia in grado di sconfiggere l’impotenza. Potranno tornare tutti (o quasi) novelli “machi”, anche se con l’aiuto della “pillola dell’amore”; Questa pillola é il VIAGRA, già disponibile nelle farmacie dietro presen-tazione della ricetta. Si tratta di un farmaco facile da assumere (non da iniettare localmente poco prima dell’eroica impresa), efficace nell’azio-ne, da usare, però, sotto stretto controllo medico. Questa già mitica pillola contro l’impotenza maschile dovrebbe diventare in breve tempo la medicina più prescritta e venduta nella storia, in concorrenza con la modesta ASPIRINA;

Finalmente la pillola dell’amore!Prima di pretendere di capire come funziona il VIAGRA é bene cercare di capire il meccanismo per cui qualsiasi stimolo sessualmente eccitante induce nell’organismo dei processi chimici che favoriscono l’irrigidimen-to del pene.Il pene contiene zone di tessuto spugnoso che, se si riempie di sangue, aumenta di volume. Se il sangue portato dalle arterie vi entrasse libera-

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mente, ne risulterebbe un’erezione permanente. Per evitare che questo succeda, entrano in gioco alcune sostanze chimiche prodotte dal nostro stesso organismo al momento opportuno. Quando il cervello riceve segnali di eccitazione sessuale libera un neurotrasmettitore, l’ossido di azoto, il quale agisce favorendo e potenziando un’altra sostanza (un enzima), il Gmp, presente solo nel pene, che ha la funzione di fare rilas-sare i corpi cavernosi del pene stesso, consentendo al sangue portato dalle arterie di affluire ad essi determinando l’erezione. Così l’erezione continua fino a quando non viene attivato un’altro enzima, il Pde5, il quale, invece, ha la funzione di stimolare il deflusso del sangue dai corpi cavernosi attraverso determinate vene per mettere fine (ad eiaculazione avvenuta) all’erezione. Il problema degli individui con problemi di di-sfunzioni erettili é che la quantità di Gmp prodotta é insufficiente e viene neutralizzata prima che abbia avuto il tempo di produrre o mantenere l’erezione. È a questo livello che sembra intervenire il VIAGRA: da un lato potenzierebbe il compito del Gmp, dall’altro ostacolerebbe l’azione del Pde 5, facilitando l’irrigidimento del pene ed il mantenimento del-

CUORE

La pillola blu lo protegge

Secondo un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica “New England journal”, il Viagra, la famosa pillola blu prescritta contro i problemi di impotenza, non provoca problemi al cuore. Anzi, sembrerebbe essere in grado di aiu-tarlo.Sempre secondo la ricerca, effettuata dai ricercatori dell’ospedale San Raffaele di Milano, la celebre pillola blu inibisce un enzima, la fosfodiesterasi, che si trova nelle cellule del pene, ma non in quelle del cuore. Proprio per questo mo-tivo, quindi, il Viagra non danneggerebbe il muscolo cardiaco ma, stimolando l’afflusso di sangue al pene, da-rebbe addirittura una mano alla circolazione del sangue e, di conse-guenza, anche al cuore.

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Con l’arrivo della brutta stagione è più facile contrarre infezioni e ma-lattie. Quali sono le difese che il nostro organismo mette in atto? Come e perché si abbassano rendendoci più vulnerabili?

Il sistema immunitario: un esercito di sentinelle. Il nostro organismo è come un fortino protetto da un esercito pronto ad aggredire ogni intruso. Il nostro stato di salute dipende dall’efficienza del suo esercito, che costituisce il cosiddetto “sistema immunitario”. Quando è nel pieno delle sue forze il sistema immunitario ci protegge dall’attacco di virus, di batteri e di parassiti di funghi, che vengono eliminati da “sol-dati” specializzati di quell’esercito microscopico quali sono gli anticorpi ed i globuli bianchi, vere e proprie “sentinelle” della nostra salute. Senza sistema immunitario la vita sarebbe impossibile. L’ambiente in cui vi-viamo, le sostanze che ingeriamo, l’aria che respiriamo non sono sterili. Ogni giorno veniamo a contatto con virus, batteri, funghi, parassiti vari, che normalmente risultano innocui perché vengono subito eliminati dal microscopico esercito prima accennato. Se questo non ci fosse, ogni mi-crorganismo potrebbe provocare infezioni anche molto pericolose per la nostra vita. L’Aids e la leucemia, ad esempio, sono gravi malattie che comportano una progressiva, inarrestabile riduzione delle difese naturali dell’organismo. Sono queste delle patologie molto pericolose e chi ne è colpito contrae infezioni continue e devastanti. Una banale influenza, ad esempio, di solito ben tollerata da tutti, può rappresentare invece per questi ammalati un serio rischio di vita.Questi appena accennati sono casi estremi, certo, e ci sono altre si-tuazioni, spesso solo temporanee, che inducano un calo delle difese naturali del nostro organismo. In queste condizioni si è solo più soggetti a contrarre raffreddori ed altri infezioni che poi, però, con opportuni far-maci o antibiotici (sempre consigliati dal medico) o anche solo un po’ di riposo (soprattutto nei casi di stress) si superano senza conseguenze.In realtà nella difesa del nostro organismo dall’attacco di germi patogeni concorrono tre sistemi strettamente, collegati fra loro e precisamente: il “sistema nervoso”; l’insieme delle ghiandole che riversano gli ormoni da loro prodotti nel sangue (gli ormoni sono delle sostanze che esercitano effetti specifici su organi specifici), cioè il “sistema endocrino”; il “siste-ma immunitario”, mediato dagli anticorpi e dai globuli bianchi portati dal sangue.

Come agisce il sistema immunitario contro i ger-mi patogeni. A difesa del nostro organismo dall’invasione di microrganismi poten-zialmente pericolosi per la nostra salute (agenti patogeni), c’è dunque quell’esercito di specialisti chiamato “sistema immunitario”. Esso com-prende due linee difensive che agiscono in modo combinato: gli anti-corpi e certe cellule presenti nel sangue, i globuli bianchi, che attaccano direttamente l’invasore.

comE difEndiamo la nostra salutE

Senza sistema immunitario la vita sarebbe impossibile.

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Gli anticorpi: una prima linea di difesa.Gli anticorpi sono delle sostanze proteiche che circolano nel sangue. La loro produzione viene stimolata da qualsiasi sostanza estranea che penetri nel nostro organismo. La produzione di anticorpi è quindi da considerare come una reazione ad un’invasione esterna. Qualsiasi so-stanza che, penetrata nel nostro organismo venga da esso riconosciuta estranea a sé stesso (non self), stimola la formazione di anticorpi e viene detta “antigene”. Questa relazione antigene-anticorpo viene considerata come una risposta ad uno stimolo preciso viene detta “risposta immu-nitaria” (immunitaria, perché tende a renderci immuni dalla malattia che l’agente estraneo avrebbe potuto provocare in noi).Contro l’antigene, gli anticorpi agiscono ricoprendo la superficie dell’an-tigene stesso rendendolo così sufficientemente attaccabile da globuli bianchi, cioè da “soldati” della seconda linea di difesa, che sono in grado di inglobare (fagocitare) e digerire residui cellulari e corpi estranei.Gli anticorpi prodotti dal nostro organismo sono altamente specifici, cioè sono in grado di distruggere soltanto quei ben determinati antigeni che li hanno stimolati. Una risposta immunitaria è, pertanto, un mecca-nismo naturale che non danneggia cellule e sostanze diverse dal bersa-glio (infettivo o no) che ha stimolato l’anticorpo.Ma c’è qualcosa in più da sapere sulle meraviglie del corpo umano. In certi casi la risposta immunitaria non solo è altamente specifica, ma di essa viene conservata memoria; memoria che può diventare anche per-manente, cioè durare tutta la vita. Questo significa che dopo una prima infezione l’organismo è in grado di difendersi contro lo stesso nemico, una volta che lo ha riconosciuto. E questo è un traguardo molto impor-tante per il concetto di prevenzione delle malattie infettive: con un vac-cino introduciamo nel nostro organismo delle sostanze (antigeni) che stimolano la produzione di anticorpi in grado di sollecitare o riattivare le nostre difese naturali contro una certa malattia, della quale incontrassi-mo in un secondo tempo il germe scatenante.

I globuli bianchi: una seconda linea di difesaI globuli bianchi sono invece delle vere e proprie cellule. Ne esistono di diversi tipi: linfociti, monociti, granulociti, ecc. Vengono prodotti soprattutto nel midollo osseo, ma anche in altri organi come la milza, il timo, ecc. Hanno una vita che in media si aggira intorno alle 30 ore. At-traverso alcuni particolari strumenti (oggi automatici) si riesce a contare il numero di globuli bianchi per millimetro cubo di sangue (formula leucocitaria), e che, di norma, dovrebbero essere compresi da un mi-nimo di 4mila ad un massimo di lOmila. Dividendone poi i vari tipi, si può capire se: è in atto uno stato infiammatorio; se questo è di origine batterica (aumentano i globuli bianchi e, in particolare un certo tipo di granulociti); oppure tendenzialmente virale (aumentano i linfociti); se si tratta di un’allergia (aumenta un altro tiro di granulociti); oppure di un’in-fezione da parassiti. In particolare, quando i globuli bianchi raggiungono picchi molto elevati (superiori a 3Omila e fino a centinaia di migliaia),

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ci si avvicina all’ambito di certe malattie tumorali (leucemie). I globuli bianchì però possono anche diminuire e questo è indice che il midollo osseo non funziona bene. I globuli bianchi sono dunque da considerare come sentinelle poste a difesa del nostro organismo contro microrga-nismi e sostanze responsabili di eventuali infezioni. E’ durante queste battaglie di difesa che, nella distruzione degli agenti esterni, sì liberano quelle particolari sostanze proteiche, i “pirogeni”, che sono responsabili dell’innalzamento della temperatura del nostro organismo, cioè di stati febbrili.Contando i vari corpuscoli (elementi figurati) del sangue si possono dun-que mettere in luce molte malattie, dalle infezioni alle leucemie.

Il latte materno è già una buona eredità immunologica.E’ importante sapere anche che il latte della mamma, oltre che essere particolarmente nutriente, concorre a proteggere i neonati da infezioni nel periodo in cui il loro sistema immunitario non è ancora in piena at-tività. Succhiando il latte materno dal seno, infatti, il neonato riceve tutti gli anticorpi che la mamma ha prodotto durante gli anni della sua vita. In pratica il piccolo eredita un’esperienza immunologica che di per sé ancora non ha e che nessun latte artificiale a disposizione sul mercato potrebbe fornirgli. Prima di prendere una decisione una mamma deve rendersi conto degli enormi vantaggi che può arrecare alla salute di suo figlio allattando al seno il proprio bambino. E’ infatti così che la mamma può fornire un’ottima premessa, perché da grande il bambino sia dotato di un buon sistema immunitario.

Anche lo stress abbassa le difese naturali.Con l’arrivo della brutta stagione, quando è più facile contrarre, ad esem-pio, l’influenza, è bene sapere quali sono le situazioni che abbassando le difese organiche, rendono il nostro organismo più vulnerabile. Anzitutto è lo stress. Certamente non basta una singola giornata di attività frene-tica, di arrabbiature multiple… per scatenare una condizione di deficit immunitario. E’ invece necessaria una situazione di stress prolungato per qualche mese, durante i quali si sia sotto pressione. Ci si trova allora non solo abbattuti psicologicamente, ma anche fisicamente fragili, spesso a rischio di infezioni, proprio perché le nostre difese risultano meno effi-caci nel contrastare l’attacco di germi patogeni di vario tipo. Attenzione dunque agli stati di stress.

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Nessun individuo è uguale ad un altro.In tutto il mondo, anche ritenendo che esistano più di sei miliardi di indi-vidui, non esistono due esseri umani perfettamente uguali. Differiscono fra loro per il colore della pelle, degli occhi, per tipo di capelli, altezza, per predisposizione a malattie, ecc. Ma la diversità di questi caratteri esteriori, è molto più profonda. E’ scritta nel loro DNA una sostanza chi-mica presente in tutte le loro cellule e che racchiude tutte le istruzioni per costruire una persona dal suo concepimento fino alla morte.

Una carta d’identità scritta sulla punta delle dita.Si cominciò negli ultimi anni del secolo scorso a riconoscere la validità di quelle pieghe cutanee presenti sui polpastrelli delle dita, cioè di “impron-te digitali” come mezzo d’identificazione di ciascun individuo. Ma come ogni altra scoperta, col passare del tempo presentò anch’essa dei punti deboli e delle limitazioni perché le impronte di un individuo disponibili, potevano essere spesso insufficienti, incomplete, confuse per un’esatta identificazione. Così, dopo mezzo secolo di onorato servizio, le impron-te digitali si sono viste insidiate dall’avvento di una nuova scoperta bio-logica e da rivoluzionarie tecniche di indagine ad essa connesse.

Dalla lente d’ingrandimento… alle provette dei laboratori di geneticaLa biologia molecolare, ha permesso un vero e proprio terremoto in vari procedure di investigazione. Perché? Perché la verità è scritta in codice chimico su un’elica: dirimere le dispute di paternità, accertare l’identità di un killer, carpire i segreti di un reperto fossile, trovare una malattia nel nascituro, conoscere la predisposizione di un individuo alla possibilità di ammalarsi di una certa patologia, ecc. Tutto questo è oggi possibile grazie alla scoperta e all’analisi del DNA presente nel nostro patrimonio genetico e che con la riproduzione viene trasmesso da una generazione alla successiva, cioè di padre in figlio. Una scoperta che sta rivoluzionando il sapere e l’attività dell’uomo. Il DNA può fornire oggi dei veri e propri “ritratti ” molecolari di ciascuno di noi. Il nostro DNA può fornire un’impronta inconfondibile di ogni singolo individuo e le sue caratteristiche possono essere identificate fra milioni di persone. Le caratteristiche di un individuo, attraverso un test del suo DNA possono essere scoperte a partire da un suo campione biologico (macchie di sangue, tracce di liquido seminale, frammenti di cute, capelli con radice, ecc.). La sequenza delle indicazioni nel “profilo ” che se ne ottiene, han-no l’aspetto di linee parallele più o meno pronunciate e scure, che si sus-seguono su di un supporto trasparente. In questa semplicità apparente del disegno che si ottiene col test è racchiusa una messe di informazioni ancora inimmaginabili: un uomo è tutto qui. Si lo ha voluto con il suo telecomando: l’Onnipotente prima dei tempi.

d.n.a. il codicE dElla Vita

Tutta la struttura di un uomo è scritta in una molecola, dentro ogni sua cellula. La verità è scritta con un codice chimico su un’elica.

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Ma che cos’è questo DNA?Il nostro corpo si ritiene costituito da 60mila miliardi di piccolissimi mattoni chiamati “cel-lule”. Ogni cellula contiene nella sua parte più interna il “nucleo”, una sostanza chimica chia-mata DNA (dalle iniziali dei componenti della sua lunghissima molecola, l’Acido Desossiri-bo Nucleico). La molecola del DNA, secondo il modello oggi accreditato, si ritiene abbia la forma di una doppia elica arrotolata su se stes-sa. Su questa molecola sono scritte in “codice” tutte le caratteristiche fisiche e biochimiche che costituiscono un individuo (dal colore degli occhi al tipo di capelli, il gruppo sanguigno, alla predisposizione a certe malattie, ecc.) in partico-lare, brevi tratti di DNA costituiscono i “geni”, che rappresentano appun-to quelle unità, quei fattori che sono responsabili delle trasmissione dei caratteri ereditari da una generazione all’altra e che, nel loro complesso, costituiscono il “codice genetico” caratteristico di ciascuno di noi. Il pa-trimonio ereditario che ciascun uomo possiede risulta costituito di circa 100.000 geni e ogni gene rappresenta un’istruzione che viene trasmes-sa di cellula in cellula. A tutt’oggi, però, la scienza conosce soltanto un terzo dei comandi.

La scoperta del “codice della vita”All’inizio del Novecento non si era ancora scoperto che il DNA era la chiave di trasmissione dei caratteri ereditari. Solo nel 1953 gli studiosi cominciarono a capire che il DNA poteva essere considerato materiale genetico (la Genetica è quella scienza che studia il comportamento dei geni). Al momento in cui una cellula si riproduce, il suo DNA fa una copia identica di se stesso in modo che ognuna delle due cellule figlie riceva una copia di DNA identico a quello della cellula madre.

Quando la macchina s’inceppa.Diventò così possibile ritenere che il codice del DNA si trasmetta da una generazione all’altra e che in questa molecola viaggino anche alcune “malattie genetiche”, trasportate da geni anomali che si formano quan-do, per meccanismi ancora sconosciuti, avviene un errore nella duplica-zione del DNA. Alcuni geni, infatti, sono diventati più “celebri”, perché quando si guastano determinano certe malattie (una di queste malattie fra migliaia di altre possibili, è la cosiddetta “distrofia muscolare che colpisce 1-2 soggetti ogni 100.000). Sapere che dal malfunzionamento di un gene dipende una certa affezione, significa poter riconoscere gli individui portatori sani di quella patologia ed effettuare una diagnosi prenatale delle gravidanze a rischio; diventa possibile mettere in atto terapie precoci. Diagnosticare un’ alterazione genetica significa dunque

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accertare la relativa malattia, informare il portatore sano del rischio di trasmissione all’interno della sua famiglia e sorvegliare future gravidanze con visite prenatali.

Le “armi” per sanare i mali del nostro patrimonio ereditario.E’ la terapia genica che si prefigge di restituire al corpo umano la funzio-ne che gli è venuta a mancare, introducendo nelle sue cellule la coppia del gene malato. Le procedure attuali hanno fornito risultati incoraggianti, ma, perché si possa raggiungere l’obbiettivo del controllo delle patologie ereditarie con strategie di questo tipo non è certo dietro l’angolo. Un conto è il progresso della ricerca di base (che si fa nei laboratori) e un’altra cosa l’evoluzione verso l’applicazione clinica sulla realtà del ma-lato. Gli uomini della medicina hanno potuto “conquistare” nuovi geni grazie anche a Telethon, la maratona televisiva con cui si raccolgono fondi per finanziare la ricerca scientifica. In conclusione, le ricerche sul DNA condotte su miliaia di individui appartenenti a popolazioni estetica-mente diverse e geograficamente distanti tra di loro, è stata sorprenden-te: non esistono molte razze, ma una sola razza umana. Al mondo non ci sono razze di uomini, ma solo uomini: uomini simili e diversi.

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Premessa: stiamo solo imparando a leggere il complesso dei nostri geniMentre stiamo leggendo queste righe, i nostri capelli stanno crescendo, anche se impercettibilmente, il nostro sistema immunitario produce an-ticorpi per difenderci da tanti nemici invisibili e, forse, stiamo digerendo. Tutto ciò e molto altro ancora è l’effetto delle istruzioni scritte nei geni (i geni sono delle unità biologiche contenute nei cromosomi delle nostre cellule che permettono di trasmettere i caratteri ereditari), istruzioni tra-dotte nelle proteine che ci sono necessarie per vivere. La somma di tutte queste istruzioni è detto codice genetico ed è paragonabile ad un testo con 3 miliardi di caratteri, qualcosa come 5.000 libri. Libri in prevalenza noiosi, certo, ma con concetti interessantissimi; è là che s’incontrano i 100.000 geni che controllano ogni minimo particolare del nostro orga-nismo, dalla struttura del cervello al colore degli occhi. Ognuno di noi eredita due coppie di geni (quindi di istruzioni genetiche): una copia dal padre e una dalla madre. Per alcuni aspetti prevarranno le istruzioni materne, per altri quelle paterne: da qui nascono le somiglianze di fa-miglia. I nostri geni ci raccontano anzitutto chi siamo o chi sono i nostri genitori: ci parlano dei nostri antenati sempre più lontani, ma anche dei nostri figli e nipoti. Ci raccontano, specialmente, come funzionano gli straordinari meccanismi biologici che fanno di noi degli esseri umani. Il problema, adesso, è impare a leggerli. E’ questo lo scopo del “Progetto genoma umano” è il progetto scientifico più ambizioso dopo quello che permise all’uomo di sbarcare sulla Luna. Non si tratta di rivelare una nuova anatomia, cioè una mappa delle ossa, dei vari organi, dei musco-li, ecc., ma quella delle istruzioni genetiche. E’ una sfida gigantesca che sta mobilitando in tutto il mondo migliaia tra i migliori scienziati, milioni di dollari ed i migliori laboratori di avanguardia. Una volta srotolata la lunga doppia elica del DNA, isolati i geni, scoperte le loro funzioni, sarà possibile individuare quelli difettosi e capire i mali che provocano. Sarà forse possibile, in futuro, sapere fin dalla nascita quanto vivremo, quali malattie ci attendono e a quale età, quali possibilità avranno i nostri figli di ereditare una malattia. Sono interrogativi aperti alla biologia del nuovo millennio. Fin da ora, però è chiaro in realtà che noi non siamo i nostri geni. I geni contribuiscono al nostro destino, ma non sono il nostro destino. I geni, insomma, potranno raccontarci mote cose, ma starà sempre a noi utilizzare al meglio queste informazioni.

Come si eredita una malattiaPurtroppo succede: anche genitori sani possono trasmettere al figlio una malattia ereditaria. A volte per colpa di un unico gene. Nella maggior parte dei casi capita quando i genitori hanno una copia sana ed una difettosa dello stesso gene: loro non sono malati perché la copia sana funziona normalmente, ma se il piccolo eredita sia dall’uno che dall’altra proprio la variante difettosa (cosa che succede in un caso su 4), ecco che la malattia si manifesta. Le più comuni malattie genetiche, si trasmet-

chE cosa ci raccontano i nostri GEni

La probabilità che soffriamo di una certa malattia. Chi è il vero padre di un bambino.Quanti anni ha quella mummia.Chi ha fumato una sigaretta sul luogo del massacro del giudice Falcone? La sorprendenterisposta a questo e ad altre domande sono scritte nel DNA.

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tono proprio così. Per quanto strano possa sembrare, a volte è sufficiente un gene difet-toso trasmesso da una madre sana per gene-rare figli maschi malati: è il caso, per esem-pio, dell’emofilia o della distrofia muscolare di Duchenne, la cui informazione genetica è localizzata sul cromosoma x, cioè su uno dei due cromosomi sessuali.

L’IMPRONTA DEL DNA PER SCOPRIRE UN COLPEVOLEUna traccia di saliva trovata sui mozziconi di sigaretta poco lontani dal luogo dell’esplosio-ne ha tradito gli esecutori della strage di Ca-

paci. Ma gli assassini del giudice Falcone non sono i primi, né saranno gli ultimi ad essere individuati grazie alla tecnica del “DNA fingerprinting” (Impronte digitali del DNA) utilizzata ormai dalle polizie di tutto il mon-do. Basta una minima quantità di materiale biologico (sangue, sperma, capelli, pelle, ecc.) per ricavarne il DNA che, duplicato, può permettere di ottenere l’impronta genetica della persona in questione. Poi, il con-fronto con l’impronta ricavata dal DNA di uno o più indiziati può permet-tere in molti casi di dare un nome al colpevole. A dire il vero, dal punto di vista scientifico il test del DNA può soltanto escludere la colpevolezza di un indagato: se i due DNA sono diversi, certo non è lui il colpevole. Se invece sono identici, l’identificazione è certa solo al 99,9 %, visto che teoricamente si può escludere del tutto che al mondo esista un’altra persona con lo stesso patrimonio genetico. In pratica però, a meno che non esista un gemello identico, le possibilità sono talmente basse da risultare quasi nulle.

PER SCOPRIRE IL PADRE VEROLo stesso metodo è utilizzato anche per indagini di paternità. In ogni bambino è rintracciabile una parte del DNA materno e una parte del DNA paterno. E’ quindi sufficiente confrontare il DNA del piccolo, quello della madre e quello del presunto padre (ammesso che sia disposto a sottoporsi al test), per vedere se i conti tornano. Se il presunto padre non ha lasciato traccia di sé nel piccolo, vuol dire di sicuro che il figlio non è suo. In caso contrario la certezza è quasi assoluta. Anche se non è disponibile il DNA materno e persino se il padre è defunto, ottenere un risultato valido dal test è possibile, anche se più complesso. In quest’ul-timo caso il DNA paterno viene ottenuto con un prelievo dal midollo os-seo del defunto, perché lì risulta meno danneggiato. E non ci sono limiti di tempo per eseguire il test: si può fare anche l’analisi del patrimonio genetico delle mummie o dei fossili.

MA, C’È DA FIDARSI VERAMENTE?Sono veramente attendibili questi test? Pare di si. Per eseguirli si con-

La chiave dell’eredità: la struttura di un uomo è scritta in una mole-cola, il DNA, dentro le sue cellule. Si paragona la moleco-la del DNA ad una dop-pia elica o anche ad una scala di corda con i relativi pioli arrotolata su se stessa.

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frontano sequenze del genoma definite “ipervariabili”. Per ottenere un risultato valido basta il confronto fra 3 di queste sequenze, ma per sicu-rezza se ne paragonano 5.

CANCRO, MALATTIA DEI GENITutte le forme di cancro, pur essendo molto diverse fra di loro, hanno all’origine lo stesso meccanismo: in un’unica cellula si accumulano di-verse alterazioni in più geni (nei tumori più frequenti 5 o 6) che ad un certo momento la fanno moltiplicare incontrollatamente. I geni interes-sati appartengono a due categorie: gli “oncogeni” (che stimolano la pro-liferazione cellulare) e gli “oncosopressori” (che la bloccano). Quando si alterano, i primi rimangono sempre in funzione, i secondi non fun-zionano più. E’ come se la cellula si trovasse con l’acceleratore sempre premuto e senza freni. In questa corsa incontrollata, le alterazioni dei geni diventano decine, centinaia,… Tutto ciò può avvenire in qualsiasi cellula del corpo a causa di radiazioni, agenti chimici (come lo stesso fumo), ecc. Ma raramente succede nelle cellule germinali, cioè negli ovuli e negli spermatozoi che formeranno il patrimonio genetico dei figli. E, infatti, sono una minoranza i tumori che si presentano più volte nella stessa famiglia. Quelli che hanno la sfortuna di ereditare quelle modifi-cazioni genetiche risultano così predisposti a quel tipo di cancro, proprio perché nel loro DNA è già compiuto il primo passo verso la malattia ed è più probabile che col tempo in qualche cellula si compia il resto del percorso.

UNA RACCOMANDAZIONE FINALE, PERÒNon è la conoscenza dei geni che fa paura, ma il modo di arrivarci e come sarà utilizzata. I geni non sono la nostra essenza. Sono soltanto i segni di una realtà che è infinitamente più grande. La scienza non pescherà mai l’infinito e questo “io” che portiamo in questa sacca di geni è infinito. Un tempo, sezionando i corpi, gli scienziati ridevano e dicevano: l’anima non c’è. Sta forse capitando la stessa cosa? Non si deve aver paura della scienza, si deve aver paura degli uomini che pensano di essere prossimi ad aver scoperto la nostra essenza. Ne riparleremo.

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Sono i nostri stupefacenti, ma naturali. Ci rendono di buon umore. Ci aiu-tano di fronte al pericolo facendoci fare una brusca frenata. Ci avvolgono con sensazioni piacevoli se ascoltiamo musica gradita. Ci danno piacere durante un approccio sessuale. Ma ci aiutano anche ad imparare, a ricor-dare. Ci rendono allegri, ci fanno sentire gratificati, ma anche arrabbiati. Insomma, orchestrano il nostro benessere.Eppure, diverse di queste sono soltanto delle sostanze chimiche pro-dotte da cellule nervose, cioè i “neuroni” (ma di una particolare classe), come risposta a stimoli di varia natura come dolore, piacere, un odore, un’immagine seducente, ecc. Queste sostanze entrano poi nei piccoli vasi sanguigni e si diffondono in strutture anche lontane, stimolandole.Sono proprio loro a scatenare nel nostro organismo una sequenza di effetti biologici diversi. Poiché si tratta di veri e propri messaggi chimici che dal cervello portano ordini a tutto il corpo: ai vari organi, alle terminazioni nervose periferiche, ai muscoli, ecc., sono considerate come dei veri e propri “neurotrasmettitori” di ordini. D’altra parte, nei vari distretti del nostro corpo ci sono come delle an-tenne, i “recettori”, capaci di captare il particolare segnale portato da un ben determinato neurotrasmettitore (e soltanto da quello). In particolare alcuni ormoni (neurormoni) prodotti nel cervello, hanno proprio questo ruolo cruciale di neurotrasmettitorri.Le sensazioni che scatenano certe sostanze naturali (come quelle prima citate), possono essere paragonate a quelle di vere e proprie droghe. Droghe benefiche, s’intende, che il nostro organismo produce per equi-librare tutti i processi biologici che lo regolano quando ce ne è necessità. Eccone alcune.

ENDORFINE: il vero oppio del cervello.Sono considerate i neurotrasmettitori del piacere, ma aiutano anche a sopportare il dolore, per cui, per esse si parla di oppio del cervello, ma sono prodotte dal nostro stesso organismo, quindi di un processo bio-logico naturale. I loro effetti, infatti, sono simili a quelli degli oppioidi di sintesi come: eroina, morfina, cannabis, pur non avendo gli stessi effetti collaterali. Sono sostanze prodotte all’interno dell’ipotalamo (una parte del nostro sistema nervoso centrale) ed i loro recettori sono sparsi in tutto l’organismo. Quando ci facciamo male, sono le endorfine che accorrono sul posto per attenuare il dolore. In questo caso funzionano dunque da analgesici.Ci rendono euforici ed innalzano il tono dell’umore. Vengono liberate in grande quantità in occasioni piacevoli, come quando siamo appagati sentimentalmente, durante un rapporto sessuale, quando una partita di calcio risponde alle nostre aspettative, quando ascoltiamo buona musica o mangiamo qualcosa di buono. I massaggi, lo sport, il gioco, il sesso, ecc., determinano una liberazione di endorfine, droghe naturali davvero alla portata di tutti.

il nostro corpo è una fabbrica di droGhE naturali pEr il nostro bEnEssErE

L’adrenalina?Ci tiene all’erta.

Le endorfine?Procurano piacere.

La dopamina? Ci gratifica.

Il testosterone? Ne combinatante…

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SEROTONINA: la chiave del buon umore e del sonno.Ci rendiamo conto dell’importanza di questo neurotrasmettitore quando il nostro benessere si allontana col sonno che se ne va, il ciclo mestruale fa le bizze, l’appetito passa del tutto, la pressione arteriosa sballa. Alterazioni della modulazione della serotonina sono alla base della depressione.

DOPAMINA: è tutto merito suo se ci sentiamo gratificati.Sua è la sensazione di benessere che segue un fatto piacevole, un ottimo pasto o l’ascolto di buona musica. Ma una carenza di dopamina è anche alla base del morbo di Parkinson. Questo neuritrasmettitore (prodotto in alcune zone del cervello) serve a controllare i movimenti fini, quelli appunto che i parkinsoniani, con il loro tremore, non sono in grado di dominare. La dopamina è molto importante perché aiuta l’organismo a rispondere ad uno stress acuto, aumentando la forza delle contrazioni del cuore. Assieme alla serotonina sono i principali regolatori del nostro benessere.

ADRENALINA: un doping naturale.In condizioni di pericolo o di stress, grazie ad una scarica di adrenalina, i nostri sensi diventano più acuti (aumenta la concentrazione e lo stato di all’erta, il battito cardiaco accelera, i capillari si restringono. Risultato? Il nostro organismo è in grado di far fronte a situazioni straordinarie. L’adrenalina è quasi una droga, un doping naturale, ma quando ciò ac-cade spesso, l’organismo ne risulta danneggiato perché insorge insonnia, agitazione, cefalea. Un esempio? Dopo una forte arrabbiatura non è raro che ci venga un gran mal di testa: colpa dell’adrenalina, della noradrena-lina, della dopamina, liberate in quantità.L’andrenalina viene usata in medicina d’urgenza per aiutare l’organismo in situazioni estreme, quali l’arresto cardiaco, lo shock, ecc.

ACETILCOLINA: è il neurotrasmettitore dell’intelligenza.Quando impariamo qualcosa, memorizziamo un numero di telefono, en-tra in gioco l’acetilcolina, che ha un ruolo importante nell’apprendimento. Quando con l’età comincia a scarseggiare, il pensiero s’ingarbuglia e il morbo di Alzeheimer, caratterizzato appunto da carenza di acetilcolina è dietro l’angolo. Poiché non è possibile somministrare questa sostanza, nelle cosiddette “demenze senili”, si cerca di curarle bloccando l’enzima che distrugge l’acetilcolina.

TESTOSTERONE: ne fa combinare di tutti i colori.

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E’ l’ormone maschile per eccellenza, ma svolge importanti ruoli anche a livello cerebrale. Viene prodotto in entrambi i sessi nelle ghiandole surrenali e nell’uomo nei testicoli. Determina l’istinto sessuale, la “grinta”, scatena la libido (cioè il desiderio) sia in lui che in lei,…e ne combina tante altre!Il nostro organismo è dunque veramente saggio. Si conquista ogni istante di vita mantenendo un certo equilibrio fra tutte le componenti e le funzioni che permettono la vita stessa. Non è un sistema che non cambia mai, ma si autoregola, si aggiusta continuamente, istintivamente per permettere a tutte le sue funzioni di operare con la massima efficienza. Al di là di tutto questo, al di là delle componenti biologiche e delle leggi che le regolano nell’organismo dell’uomo c’è qualcosa di più.

Dove agiscono le no-stre drogheIn quali zone del corpo sono attivi i neurotra-smettitori?Ogni sostanza ha cel-lule o organi bersaglio. Eccone una mappa.

DOPAMINA - SEROTONINAsono i principali regolatori delbuon umore e del benessere

ACETILCOLINAha un’importanza strategicaper la memoria e l’apprendimento

GABAaiuta a escludere leinformazioni inutiliper il vostro cervellocome i rumori molesti

CORTISOLOè l’ormoneanti-stress pereccellenza. Aiutal’organismo a farfronte alla faticae alla tensione

ADRENALINAè un neuro-trasmettitore salva-vita. Aiutail cuore in caso diarresto o shock

INSULINAè presente anchenel cervello, e sipensa aiuti aregolare famee senso di sazietà

TESTOSTERONEè una sostanzacapace discatenare la libidosia in lui che in lei

ENDORFINEsono i neuro-trasmettitori delpiacere, ma aiutanoanche a sopportareil dolore

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Alla base di tutti i nostri comportamenti ci sono delle reazioni chimiche che si verificano nel cervello. Queste, sono pertanto responsabili anche della nostra vita sessuale, la sollecitano e determinano quei mutamenti psicologici e fisiologici che la caratterizzano. Le sostanze maggiormente implicate nella nostra attività sessuale sono due neurotrasmettitori (i neurotrasmettitori sono delle sostanze che consentono lo scambio d’in-formazioni fra una cellula nervosa e l’altra) prodotti dalle cellule nervose cerebrali: la “dopamina”, che avendo un’azione eccitante la sprona, e la “serotonina” che, avendo un’azione inibitoria la tiene sotto controllo. Se viene turbato l’equilibrio fra il rilascio di queste due sostanze, si possono verificare mutamenti del comportamento sessuale.E’ quello che accade quando le molecole di certi farmaci (soprattutto se in dosi elevate) interferiscono con quelle prodotte naturalmente dal nostro organismo determinando, anziché piacere, qualche dispiacere, diciamo, “collaterale”.

I tranquillantiSono quei farmaci che sono in grado di influenzare lo stato d’animo e l’umore di una persona. Con la dopamina e la serotonina interagiscono in modo negativo, per esempio, alcuni psicofarmaci “antidepressivi” considerati come tranquillanti maggiori. Questi “neurolettici” frenano lo stimolo eccitante della dopamina per cui si verifica una riduzione del desiderio e, nell’uomo, anche ritardo, o mancanza di orgasmo. Ma non tutti gli antidepressivi hanno lo stesso meccanismo d’azione e, comun-que, le reazioni possibili sono spesso soggettive.Anche gli “ansiolitici”, soprattutto se a base di benzodiazepine, posso-no avere ripercussioni non desiderate. Sebbene le benzodiazepine, se assunte in piccole dosi, riducendo l’ansia, possono aiutare la sessualità predisponendo a prestazioni gratificanti. Ma a dosi elevate fanno calare la libido, cioè il desiderio e, se nel maschio provocare difficoltà di erezio-ne o ritardo nell’orgasmo e nell’eiaculazione, nella donna ne migliorano l’elasticità delle mucose e la loro lubrificazione.

Gli antipertensiviCosì si dicono quei farmaci che vengono utilizzati nella cura della pres-sione alta. Di essi fanno parte: “betabloccanti” (bloccano particolari recettori presenti sulle cellule del cuore e delle arterie di minori dimen-sioni); i calcioantagonisti (bloccano l’afflusso di ioni calcio all’interno delle cellule muscolari delle arterie che, non contraendosi, riducono la resistenza al passaggio del sangue e quindi la pressione); gli “aceinibito-ri” (bloccano l’azione di un enzima sull’angiotensina, una sostanza che fa aumentare la resistenza al flusso del sangue); i “diuretici” (fanno au-mentare la produzione di urina, per cui diminuisce la quantità di sangue circolante ed i valori della pressione vengono così tenuti sotto controllo). Le ultime indicazioni nella cura dell’ipertensione suggeriscono infatti l’impiego contemporaneo di più farmaci che possono essere così som-ministrati a dosi inferiori rispetto al passato, con una drastica riduzione

farmaci nEmici dEll’amorE

Fanno bene alla salute, ma possono deludere il piacere

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degli effetti collaterali, ma in grado di mantenere a bada l’ipertensione.Tutti questi farmaci riducono la pressione arteriosa per cui il sangue, scorrendo più lentamente non arriva ad irrorare a sufficienza i corpi cavernosi del pene, quindi possono determinare difficoltà di erezione. Alcune molecole in essi presenti, agendo sul sistema nervoso centrale, possono in entrambi i sessi inibire il desiderio.

Gli antiprostaticiCerte molecole, contenute in farmaci antiprostatici (contro l’adenoma prostatico) sono in grado di inibire la crescita della prostata (ipertrofia prostatica). La più usata oggi è la “finasteride”.La finasteride è una molecola chimica utilizzata fin dal 1990 nella cura dell’ipertrofia (aumento delle dimensioni) della prostata. Da poco, inve-ce, il farmaco è in commercio con una nuova indicazione terapeutica: contro il più diffuso tipo di caduta dei capelli (alopecia androgenetica). Ma che cosa lega l’ipertrofia prostatica e la perdita dei capelli?Nel nostro organismo è presente un enzima (5 alfa-reduttasi) capace di trasformare l’ormone sessuale maschile, il “testosterone” nella sua versione attiva, il diidrotestosterone. Questo ormone infatti, non solo causa l’ingrossa-mento della prostata, ma è anche responsabile, in particolari situazioni di predisposizione genetica (detta per questo androgenetica), della caduta dei capelli. Ecco perché la finasteride (che poi funziona da anti-ormone) può essere usata, in diversi periodi della vita, in entrambe le patologie. Ma, la finasteride ha effetti collaterali non sempre piacevoli. Infatti, essa provoca: un calo del desiderio sessuale, una riduzione del liquido sper-matico, una riduzione della capacità di eiaculare. E’ vero, comunque che questi eventuali effetti collaterali sulla sessualità sono assolutamente reversibili; scompaiono, cioè, appena sospesa la cura. Può consolare il fatto che la finasteride ha un effetto positivo sui capelli anche a dosi poco elevate (un milligrammo al giorno) rispetto a quelle utilizzate per la cura dell’ipertrofia. (5 milligrammi al giorno).E’ meglio qualche capello in meno o un calo del desiderio sessuale? E’ meglio qualche capello in più e una “signora prostata” più piccola o qualche inadeguatezza nelle performances sessuali?

Gli antiulceraI farmaci antiulcera comprendono diverse categorie secondo il loro par-ticolare meccanismo d’azione. I citoprotettori o protettori delle cellule di barriera, comprendono quelli (come CYTOTEC, GASTROGEL, GLIPTIDE 200, ecc.) che proteggono le pareti dello stomaco. Certi antiacidi, che inibiscono la secrezione di acido cloridrico nello stomaco con mecca-nismi diversi (come RANIDIL, ZANTAC, TAGAMET, CYTOTEC, ANTRA, OMEPRAZOLO, ecc.).Gli effetti collaterali che possono provocare questi farmaci inducono qualche rischio sulla sessualità: la “cimetidina”, in particolare ma non gli

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altri farmaci, può determinare temporaneamente una diminuzione del desiderio, impotenza, aumento delle ghiandole mammarie). Questo non sembra invece accadere per gli antiulcera contenenti “omeprazolo”.

Altri nemici insospettabiliL’acido acetilsalicilico (la comune ASPIRINA). Solitamente usato come antipiretico, antalgico, antinfiammatorio nelle forme reumatiche, ecc. questo farmaco è in realtà uno dei nemici in agguato della sessualità.L’acido acetilsalicilico blocca la sintesi delle “prostaglandine” presenti nel liquido seminale e che hanno una importanza rilevante nell’attività erotica, perché: favoriscono l’azione di certi ormoni, aiutano la vasodi-latazione arteriosa facilitando l’erezione, mentre riducono quella veno-sa rallentando il deflusso del sangue dal pene. Inoltre la momentanea carenza di prostaglandine inibirebbe anche la produzione di “ossido nitrico”, potente vasodilatatore che agisce a livello dei corpi cavernosi, provocando un deficit erettile.

I farmaci anticolesteroloLa “sinvastatina” è un farmaco, che riduce i grassi presenti nel sangue e, in particolare il colesterolo. La sinvastatina, interferirebbe con la pro-duzione di testosterone (il più importante ormone sessuale) riducendolo ad un’altra forma, con conseguente calo di desiderio e, nel maschio, difficoltà erettili.Nessuna preoccupazione, però, perché i citati effetti collaterali sulla ses-sualità di: tranquillanti leggeri, antipertensivi, antiprostatici, antiulcera, aspirina, e farmaci anticolesterolo scompaiono non appena lo si desidera. Basta sopenderne l’assunzione, ma in questo caso viene poi a mancare la rispettiva azione farmacologica fondamentale.

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La lotta fra agenti patogeni ed il nostro organi-smo è totale.Ogni volta che una nazione mette a punto una nuova arma, subito una nazione avversaria escogita una contromossa. Le lance e le spade, per esempio, hanno dato origine agli scudi ed alle varie armature, mentre il bombardiere Stealth è stata la risposta alle difese radar. Allo stesso modo, una tecnica di caccia acquisita può essere vanificata da una maggiore capacità di difendersi della preda o da un altro adattamento difensivo, che a sua volta sarà reso vano dalle contromisure dei preda-tori. Se, per esempio, le volpi cominciano a correre più veloci, si sele-zionano (quindi sopravvivono e possono riprodursi), mentre i conigli fuggono ancora più rapidi. Predatori e preda evolvono quindi insieme, in un ciclo di crescente complessità. Come le lotte tra predatore e preda, così le guerre tra ospiti (noi) e agenti patogeni, rappresentano parte di una corsa agli armamenti sempre più ampia, che determina la nascita di armi e di difese biologiche estremamente complesse. Proprio come le potenze politiche che dedicano spese ed energie enormi per non es-sere sopraffatte dagli avversari, così ospiti e parassiti (per mantenere costante il livello di adattamento reciproco) devono evolversi entrambi il più velocemente possibile. Viene però il momento in cui la spesa per la corsa agli armamenti diventa tanto consistente che l’organismo (politico o biologico che sia) si trova in difficoltà a fronteggiare altre necessita di base. Ma, la lotta contro gli agenti patogeni è inesorabile e tale per cui non è possibile raggiungere un compromesso accettabile. Né i nostri mi-croscopici nemici tengono conto dei meriti o dell’importanza dell’indivi-duo. L’analogia fra la corsa agli armamenti e la coevoluzione tra ospiti e agenti patogeni (i germi) non è però perfetta. Le grandi potenze politiche possono progettare nuove armi, collaudare modelli e prototipi; possono pianificare razionalmente i loro traguardi e ricominciare tutto da capo se qualcosa non va bene. Nell’ambito dell’evoluzione naturale, invece, non riusciamo a concepire dei centri studi (se non nella mente di Colui che ha creato il mondo) in cui sia stata progettata un’evoluzione. Non potremo mai noi uomini conoscere i progetti che contribuiscono all’evo-luzione. Un passaggio, però, sembra acquisito: l’evoluzione procede per tentativi ed errori.

I batteri si possono evolvere in un giorno più di quanto possiamo fare noi in 1.000 anni.E’ necessaria una premessa. I biologi hanno già descritto ben più di un milione di specie di organismi viventi ed ogni giorno se ne scoprono di nuove. Ciascun organismo vive in un certo ambiente al quale risulta adattato. Nel corso di successive generazioni possono verificarsi pro-fonde modificazioni in una popolazione in seguito alle quali compaiono caratteri nuovi (che poi trasmettono per eredità), altri ancora mutano, o scompaiono; possono scomparire certe specie, mentre altre nuove ap-paiono al posto di quelle che si sono estinte. Per evoluzione, s’intende

anchE in bioloGia c’è una corsa inintErrotta aGli armamEnti

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appunto, l’incessante serie di trasformazioni a cui sono andati e vanno incontro da miliardi di anni gli esseri viventi. Molti biologi (fino alla ge-nerazione precedente la mia) ritenevano che ospiti e germi patogeni si trovassero in uno stato di lento cambiamento evolutivo verso una tacita cooperazione in una specie di equilibrio pressoché stabile, attraverso compromessi di velocità di crescita, di competizione e attività difensive. Proprio negli anni di corso dei miei studi biologici, questa concezione si è pian piano rivelata irrealistica. Cambiamenti evolutivi possono avveni-re in un anno, o anche in una settimana: i germi patogeni, ad esempio, si riproducono molto velocemente ed evolvono con altrettanta rapidità; alcune delle nostre difese contro le malattie, invece, si sono evolute negli ultimi 10.000 anni (cioè nel succedersi di circa 300 generazioni). Negli ultimi secoli (ovvero circa nell’arco di una dozzina di generazioni) la specie umana ha evoluto una maggiore resistenza ad alcune malattie epidemiche, come il vaiolo, la tubercolosi, ecc. Poiché per il succedersi di trecento generazioni batteriche occorrono solo una o due settimane (e ancora più velocemente si riproducono i virus) possiamo dire che i bat-teri possono evolversi in un giorno più di quanto possiamo evolvere noi in mille anni. E, questo è un handicap ingiusto e grave nella corsa agli armamenti biologici.

Non possiamo evolvere abbastanza veloce-mente da sfuggire ai microrganismi. Perché? Perché un individuo, il nostro organismo, può opporsi ai cam-biamenti evolutivi di un agente patogeno solo modificando i rapporti dei vari tipi di cellule che costituiscono il nostro sistema immunitario, cioè delle cellule che producono gli anticorpi. Per fortuna, però, il numero e la diversità di queste fabbriche di armi sono enormi e compensano al-meno in parte il grande vantaggio evolutivo dei microrganismi patogeni. Questi, però, hanno anche altri vantaggi: le loro piccole dimensioni ed in particolare il loro numero. Basti pensare che ognuno di noi porta in giro (soprattutto nell’apparato digerente ed in quello respiratorio) cellule bat-teriche in numero superiore a quello dell’intera popolazione del pianeta. Queste cifre enormi fanno si che si verifichino con notevole frequenza delle mutazioni che possono conferire al ceppo batterico prima un pic-colo vantaggio che finirà per prevalere numericamente.

L’era degli antibiotici, un’altra età dell’oro di bre-ve durata? Il più grande progresso avvenuto in campo medico in questo secolo (e uno dei maggiori in tutti i tempi), è stato probabilmente la scoperta che una sostanza (una tossina) prodotta da un fungo poteva uccidere i batteri che provocano malattie nell’uomo. L’era degli antibiotici cominciò infatti solo nel 1929, quando Alexander Fleming notò che i batteri che stava allevando non si sviluppavano bene quando si trovavano in prossimità di colonie di un fungo “Penicillum”. Questo era in grado di produrre del-

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le sostanze chiamate successivamente “antibiotici”. Gli antibiotici sono armi chimiche evolute da funghi e batteri per proteggersi da altri agenti per loro patogeni e competitori. Si sono formati attraverso milioni di anni di selezione per tentativi ed errori, così da sfruttare la vulnerabilità di specie batteriche, ma non di essere tossici per i funghi. Un’ampia varietà di prodotti batterici e fungini innocui per la salute delle persone possono uccidere batteri che causano, ad esempio, la tubercolosi, la polmonite, ed altre infezioni. Per molti decenni questi antibiotici hanno regalato alle società economicamente avanzate “un’età dell’oro” liberandole dalle malattie batteriche, al punto che ci si sentiva autorizzati ad annunciare che era tempo di chiudere il capitolo delle malattie infettive. Come altre età dell’oro, anche questa è stata di breve durata. Batteri pericolosi, so-prattutto quelli che causano tubercolosi e gonorrea, sono ora più difficili da controllare di appena dieci anni o venti anni fa. I batteri hanno evoluto difese contro gli antibiotici, proprio come ne hanno sviluppate contro le difese naturali nostre e dei funghi durante la storia dell’evoluzione della vita sulla Terra. La situazione potrebbe diventare identica a quella che era prima della scoperta degli antibiotici. I progressi della medicina, le vaccinazioni di massa, l’educazione all’igiene: la guerra contro virus e batteri sembrava vinta. C’eravamo sbagliati. Se quelli vecchi sono sem-pre in agguato, nuovi e letali microrganismi fanno ora la loro comparsa. Insomma: contro questi avversari, guai abbassare la guardia.

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Che cosa sono le arterie e come sono fatte.Sono dei tubi, dei “vasi conduttori” che portano sangue ossigenato ed altre sostanze indispensabili alla vita a tutti gli organi del nostro corpo, dal cuore alla periferia. Il sangue, scorrendo all’interno di questi tubi, incontra sempre una certa resistenza variabile secondo il volume tra-sportato, ma anche del grado di costrizione o di dilatazione delle arterie. Stringendosi e allargandosi, le arterie modificano il valore della pressio-ne sanguigna che si genera al loro interno e quindi spingono il sangue ossigenato in modo diverso secondo la necessità dei vari organi. Nessun scienziato o ingegnere al mondo è ancora riuscito a creare artificialmente un sistema idraulico capace di adattarsi in tempi così rapidi alle diverse situazioni (come appunto, stare in piedi, correre, dormire, arrabbiarsi, aspettare un bambino, ecc.). La contropartita a tutto questo è che sono tubi con un certo grado di fragilità. Pertanto, quando cominciano a non funzionare bene, perché s’inceppa qualche loro meccanismo deputato a farle stringere o dilatare, si creano problemi piuttosto complessi.Le arterie hanno una parete spessa, con fibre muscolari lisce, fibre elasti-che e sono tappezzate internamente da una sottile membrana, chiamata endotelio. E grazie alla loro elasticità, le arterie si dilatano in seguito all’onda di sangue che arriva dal cuore quando si contrae e subito dopo riprendono il loro calibro iniziale, concorrendo a spingere in avanti il sangue.

Le arterie ed il tempo. I possibili problemi.Il tempo è il primo fattore che concorre a ridurre l’efficienza delle arterie. Le arterie dei giovani sono più elastiche, obbediscono meglio ai coman-di che ricevano, ma nel corso della vita modificano la loro struttura e va in crisi il sistema d’informazione.Perdono elasticità. La componente elastica della parete delle arterie nel corso degli anni viene sostituita da un tessuto meno elastico. I tubi diventano più rigidi, perdono a poco a poco la capacità di adattarsi alla forza della pressione interno del sangue, il che fa aumentare a sua volta il valore della pressione arteriosa. Il processo di irrigidimento arterioso può riguardare tutte le arterie. La perdita di elasticità delle arterie è uno dei principali fattori dell’ipertensione della terza età.Si ostruiscono. Il concetto di ostruzione arteriosa è semplice: se un si-stema di distribuzione si occlude, ne consegue un’interruzione della di-stribuzione. Nessun organo è in grado di vivere senza l’apporto continuo di sangue ossigenato. Se, per esempio, si ostruisce un’arteria coronarica si rischia l’infarto del cuore (cioè la morte di parte di quest’organo); se succede ad un’arteria del cervello, si ha in tempi veloci un infarto ce-rebrale; se si occlude un’arteria di un arto, ne morirà la zona non più irrorata dal sangue.L’occlusione di un’arteria può essere un processo acuto oppure un pro-cesso lento. Le occlusioni acute, sono quelle improvvise, sono sempre emergenze mediche ed occorre il ricovero immediato al pronto soccor-so e l’intervento d’urgenza per una disostruzione. Nelle occlusioni lente,

tEniamo puliti i nostri piccoli tubi: lE artEriE

Perdono elasticità, s’irrigidiscono pro-vocando iperten-sione, arterioscle-rosi, invecchiano, s’infiammano,degenerano, pos-sono ostruirsi,causando la mor-te dell’organo da esse nutrito, de-formarsi (aneuri-sma), rompersi portando emorra-gie interne,…

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invece, il lume dell’arteria non si occlude improvvisamente del tutto, ma progressivamente nel tempo, per cui la persona colpita non si accorge del processo di occlusione e spesso ricorre al pronto intervento quando la malattia è ad uno stadio più avanzato.Una persona, superati i 50 anni di età, dovrebbe preoccuparsi di con-trollare periodicamente (una volta all’anno) le condizioni delle proprie arterie. Fino al 50% di occlusione, il fiume di sangue non si riduce, per cui non compaiono sintomi. Quando l’ostruzione raggiunge il 60-70%, il pericolo cresce. Le occlusioni lente di cui non ci si accorge, comportano quindi un rischio di occlusione acuta.

Che cosa ostruisce le arterie?Una premessa. Quando il sangue esce dai vasi nei quali scorre, tende a coagulare, cioè la parte solida di cui è costituito (globuli rossi, globuli bianchi e piastrine) si rapprende in una massa solida, il coagulo appun-to, che blocca l’uscita di altro sangue nel tentativo di riparare il danno subìto. La coagulazione è un processo di difesa spontanea del nostro or-ganismo. In condizioni particolari, però, il sangue può coagulare anche all’interno dei vasi conduttori contribuendo a determinarne il restringi-mento o l’occlusione completa, con conseguenze anche gravi. In genere un’arteria può venire occlusa da un trombo o dal concorso di placche.

Le occlusioni acute.Le occlusioni acute, cioè improvvise delle arterie, sono fondamental-mente legate ad un embolo. Si dice embolo qualsiasi corpo circolante nelle arterie, che finisce per incontrare una diramazione del vaso con un diametro inferiore alle sue dimensioni per cui l’occlude. Un embolo è quasi sempre costituito da un coagulo di sangue. Un embolo costituito da coaguli di sangue, viene chiamato trombo.All’interno dei vasi, il sangue può coagulare a causa di molte condizioni anomale: quando ristagna o rallenta il suo cammino, quando sono già presenti ostruzioni, restringimenti o in punti in cui le pareti di un’arteria sono lese o infiammate, ecc. I trombi, cioè i coaguli di sangue, spesso si formano all’interno delle arterie per rimediare qualche processo anoma-lo ed hanno quindi di per sé un’innegabile funzione protettiva.I trombi, questi grumi di sangue coagulato, rimangono per lo più attac-cati alle pareti delle arterie, ma può accadere che il trombo si stacchi da questa posizione innocua e cominci un viaggio pericoloso attraverso il sistema arterioso fino ad incontrare arterie con un lume più piccolo. A questo punto si determina un’occlusione. Per esempio, un trombo che si forma in una vena di una gamba a causa di una grave flebite, può essere la causa dell’ostruzione di un’arteria polmonare.

Le occlusioni lente.

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Le occlusioni lente dell’arteria, si pensa siano invece essenzialmente in relazione con un processo di accumulo sulle pareti di questi vasi di plac-che formate da grasso, colesterolo ed altre sostanze, cioè al processo aterosclerotico.Le arterie tendono a “consumarsi” per il violento scorrere in esse del sangue. Il loro strato interno, l’endotelio, più sollecitato del normale, può lesionarsi con maggiore facilità, diventando un punto di facile “adesio-ne” da parte di piastrine (elementi del sangue che hanno la funzione di riparare le ferite, contribuendo alla coagulazione del sangue), colesterolo ed altro. Ne consegue la formazione di placche arterosclerotiche, le quali a poco a poco possono ridurre il passaggio del sangue nel vaso fino ad ostruirlo. Frammenti di coaguli di sangue possono staccarsi dalle pareti di un’arteria ed iniziare il loro viaggio all’interno dell’apparato circolatorio con il rischio di creare delle occlusioni. Coagulo, embolo, trombo, plac-che, che confusione! No: coagulo è un tappo che si forma naturalmente all’interno di un vaso per riparare un danno subìto; embolo, è un corpo che circola nei vasi; un trombo, è un embolo costituito da coaguli di san-gue. Coagulo, embolo, trombo sono tutte manifestazioni legate al pro-cesso di coagulazione del sangue. In particolare, trombi ed emboli, sono indici di condizioni di uno stato di non buona salute e possono essere possibile causa di infarto del miocardio, di ictus, di embolia polmonare, ecc. ma con effetti molto diversi.

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La colonnina di mercurio va ancora su e giù. La temperatura è mite di giorno e verso sera si sentono le prime avvisaglie della stagione fredda. Compaiono i primi raffreddori e malesseri, ma non ci si vuole abituare all’inverno che arriva. Tutti avver-tiamo le brusche variazioni climatiche, ma un certo numero di persone sono interes-sate da disagi subdoli, difficili da ricono-scere con chiarezza e che sembrano avere in sè qualcosa di misterioso. Le variazioni climatiche non influiscono soltanto sugli

stati d’animo o sul sistema nervoso . Tutto l’organismo ne risente: mal di testa, dolori alle articolazioni, senso di vertigine, insonnia, palpitazioni sono solo alcuni dei segni di malessere che compaiono in concomitanza ai cambiamenti delle condizioni atmosferiche. E’ ormai noto ed accer-tato che variazioni di temperatura, umidità, vento possono influire sulla salute, causando veri e propri disturbi chiamati “meteoropatie” Queste si presentano soltanto in condizioni climatiche particolari, colpiscono persone particolarmente sensibili alle variazioni meteorologiche improv-vise, scompaiono poi da sole non appena questo evento meteorologico si risolve.Le persone “meteoropatiche”, cioè meteorosensibili, hanno caratteristi-che fisiche e psicologiche comuni: in genere sono persone ansiose, ipe-reccitabili ed estremamente emotive. Oppure individui che, per fattori costituzionali o acquisti, sviluppano particolari reattività nei confronti del tempo.

Perché siamo dei meteoropatie?I malesseri che compaiono con i bruschi squilibri atmosferici (talora ba-sta un temporale, una nevicata, un forte vento di scirocco o di föhn, ecc.) e che poi, come dicevo, scompaiono da soli, non sono vere e proprie malattie. Gran parte di questi malesseri è di origine psicosomatica. Chi soffre di “male di tempo” sta male perché ha una particolare sensibilità emotiva di fronte a condizioni esterne poco favorevoli. La meteoropatia è la manifestazione di uno squilibrio del “tempo interiore”. Cioè i cicli biologici interni reagiscono male al tempo brutto, perché non sono in sintonia con l’ambiente esterno che ci circonda. Talora, tuttavia, le varia-zioni climatiche accentuano i sintomi di un distrbo preesistente. Ne é un esempio l’acutizzazione dei dolori avvertiti da chi soffre di reumatismi o artrosi, prima dell’arrivo di pioggia, freddo o umidità.Ci sono, però, anche delle malattie vere e proprie che risentono del tem-po. I disturbi circolatori, ad esempio, peggiorano con il freddo, perché l’azione vasocostrittrice di questo fattore riduce l’apporto di sangue ai vari tessuti. Troppa umidità associata al caldo, invece, può costare crisi di asma e peggiorare bronchiti croniche, provocando affanno e difficoltà respiratorie. Chi soffre di calcolosi (renale, del fegato e della colecisti) ha

Quando cambia il tEmpo.... lE mEtEoropatiE

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più probabilità di avere coliche quando c’é il vento, sopratutto lo sciroc-co. Chi soffre di disturbi cardiaci come angina pectoris (malattia dovuta ad una diminuzione del flussi di sangue al cuore) può provare il riacutiz-zarsi dei caratteristici dolori al petto e al braccio sinistro in concomitanza con il freddo intenso. Gli ipotesi e gli ipertesi, ad esempio, devono guar-darsi dal calore eccesivo, dall’umidità, dal föhn, che possono provocare sbalzi della pressione arteriosa.

Le cause delle meteoropatie.Le cause delle meteoropatie non sono ancora state completamente accertate: non si conoscono, cioè tutti i motivi per cui alcune persone reagiscono negativamente ai bruschi squilibri atmosferici. Così come non è chiaro il meccanismo che provoca questo insieme di disturbi. Un fatto, però, è certo: ci sono realmente persone ipersensibili al tempo e che questa ipersensibilità scateni disagi in grado di compromettere il loro benessere psico-fisico. Le persone meteoropatiche hanno caratteristiche fisiche e psicologiche comuni. In genere sono persone ansiose, ipereccitabili ed estremamen-te emotive. Sono persone che per fattori costituzionali sviluppano una particolare reatività nei confronti del tempo. Certo molto importanti sono: l’età e le condizioni psicologiche indivi-duali. Anche le persone debilitate, i convalescenti o chi vive in condizioni particolari di stress psico-fisico, risultano maggiormente predisposti a sviluppare meteoropatie, perchè il loro fisico è indebolito e le loro capa-cità di adattamento sono alquanto ridotte.

Secondo alcuni studi: tutta la colpa è degli ioni.Certi disturbi meteoropatici sarebbero dovuti sopratutto al fatto che il vento, specialmente quello molto forte avrebbe un’ azione “ionizzante” nell’aria ed altererebbe così l’equilibrio elet-trostatico delle persone. Mi spiego: l’aria è costituita di gas; i gas sono materia; tutta la materia è fatta di molecole e queste,a loro volta, di atomi. Gli atomi sono costituiti da particelle cariche di elettricità positiva e ne-gativa, ma nel complesso e in condizioni normali un atomo appare elettricamente neutro. Tuttavia, in particolari condizioni, un atomo può perdere o acquistare una o più cariche negative periferiche. Un atomo che ha perso o acquistato una o più particelle periferiche non è più un “atomo”, è un ato-mo ionizzato, è uno “ione”. In particolare: se ha perso una o più delle sue cariche ne-gative esterne si considera uno ione positi-vo (in quanto, come atomo era prima per definizione elettricamente neutro); se invece

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ha acquistato una o più cariche negative, si considera uno ione negati-vo. Gli ioni negativi avrebbero effetti benefici sull’uomo, gli ioni positivi provocherebbero sul nostro organismo gli effetti spiacevoli prima con-siderati.

Attenti a questo o a quel vento, dunque.Il vento è stato a lungo un fenomeno misterioso e potente. Forte e po-tente come un dio. Oggi se ne conoscono tutti i meccanismi fisici che lo provocano, ma restano incerte alcune delle ragioni che lo rendono così influente sull’umore e sugli stati d’animo.Che cos’è e come nasce un vento? Il vento è una massa d’aria in moto, una pura e semplice corrente di aria. Nell’atmosfera l’aria si dirige dalle zone di alta pressione (+), verso zone di bassa pressione (-). Questo spostamento si chiama vento. L’esistenza del vento ha dunque un’unica funzione: ristabilire l’equilibrio fra zone a diversa pressione. Quanto più le differenze sono marcate, tanto più la corrente che si genera, cioè il vento, è forte. Oggi i venti hanno perso i loro nomi tradizionali , ma per identificarli basta sapere da dove arrivano.

Un disturbo per ciascun vento.• Indolenti con lo Scirocco. Lo scirocco è un vento afoso (caldo umido) proveniente dall’Africa ed in particolare dal Sahara. Provoca indolenze ed irritabilità. Nei giorni in cui soffia questo vento peggiora tutti i com-portamenti nevrotici ed il cielo diventa lattiginoso.• Attenti ai bronchi con la Tramontana. La tramontana è un vento del nord, freddo e secco. Nocivo per le persone affette da bronchiti e da malattie polmonari. Ha un effetto vasocostrittore e moltiplica il rischio di infarti per chi ha problemi di circolazione.• Mal di testa con il Libeccio. É un vento del sud-ovest che soffia quasi sempre a raffiche. É un vento caldo, umido e può presentarsi con estre-ma violenza. Con il libeccio arrivano: mal di testa, sensazioni di man-canza di respiro, eccitabilità. Peggiora inoltre l’asma provocando crisi ripetute; i bambini sono molto agitati.• Reumatismi con il Ponentino. E’ un vento che proviene dall’ ovest, moderatamente fresco. Una specie di brezza “malandrina” che si alza verso sera e stimola ardue imprese, ma d’inverno si carica di umidità ed accentua i reumatismi.• Con il Föhn si diventa ansiosi. Spira da nord-ovest sopratutto sulle Alpi Occidentali e, dopo averle scavalcate, arriva asciutto e caldo sulle Val Padana. É un vento carico di ioni positivi, provoca emicrania nausea ed irritabilità.

La scienza sta studiando come curare le meteoropatieI rimedi e le cure contro i “mali di tempo” sono ancora sperimentali e non sono disponibili. É bene comunque rivolgersi al proprio medico

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curante per stabilire ogni eventuale intervento. Per rendere l’organismo meno reattivo verso i mutamenti climatici, può infatti essere utile, ad esempio, tenere sotto controllo l’ansia con calmanti ansiolitici molto leggeri. Per mitigare i sintomi il medico potrebbe servirsi di farmaci an-che più specifici (analgesici nelle emicranie, antinfiammatori per i dolori muscolari, ecc.). Potrebbe consigliare d’installare in casa un “ionizza-tore”, cioè un apparecchio che allevia i disagi dovuti a meteoropatie da temporale e vento. É infatti, un apparecchio che arricchisce l’aria di ioni negativi. E’ stato dimostrato che la presenza di ionizzatori, per esempio nelle palestre, è in grado di migliorare le prestazioni fisiche e ridurre il senso di affaticamento.

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Che cos’è il dolore.È una sensazione sgradevole di sofferenza dagli aspetti più svariati. Ogni persona prima o poi ne è colpita. Lo si prova al momento della nascita e poi lo “incontra”, magari solo per un attimo, quasi ogni giorno per tutta la vita. Nonostante questa assidua presenza nell’esistenza di qualsiasi persona, il dolore resta ancora qualcosa dì misterioso, una esperienza difficilmente definibile che riguarda il singolo individuo . Il dolore non è la semplice risposta ad uno stimolo fisico dannoso per una parte del nostro corpo, ma è 1a presa di coscienza di questo stimolo, di questa informazione da parte di determinate aree del cervello. Sconfiggere que-sto terribile compagno di vita è il compito più antico che la medicina si sta trovata ad affrontare

Come si percepisce il dolore ?E’ un messaggio complesso. Il messaggio do1oroso (provocato, ad esempio, dalla punta di uno spillo) parte dai “recettori periferici”. I re-cettori periferici sono dei microscopici “sensori” (che appartengono al sistema nervoso periferico), situati nella pelle ed in altri tessuti del cor-po. Questi recettori periferici hanno la caratteristica di essere eccitati in modo selettivo da stimoli che possono produrre (o di fatto producono lesioni vere e proprie ai tessuti stessi. Il messaggio doloroso, attraverso fibre nervose arriva al midollo spinale e da qui raggiunge il cervello, dove viene decodificato e quindi percepito.

Il midollo elabora il messaggio doloroso.Nel midollo spinale il messaggio doloroso subisce una certa elaborazio-ne. Infatti, questo tratto del percorso non è, come si potrebbe pensare una semplice linea di passaggio, come lo può essere una linea elettrica fra il punto d’entrata (il recettore) ed il punto d’arrivo (il cervello); c’è tutto un complesso ed in gran parte ancora sconosciuto processo di ela-borazione del segnale stesso. Questa elaborazione avviene come se nel midollo spinale esistesse una sorta di “cancello” che seleziona la quan-tità ed anche (in parte) l’intensità degli stimoli che arrivano dai recettori periferici, mantenendoli bilanciati. In realtà, lungo questo percorso nel midollo spinale verso il cervello, il segnale di dolore viene via via elabo-rato e modulato.Ma la via del dolore non è a senso unico: c’è sì un’andata, ma c’è anche una via discendente, una via di ritorno. Di questa via del ritorno, però, si sa poco. Probabilmente intervengono sostanze ad effetto antidolorifico o nar-cotico, come le “endorfine”. Le endorfine sono una sorta di “morfine” che vengono prodotto dal nostro organismo e alleviano il dolore. Oltre a questo effetto analgesico, sono coinvolte nel controllo della risposta dell’organismo allo stress e nella determinazione dell’umore, per cui vengono considerate un vero “oppio naturale” del cervello.

il dolorE. sua oriGinE E suE tErapiE

Il dolore comuni-ca al cervello che qualcosa non va, ma una volta sco-pertane la causa, diventa inutile eva combattuto. Sconfiggere questo terribile compagno di vita è il compito più antico che la medicina si sia tro-vata ad affrontare.

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La presa di coscienza del dolore avviene neI cervello.In qualsiasi parte del nostro corpo stia accadendo qualcosa di nocivo, quindi nasca un messaggio doloroso, attraverso una successione di fibre nervose esso segue sempre la stessa strada: percorre il midollo spinale (dove viene modulato) e raggiunge il cervello (dove viene decodificato,

interpretato, quindi percepito). Il dolore infatti, si considera come la presa di coscienza di un’informazione fisica che qualcosa di nocivo sta accadendo in qualche parte del nostro corpo. Il cervello funziona proprio come una centralina che decodifica ed elabora ulteriormente gli stimoli dolorosi, li localizza definitivamente ed attiva la risposta più adatta.

Il dolore non va visto soltanto come un nemico.Il dolore comunque è un segnale che comunica al cervello che qualcosa in qualche punto del nostro organismo non va. È un campanello d’allar-me che avverte l’organismo di un pericolo suscitando una reazione di-fensiva (per esempio di allontanare la mano dal fuoco per non scottarsi). Primo segreto per sconfiggere il segnale doloroso è capire il messaggio che ha voluto inviare. Capirne l’origine è fondamentale per formulare una diagnosi perfetta. Fatto questo, il dolore perde la sua funzione (in-formativa) e diventa un nemico che va combattuto.

Mai sottovalutare dolori lievi che persistono a lun-go.Non è detto che il dolore nasconda sempre presenza di una malattia; talvolta, anche le persone sane possono avvertire una sensazione di sof-ferenza passeggera (dolore alle tempie, una fitta intercostale, ecc.). Più spesso sono dolori che presto scompaiono senza lasciare traccia e non devono preoccupare. Non si devono invece mai sottovalutare dolori, anche di lieve intensità, che persistono a lungo. In questi casi il dolore non rappresenta un sintomo, un campanello d’allarme, ma diventa esso stesso malattia.Più difficili da individuare sono invece i dolori viscerali, causati da un’in-fiammazione di un organo interno che possono arrivare a modificare il respiro, la sudorazione, la pressione del sangue, il battito cardiaco, ecc. Per capire la loro origine il medico utilizza esami specifici come ad esem-pio, le radiografie, l’ecografia,

la TAC, la Risonanza magnetica nucleare,

la scintigrafia, ecc. Soltanto dopo averne capito l’origine, il dolore viene eliminato con le armi che rimuovino la sofferenza e curino la malattia che lo ha provocato.

Terapia del dolore.I farmaci in grado di alleviare i sistemi dolorosi che svelano la presenza di uno stato patologico di una determinata zona del nostro corpo, ven-gono chiamati “analgesici”. Poiché è meglio intervenire sulla malattia

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che sui sintomi, l’uso degli, antidolorifici (analgesici) deve solo essere un preludio ad una cura specifica.Contro la sofferenza oggi di può fare molto, perché le armi per combat-tere il dolore sono numerose. Dai rimedi più antichi a quelli più avanzati, il medico ha la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di terapie ed i farmaci occupano ancora il primo posto. I farmaci analgesici che andrebbero sempre usati sotto stretto controllo medico, si possono dividere in due categorie: - gli analgesici non oppiacei sono i più usati, perché considerati “leg-geri”, i loro principi attivi sono a base di acido acetilsalicilico (Aspirina), paracetamolo (Tachipirina) e altre sostanze (tra queste molto nota è la Novalgina);

molto usati sono oggi i cosiddetti Fans (Farmaci antinfiam-

matori non steroidei).-gli analgesici oppiacei sono invece più potenti e perico1osi in quanto collegati alla morfina (il più noto analgesico oppiaceo ricavato appunto da oppio) e che viene somministrata per sedare dolori particolarmen-te intensi (come quelli da tumore o da ustioni gravi), Comunque solo quando falliscono gli altri preparati.L’azione degli analgesici è sempre di tipo inibitorio. I non oppiacei impe-discono la produzione di prostaglandine. Le prostaglandine sono delle sostanze chimiche che vengono liberate quando un tessuto viene dan-neggiato (ferite, ustioni, ecc.) Sono le prostaglandine che trasmettono gli impulsi di dolore al cervello. Inibendo la produzione di queste sostanze gli analgesici non oppiacei riducono la percezione del dolore.Gli analgesici oppiacei, invece, agiscono in modo simile alle endorfine (proteine prodotte da alcune cellule del nostro organismo e che alle-viano il dolore) bloccando gli impulsi dolorosi quando arrivano in sedi periferiche poste nel cervello.Il dolore si può curare anche con deboli elettrostimolazioni (scosse elet-triche) nervose transcutanee (note con la sigla TENS) a bassa, intensità. La TENS è molto usata per i dolori acuti e localizzati.Non solo con i trattamenti farmacologici, medici o chirurgici, ma il dolore può essere combattuto anche con armi dolci come massaggi, agopuntu-ra, laser, ultrasuoni, ecc. Alcune di queste sono tecniche di rilassamento che servono da supporto alle cure convenzionali e permettono di elimi-nare 1’ansia e lo stress provocati dal dolore.

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Il nostro organismo è un meraviglioso edificio, ma si usura con il tempo.Il nostro corpo è un insieme fatto di cellule che si raggruppano in tessuti e questi in organi, costituendo: ossa, muscoli, cuore, stomaco, cervello, ecc. Le cellule sono come le pietre, i mattoni di un edificio. La biologia, noi biologi studiamo questi mattoni, cioè le cellule. Le cellule vengono alimentate indirettamente dal sangue attraverso un particolare tessuto: il tessuto connettivo, così chiamato sia perché non solo connette, cioè tiene unite cellule affini, ma perché serve anche da riempimento delle lacune fra diversi altri tessuti ed organi e dà loro consistenza. Lo stesso tessuto connettivo è formato di cellule, fibre e plasma semifluido.

Piano, piano...Quando guardiamo un edificio, un monumento, e cerchiamo di stimare quanto è vecchio, non valutiamo subito quanto sono vecchie le pietre di cui è costituito, ma come si è mantenuto, se è stato trascurato, se è ancora funzionale, efficiente. Ad invecchiare più spesso non sono state tanto le pietre, i mattoni, quanto invece ciò che li collega fra loro, il col-lante, la malta, l’intonaco, le travi, ecc. Il nostro organismo è la stessa cosa. Anche il corpo umano è un edifi-cio. Non invecchiano tanto le cellule (cioè i mattoni di cui è composto) quanto l’insieme il complesso dei suoi organi, il tessuto connettivo pre-sente in tutti gli organi.Quando sentiamo parlare di “patologie”, di “stati patologici”, questi si possono identificare con i danni che un edificio su-bisce con il passare del tempo. I danni che un edificio subisce, possono cominciare ad esempio dal tetto: l’acqua piovana accentua il processo d’invecchiamento, rendendo una struttura meno stabile, meno sicura. Così una patologia, a mano a mano che si estende, coinvolge i vari orga-ni e tende a rendere sempre più precario il funzionamento della nostra macchina, cioè del nostro corpo. Si comincia con una perdita quantitati-va, poi però si arriva ad una perdita di funzionalità, cioè qualitativa, cioè fisiologica. È il principio dell’invecchiamento.

Concetto di usura.Il nostro organismo si usura con il tempo. L’invecchiamento è un pro-cesso naturale che comincia con la nascita. La vecchiaia, o senescenza, sopraggiunge quando non è possibile compensare la perdita di una funzione, cioè quando inizia uno scompenso. Infatti, finché è possibile compensare la perdita di alcune funzioni non si è vecchi.L’usura del nostro organismo è certamente la causa prima del suo in-vecchiamento. Le cellule vengono costantemente alimentate e a questa funzione provvede indirettamente il tessuto connettivo; anzi, studi di biologia cellulare recenti tendono ad orientarsi verso il concetto che i tessuti connettivi possano considerarsi come dei tessuti di base, dei tessuti fondamentali, del nostro organismo. D’altra parte sembra che le

un problEma bioloGico: pErché s’inVEcchia

Studi recentisono sempre più attenti al tessutoconnettivo, perché consente ai biologi di capire meglio iproblemi dellasenescenza.Quando questotessuto cominciaad invecchiare,tutto l’organismoinvecchia.

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cellule, siano programmate per riprodursi un certo numero di volte oltre il quale non vanno (che le riproduzioni possibili siano 50, 100, oppure 30, non ha importanza dal punto di vista scientifico).Ma, anche il tessuto connettivo (il cemento che tiene insieme e concorre a nutrire tutto il nostro organismo) invecchia e perde sia funzionalità quantitativa sia qualitativa, ed è questo l’aspetto più evidente dell’età adulta. Un esempio? Eccolo.La pelle di una persona di una certa età non è più quella di un bambino. Sotto la pelle, infatti, c’è del tessuto connettivo di un certo tipo che, con il passare del tempo subisce un’evoluzione e questa interessa piano piano le sue stesse cellule e tutte le cellule che questo tessuto concorre a nu-trire. Gli stessi vasi sanguigni sono costituiti anche di tessuto connettivo che, invecchia degenera e diventa più suscettibile ad ogni agente fisico chimico, interno ed esterno. Ecco perché gli studi più recenti sono sem-pre più attenti al tessuto connettivo: esso permette ai biologi di capire meglio processi che portano alla senescenza.

Perché s’invecchia?Conoscere i motivi per cui s’invecchia consentirebbe di prevenire o, almeno, di rallentare l’invecchiamento stesso. Ci sono diverse ipotesi per spiegare il meccanismo dell’invecchiamento e ne vengono formu-late continuamente sulla base di sempre nuovi risultati delle ricerche scientifiche. Secondo una delle “teorie genetiche” l’insieme dei “geni” è il solo responsabile del proprio processo di senescenza (ognuno di noi, infatti, ha un proprio insieme di geni diverso da quello di ogni altro indi-viduo). I geni, lo ricordiamo, sono delle unità biologiche che contengono le informazioni per la realizzazione di un carattere ereditario, che deve essere trasmesso da una generazione alla successiva. Ma con il passare dell’età, verrebbe diminuita la funzione di quei geni che sono capaci di stimolare la proliferazione cellulare. Per tale motivo questa teoria è anche detta dell’“invecchiamento programmato” nel nostro DNA fin dal momento del nostro concepimento.Seconda la teoria dell’“invecchiamento non programmato”, invece dentro ciascuno di noi ci sarebbe una sorta di interruttore a tempo, un contascatti che ad un certo tempo della nostra vita causerebbe la nostra decadenza fisico-psichica portandoci alla morte, perché la natura non ha più bisogno di noi (si nasce, si cresce, ci si riproduce selezionandoci ed alla fine si muore). Si muore in quanto si è vissuti a sufficienza. C’è anche chi sostiene che l’invecchiamento sarebbe dovuto non tanto al patrimonio quanto ad alterazioni legate a fattori casuali. C’è però un fatto (confortato dalle frequente predisposizione familiare alla longevità) che porterebbe ad attribuire al patrimonio genetico il ruolo di effettivo rego-latore del processo d’invecchiamento.Sta riscuotendo una crescente attenzione la teoria della “ossidazione dei radicali liberi”, ma se ne parlerà più a fondo in altra occasione. E’ una teoria che si collega ai concetti di usura del nostro organismo e ci suggerisce possibili rimedi per ridurla utilizzando sostanze antiossidanti,

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proprio perché con l’invecchiamento viene ridotta la possibilità dei mec-canismi naturali di opporsi all’accumulo di radicali liberi. Ma ne riparle-remo, anche perché sono già in farmacia prodotti che “vantano” questi effetti farmacologici.Il nostro invecchiamento, comunque, è un processo influenzato oltre che da ben precise cause biologiche interne, anche dal contesto in cui viviamo, dalle nostre abitudini alimentari, dalle condizioni ambientali, dalla cultura sociale e da quella personale. Il processo d’invecchiamen-to, pertanto, oltre che un fatto fondamentalmente biologico, finisce per avere anche un aspetto sociale.

Ma, che cosa, quale funzione invecchia prima, che cosa dopo?Le risposte potrebbero essere molto personali e molto in funzione del-l’idea che ciascuno ha di sé stesso. In realtà alcuni organi invecchiano pochissimo, altri hanno un invecchiamento abbastanza veloce. In genere invecchiano meno gli organi ed i tessuti formati da cellule che si riprodu-cano in continuazione: per esempio, il sangue, il fegato, ecc. Però tutti gli organi sono costituiti “anche” da tessuto connettivo che li tiene insieme e li “lega”. Le cellule di questo tessuto possono invecchiare prima di quelle che caratterizzano l’organo stesso, con la conseguenza che l’invecchia-mento coinvolge il tutto. Nessuna parte del nostro organismo, però, gioca da sola. Tutto è collegato, tutto è in sintonia, tutto è connesso. Per questo chiedersi che cosa in vecchia prima e che cosa dopo è, pertanto, una domanda assolutamente inutile.

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Ieri, oggi... domaniLa ricerca ci sta abituando a sbalzi straordinari. Oggi cambia perfino la valutazione nei confronti del vecchio colesterolo dannoso quando è in eccesso, si, ma soltanto se “ossidato”. Ma andiamo con ordine.Per anni la manifestazione di aterosclerosi è stata fatta risalire soprat-tutto a valori superiori alla norma di colesterolo totale in relazione ad un tipo di alimentazione troppo grassa, considerata quindi sinonimo di “pericolo”. Grassi, zucchero raffinato e colesterolo venivano censurati aspramente come “moderni cavalieri dell’apocalisse”. Negli anni ottanta si è arrivati a concepire l’eccesso di colesterolo LDL (colesterolo “cat-tivo” ) rispetto all’HDL (colesterolo “buono”), come causa primaria di aterosclerosi. Oggi, invece, si ritiene che siano i “radicali liberi” il fatto-re determinante dell’aterosclerosi. L’LDL, depositato sulla parete di un vaso, viene ossidato dal contatto con i radicali liberi. Il danno avviene perché i globuli bianchi di un certo tipo della parete delle arterie cerca-no di eliminare l’LDL ingerendolo. Le cellule gonfie (cellule schiumose) che ne derivano si fissano alla parete arteriosa ogni volta che si verifica il processo ed il loro accumulo finisce per dare origine alla placca che a poco a poco restringe il lume dell’arteria, provocando gravi disturbi car-diovascolari. La combinazione dei radicali liberi con le particelle dell’LDL (colesterolo “cattivo”) è si alla base dell’accumulo dei grassi sulla parete delle arterie, ma la formazione delle placche e del conseguente intasa-mento dei vasi sanguigni dipenderebbe soprattutto dall’azione nociva (ossidante) dei radicali liberi. Ictus ed infarto sono infatti causati dalle placche che ostruiscono il lume delle arterie che irrorano determinate re-gioni del nostro organismo e che si formano in seguito all’azione nociva dei radicali liberi. Uno studio ancora più recente ha messo in evidenza che anche persone con valori di colesterolo nella norma possono essere a rischio. Questo fatto porterebbe un punto in più a favore della nuova teoria secondo la quale il colesterolo è dannoso quando è in eccesso, ma il fattore più importante dell’aterosclerosi è la sua “ossidazione” ad opera dei radicali liberi liberamente circolanti nel nostro organismo. Di conseguenza la misurazione dei radicali liberi diventerebbe un elemento di fondamentale importanza nella diagnosi precoce dell’aterosclerosi.

Che cosa sono questi perfidi radicali liberi, ades-so tanto colpevolizzati Le recenti ricerche scientifiche hanno messo in luce il ruolo determinan-te giocato da alcune molecole iperattive prodotte dal nostro stesso orga-nismo, in grado di accelerare i processi degenerativi di cellule e tessuti: i radicali liberi, appunto.I radicali liberi sono delle piccolissime particelle, delle “schegge” di mo-lecole la cui conformazione viene definita “instabile”. Questa loro situa-zione d’instabilità (di non equilibrio fisico-chimico, direbbero gli addetti ai lavori) è causata dalla mancanza di un elettrone (gli elettroni sono una delle particelle elementari, di carica negativa, che come tali costituiscono

rEstarE GioVani con Gli antiossidanti killErs dEi radicali libEri

Continuamente citati, descritti, col-pevolizzati, oggi si fa un gran parlare dei radicali liberi e del loro effetto nocivo sul nostro organismo. Ma, che cosa sono queste particelleche possono viag-giare libere dentrodi noi? Come si produco-no? Quali bersagli han-no? Se ne possonocontrastare i danni? Come si combat-tono.

HDLColesterolo (buono)

LDLColesterolo (cattivo)

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la materia in quanto fanno parte di ogni atomo o molecola). Il destino dei radicali liberi è di trovare assolutamente l’elettrone che “loro” manca per ristabilire il proprio equilibrio. In che modo? Attaccano una delle centinaia di migliaia di cellule sane anche costituiscono il nostro organi-smo, per “rubare” l’elettrone.La perdita di elettroni è un processo che i chimici chiamano “ossidazio-ne”. Sarebbe proprio questa azione ossidante indotta dai radicali liberi ad accelerare l’invecchiamento di cellule, tessuti ed organi, nonché a favorire la formazione delle placche sulla parete delle arterie col con-seguente intasamento di quei vasi. Proprio perché tendono a sottrarre elettroni ad altre molecole, si dice che i radicali liberi hanno un’azione ossidante, cioè come se facessero “arrugginire” le strutture cellulari.

Qual è la loro origine?Diverse sono le cause che concorrono alla formazione di radicali libe-ri. In parte sono prodotti dal nostro stesso organismo, per esempio, durante la trasformazione del cibo e dell’ossigeno in energia all’interno delle cellule. Normalmente però interviene un enzima (gli enzimi sono delle sostanze prodotte dagli organismi viventi, che partecipano ad una determinata reazione chimica, accelerandola) in grado di neutralizzare subito il radicale testè creatosi. Radicali liberi si formano anche per il continuo persistere di processi infiammatori all’interno del nostro orga-nismo (bronchiti trascurate, artriti, ulcere, ecc.). Nella società moderna altri fattori esterni, contribuiscono alla formazione di radicali liberi: l’in-quinamento, gli insetticidi, alcuni prodotti chimici contenuti nei cibi, il fumo di sigaretta, le radiazioni (sia quelle ambientali come le radiazioni solari o elettromagnetiche, sia quelle per indagini diagnostiche, terapie radianti antitumorali, ecc.), lo stress (inquinamento acustico, caos, fret-ta, ecc., che, sollecitano esageratamente gli organi, stimolando in questi la messa in circolo di radicali liberi), alcuni medicinali, ecc.

Quali sono i loro bersagli, che cosa provocano?É normale che nel nostro organismo si formino dei radicali liberi, perché essi si costituiscono come sostanze di scarto che noi stessi produciamo mentre mangiamo, corriamo, respiriamo, ci abbronziamo, ecc. cioè durante ogni processo metabolico. Finché il numero di radicali liberi che circolano nel nostro organismo resta sotto controllo, tutto procede regolarmente. Quando, invece, il loro numero è in eccesso cominciano ad essere intaccate strutture e funzioni diverse. La voracità dei radicali liberi per appropriarsi degli elettroni loro mancanti è tale da riuscire a penetrare in strutture autosufficienti ed autonome fino ad alterare il loro equilibrio chimico-fisico e biologico.I principali bersagli dei radicali liberi sono: le membrane (che rivestono tutte le cellule): i cromosomi (che contengono il DNA, cioè il materiale ereditario); i mitocondri (particolari organelli che sono la sede dei pro-cessi respiratori di ogni singola cellula e connessi alla produzione di energia). L’attività dei radicali liberi viene anche considerata: all’origine

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della cataratta (malattia dell’occhio dovuta ad un processo di opaca-mento parziale o totale del cristallino); alla ossidazione del colesterolo depositatosi, come abbiano visto, sulla parete dei vasi sanguigni con formazione di placche; come concausa della degenerazione dei neuroni del cervello (processo che è alla base del morbo di Parkinson, dell’Al-zheimer); ecc.

Ci difendono gli antiossidanti.A proteggerci da queste schegge impazzite dell’attività cellulare o pro-venienti anche dall’inquinamento ambientale, il nostro organismo ha messo a punto una serie di accaniti “vigilantes” per non farci “arruggi-nire”, cioé antiossidanti. Tra essi ne ricordiamo alcuni: degli enzimi (il glutatione, ad esempio, protegge le membrane cellulari ed è essenziale per preservare il buon stato dei globuli rossi e del cristallino dell’occhio); altre molecole, invece, inibiscono i radicali liberi “sacrificandosi”, cioè cedendo elettroni alle molecole instabili dei radicali. Un altro aiuto ci vie-ne invece da molecole che dobbiamo assumere con gli alimenti come: vitamine (vitamina A ed il suo precursore, il betacarotene; vitamina E, vitamina C, ecc.) e minerali (selenio, zinco, rame, ecc.). Tutti questi an-tiossidanti sono presenti in frutta e verdura, negli oli vegetali, ma anche nella carne e nel pesce. Per essere sicuri di assumerli tutti basta seguire una dieta varia e completa. Se, per motivi vari non sempre è possibile nutrirsi in modo corretto, i nutrizionisti consigliano l’assunzione (sempre dopo aver consultato il proprio medico di fiducia) di “integratori”, di so-stanze antiossidanti i quali sono appunto in grado di neutralizzare certi processi ossidativi naturali, quindi, di collaborare con gli enzimi naturali a non farci “arrugginire”. Restare giovani con gli antiossidanti sembra dunque essere possibile. In questa battaglia difensiva è quindi impor-tante intervenire su due fronti: evitare, per quanto è possibile, i fattori che scatenano i radicali liberi (e questo controllando anche il nostro stile di vita); curare l’alimentazione assumendo giornalmente delle sostanze che aiutano a rendere innocui o a distruggere i radicali liberi. Chissà mai cosa rendeva eternamente giovani gli abitanti di Shangri-La, la misteriosa città nascosta dalle altissime montagne del Tibet, nel film di Frank Capra Orizzonte Perduto. A quel “qualcosa” sta mirando una certa fetta della modera ricerca per frenare gli effetti del tempo sul nostro organismo. E a quel “qualcosa” mirano le mille indagini condotte nei laboratori dei cinque continenti.

Arteria sana

Arteria con placca

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L’aterosclerosi è una malattia silenziosa.Quando la quantità di colesterolo nel sangue supera un certo valore (per l’adulto 200 mg per dl di sangue) si parla di ipercolesterolemia. In questo caso il colesterolo in eccesso può tendere a depositarsi a poco a poco nelle arterie dando luogo alla formazione di placche. Con il pas-sare del tempo queste possono ingrandirsi per cui diminuisce il volume interno del vaso nonché la sua elasticità, provocando una limitazione o addirittura l’interruzione dell’afflusso di sangue ai tessuti. Le conseguen-ze di questo tipo di ostruzioni possono essere anche di grave entità, come un infarto al miocardio (il muscolo che fa contrarre il cuore) o un ictus cerebrale.

Ma cos’è il colesterolo, questo vigilato speciale?Il colesterolo è un grasso, cioè un lipide e i lipidi sono sostanze indispen-sabili per varie funzioni del nostro organismo. Essi, i lipidi, costituiscono una famiglia piuttosto numerosa della quale fanno parte il colesterolo “buono” e “cattivo” ed i trigliceridi, fonti di gioie dolori. Nessun uomo, animale o vegetale può vivere senza lipidi.Nella giusta quantità, il colesterolo svolge un ruolo essenziale nel buon funzionamento del nostro organismo. Esso infatti: - è indispensabile per la permeabilità della membrana (l’involucro pro-tettivo di tutte le cellule) dalla quale dipende l’integrità della cellula stes-sa; - è determinante per la produzione di acidi biliari, che favoriscono la digestione dei grassi che ingeriamo; - costituisce il principale precursore di importanti ormoni (cortisolo, or-moni sessuali maschili e femminili); ecc.

Si forma così.Per soddisfare compiti così importanti, la maggior parte del colesterolo (circa il 70%) viene prodotto dal nostro stesso organismo ed in partico-lare dal fegato e dall’intestino; solo in minor parte (circa il 30%) viene introdotto con l’alimentazione (è presente negli alimenti di origine ani-male come uova, farmaci, burro, carni grasse, latticini, ecc). È proprio per questo che la dieta, da sola non è sempre sufficiente a tenerne sotto controllo i valori e diventa necessario a ricorrere all’uso di farmaci mi-rati.Le principali cause dell’aumento del colesterolo nel sangue sono: - un’alimentazione in cui prevalgono i grassi di origine animale; - una predisposizione ereditaria.In realtà, il colesterolo indipendentemente dalle abitudini alimentari ten-de ad aumentare con l’età, perché si fanno più deboli i meccanismi di controllo che ne regolano la produzione, nelle donne in menopausa e negli uomini oltre i 60 anni.

luci E ombrE sui farmaci anticolEstErolo

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Colesterolo cattivo e colesterolo buonoPoiché il colesterolo, sia quello sintetizzato dal nostro organismo, sia quello proveniente dagli alimenti è una sostanza grassa, cioè come dicevamo un lipide, non si scioglie facilmente nell’acqua, quindi nemme-no nel plasma (parte liquida del sangue); per entrare in circolazione deve associarsi a sostanze proteiche. Chiamate lipoproteine. Quando tutto ciò va bene il colesterolo prodotto nel fegato passa dunque nel sangue grazie all’aiuto delle lipoproteine. Queste dal sangue arrivano alle cellule, le quali lo utilizzano per compiere le importantissime funzioni sopra citate.Certe lipoproteine (le lipoproteine HDL) veicolano, cioè trasportano il colesterolo dalla periferia dell’or-ganismo verso il fegato dove viene smaltito con la bile. Pertanto, rimuovendo il grasso delle arterie svolgono un’efficace azione protettiva, quasi fossero le “spazzine” delle arterie stesse, il colesterolo vei-colato dalle lipoproteine HDL viene comunemente detto “colesterolo buono”.Altre lipoproteine invece (le lipoproteine LDL), vei-colano del colesterolo dal fegato verso la periferia del nostro organismo, favorendo così la naturale predisposizione dei grassi di depositarsi sulla parete delle arterie, concorrendo quindi alla formazione di placche arterioclerotiche, con tutto quello che ne può

derivare per la nostra salute. Il restringimento del volume delle arterie che ne deriva non è legato soltanto alla possibile riduzione del flusso di sangue in esse, ma anche alla possibile formazione di coaguli di sangue (trombi) e di emboli. Ecco perché la frazione di colesterolo associata al LDL viene comunemente detto anche “colesterolo cattivo”. In realtà è soltanto “eccessivo” e, per questo motivo dannoso.La quantità di colesterolo totale intesa come nella norma varia da un mi-nimo di 150 ad un massimo variabile tra 200 e 250 mg/dl. Attenzione a non avere un colesterolo troppo basso, (inferiore a 150mg/dl).

Colesterolo alto ed alterosi (arteriosclerosi).Aterosclerosi, che singnifica indurimento (sclerosi) delle arterie, è un ter-mine generico usato per numerose malattie in cui la parete di un’arteria diventa più spessa e meno elastica.Il più frequente tipo di indurimento è dovuto alla presenza di ateromi (che sono depositi essenzialmente di grasso), indurimento che interessa la arterie di medio e grosso calibro. Le pareti delle arterie di piccolo cali-bro, ispessendosi, si restringono e di conseguenza gli organi irrorati non ricevono abbastanza sangue.

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L’aterosclerosi, nei paesi occidentali è la prima causa di malattie e di morte.Circa le cause dello sviluppo dell’aterosclerosi, alcuni ricercatori ritengo-no che alti livelli di colesterolo nel sangue provochino lesioni sul rivesti-mento interno delle arterie, determinando una reazione infiammatoria, dando modo al colesterolo, nonché ad altre sostanze grasse ed a certi globuli bianchi (che accompagnano lo stato infiammatorio) di accumu-larsi e di formare depositi a forma di placca (ateromi) nel rivestimento della parete arteriosa (endotelio), provocandone l’ispessimento. A mano a mano che gli ateromi crescono, le arterie affette da aterosclerosi per-dono la loro elasticità contribuendo all’insorgenza dell’ipertensione. Con il passare del tempo l’ateroma può anche frammentarsi in bricciole, im-mettersi nel torrente circolatorio (come emboli) ed eventualmente ostru-re un’arteria in una qualsiasi parte dell’organismo. Frequentemente, in-fatti la qualsiasi rottura di un ateroma, cioè di una placca aterosclerotica, con la formazione coagoli (trombi), è la causa principale di un infarto cardiaco o di un ictus celebrale.

Così si formano le placche aterosclerotiche

Il colesterolo viene prodotto in parte dal fegato. Per poter circolare nel sangue deve però legarsi a particolari molecole, chiamate lipoproteine Ldl o Hdl

Una parte del colesterolo viene invece introdotta con il cibo e poi assorbita dall’intestino. An-che in questo caso sono necess

Colesterolo legato alle lipopro-teine Hdl

Per una complessa serie di rea-zioni chimiche, il colesterolo le-gato alle lipoproteine Ldl (e non a quelle Hdl) tende a incollarsi, letteralmente, alle pareti interne delle arterie, formando placche aterosclerotiche. La circolazione del sangue diventa sempre più difficile e dalle placche possono anche staccarsi frammenti, che vanno a bloccare i vasi più pic-coli, provocando problemi molto gravi, come l’infarto cardiaco o gli ictus cerebrali

Colesterolo legatoalle lipoproteine Ldl

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Il nostro organismo tenta di autoregolarsi, ma...Il nostro organismo può regolare i livelli delle lipoproteine, quindi del colesterolo, aumentandone o diminuendone la produzione; può inoltre regolare la velocità con cui tali proteine vengono rilasciate e rimosse dal circolo. L’alterazione dei livelli delle lipoproteine può essere legata all’in-vecchiamento, a diverse patologie (incluse alcune malattie ereditarie), all’uso di alcuni farmaci, allo stile di vita (dieta ad elevato contenuto in grassi, scarsa attività fisica, sovrappeso). Ricordiamo ancora una volta che livelli elevati di lipidi (grassi e, soprattutto di colesterolo) possono causare a lungo termine l’aterosclerosi, nonché aumentare i rischi di in-farto cardiaco e ictus cerebrale. Attenzione, perché solitamente valori ele-vati del colesterolo “cattivo” (colesterolo LDL) nel sangue non inducono alcuna sintomatologia; valori elevati di colesterolo “buono (colesterolo HDL), invece, riducono il rischio di aterosclerosi.

Terapie anticolesteroloL’indicazione della terapia con farmaci in grado di ridurre i valori del co-lesterolo nel sangue dipende non solo dalla loro entità, ma anche dalle eventuali patologie che interessano il soggetto. Esistono diversi tipi di farmarci in grado di ridurre i livelli dei lipidi ed ognuno di essi agisce con un meccanismo diverso, e, di conseguenza possono comportare effetti collaterali diversi. In ogni caso, quando si assumono questi farmaci si consiglia di seguire una dieta a basso contenuto di grassi.I farmaci anticolesterolo più utilizzati sono le statine, in alcune loro varie-tà da tempo in commercio e, prima ancora i fibrati.

Con la scoperta dei radicali liberi, però, il proble-ma dell’arteriosclerosi assume contorni diversi. Per anni, fino a ieri, la comparsa quella patologia chiamata aterosclerosi è stata fatta risalire soprattutto a valori superiori alla norma di colesterolo totale ed al rischio indotto da un’alimentazione ricca di grassi. Oggi come abbiamo già visto, si ritiene che invece siano i “radicali liberi” il fattore determinante dell’atesclerosi: i radicali liberi si combinerebbero in un processo ossidativo con le particelle di LDL (il colesterolo cattivo) pre-senti nel sangue e nei tessuti concorrendo alla formazione della placca e del conseguente intasamanento dei vasi sanguigni.

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Che cosa sono?I trigliceridi, come il colesterolo, sono sostanze indispensabili per varie funzioni che il nostro organismo deve compiere ed entrambe apparten-gono alla famiglia dei grassi, o lipidi. Spesso colesterolo e trigliceridi nel linguaggio comune vengono associati e perfino confusi. No! Non sono la stessa cosa. Come abbiamo già visto, il colesterolo non è un vero grasso, infatti non rappresenta una fonte di energia per il nostro orga-nismo, non fornisce energia quando viene bruciato dalle cellule. Come abbiamo visto precedentemente il colesterolo serve all’organismo: per mantenere integre le membrane che circondano le cellule, quindi le cellule stesse; per produrre gli acidi biliari; per digerire i grassi; per la realizzazione di ormoni importanti come gli ormoni sessuali (maschili e femminili), il cortisolo (cortisone prodotto dalle nostre ghiandole surre-nali), ecc. I trigliceridi sono considerati, invece dei veri grassi, i principali componenti del tessuto adiposo, cioè del tessuto grasso, che è per il no-stro organismo rappresenta una riserva di energia da utilizzare in caso di necessità. Non solo nell’adulto ma già durante l’allattamento per trasferi-re dalla madre al figlio l’energia necessaria per trasformazioni cellulari. E il tessuto adiposo sottocutaneo, inoltre, concorre a mantenere inalterata la temperatura corporea, ha funzione di termoregolazione, agendo da isolante termico.I trigliceridi sono dei grassi ritenuti meno pericolosi del colesterolo, tuttavia non vanno sottovalutati perché concorrono ad au-mentare il rischio di soffrire di malattie cardiovascolari.

Quali pericoli nascondono i trigliceridi?I trigliceridi sono ingeriti quasi esclusivamente con la dieta e soltanto in minima parte sono prodotti dal nostro organismo. Una volta assorbiti passano nel sangue, raggiungono il fegato dove sono utilizzati per la produzione di altri trigliceridi oppure vengono immagaz-zinati sotto forma di tessuto adiposo. In altre parole, se le calorie non vengono “bruciate” immediatamente sono messe in riserva per essere utilizzate in seguito. Ad esempio, una dieta ricca di zuccheri e di alcol determina valori alti di trigliceridi nel sangue. Questi, seppure importanti come fonte di energia utilizzabile dalle cellule, se in accesso, determi-nando un aumento della viscosità del sangue quindi tendono a farlo coagulare. Ciò può predisporre alla formazione di trombi (coaguli che si formano sulla parete delle arterie o di emboli, che invece viaggiano nelle arterie), possono impedire il flusso del sangue e causare un ictus cerebrale o un infarto cardiaco. I trigliceridi, invece non sono coinvolti direttamente nella formazione di queste incrostazioni, anche se spesso valori alti dei trigliceridi sono associati a valori elevati del colesterolo LDL (quello “cattivo”, che tende a depositarsi sulle pareti delle arterie). Valori dei trigliceridi a 200 mg/dl vengono considerati nella norma,; fra 200 e 400 mg/dl, abbastanza alti; fra 400 e 1000 mg/dl alti; più di 1000, molto alti. Poiché la loro pericolosità aumenta in base al loro valore, occorre tenerli sotto controllo ricorrendo anche a farmaci particolarmente mirati. Ma siamo sicuri di ricevere benefici senza danni?

i triGlicEridi: ViGilati molto spEciali da tEnErE sotto controllo

Alti valori di trigliceridi nel nostro sangue sono considerati molto meno pericolosi di alti valori di colesterolo, perché da soli non sono considerati un vero fattore a rischio, ma aumentano la probalità che si verifichi un ictus cerebrale o un infarto cardiaco. In alcuni casi, per tenerli sotto controllo, si ricorre a farmaci particolari. Ecco perché.

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Perché si alzano i valori dei trigliceridi nel san-gue?I valori dei trigliceridi nel sangue si alzano soprattutto in caso di diete ricche di zuccheri e grassi, ma ha anche un suo ruolo la predisposizio-ne genetica (anche se meno importante che nel caso del colesterolo), indipendentemente dalla dieta. Chi usa contraccettivi orali (la pillola im-mette nell’organismo una certa quantità di estrogeni (ormoni sessuali femminili prodotti dall’ovaio e dal surrene, responsabili della maturazio-ne degli organi genitali femminili). Un loro aumento nel sangue comporta una maggiore produzione da parte del fegato di trigliceridi in circolo. Anche l’ingestione di alcol ha conseguenze simili. In una persona che è affetta da diabete di tipo II (non insulino dipendente), l’insulina pur presente in essa (persona) non riesce a svolgere il suo compito che è quello di mantenere in equilibrio nel fegato la produzione di grassi e di zuccheri. In tutti questi casi ne con-segue che vengono liberate nel sangue quantità eccessive di trigliceridi.

Quando fare i controlli?La presenza ed i corrispondenti valori dei trigliceridi nel sangue si calco-lano sottoponendosi ad un prelievo di sangue, dal quale verrà valutato l’assetto lipidico (cioè la quantità di molecole di acidi grassi in circola-zione). La presenza di valori alti di trigliceridi nel sangue non sempre si manifesta con segnali dei quali la persona può rendersi conto, ma più questi si alzano più diventano visibili e si manifestano con problemi che possono dare: alterazione della deambulazione, frequenti capogiri, dolo-ri addominali, ingrossamento del fegato e della milza, ecc. Nelle persone a rischio, il controllo dei trigliceridi andrebbe ripetute ogni 3-4 mesi. Chi ha i trigliceridi alti o per verificare l’andamento di una cura in atto, può controllare periodicamente il loro valore anche in farmacia (attraverso il prelievo di una goccia di sangue da depositare su di una piccola striscia imbevuta di reagenti specifici). I risultati sono immediati. Questa “autodiagnosi”, però non può sostituire i normali esami di con-trollo.

Come tenere sotto controllo i valori dei trigliceri-di?Per tenere sotto controllo i trigliceridi od abbassarli se sono troppo alti, il primo passo è sicuramente quello di seguire sane abitudini di vita. Poiché i trigliceridi presenti nel sangue del nostro organismo dipendono essenzialmente dal tipo di alimentazione, nella maggior parte dei casi può essere sufficiente una dieta povera di grassi e di zuccheri.Anche l’attività fisica (marcia, bicicletta, nuoto, corsa, ecc.), in quanto fa consumare energia, quindi anche dei trigliceridi presenti nel sangue e nel tessuto adiposo, può contribuire a ridurre i trigliceridi.

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In molti casi sono necessari dei farmaci.L’uso di farmaci è ritenuto indispensabile dagli specialisti: quando, no-nostante abitudini di vita sane (dieta, movimento), i valori dei trigliceridi restano al di sopra 500 mg/dl; quando una persona appartiene a cate-gorie particolarmente esposte a questi rischi (fumatori, ipertesi, diabetici con colesterolo alto, ecc.), quando una persona ha già avuto un primo episodio vascolare (angina, infarto, ictus, ecc.).

Fibrati e statine: i farmaci necessari in questi casi.Se una persona soffre soltanto di trigliceridi alti, i farmaci più adatti sono i fibrati (2-3 volte al giorno). Se oltre ai trigliceridi alti una persona soffre anche di colesterolo alto, lo specialista consiglia in genere l’uso delle statine o di queste associate ai fibrati, se questi ultimi da soli non hanno dato i risultati sperati.

Attenzione però ai picchi improvvisi e a valori troppo bassi.Il rischio che si manifestino disturbi seri è legato soprattutto ad improvvi-si picchi di trigliceridi nel sangue (dovuti ad esempio ad un pasto abbon-dante ed esageratamente ricco di grassi) piuttosto che ai valori costan-temente alti di trigliceridi, perché il sangue diventa in questi casi partico-larmente denso con particolari rischi di malattie delle arterie coronarie. Ancora una volta: limitare i grassi nella propria dieta. Ma attenzione, si diceva, una dieta drastica e protratta nel tempo, porta con sé una mo-bilizzazione dei trigliceridi dai tessuti adiposi dei depositi, per sopperire alle esigenze del nostro organismo alterando il corretto funzionamento dei meccanismi legati alla loro presenza.

Come evitare i rischi?Quando si tratta di voler abbassare soltanto valori troppo elvati dei trigli-ceridi presenti nel nostro sangue vengono prescritti di solito dei “fibrati” ciascuno dei quali contiene un principio attivo diverso. Per abbassare anche eventuali valori contemporaneamente elevati di colesterolo si è ritenuto di associare ai fibrati delle statine. Le statine attualmente in commercio in Italia sono: la Simvastatina, la Pravastina, la Flustatina, la Atorvastatina.

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Una premessa: l’invecchiamentoDa molti secoli gli uomini sono alla ricerca del segreto dell’eterna gio-vinezza e della lunga vita. La ricerca del modo di prolungare la vita e di conservare l’energia e l’aspetto giovanili non dà pace all’uomo. Fu soltanto negli anni cinquanta che la ghiandola pineale, o epifisi, fino ad allora considerata un organo atrofizzato ed inutile, è invece in grado di secernare un ormone, la melatonina, la cui concentrazione nel sangue è tanto piccola da sfuggire per quei tempi ai ricercatori. Solo diversi anni dopo gli scienzati gettarono nuova luce sul “misterioso ormone”. La melatonina è una sostanza antica di milioni e milioni di anni e presente anche nelle piante e negli organismi unicellulari, in molti dei quali regola importanti funzioni vitali.E’ ormai generalmente accettato che il processo d’invecchiamento sia legato ad una degenerazione e ad una non più sincronizzazione delle funzioni dell’organismo. Infatti, con l’avanzare dell’età, viene a ridursi drasticamente il potenziale di adattamento anche alle variazioni dell’am-biente che ci circonda. Dal punto di vista biologico una volta superata la fase riproduttiva, l’organismo che invecchia viene messo in condizioni di diminuire fisiologicamente le proprie capacità di sopravvivenza, quindi dare spazio ad individui più giovani. Questi sono in grado di riprodursi a loro volta, perfettamente, in modo da perpetuare la specie. L’invec-chiamento fisico e mentale sta diventando uno dei maggiori problemi di salute del nostro secolo. A titolo di esempio, basti pensare all’artero-sclerosi, all’infarto, alla trombosi cerebrale, al cancro, ecc.: tutte patolo-gie il cui momento iniziale può essere ricercato in una non più perfetta adattabilità dell’organismo (in termini di autodifesa) all’insulto di alcuni stimoli nocivi, di solito perfettamente controllabili. Questa recente ipote-si, definita “teoria dell’invecchiamento”, tenta di spiegare come, almeno nelle prime fasi, invecchiamo essenzialmente perché non siamo più in grado di eliminare con successo le sostanze tossiche che, momento per momento, si formano nel nostro organismo o giungono dall’esterno e che si vanno accumulando progressivamente, innescando un lento ma inesorabile processo di degradazione.

L’azione degli ossidantiI rappresentanti di questa categoria di sostanze sono i cosiddetti “ra-dicali liberi”, forse le più dannose in tal senso, in grado di innescare il processo d’invecchiamento. I radicali liberi si possono quindi definire come delle sostanze prodotte dal nostro stesso organismo responsabili dell’invecchiamento precoce degli organi e dei tessuti. Durante i processi metabolici (cioè durante le varie e più o meno complesse reazioni che avvengono costantemente nel nostro organismo, per esempio durante la respirazione cellulare) si possono formare dei composti intermedi che presentano uno sbilanciamento delle cariche elettriche di un determina-to composto. Quando ciò si verifica, questa situazione di instabilità, il composto in questione cerca di ristabilire il suo equilibrio elettrochimico

mElatonina: il più EfficacE antiossidantE

Abbiamo già fatto conoscenza con la melatonina in numeri precedenti del Portico; ma le scoperte si sus-seguono a ritmo serrato, e, rieccoci a parlarne anche perché adesso sappiamo che cosa sono i radicali liberi, l’HDL (cole-sterolo “buono”) l’LDL (colesterolo “cattivo”), gli an-tiossidanti (i killers dei radicali liberi, appunto) ecc.

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in modo da ottenere la carica elettrica (l’elettrone) che gli è venuta a mancare. Ciò determina una “reazione a catena” che è in grado di ampli-ficare gli effetti nocivi dei radicali liberi. Più semplicemente, è come se un pallone impazzito (che rappresenta il radicale libero) rimbalzasse dentro una stanza chiusa dove fossero disposti, sul pavimento, numerosi bic-chieri di cristallo (che rappresentano le cellule sane). Il risultato sarebbe evidente. La produzione di radicali liberi attiva una serie di meccanismi, che agiscono determinando un insulto cellulare più o meno esteso. Un danno irreversibile è dato della incapacità di utilizzare i mezzi fisiologici che naturalmente il nostro organismo possiede per contrastare efficace-mente la formazione dei radicali liberi stessi.

Quali mezzi di difesa possediamo?Una prima linea difensiva contro i radicali liberi ossidanti (gli addetti ai lavori chiamano ossidazione l’azione indotta dai radicali liberi di rubare l’elettrone mancante per ristabilire il proprio equilibrio chimico-fisico prima citato) viene operata da parte di alcuni enzimi (gli enzimi sono sostanze prodotte dal nostro stesso organismo per modificare la velocità di una reazione), in grado di sopprimere la formazione dei radicali liberi. In alternativa agli enzimi, anche il beta-carotene, la vitamina C, la vitami-na E, ecc. (che ingeriamo con gli alimenti) contribuiscono ad un’attività antiossidante. Ma…

La melatonina è il più efficace antiossidanteIn tempi recentissimi la sostanza più potente individuata fino ad oggi per la sua attività anti-radicali liberi è la melatonina. La capacità della melatonina di interagire con i radicali liberi (fatto questo, che le ha valso l’appellativo di “spazzino dei radicali liberi”) deriva dal fatto che questo ormone (non dimentichiamo che la melatonina non è un farmaco, è una sostanza, un ormone naturale che il nostro stesso organismo produce spontaneamente) possiede una grande affinità chimica per queste mole-cole instabili per cui è in grado di bloccare la catena di eventi che condu-ce alla produzione e all’automantenimento delle sostanze ossidanti.Gli anti-ossidanti ci aiutano dunque a proteggerci dalle malattie attaccan-do i radicali liberi, cioè quelle molecole instabili che con le loro reazioni fi-sico-chimiche possono provocare gravi danni al nostro organismo (oltre sessanta malattie, dall’artrite reumatoide all’herpes zoster, sono ritenute oggi causate o aggravate dai radicali liberi. Gli anti-ossidanti, bloccano i radicali liberi immediatamente, contribuendo a preservare l’integrità delle nostre cellule ed a proteggere il nostro stato di salute generale. E’ per questo motivo che oggi tendiamo a consumare cibi alto contenuto di anti-ossidanti ed assumiamo vitamine e minerali anti-ossidanti sotto forma di integratori alimentari.

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Quando le difese si riducono…Non sappiamo ancora perché questo avviene, ma, con il passare degli anni, esiste in noi una fisiologica riduzione delle secrezione di melato-nina. Più in particolare sappiamo che con il progredire dell’età, il ritmo di secrezione della melatonina (come quello degli altri ormoni) si riduce soprattutto nei suoi livelli massimi notturni, fino ad essere circa il 50% (o meno) di quello che era in gioventù. Tale riduzione si accompagna ad una maggiore vulnerabilità agli insulti arrecati dai radicali liberi al cervello ed agli altri organi. Ne consegue una maggiore predisposizione alle ma-lattie croniche, proprie dell’età avanzata.

La melatonina migliora la qualità della vita.I risultati sperimentali ottenuti negli animali confermano che la sommini-strazione di melatonina in animali ha determinato un rapido e progressi-vo miglioramento del loro aspetto, nonché un prolungamento della loro vita. L’inevitabile invecchiamento (almeno nelle sue fasi iniziali) potrebbe essere considerato come il risultato di un incremento costante e persi-stente di radicali liberi, accanto ad una altrettanto costante e persistente riduzione della melatonina. Questa teoria, certamente d’avanguardia, apre le porte ad una concezione dell’invecchiamento come un processo modificabile, nel senso di un rallentamento e di un allontanamento del progressivo deterioramento delle funzioni intellettive e non. Si va così facendo strada l’ipotesi che in un prossimo futuro l’invecchiamento pos-sa essere almeno ritardato (ovviamente non bloccato) mantenendo nel nostro sangue livelli di melatonina anche con l’avanzare dell’età. L’inge-stione di melatonina come integratore può così permettere di registrare e ricaricare il nostro orologio biologico.

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Due premesse. Alcuni dei più importanti valori e che cosa rivelano se non sono nella norma.Capita spesso di consultare il referto delle analisi del proprio sangue e di trovarsi di fronte ad una serie di nomi e di sigle poco comprensibili ai non addetti ai lavori, per cui è difficile orientarsi ed attribuire loro il giusto significato. Spetta comunque al medico interpretare i dati, compararli fra loro e formulare la diagnosi dai relativi esiti.E’ sempre utile tuttavia, sapere a che cosa corrispondono le singole voci riportate nei referti e che cosa potrebbero denunciare le eventuali varia-zioni rispetto ai valori considerati normali e sempre riportati nei referti stessi, perché possono essere diversi da laboratorio a laboratorio, secon-do le tecniche ed i parametri da questi usati.

Che cos’è il sangue, come è composto, che compiti ha.Il sangue è composto da una parte liquida (il plasma, che contiene so-stanze proteiche, glucosio, lipidi, sali) e da una parte corpuscolata (glo-buli rossi, globuli bianchi, piastrine). Il suo compito è di portare ossigeno e sostanze nutritizie ai tessuti dell’organismo e ricevere da questi ani-dride carbonica e prodotti dell’attività delle cellule, destinati ad essere poi eliminati dai reni, dai polmoni, dall’intestino e dalla pelle. Il sangue trasporta anche ormoni, anticorpi e sali. Il suo colore è dovuto ai glo-buli rossi, che contengono un pigmento detto emoglobina (colore che è in rapporto al suo grado di ossigenazione). Le cellule del sangue sono prodotte continuamente perché hanno una vita molto breve (un globulo rosso sopravvive circa 120 giorni, poi viene distrutto e sostituito da un nuovo globulo rosso). Il sangue può essere centrifugato e diviso nei suoi componenti (plasma, albumina, piastrine, globuli rossi, globuli bianchi ecc.) in modo che ogni suo componente possa essere analizzato. I va-lori espressi dalle analisi mettono in luce molte malattie, dalle infezioni alle leucemie. Servono inoltre per valutare il corretto funzionamento dei

vari metabolismi, mettendo in evidenza le diverse sostanze che sono prodotte o elaborate all’interno dei vari organi.

Che cosa sono le transaminasi.Sono delle sostanze proteiche e più precisamente degli enzimi presenti all’interno di ogni cellula del nostro organismo. Ma andiamo con ordine. Tutte le cellule hanno lo stesso corredo di geni (ricevuti dal padre e dalla madre) e almeno all’inizio dello sviluppo embrionale, hanno uguali possibilità, cioè sono in grado di svolgere le stesse funzioni vitali. Con il progredire dello sviluppo embrionale cellule sviluppano particolari abilità rispetto alle altre, cioè

transaminasi E salutE dEl fEGato

Per conoscere le condizioni dell’orga-no più importante per la disintossi-cazione, basta un prelievo di sangue. Le transaminasi rappresentano un valore estremamen-te utile per valutare il corretto funziona-mento del nostro fegato. Ma, non molti sanno che le transaminasi pos-sono indicare anche lo stato di salute del cuore e dei nostri muscoli scheletrici.

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si “specializzano”. In particolare, quelle che andranno a costituire il fega-to, vanno assumendo la capacità di utilizzare e di “detossicare” tutte le sostanze che arrivano dall’intestino e provengono dalla digestione.

A cosa servono?Fra le sostanze che provengono dalla digestione degli alimenti e via via assorbite, ci sono anche gli aminoacidi, costituenti delle proteine ingerite e che vengono portati al fegato per essere modificati e trasformati.Le transaminasi sono in tutte le cellule, presenti ma decisamente più im-portanti nelle cellule del fegato; permettono a questo organismo di “ma-nipolare” le molecole alimentari e di modificarle in sostanze necessarie al nostro organismo o di prepararlo per bruciarle per ottenere energia.

Le transaminasi GTP (o ALT) e le transaminasi GOT (o AST)In molti ormai sanno che le transaminasi rappresentano un valore estre-mamente utile per valutare il corretto funzionamento del fegato. Non tutti sanno ancora che le transaminasi possono anche indicare lo stato di salute del cuore e dei muscoli scheletrici. Le transaminasi, queste so-stanze enzimatiche vengono divise in: transaminasi GTP, o ALT (che riguardano il fegato) e transaminasi GOT, o AST (che riguardano invece il cuore ed i muscoli scheletrici).

Perché si possono avere valori anomaliProprio perché le transaminasi sono dei costituenti presenti in maggiore quantità all’interno delle cellule epatiche, un innalzamento del loro valo-re può essere soprattutto una spia di una sofferenza del fegato e della morte di alcune sue cellule che, disfacendosi, liberano questi enzimi. Le transaminasi GTP (quelle che riguardano il fegato) passano nel sangue ed il loro valore aumenta. Il loro valore normale (è sempre indicato nel referto, perché cambia lievemente da laboratorio a laboratorio in base alle tecniche d’analisi usate) dovrebbe essere compreso fra 10 e 40 UI/L per gli uomini, fra 5 e 35 per le donne. Se il fegato è in perfetta salute, i valori di questi enzimi possono arrivare sino a 40. Se il loro aumento è transitorio e compreso fra 70 e 100, questo può essere causato da un abuso di farmaci o di bevande alcoliche. Se il loro aumento è contenuto ma costante (fra 100 e 200), mette in luce una epatite cronica. Un au-mento marcato (fino a 2.000) sta ad indicare una epatite acuta in atto. In ogni caso la transaminasi GTP dà una esatta valutazione della funziona-lità epatica ed è un valore di estrema importanza (più della valutazione della bilirubina, altro valore spesso rilevabile dai referti delle analisi del sangue).Le transaminasi che riguardano il cuore ed i muscoli scheletrici, cioè le transaminasi GOT, o AST, come norma dovrebbero essere comprese fra 10 e 45 per gli uomini e fra 5 e 30 per le donne. Un aumento delle tran-saminasi GOT rispetto ai valori considerati normali (sempre riportati nel

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referto delle analisi) può essere una spia di un’alterazione del muscolo cardiaco (miocardio), o anche di un’alterazione di quei muscoli che coor-dinano i movimenti dello scheletro (muscoli scheletrici).L’esame delle transaminasi è prescritto di routine, ma spesso è richiesto per tenere sotto controllo un fegato intossicato da frequenti, cattive abi-tudini di vita.

I principali disturbi che fanno alzare le transaminasiEssendo contenute in tutte le cellule dell’organismo, i valori delle tran-saminasi possono innalzarsi anche in caso di sofferenze a carico di altri organi, ma solo se si tratta di sofferenze molto importanti: quelle provo-cate da un intervento chirurgico molto vasto, da un serio ictus cerebrale o da un infarto cardiaco, o da danni muscolari determinati da un brutto incidente stradale. Ma è soprattutto dei due tipi di enzimi che evidenzia importanti sofferenze epatiche.Tutti i tipi di epatite virale (A,B,C,D ed E) sia nella loro fase acuta sia se diventano croniche, determinano anomali valori di transaminasi, in quanto provacano danni molto seri al loro organo bersaglio, cioè il fe-gato. La mononucleosi è un infezione virale (il virus relativo appartiene alla famiglia degli Herpes virus) che può determinare una sofferenza del fegato. Il più delle volte scorre in modo silenzioso e senza provocare sin-tomi, tanto che circa il 70% dei giovani fra i 16 ed i 18 anni ha superato la malattia e solo il 5% senza rendersene conto. Il contagio avviene at-traverso la saliva (viene infatti definita come malattia del bacio). Pure le infezioni da Cytomegalovirus hanno nel loro mirino le cellule del nostro organismo e, se la malattia è contratta in gravidanza, può innescare un aborto o deformazioni fetali.Dopo un’epatite A, un’infezione da Cytomegalovirus o una mononu-cleosi, i valori delle transaminasi sono destinati a ritornare nella norma spontaneamente. Il fegato, infatti, è in grado di riformare e di sostituire le cellule morte e le quote di enzimi liberati nel sangue sono destinati a nor-malizzarsi. La rigenerazione dell’organo diventa invece difficile se la ma-lattia ha alterato la sua struttura. E’ quello che può capitare con le epatiti B,C, e D ed E. Queste, oltre che poter diventare croniche e determinare perciò una continua eliminazione di cellule epatiche (mantenendo perciò valori anormali delle transaminasi), possono evolvere successivamente anche in cirrosi epatica, serio ed irreversibile sovvertimento della strut-tura del fegato inducendo ampi fenomeni di fibrosi e noduli nel tessuto epatico.

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Globuli bianchi

Piastrine

Globuli rossi

Cuore

Vene

Arterie

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I globuli bianchi, o leucociti (WBC), insieme ai globuli rossi (RBC) ed alle piastrine (PLT) sono i parametri più familiari negli esami del sangue. I globuli sono le sentinelle della nostra salute. Essi proteggono il nostro organismo dalle infezioni e le combattono nel caso che si verifichino, perché hanno il compito di distruggere tutto ciò che riconoscono come “estraneo” a noi stessi. Hanno una vita media che si aggira intorno alle 30 ore.Conteggiando i globuli bianchi, il loro numero, nella “norma” dovrebbe essere compreso da un minimo di 4.000 ad un massimo di 12.000 per millimetro cubo (mmc) di sangue. Il loro valore, però può discostarsi facilmente dai livelli di normalità indicati nel referto che ci viene conse-gnato per l’esame richiesto. Un valore più basso può essere la spia di un minore capacità del nostro organismo di difendersi dalle malattie, oppure un generale indebolimento del corpo; Un numero di leucociti più elevato del normale indica il più delle volte un’infezione in corso nell’or-ganismo. Infezione che può andare da un banale ascesso in un dente, alla leucemia. In ogni caso ogni valore anomalo rappresenta un segnale d’allarme che può essere indizio di problemi diversi da affrontare con tempestività. E’ compito del medico curante valutare il quadro clinico del paziente nel suo complesso e considerare particolarmente quale tipo di globuli bianchi è presente in quantità anomala.

Come funziona il nostro sistema di difesa.Quando nel nostro organismo penetrano agenti esterni, come virus, batteri, ecc. il sistema di difesa produce più globuli bianchi. Il loro au-mento nel sangue indica pertanto che, in genere, c’è un’infezione in atto. Ma non solo: la loro crescita può indicare anche una reazione allergica, un’infezione da parassiti (organismi costituiti da più cellule molto diffusi nell’ambiente, che vengono introdotti nel nostro organismo attraverso i cibi oppure con acqua infetta, e danno in genere sintomi gastroenterici come, ad esempio, la diarrea), e una disfunzione organica. E’ possibile riuscire ad individuare quale causa si nasconda dietro un generico au-mento di leucociti, se si tiene conto in particolare della formula leucocita-ria che si ricava dall’esame emocromo citometrico del sangue. E’ “l’esa-me emocromo citometrico” del sangue, o semplicemente “emocromo”, permette di contare tutti i vari “abitanti del sangue” ed i rispettivi valori accertati possono mettere in luce molte malattie. La formula leucocita-ria, invece (che si ricava dal precedente) richiama soltanto i vari tipi che costituiscono la popolazione dei globuli bianchi, ne fornisce numero e caratteristiche essenziali.

Valori normali della formula leucocitariaQuando l’organismo non deve combattere infezioni, quando non sono in corso delle reazioni allergiche ed il midollo osseo funziona bene, ol-tre al numero complessivo dei globuli bianchi (4.000-12.000) unità per millimetro cubo, i valori che indicano una situazione di normalità sono

i Globuli bianchi, sEntinEllE dElla nostra salutE

Il loro numero nella norma dovrebbe essere compreso da un minimo di 4000 ad un mas-simo di 12000 per millimetro cubo di sangue. Ogni valore anomalo rappre-senta un segnale d’allarme.

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dati da queste percentuali: linfociti 30-35%; monociti 4-5%; granulociti neutrofili 60%, eosinofili, 2-3%; basofili 0,5%.

La normalità non è sufficiente.Per una corretta diagnosi, il valore che indica il totale dei globuli bianchi non è sufficiente. A differenza dei globuli rossi (che sono tutti uguali), i globuli bianchi si distinguono in alcuni “tipi”: i linfociti, i monociti, i granulociti; questi ultimi, a loro volta, vengono divisi in neutrofili, eosi-nofili e basofili. Ogni tipo svolge funzioni ben precise. Questo significa che quando il numero dei leucociti aumenta, ciò che si incrementa è soprattutto una sua parte: quella coinvolta nel processo difensivo in atto, che può essere contro un batterio, un virus, un parassita, ecc. Per que-sto motivo, individuare quale gruppo di globuli bianchi è cresciuto, può permettere di stabilire quale malattia è in corso attraverso il suo agente patogeno. Ad esempio: i granulociti neutrofili, hanno il compito di “man-giare”, cioè di inglobare e digerire i batteri; i linfociti svolgono un ruolo primario contro gli agenti estranei; i monociti hanno una funzione simile a quella dei linfociti; i basofili agiscono nel corso delle infiammazione; gli eosinofili combattono le allergie e le infezioni da parassiti.

Attenzione, dunque, ai valori dei leucociti.Contando i leucociti presenti nel sangue e dividendone i vari tipi (l’ac-cennata formula leucocita) si può capire se c’è un’infezione e se questa infiammazione è di natura batterica (in questo caso aumentano quei globuli bianchi che si chiamano “granulociti neutrofili”, come accade, ad esempio, nelle banali faringiti o in meningite (infezione delle meningi, cioè delle tre membrane che avvolgono il cervello ed il midollo spinale); o se è dovuta all’assunzione di ormoni steroidei; o ad una intossicazione da farmaci; ad alcolismo; ecc. Se invece aumentano i linfociti siamo in presenza di un’infezione tendenzialmente di origine virale (come accade nel caso della pertosse, della mononucleosi infettiva o malattia del bacio, nella pertosse, nel morbillo, nella varicella, nella epatite virale, ecc.). Un aumento dei granulociti eosinofili si riscontra in varie malattie, tra le quali l’asma bronchiale, l’orticaria, allergia ai farmaci, polmoniti, artrite reumatoide, malattie dello stomaco, dell’intestino, del sangue, malattie

Linfocita Neutrofilo

Eosinofilo

Basofilo

Monocita

Ecco i difensori

Ecco i principali compo-nenti della famiglia dei globuli bianchi, che han-no lo scopo di difendere l’organismo.Linfociti, neutrofili, eosi-nofili, basofili, monociti.

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causate da parassiti, ecc. Un aumento dei granulociti basofili può esse-re il segnale di varie malattie, tra le quali: il morbo di Hodgkin, diabete, tubercolosi, leucemia, ecc. Un aumento dei monociti si riscontra in varie malattie, tra le quali: leucemia, atrite reumatoide, tumore allo stomaco, alla mammella, all’ovaio, turbecolosi, sifilide, tifo, candidosi, mononu-cleosi infettiva ecc.Ci sono anche condizioni nelle quali i globuli bianchi aumentano indi-pendentemente dal fatto che sia presente o meno un’infiammazione o un’infezione: quando i globuli raggiungono picchi altissimi (anche fino a centinaia di migliaia), si è nel campo delle leucemie (termine che indica un gruppo vario di malattie tumorali dei globuli bianchi del sangue).Ma i globuli bianchi possono anche diminuire rispetto ai valori conside-rati normali; questo accade quando il midollo osseo non funziona bene, ad esempio in seguito: - a tumore osseo da metastasi (disseminazione di una malattia, in genere di un tumore, dalla sede in cui si è sviluppato ad un altro organo); - all’esposizione ripetuta o massiccia, a forti dosi di radiazioni ionizzanti (radiazioni che hanno la capacità di alterare la strut-tura degli atomi che costituiscono la materia); - a particolari cure farma-cologiche; - a malattie virali, come ad esempio il morbillo o l’influenza; ad infiammazioni batteriche, come la salmonella del tifo.

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Premessa. Il sangue è composto da una parte liquida (il plasma, che contiene sostanze proteiche, glucosio, lipidi, sali) e da una parte di cellule solide, come i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine. Il suo colore è dovuto ai globuli rossi, che contengono un pigmento detto emoglobina.Le cellule del sangue si formano nel midollo delle ossa con la collabora-zione della milza, delle ghiandole linfatiche, del fegato e di altri tessuti. Il sangue può essere centrifugato e diviso nei suoi componenti in modo che ognuno di questi possa essere analizzato.I globuli rossi, R B C o eritrociti o emazie, hanno, in particolare, il com-pito di trasportare l’ossigeno dai polmoni a tutto l’organismo. Hanno una vita media di 120 giorni poi vengono distrutti e quindi rigenerati. Il nume-ro dei globuli rossi (che nella norma dovrebbe essere compreso tra i 4 e i 5 milioni e mezzo circa), ma soprattutto il valore dell’emoglobina, sono indici molto importanti perché servono a definire quel campo di malattie che vengono chiamate anemie (anemia: diminuzione della quantità di emoglobina o della percentuale di globuli rossi in un campione di san-gue). Un aumento dei globuli rossi è una condizione che può essere un campanello d’allarme: di una cattiva respirazione o di una tendenza ad alterazioni del midollo osseo, da cui nascono i globuli rossi (leucemia).

La Ves, o velocità di eritrosedimentazione.È un’analisi che consente di accertare la presenza nel nostro organismo di un processo anomalo. La Ves è un esame del sangue che misura la velocità con la quale i globuli rossi, o eritrociti, si separano dalla parte liquida del sangue, il plasma, per depositarsi naturalmente sul fondo di una provetta graduata. In pratica, il sangue prelevato viene diluito con una soluzione anticoagulante: il citrato di sodio (un anticoagulante è una sostanza che impedisce la coagulazione del sangue). In questo modo si può, entro un’ora, mettere in evidenza il comportamento dei globuli rossi che, essendo una componente del sangue fatta di corpuscoli, quin-di più pesante, tendono a depositarsi sul fondo, cioè a sedimentare. La differente velocità con cui si verifica questo fenomeno è indicativa dello stato di salute di un individuo. Se, tenuto conto degli altri indici di riferi-mento siamo sani, la sedimentazione dei globuli rossi del nostro sangue avviene lentamente, se invece nel nostro organismo è in atto qualche processo anomalo, avviene troppo velocemente.

Come avviene l’esame?L’esame della Ves è semplice e veloce: rilevato e diluito con l’anticoagu-lante, il sangue viene trasferito in un’apposita provetta graduata e, tra-scorsa un’ora, si prende atto della velocità di sedimentazione leggendo direttamente sulla scala graduata del contenitore i millimetri di plasma lasciato libero dai globuli rossi sedimentati. Fino a pochi anni fa si faceva la media fra il dato finale della sedimentazione e quelli letti dopo un’ora e due ore (indice di Katz). Attualmente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene sufficiente tener conto del solo valore della prima ora.

sE i Globuli rossi sono lEnti a sEdimEntarE è sEGno di buona salutE: la VEs

La Ves è un esame del sangue che mi-sura la velocità con la quale i globuli rossi si separano dalla parte liquida del sangue, il pla-sma. Si tratta di un test generico, il cui esito non permette di individuare una specifica malattia, ma di scoprire o confermare l’even-tuale presenza di un processo anormale nell’orga-nismo e seguirne l’evoluzione fino alla guarigione.La proteina C reat-tiva ed il Tas, sono due esami alter-nativi alla Ves per scoprire un proces-so infiammatorio oppure un’infezione in atto, recente o comunque l’alto rischio di contrarla.

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Di che cosa si tratta?In un individuo sano, cioè con una normale composizione del sangue, il processo di sedimentazione dei globuli rossi si conclude sempre lenta-mente. In alcuni casi, però (per esempio durante il ciclo mestruale o la gravidanza), anche un individuo sano può presentare una Ves elevata. Anche con l’avanzare dell’età la Ves tende ad aumentare. La velocità con la quale i globuli rossi sedimentano aumenta, per esempio, nelle persone affette da anemia e nella fase acuta di tutte le malattie infettive. Questo anche in caso di insufficienza renale, affezioni al fegato, malat-tie reumatiche, tumori, infarto, ecc. Perché accade? Perché quando un organismo è colpito da certe malattie, viene stimolata la produzione di particolari proteine (dette “proteine della fase acuta”) quali il fibrinogeno, le immunoglobuline di una certa classe, le macroglobuline e la proteina C reattiva, Queste sostanze sembrano agire sulla membrana dei globuli rossi per cui s’innesca un processo di avvicinamento dei globuli rossi stessi: si formano così degli “agglomerati” di globuli che, essendo più pesanti, sedimentano più rapidamente. La velocità di sedimentazione dipende infatti in gran parte dal fibrinogeno, dalle globuline presenti e dal numero dei globuli rossi.

L’esito della Ves.L’esito di una Ves non può fornire indicazioni specifiche sul tipo di ma-lattia, avverte soltanto che le condizioni del nostro sangue sono alterate. È comunque un test importante perché può fungere da spia “a largo spettro” di focolai d’infiammazione e di molti altri disturbi. Può, pertanto costituire la prima tappa di un’indagine diagnostica, anche quando sia-mo in grado di segnalare al nostro medico curante soltanto dei sintomi aspecifici, che non consentono al medico stesso di formulare alcuna ipotesi.Inoltre la Ves permette di seguire l’evoluzione di una malattia già indivi-duata con altri mezzi, perché dal confronto di successivi esiti della Ves stessa, è possibile prendere atto di un eventuale peggioramento o di un’attenuazione di un’affezione (per esempio di una malattia reumatica). Se la Ves non è un esame utile ai fini diagnostici rappresenta pur sempre

LA VELOCITÀ DI SEDIMENTAZIONESe lasciato in provetta, il sangue si divide in siero (che va in superficie) e in parte corpuscolare (che finisce in fondo). La velocità con cui avviene questo processo è la Ves (il valore normale è minore di 20 mm).

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un campanello d’allarme, perché il suo valore aumenta nei processi in-fettivi, infiammatori e neoplasici. Il valore del risultato che si ottiene deve comunque essere interpretato alla luce del particolare contesto clinico, ossia in base ad ogni singolo caso.

I valori di riferimento.I valori normali vanno da 0 a 10 millimetri all’ora (maschi); 15 millimetri all’ora (femmine). La diminuzione della Ves rispetto ai valori normali si riscontra in casi di: anemia seria, serie alterazioni a carico del fegato, as-sunzione eccessiva di farmaci anticoagulanti, ecc. Un aumento della Ves può essere spia di tutta una serie di malattie dalle più banali alle molto severe. Nella valutazione dei risultati è molto importante tenere conto del grado di aumento rispetto ai valori considerati normali. Per esempio (e semplificando molto) segnaliamo: valori compresi tra 20 e 50 millimetri all’ora si riscontrano in casi di anemia, artrosi, colecistite, pertosse, cito-megalovirus (responsabile della malattia del bacio), cirrosi, ecc. Valori compresi fra 50 e 90, possono essere un segnale di tumore soprattutto al fegato, di linfoma, di tubercolosi, di epatite virale, ecc. Per valori supe-riori ai 90 –100 millimetri all’ora possono essere il segnale di: leucemia, linfomi, tumori alla mammella, dei polmoni, endocardite (malattia del cuore), encefalite, polmoniti, ecc.

In alternativa alla Ves altri esami aiutano a capi-re se siamo ammalati.L’esito della Ves, dunque, non può fornire indicazioni specifiche sul tipo di malattia: può rivelare soltanto se le condizioni del sangue sono altera-te. Può costituire, pur sempre, la prima tappa di un’indagine diagnostica, In alternativa alla Ves, per scoprire un processo infiammatorio oppure un’infezione in atto, sono validi quegli esami del sangue denominati rispettivamente “Proteina C reattiva” (indicata con le iniziali PCr oppure con l’abbreviazione internazionale CrP) ed il Titolo antistreptolisinico, noto sotto il nome di Tas.

La proteina C reattiva, o PCr.La proteina C reattiva è una proteina normalmente presente nel plasma in concentrazioni minime e non dosabili dai comuni metodi di analisi. La sua presenza aumenta invece con evidenza nel caso di malattie infettive fungendo così da spia di eventuali infezioni. Anche questo test, come la Ves, è quindi aspecifico e non permette di rilevare con specificità la patologia in atto. Mette però in evidenza con un certo anticipo sulla Ves la comparsa di una malattia (in particolare in situazioni di anemia). La proteina C è l’indice infiammatorio per eccellenza, più preciso della Ves anche perché aumenta non appena ci si ammala e si normalizza imme-diatamente dopo la guarigione. Se il suo valore è compreso fra 1 e 10 l’infiammazione in corso è lieve; se è superiore a 10 siamo in presenza di un’infiammazione estesa.

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Il titolo antistreptolisinico, o Tas.La Tas rivela il dosaggio dell’antistreptolisina, un anticorpo che (come la risposta immunitaria) si forma nel sangue di un individuo quando il suo organismo viene aggredito da un particolare batterio detto streptococco emolitico, responsabile di una serie d’infezioni alla gola, tra le quali le co-muni tonsilliti. Queste patologie, un tempo erano molto diffuse e l’azione delle tossine emesse dal batterio in parola, potevano procurare alterazio-ni a livello delle articolazioni e soprattutto delle valvole del cuore. Il valore del Tas viene considerato normale se è inferiore a 200. Un aumento modesto, ossia compreso tra 200 e 500 si riscontra in caso di scarlattina, tonsilliti, faringiti, ecc. Un aumento fra 500 e 5000, cioè un titolo alto, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non segnala sempre la malattia reumatica, ma dimostra che il rischio di contrarla è alto. In parti-colare le cure a base di penicillina che devono essere effettuate in caso di infezione da streptococco, non portano ad una normalizzazione del titolo che, una volta innalzatosi, rimane sempre elevato.

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La glicemia, cioè la concentrazione di zuccheri nel sangue è uno dei valori sempre presenti negli esami richiesti di routine dal medico curan-te, perché è uno degli indicatori fondamentali del benessere del nostro organismo. Una glicemia alta può far sospettare una delle malattie più “famose”: il diabete. Ho detto però sospettare, perché un valore elevato di glucosio (lo zucchero che viene effettivamente misurato) non vuol dire necessariamente diabete. Ma, andiamo con ordine.

Zuccheri complessi e zuccheri semplici.Per ricavare energia dagli alimenti, l’organismo si serve di diverse rea-zioni biochimiche, che trasformano gli alimenti in sostanze più semplici: ad esempio, pasta, pane, riso, ecc. (che sono degli zuccheri complessi) vengono trasformati in uno zucchero semplice chiamato glucosio. Ed il glucosio è appunto lo zucchero che si misura per conoscere il valore del-la glicemia del nostro organismo in ogni momento della giornata.

Il diabeteIl diabete è una malattia caratterizzata dalla carenza di un ormone: l’in-sulina, prodotta dal pancreas, una ghiandola posta vicino al fegato. Il ruolo dell’insulina è di consentire al glucosio (zucchero semplice derivato dalla digestione dei cibi) di essere assorbito dalle cellule che, come già sappiamo, lo utilizzano per produrre energia. Se non si rimedia a questa carenza di insulina, gran parte di questo zucchero continua a circolare nel sangue e non può entrare nelle cellule per essere utilizzato come loro alimento. La conseguenza di questo stato è appunto la iperglicemia, cioè l’elevata concentrazione di zucchero nel sangue per essere poi eliminato con le urine. La conseguenza più immediata per il nostro organismo è l’impossibilità di contare su un’adeguata quantità di energia.

Le due forme di diabeteGli specialisti distinguono due principali forme diverse.Nel diabete di tipo 1 o insulino-dipendente, in cui l’insulina è del tutto assente. Il pancreas non riesce a produrla, perché il sistema immunitario

Quando il sanGuE è troppo dolcE: GlicEmia E diabEtE

Il diabete è una delle malattie a più elevato costo sociale. Nei laboratori scientifici si stanno mettendo a punto sistemi più efficaci di somministrazione dell’insulina (il farmaco più utilizzato per curare questa patologia) mentre si sperimentano anche nuove medicine.

LA MISURA DELLO ZUCCHEROPer calcolare la glicemia, il siero viene fatto reagire con una sostanza che lo colora

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(probabilmente a causa di un difetto genetico) ha distrutto le cellule che normalmente la producono. Per sopperire a tale carenza, le persone che soffrono di questa patologia devono iniettarsi il necessario quantitativo giornaliero di insulina. Il problema può manifestarsi a qualsiasi età, pre-valentemente in persone con meno di 30 anni, soprattutto nei bambini. I sintomi che caratterizzano la comparsa del diabete di tipo 1 sono: sete persistente, frequente ed abbondante emissione di urine, aumento della fame, accumulo di acetone nelle urine (chetoacidosi). La presenza di acetone è dovuta al fatto che la mancanza di insulina, impedendo al no-stro organismo di utilizzare lo zucchero indispensabile alla vita, costringe il nostro stesso organismo a rifornirsi di energia (di cui ha assoluta neces-sità), attingendo ai depositi di grasso del corpo. Questo consumo rapido dei grassi comporta un accumulo eccessivo nel sangue e nelle urine di alcune sostanze di scarto tra le quali, l’acetone.Nel diabete del tipo 2, o non insulina-dipendente, la produzione di in-sulina c’è, ma è insufficiente a soddisfare i bisogni dell’organismo per cui un diabetico viene trattato con farmaci che stimolano la secrezione del-l’insulina. Questa forma di diabete colpisce persone che hanno superato i 30 anni e si associa prevalentemente a problemi di sovrappeso, infatti le persone obese hanno più probabilità di manifestare questa malattia. Nella maggior parte dei casi, la malattia compare età adulta nelle perso-ne in sovrappeso e si manifesta con sintomi caratteristici: continua sen-sazione di sete eccessiva; emissione frequente ed abbondante di urina, stanchezza, ferite che stentano a guarire, prurito ai genitali, impotenza, ecc. E’ molto importante riconoscere al più presto questi segnali, per poterli riferire al medico per poter iniziare subito una cura appropriata che tenga sotto controllo la malattia, prevenendo così la comparsa di complicazioni. Prima si comincia la cura per il diabete, minori sono le probabilità di complicanze. A differenza dei diabetici di tipo 1, quelli che soffrano della forma di tipo 2 non manifestano mai un accumulo di ace-tone delle urine, cioè chetoacidosi.

Le causeLe cause del diabete di tipo 1 non sono ancora del tutto note, ma secon-do alcune ipotesi, il diabete insulino-dipendente avrebbe basi genetiche, cioè si erediterebbe la predisposizione ad ammalarsi. Un’altra ipotesi ritiene questa patologia una malattia di tipo autoimmune, una conse-guenza cioè del processo di distruzione delle cellule del pancreas che producono l’insulina (cellule Beta) da parte di anticorpi prodotti dal no-stro stesso organismo. In altre parole il nostro organismo agirebbe con-tro i suoi stessi componenti innescato da un’infezione virale. Particolari tipi di virus sarebbero capaci di alterare le cellule Beta in modo tale che il nostro sistema immunitario non le riconosce più come facenti parte di sé stesso e produrrebbe anticorpi in grado di distruggerle.Per quanto riguarda il diabete di tipo 2, la carenza d’azione dell’insulina sarebbe causata da una serie di fattori quali; l’obesità, la mancanza di attività fisica regolare, l’accumulo di tensione e di stress, il ritmo freneti-

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co della vita cittadina attuale, la rumorosità dell’ambiente, le gravidanze ripetute, ecc. Ma anche una certa predisposizione familiare allo sviluppo della malattia.

Le conseguenzeMediamente circa il 3% della popolazione soffre di diabete. Mentre in passato il diabete veniva considerato una patologia invalidante, oggi non è più così. Negli ultimi anni sono stati fatti molti passi avanti nella cura di questa malattia, che hanno permesso a chi ne soffre di condurre una vita pressoché normale. Il diabete, tuttavia, rimane un disturbo da non sotto-valutare. Anzi. Un’alimentazione con una riduzione drastica del consumo di zuccheri, ma ricca di fibre, è una regola fondamentale ben conosciuta da chi ha già scoperto di essere diabetico o per chi ha la predisposizione a diventarlo. E, poiché la prevenzione è sempre il primo passo per chi cerca di ridurre la probabilità di incorre in questa malattia, la dieta resta sempre la base essenziale nella cura.Se il diabete viene trascurato, dopo alcuni anni i disturbi possono farsi seri. Le complicanze più serie riguardano: alterazioni a livello degli oc-chi, dei reni, del sistema nervoso, del piede, ecc. In particolare, se una persona si ferisce senza accorgesene, la ferita potrebbe rimarginarsi con difficoltà, potrebbero formarvisi delle ulcere o gangrena.

I valori di riferimentoIn base ai risultati degli esami il medico curante ci può parlare di: glicemia normale, se il valore del glucosio è inferiore a 100 milligrammi/decilitro ed in questo caso possiamo stare tranquilli, ancora di più se non si han-no parenti stretti con il diabete (la malattia ha infatti una componente familiare); se invece il valore è compreso tra 100 e 110 mg/dl, si parla di stato di alterata glicemia ed è considerato un “segno di attenzione” soprattutto se la persona è in soprappeso; con un valore del glucosio compreso fra 110 e 126 mg/dl, si parla di intolleranza agli zuccheri; da 126 in su, può diagnosticare il diabete.

Come si curaPromettenti, sono i risultati della nuova tecnica del trapianto di cellule del pancreas (cellule Beta) produttrici di insulina. Secondo lo stato della persona e il grado raggiunto del diabete, gli elevati livelli di glicemia pos-sono essere tenuti sotto controllo: con la dieta, l’esercizio fisico, i farmaci ipoglicemizzanti orali e, quando è necessario, la somministrazione di in-sulina. La cura del diabete con insulina, come viene concepita oggi, pre-vede l’utilizzo dell’“insulina pronta” (ad azione immediata) o di farmaci “analoghi” che svolgono le medesime azioni dell’ormone prima di ogni pasto e di un’insulina ad azione protratta, alla sera prima di coricarsi (i cui effetti si protraggono per 24 ore). La cura con insulina è obbligatoria nel diabete di tipo I, ma in alcune circostanze anche il diabete 2 deve essere trattato con questo ormone. Però, poiché passando per lo stoma-

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co l’insulina viene distrutta dai succhi digestivi, essa deve essere som-ministrata per via sottocutanea. I tentativi di assumerla per bocca sono ancora sperimentali. Negli ultimi tempi buoni risultati sono stati ottenuti con l’insulina-spray presa per inalazione, utilizzando dispositivi simili agli inalatori utilizzati per i farmaci anti-asmatici.

Attenzione alle crisi ipoglicemiche!Quando le persone diabetiche sono in trattamento con insulina o con altri farmaci in grado di abbassare il tasso di glucosio nel sangue (farmaci ipoglicemizzanti), può facilmente accadere che il livello di glucosio circo-lante nel loro sangue scenda sotto il livello di guardia (cioè sotto i 60-70 mg/dl) causando il cosiddetto “stato ipoglicemico” acuto. In questo caso lo zucchero (o meglio il glucosio) che è una fonte di energia importante per il buon funzionamento delle cellule del nostro organismo diventa un problema per il cervello. Di conseguenza si scatenano manifestazioni diverse e tipiche (stanchezza, nausea, fame, sudorazione, diminuzione della vista, perdita di coscienza, ecc). Crisi di questo tipo si possono manifestare anche quando: un diabetico salta un pasto; con una dieta povera di zuccheri complessi (pane, pasta, legumi ecc); abusa di alcol; compie uno sforzo fisico intenso; sbaglia insulina, ecc.

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Il fegato, la ghiandola più grande del nostro corpo si ritrova nella parte destra dell’addome sotto il diaframma. Rappresenta il laboratorio chimi-co del nostro organismo perché in esso avvengono le più importanti rea-zioni. Pesa circa 1 chilo e mezzo. Ha una forma irregolare ed un colore rosso scuro a causa della sua intensa irrorazione sanguina.

Un fegato sano è il principale organo di disintossicazioneIl fegato è un organo costituito da migliaia di lobuli, piccole unità nelle quali penetrano le diramazioni: dell’arteria epatica (attraverso la quale il sangue proveniente dal cuore giunge al fegato per nutrire ed ossigenare le sue cellule) e della vena porta (attraverso la quale il sangue porta al fegato le sostanze nutritive, come grassi e zuccheri, che vengono utiliz-zate e conservate). Ne esce la vena epatica (attraverso la quale il sangue lascia il fegato portando via anidride carbonica e altre sostanze di rifiuto). La bile esce dal fegato attraverso una rete di condotti che s’ingrossano gradualmente fino a confluire nel dotto epatico, che la scarica nell’inte-stino dove compie le sue funzioni digestive. Nei lobuli, il sangue viene filtrato in modo che le sostanze nutritive contenute siano selezionate, trasformate e distribuite a tutti i tessuti del corpo.

Quando è sano ha numerose funzioniIl fegato, vero e proprio laboratorio chimico, svolge numerose attività es-senziali per il benessere del nostro organismo: riceve dall’intestino il san-gue ricco di tutti i principi nutritivi assunti con gli alimenti, li trasforma, li accumula e li reimpiega, intervenendo nella trasformazione di grassi, zuccheri e proteine (le proteine sono delle molecole che costituiscono le strutture fondamentali di tutte le cellule oppure, sotto forma di enzimi sono delle sostanze regolatrici di reazioni chimiche che avvengono nel nostro organismo). Produce la bile (un liquido verdastro che a livello in-testinale favorisce l’assorbimento dei grassi alimentari e di alcune vitami-ne). Il fegato è anche utile per eliminare sostanze tossiche, certi farmaci, il colesterolo in eccesso, depura l’organismo dalle tossine ecc.

la salutE dEl fEGato: uno dEi filtri naturali*

Il più grande laboratorio del nostro organismo non invecchia mai: basta poco, infatti, per proteggerlo. Però, si ammala. Se danneggiato si rigenera, anche!

* Un’altro filtro naturale è il rene

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I nemici del fegatoIl fegato svolge dunque un numero incredibi-le di funzioni quando è sano, ma può anche ammalarsi seriamente e, quello che è peggio, senza che noi inizialmente ce ne accorgiamo. Il più delle volte, infatti, anche se il fegato è ammalato non si avvertono dolori e particolari sintomi, in quanto si tratta di un organo privo

di terminazioni nervose sensitive al suo interno e che, quindi, non può trasmettere impulsi nervosi. Proprio per questo motivo è estremamente importante sapere: - quali sono le malattie che possono colpire la più grande ghiandola del nostro organismo; - quali sono gli accorgimenti per prevenirle; - come si possono curare, qualora se ne sia già affetti.Sono molti i fattori che possono fare ammalare il nostro fegato: dagli agenti infettivi (virus, batteri e parassiti), alle sostanze tossiche (farmaci ed alcool) a certi alimenti troppo grassi. L’Italia, con circa 1 milione e mezzo di portatori di virus dell’epatite C, un milione di portatori del virus B e circa 500 mila persone affetto da cirrosi, è uno dei paesi occidentali al primo posto per le malattie del fegato.

Guarisce da solo, non invecchia, anzi ha la capacità di rigenerarsiPerché esso possa svolgere tutti i suoi compiti, è sufficiente che funzio-ni almeno il 30% dell’organo. Questo significa che i sintomi di malattia possono manifestarsi quando ormai il 70% del fegato è più o meno dan-neggiato. A questo punto, se il trattamento non è tempestivo oppure se la persona si trascura, c’è il rischio che la malattia diventi cronica e porti a complicanze sempre più serie. E’ anche l’unico organo capace di rige-nerarsi se viene danneggiato o di sostituire con cellule giovani quelle più vecchie. Può infatti ricostituirsi fino ad un terzo delle sue dimensioni.

Per vedere se tutto è in ordinePer tenere sotto controllo il fegato (ad esempio se si assumono determi-nati farmaci per lunghi periodi, se si è un po’ esagerato con il cibo o con l’alcool), può essere utile eseguire alcuni esami. Gli esami che servono a controllare la funzionalità del fegato sono: le Transaminasi enzimi del fe-gato la cui alterazione indica un probabile danno, anche se non ne speci-fica la natura. I valori normali di transaminasi nel sangue sono compresi tra 5 a 40 unità per litro. La gamma GT o gamma glutamil traspeptidasi, un altro enzima del fega-to la cui alterazione indica la presenza di danni a questo organo. I valori normali della Gamma GT nel sangue sono compresi fra 2 a 38 unità per litro. L’Ecografia del fegato, che permette di avere una buona visione dell’organo a di individuare una eventuale steatosi (fegato grasso), di seguire un’epatite cronica o di escludere la presenza di un tumore. Se gli esami vengono eseguiti in strutture pubbliche o convenzionate con il

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Servizio sanitario nazionale, il costo è soltanto quello del ticket.

Basta poco per proteggerloPerché il fegato possa mantenere il suo stato di “eterna giovinez-za”, è però necessario seguire alcune regole di comportamento. Bisogna prestare attenzione: all’alimentazione; alll’assunzione di alcool, l’assunzione costante di particolare farmaci per lun-ghi periodi; alla possibilità di contrarre malattie di origine virale (epatiti). La capacità di rigenerazione del fegato è sorprendente: basata anche solo il 40% di tessuto sano ed in poco tempo si ricostru-isce in modo completo.Questo organo, “l’organo muratore”, è capace di ricostruire la propria massa quando questa si riduce per cause come traumi o malattie ( in-fettive, virali o tossiche) o interventi chirurgici. Quest’organo ricresce in modo normale ed il processo rigenerativo si blocca da solo nel momento in cui l’organo stesso ha raggiunto il volume che aveva in precedenza. Oltre al tumore possono ridurre la massa del fegato: le epatiti: A, B, C, E, F, G ed anche l’avvelenamento da funghi che contengono delle sostanze tossiche per il fegato.

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Le epatiti viraliLe principali malattie del fegato sono le epatiti virali, cioè le epatiti provo-cate da virus. Sono state denominate con le lettere dell’alfabeto secondo il tipo di virus infettante, le modalità da trasmissione, la gravità dei sinto-mi. Le più diffuse sono l’epatite A, causata dal virus Hav; la B, causata dal virus Hbv; la C causata dal virus Hcv. L’epatite A, la B, e la C sono le più conosciute da maggior tempo e di loro si ha un maggior numero d’in-formazioni. La D e la E, identificate più recentemente, non sono meno insidiose anche delle epatiti F e G, di ancora più recente identificazione. Soltanto l’epatite A e la B si possono prevenire con la vaccinazione, men-tre per le altre la protezione si basa esclusivamente sulla messa in pratica di alcune regole di comportamento. E ancora, l’epatite A non diventa mai cronica e solitamente non determina gravi danni al fegato. La B e la C possono invece diventare croniche e causare, talvolta, problemi di salute molto seri, come la cirrosi epatica o il tumore al fegato.

EpatitE a. Se la conosci, puoi evitarla. Occhio al ciboL’epatite A è una malattia infettiva causata dal virus Hav, che si trasmette per via oro-fecale, cioè una malattia che si contrae mangiando cibi contaminati con acqua infetta, perché venuta a contatto con feci di ammalati (il virus, infatti, viene liberato con le feci).Le principali fonti d’infezione sono perciò costituite da alimen-ti non correttamente controllati dal punto di vista igienico. Tali fonti sono: i frutti di mare (quali mitili, cozze, ecc. che possono

venire facilmente a contatto con gli scarichi delle fogne; frutta e verdura innaffiata con acqua infetta e lavate in modo approssimativo; ghiaccio ottenuto con acqua infetta. La cottura, il freddo e anche la pulizia con detergenti, non sono in grado di eliminare il virus, che è molto resistente. La trasmissione della malattia può avvenire anche bagnandosi in acque inquinate dal virus (che possono essere ingerite), oppure da persona a persona in caso di poca igiene (ad esempio se il malato tocca il cibo destinate ad altre persone senza essersi lavato le mani dopo essere stato alla toilette).

I sintomiI sintomi dell’epatite A non sono caratteristici e per questo motivo può capitare che non ci rendiamo conto di aver contratto la malattia o che questa venga scambiata per una semplice influenza. Questo accade so-prattutto con i bambini, nei quali il decorso dell’epatite a è quasi sempre leggero ad asintomatico, cioè non si manifestano sintomi evidenti. Negli adulti, invece il decorso dell’epatite A è più serio, anche se solo raramen-te le conseguenze della malattia sono gravi.

Epatiti E Virus a confronto

Un’epatite è un’infiammazione del fegato che provoca la lesione e la morte (necrosi) delle cellule. Può essere causata da virus, alcool o farmaci e da lesioni immunitarie. Esistono forme acute (ossia di durata limitata) oppure forme croniche della malattia.

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I principali sintomi dell’epatite A sono: stanchezza, febbricola, mal di te-sta, dolori ai muscoli, ecc. L’ittero (colorazione giallastra della parte bian-ca degli occhi e della pelle, dovuta ad un’elevata percentuale di bilirubina nel sangue), che è il sintomo più evidente della malattia, non sempre è presente e ciò rende più difficile una diagnosi immediata. In Italia si re-gistrano ogni anno 14 casi di epatite A ogni 100mila abitanti, con punte estreme in Campania ed in Puglia. L’epatite A colpisce soprattutto i gio-vani con meno di 35 anni, che non l’hanno contratta durante l’infanzia e non risultano quindi protetti.

Come sapere se si è contagiati?Per effettuare una diagnosi corretta di epatite A. non‘è sufficiente osser-vare i sintomi, perché come si è visto sono spesso blandi e, a parte l’itte-ro, sono aspecifici (cioè sono presenti anche in altre malattie). Nel caso di sospetta epatite, è necessario sottoporsi ad alcuni esami del sangue per determinare la presenza o meno del virus. Le analisi sono solitamen-te prescritte tutte a carico del Servizio sanitario nazionale.Le Transaminasi: si tratta di un test che misura due enzimi del fegato, chiamati Sgot e Sgpt; valori superiori alla norma indicano la presenza di danni al fegato, che però possono essere dovuti a causa diverse. Per una diagnosi di epatite A, è quindi necessario effettuare esami più specifici.Le Immunoglobuline M anti-Hav: è un esame specifico che permette di determinare con certezza la presenza del virus. La Immunoglobulina G anti Hav. Sono anticorpi diretti contro il virus dell’epatite A che, al contra-rio delle immunoglobuline M, sono presenti dopo la guarigione. Hanno una funzione protettiva; impediscono cioè di ammalarsi nuovamente di epatite A. Questo esame non serve quindi a capire se la malattia è in corso, ma solo se si è sofferto di epatite A e se si è protetti. La Biliburina. E’ una sostanza colorata, normalmente presente nella bile. La sua concentrazione nel sangue aumenta quando c’è l’ittero. E’ infatti la bilirubina che, con la sua presenza, conferisce la colorazione gialla alla pelle ed agli occhi.

Come si previenePer prevenire l’epatite A si consiglia di: vaccinarsi prima di un viaggio in un paese in via di sviluppo; vaccinarsi se si praticano professioni a rischio, come per esempio operatori ecologici; cuocere sempre e a sufficienza i frutti di mare; all’estero, in paesi a rischio evitare di consumare insalate e verdure crude, acqua di rubinetto, latte non pastorizzato, ghiaccio nelle bibite, ecc.

Si cura senza farmaciTranne che in rari casi che hanno un decorso fulminante e che possono essere salvati con un trapianto di fegato, l’infe-zione si risolve spontaneamente nel giro di qualche settima-

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na senza necessità di farmaci. La guarigione avviene spontaneamente, anche se è necessario restare sot-to controllo medico, riposarsi e seguire una dieta ap-propriata, specie se è presente l’ittero. Vanno evitati i grassi, quindi i cibi particolarmente pesanti. E’ bene evitare di consumare alcolici per almeno 6 mesi. La guarigione in caso di epatite A si verifica sempre: la malattia non diventa cronica e non esiste lo sta-to di portatore sano del virus, come accade invece nel caso delle epatiti B e C. Anche se l’epatite A, al contrario della B e della C non si trasforma mai in una forma cronica che potrebbe condurre alla cirrosi epatica (grave malattia del fegato che impedisce a questo organo di svolgere correttamente le sue fun-zioni), è comunque importante cercare di prevenir-la. Il rischio di contrarre l’epatite A coinvolge un po’ tutti. Attenzione soprattutto per chi viaggia molto e

chi lavora a diretto contatto con liquami o acque reflue.

Il vaccinoAnche se una cura vera e propria (come invece accade per l’epatite B e l’epatiteC) non esiste, si può prevenire la malattia col vaccino, che è con-sigliato prima di andare in molti Paesi all’estero ed è molto utile anche in Italia. La vaccinazione va invece evitata durante la gravidanza e nei bambino che non hanno ancora compiuto un anno.

Come il virus infetta il fegatoIl virus dell’epatite A, cioè il virus Hav, penetra nell’organismo per via orale, cioè attraverso la bocca, con l’ingestione di cibi infetti e poi giunge nello stomaco dove, attraverso la vena porta (un grosso vaso sanguigno che trasporta il sangue dallo stomaco al fegato), arriva al fegato. Qui si moltiplica causando la morte delle cellule che costituiscono questo organo. Dal fegato l’Hav arriva nell’intestino attraverso la bile (sostanza prodotta dal fegato stesso immessa nell’intestino con la funzione di per-mettere la digestione dei grassi) e da qui il virus viene emesso all’esterno attraverso feci infette. A questo punto il ciclo può ricominciare perché il virus Hav può infettare altre persone.

Le prime regole

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Che cos’è l’epatite B.E’ una malattia infettiva che colpisce il fegato causata dal virus B (Hbv), che si trasmette attraverso il sangue ed i rapporti sessuali non protetti e che può venire passato dalla madre al figlio durante il parto. Per quanto riguarda il rischio di contrarre il virus dell’epatite B mediante trasfusioni di sangue, attualmente non c’è più motivo di allarmarsi: tutti i donatori sono, infatti, sottoposti a rigorosi test in grado di verificare con certezza se sono presenti virus responsabili delle varie epatiti.

I sintomi.Come per l’epatite A, anche in questo caso i sintomi sono pochi, molto attenuati e generici. I disturbi che può provocare l’epatite B sono: males-sere, stanchezza, nausea, mancanza di appetito. A volte compare l’ittero (itterizia) e, in questo caso, la diagnosi risulta più semplice. Anche se nel 90% degli adulti ammalati l’epatite B guarisce (cioè non diventa cronica e non lascia tracce), le conseguenze di questo tipo di infezione possono, però, essere molto serie. Tra i sintomi più significativi per capire se si è venuti a contatto col non Hvb va ricordato: il cambio di colore dell’urina (diventa scura) e delle feci (diventano chiare).

Come entra il virus e come agisce.Anche nell’epatite contraddistinta dalla lettera B, il virus Hbv, funziona da antigene (cioè da sostanza estranea che, immes-sa nell’organismo, provoca la produzione di anticorpi); entra-to nell’organismo va ad annidarsi nelle cellule del fegato, ma senza attaccarle. Nel caso dell’epatite B, il vero responsabile del danno subito dal fegato non è il virus, ma il nostro naturale sistema di difesa, cioè il sistema immunitario, che ha il com-pito di difendere l’organismo da qualsiasi sostanza estranea. Questo, una volta individuato il nemico, si attiva per combat-terlo ed eliminare la sostanza “anomala”. Nel “bombardare” il virus nemico, però, il sistema immunitario va a colpire e di-struggere le cellule del fegato all’interno delle quali si è annida-to. La sofferenza delle cellule del fegato provoca un aumento delle transaminasi (un enzima che si trova al loro interno). A differenza dell’epatite A, l’epatite B non si trasmette attraverso il cibo o l’acqua.

Come evolve l’epatite B.L’evoluzione dell’epatite B può prendere tre strade diverse. 1° GUARIRE. La maggior parte delle persone con epatite B guarisce completamente e sviluppa un livello di protezione dal virus che le rende poi immuni (cioè resistenti alla malattia per tutta la vita). Le persone che sono guarite han-no nel sangue l’anticorpo HbsAB e non sono più contagiose. 2° RIMANERE NASCOSTA. In altri casi il virus entrato nell’organismo

EpatitE b, una malattia pEricolosa E infida

E’ la forma più insidiosa delle epatiti: spesso è silenziosa; i suoi sintomi sono pochi e possono essere confusi con quelli di altre malattie. Attenzione ai piercing. In Italia gli ammalati sono circa un milione e mezzo ed il loro numero non è certo in diminuzione. Come ridurre i pericoli di contagio. L’unico modo per debellarla è il vaccino.

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viene combattuto e vinto, ma una parte di esso si integra nei nuclei delle cellule epatiche trasformando il malato in portatore sano e ciò non “in-sospettisce” neanche il sistema immunitario. Tuttavia, la possibile pre-senza (se pur minima) di virus nel sangue del portatore sano, si traduce in un certo rischio (basso ma esistente) di trasmissione dell’epatite B. 3° DIVENTARE CRONICA. L’epatite B non guarisce né spontaneamente né con le cure e si cronicizza. In questo caso si caratterizza per un’alter-nanza di periodi in cui le transaminasi sono elevatissime, segnale questo che molte cellule del fegato sono state distrutte. L’assenza di transamina-si alte, non sempre segnala la scomparsa della malattia. In questi casi il medico curante tiene a lungo l’ammalato sotto controllo e può pensare anche ad un possibile biopsia epatica.

Come avviene il contagio?L’epatite B si trasmette attraverso il sangue o i rapporti sessuali non pro-tetti: chi ha questa malattia, infatti, oltre ad avere il virus nel sangue, lo ha anche nello sperma o nelle secrezioni vaginali. Il contagio avviene soltanto se uno di questi tre elementi entra nell’organismo dell’individuo sano attraverso, per esempio, una ferita sulla pelle o una lesion,e della mucosa genitale, orale od anale. Il rischio è più nei giovani, per la mag-giore frequenza dei rapporti sessuali. La vaccinazione a 12 anni è stata, infatti, pensata per fare in modo che ragazzi e ragazze arrivino protetti all’età dei rapporti, almeno dalla epatite B (la sola assieme alla A per la quale esiste un vaccino). Del resto: le norme più rigide nella selezione dei donatori di sangue e maggiori controlli sul sangue destinato alle tra-sfusioni; l’introduzione delle siringhe monouso o di aghi usa e getta per eseguire i tatuaggi; una maggiore attenzione sulla idoneità dei centri este-tici e degli ambulatori di ogni tipo, hanno concorso a ridurre il pericolo di trasmissione dell’epatite B, almeno attraverso il sangue. Ciononostante è molto facile che pure in una coppia stabile in cui uno dei partner abbia il virus cronico, anche l’altro sia contagiato. Fortunatamente nella maggior parte dei casi l’epatite B contratta nell’età adulta si risolve in modo posi-tivo, cioè se ne va senza fastidi.

Come si scopre.Per diagnosticare l’epatite B sono fondamentali gli esami del san-gue (a carico del Servizio sanitario nazionale), cioè si paga soltanto il ticket. Oltre a quelli più generali (transaminasi, gamma GT e bili-rubina), i cui valori nel caso dell’(epatite B risultano alterati , esiste un test specifico per l’epatite B.

La cura.Fino a qualche tempo fa, l’unica cura disponibile contro l’epatite B era l’interferone, questo farmaco non è un antivirus, cioè con azione diretta sul virus ma è in grado di stimolare le difese natu-rali dell’organismo, cioè il sistema immunitario, i risultati ottenuti

Attenti ai tatuaggi.Se non vengono ese-guiti in condizioni di sicurezza possono trasmettere un virus pericoloso.

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da questo trattamento erano buoni, ma non eccellenti: riusciva a guarire soltanto il 40% dei malati di epatite B e l’interferone aveva diversi effetti collaterali. Oggi è a disposizione dei malati di epatite B cronica un nuovo farmaco, denomenato “lamivudina”, capace di bloccare il virus e normalizzare i valori delle transaminasi. Que-sto farmaco non è ancora la soluzione per tutti i problemi, ma rappresenta una cura molto utile per ritardare la comparsa della cirrosi epatica. Sono attualmente in corso studi mirati a verifica-re l’efficacia dell’interferone associato alla lamivudina e ad altri antivirali onde poter agire a vari livelli. Per prevenire l’epatite B, esiste invece un vaccino efficace e sicuro ottenuto con sofisticate tecniche di ingegneria genetica, in grado di conferirci l’immunità.

Il vaccino per proteggersi prima.Il vaccino è l’unica opportunità per proteggersi davvero dal rischio della epatite B. Da una decina di anni (dal 1991) la vaccinazione è obbligatoria e va eseguita entro il primo anno di vita. Entro il 2003 tutte le persone di età compresa fra 0 e 24 anni saranno probabilmente vaccinate e l’epa-tite B non dovrebbe più rappresentare un problema. Il vaccino è partico-larmente consigliato a categorie di persone considerate a rischio come: i lavoratori e gli operatori sanitari; le persone che adottano comportamenti a rischio (per esempio, scambio di siringhe, rapporti sessuali non protetti con più partner); persone che vivono a contatto con malati di epatite B; ecc. Il vaccino nelle fasce d’età obbligatorie è a totale carico del Servizio sanitario nazionale. Per gli adulti, invece, è a pagamento.

Regole per stare tranquilli.Al di là della vaccinazione si può adottare una serie di precauzioni, cioè di comportamenti che consentano di ridurre il rischio di contagio. Questo richiede di: usare profilattici per tutti i rapporti sessuali con partner non sicuri (ed usarli sempre quando si hanno più partner); evitare anche in famiglia di scambiare siringhe, lamette, forbici per unghie spazzolini da denti ed altri strumenti che vengono a contatto con il sangue; sottrarsi ai tatuaggi ed ai piercing se il tatuaggio non garantisce che tutti gli strumenti utilizzati sono monouso e sterilizzati, e la spiaggia non è certo il luogo igienico dove fare questa pratica. E, attenzione ancora: l’epatite B e l’epa-titeC, se non vengono rispettate le norme sanitarie, si possono prendere anche dal dentista. E’ un problema più diffuso di quanto si creda; lo ha segnalato il Servizio di sorveglianza epidemiologica italiane le statistiche presentate sono decisamente allarmati. Lo stesso rischio si corre anche andando dal callista.Può essere utile sapere che in seguito ad un rapporto sessuale con un partner colpito da epatite è possibile ridurre il rischio di contrarre la ma-lattia sottoponendosi ad un trattamento profilatico di immunoglobuline (dette anche gammaglobuline) che hanno lo scopo di rinforzare le difese immunitarie, consentendo all’organismo di soffocare sul nascere la ma-lattia.

L’epatite non si prende dal dentista: se vengo-no rispettate tutte le norme sanitarie.

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L’epatite C è una malattia del fegato che oggi si sa essere causata da un virus ben preciso, l’Hcv (Hepatitis C virus), del quale si conoscono alcune variabili. Nel nostro Paese colpisce quasi 2 milioni di persone. La mag-gior parte delle persone ha contratto la malattia attraverso una trasfusio-ne di sangue, altri scambiandosi una siringa infetta (è questo il caso dei tossicodipendenti). In misura minore con rapporti sessuali non protetti o da madre a figlio al momento della nascita. Ma c’è anche chi (e sono tanti) non sa né come, né quando, né dove sia venuto a contatto con il virus dell’epatite C, un virus del quale si è riusciti a rilevare la presenza nel sangue soltanto nel 1990.

É un’infezione subdola, silenziosa, a rischio di evolvereÉ un’infezione che ha come ospite esclusivo l’uomo, è ingannevole perché il più delle volte non dà sintomi caratteristici per cui la malattia va avanti per anni senza dare alcun disturbo. Il problema è proprio que-sto: siccome sta bene, chi ne è infetto non fa esami e non si cura, ma intanto il virus altera le funzioni del fegato e c’è il rischio di trasmettere inconsapevolmente ad altri la malattia. Di solito l’epatite C viene scoperta casualmente eseguendo esami del sangue nel corso di un check-up di controllo. L’unico segnale sospetto è un aumento del livello delle tran-saminasi (enzimi del fegato che indicano, appunto, una sofferenza di questo organo). Nel caso dell’epatite C le transaminasi più significative sono le Alt (alanina-transferasi) che, insieme alla presenza del virus nel

la tEmibilE EpatitE c, chE spEsso c’é anchE sE non si sEntE

Non dà sintomi, ma c’é il pericolo che diventi cronica, passando prima a cirrosi poi a tumore del fegato. Individuata il più delle volte per caso e spesso in ritardo, difficile da combattere, oggi sembra finalmente domabile con un nuovo trattamento (che è un complesso di farmaci), variabile anche in funzione del peso della persona. Si vedrà.

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sangue, indicano non solo l’esistenza della infezione, ma anche le sue fasi evolutive.

Può evolvere in due modi.Controllando i valori delle transaminasi è stato possibile verificare che l’epatite C può evolvere in due modi: 1) verso la guarigione; 2) diventa-re cronica (ossia continuare ad essere), passare a cirrosi epatica, poi in cancro del fegato.

Pericolo di cirrosi.In più della metà dei casi di pazienti affetti da epatite C, l’infezione di-venta cronica determinando un’infiammazione persistente del tessuto epatico ed una compromissione della struttura dell’organo. Si tratta di lesioni importanti che però non determinano necessariamente problemi tanto seri da minare la qualità della vita. Ma, a distanza di 20-30 anni, 20 epatiti su 100 diventano delle cirrosi (si parla di cirrosi quando il tes-suto epatico viene progressivamente sostituito da tessuto fibroso per cui si indurisce, si riempie di noduli e di cicatrici). Questo determina una disorganizzazione della struttura del fegato sempre più grave. La cirrosi può a sua volta evolvere in cancro del fegato. Il rischio, dunque, per chi ha contratto l’epatite C, è che la malattia diventi cronica (ossia sempre presente) come accade più o meno nell’80% delle volte. In questi casi, dicevo, si ritiene che il virus si nasconda nelle cellule del fegato e, a di-stanza di 20-30 anni possa provocare lesioni molto serie che possono portare alla cirrosi epatica o al cancro del fegato.

Come si trasmette.L’infezione dell’epatite C si trasmette principalmente attraverso il sangue ed il sangue, mediante la circolazione, arriva al fegato. Soprattutto negli anni trascorsi l’epatite C è stata in gran parte diffusa attraverso trasfusioni non adeguatamente controllate e strumenti medici non perfettamente sterilizzati. Quando ancora non si conosceva il virus C, nessuno poteva dubitare che fosse resistente a metodi di sterilizzazione blanda (come ad esempio i raggi ultravioletti). Qualche preoccupazione a tal proposito c’è. Il rischio, attualmente è rappresentato tanto dagli strumenti utilizzati in sala operatoria (che vengono sempre perfettamente sterilizzati in au-toclave), quanto da attrezzi taglienti o comunque penetranti che sono

Anche in famigliaPrestare attenzione a...

Contro l’epatite C non esiste ancora un vac-cino.L’unico modo per prevenire la malattia è, quindi, quello di seguire precise norme di comportamento che diminuiscono il rischio di ammalarsi.Bisogna quindi evitare lo scambio di:

Se non perfetta-mente sterilizzati, il rischio di con-trarre l’epatite C riguarda anche:

abitualmente utilizzati dal dentista, in molti studi medici, dal callista, per i piercing, ecc. Il pericolo di contagio è stato comunque fortemente ridotto con l’introduzioni degli strumenti usa e getta. Anche in famiglia, però (benchè più raramente) l’epatite C si può diffondere attraverso lo scambio di spazzolini da denti, forbicine per unghie, lamette da barba, rasoi per la depilazione, pinzette, ecc. Poiché la trasmissione dell’epatite C avviene principalmente

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con il sangue, rischi di contagio hanno ragione di essere anche al mo-mento della nascita durante il parto.

Chi rischia di più?I soggetti più a rischio sono: i tossicodipendenti, chi convive con persone infette, chi viaggia in zone dove questa infezione è particolarmente diffu-sa (Africa, Sud-Est Asiatico, ecc.).

Come agisce il virus?Secondo alcuni studi il virus C agirebbe direttamente sulle cellule epati-che, secondo altri (e sembra si tratti dell’ipotesi più attendibile), il danno sarebbe il risultato di un’azione combinata tra il virus ed il nostro sistema immunitario. Come tutti i virus, infatti, anche quello della epatite C è un parassita delle cellule: per vivere e per moltiplicarsi deve entrare in que-ste e sfruttarne l’energia. Per garantirsi la sopravvivenza, quindi, il virus non ucciderebbe mai le cellule che infette, ma in questo processo inter-verrebbero anche i globuli bianchi (cioè le principali cellule del sistema immunitario) che hanno il compito di difendere il nostro organismo dagli agenti esterni. Nel dare la caccia al virus i globuli bianchi danneggerebbe-ro anche i tessuti del fegato. Il virus C ha spesso a che fare con malattie del sangue, della tiroide, della pelle e, di conseguenza potrebbe essere corresponsabile di altri disturbi oltre che dell’epatite C.

Come si individua.Con un esame del sangue, si rintracciano alcune sostanze che segnalano il problema: le transaminasi (Got e Gpt, sono enzimi prodotti dal fegato) la bilirubina (pigmento che si trova nella bile e nel siero del sangue); la fosfatasi alcalina e le Gamma GT, (altri prodotti dell’attività del fegato); i fattori della coagulazione e albumina; l’Ecografia del fegato; la Tac (o la Risonanza magnetica; la ricerca degli anticorpi anti-Hcv, ecc. Le transa-minasi, però, sono le più utili: se il livello supera le 40 unità si cercano gli anticorpi anti Hvc e, un esito positivo conferma un’epatite cronica. Gli anticorpi restano positivi per anni dopo un’epatite C acuta.

Cure di oggi e... speranze per il futuroPer prevenire l’epatite C non esiste alcun vaccino. Fino a pochi anni fa la cura più efficace era rappresentata dall’interferone, sia per la sua capacità di stimolare le difese organiche naturali del nostro organismo contro il virus responsabile (Hcv) sia per la sua attitudine a bloccare e guarire i circa 25-30% dei casi. L’interferone è un ormone naturale (cioè prodotto dal nostro stesso organismo per combattere i virus. Agisce bloccando la replicazione del virus delle cellule epatiche, stimolando i linfociti (un tipo-di globuli bianchi) a distruggere le cellule epatiche infette e riducendo la formazione di tessuto fibroso nel fegato che nei casi irreversibili provoca la cirrosi. Ma è anche un farmaco che può avere effetti collaterali pesanti ed è controindicato nei malati oltre i 65 anni. In genere guariscono più

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facilmente i giovani che hanno contratto da poco l’infezione e quindi non hanno ancora sviluppato la cirrosi. Sono in corso studi se sia possibile aumentare l’effetto terapeutico dell’interferone, variandone il tipo, le dosi ed associandolo ad altri farmaci antivirali.

Un nuovo farmaco: il PEG interferone.Oggi è in sperimentazione un nuovo tipo di interferone, l’Interferone Peghilato, (PEG interferone), che una volta iniettato resta disponibile per più tempo nel nostro organismo. Le iniezioni sottocutanee di questo far-maco complesso si riducono ad una sola iniezione settimanale rispetto alle tre a settimana con l’interferone tradizionale, mentre ne viene ga-rantita la concentrazione costante del farmaco nel tempo quindi la sua aggressione sull’Hcv.

La molecola della speranza.Da poco tempo l’interferone è usato in associazione con la Ribavirina, un farmaco antivirale che si assume per via orale ed il cui meccanismo d’azione non è ancora ben conosciuto, ma efficace contro l’epatite C. La sua azione infatti risulta rafforzata dalla stimolazione delle difese eserci-tata dall’interferone peghilato. Per il momento il trattamento ideale è la cura combinata di PEG interferone in associazione a Ribavirina (tratta-mento standard), che si è rivelata efficace nel 60-70% dei casi e con la formazione di anticorpi che eliminano il virus Hcv. In generale, questa cura recentissima si comincia in ospedale poi si prosegue a casa ed é ben tollerata. Le percentuali di successo, però dipendono dal tipo di virus C che infetta il malato. Di virus C ne esistono diversi tipi, con caratteristi-che differenti e che rispondono diversamente alle cure.

La novità: sembra funzionare una cura “personalizzata”.Grazie ad una cura “personalizzata” le possibilità di guarire dall’epati-te C sembrano crescere notevolmente. La notizia arriva da un recente simposio sulle innovazioni nel campo di questa malattia che si è tenuto a Vienna. Il “trucco” sta nell’utilizzare i farmaci dell’ultima generazione disponibili da un paio di anni, in maniera combinata e studiata su misura secondo il peso del malato. In questo modo, le possibilità di eliminare il virus dal sangue salgono al 61% contro il 47% che si ottiene con il trat-tamento combinato standard con i nuovi medicinali.

Uno studio ipotizza che l’epatite C potreb-be trasmettersi anche solo scambiandosi un bacio, perché a pas-sare il virus sarebbe la saliva.

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Come difendiamo la nostra saluteIl nostro organismo è come un fortino protetto da un esercito pronto ad aggredire ogni intruso. Il nostro stato di salute dipende dall’efficienza del suo esercito, che costituisce nel suo insieme il cosiddetto “sistema immunitario”. Quando è nel pieno delle sue forze il sistema immunitario ci protegge dall’attacco di agenti esterni, come virus, batteri, parassiti, funghi, pollini, ecc. e di agenti interni, come possono essere i tumori. Il sistema immunitario naturale, oltre che difenderci da pericoli esterni ed interni, conserva memoria degli aggressori, in modo che il nostro organi-smo possa reagire rapidamente se li incontra una seconda volta.

Ci difendiamo attraverso il sangueSchematizzando e semplificando il più possibile il sistema di difesa, esso risulta costituito da cellule del sangue che pattugliano tutti gli organi e tes-suti. Queste sono: gli anticorpi, ossia delle proteine prodotte da specifici globuli bianchi (i linfociti B) che viaggiano nel sangue ed arrivano nei tessuti inglobando ed eliminando virus, batteri ed altri elementi danno-si; i linfociti T killer ed i macrofagi, particolari globuli bianchi capaci di attaccare e distruggere diversi elementi estranei particolarmente perico-losi. Anticorpi, linfociti B, linfociti T killer e macrofagi sono trasportati dal sangue e possono arrivare nei vari organi e tessuti quando è necessario. Perché questi elementi possano svolgere al meglio le proprie funzioni, il sistema di difesa dell’organismo è dotato di alcune “stazioni di controllo”, i linfonodi o ghiandole linfatiche (quelle “palline” che si possono sentire toccando per esempio il collo o l’inguine). Queste ghiandole sono delle stazioni di filtraggio della linfa, il liquido che circola nei tessuti fra tutte le cellule e quindi viene a contatto con potenziali elementi pericolosi sia provenienti dall’esterno sia dall’interno dell’organismo stesso. Una volta individuati eventuali elementi pericolosi (virus, batteri, cellule cancero-gene, ecc...) i linfonodi si gonfiano, il sistema di difesa si attiva inviando nella parte malata del corpo le armi di difesa (anticorpi e globuli bianchi) attraverso il sangue.

Come riconoscere il nemico?Senza un sistema di difesa nessun individuo potrebbe sopravvivere. Il nostro sistema immunitario mette in campo innumerevoli componenti e molteplici strategie di attacco e di difesa. Nel corso di una prima fase l’organismo attaccato deve riconoscere l’aggressore e nella seconda fase neutralizzarlo. In condizioni normali il nostro sistema immunitario è al-tamente specializzato. In particolare le sue caratteristiche fondamentali sono: da un lato di riconoscere ciò che appartiene a se stesso (self) da ciò che invece gli è estraneo (non self) e quindi potenzialmente peri-coloso; dall’altro di reagire nei confronti del non self, rimanendo invece inattivo nei confronti del self. Questa capacità è definita “tolleranza im-munitaria”.La notevole efficacia del sistema immunitario è legata in parte alla stra-

Quando lE difEsE sbaGliano bErsaGlio: lE malattiE autoimmuni

Le malattie autoim-muni sono il risul-tato di una sorta di ammutinamento, di ribellione: il sistema immunita-rio, cioè l’insieme delle difese naturali dell’organismo, si rivolta contro l’or-ganismo stesso, e invece di attaccare e distruggere i ne-mici esterni (come virus o batteri) ed interni (come i tumori), aggredisce le sue stesse cel-lule. Ma andiamo con ordine.

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ordinaria diversità dei meccanismi di riconoscimento esercitata da un tipo di globuli bianchi: i linfociti T. Ciascuno delle centinaia di milioni di linfociti T che circolano nei gangli linfatici e nella milza, reca sulla propria superficie parecchie migliaia di esemplari di un singolo recettore differente da tutti gli altri (i recettori sono delle strutture alle quali si legano sostanze specifiche per tra-smettere messaggi all’interno delle cellule). L’imperativo più importante dei linfociti T è appunto la capacità di distinguere, fra le infinite varietà di forme che può assumere il non self e di distinguere quelle pericolose (microrganismi patogeni e tumori) da quelle inoffensive. Il concetto di pericolo che ri-veste un ruolo essenziale nelle nostre difese, include non solo la percezione del non sé infettivo, ma anche quella dei sé alterati, come accade nel caso di un tumore.Questa fondamentale caratteristica del sistema immu-nitario di distinguere ciò che è proprio (self) da ciò che gli è estraneo e non gli appartiene (non self), è un delicato meccanismo di riconoscimento che a volte s’inceppa: le proteine (anticorpi) e le cellule (globuli bianchi) che lo costituiscono, perdono la capacità di distinguere ciò che è nemico e danno il via ad una battaglia nei confronti di alcune componenti del proprio stesso organismo, il che si manifesta con una malattia detta appunto autoimmune.

Perché il sistema si sbaglia?Qual è la ragione che spinge, ad un certo punto, il sistema di difesa a rivoltarsi contro l’organismo ? Probabilmente (ad esempio nel caso del-l’artrite reumatoide), oltre ad una predisposizione genetica, potrebbero esserci fattori ambientali e ormonali. Certo è che la reazione anomala viene innescata da un insieme di fattori. Fra questi anche gli stessi vi-rus che possono giocare un ruolo non marginale. Molti ricercatori sono convinti che la malattia possa essere scatenata (ma non causata) da una generica infezione virale o batterica. Sempre nel caso dell’artride reuma-toide, (si suppone, sebbene non sia ancora dimostrato), che un virus od un batterio sia addirittura in grado di indurre il sistema delle difese ad agire in maniera esagerata fino a spingere a distruggere la cartilagine articolare.

Quali sono le cause?Le cause che danno origine a questa alterazione, dicevo, non si cono-scono ancora con sicurezza. Con qualche probabilità si può pensare che all’origine delle malattie autoimmuni esistano due fattori: una predispo-sizione genetica; un elemento esterno che scatena la reazione. Quando si parla di predisposizione genetica non si pensa subito all’ereditarietà di una certa malattia, cioè non è detto che il figlio di una persona colpita da una malattia autoimmune sia destinato ad ammalarsene e neppure che ne sia predisposto con certezza. La predisposizione genetica ha sì

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un ruolo importante, ma non è sufficiente; per ammalarsi, è necessario l’intervento di un altro fattore esterno all’organismo, cioè di un “fattore scatenante”. Fattori esterni scatenanti potrebbero ad esempio, essere dei virus, che aggrediscono l’organismo alterandone le strutture, che non vengono così più riconosciute dal sistema immunitario. Si può fare l’esempio della tiroide (una ghiandola endocrina, cioè che produce or-moni che vengono poi secreti nel sangue) che si trova alla base del collo. Può accadere che la tiroide subisca una lesione (anche ad opera di un virus) per cui alcune sostanze contenute al suo interno (e che quindi non entrano normalmente in contatto con il sistema immunitario), vengano liberate ed incontrino cellule del sistema immunitario. Queste, però, non avendo mai incontrate prima tali sostanze, non le riconoscono e le con-siderino come corpi estranei, cioè non self, da annientare. Così la aggre-discono scatenando una tiroidite autoimmunitaria.

Diagnosi complessa. Scopo: limitare i danni.Le malattie autoimmuni possono colpire un solo organo: nella sclerosi multipla, ad esempio, viene aggredito il rivestimento protettivo dei nervi; nella miastenia viene aggredito il punto di contatto tra nervi e muscoli ed è caratterizzata da debolezza ed affaticamento muscolare. Malattie autoimmuni possono aggredire: i globuli rossi del sangue causando un tipo di anemia autoimmune; la tiroide, provocando ipertiroidismo o, al contrario ipotiroidismo; il fegato, ecc. Le malattie autoimmuni possono anche colpire tutto l’organismo: è ciò che accade nell’artrite reumatoide cha attacca le articolazioni periferiche delle mani e dei piedi, le spalle, i gomiti, le caviglie; od interessare organi quali i polmoni e la cute; ecc.Il dolore e la rigidità articolare sono particolarmente intensi al mattino; poi col movimento si attenuano; le articolazioni interessate si presentano gonfie e calde. La diagnosi dell’artrite reumatoide, così come quelle di altre malattie autoimmuni che riguardano più organi non è molto sem-plice, perché non esiste un “marker” tipico e caratteristico rilevabile con l’analisi del sangue.Per quanto riguarda l’artrite reumatoide non esiste una terapia risolutiva che fermi la malattia. La cura quindi mira essenzialmente ad alleviare il dolore del paziente e a rallentare l’evoluzione della malattia, si possono usare dei Fans, cui, per ridurre l’infiammazione si può associare del cor-tisone, ma a basso dosaggio. Se la diagnosi è complessa, la cura, oggi non riesce che ad alleviare il dolore del paziente.

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In Italia esiste una forma di polmonite (la polmonite pneumococcica) che ogni anno colpisce fra le 40.000 e le 70.000 persone. Lo pneumo-cocco (Streptococcus pneumoniae) è un batterio che si trova nelle vie aeree di circa la metà delle persone in buona salute e che possono tra-smetterlo e non si ammalano: sono cioè dei portatori sani.

Lo pneumococco è un batterio molto diffuso.Questo microrganismo si trasmette facilmente e passa da una persona all’altra per via aerea, cioè attraverso le microscopiche goccioline emes-se, per esempio o con gli starnuti o con colpi di tosse, o più semplice-mente parlando, respirando o toccando oggetti contaminati. Pertanto, e più facile venirne a contatto quando si rimane a lungo in ambienti chiusi, per esempio, cinema, discoteche, scuole, ospedali, ecc. Nella stagione invernale il rischio è ancora maggiore.

Diventa un problema maggiore...Se le difese immunitarie (le difese naturali del nostro organismo) sono integre, lo pneumococco non è in grado di creare particolari problemi. In alcuni casi, però, il batterio riesce ad avere la meglio, a proliferare o a dare il via alle infezioni. Quando invece, le difese naturali del nostro organismo calano, come ad esempio accade dopo una malattia (una di quelle a rischio è proprio l’influenza) oppure nelle persone anziane (in particolare dopo i 65 anni), le cose cambiano. Lo pneumococco può creare problemi anche a chi soffre di asma, allergie, disturbi del cuore e dei polmoni, diabete mellito, alcolismo. Lo stesso vale per chi ha subito un trapianto o soffre per una serie di malattie come: linfomi, leucemie e AIDS. Nei bambini molto piccoli il sistema di difesa dell’organismo non è perfettamente formato ed è, quindi, particolarmente vulnerabile. Fino ad almeno 5 anni non è in grado di rispondere adeguatamente agli attacchi di questi organismi.

Infezioni che può causare lo pneumococco.Questo batterio può essere responsabile di svariate in-fezioni delle vie respiratorie. E’ infatti la causa più fre-quente (circa il 25-50%) delle polmoniti batteriche che vengono contratte in comunità (ospedali, asili, scuole, ecc.), ma è responsabile anche di otiti, sinusiti, oltre che di malattie più serie come le tracheobronchiti (in-fezioni di trachea e bronchi), o di infezioni delle ossa (osteomieliti), oppure del sangue (setticemie). Questo batterio è pure responsabile di una forma di meningite, malattia che provoca l’infiammazione delle meningi, membrane che rivestono e proteggono il cervello.

polmonitE? mEGlio prEVEnirE chE curarE, cioè Vaccinarsi

Con il vaccino antinfluenzale è consigliabile fare anche il vaccino antipneumococcico (contro la polmoni-te), anche adesso.

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Il vaccino ne riduce i rischi.Il vaccino antipneumococcico serve a prevenire le infezioni provocate dallo pneumococco con una protezione di circa il 70% o, comunque, le rende meno aggressive. Ne è emerso che le infezioni si sono pressochè dimezzate; risulta bloccata la diffusione dello pneumococco anche per-ché le persone vaccinate non rischiano di trasmetterlo ad altri. Riduce inoltre il rischio di resistenza agli antibiotici (i farmaci usati per curare le infezioni da pneumococco) e non si corre il rischio di avere a che fare con una malattia contro la quale, a volte, le cure a disposizione non sono risolutive.

Ne esistono 2 tipi.Il vaccino contro il pneumococco è disponibile in due tipi: quello specifi-co per chi ha meno di due anni; quello per essere somministrato dai due anni in poi e per gli adulti. E’ un vaccino che comprende 23 sierotipi fra quelli circolanti nei Paesi occidentali.Si somministrano entrambi per iniezione. La differenza è nel numero di somministrazioni e questo è ben conosciuto dal medico. Proteggono per 5 anni. La vaccinazione può essere effettuata nella propria Asl o dal pro-prio medico (o pediatra) di base. E’ gratuito per le categorie considerate a rischio. E’ ritenuto raccomandabile per esempio a tutti i bambini fino a 5 anni, a chi è stato sottoposto ad un intervento chirurgico e quindi è parti-colarmente debilitato, ecc. La vaccinazione è gratuita anche per i familiari delle persone considerate a rischio per evitare che possano contagiarle.

Il vaccino antinfluenzale si può associare al vaccino contro la polmonite.Beh! L’influenza è una malattia che colpisce le nostre zone ogni anno. Solo in Italia e solo l’inverno passato, l’influenza ha colpito più di 5 milio-ni di persone, causando circa 4000 decessi, decisamente di più di quanti ne ha colpito fino ad ora la polmonite atipica ormai conosciuta come Sars.Da quando si è cominciato a parlare della polmonite atipica, cioè della Sars, notizie sull’argomento si sono succedute di ora in ora, spaventando non solo chi vive o viaggia nelle zone a rischio, ma anche chi viaggia in Italia. La Sars ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica soprattut-to perché si tratta di una malattia nuova e poco conosciuta di cui fino a poche settimane fa non si sapeva con certezza neppure la causa. Il problema della polmonite atipica ha riportato alla ribalta della cronaca diverse malattie sostenute da virus, ma talora sottovalutate o addirittura trascurate perché la sua diffusione è per ora limitata a paesi lontani.

Le cure?Il problema è che è una malattia infettiva. In più è provocata da virus e, per combattere i virus, come sappiamo, non esistono farmaci così specifici e validi come per i batteri. In altre parole non ci sono farmaci

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antivirali paragonabili per efficacia agli antibiotici, anche se negli ultimi anni, soprattutto per quanto riguarda alcune malattie virali (per esempio l’Aids) si sono fatti notevoli passi avanti. Perché questo? Perché una delle principali caratteristiche dei virus è la capacità di mutare velocemente, la qual cosa rende molto difficile preparare un vaccino efficace. Fortunata-mente la polmonite atipica ha colpito solo persone che si sono recate in Oriente.

I possibili effetti collaterali.Il vaccino antipneumococcico è considerato sicuro. I possibili effetti col-laterali delle due formulazioni si limitano ad un leggero dolore nel punto dell’infezione che può essere accompagnato da eritema e gonfiore. Que-sti effetti interessano però soltanto alcune delle persone che ricevono il vaccino e scompaiono nel giro di 48 ore. Molto più raramente, invece, può dare febbre e dolori muscolari o indurimento della parte. Si rimanda la vaccinazione nel caso in cui la persona abbia la febbre, oppure durante gravidanza e l’allattamento.

É importante: il vaccino antipneumococcico può essere associato al vaccino antinfluenzale.La vaccinazione antipneumococcica può essere fatta in qualsiasi mo-mento dell’anno, ma il ministero della salute ha recentemente sottoli-neato la possibilità di fare il vaccino insieme a quello antinfluenzale, che si fa da metà ottobre a fine novembre. Lo stesso giorno, quindi, con due differenti iniezioni è possibile mettersi al riparo sia dagli effetti più impor-tanti del batterio pneumococcico (contro la polmonite) sia dal rischio di contrarre l’influenza, che è essa stessa un fattore predisponente a suc-cessive complicazioni legate allo pneumococco.Si evita così anche di aspettare la Sars (la polmonite atipica, di origine virale), cioè la Sindrome Respiratoria Acuta e che lo scorso inverno si è diffusa dall’Asia un po’ a tutto il mondo e che si teme possa ripresentarsi quest’anno in forma più virulenta. Pertanto, anche se la vaccinazione an-tipneumococcica non mette al riparo dal rischio di contrarre la polmonite asiatica, può essere d’aiuto nell’evitare di far temere di essere contagiati, scatenando inutili allarmismi che, tra l’altro, potrebbero intassare i centri ospedalieri deputati al ricovero delle persone in cui si sospetta appunto la polmonite killer, cioè la Sars.

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Che cos’è il reflusso esofageo.Per reflusso gastroesofageo, s’intende l’insieme di sintomi dovuti alla risalita (in termini tecnici reflusso) di parte del materiale acido presen-te nello stomaco verso l’esofago. Questo, però, non significa che nello stomaco sia presente una quantità eccessiva di acidi, ma piuttosto un cattivo funzionamento della valvola (cardias) che separa l’esofago dallo stomaco. Quando si mangia infatti, questa valvola si apre per far passare il cibo dall’esofago allo stomaco e, in condizioni normali, si chiude subito dopo. Se questo meccanismo non si attua perfettamente e la valvola non si chiude, il cibo, mescolato agli acidi che servono per la digestione, risale nell’esofago dando la sensazione di bruciore più o meno forte. Questo avviene perché, mentre le pareti dello stomaco sono ricoperte da una mucosa resistente agli acidi, lo stesso non si può dire per l’esofago che, quindi, “s’infiamma” e dà la sensazione di un bruciore più o meno in-tenso. Il reflusso di sostanze acide in senso inverso, cioè verso l’esofago può, a lungo andare, irritare e danneggiare i tessuti dell’esofago, causan-do lesioni ed emorragie. Tutti hanno sofferto qualche volta di reflusso gastroesofageo: talora basta un pasto più abbondante, un riposino dopo pranzo, il fumo, stare sdraiati, ecc., perché la valvola fra esofago e sto-maco si rilassi e lasci risalire materiale acido (si possono avere anche 3-4 episodi di riflusso in un’ora). Maggiore è il numero di attacchi di reflusso, maggiore è il tempo in cui l’acido resta a contatto con la parete dell’eso-fago o giungere fino alla gola, al naso, causando infiammazioni o danni maggiori fino a compromettere la qualità della vita. Per questo motivo è necessario rivolgersi subito al medico, anche perché più spesso è suffi-ciente soltanto modificare alcuni abitudini di vita. La malattia da reflusso gastroesofageo colpisce intorno ai 50 anni, gli uomini 2-3 volte più delle donne, ma non ne sono esenti anche i giovani.

Il reflusso gastroesofageo è una malattia che interessa il processo digestivo.L’organo fondamentale per i processi della digestione è lo stomaco. Qui il cibo, già parzialmente “digerito” con la masticazione e l’azione della saliva, viene ulteriormente trasformato e scisso nei suoi principi nutritivi fondamentali (grassi, proteine e zuccheri), che vengono poi resi ancora più semplici per essere assorbiti nell’intestino.

Dentro lo stomaco che c’è?Lo stomaco è un organo che si trova nell’addome, al di sotto di quel muscolo che si chiama diaframma. Ha la forma di una bisaccia collegata all’esofago e questo è un organo a forma di tubo che mette in comuni-cazione lo stomaco con la faringe e la bocca. Inferiormente lo stomaco si raccorda con la prima porzione dell’intestino: il duodeno. Nel punto di collegamento dello stomaco con l’esofago è presente una valvola, il car-dias, che regola il passaggio del cibo in una sola direzione (dall’esofago allo stomaco). Nel punto di collegamento fra stomaco e duodeno esiste

Quando il cibo Va controcorrEntE E torna su: il rEflusso GastroEsofaGEo

La malattia del reflusso gastroesofageo è molto diffusa, ma spesso sottovalutata. Molte persone che ne soffrono pensano, infatti, di potere e di dovere convivere con questo “disturbo” assumendo soltanto farmaci antiacidi, cioè contro i sintomi (soprattutto bruciore) al momento del bisogno e non si preoccupa di andare dal medico.

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una seconda valvola il piloro che regola anch’essa il passaggio del cibo in una sola direzione (dallo stomaco verso il duodeno), consentendo al cibo di procedere esclusivamente verso l’intestino.

Un ambiente acidoL’ambiente dell’interno dello stomaco è fortemente acido: gli addetti ai lavori dicono che il pH dello stomaco è acido per la presenza di acido clo-ridrico (il pH è una misura che esprime in grado di acidità di una sostanza o di un ambiente). In condizioni normali, la mucosa gastrica (la sottile membrana di cellule che riveste la superficie interna dello stomaco) non subisce danni per l’acido cloridrico presente, perché lo stomaco è in gra-do di autoproteggersi. Alcune di queste cellule della mucosa producono, infatti, il muco, una sostanza che protegge la mucosa stessa dall’azio-ne dell’acido, consentendo allo stomaco di funzionare nel migliore dei modi.

Il processo digestivo è un processo meccanico e chimico.Lo stomaco è costituito da una parete muscolare molto sviluppata che, al momento della digestione, si contrae facendo restringere ed allargare ritmicamente tutto l’organo per cui rimescola e frantuma il cibo in esso contenuto. Contemporaneamente inizia l’azione chimica svolta oltre che dall’acido cloridrico, anche da alcuni enzimi digestivi. Attraverso com-plesse reazioni biochimiche vengono liberati i principi nutritivi che pas-sano nell’intestino. Sia l’acido cloridrico, sia gli enzimi vengono prodotti direttamente dallo stomaco al momento della digestione.

In che modo si manifesta il reflusso?La malattia da reflusso gastroesofago si manifesta con sintomi tipici come il bruciore (pirosi) localizzato nella parte alta dello stomaco, dietro lo ster-no (l’osso al quale si attaccano anteriormente le costole) e talora fino alla gola. Con il reflusso può comparire anche il rigurgito, per cui si avverte una sensazione di liquido in bocca, accompagnata da sapore acido e amaro e da alitosi. I bruciori e la risalita di materiale acido sono accen-tuati quando si è sdraiati e durante la notte. Spesso, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, possono apparire sfumati e perciò vengono sotto-valutati. Il rischio, in questi casi, è che la situazione peggiori e si facciano strada sintomi più fastidiosi o complicazioni come tosse cronica lesioni, laringiti, raucedini, fino a bronchiti ed asma.

Come riconoscerlo?Nelle sue fasi iniziali la malattia da reflusso gastroesofageo non è sempre facile da scoprire ed è fondamentale che il malato spieghi bene al medico tutti i sintomi, perché una corretta raccolta dei dati è molto importante per sottoporre poi il malato ad esami mirati. Gli esami utili per scoprire la malattia da reflusso gastroesofageo sono due: la endoscopia, che con-

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sente di osservare l’interno dell’esofago con l’aiuto di uno strumento flessibile a fibre ottiche e vedere e direttamente se l’esofago stesso ha arrossamenti, lesioni, ulcere, erosioni, la pH-metria delle 24 ore. In questo caso un picco-lo rilevatore di acidità posto su di una sottile sonda viene introdotto attraverso il naso nell’esofago fino al passaggio nello stomaco (la registrazione viene successivamente analizzata da un com-puter che ne valuta tutti gli episodi).

Perché succede.I motivi per cui viene il reflusso sono molti e non è detto che compaiano tutti nella stessa persona. Abbiamo già accennato al possibile cattivo fun-zionamento del cardias (la valvola che separa l’esofago dallo stomaco), difetto anatomico che può essere congenito, ma anche dovuto all’azio-ne di alcune sostanze (alimenti e farmaci che rilassano la muscolatura, permettendo al contenuto gastrico di ritornare indietro. I movimenti pe-ristaltici (cioè le contrazioni involontarie della muscolatura della parete dello stomaco e che favoriscono lo spostamento del cibo dalla bocca all’intestino) sono deboli e non coordinati, per cui ritardano il movimento del cibo in via di digestione. Anche certi farmaci possono essere all’origi-ne del reflusso (alcuni sedativi, antidolorifici, antidepressivi ed anestetici. I ben noti Fans (farmaci antinfiammatori che non contengono cortisone), alcuni antibiotici, ecc. Possono aumentare la quantità di acido presente nello stomaco (agrumi, pomodori, caffè e bibite), fatto che nelle persone che soffrono di reflusso, peggiora i sintomi. Anche il fumo, abiti troppo stretti, fare ginnastica dopo aver mangiato, sono tutte situazioni che pos-sono forzare la valvola, causando il fastidioso reflusso.

Chi è più a rischio.La prevalenza dei sintomi della malattia aumenta con l’età, crescendo no-tevolmente nelle persone intorno ai 50 anni, con una netta prevalenza del sesso maschile; negli obesi, nei fumatori, nei divorziati, separati o vedovi; il legame sembra essere correlato soprattutto con lo stress psicologico dovuto a fattori di ansia e d’instabilità emotiva.

Come curare la digestione contro corrente.La cura del reflusso varia in base all’entità del problema. Infatti è bene distinguere i malati in due gruppi: quelli con sintomi lievi e sporadici, e quelli con sintomi più seri e frequenti. Nei casi più lievi è sufficiente modi-ficare lo stile di vita e le abitudini alimentari. Se questi provvedimenti non bastano, si deve ricorrere ai farmaci o alla chirurgia.I cosiddetti farmaci procinetici facilitano lo svuotamento dell’esofago e

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dello stomaco, stimolandone la muscolatura. Vanno presi prima dei pa-sti. I farmaci antiacidi tamponano l’acidità gastrica, in modo che l’even-tuale reflusso sia meno dannoso sulla mucosa dell’esofago. Esistono dei farmaci di barriera, che proteggono la mucosa dell’esofago creando una specie di rivestimento sulle zone infiammate, svolgendo un modesto effetto antiacido. Molto utili si si rivelano i cosiddetti farmaci inibitori della pompa protonica (per esempio, omeprazolo), cioè dei farmaci che riducono la esecrezione di acido da parte di cellule della mucosa gastrica e che è il più importante agente lesivo contenuto nel materiale refluito. Questi farmaci, utilizzati per 8 settimane in fila, guariscono le infiamma-zioni più lievi dell’esofago in oltre il 90% dei casi. E’ però bene ricordare che la sospensione dell’assunzione di questi farmaci, può permettere il ritorno dei disturbi propri del reflusso in tempi anche brevi; pertanto, può essere necessario protrarre il numero dei cicli anche per tempi più lunghi. Se il malato non si adatta all’idea di un trattamento farmacologico pro-tratto negli anni, si può prendere in considerazione la plastica del sistema valvolare gastroesofageo. E’, però, un intervento chirurgico impegnativo, che ha un effetto limitato nel tempo e non sempre risulta efficace. Pos-sono essere prescritti anche dei farmaci detti anti-H2 che riducono an-ch’essi la produzione di acido, ma con un meccanismo diverso rispetto ai precedenti. Vengono utilizzati nelle forme serie di reflusso, quando l’aci-dità è il sintomo principale. La scelta dei farmaci più adatti e della durata della cura spetta sempre al medico, che decide secondo le caratteristiche del malato e della serietà del disturbo.

Il medicinale innovativo: l’ ESOMEPRAZOLO.Anche nel nostro Paese è arrivata una nuova medicina per curare la ma-lattia da reflusso gastroesofageo. E’ l’Esomeprazolo un principio attivo che si è dimostrato più efficace dei farmaci appartenenti alla categoria (gli inibitori della pompa protonica) nel controllare la esecrezione acida della mucosa gastrica, soprattutto nelle ore notturne e dopo i pasti. Con questo farmaco l’attenuazione dei sintomi si è dimostrata reale in un più esteso numero di malati; i tempi, rispetto ai pazienti che assumono antisecretivi tradizionali, si sono dimezzati; si è notata una scomparsa più rapida ed efficace del bruciore dietro lo sterno.Oltre che alleviare la sensazione di bruciore dietro lo sterno ed allo stomaco per tutto il giorno l’Esomeprazolo sembra capace di favorire la guarigione dei danni che l’acido reflusso può provocare sulla parete dell’esofago. Il tutto in tempi più brevi rispetto agli altri inibito-ri della pompa protonica (a 4 settimane invece delle 8 necessarie per l’omeprazolo). In associazione con due particolari antibiotici, l’esomepra-zolo può portare alla guarigione dell’ulcera duodenale per eliminazione dell’Helicobacter pylor (il batterio dal quale si ritiene causata) in una settimana. L’esomeprazolo è ben tollerato e dà lievi e poco frequenti effetti collaterali. E’ da ricordare che la produzione di acido da parte dello stomaco anche sotto l’azione dei farmaci cosiddetti inibitori della pompa

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Andropausa: la “menopausa” maschile.L’andropausa è considerata l’equivalente maschile della menopausa delle donna, identificata con la fine dell’attività delle ovaie e dell’età fer-tile. Nella donna i disturbi dipendono dalla carenza di estradiolo (il più importante degli ormoni prodotti dall’ovaio nell’età adulta), nell’uomo la responsabilità dell’andropausa è identificata nella riduzione della concen-trazione del testosterone.

Che cos’è il testosterone.Il testosterone è l’ormone sessuale maschile per eccellenza: è responsa-bile della comparsa e del mantenimento dei caratteri sessuali tipicamen-te maschili, ma ha un ruolo chiave sul controllo di molte altre funzioni (a livello del cervello, della muscolatura e dello scheletro). C’è tuttavia una differenza fra i due sessi: nella donna la fine dell’attività delle ovaie avviene in maniera brusca in una fase precisa; la produzione di testoste-rone nell’uomo, invece, è un processo progressivo nel tempo ed avvie-ne sempre in modo graduale. Questo significa che, se la menopausa è un fenomeno più omogeneo in tutte le donne, nell’uomo si esprime in modo più vario (sia per il tipo in cui compare sia per l’intensità dei distur-bi). Di conseguenza, se la “terapia sostitutiva” nella donna è abbastanza standardizzata, nell’uomo deve essere necessariamente essere molto personalizzata.

L’andropausa non è un’invenzione.Una ricerca americana sostiene che la perdita di vigore maschile è una “malattia immaginaria” la quale non dipende dal calo del testosterone, ma da altre modificazioni indotte dagli stili di vita, come la pigrizia, la voglia di non fare, l’aumento del consumo di alcolici e di fumo, ecc. McKinlay sostiene che il calo del testosterone sia soltanto un’idea delle industrie farmaceutiche, interessate a vendere i sostitutivi di questo or-mone, ma poi, nella conclusione di ulteriori e più ampi studi, riconosce che il testosterone in realtà cala gradualmente al ritmo dello 0,5% con l’avanzare dell’età.

L’andropausa è una realtà.L’andropausa, dicevamo, viene considerata come l’equivalente maschile della menopausa, che nella donna coincide con la fine dell’età fertile. In realtà, l’andropausa ha poco in comune con la menopausa, perché l’uomo non smette mai di produrre ormoni maschili (androgeni) tant’è che egli resta potenzial-mente fertile per tutta la vita. Con l’avanzare degli anni, però, è del tutto naturale che cali progressiva-mente la quantità di androgeni (in particolare il te-stosterone) presenti nell’organismo. Pertanto, sareb-be più esatto parlare di “deficit androgenico” legato

salutE maschilE, l’andropausa: Gli ormoni maschili fanno rinGioVanirE o fanno malE?Il desiderio sessua-le cala, ci si sente stanchi, si è partico-larmente irritabili ed indifferenti, comin-ciano dei disturbi della concentrazione e della memoria, si perde di autosti-ma, la risposta dei genitali agli stimoli è meno efficace e l’orgasmo è meno intenso, si rende evidente qualche chilo di troppo al girovita con alcu-ni rischi in più di avere problemi cardiovascolari, ecc. Tutto questo può essere il segnale dell’andropausa. Ma l’andropausa esiste davvero?

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all’età e dicevamo ad altre modificazione indotte da particolari stili di vita. Non c’è nessuna prova scientifica, però, di una vera e propria malattia. Questo a livello generale, perché i casi particolari non sono affatto del-le eccezioni: dal giovane in “andropausa” precoce, all’ultrasettantenne arzillo sotto tutti i punti di vista, ogni uomo è un universo a sé che solo l’andrologo può indagare e svelare.

Le causeIl calo del testosterone è un processo del tutto naturale. Oltre all’invec-chiamento del tessuto endocrino del testicolo, esistono altri fattori e comportamenti che possono influire e provocare la comparsa precoce dei sintomi dell’andropausa: l’obesità, la sedentarietà, l’abuso di alcol, l’assunzione prolungata di alcuni farmaci (come antipertensivi, ansioliti-ci), lo stress, l’alimentazione scorretta, problemi epatici, malattie croni-che ecc…Solo un bilancio ormonale eseguito in laboratorio, però, può confer-mare la diagnosi, anche se non è facile determinare il valore generale del testosterone al di là del quale può essere necessario ricorrere ad un trattamento con questo ormone: tale valore, infatti, può variare da un uomo all’altro.Per contrastare il deficit ormonale, come per la menopausa, in genere si ricorre ad una terapia ormonale sostitutiva: s’introduce cioè nell’organi-smo maschile una quantità di testosterone tale da raggiungere le concen-trazioni normali per l’età considerata. La somministrazione di testostero-ne può avvenire sotto forma di compresse, d’iniezioni intramuscolari, di cerotti (questi ultimi sono attualmente molto utilizzati, perché garantisco-no un rilascio costante di ormone nell’organismo, senza che si manife-stino picchi nel sangue). È fondamentale, però, che la terapia ormonale sia svolta sotto stretto controllo medico (come avviene del resto per le donne, quando si utilizzavano ormoni estrogeni e progestinici): una dose supplementare di testosterone, infatti, potrebbe nell’uomo aumentare il rischio di tumore della prostata. Ricordiamo che la prostata è una ghian-dola dell’apparato genitale maschile che secerne il liquido prostatico, in grado di mantenere ed accrescere la vitalità degli spermatozoi.Secondo gli ultimi studi disponibili, il deficit ormonale dopo i 50 anni può determinare diversi sintomi. Prima di tutto si possono avere “sintomi locali”, cioè che riguardano la sfera sessuale, come un calo della libido, l’alterazione dell’attività sessuale in genere, della funzione erettile, del piacere e dell’eiaculazione. Gli stessi testicoli possono andare incontro ad un’ipotrofia (riduzione delle dimensioni). L’andropausa si evidenzia poi, con segnali di carattere generale come: astenia ed aumentata af-faticabilità, disturbi del sonno, vampate di calore, modificazione dello schema corporeo con diminuzione della muscolatura e della forza mu-scolare, aumento di tessuto adiposo (cioè di grasso, soprattutto a livello dell’addome), diminuzione di peli pubici e ascellari, disturbi nel carattere (irritabilità o indifferenza, perdita di autostima, mancanza di motivazio-ni e di combattività), disturbi della concentrazione e della memoria. In

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particolare l’erezione e l’eiaculazione vengono raggiunte in un tempo più lungo, l’orgasmo è meno intenso, la risposta genitale agli stimoli è meno efficace, la quantità del liquido seminale si riduce, ecc. Non mancano poi conseguenze anche sulla fragilità delle ossa.

La cura dell’andropausa: integrare l’ormone che viene a mancare.Che sia femminile (menopausa) o maschile (andropausa) la cura è de-nominata “terapia ormonale sostitutiva”, perché in entrambi i casi pun-ta a fornire completamente (nelle donne) o ad integrare (negli uomini) i rispettivi ormoni sessuali naturali, mancanti o carenti.

I pro e i contro sono tutti da dimostrare.Mentre la terapia ormonale sostitutiva femminile ha già più di dieci anni di sperimentazione alle spalle, quella maschile ha il vuoto dietro e da-vanti a sé. Il paradosso, però, è evidente: da un lato migliaia di americani usano ed useranno il testosterone, in virtù delle presunte doti anti-in-vecchiamento; dall’altro i supposti rischi non sono ancora confermati da alcun studio di ampio respiro. In sostanza è come se fosse già in atto una vasta sperimentazione, senza si sia tutelati da alcun controllo medico. In attesa di riscontri scientifici, sta di fatto che la cura con testosterone sintetico è necessaria in alcune malattie specifiche (se la prostata è sana), che possono capitare a qualsiasi età. Non si è mai ripetuto abbastanza, però, che la terapia ormonale sostitutiva deve essere svolta sotto stret-to controllo medico. Solo lo specialista può prescrivere il testosterone, dopo aver valutato lo stato di salute del paziente.

Che cosa dicono i primi studi: una terapia ormonale anche per “lui”.Un buon livello di testosterone nell’uomo porta gli stessi effetti positivi degli estrogeni nella donna sia a livello fisico che psicologico.I benefici. Il testosterone può essere efficace nel contrastare i disturbi tipi-ci dell’andropausa perché: fa aumentare massa muscolare e fa diminuire il tessuto adiposo; stimola la sintesi delle proteine previene l’osteoporosi (disturbo che può associarsi all’andropausa); esercita un’azione positi-va sul cervello rinforzando l’attenzione, la memoria, il tono dell’umore; aumenta la concentrazione di alcune sostanze cerebrali (neurotrasmetti-tori); ha un effetto positivo sulla componente mentale della sessualità (li-bido), che può essere disturbata dall’andropausa; stimola la produzione di globuli rossi concorrendo a correggere un’eventuale anemia.I rischi. Geriatri ed endocrinologi sono ancora perplessi su di un partico-lare azione del testosterone, quella che riguarda la prostata. Si teme che il testosterone possa stimolare la formazione del tumore della prostata (uno dei più frequenti nella popolazione maschile di età avanzata). Studi finora condotti sembrano aver dimostrato che il testosterone, da solo, non è in grado di far sorgere un tumore alla prostata, ma è capace di ac-

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celerarne lo sviluppo, se questo è già presente. Per questo motivo sono importanti i controlli e gli esami alla prostata, fatti prima di iniziare un eventuale trattamento e ripetuti anche durante la cura. Gli strumenti di cui oggi disponiamo consentono di diagnosticare facilmente un tumore della prostata già in atto, ma non sono in grado di segnalare la presenza di focolai di alterazione delle cellule in forma tumorale.

Quando andare dall’andrologo?L’andropausa non compare in tutti gli uomini nello stesso momento e con la stessa intensità. Dopo i 50 anni una visita andrologica dovrebbe diventare un appuntamento annuale, anche in relazione al calo del te-stosterone. E la prima? L’andrologo andrebbe consultato la prima volta durante la fase della pubertà; in caso di necessità: sotto i 30 anni in presenza di particolari sintomi o anomalie o di particolari inadeguatezze; ogni circa tre anni dai 30 ai 50 anni.

Gli ormoni maschili fanno ringiovanire o fanno male?In tutto il mondo divampa la polernica sulla terapia sostitutiva: per Lei, alimentata dall’infuocata polemica sul rapporto rischi/benfici degli estro-geni (gli estrogeni sono ormoni sessuali femminili prodotti principalmente dalle ovale); per Lui è stato lanciato l’allarme sulla terapia ormonale anti-età. Sul banco degli imputati sale così il testosterone, l’ormone sessuale maschile che contrasta gli effetti dell’invecchiamento e che purtroppo cala con l’età. La difesa della terapia ormonale sostitutiva maschile si basa su questo concetto: se la mancanza di testosterone naturale porta tanti ef-fetti negativi, perché non si rimedia con il testosterone sintetico? Perché, sostiene l’accusa, questo ormone così importante non ha soltanto effetti positivi, ma anzi mette a repentaglio la prostata, il sistema circo-latorio ed il cuore. Eppure, soprattutto in America sono migliaia gli anziani che assunono testosterone ed altrettanti i medici che lo prescrivono. Tenendo conto che la ricerca è in ritardo, migliaia di americani lo usano e lo useranno non solo come farmaco, ma come elisir anti-età. E questo, in virtù delle sue presunte doti anti-invecchiamento non tenendo conto dei suoi supposti rischi non ancora stati confermati da alcun ampio studio.

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Certi farmaci riducono l’attenzione.Calo dell’attenzione o veri e propri colpi di sonno sono eventi rischiosi, ma purtroppo non infrequenti quando si è alla guida di un auto, soprat-tutto se ci si mette in moto al momento sbagliato, in piena notte o in con-dizioni di stanchezza. La sonnolenza al volante, però, può essere dovuta anche all’uso di alcuni farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale (la parte del sistema nervoso costituita dal cervello e dal midollo spinale). In certe persone, lo stesso principio attivo non causa alcun effetto sul sistema nervoso, mentre in altre può provocare spiacevoli conseguenze. Questo dipende dalle caratteristiche della singola persona o dalla dose del farmaco assunto. Inoltre, i disturbi possono comparire lentamente ed essere favoriti da alcuni altri fattori come la stanchezza, la guida notturna, l’eccesso di cibo o l’ingestione di quantità anche minime di alcool. Quan-do ci si mette in viaggio non bisogna sottovalutare questi rischi e nel caso in cui si assuma un farmaco che può dare sonnolenza, è meglio chiedere consiglio al medico o al farmacista. Ricordiamo qui alcuni dei medicinali più comuni che possono interferire con la guida.Certi farmaci, dicevo determinano un abbassamento dello stato di at-tenzione, della vigilanza, cui consegue una minore reattività del nostro organismo verso gli stimoli esterni. Il controllo di queste funzioni è re-golato dai neurotrasmettitori, sostanze chimiche che mettono in comu-nicazione le varie cellule nervose, eccitandole o inibendole. Tra quelle maggiormente coinvolte ci sono: la serotonina, l’acetilcolina, l’istamina, la noradrenalina, l’acido glutammico e la dopamina. Alcuni principi attivi dei farmaci agiscono su questi neurotrasmettitori, aumentandone op-pure riducendone la quantità in circolo, e provocano così un aumento o una diminuzione dello stato di vigilanza di una persona. Bisogna tuttavia tener presente che numerosi farmaci agiscono contemporaneamente su più neurotrasmettitori e possono quindi esercitare azioni complesse, de-terminando sia eccitazione sia sedazione.

Le benzodiazepine.Fra i farmaci che possono dare sonnolenza ed oggi molto usati, sono le benzodiazepine. Questo gruppo di farmaci è utilizzato per ridurre l’ansia e per combattere l’insonnia (oltre che per altre malattie del sistema ner-voso). Queste sostanze agiscono a livello del cervello e possono favorire

al VolantE, attEnti ai farmaci chE fanno dormirE!

Circa il 2% degli incidenti stradali ha come causa dei colpi di sonno e, appunto per que-sto, gli automobili-sti non si rendono conto del motivo che ha provocato l’incidente il quale non è spesso col-legabile soltanto a stanchezza. I principi attivi contenuti in alcuni farmaci possono interferire con la prontezza dei ri-flessi o con le ca-pacità visive, con il rischio di incidenti. Alcune medicine, infatti, possono dare problemi di sonnolenza.

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la comparsa di colpi di sonno. Una delle loro funzioni, infatti, è proprio quella di indurre al sonno. All’interno di questo gruppo ci sono numerosi principi attivi, anche molto diversi fra loro, per cui a parità di efficacia an-siolitica, alcune benzodiazepine hanno un effetto sedativo minore o mag-giore di altre. Inoltre, ciascun tipo di benzodiazepina, secondo della sua emivita (si dice emivita il periodo in cui il medicinale, una volta assorbito, resta in circolo ed esplica la sua azione) ha un effetto breve, intermedio o lungo. I medicinali più a rischio di indurre sonnolenza durante il giorno sono quelli con un’emivita lunga, perché agiscono favorendo il sonno per un numero prolungato di ore. Per conoscere il tipo di principio attivo che assumiamo (quindi le sue caratteristiche farmacologiche) è ancora una volta necessario leggerne il nome sul foglietto illustrativo che accom-pagna ogni confezione o chiederlo al Farmacista. L’effetto sedativo delle benzodiazepine oltre che dal tipo di farmaco, dalla sensibilità individuale (in particolare le persone anziane sono molto più sensibili agli effetti in-desiderati di questi farmaci), alla dose, al tempo di emivita. Se presi alla sera per combattere l’insonnia, i farmaci con breve tempo di emivita ten-dono ad avere al mattino dopo, effetti sedativi residui di entità inferiore rispetto a quelli osservati con le benzodiazepine ad emivita lunga.Gli effetti ansiolitici e sedativi delle benzodiazepine cambiano con la dura-ta del trattamento: tendono a ridursi durante un trattamento continuato. Le benzodiazepine potenziano l’effetto di altri farmaci ad azione sedativa sul sistema nervoso centrale, quali gli antidepressivi o gli antistaminici e gli effetti dell’alcool. In particolare, l’interazione con l’alcool‘è molto im-portante: una piccola quantità di alcool, normalmente ben tollerata, può avere effetti negativi molto accentuati se la persona ha assunto al tempo stesso una benzodiazepina.

Che cosa fare?Per non correre rischi, se ci si deve mettere al volante, è meglio non prendere benzodiazepine oppure, se si deve usare la macchina, non gui-dare e farsi accompagnare. In ogni caso è sempre meglio sentire il parere del medico, che potrà valutare il grado di alterazione della vigilanza e, se necessario, modificare la dose o il tipo di farmaco prescritto, consenten-do così una guida senza problemi.

Gli antiemicranici.Si tratta di una famiglia di farmaci che vengono utilizzati per attenuare i sintomi durante una crisi di emicrania (una particolare forma di mal di testa che colpisce soltanto una metà del capo). Sono costituiti in ge-nere da diversi principi attivi (un analgesico, un antistaminico, caffeina) in grado di limitare la liberazione di sostanze che possono accentuare il dolore e di tenerlo sotto controllo. Questi farmaci presentano meccani-smi d’azione diversi ed hanno in comune la capacità di causare, almeno in alcune persone, alterazioni della vigilanza e sonnolenza, condizioni che interferiscono con le prestazioni di guida. Se la crisi di emicrania comincia poco prima della partenza, è consigliabile rimandare il viaggio.

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Se la sonnolenza si presenta costantemente, è senz’altro utile parlare con il medico, il quale potrà sostituire il farmaco utilizzato, sempre all’interno degli antiemicranici ed evitare così brutte sorprese.

Gli antidepressivi.Sono una famiglia di farmaci usati per combattere la de-pressione, al cui interno ci sono principi attivi con caratte-ristiche piuttosto diverse l’uno dall’altro e che potrebbero almeno in teoria, provocare sonnolenza. Le sostanze con-

tenute negli antidepressivi, infatti, hanno la funzione di riequilibrare (au-mentandoli) i livelli di alcuni neurotrasmettitori (i neurotrasmettitori sono delle sostanze chimiche naturali prodotte dal cervello che consentono alle cellule nervose di comunicare tra loro e di controllare diverse attività). E’ il caso della serotonina e della noradrenalina che, in caso di depres-sione, vengono prodotte in quantità ed i cui squilibri sono alla base delle manifestazioni della malattia dell’”umor”. L’azione sui neurotrasmettitori che regolano direttamente anche il sonno, potrebbe però dare origine ad effetti indesiderati come episodi anche durante le ore centrali della giornata, ridurre sensibilmente la prontezza dei riflessi, capogiri, disturbi visivi. La probabilità di soffrire di sonnolenza è notevolmente ridotta nel caso in cui si assumano gli antidepressivi dell’ultima generazione. Questi medicinali, infatti, svolgono un’azione specifica su alcuni neurotrasmetti-tori che non influenzano direttamente il sonno. Per sapere che tipi di an-tidepressivi si stanno assumendo e per regolarsi di conseguenza se non ci si ricorda più che cosa ha detto il medico, è utile leggere attentamente il foglietto illustrativo.

Gli antistaminici.Sono un gruppo di farmaci i cui principi attivi vengono utilizzati per cura-re le allergie, in particolare durante la stagione dei pollini. Possono es-sere prescritti anche in altre stagioni, poiché sono indicati anche in caso di orticaria, eritema solare, irritazioni della pelle. Il loro meccanismo d’azione consiste nel bloccare la liberazione di istamina (una delle prin-cipali sostanze prodotte dal nostro organismo che causa i sintomi delle irritazioni e delle allergie, come l’arrossamento, il prurito e dello stesso raffreddore). Se gli antistaminici della prima generazione potevano dare sonnolenza, è possibile che il nostro medico ricorra agli antistaminici di seconda generazione che non causano sonnolenza; comunque e bene assumerli almeno 2-3 ore prima della partenza.

Altri farmaci da tenere d’occhio.Molti altri farmaci possono rallentare i riflessi, dare sonnolenza, disturbi visivi, capogiri, ecc. per cui interferire sulla capacità di guida. Fra gli altri vanno ricordati: alcuni antidolorifici ed antinfiammatori, alcuni anti-ulcera, certi antibiotici, alcuni ipertensivi (sono dei farmaci usati per

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abbassare i valori della pressione del sangue), i sedativi della tosse, i barbiturici (utilizzati per curare l’epilessia), ecc. Ma soprattutto:

Alla larga dall’alcool.Prima e durante un viaggio, non si dovrebbero mai consumare bevande alcoliche, perché l’alcool riduce la vigilanza. Inoltre l’alcool può interagire con tutti i farmaci elencati, potenziandone gli effetti indesiderati a carico del sistema nervoso. Per questo motivo distanziare il più possibile l’in-gestione dei medicinali dalle bevande alcoliche. Meglio ancora sarebbe astenersi dal loro consumo, in modo da non incappare in questa perico-losa associazione.

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Che cosa sono i grassi (o lipidi).I grassi sono una famiglia di composti chimici costituiti da una molecola di glicerina unita a tre molecole di acidi grassi e, per questo sono consi-derati anche trigliceridi. Sono untuosi al tatto e non si sciolgono nell’ac-qua. Sono una fonte concentrata di energie, visto che quando vengono “bruciati” durante la respirazione cellulare, forniscono il doppio di calorie rispetto agli zuccheri... Se non vengono utilizzati come “carburante”, si accumulano nel nostro organismo come riserva formando gli antie-stetici pannelli di grasso. Sono particolarmente importati anche perché entrano nella costituzione delle membrane che delimitano tutte le cellule del nostro organismo; fanno da veicolo per il trasporto delle vitamine liposolubili (A,D,E,K); partecipano alla fissazione del calcio, proprio per-ché veicolano la vitamina D, che è indispensabile per le ossa ed i denti; contribuiscono a mantenere efficienti il fegato, il cuore ed i reni. Queste ottime notizie vanno accompagnate, però, dall’obbligo di imparare a conoscere e consumare, soprattutto quelli che fanno bene alla nostra salute, cercando di limitare invece quelli dannosi. Si, dunque ai grassi, ma solo se “buoni”.

Cominciamo da qui.Il nome “grasso” è spesso associato all’idea di nocività e sovrappeso. In realtà questi nutrienti non sono dannosi in sé e per sé, anzi alcuni svolgono un ruolo fondamentale nel nostro organismo. Importante è controllarne oltre alla quantità, anche la qualità.Fino a qualche anno fa i grassi venivano considerati dei veri e propri “Killers” per la nostra salute. Poi qualcosa è cambiato: si è cominciato a distinguere fra grassi “buoni” e grassi “cattivi” e si è arrivati a scoprire anche i grassi non sono così pericolosi come si pensava. Tutto dipende dalla qualità e dalla quantità. Mantenendo le giuste proporzioni fra i vari tipi di grassi, infatti, ci si assicura tutte le sostanze necessarie al buon funzionamento del nostro organismo, senza sottoporsi a punizioni ali-mentari eccessive. Ma, andiamo con ordine.

Di grassi ne esistono diversi tipi.Senza entrare in particolari (più confacenti agli addetti ai lavori), i grassi non sono tutti uguali; le differenze maggiori non riguardano l’apporto ca-lorifico per tutti è di circa 9 calorie per grammo, ma la loro composizione in acidi grassi. In questa sede ci basta sapere che i grassi, secondo in tipo di acidi grassi che formano la loro molecola, si distinguono in: grassi saturi, monoinsaturi e polinsaturi. I grassi saturi sono pericolosi per le nostra arterie se ingeriti in quantità eccessive, perché contribuiscono a rallentare la circolazione del sangue e favoriscono la formazione delle placche aterosclerotiche, cioè di accumuli di colesterolo ed altre sostanze che si depositano nelle arterie e che possono portare alla formazione di trombi mettendo a rischio d’infarto o ictus. Si trovano soprattutto nei cibi di origine animale (carni, insaccati, formaggi), ma anche in certi vege-

si ai Grassi, ma solo sE “buoni”

Gli omega 3. I grassi fanno anche bene. Ci sono i “buoni” e i “cattivi”, ed i primi, se mancano, possono creare squilibri nel nostro organismo. I grassi omega 3 sono amici della nostra salute. I farmaci a base di queste sostanze, oltre ad essere i toccasana delle arterie, possono evitare molti rischi a chi ha già avuto problemi cardiaci.

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tali come l’olio di cocco, di palma e le margarine. I grassi monoinsaturi sono invece utili per “ripulire” le arterie, perché favoriscono l’aumento del colesterolo “buono (Hdl) e lo smaltimento del colesterolo “cattivo” (Ldl). Sono presenti soprattutto nell’olio d’oliva ed in quello di arachide. I grassi polinsaturi sono anch’essi utili, perché mantengono alto il livello del colesterolo “buono” e riducono il colesterolo totale. Si trovano negli oli di semi (girasole, soia e mais) e nel pesce.

I grassi “amici” della nostra salute.I grassi “amici della nostra salute” sono dunque i grassi monoinsaturi ed i grassi polinsaturi e fra questi gli omega 3. Gli omega 3 fanno parte dei cosiddetti grassi essenziali, perché il nostro organismo non è capace di produrli da solo e che perciò devono essere introdotti con gli alimenti. Sono presenti soprattutto in alcuni pesci (tonno, sgombro, salmone, sardine) e nell’olio di pesce, nelle noci, nell’olio di mais, di soia, di colza, ecc.

Agiscono su più fronti.Gli omega 3 agiscono con modalità diverse: tengono pulite le arterie evi-tando la formazione di trombi, cioè di coaguli di sangue che, occludendo le arterie stesse possono provocare un infarto o un ictus. Limitano la for-mazione di placche aterosclerotiche, cioè accumuli di grasso che possno pure facilitare la formazione di trombi. Riducono la concentrazione dei trigliceridi nel sangue e, probabilmente hanno l’effetto di aumentare il colesterolo buono (Hdl), tenendo sotto controllo l’aterosclerosi. L’atero-sclerosi consiste in un indurimento ed un ispessamento delle pareti delle arterie, con consoguente diminuzione dell’apporto di sangue ai tessuti, mettendo così a rischio la salute del cuore e del cervello. Le placche ate-rosclerotiche, infatti, si formano in seguito ad un eccesso di “grassi catti-vi” nel sangue e quando il colesterolo Hdl è ridotto. Gli omega 3 rendono il sangue più fluido, perché bloccano l’aggregazione delle piastrine, che sono cellule del sangue responsabili della sua coagulazione e, quindi del-la formazione di trombi. Agiscono contro l’infiammazione, un processo coinvolto nella formazione dei trombi, che possono causare un infarto. Uno degli effetti benefici, scoperti più recente, per quanto riguarda gli omega 3, è la loro capacità di proteggere il cuore dalle alterazioni del suo ritmo, cioè le aritmie cardiache. Gli omega 3 si distribuiscono in tutte le membrane cellulari e quindi anche in quelle cardiache. Qui favoriscono l’ingresso nelle cellule di particolari sostanze che influiscono sulla carica elettrica del cuore.

Oltre agli omega 3 ci sono anche gli omega 6.Si tratta di grassi polinsaturi, presenti negli oli vegetali (girasole, mais e di vinacciolo), capaci di ridurre sia il colesterolo Ldl sia il colesterolo totale. Come gli omega 3, sono essenziali per il nostro organismo, che non è in grado di produrli. Sia gli omega 3 sia gli omega 6 partecipano ai mec-

Omega 3: oli di pesce

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canismi di invecchiamento, ma secondo le proporzioni in cui si trovano, possono accelerarli o contrastarli. In genere vi è una carenza di omega 3, più rari, ed un eccesso di omega 6. E’ proprio il loro equilibrio a favorire i disturbi legati alla degenerazione come ad esempio, l’ostruzione dei vasi sanguigni e le malattie autoimmuni. Il livello di assunzione giornaliera raccomandato di grassi omega 3 è di 1 g per le donne e 1,5 g per gli uomini. Il che equivale a dire che,nell’arco delle 24 ore, da 50 a 70g di salmone

oppure 60-90 g di sarde. Per questo motivo, può essere utile ricorrere agli integratori.

Sono utili tutte e due.A livello delle cellule, gli omega 6 e gli omega 3 si comportano come se fossero in competizione: il nostro stato di salute viene così influenzato dal tipo acido grasso che prevale nell’organismo. In genere nelle popo-lazioni più industrializzate gli omega 3 vengono sconfitti dagli omega 6, perché la dieta è povera dei primi e ricca dei secondi.

Consumiamo troppi omega 6.Gli omega 6 sono presenti in abbondanza negli oli di semi, nei frutti oleosi e nel tuorlo, quindi con la dieta abituale se ne consumano senza accorgersene una notevole quantità, perchè certi oli vengono impiegati nella preparazione di molti dolci, merendine, ecc. Proprio per questo il rapporto esistente tra omega 6 ed omega 3 è enormemente a favore dei primi. Tutto ciò comporta rischi per il nostro organismo, perché un eccesso di omega 6 può favorire la comparsa di malattie cardiovascolari, di tumori e di malattie infiammatorie. Per questo motivo, gli esperti con-sigliano a tutti di aumentare l’apporto di omega 3. Come? Innanzitutto attraverso la dieta. Questa, può essere integrata con i prodotti di base di oli di pesce, che il medico può prescrivere e oggi sono compresi nella fascia A, a completo carico del Servizio Sanitario mentre fino ad ora po-tevano essere prescritti soltanto a chi aveva i trigliceridi alti.

Una pillola di omega 3 (grassi di pesce) per proteggere il cuore.Per le persone che soffrano di cuore e che hanno avuto un infarto, gli omega 3 sono particolarmente importanti. Aiutano a diminuire drastica-mente il rischio di ricadute e di morte improvvisa. Negli infartuati, ai quali è stato dato I g di omega 3 al giorno, una ricerca italiana ha dimostrato che il rischio di morte improvvisa diminuisce del 45% e il rischio di un

altro infarto del 31%. Gli alimenti che contengono questi grassi buoni non devo-no mai mancare, ma integratori contenenti omega 3 si pos-sono acquistare anche in farmacia e sono utili soprattutto quando i trigliceridi sono molto elevati, per la loro azione

La frutta secca contie-ne grassi vegetali più sani di quelli animali e capaci di contrastare l’accumolo di colestero-lo nelle arterie.

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specifica contro queste sostanze. Oggi sono infatti disponibili medicinali che contengono grassi buoni de-rivati dall’olio di pesce e, quindi, del tutto naturali, che non hanno effetti collaterali anche se assunti per lunghi periodi. Il loro vantaggio è che contengono una quantità costante di grassi buoni, con provenienza naturale garantita. L’azione dei farmaci a base di omega 3, sommandosi a quella delle cure normalmente prescritte (antiaggre-ganti piastrinici, Ace-inibitori, betabloccanti, statine, antiaritmici), può ridurre alteriormente i pericoli per la salute.

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Acido acetilsalicilico.L’acido acetilsalicilico il cui nome commerciale (brevettato) è Aspirina, deve la sua denomina-zione chimica all’albero del salice, la cui cortec-cia contiene una sostanza che, una volta trattata chimicamente, dà origine a glucosio (uno zucchero) e ad acido salicili-co (lo stesso che viene comunemente aggiunto al succo di pomodoro per conservarlo). Il paracetamolo, il cui nome commerciale brevettato è Tachipirina, è una sostanza derivata dall’anilina, in origine studiata es-senzialmente per la sua azione antifebbrile. L’acido acetilsalicilico ed il paracetamolo sono due farmaci che non mancano mai nell’armadietto dei medicinali di casa, perché si tratta di farmaci indicati per combattere i malesseri quotidiani, per i quali di solito, non si ricorre alla prescrizione del medico. La maggior parte delle persone, però, non sa di avere a che fare con due principi attivi differenti fra di loro, ciascuna con caratteristi-che, effetti collaterali e controindicazioni propri e che solo in alcuni casi è indifferente assumere l’uno o l’altro.

Ci vuole invece cautela.Sia l’acido acetilsalicilico sia il paracetamolo, contrariamente a quanto, in-vece si crede, sono due principi in grado di determinare danni anche seri se non vengono correttamente assunti. É bene attenersi quindi almeno ad alcune regole molto semplici: non assumerli per indicazioni impro-prie. Per esempio, prendere l’acido acetilsalicilico (come segnala invece un comunicato commerciale) per facilitare la digestione, è inutile; è inutile

assumerlo per abbassare la febbre, quando la tempera-tura è soltanto leggermente alterata. Così come non ha senso prendere del paracetamolo per combattere un processo infiammatorio. Talora, è facile abusarne per cui spetta al medico stabilirne eventualmente dosaggi più elevati di quanto non segnali il foglietto illustratti-vo (detto ironicamente il “bugiardino”), contenuto nella confezione di ogni medicinale, e per periodi prolungati. Acido acetilsalicilico e paracetamolo, sono entrambi dei farmaci, quindi non bisogna abusarne. In particolare, e non si è mai ripetuto abbastanza: l’acido acetilsalicilico, la comune Aspirina, non si deve mai prendere a stoma-

co vuoto, perché con il tempo la mucosa dello stomaco potrebbe venire seriamente danneggiata. L’acido acetilsalicilico è un medicinale efficace, viene usato contro diversi disturbi, che soltanto il medico riesce a con-trollare efficacemente. La sua azione è in grado di bloccare la produzione delle “prostaglandine”, sostanze ritenute responsabili di un processo in-fiammatorio di un tessuto e di conseguenza, del dolore che ne deriva. Per questo motivo vengono riconosciute all’acido acetilsalicilico 3 azioni fon-damentali proprietà analgesiche, antipiretiche (cioè in grado di abbas-sare la temperatura) ed antinfiammatorie; L’acido acetilsalicilico è quindi

acido acEtilsalicilico (aspirina) o paracEtamolo (tachipirina): attEnzionE! QualE scEGliErE?

Sono due farmaci che si utilizzano spesso per abbassare febbre, mal di denti, nevralgie ed altre forme dolorose. I due farmaci, però, non sono intercambiabili perché hanno caratteristiche diverse e vanno utilizzati secondo i casi, sebbene per i dolori di media intensità siano indicati entrambi.

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indicato in caso di mal di testa, dolori mestruali, nevralgie, dolori di tipo muscolare e di tipo reumatico, sintomi influenzali e da raffreddamento.L’acido acetilsalicilico, però non deve essere assunto: quando si soffre di ulcera gastrica o duodenale oppure di gastrite, perché la sua azione sulla mucosa dello stomaco potrebbe aggravare il problema (a meno che non si assumano contemporaneamente delle sostanze protettrici della muco-sa stessa); quando si stanno assumendo anticoagulanti, in gravidanza, soprattutto nell’ultimo trimestre; nei bambini sotto i 12 anni; se si hanno problemi di fegato, perché a certi dosaggi costringerebbe quest’organo ad un sovraccarico di lavoro; prima di un intervento chirurgico (perché la sua azione fluidificante del sangue accresce il rischio di emorragie), ecc. In commercio, i prodotti contenenti acido acetilsalicilico sono numerosi. Le preparazioni standard (tipo Aspirina) sono compresse costituite dal principio attivo, l’acido acetilsalicilico e dall’eccipiente, cioè da una so-stanza che non ha azioni farmacologiche, ma che serve a facilitare l’as-sunzione o l’assorbimento del principio attivo stesso. Ci sono compresse apposite per i bambini sotto i 12 anni (tipo Aspirinetta), che hanno un contenuto inferiore alle preparazioni standard e per le quali è necessa-ria la prescrizione del medico. Ci sono compresse rivestite, nelle quali il principio attivo viene rilasciato solo una volta che la pastiglia ha raggiunto l’intestino tenue, per cui la mucosa dello stomaco non viene intaccata (tipo CardioAspirin 100 mg).

E’ di aiuto al cuore.L’acido acetilsalicilico viene anche utilizzato nella prevenzione e nel tratta-mento delle malattie a carico del cuore e della circolazione (CardioAspirin 100 mg, né è un esempio). Alla base dell’infarto e di altre malattie cardio-vascolari c’è un problema di ostruzione dei grossi vasi sanguigni, le arte-rie, per effetto dei trombi. L’acido acetilsalicilico sembra in grado di scio-gliere proprio quegli aggregati di piastrine, normalmente presenti nel san-gue e che hanno la funzione di tamponare eventuali emorragie, ma che possono anche ostruire in modo parziale o totale un’arteria. E’ per questo motivo che l’acido acetilsalicilico viene ritenuto utile in casi: di trombosi (malattia caratterizzata appunto dalla formazione di trombi all’interno dei grossi vasi sanguigni; di aterosclerosi, per cui le arterie di medio e grosso calibro vengono ostruite da placche di grassi e colesterolo, che impedi-scono il regolare flusso di sangue; di ischemia cerebrale precedente (cioè di apporto ridotto di sangue al cervello accompagnata anche dal rischio di mortalità), diminuendo eventuali rischi; di interventi chirurgici cardiaci o vascolari, sempre con lo scopo di mantenere il sangue fluido. Non ci sono invece motivi di assumere l’acido acetilsalicilico come farmaco nella prevenzione dell’infarto nelle persone che non hanno alcun sintomo. Può essere utile piuttosto in persone affette da diabete, obese, o soffrono di pressione o colesterolo alti, fumano.

Il paracetamolo.Oltre alla capacità di controllare prontamente ogni eventua-

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le rialzo della temperatura del nostro corpo, al paracetamolo viene ri-conosciuta anche una discreta capacità di attenuare il dolore, al pari di quella dell’acido acetilsalicilico. Quindi può essere somministrato quan-

do il dolore non è molto forte, in caso di mal di testa, di denti, torcicollo, dolori articolari, lombosacrali, muscolari, quelli che compaiono dopo piccoli interventi chirurgici, ecc. A differenza dell’acido acetilsalicilico, il paracetamolo non ha alcuna attività antinfiammatoria. E’ più tollerabile e può essere assunto anche da chi non può prendere l’acido

acetilsalicilico, come, ad esempio, gli allergici a questo principio attivo, chi soffre di ulcera o di disturbi allo stomaco, chi ha problemi di coagulazio-ne del sangue, i bambini che hanno meno di 12 anni. Paracetamolo ed acido salicilico sono farmaci da banco (cioè che possono essere venduti senza ricetta medica) assai comuni, talvolta si tende ad esagerare con le dosi, pensando che l’abuso non comporti conseguenze. Il rischio di intossicazione, invece, esiste ed è assai frequente tra i bambini. L’acido acetilsalicilico comporta il rischio di intossicazione (compromissione del sistema nervoso centrale; emorragie, perché la composizione del sangue viene alterata; blocco della respirazione, ecc.). I danni da intossicazione da paracetamolo, invece, sono tutti a carico del fegato e dei reni. Indica-tivamente una persona adulta può assumere 2-4 compresse al giorno di acido acetilsalicilico, sempre a stomaco pieno e per i bambini (sotto, i 12 anni) l’assunzione ne è consigliata solo sotto stretta sorveglianza medi-ca. Sempre indicativamente le dosi di paracetamolo che un adulto può assumere quotidianamente sono di: 1 compressa (500 mg) 3-4 volte al giorno non necessariamente a stomaco pieno; bambini dai 6 ai 12 anni: 1/2 compressa 3-4 volte al giorno. In caso di sindromi da raffreddamento o malanni stagionali, sono consigliate le preparazioni farmaceutiche in cui è presente anche vitamina C, sia nel caso di acido acetilsalicilico (Aspirina C) sia nel caso del paracetamolo (Tachiflu).

Ma, attenzione: mai insieme.Per esempio, non si devono assumere con l’acido acetilsalicilico (Aspirine) le seguenti sostanze: Ace-inibitori (farmaci contro la pressione alta), per-ché diminuisce il loro effetto; Benzodiazepine (ansiolitici), perché potreb-be derivarne un’eccessiva sedazione; Eparina, derivati Cumarinici o altri anticoagulanti, perché potenziando la loro attività, c’è il rischio di sangui-namento; Trombolitici, perché può aumentare il rischio di emorragia ce-rebrale; Antiepilettici, percè s’incrementa l’effetto dell’acido acetilsalicilico; Antireumatici non steroidei (Fans), perché ne potenzia l’effetto, ma anche gli effetti collaterali; farmaci contro la gotta, perché ne riduce l’effetto;... Non si devono invece assumere questi farmaci con il paracetamolo (Tachi-pirina): Anticoagulanti, perché ne potenzia l’effetto; Pillola anticoncezio-nale, può essere ridotto l’effetto analgesico del paracetamolo; ecc.

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Anche la prostata ha i suoi problemi: 3 buoni motivi per una visita: pro-statite, adenoma, tumore.

Piccola, ma fondamentale. La prostata è una piccola, ma importante ghiandola dell’apparato uro-genitale maschile. E’ situata nella parte inferiore dell’addome, davanti all’intestino, al di sotto della vescica. Ingloba il primo tratto dell’uretra, cioè del canale che porta all’esterno l’urina. Trovandosi in questa posizione, un eventuale ingrossamento della pro-stata può creare (come vedremo successivamente) notevoli disturbi urinari. La prostata ha una forma simile ad una castagna, lunga 3cm e larga 4 cm; è racchiusa in una membrana fibrosa (loggia prostatica) e la sua massa è costituita da cellule ghiandolari (soprattutto nella sua parte esterna) e da fibre muscolari. E’ attraversata da numerosi canalini nei quali fluisce lo sperma e dall’uretra, per la quale passa l’urina diretta all’esterno. La funzione della prostata è quella di fornire un liquido (liquido prosta-tico) opalescente e filante, che, al momento dell’eiaculazione si mescola allo sperma diluendolo e rendendolo così più facile da espellere. La presenza del liquido prostatico sembra anche in grado di aumentare la mobilità degli spermatozoi nella loro corsa verso l’ovulo femminile, per fecondarla. Del resto, il 20-30% dell’eiaculato totale è identificabile con il liquido prostatico.

Il nostro approfondimento.La prostata, come tutti i nostri organi può ammalarsi a qualsiasi età. L’Organizzazio-ne Mondiale della Sanità (OMS) ha sotto-lineato un dato significativo: solo 3 uomini su 10 conoscono le funzioni della prostata. Eppure, anche da giovani, questa ghiandola esclusivamente maschile può essere sede di fastidiose prostatiti. Senza contare che, dopo i 50 anni, è quasi impossibile ignorare il problema di salute della nostra prostata. La prostata, infatti, con il passare del tempo nell’80% degli uomini s’ingrossa, con tutto un carico di disturbi a volte molto seri. Oltre tutto, fra i 50 ed i 70 anni la popolazione maschile è particolarmen-te a rischio di sviluppare un tumore alla prostata, un pericolo che si può arginare sottoponendosi ogni anno al controllo medico di questa ghian-dola, piccola ma fondamentale. Dopo una certa età qualche disturbo la prostata lo dà, è inevitabile. Una diagnosi precoce può, però, evitare che si trasformino in malattie più serie.

la salutE dElla prostata: 3 problEmi

A qualsiasi età, anche da giovani, questa ghiandola può essere sede di fastidiose infezioni, ma dopo i 50 anni è quasi impossibile ignorare il problema. Con il passare del tempo, nell’80% de-gli uomini s’ingrossa per un processo d’invecchiamento naturale e può an-che sfociare in un tumore. Un pericolo che si può arginare sottoponendosi ogni anno al controllo medico di questa ghiandola.

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I nemici della prostata.Le malattie della prostata possono essere: in-fiammatorie; (prostatite) da invecchiamento (ipertrofia prostatica benigna); neoplasiche (cioè tumorali, o carcinoma della prostata). Vediamo, in sintesi quali sono i disturbi più comuni della prostata e come riconoscerli con tempestività. In questa sede, ma in momenti successivi (per motivi di spazio) prenderemo in considerazione: 1° la prostata nel suo com-plesso, le prostatiti; 2° l’ipertrofia prostatica benigna (o adenoma della prostata); 3° la ne-oplasia (o carcinoma). I tre nemici della pro-stata.

1 - Quando c’è un’infezione: Prostatite.Può succedere anche da giovani. Generalmente è dopo i 50 anni che compaiono i principali problemi, ma le infezioni prostatiche (che in ter-mine medico vengono chiamate “prostatiti”), possono colpire in uguale misura sia i giovani sia gli anziani, indipendentemente dallo stato di salute della loro prostata. Ma non solo. Anche i più giovani, specie fra i 20 ed i 40 anni, sono a rischio: l’uso di cicli e motocicli, per esempio, o anche solo un regime alimentare poco equilibrato possono favorire la comparsa di fastidiose infiammazioni della prostata.La prostata si può anche infiammare perché germi e batteri si possano infiltrare attraverso l’orifizio da cui esce l’urina, risalire l’uretra aggredire la ghiandola, provocandone l’infezione. Ma le cause di un’uretrite in ef-fetti, possono essere diverse e non sono sempre facili da identificare. E’ invece più raro che anche alcuni virus, se trovano le condizioni ideali, possono raggiungere la prostata. L’azione di batteri e virus può essere facilitata quando le difese immunitarie generali sono più basse del nor-male o quando s’instaura una momentanea carenza di immunoglobu-line (anticorpi nella mucosa della prostata e che svolgono un ruolo di difesa contro le infezioni). Tra i veicoli di contagio c’è anche il rapporto sessuale non protetto (in questo caso, colpevole è la “Clamidia”, un microrganismo trasmesso prevalentemente per via sessuale. Particolar-mente esposti alle prostatiti sono i tassisti, i camionisti e tutte le persone costrette gran parte del tempo sedute.

I sintomi.Gli urologi distinguono una prostatite acuta ed una prostatite cronica, che esigono esami e trattamenti farmacologici diversi. Come sintomi le prostatiti acute causano minzioni frequenti e dolorose, fastidi a quella parte del corpo chiamata “cavallo”, febbre alta. I sintomi della prosta-tite cronica, meno significativi, comprendono disturbi urinari, bruciore all’uretra, dolori nella zona perineale,inguinale e sovrapubica e fastidi ai

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testicoli.E’ importante rivolgersi all’urologo non appena si manifestano i suddetti disturbi ed in particolare il bruciore urinario e l’aumentata frequenza delle minzioni.Gli esami da fare: se è acuta viene individuata con la visita specialistica, anche perché una prostata ingrossata e dolente può essere un segnale di un’infiammazione in corso. Se è cronica, lo specialista può prescrivere altri esami per far luce sul disturbo.

I farmaci utili.Se l’infezione è di origine batterica si ricorre all’antibiotico (per bocca) più efficace a sgominare il germe identificato con gli esami. Talora si ricorre ad un antibiotico a “largo spettro”, cioè in grado di risultare attivo sulla gran parte dei germi.

Come evitare l’infiammazione.Per scongiurare la comparsa della prostatite, nella maggior parte dei casi è sufficiente seguire alcuni accorgimenti. Per esempio: fare spesso passeggiate, che aiutano a far defluire il sangue dalla zona della prosta-ta, dove invece si concentra quando si sta troppo seduti. Evitare lunghi viaggi in auto, oppure fermarsi frequentemente per fare la pipì e cammi-nare. Praticare sport, in particolare il nuoto, poiché il contatto con l’acqua fredda riduce l’afflusso di sangue alla prostata; evitare invece il boody building che richiede grandi sforzi addominali, con notevole flusso di sangue alla prostata e tutte le attività che prevedono il contatto con una sella. Seguire una dieta con poco peperoncino e pepe. Combattere la sti-tichezza. Avere rapporti sessuali regolari: l’erezione non seguita da eiacu-lazione provoca un ristagno di sangue a livello della prostata; un attività sessuale troppo, molto frenetica può causare stress a questa piccola, ma importante ghiandola.

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La prostata è una ghiandola che può cambiare volume.Sappiamo già che la prostata è una delle ghiandole che appartengono al-l’apparato urogenitale soltanto maschile. Sappiamo dove si trova, come è fatta, che funzioni ha, ecc. E’ una ghiandola importante, ma, come tutte le altre parti del nostro corpo può ammalarsi ed infiammarsi dando prostatiti ad ogni età, quando, come abbiamo già visto, viene aggredita da alcuni agenti patogeni. Nel corso della vita di un uomo si sviluppa e cambia dimensioni; alla nascita e nel bambino, la prostata è molto picco-la e pesa soltanto pochi grammi; con l’arrivo della pubertà, comincia ad ingrossarsi per l’effetto degli ormoni (ossia degli ormoni sessuali maschi-li); la sua crescita cessa intorno ai 20 anni, allorchè raggiunge un peso di circa 20 grammi. Nella maggior parte degli uomini, però la ghiandola prostatica può prendere ad ingrossarsi dopo i 50 anni. Si parla di ingros-samento della prostata nel linguaggio comune, di ipertrofia prostatica statica “benigna” in quello medico, o anche di adenoma prostatico.

2 - Quando la prostata s’ingrossa è colpa di un adenoma.Da una certa età in poi, dunque, la prostata cresce di volume per colpa di un adenoma, cioè di un tumore di natura esclusivamente benigna, che si forma al suo interno. Questo adenoma non è altro che una zona di tessuto che si sviluppa nella parte centrale della prostata, quella a diretto contatto con l’uretra. Trovandosi vicino alla vescica, un aumento della prostata può creare di-sturbi di tipo soprattutto urinario (bisogno di urinare spesso, emissione ritardata dell’urina, incontinenza, ecc.). Come vedremo poi, la prostata aumenta di dimensioni anche in caso di carcinoma, ma i due ingrossa-menti non hanno alcuna relazione fra loro. Diciamo però subito che l’ipertrofia prostatica, a differenza del tumore alla prostata (carcinoma prostatico), che negli stadi iniziali si manifesta con sintomi pressoché identici, non comporta conseguenze fatali. Per questo motivo, l’ipertrofia prostatica è definita “benigna”. L’ipertrofia prostatica benigna (o, ripetiamo l’adenoma prostatico), col-pisce circa l’80% della popolazione maschile con più di 60 anni, anche se i disturbi tipici di questa malattia si manifestano soltanto nel 50% dei maschi colpiti. Ma già a partire dai 40 anni, l’8% degli uomini accusa i segni caratteristici di questa malattia, che è considerata comunque un fenomeno naturale dell’invecchiamento.

Perché si forma l’adenoma?L’ipertrofia prostatica benigna è una malattia diffusissima che viene

più o meno a coincidere con l’inizio dell’andropausa. Secondo la teoria oggi più accreditata l’adenoma prostatico si svilupperebbe soprattutto per colpa degli ormoni sessuali, le cui dosi nell’organi-

Quando la prostata s’inGrossa è colpa di un adEnoma

Lo sviluppo dell’ipertrofia prostatica benigna (adenoma). La prostata si allarga con l’età. E’ l’adenoma interno che spinge verso l’esterno il tessuto ghiandolare. Se l’adenoma cresce senza disturbare la base della vescica, l’ingrossamento può passare anche inosservato o dare solo lievi disturbi. I problemi seri vengono alla luce quando un adenoma anche relativamente piccolo cresce invadendo la zona adibita alla minzione, cioè ostruendo il flusso urinario.

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smo variano secondo l’età. Questa teoria tiene conto di due tipi di ormoni sessuali: gli ormoni androgeni (ormoni maschili) e gli ormoni estro-geni (ormoni femminili) entrambi contempora-neamente presenti in ogni organismo maschile ma, naturalmente, in diversa quantità. Quando, secondo l’età del soggetto, questi due ormoni sono in “equilibrio”, la prostata si mantiene in condizioni normali. Per un processo naturale, verso i 40-50 anni d’età, particolari cellule dei testicoli cominciano a ridurre progressivamente la produzione di testosterone, cioè del principale ormone sessuale ma-schile. Questo fenomeno, a sua volta, modifica il bilanciamento fra gli androgeni e gli estrogeni a livello della prostata. La formazione dell’ade-noma prostatico si ritiene che in linea di massima sia dovuto ad uno squilibrio fra ormoni androgeni ed ormoni estrogeni sempre presenti nel nostro organismo, anche se in quantità variabili secondo il sesso e l’età.E’ bene però tenere presente (come vedremo più in dettaglio in altra occasione), che non esiste invece alcuna relazione fra l’ingrossamento della prostata ed il tumore (il carcinoma della prostata): il primo non è assolutamente l’anticamera dell’altro ed un’ipertrofia non corre neces-sariamente il rischio di evolvere in un tumore. Si tratta di due malattie completamente diverse, che possono convivere nella stessa persona, ma tra le quali non c’è alcuna relazione di causa ed effetto. Gli unici dati che accomunano la malattia benigna e quella maligna sono di risentire entrambe dei livelli ormonali (dei quali si è già parlato) e di mettersi in luce con sintomi del tutto simili.I sintomi tipici delle due malattie sono infatti: lo stimolo ad urinare si fa molto più frequente sia durante la notte sia durante il giorno; non sem-pre l’eliminazione delle urine è soddisfacente e si ha spesso la sensazio-ne che la vescica non sia completamente svuotata; durante la minzione si può provare un senso di bruciore e di dolore; il getto perde potenza; subito dopo la minzione può manifestarsi uno sgocciolamento. Nel loro complesso i sintomi dell’ipertrofia prostatica benigna possono essere di tipo irritativo ed ostruttivo. I sintomi irritativi che abbiamo prima ricordato sono i primi a comparire; i sintomi ostruttivi si fanno sentire soprattutto quando la prostata è già sensibilmente ingrossata e vanno dalla riduzione del getto dell’urina, alla sensazione di non aver svuotato completamente la vescica, allo sgoccio-lamento dopo essere stati in bagno.

Come si scopre: gli esami da fare.L’adenoma della prostata si può scoprire attraverso una vi-sita specialistica durante la quale l’urologo o l’andrologo si informa sulla storia del paziente e dei sintomi che manife-sta (per esempio, la necessità di urinare frequentemente). L’esplorazione rettale è utile al medico per toccare la parte

Lo sviluppo della malattia

La quantità di testosterone

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ghiandolare della prostata onde stabilire in modo orientativo la consistenza ed il volume della prostata stessa. L’ecografia prostatica, sfruttando certe proprietà degli ultrasuoni è in grado di rilevare le dimensioni della prostata stessa. Con l’ecografia tranrettale, invece, sul monitor compare un’im-magine chiara della struttura della prostata in modo da ve-dere se al suo interno ci sono noduli o calcificazioni che me-ritano esami più approfonditi. Un altro esame: la uroflusso-metria, misura, invece, il getto urinario del paziente mentre un apposito apparecchio registra il tracciato delle diverse

minzioni eseguite. La biopsia. E’ un ulteriore accertamento che viene ef-fettuato se ci sono dei dubbi. Si tratta del prelievo di uno o più campioni del tessuto prostatico sospetto, che viene effettuato con una sonda spe-ciale, dotata di un ago che raggiunge la prostata sotto il diretto controllo ecografico. I campioni vengono successivamente passati al vaglio della lettura istologica eseguita al microscopio in laboratorio, e permettono di identificare con certezza la natura benigna o maligna delle cellule.

Come si risolve?Se si tratta effettivamente di ipertrofia prostatica benigna, le soluzioni non mancano. Sia farmacologiche sia chirurgiche, le indicazioni all’uno o all’altro trattamento variano secondo l’età del paziente, le sue condizioni di salute e del tipo di ipertrofia.

Prima i farmaci, poi il bisturi.Se l’ingrossamento della prostata produce soltanto disturbi leggeri e la persona colpita è ancora giovane, conviene prima provare a tenere sotto controllo la situazione con farmaci specifici. Oggi il trattamento farma-cologico della prostata ingrossata può contare su farmaci con un’azione veramente mirata. Questi farmaci, però, servono eventualmente soltan-to a rimandare l’intervento chirurgico: durante la cura, i disturbi della minzione praticamente scompaiono o si attenuano con una percentuale di successo superiore al 50% dei casi trattati, ma non eliminano la causa della malattia. Hanno, perciò, un effetto sintomatico transitorio poiché una volta sospesi, i disturbi si presentano tali e quali a prima. Si possono utilizzare sia dei farmaci sintomatici puri (cioè che agiscono esclusiva-mente sui sintomi) e sono i cosiddetti farmaci alfalitici; sia dei farmaci che agiscono sui meccanismi evolutivi della malattia, come la finasteri-de o la mepartricina. In assenza di controindicazioni, come trattamento ideale, per arretrare contemporaneamente la crescita della ghiandola e migliorare i sintomi, l’urologo può prescrivere l’assunzione simultanea dei due tipi di farmaci.Nuovi orizzonti si stanno aprendo nei confronti del trattamento delle ma-lattie della prostata. In particolare, le tecniche più innovative riguardano l’ipertrofia prostatica, che ha un’incidenza nell’uomo estremamente ele-vata.

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Per risolvere il problema dell’ipertrofia prostatica benigna sul ver-sante chirurgico, oltre alla tradizionale tecnica dell’asportazione completa dell’adenoma per snocciolamento (l’unica tecnica che dà risultati definitivi, ma con qualche svantaggio), sono nate molteplici tecniche mininvasive che permettono di mantene-re, oltre alla potenza sessuale, anche la fertilità. Sono tecniche che richiedono una minor durata del ricovero ospedaliero, che sfruttano varie forme di energia (ultrasuoni, laser, l’ipertermia, il Tuna ecc.). Questi interventi vengono consigliati ai pazienti ad alto rischio di anestesia (anziani, cardiopatici) che non sono in grado di sopportare un intervento chirurgico più com-plesso. Possono essere utilizzati anche per uomini anco-ra giovani (45-50 anni) che desiderano ancora avere figli o che non vogliono disturbare la normale attività sessua-le. Un intervento di questo tipo risolve i disturbi derivanti dalla ostruzione del flusso urinario per un certo periodo, trascorso il quale può essere ne-cessario un nuovo intervento. Con certe tecniche mininvasive, pertanto, il pericolo di recidive è “dietro l’angolo”.

Un esame molto importante: il PSA.Il dosaggio del Psa consiste in un semplice prelievo di sangue che ha lo scopo di misurare l’antigene (un antigene è un elemento estraneo che, introdotto nell’organismo, è in grado di provocare reazioni di difesa) spe-cifico della prostata (detto Psa dalle iniziali del suo nome inglese), una sostanza che aumenta nel sangue quando la prostata è interessata da un’alterazione importante.Tra le migliaia di proteine diverse che appartengono alle cellule della pro-stata, il Psa è quella più sensibile alla presenza di un’eventuale malattia. E’ un test preditivo, cioè non identifica questo o quel disturbo, ma per-mette piuttosto il segnalare che ci può essere un disturbo della prostata.I valori normali del Psa, teoricamente non devono superare i 4 nano-grammi per millimetro cubo di sangue. Quindi se i valori del Psa sono più alti della norma si prosegue nelle indagini per scoprire se nella pro-stata è presente un’eventuale lesione tumorale. Se i valori del Psa si mantengono fra 3 e 4, significa che tutto va per il meglio. Valori del Psa oltre il 20 sono indice di un tumore, mentre valori bassi, intorno a 7-8 possono essere spie di altri problemi più benigni che coinvolgono, però, ugualmente la ghiandola (per esempio, una prostatite). Nei casi dubbi, per aumentare l’efficienza diagnostica e, soprattutto, per meglio interpre-tare valori fra 4 e 10 ( che possono essere la spia sia di una ipertrofia be-nigna sia di un tumore) sono stati recentemente introdotto altre ulteriori valutazioni del Psa: la densità del Psa ed il tasso di incremento di Psa nel tempo (o Psa velocity) che sembrano essere valori più significativi del Psa totale fino ad ora considerato.Un incremento del Psa non autorizza in ogni caso a diagnosticare con certezza il tumore della prostata, perché può verificarsi anche in caso di iperplasia benigna o di prostatite. Fornisce, tuttavia, un’indicazione

Se l’ingrassamento della prostata è in fase inizale sono utili i far-maci per ridurlo.Sono farmaci privi di effetti collaterali im-portanti, quindi pos-sono essere presi per lunghi periodi.

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che, unita ad altri eventuali dati emersi dalla visita o dalla ecografia, può orientare il parere dello specialista.Quando fare il Psa? Questo esame, anche quando risulti favorevole, deve essere ripetuto per gli uomini che hanno più di 50 anni una volta all’anno, perché la prostata va tenuta sotto controllo.

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3 - Dopo i 50 anniOgni uomo, a partire dai 50 anni (o dai 45-50 anni se é a rischio, cioè se ha parenti stretti che hanno sofferto di questa malattia, se è obeso, se segue una dieta ricca di grassi animali), dovrebbe sottoporsi ogni anno ad una visita dall’urologo. Visita che prevede: l’esplorazione del retto; la valutazione degli esami del sangue (misurazione del Psa, cioè dell’anti-gene prostatico specifico, che può aumentare in caso di tumore). Per quanto riguarda il Psa, va subito chiarito che l’esame non può essere interpretato da soli, ma dal medico di famiglia o dall’urologo: non sem-pre, infatti, valori superiori a 4 nanogrammi per ml di sangue (indicano come valore limite) sono necessariamente da collegare alla presenza di cellule maligne.

Che cos’è il tumore della prostataCarcinoma della prostata (così si chiama questo tumore) è la più comu-ne neoplasia maligna che colpisce gli uomini dopo i 50 anni. Come per l’ipertrofia prostatica è influenzato dagli ormoni. Diversamente dall’ipertrofia, che colpisce l’interno della prostata, la neo-plasia colpisce la parte periferica: la “buccia” di questa ghiandola, tanto simile ad una castagna. Tra l’altro è una forma tumorale che può essere assolutamente asintomatica, cioè priva di sintomi.Gli unici disturbi che la persona può avvertire, infatti, sono simili a quelli dell’ipertrofia benigna salvo, qualche volta, la presenza di sangue nelle urine o nello sperma e la persistenza di un dolore che s’irradia alla schie-na. Si tratta di un tumore piuttosto aggressivo che provoca spesso meta-stasi (diffusione della malattia) alle ossa, ma fortunatamente, in genere, progredisce lentamente e da così la possibilità di scoprirlo in tempo utile.

Lo stesso fenomeno per due cause diverseCome abbiamo già visto nel caso della ipertrofia prostatica, la prostata aumenta di volume anche in caso di carcinoma, ma i due ingrossamenti non hanno alcuna relazione fra di loro. E’ bene sottolineare ancora una volta (come del resto abbiamo già detto nel caso dell’adenoma) che non esiste alcuna relazione fra l’ingrossamento della prostata (la cosiddetta ipertrofia prostatica benigna) ed il tumore (carcinoma della prostata): la prima (anche questo lo abbiamo già detto), non è assolutamente l’an-ticamera dell’altro e un’ipertrofia non corre il rischio di evolvere in un tumore. Si tratta di due malattie completamente diverse, che possono anche convivere sulla stessa prostata, ma tra le quali non c’è alcun rap-porto di causa ed effetto. Gli unici dati che accomunano la malattia be-nigna e quella maligna sono: il fatto di risentire entrambe in egual misura dei livelli ormonali e di mettersi in luce con sintomi del tutto simili (sti-moli ad urinare più di frequente sia durante la notte sia durante il giorno); non sempre si ha la sensazione che la vescica venga completamente svuotata; il getto dell’urina perde di potenza; a volte si manifesta uno

la salutE dElla prostata, il tErzo motiVo pEr una Visita: il tumorE o carcinoma dElla prostata

Il tumore della pro-stata è fra le neopla-sie più diffuse e le statistiche lo danno addirittura in au-mento. Fortunatamente,questo non succede tanto perchè ci siano più casi rispetto al passato, ma perchè oggi la diagnosi è sempre più precoce. Se il tumore viene individuato nellefasi iniziali, può es-sere curato con una percentuale di guari-gione molto alta.

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sgocciolamento subito dopo la minzione.

Il tumore della prostata è una malattia lentaIl tumore della prostata è una malattia subdola: non solo presenta sinto-mi simili a quelli dell’ipertrofia prostatica benigna (adenoma), ma ha una evoluzione molto lenta, tanto che i suoi sintomi veramente tipici possono manifestarsi dopo molti anni. A volte viene scoperto occasionalmente, ma, per fortuna, gli strumenti per una diagnosi precoce oggi non man-cano e, se viene curato quando è ancora piccolo e relegato all’interno della ghiandola, questo tumore offre buone possibilità di guarigione nella maggior parte dei casi. Inizialmente, infatti, il tumore rimane circoscritto alla sola prostata (forma intracapsulare) e che, proprio perché confinato all’interno della ghiandola, è facilmente estirpabile con un’altissima per-centuale di successo.

Ma si espandeTalora, però con il passare del tempo, la forma tumorale tende ad espan-dersi e, dopo aver rotto la capsula (cioè l’involucro della prostata), può diffondersi alle vescichette seminali (formazioni situate fra la prostata e la vescica e che hanno la funzione di raccogliere il liquido seminale prodotto dai testicoli) ed ai linfonodi (organi del sistema linfatico la cui funzione è quella di rappresentare una barriera contro le infezioni e le aggressioni di eventuali agenti esterni). Da lì, la forma tumorale ha infine la possibilità (pari al 40 %) di estendersi ulteriormente, formando meta-stasi su organi bersaglio, quali le ossa ed i polmoni. Queste forme molto estese, non possono però, essere più affrontate con la chirurgia, perché non essendo più il tumore localizzato, incapsulato nella ghiandola non garantisce più la non progressione della malattia.

Fattori a rischioL’età. Avere più di 50 anni costituisce già un fattore di rischio e, più si va avanti con gli anni, più il rischio aumenta. Gli ormoni. Chi ha alti livelli di testosterone ha maggiori probabilità di sviluppare un tumore e sembra che corra gli stessi rischi chi è molto attivo sessualmente. Il testosterone è come un po’ di benzina che alimenta il motore del tumore. La fami-liarità. Chi ha parenti vicini che sono stati colpiti dalla malattia ha, a sua volta, maggiori probabilità di svilupparla. La razza. Gli occcidentali si ammalano più degli orientali e dei neri. Tra le cause sembra avere un certo rilievo l’alimentazione. In misura minore, interferiscono la vita sedentaria ed il fumo di tabacco.

Gli esami utili.Gli esami da effettuare nel caso in cui si sospetti la presenza di un tumore alla prostata sono: BIOPSIA. Il medico preleva piccolissimi frammen-ti di tessuto della prostata da analizzare successivamente al microscopio per scoprirne la Biopsia

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natura (benigna o maligna), individuando così l’eventuale presenza di un tumore. Il Psa, cioè l’antigene prostatico specifico (che già conosciamo) può raggiungere valori diversi secondo la causa dell’ingrossamento di questa ghiandola.Quando i valori del Psa sono superiori alla media, questa sostanza fun-ziona da “marcatore”, poiché è indice di qualche problema della pro-stata. Generalmente, alti valori di Psa totale (oltre al 20) sono indice di tumore, mentre valori più bassi (intorno a 7-8 possono essere spie di altri problemi più benigni, che coinvolgono però ugualmente la ghian-dola: una prostatite, una cistite, per esempio. Se i valori si mantengono invece tra 3 e 4, significa che tutto va per il meglio e la prostata è perfet-tamente in salute. In particolare la percentuale del Psa libero è maggiore della quantità totale del marcatore, la prostata è affetta da una ipertrofia piuttosto che da tumore. SCINTIGRAFIA ossea. E’ un esame che viene eseguito attraverso l’intro-duzione nelle vene di isotopi radioattivi (sostanze che emettono radiazio-ni). Serve per individuare eventuali anomalie a carico delle ossa (verifica, per esempio, la presenza di metastasi nelle ossa. ECOGRAFIA transrettale. Scopre la presenza di alterazioni della prosta-ta (come l’aumento di volume e la presenza anomala di masse).

Quando fare il PSAPer gli uomini che hanno più di 50 anni, questo esame, anche quando risulta favorevole, deve essere ripetuto una volta all’anno: la prostata va tenuta sotto controllo. La stessa cosa devono fare gli uomini che, pur avendo anche solo 40 anni si trovano in una fascia di rischio per qual-siasi ragione.

Come fermare il carcinomaI migliori risultati per la soluzione del tumore della prostata si ottengono con l’intervento chirurgico, che però si può praticare solo se il tumore è circoscritto alla ghiandola; quando, invece, le cellule tumorali hanno già superato i confini della prostata la cura palliativa più valida è il “blocco androgenico totale” con farmaci specifici.

Tre possibili cureLa cura del tumore della prostata si basa oggi su tre cardini: la chirurgia, la radioterapia, la terapia ormonale. La chirurgia eradicante è in grado di guarire il tumore se è molto precoce, addirittura se precede la comparsa della neoplasia (cosa possibile attraverso le indicazioni fornite dal Psa, che anticipano di anni la comparsa del tumore). A queste condizioni, le possibilità di guarigione con un intervento chirurgico sono del 90%. An-che la radioterapia può ottenere risultati analoghi, specialmente in per-sone che hanno bassi livelli di Psa prima del trattamento. Ci sono però due tipi di radioterapia: quella classica dall’esterno e la brachiterapia. Quest’ultima consiste nella irradiazione interstiziale che si esegue im-

PSA (antigene prostatico specifico)

Scintigrafia ossea

Ecografia transretale

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piantando nella prostata “semi” radioattivi che rilasciano energia radiante per 6-7 mesi, con l’obiettivo di distruggere le cellule tumorali. Infine c’è la terapia ormonale, che mira invece a bloccare totalmente le fonti di ormoni maschili che alimentano il tumore. Questa cura viene impiegata sia da sola sia in associazione con la radioterapia nei casi più avanzati o ancora, come supporto all’intervento chirurgico, da eseguire prima o dopo l’operazione. Nelle persone molto anziane, però, visto che la ma-lattia procede molto lentamente, spesso si preferisce evitare qualsiasi tipo di trattamento.L’intervento chirurgico demolitivo (prostatectomia) può lasciare in eredi-tà due disturbi: l’impotenza (la scuola chirurgica ha cercato di arginare questa possibilità con una tecnica che permette di risparmiare i nervi responsabili dell’erezione del pene, ma oltre a tutta la prostata si asporta-no anche le vescichette seminali con le conseguenze facilmente intuibili; l’incontinenza urinaria postoperatoria che si rende evidente nel 5-7% degli uomini operati. Con l’asportazione della prostata viene eliminato uno degli sfinteri che controlla lo svuotamento della vescica in base alla sua pienezza. Ne rimane attivo soltanto uno, quello volontario che, col tempo, deve assumere una certa autonomia. L’operato, allora soffrirà d’incontinenza di grado variabile: alcuni perdono l’urina sotto sforzo, altri quando cambiano posizione, altri ancora in continuazione.Da poco tempo anche nel nostro Paese arrivano tecniche dell’ultima generazione per contrastare le conseguenze dì una della malattie più dif-fuse tra gli uomini, sopratutto dopo i 4O-50 anni. Ci consola il fatto che le nuove terapie riescono a curare il tumore della prostata con la stesa precisione della chirurgia, ma con il notevole vantaggio di permettere una conservazione dell’organo e della sua funzione.

Per frenare l’avanzata del tumore c’è la terapia ormonaleQuando la neoplasia ha già provocato metastasi ai linfonodi o alle ossa, il tumore alla prostata non è più operabile. Dal momento che la prostata è un organo sensibile agli ormoni, l’unica possibilità per frenare l’avanzata del tumore è la terapia ormonale.Questo trattamento si basa sulla somministrazione associata di un antian-drogeno e LH-RH che, insieme, producono una vera e propria”castrazione farmacologica” dell’uomo. La somministrazione di questi farmaci andro-geni consiste in un’iniezione mensile (da ripetere ogni 28 giorni, ma at-tualmente è possibile fare un iniezione anche ogni tre mesi) che viene completata con l’assunzione di compresse giornaliere a effetto antian-drogenico. Con il blocco androgenico vengono, comunque somministra-ti ad un uomo ormoni femminilizzanti che portano all’impotenza. Anche se per il momento, il blocco androgenico totale rimane la migliore cura palliativa contro il tumore della prostata ormai sconfinato, la ricerca sta studiando altre possibilità.

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Importanza del calcioÈ uno dei minerali più abbondanti nel nostro orga-nismo, è necessario per la coagulazione del san-gue, per la contrazione dei muscoli, per mantenere in azione il cuore, per la trasmissione degli impulsi nervosi ed infine per costituire lo scheletro umano e per conservarlo in salute. In particolare possiamo dire che le ossa sono una vera e propria miniera di calcio, tanto che, quando comincia a scarseggiare

nel sangue, ecco che viene prelevato dalle ossa e messo in circolo.

La struttura dell’ossoIl tessuto osseo è unico nel suo genere: associa infatti una struttura rigi-da, capace di sopportare pesi importanti, ad una leggerezza tale da con-sentire ai muscoli di muoverlo senza fatica. Nel suo insieme è costituito da: fibre di collagene (una particolare proteina che forma l’impalcatura ossea e conferisce elasticità al tessuto); da sali di calcio e di fosforo (che assicurano compattezza e rigidità all’impalcatura proteica); da due tipi di cellule altamente specializzate, tipiche del tessuto osseo, osteoblasti e osteoclasti.

Un tessuto che si rinnovaChi crede che le ossa siano strutture immutabili si sbaglia di grosso: un osso, infatti è un organo vivente ed attivo, che invecchia, muore e si rinnova, nel corso della vita. Tutto è possibile grazie appunti a due tipi di cellule altamente specializzate presenti nelle ossa: i già accennati osteo-blasti e osteoclasti. Gli osteoblasti sono deputato alla produzione di osso nuovo, mentre gli osteoclasti provvedono alla distruzione del tessuto os-seo diventato ormai vecchio. In condizioni normali si svolge una sequen-za prestabilita: prima gli osteoclasti “mangiano” l’osso vecchio producen-do una piccola cavità di assorbimento; questa viene successivamente colmata ad opera degli osteoblasti di tessuto osseo calcificato; e così di seguito con cicli di circa 90 giorni ciascuno. È proprio grazie all’alternanza di queste due azioni che il nostro scheletro viene mantenuto in perfetta salute. Questo processo di “rimodellamento” dello scheletro continua per tutta la vita, ma con il passare del tempo si verifica un progressivo rallentamento. Se la quantità di osso neoformato (osso nuovo) è pari alla quantità di osso assorbito si ha infatti una condizione di equilibrio metabolico. Quando invece, l’azione degli osteoclasti (che distruggono l’osso) supera quella degli osteoblasti (che costruiscono un nuovo osso), oppure quando l’organismo richiede una maggiore quantità di calcio, nel nostro organismo può verificarsi, un progressivo impoverimento di cal-cio disponibile. In questo caso la massa ossea si riduce, le ossa perdono di densità, diventano meno compatte, più deboli e si fratturano facilmen-te. L’osteoporosi è l’evento finale di una serie di cicli durante i quali viene assorbito più osso di quanto se ne formi.

salViamo lE nostrE fraGili ossa dall’ostEoporosi

L’osteoporosi è una malattia che provo-ca una progressiva perdita di calcio da parte delle ossa, con il conseguente indebolimento del-lo scheletro. Così la struttura portante del nostro corpo diventa meno so-lida, i movimenti difficili e le fratture molto più frequenti. Le nuove terapie e le nuove forme di prevenzione nei confronti dell’osteo-porosi consentono, oggi, sia alle donne sia agli uomini, di sottrarsi alla pro-spettiva di questa malattia.

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Altri agenti essenzialiInsieme al calcio, altri agenti garantiscono la salute delle ossa. Per esempio: il paratormone, l’ormone secreto dalle ghiandole paratiroidi, situate nel collo a livello della tiroide. Esso svolge la funzione di regolare la concentrazione del calcio nel sangue, agendo direttamente sull’osso e sui reni (che eliminano il calcio attraverso le urine). Inoltre, stimola gli osteoclasti a riassorbire l’osso vecchio. La vitamina D, presente nell’olio di pesce e nei derivati del latte e prodotta dalla pelle durante l’esposizio-ne ai raggi del sole, gioca un ruolo di rilievo nell’assorbimento del calcio da parte delle ossa. La calcitonina è un ormone prodotto dalla tiroide. Possiede un potente effetto inibitorio sugli osteoclasti, per cui aiuta a contenere il riassorbimento dell’osso. La sua presenza favorisce la pro-duzione di vitamina D.

Quando occorre più calcioIl calcio è indispensabile per costruire il nostro scheletro e mantenerlo in salute, maggiore è la massa ossea (picco osseo), più robusto è l’osso. Lo scheletro di un adulto contiene quasi il 99% di tutto il calcio presente nel nostro organismo (il restante 1% si trova nel sangue). Ecco perché le ossa sono considerate una vera e propria mi-niera di calcio, a cui il corpo fa appello quando

il minerale inizia a scarseggiare nel sangue. Al nostro organismo serve più calcio: nei bambini e negli adolescenti perché l’organismo nel suo complesso è nelle sue fasi di accrescimento; nelle donne in gravidanza, perché devono provvedere al fabbisogno dello scheletro del figlio in ge-stazione (questo soprattutto durante l’ultimo trimestre);nelle donne che allattano, per trasmettere calcio al neonato; nelle donne in menopausa, perché in tale periodo si abbassa il livello degli estrogeni (gli ormoni che influenzano il ciclo e il rimodellamento dello scheletro) e l’azione degli osteoclasti supera quella della degli osteoblasti per cui le ossa si indeboliscono; negli anziani, in particolare perché con l’avanzare dell’età l’intestino perde parte della capacità di assorbire il calcio, cau-sando fragilità ossea. Il minerale va introdotto in abbondanza, con diete appropriate per evitare che l’organismo intacchi le riserve di calcio.

Come si manifestaL’osteoporosi è una malattia subdola, perché non determina alcun sinto-mo fino a quando non sfocia in una frattura delle ossa, anche in seguito a traumi lievi. Gli eventuali primi segnali: dolori alle ossa che colpiscono soprattutto il fondoschiena e determinano difficoltà di movimento pos-sono trarre in inganno sia il malato che lo specialista, facendo pensare ad un artrosi o ad un indebolimento muscolare a cui vanno soggette le persone con l’età. Tale dolore è importante perché può essere il cam-panello d’allarme dell’osteoporosi e dipende da fratture passate o da

Le fratture sono il primo segnale di una osteoporosi già in atto.

QUANTO CALCIO ?Ecco le dosi di calcio giornaliere raccomandate in base all’etàDa 1 a 11 anni 800-1000 milligrammiDa 12 a 24 anni 1200-1500 milligrammiDa 25 anni alla menopausa (donne) 1000 milligrammiDa 25 a 65 anni (uomini) 1000 milligrammiDonne dopo la menopausa 1500 milligrammiMaschi dopo i 65 anni 1500 milligrammi

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microfratture; si manifesta con stanchezza e scompare rapidamente con il riposo, ma poi immancabilmente torna.Soprattutto l’incurvamento della schiena è un sintomo tipico dell’oste-porosi, e talora, è così evidente che deve subito mettere in allarme la persona. Quest’ultimo processo, tuttavia non avviene all’improvviso, ma molto lentamente nel tempo: anno dopo anno le vertebre si assotti-gliano, si schiacciano collassando, la colonna vertebrale si incurva, l’al-tezza della persona diminuisce, la gabbia toracica si abbassa, ecc…

I vari tipi di fratture: i sintomi più classici dell’osteporosi.La maggior fragilità delle ossa comporta una minore resistenza agli urti e una minore elasticità da parte dello scheletro: questo significa, in altre parole, maggiore rischio di fratture, con tutte le conseguenze legate a questa eventualità, come il ricovero ospedaliero, le terapie riabilitative e così via. Naturalmente, con l’avanzare dell’età aumenta il rischio di frat-ture, non soltanto perché le ossa sono più fragili, ma anche perché tutta la struttura muscolare è più debole e quindi diventiamo meno pronti a metterci in salvo dopo una caduta. Le parti del corpo che sono più sog-gette a questo rischio sono: il polso, le vertebre ed il femore.Il polso. La frattura del polso è in genere la conseguenza di perdita di equilibrio: per cercare di attutire la caduta si tende a mettere le mani da-vanti a sé e, se l’osso non è “in gran forma”, può fratturarsi.Le vertebre. La frattura della colonna vertebrale è l’eventualità più pro-babile in caso di osteoporosi, proprio perché queste ossa, le vertebre ap-punto, sono le prime a perdere la massa ossea. Così, quando la malattia è trascurata, è sufficiente un movimento più brusco del solito oppure un robusto colpo di tosse o un atto respiratorio profondo per causare piccole fratture alle vertebre. Talora il dolore non è forte e la persona non si rende conto di quello che è successo; le microfratture vengono così trascurate, a tutto svantaggio della struttura scheletrica e le vertebre possono giungere ad un vero e proprio collasso. Il femore. La frattura del femore colpisce in genere gli anziani. Si tratta di una delle conseguenze più serie dell’osteporosi, che rende necessario il ricovero ospedaliero, l’intervento chirurgico, la perdita momentanea dell’autosufficienza. In alcuni casi le complicazioni legate alla frattura del femore possono mettere in serio pericolo la vita del malato.Per le donne il periodo di rischi di questo tipo inizia assai prima rispetto all’uomo, a causa della cessazione dell’attività delle ovaie che comporta una diminuzione del livello degli estrogeni. Anche gli uomini, però, dai 60 anni in poi corrono il rischio di andare incontro all’osteoporosi ed a fratture, a causa dei rispettivi squilibri ormonali in relazione con l’età che avanza.

Zone più esposte alle fratture

Sono soprattutto gli squilibri ormonali a causare la fragilità del-le ossa

STRUTTURA OSSEAColonna vertebrale osteoporotica

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In sintesiDurante la vita le ossa vengono continuamente distrutte e ricostituite. L’osteoporosi si manifesta quando le cellule preposte alla demolizione del-l’osso, chiamate osteoclasti, sono più attive di quelle che le devono rico-struire, i cosiddetti osteoblasti. Le nuove cure contro l’osteoporosi basano sul blocco dell’attività degli osteoclasti e sulla loro eliminazione.

C’è poca informazione.Una recente indagine ha messo in luce che le donne italiane hanno sen-tito parlare della esistenza di questa malattia, ma ancora non hanno una buona conoscenza della malattia stessa e dei segnali. Sole il 3% sa che l’incurvatura della schiena può essere una spia di questa malattia dopo i 50 anni; il 66% è informata che la frattura del femore è uno degli esiti dell’osteoporosi, ma non sanno niente sulle importanti e pericolose frat-ture vertebrali. Un dato allarmante è che la metà delle donne esaminate è affetta da osteoporosi, ma solo il 40% ha seguito o segue una cura.

Come si cura l’osteoporosi.La cura dell’osteoporosi è vol-ta principalmente a migliorare la densità ossea o, almeno, a ridurne la perdita. Per questa malattia, molto più ancora che per le altre, è fondamentale in-tervenire il più precocemente possibile, prima cioè della com-parsa di fratture (micro e ma-crofatture). I farmaci oggi dispo-nibili sono diversi: ciascuno di

essi può contribuire in qualche modo ad arrestare la progressione della malattia, ma nessuno porta ad una guarigione completa. Nessuno di essi può essere considerato il farmaco di “prima scelta” in assoluto. Spetta al medico stabilire, in base alla storia della persona ed al relativo grado di perdita ossea, che cosa sia più indicato per il caso particolare.

La vita si allunga, e l’osteoporosi è un rischio sempre più concreto. Ma evitare le fratture è possibile. Con i nuovi farmaci: con i bifosfonati le fratture possono dimezzarsi.

ossa fraGili: oGGi c’è rimEdio

Le vertebre di una colonna vertebra-le sana hanno un aspetto denso ed uniforme.

Una colonna ver-tebrale colpita da osteoporosi mostra l’assottigliamento osseo ed il collasso delle vertebre che caratterizzano que-sta malattia.

I farmaci servono per eliminare la perdita di tessuto osseo e per favorirne la crescita. La ricerca in questo campo, sta facendo passi importanti.

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Gli ormoni femminili e la terapia ormonale sostitutiva.La somministrazione di farmaci a base di ormoni femminili supplisce ad una assenza di queste sostanze; carenza che, come già sappiamo s’instau-ra normalmente con l’avvento della menopausa, per la cessazione dell’at-tività delle ovaie. L’introduzione di ormoni femminili, ricrea nell’organismo stesso una sorta di giovinezza che si ripercuote positivamente sulle ossa. In alcuni casi i preparati sono solo a base di estrogeni, mentre in altri con-tengono sia estrogeni sia progesterone. I primi sono indicati per le donne che hanno subito l’asportazione dell’utero, mentre in tutti gli altri casi è necessario associare agli estrogeni (che contrastano la rarefazione delle ossa) al progesterone (sostanza in grado di proteggere dalla comparsa del tumore dell’utero). Bisogna, però, tener conto che l’effetto positivo di que-sta terapia si esplica soltanto se essa è portata avanti per un discreto nu-mero di anni. Il deperimento delle ossa, infatti, riprende immediatamente una volta che cessa la cura e solo un trattamento prolungato previene il rischio di fratture tra i 60 e gli 80 anni, il periodo più pericoloso. La terapia ormonale sostitutiva, detta anche più semplicemente Tos, è tassativamen-te sconsigliata a chi ha avuto un tumore al seno, a chi ha familiarità con questo tipo di neoplasia o ne ha sofferto in passato. E’ una terapia che può essere effettuata con varie modalità. La via più utilizzata prevede la som-ministrazione degli estrogeni attraverso cerotti transdermici che rilasciano i loro principi attivi attraverso la pelle, combinati con un progestinico da prendere per bocca, in compresse, o da applicare sotto forma di gel vagi-nale.La somministrazione di farmaci a base di ormoni femminili riduce signifi-cativamente la comparsa dei tipici disturbi della menopausa (vampate di calore, secchezza vaginale, disturbi del sonno, alterazioni dell’umore, ecc.). Gli estrogeni, in particolare, hanno anche un’azione protettiva nei confronti del cuore, riducendo così il rischio di malattie cardiovascolari (infarto, ic-tus), problemi che in menopausa diventano più frequenti. Ma attenzione: le donne che fanno uso della Tos si devono sottoporre periodicamente(in media una volta all’anno) alla mammografia in modo da scoprire in tempo l’eventuale presenza di un tumore al seno.

Il segreto? Non mollare.Quando si parla di terapia dell’osteoporosi, la nota dolente è in genere la “buona condotta” del paziente. Già: di fronte a cure lunghe, la per-sona, motivata all’inizio, finisce poi per trascurare le pillole prescritte dal medico. Accade troppo spesso che dopo un anno di terapia non più del 50-60% dei malati continua a prendere le medicine. Purtroppo, quando si ha a che fare con una malattia cronica come l’osteoporosi seguire il trattamento per pochi mesi non serve a nul-la. Comportarsi così significa soltanto sprecare tempo prezioso per la salute delle ossa e denaro. Ecco perché non bisogna mai “molla-re” la terapia. Donna (e uomo) avvisata…

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I Farmaci.Il deterioramento osseo che caratterizza l’osteo-porosi può portare alla invalidità, ma le nuove co-noscenze sul modo in cui l’organismo costruisce e perde il tessuto osseo ha condotto a strategie di prevenzione e di cura sempre migliori. Oggi di-sponiamo di farmaci in grado di ricostruire l’osso perduto e di ridurre così notevolmente il rischio di nuove fratture. Ne sono un esempio alcuni farma-ci appartenenti alla categoria dei bifosfonati.

I bifosfonati: l’ultima cura contro le fratture.I bifosfonati rappresentano una novità nel campo della cura dell’osteopo-rosi. Alcuni sono in realtà in commercio da qualche anno, ma gli ultimi e, soprattutto il risedronato ha superato lo stesso alendronato, dimostrando la sua potenza non solo nel prevenire ulteriormente una perdita di tessuto osseo, ma aumentando la densità del 5-10% nel giro di tre anni. Un in-cremento simile potrebbe sembrare poca cosa, ma è sufficiente a ridurre il rischio di fratture della colonna vertebrale, del bacino e dei polsi anche del 50%. I bifosfonati, e la compressa di risedronato, in particolare, deve essere assunta una volta ogni 7 giorni in un giorno prescelto della setti-mana, sempre lo stesso. E’ molto importante non prendere il risedronato insieme a cibo, medicinali e bevande (eccetto l’acqua) in quanto questo potrebbe rendere il medicinale meno efficace. La compressa va inghiottita intera almeno 30 minuti prima del primo cibo, medicinale o bevanda della giornata (eccezione fatta per l’acqua). La compressa deve essere deglutita intera e non sciolta o masticata. Per favorire il transito esofageo, si deve mantenere il busto in posizione eretta, evitando di coricarsi per 30 minuti. Il medico stabilirà la durata del periodo di assunzione. Per il momento i bifosfonati hanno rivoluzionato la cura dell’osteoporosi ed attualmente rappresentano la scelta d’elezione sia per gli uomini sia per le donne colpiti da questa malattia. Si sa comunque che necessitano di un adeguato, con-temporaneo apporto di calcio e di vitamina D3, altrimenti possono causa-re una demineralizzazione dell’osso (esteomalacia). Un’altra caratteristica dei risedronato rispetto alle altre cure simili (sempre difosfonati) è la “ra-pidità”. Se la cura è corretta (il che viene evidenziato dalla densitemetria, cioè dalla Moc, nonché dalle eventuali fratture ancora presenti) possono bastare 2-3 anni, poi c’è il mantenimento con calcio e vitamina D3. Qual è la loro azione farmacologica? Esistono infatti diversi tipi di molecole di bifosfonati: ma sono tutti dei farmaci non naturali, prodotti sinteticamen-te in laboratorio; hanno prerogativa di inibire il riassorbimento dell’osso e permettere, di conseguenza, di riportare nuovamente in equilibrio il pro-cesso di distribuzione e quello di ricostruzione dell’osso. I bifosfonati, in altre parole, combattono il processo autodistruttivo dell’osso, stabilizzano la massa ossea, riducendo così la probabilità di eventuali fatture vertebrali e non vertebrali.

Oggi esistono farmaci molto efficaci per le ossa

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Iniezioni di “cemento” salvano le vertebre.Esiste una nuova tecnica chirurgica mininvasiva che si chiama “vertebro-plastica percutanea” che permette di consolidare le vertebre fratturate, riducendo il dolore. Consiste nell’iniettare attraverso un ago, in anestesia locale un materiale acrilico genericamente chiamato “cemento”, diretta-mente nella vertebra fratturata sotto controllo radiografico, che ne permet-te il preciso posizionamento. Il cemento si diffonde all’interno del corpo vertebrale fratturato, prevenendo così ulteriori cedimenti. E’ una procedu-ra ben tollerata anche in persone in condizioni di salute non buone e può essere effettuata in day surgery. L’esecuzione dell’intervento necessita di un tempo variabile in relazione al numero di vertebre sulle quali si deve intervenire (si può arrivare anche a 10 vertebre in una sola seduta): generi-camente si va da 20-30 minuti ad 1-2 ore. La vertebroplastica rappresenta oggi il trattamento di prima scelta nelle fratture da osteoporosi, perché permette la scomparsa del dolore ed il consolidamento della vertebra (o delle vertebre interessate), anche se, però, a volte ad essa devono essere associati altri interventi chirurgici da valutare a seconda dei casi. E’ una tecnica che interessa numerosi malati affetti in primo luogo da osteoporo-si, ma anche da lesioni tumorali vertebrali. Nelle fratture osteoporotiche dopo 4 ore dal trattamento il dolore è scomparso e nelle metastasi il ce-mento non si limita soltanto ad eliminare il dolore, ma provoca la morte di gran parte delle cellule tumorali nella zona trattata. Nel 90-95 per cento dei malati trattati si verifica la scomparsa o una significativa riduzione del dolore. Con iniezioni di cemento “salva vertebre”, fastidi insoppor-tabili alla colonna o fratture inva-lidanti possono oggi essere risolti con un intervento chirurgico veloce che, prima di tutto, elimina il dolo-re senza bisturi.La vertebroplastica è un interven-to a spese del Servizio sanitario nazionale e può essere svolta in numerosi centri ospedalieri. E’ in-dicata per fratture dolorose dovu-te all’osteoporosi, che non trova-no sollievo con gli analgesici, con conseguente sofferenza cronica e limitazione significativa delle attivi-tà quotidiane e della qualità della vita; per lesioni distruttive delle vertebre dovute a tumori benigni, tumori maligni, ecc.; per fratture multiple in cui eventuali collassi della colonna vertebrale possono compromettere la fun-zione respiratoria, gastrointestinale, il mantenimento della posizione eretta e la deambulazione; ecc. E’ molto efficace, perché il sollievo dal dolore è, spesso, immediato. Consolida le microfratture che permettevano innatu-rali movimenti e che sollecitavano le terminazioni nervose che circondano l’osso (provocando dolore). Non è indicata in tutti i casi di fratture verte-

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É il medico che deve stabilire la cura migliore.

brali o se non si hanno fratture molto dolorose ed invalidanti, o addirittura indolori, perché la vertebra ha già avuto un processo di riparazione natu-rale chiamate sclerosi ossea. Talora è una tecnica che va evitata, come nei casi di compromissione del midollo spinale. Se l’intervento è effettuato da un chirurgo esperto in materia, difficilmente sorgono complicanze. E’ utile contro le metastasi ossee. Le metastasi delle ossa sono generalmen-te causate da tumori, come quello mammario o quello della prostata. Questi sono curabili con la radioterapia, la chirurgia o la vertebroplastica, appunto. In quest’ultimo caso la resina (cemento acrilico) iniettata con la vertebreplastica nella vertebra interessata da metastasi, svolge un’azione chimica che porta alla distruzione del tumore.In sintesi: durante tutta la vita, le ossa vengono continuamente distrutte e ricostruite. L’osteoporosi si manifesta quando le cellule preposte alla demolizione dell’osso, chiamate osteoclasti, sono più attive di quelle che devono ricostruire: i cosidetti osteoblasti. Le nuove cure contro l’osteopo-rosi si basano sul blocco dell’attività degli osteoclasti o sulla loro elimina-

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PremessaL’osteoporosi è una malattia dello scheletro che come sappiamo, deter-mina una riduzione della massa ossea e può portare all’invalidità. È una malattia cronica, ma non è un’improvvisa sventura, un “fulmine a ciel se-reno”; è un processo lento e progressivo che s’instaura molti anni prima della comparsa dei sintomi tipici. Ma andiamo con ordine e completiamo il quadro di questa malattia.

Cause e fattori di rischio.Non esiste un’unica causa che possa essere indicata come responsabile dell’osteoporosi. C’è, invece una serie di fattori di rischio, la cui contem-poranea presenza rende quasi inevitabile la comparsa della malattia .Premesso che la riduzione del calcio delle ossa (quindi della massa ossea) è un processo naturale strettamente legato all’avanzare dell’età, esiste tutta una serie di fattori di rischio che potrebbero incrementare la perdita di calcio, aumentando la possibilità che la malattia si manifesti. Oltre alla già accennata età, ci sono dei fattori, come il sesso, la razza e la familiarità, che sono considerati dagli esperti come fattori predisponenti difficilmente modificabili, cioè che non si possono cambIare. Accanto a questi esistono altre cause, variabili da persona a persona, che possono favorire la comparsa della malattia e che riguardano le abitudini di vita di ciascuno di noi. Per esempio: una dieta carente di calcio favorisce il progressivo indeboli-mento dell’osso; la vita sedentaria o la mancata attività fisica rallentano il processo di rinnovamento dell’osso: problemi legati all’assorbimento dei cibi (colite, disturbi intestinali); malattie legate ai reni che provoca-no una perdita di calcio attraverso le urine; disturbi endocrini relativi alle ghiandole tiroide o paratiroidi; certi farmaci, come il cortisone; gli anti-coagulanti (necessari a chi soffre di cuore e disturbi venosi); antiacidi a base di alluminio (utili a chi ha problemi all’apparato ga-strico; antiepilettici (garantiscono benessere a ci soffre di epilessia) , ecc.; troppo alcol (ostacola l’assorbimento del calcio); il fumo (induce una menopausa in anticipo rispetto ai tempi previsti); ecc.

Come si scopre.L’osteoporosi è una malattia che non provoca particolari sintomi e, molte volte, viene allo scoperto solo quando si manifesta una frattura. Esistono, però, alcuni esami diretti ad evidenziare l’oste-oporosi e che sono un valido aiuto non solo per stabilire a che grado sia giunta la demineralizzazione (perdita dei minerali) ossea, ma anche per prevenire la malattia stes-sa. In ogni caso aiutano il medico nella diagnosi. L’esa-me principe per la diagnosi dell’osteoporosi è la Mine-ralometria ossea computerizzata, o più semplicemente Moc.

ostEoporosi, oVVEro ossa fraGili

Come rifarsi le ossa giorno per giorno. L’importanza della prevenzione

Tenete da conto la spina dorsaleOgni anno circa 1.500 persone subi-scono gravi lesioni alla spina dorsale che le obbliga alla sedia a rotelle per tutta la vita.

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La Moc: per conoscere la salute delle nostre ossa.La Moc si avvale di particolari radiazioni ionizzanti e l’esame viene rea-lizzato grazie ad uno speciale apparecchio (densitometro); è innocuo alla salute e dà risultati estremamente affidabili. La persona non deve fare altro che sdraiarsi su un lettino sul quale si trova l’apparecchio che emette dei raggi in grado di attraversare le parti ossee sottoposte ad esame. Un computer elabora poi i dati ricevuti: così è possibile conoscere subito la densità dell’osso, la quantità di calcio presente nella zona analizzata, l’ela-sticità dell’osso stesso e la sua resistenza, nonché la densità della massa ossea. Questo non vuol dire che sia un esame di controllo di massa e quindi vada effettuato a scopo preventivo su tutte le donne che entra-no in menopausa. Il suo uso è riservato:alle persone a rischio; quando

una radiografia ha messo in luce una rarefazione ossea o una deformità della colonna; a chi ha subito precedenti fratture per traumi minimi; a chi ha subito una cura di cortisone della durata di 6 o più mesi; a chi ha una storia familiare (madre) di frattura al femore; ecc. La prima Moc dovrebbe essere ese-guita da tutte le donne intorno ai 30 anni, quando la massa ossea raggiunge il suo picco. Essa è preziosa per avere un ter-mine di confronto grazie al quale diventerà più facile valutare un’eventuale perdita di massa ossea negli anni successivi. La seconda Moc andrebbe fatta dopo la menopausa e, da questo

momento, ogni anno al fine di verificare eventuali perdite di massa ossea. Le donne in terapia ormonale sostitutiva dovrebbero eseguire la Moc ogni 12 – 18 mesi.

Perché le donne sono più esposte.La diminuzione della massa ossea dai 35-40 anni (esclusivamente a causa dell’invecchiamento) è un fenomeno generalizzato che in realtà si verifica in entrambi i sessi ed in tutte le razze. Per la loro natura le donne sono dotate di una massa ossea minore ri-spetto a quella degli uomini e, con il passare dal tempo, la differenza si fa ancora più marcata. Con l’arrivo della menopausa, cessa l’attività delle ovaie e con essa la massiccia produzione di estrogeni. La sempre mag-giore scarsità di estrogeni favorisce l’azione degli osteoclasti, cioè delle cellule distruttrici del tessuto osseo. Il ruolo giocato dagli estrogeni in relazione alla condizione delle ossa ha dimostrato che, nelle donne che assumono il contraccettivo orale (contenente estrogeni), la massa ossea è maggiore rispetto a quella di chi non ne fa uso.

L’osteoporosi colpisce anche l’uomo.L’osteoporosi non è una malattia che colpisce esclusivamente le donne; interessa molto spesso anche gli uomini, più spesso di quanto si possa pensare. L’8% degli uomini di età compresa fra i 60 ed i 70 anni e ben il 14% degli uomini di età fra i 70 e gli 80 anni sono colpiti da osteoporosi

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e, circa la metà dei casi è conseguenza di altre malattie. Anche le ossa del “sesso forte”, infatti, possono diventare deboli e correre il rischio di fratturarsi con facilità. Le cause possono essere diverse, ma prevenire la malattia è possibile. In caso di osteoporosi già in atto si possono verificare fratture ossee come conseguenza di banali cadute a terra che, in condi-zioni normali, non avrebbero alcuna seria ripercussione.

Osteoporosi: prevenirla fin da giovani.L’osteoporosi è una malattia dello scheletro che, come sappiamo, de-termina una riduzione della massa ossea. Sappiamo che è un processo lento e silenzioso poiché in genere non presenta sintomi. Ecco perché, superata una certa età, è importante sottoporsi a periodici controlli, men-tre fin da piccoli è necessaria la prevenzione. La prevenzione per essere efficace deve basarsi su alcuni fattori: una dieta ricca di calcio; un pieno di vitamina D; una moderata, ma regolare attività fisica e,… effettuare periodici controlli.

Una dieta ricca di calcio.Per i motivi che già conosciamo il calcio è essenziale per costruire ossa sane e robuste e, più alto è il picco della massa ossea raggiunto da gio-vani, più basso è il rischio di avere ossa fragili da anziani. Lo scheletro è la nostra riserva personale, visto che il 99% di questo elemento è contenuto nelle ossa, mentre soltanto l’1% restante è in soluzione nella parte liquida del sangue (il plasma) ed all’interno delle cellule. Questo tipo di preven-zione si deve realizzare già dall’infanzia: a tavola, con un’alimentazione bilanciata che contenga il giusto quantitativo di calcio. Pertanto, via libera agli alimenti “amici” delle ossa, come latte, i latticini, formaggi, ricotta yogurt, formaggi stagionati (100 grammi di grana, per esempio, con-tengono il fabbisogno quantitativo di calcio per ogni persona), pecorino, gorgonzola, caciocavallo, ecc.; poi sardine, salmone,…e ancora mandor-le, nocciole, rucola, cavolo, broccoli, rape, ecc. Pure l’acqua è un’ottima sorgente di calcio, ma bisogna scegliere quella che sull’etichetta riporta un quantitativo di calcio (indicato con il simbolo Ca++), pari ad almeno 200mg per litro. Prevenire l’osteoporosi non significa bere ogni tanto un bicchiere di latte per “mettersi la coscienza a posto”, quanto invece, segui-re alcune precise indicazioni fin dall’infanzia. Le mamme, quindi, devono sentirsi responsabili, dal momento che la salute futura dello scheletro dei loro figli dipende anche dall’educazione alimentare dei primi anni di vita. Una dieta non equilibrata, può, invece, favorire l’osteoporosi. Per esem-pio, le diete particolarmente ricche di proteine animali, sono addirittura pericolose, perché se la quantità di queste ultime è eccessiva, con le urine viene eliminata una maggiore quantità di calcio. L’equilibrio del calcio è regolato da sottili meccanismi e, quando le sue quote scendono sotto il livello di guardia, questo minerale viene prelevato proprio dallo scheletro e le ossa diventano fragili. Mettiamo dunque più calcio nei nostri menù, potrebbe essere il motto più appropriato. Soprattutto se teniamo pre-sente che della quantità di calcio ingerita con gli alimenti, solo una parte

Prevenirla fin da giovani

300 mg di calcio:ecco dove li trovi subito

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viene effettivamente assorbita, raggiunge il bersaglio e può quindi essere utilizzata, cioè essere biologicamente disponibile.

Serve anche un pieno di vitamina D.Questa sostanza viene sintetizzata nel nostro organismo attraverso la pelle con l’esposizione al sole. L’azione principale della vitamina D è di favorire l’assorbimento intestinale del calcio, attività particolarmente uti-le all’anziano. Questo permette di migliorare il fissaggio del calcio nelle ossa. Se presa in dosi troppo alte o per troppo tempo è, però, dannosa. La cura con vitamina D, infatti, va prescritta e controllata dal medico.

C’è pure la versione “due in uno”.Si tratta di integrativi specifici per la mineralizzazione delle ossa, a base di calcio e vitamina D. Prevengono o limitano la perdita di massa ossea nella donna in post-menopausa e sono un supporto da utilizzare in concomi-tanza con altre cure dell’osteoporosi. Esistono in particolari formulazioni, tra le quali polveri e compresse effervescenti immediatamente solubili. Sono prodotti che consentono di ottenere, con un’unica dose al giorno, una sufficiente quantità del prezioso minerale e di vitamina D.

L’attività fisica.Come i muscoli anche le ossa rispondono all’esercizio fisico irrobusten-dosi. Le stimolazioni provocate dall’esercizio stimolano il metabolismo osseo e quindi favoriscono un maggior sviluppo della massa scheletrica (lo scheletro di un atleta, infatti è molto più denso di quello di una perso-na sedentaria). Non è tuttavia necessario praticare sport a livello agonisti-co per raggiungere e mantenere una buona mineralizzazione scheletrica. Uno stile di vita attivo può essere sufficiente (camminare, ballare, salire le scale, ecc.). Scarsamente utile (contro l’osteoporosi) è il nuoto, perché il corpo viene sostenuto dall’acqua ed il movimento non grava sullo sche-letro. I programmi di attività fisica più impegnativi vanno eseguiti, invece, in centri specializzati o dopo un controllo medico, specialmente se la den-sità minerale ossea è bassa.

I controlli periodici.Eseguire controlli periodici è un efficacissimo metodo di prevenzione, non tanto perché può far evitare la comparsa della malattia, quanto perché permette di curarla in modo precoce, contenendo i danni. Ecco perché le donne dovrebbero sottoporsi alla prima Moc quando sono ancora giova-ni, fra i 30 ed i 40 anni. Dopo i 50 anni invece l’esame densitometrico (la Moc, appunto), diventa un obbligo imprescindibile, da ripetersi circa ogni 2 anni, se non ci sono particolari problemi. Gli uomini, essendo meno a rischio, possono arrivare fino a 60 anni senza eseguire i controlli. Supera-ta questa soglia, però, è consigliabile eseguire una Moc, almeno ogni 2-3 anni. In realtà non c’è una regola generale che indichi a distanza di quanto tempo va poi ripetuta, solo il medico potrà deciderlo a seconda dei casi.

Ginnastica

Sole - Vitamina D

Latticini

Molte acque minerali hanno elevati contenu-ti di calcio. Leggere le etichette.

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Perché è emergenza nel caso delle malattie cardiovascolari?Le malattie cardiovascolari possono essere facilmente letali in 1 caso su 3 nel mondo e, in particolare, di 1 su 2 nei Paesi occidentali. In futuro, le malattie cardiovascolari si prevedono in aumento anche nei Paesi in via di sviluppo. Non si vuole allarmare alcuno, ma invitare ad una visita dal proprio medico di fiducia o dal cardiologo, in caso che, ripetutamente e con una certa intensità si verifichino i seguenti sintomi: dolore toracico, palpitazioni, dispnea (mancanza di respiro), parestesie, cefalea, vertigini, ritenzione idrica. Spesso non ci si presta la dovuta attenzione, ma sono diversi i fattori che, soprattutto se presenti contemporaneamente, posso-no provocare disturbi cardiocircolatori anche molto seri, tra i quali l’infar-to del miocardio e l’infarto del cervello (ictus). Sono considerati killers del cuore: il fumo, lo stress, i cibi grassi, l’obesità, il diabete, la vita seden-taria, il colesterolo, l’ipertensione, l’eccesso di alcol, una dieta povera di frutta e verdura. Per disinnescare queste “mine” del cuore ci sarebbe una sola arma: la prevenzione. Ma per prevenire occorre conoscere. Una recente ricerca ha messo in luce che la gente comune adotta misure preventive solo nei confronti di un numero ristretto di malattie quali: i tumori delle mammelle e dell’utero, l’Aids, l’influenza ed altre malattie infettive, ecc., ma trascura le manifestazioni collegate alla coagulazione del sangue (che pure hanno conseguenze di diversa serietà quali l’inva-lidità e decessi improvvisi) e le malattie cardiovascolari. Per saperne di più, in questa sede parleremo in successione: dei grumi di sangue( che cosa sono e come si formano); di quella “pompa” che è il nostro cuore e, appunto dell’infarto del miocardio e dell’infarto del cervello (o ictus).

I grumi di sangue: che cosa sono e come si formano.Facciamo subito un po’ di chiarezza. Per quanto riguarda le malattie cardiovascolari, le manifestazioni collegate alla coagulazione del sangue portano a conseguenze di diversa serietà. Si sente molto spesso parlare di coagulo, di embolo, ma non sempre è facile capire la differenza fra questi termini. Si tratta di manifestazioni collegate alla coagulazione del sangue, con effetti però molto diversi da caso a caso.Il COAGULO. E’ un tappo che si forma in modo naturale quando c’é una ferita, per riparare il danno subito (la crosti-cina presente anche sulle piccole escoriazioni, ad esempio, è un coagulo). I coaguli si possono formare sia a livello di ferite superficiali esposte all’aria, sia in caso di lacerazioni interne dei tessuti. Perché succede? Il contatto del sangue con l’aria innesca il processo di formazione del coagulo. Sul luogo dell’incidente arrivano le piastrine, piccole cellule del sangue che si dispongono l’una sull’altra per chiudere la ferita o la lacerazione e liberano sostanze che richiamano proteine le quali rendono più resistente e più stabile il coagulo formato

il nostro cuorE Visto da Vicino

Fra i molti disturbi che una persona accusa, in misura maggiore o minore e più o meno quo-tidianamente, ce ne sono alcuni che non dovrebbero essere sottovaluta-ti. Questo perché, dietro a malesseri che apparentemen-te hanno poco a che fare col cuore, può in realtà celarsi anche una severa malattia cardiova-scolare.

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dalle piastrine stesse. Quando il coagulo ha raggiunto la stabilità suf-ficiente a riparare il danno, interviene un processo detto fibrolisi, che scioglie a poco a poco il grumo e lo sostituisce con un tessuto cicatriziale riparatore (quello che si osserva quando cadono le crosticine e la pelle a livello della ferita appare più chiara).

IL TROMBO. E’ un coagulo che si forma in seguito ad un’infiammazione (per esempio, microferite delle arterie), al rallentamento della circolazio-ne all’interno di un vaso sanguigno o durante un intervento chirurgico o perché sono presenti placche aterosclerotiche. Perché succede? Il fumo, il colesterolo ed il glucosio (zucchero) troppo alti possono provocare piccolissime ferite a livello dei vasi sanguigni, attivando così il processo di coagulazione del sangue, con formazione di piccoli trombi. Generalmente però, il processo di fibrolisi è in grado di scioglierli senza che si verifichino danni. Quando i trombi non vengo-no invece sciolti nascono problemi assai complessi e seri. Rallentano il passaggio del sangue nell’arteria o nella vena malata, il flusso diventa irregolare e vorticoso, i trombi già esistenti ingrandiscono e possono im-pedire il passaggio del sangue nel vaso colpito, provocando una trom-bosi, quindi guai molto seri. Se la trombosi colpisce il cuore si ha l’IN-FARTO del miocardio; se colpisce il cervello, invece, si parla di ICTUS CEREBRALE (ischemico). Se la trombosi coinvolge una vena profonda, il rischio principale può essere un’EMBOLIA POLMONARE.

L’EMBOLO. E’ un frammento di un trombo presente in una vena o in un’arteria, che si stacca e si muove nel circolo sanguigno. Se si tratta di un embolo di una vena, questo viene trasportato dalla vena stessa fino al cuore, da dove viene “sparato” nei polmoni. Se invece “viaggia” nelle arterie, può raggiungere il cervello, le gambe le braccia e gli organi in-terni. A mano a mano che va verso la periferia del corpo, l’embolo può impedire il normale passaggio del sangue, dando origine all’embolia polmonare (se sono colpiti i polmoni), cerebrale (se è colpito il cervello)

o periferica (se sono colpiti organi interni, braccia e gambe).

Come è fatto il nostro cuore.Il cuore è un organo che si trova al centro della cavità toracica. E’ costituito da un tessuto musco-lare, chiamato miocardio, il quale contraendosi, pompa sangue all’organismo e consente di tra-sportare l’ossigeno necessario a tutti gli organi del corpo. Nel cuore si distinguono quattro cavità: 2 atri e 2 ventricoli. Gli atri sono le cavità superiori del cuore e ricevono sangue: l’atrio destro riceve sangue refluo dall’organismo e l’atrio sinistro ri-ceve sangue refluo dai polmoni; i due atri sono separati fra loro da un setto interatriale; i ven-

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tricoli sono le due cavità inferiori, separate fra loro dal setto interventricolare. Il ventricolo destro ha il compito di pompare il sangue nei polmoni, in modo che si rifornisca di ossigeno; il sinistro spinge il san-gue ossigenato nel resto dell’organismo. Nel cuore si distinguono quattro valvole, che hanno funzione di orientare il sangue nel verso corretto e di impedirne il riflusso.

Come funziona quella “pompa” che è il cuore.Grazie all’azione “propellente” del cuore il sangue raggiunge le varie regioni del corpo, trasportando l’ossigeno e gli alimenti indispensabili a nutrire tutti i tessuti e portando via con sé le scorie e le sostanze di rifiuto dei vari processi organici da tutte le cellule. Nonostante sia grande non più di un pugno, riesce a pompare circa 6 mila litri di sangue al giorno. In caso di necessità, questa quantità può essere addirittura quadruplicata. I battiti sono, in media 70 al minuto e 100 mila in un giorno.

Come funziona.Le due metà del cuore funzionano in modo distinto, per far si che il san-gue compia il suo continuo e complesso giro nell’organismo. In sintesi: la parte destra riceve il sangue da tutto il corpo carico di anidride carbo-nica (sangue venoso) mentre la parte sinistra accoglie il sangue che si è ossigenato nei polmoni (sangue arterioso) L’atrio di destra non comuni-ca con l’atrio di sinistra, così come il ventricolo di destra non comunica con il ventricolo di sinistra; il ventricolo di destra non comunica con il ventricolo di sinistra, (in tal modo il sangue “sporco” della metà destra del cuore non si mescola con il sangue “pulito” della metà sinistra del cuore). Gli atri ed i ventricoli invece comunicano tra di loro tramite delle valvole, le quali garantiscono che il sangue scorra in una sola direzione ed i lembi delle quali si chiudano ad ogni battito cardiaco.Una disfunzione cardiaca può generare malesseri che in-teressano altre parti del corpo, magari molto lontane dal cuore perchè l’apparato cardiovascolare, arriva ovunque. Dal muscolo cardiaco parte il sangue ricco d’ossigeno (sangue arterioso) e al cuore ritorna lo stesso sangue ma privato dell’ossigeno (sangue venoso). Da quì il sangue venoso va ai polmoni dove si ossigena e ritorna (sangue arterioso) al cuore, per essere ridistribuito a tutto il corpo.(Nello schema in alto a destra, accanto ai vari organi ir-rorati dal sangue sono indicati i possibili disturbi che si possono avvertire).

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Le coronarie.Per svolgere la sua funzione di “pompa”, il cuore richiede un continuo apporto di sangue e di ossigeno. Il rifornimento arriva dalle 2 arterie coronarie, vasi sanguigni di notevoli dimensioni (chiamati coronarie per-ché circondano il muscolo cardiaco trasversalmente, come una corona). Prendono origine dall’aorta (la più grande arteria del corpo umano), si tratta della coronaria destra e della coronaria sinistra, che poi si suddi-vidono in arterie sempre più piccole che vanno ad alimentare tutto il muscolo cardiaco.

Cuore + arterie + capillari + vene = apparato car-diovascolare.L’organismo vive grazie all’ossigeno ed al nutrimento che gli giungono dal sangue per mezzo dei vasi sanguigni, che comprendono le arterie, i capillari e le vene. Motore unico della circolazione sanguigna è il cuore, che funziona come una pompa, mentre le arterie, i capillari e le vene sono le sue tubature. Quando il cuore si contrae (sistole) il sangue viene pompato nelle arterie, quindi nei capillari e, infine, passa nelle vene. Nel momento in cui il cuore si decontrae, cioè si rilassa (diastole), richiama il sangue a sè. La sua capacità di contrarsi e di rilassarsi è data dalla pre-senza in esso di quel tipo di muscolo specifico, chiamato miocardio, che genera da solo gli impulsi elettrici che si diffondono alla parete del cuore. L’insieme del cuore e di tutti i vasi sanguigni ad esso connessi costitui-scono l’apparato cardiovascolare.

Quando si sta bene, il cuore pompa 15 mila li-tri di sangue al giorno.

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A tutt’oggi, è proprio a causa di una scarsa informazione se le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte e di invalidità. Questa scarsa attenzione alla salute è legata al fatto che non è così scon-tata la percezione di ciò che può succedere a chi non modifica certe sue abitudini di vita sbagliate e non mette in atto alcune regole di comporta-mento. Ci riferiamo, in particolare all’infarto del miocardio (conosciuto anche come “colpo al cuore”) ed all’infarto del cervello o ictus cerebrale. Ma andiamo con ordine.

Riprendiamo alcuni concetti fondamentali.Si dice sistema cardiovascolare l’insieme del cuore e dei vasi (sanguigni arterie, capillari e vene) del nostro corpo. La principale funzione del si-stema cardiovascolare è quella di trasportare a tutte le cellule il sangue e, con esso, l’ossigeno e le sostanze nutritizie; inoltre deve portare via l’ani-dride carbonica e le sostanze di rifiuto prodotte dai vari organi. Questi scambi si realizzano attraverso i capillari, che hanno pareti sottilissime e raggiungono tutte le cellule. Le malattie cardiovascolari sono quelle che colpiscono il cuore e/o i vasi sanguigni. Il danno che provocano può fare in modo che in certi distretti non giunga una quantità di sangue adegua-ta alle richieste, per cui le cellule della zona colpita vanno incontro alla morte (necrosi).Il cuore, in particolare, ha un’importanza chiave nel sistema di distribuzio-ne e rifornimento, perché è la pompa che spinge il sangue nell’apparato cardiovascolare e, attraverso questo fino alle cellule più lontane dei vari organi. Se il sangue non arriva ad un tessuto, questo muore. Se il sangue non arriva al cuore nelle quantità richieste, una parte più o meno estesa del muscolo muore e si verifica un infarto del miocardio (dal nome del muscolo cardiaco colpito). Se, invece, si ostruiscono o si riempiono le arterie del cervello si arriva un infarto del cervello o ictus cerebrale.

Che cos’è l’aterosclerosiL’aterosclerosi o arteriosclerosi è una delle più importanti cause di dan-neggiamento delle arterie. A causarla sono fattori che agiscono silenzio-samente negli anni., La sua caratteristica è di avere un decorso lento che inizia fin dai primi decenni di vita con la formazione sulla parete interna delle arterie di depositi di grasso (o ateromi) costituiti soprattutto da colesterolo, lipoproteine e zuccheri raffinati (nel loro complesso con-siderati scherzosamente come i moderni “cavalieri dell’apocalisse”), che innescano una reazione infiammatoria locale. Questa può portare come conseguenza alla formazione della cosiddetta “placca aterosclerotica” che ostruisce sempre più il volume dell’arteria, la quale perde anche par-te la sua elasticità. Da qui alla formazione di un trombo il passo è breve, perché in questo tratto il sangue assume un moto vorticoso per cui si possono formare dei coaguli. Questi possono occludere completamente l’arteria ed il cuore viene a trovarsi senza il nutrimento e senza l’ossigeno richiesto per funzionare. La maggior parte degli infarti cardiaci è dovuta ad aterosclerosi.

lE malattiE cardioVascolari rapprEsEntano la prima causa di mortE E di inValidità nEl mondo industrializzato

La maggior parte dei disturbi al cuore di-pende da una scarsa irrorazione sanguigna all’organo.

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L’infarto del miocardio.L’infarto del miocardio è uno stato di sofferenza delle cellule del cuore dovuto ad un’alterazione del normale flusso di sangue, che ha come conseguen-za un mancato rifornimento di ossigeno e di so-stanze nutritive a questo organo. Causa di questo problema è l’occlusione di una parte delle corona-rie. Questa occlusione si può verificare quando un grumo di sangue (per esempio un trombo o un co-agulo) si ferma in un punto già ristretto di un vaso

sanguigno tappando in parte, oppure completamente, il passaggio del sangue. Se l’occlusione è soltanto parziale e consente un flusso ridot-to di sangue si possono verificare delle crisi ischemiche (l’ischemia è uno stato di sofferenza di un determinato complesso di cellule alle quali questo sangue è diretto), ma non un infarto. Le cellule cardiache, infatti possono sopravvivere anche con un apporto ridotto flusso di sangue. Se invece, l’occlusione è stata totale e dura per più di una ventina di minuti (venti minuti preziosi, quindi), si crea una lesione cellulare che porta rapidamente alla morte delle cellule del miocardio interessato ed è un infarto del miocardio. Se ad essere ostruito da un coagulo è un grande ramo delle coronarie, il danno che ne deriva è esteso; se, al contrario, il fenomeno coinvolge solamente un ramo secondario, solo una piccola parte del miocardio non è più funzionale. Talvolta può accadere che l’oc-clusione duri meno di una ventina di minuti ed il coagulo si sciolga spon-taneamente e la circolazione riprenda in modo regolare. Talvolta, invece, può accadere che l’occlusione sia totale e duri oltre il periodo prezioso di tempo accennato; in questo caso le cellule rimaste prive di ossigeno muoiono e vengono sostituite da cellule cicatriziali, le quali, però, non hanno la stessa elasticità e capacità di contrarsi del resto del tessuto mio-cardico. La più importante conseguenza dell’infarto del miocardio, è la riduzione della massa cardiaca attiva e quindi la diminuzione della capa-cità del cuore di funzionare, perché non riesce più a “pompare” con suffi-ciente energia. Nel cuore, comunque, rimane traccia costante su quanto è avvenuto una cicatrice. Tanto per farci un’idea dell’incredibile mole di

lavoro svolta da questo or-gano basti pensare che ogni giorno il cuore pompa 15 mila litri di sangue, quasi 13 tonnellate. Fino a trent’anni fa l’infarto del miocardio era conside-rato un evento catastrofico, e, se non era letale, presup-poneva cambiamenti radi-

cali della qualità della vita. Gli enormi progressi fatti dalla cardiologia permettono oggi, in moltissimi casi, la ripresa di una vita godibile sotto tutti gli aspetti.

La formazione della placca è alla base del-l’aterosclerosi

Il “Killer silenzioso” che uccide si chiama colesterolo?

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Il primo sintomo è il doloreIl sintomo dell’infarto del miocardio che allarma la persona è il dolore. Il dolore dell’infarto è di forte intensità, localizzato al centro del petto, associato ad un senso di oppressione. Spesso si propaga anche al braccio sinistro, più raramente al de-stro, e può arrivare fino alla mandibola ed alla schiena. Il malato può avvertire diffi-coltà a respirare, sudori freddi, nausea e vomito. Se i sintomi durano 5-10 minuti e poi scompaiono da soli, può darsi che si tratti di un’angina pectoris; invece se il do-lore non tende a scomparire e le fitte durano oltre i dieci minuti, molto probabilmente si tratta di un infarto. Purtroppo, il dolore non è sempre presente. L’infarto, infatti nelle persone anziane e nei diabetici, può es-sere anche asintomatico. In ogni caso la situazione è irreversibile ed i segni dell’attacco rimangono per sempre, perché la porzione di cuore colpita risulta come coperta da una cicatrice.

Attenzione a queste trascuratezze.Se sospettate di avere un infarto: la prima cosa più importante da fare è cercare di non fare alcunché e, possibilmente di non lasciarsi prendere dal panico. Se siete fuori casa e state guidando l’automobile fermatevi immediatamente sul ciglio della strada e cercate soccorso possibilmente senza muovervi dal posto di guida. Se invece siete in casa cercate di non spostarvi e di muovervi il meno possibile, ma fate di tutto per attirare l’attenzione delle persone che vi stanno intorno. È inutile cercare di prendere dei farmaci, le uniche medicine veramente utili e disponibili ve le possono somministrare soltanto i medici dell’ospedale. Non cercate di raggiungere l’ospedale da soli. Chiamate o fate chiamare un’ambulanza e fatevi ricoverare: è meglio un viaggio inutile per un falso allarme che un rischio maggiore per una trascuratezza.

Che cosa fare.Lo sa il medico. Esistono farmaci specifici (i trombolitici), in grado di migliorare la situazione dei malati se vengono iniettati entro poche ore dall’inizio della crisi. In genere la loro assunzione consente di salvare il cuore e la vita della persona. Oltre a questi farmaci sono utili anche gli analgesici, per sedare il dolore e calmare lo stato di agitazione; gli antiaggreganti, come l’Aspirina, per impedire alle piastrine di formare ammassi che impediscano il flusso di sangue; i calcioantagonisti, che servono a dilatare il calibro delle arterie. In casi particolari, per esempio in quelli più seri, può essere indicata l’angioplastica coronaria, che con-siste nella riapertura della coronaria occlusa attraverso l’inserimento di un palloncino dilatatore.

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Come si scopre l’infarto del miocardioLa conferma di un infarto cardiaco viene data da due esami: un elettro-cardiogramma (oppure un ecocardiogramma) e da un’analisi del san-gue. Attraverso quest’ultima si valuta l’eventuale presenza di particolari sostanze (enzimi cardiaci CPK e CKME) che il muscolo cardiaco libera se è danneggiato. La coronarografia, invece, è un esame radiologico invasivo delle arterie coronarie particolarmente utile per decidere se è necessario sottoporre il malato ad un’angioplastica coronarica.

Come si curaAppena compare il dolore, è importante farsi portare con urgenza in ospedale: più è tempestivo l’intervento maggiori sono le probabilità di successo. I primi soccorsi in ospedale mirano a rimuovere il coagulo di sangue (il trombo) della coronaria con specifici farmaci per scioglierlo, detti farmaci fibrinolitici. La scienza medica, rispetto al trattamento dell’infarto ha seguito una certa evoluzione: la prima grande svolta si è registrata negli anni ’60, con l’istituzione delle unità coronariche in tutti i centri ospedalieri. Negli anni ’80, il secondo importante passo è avve-nuto con l’introduzione degli accennati farmaci fibrinolitici, in grado di sciogliere il coagulo di sangue che ha dato origine all’ischemia ed utilizza-ti nelle unità coronariche, appunto. Grazie a queste sostanze, i cardiologi possono riuscire ad ottenere la riapertura del vaso ostruito ed il ritorno del flusso di sangue nella zona infartuata del cuore nell’arco di 1-3 ore dall’episodio, permettendo così un aumento ulteriore delle persone che sopravvivono all’infarto. Negli anni ’90 si è riusciti ad ottenere la riapertu-ra della coronaria in tempi ancora più brevi, inserendo una sorta di pal-loncino che, gonfiandosi, elimina l’ostruzione e riapre il vaso. Si è riusciti ad impiantare una rete (stent) che, sostenendo le pareti dell’arteria, evita che il suo lume si restringa nuovamente.

I farmaciQuando si è stati colpiti da un infarto è necessario seguire un’adeguata cura farmacologica. I farmaci disponibili oggi sono vari e vanno utilizzati secondo i casi: i trombolitici, sono particolari farmaci in grado di scio-gliere il coagulo di sangue che si è formato; si impiegano soltanto nelle strutture ospedaliere. I betabloccanti, rallentano la frequenza del cuore e quindi il consumo di ossigeno, abbassanno la pressione, riducono il rischio di aritmie; hanno però qualche effetto collaterale, come gli spa-smi bronchiali. I nitroderivati, sono dei vasodilatatori che aumentano la portata del sangue e riducono gli spasmi delle coronarie. I calcioanta-gonisti, sono dei vasodilatatori che aumentano la portata del sangue e

riducono le resistenze periferiche. Gli ace-inibitori, sono efficaci nella cura e nella prevenzione dell’insufficienza cardiaca successi-vo all’infarto. I disaggreganti piastrinici, rendono l’aggregazione delle piastrine più difficile e, quindi, riducono la possibilità della formazione di trombi.

(Enzimi cardiaci CPK e CKME)

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Perché l’acido acetilsalicilico è utile per prevenire l’infarto?L’acido acetilsalicilico, principio attivo dell’aspirina, è in grado di ostacolare l’aggregazione delle piastrine e, quindi, la loro capacità di facilitare la formazione di trombi all’interno dei vasi sanguigni. Viene pertanto usato nella prevenzione delle ma-lattie coronariche, proprio come l’infarto del miocardio, pro-vocato dall’arteriosclerosi, cioè dalla formazione di placche all’interno delle arterie, che ne ostruiscono il lume.La cosiddetta “cardioaspirina” in commercio, contiene aci-do acetilsalicilico, ma solo in una quantità di 100 mmg, cioè una dose sufficiente per sfruttare le proprietà antiaggreganti dell’acido acetilsalicilitico, ma non come antinfiammatorio, come avviene con la tradizionale Aspirina, che può contener-ne quantità superiori. Ovviamente, l’utilizzo di questo princi-pio attivo deve essere assolutamente assunto nei tempi e nei modi prescritti dal medico.

La prevenzione: i fattori di rischio.Ridurre i fattori di rischio migliora la salute del cuore. Su certi fattori di rischio come l’età il sesso e l’ereditarietà non possiamo in alcun modo intervenire, ma su altri, modificando alcune abitudini di vita, possiamo intervenire in modo da ottenere una drastica diminuzione delle malattie cardiovascolari. Non bisogna attendere la “mezza età” per adottare le semplici ma importanti regole che concorrono a mantenere sano il cuo-re. Sono infatti considerati killers del cuore: il fumo. Il fumo danneggia le pareti delle arterie per cui i grassi del sangue (colesterolo) si depositano più facilmente favorendo l’aterosclerosi; inoltre aumenta la frequenza cardiaca e provoca spasmi delle coronarie. Il colesterolo. Il colesterolo alto favorisce l’aterosclerosi, perché tende a depositarsi sulla parete inter-na dei vasi formando delle placche che ostacolano il regolare flusso del sangue. La pressione alta. Fa male perché: aumenta il lavoro del cuore, determina un ispessimento delle sue pareti e favorisce l’accumulo di grassi sulle pareti delle arterie. La sedentarietà. Chi non fa esercizio fisico ha: una cattiva circolazione, un muscolo cardiaco più debole, una mag-giore tendenza alla pressione e al colesterolo alti e all’obesità. Il diabete. Provoca un’alterazione di tutto il metabolismo; in chi ne soffre e non si cura, sono frequenti pressione e colesterolo alti. Lo stress. Molti infarti si verificano in chi è molto stressato, ma non si sa quale sia il meccanismo attraverso cui lo stress nuoce al cuore. Si sa, però, che lo stress a lungo andare può favorire l’adozione di alcuni comportamenti a rischio per le malattie cardiovascolari: per esempio mangiare in modo disordinato ed eccessivo, abbuffandosi di quello che capita; oppure fumare più del solito, o ridurre l’attività fisica. L’obesità. E’ il terreno ideale per disturbi di cuore, favorisce la quantità di grassi nel sangue, la pressione alta e il diabete.

Un palloncino per aprire le strade del cuore.Fino a qualche decennio fa, liberare un’arteria occlusa era quasi impossibile. Oggi, l’angioplastica risolve il problema.

Da ricordare:prima si arriva in ospedale e maggiori sono le possibilità di recuperare.

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Prestare attenzione solo al fumo o alla pressione o al colesterolo, non basta per proteggere il cuore: quello che importa è calcolare il rischio globale; tenendo conto di tutti i fattori che possono contribuire a pro-vocare una malattia delle coronarie. Solo considerando i vari aspetti del problema è, infatti, possibile intervenire in modo giusto, modificando lo stile di vita o prendendo farmaci per proteggere cuore e coronarie.

Infarto: c’è la proteina che lo predice.Un nuovo”Killer” del cuore si sta facendo largo: è la proteina “C reatti-va” che, secondo le ultime teorie quando è alta rende la persona più vul-nerabile al pericolo d’infarto. E’, questa conclusione potrebbe spiegare quel 50 per cento di persone che, pur non fumando e con il colesterolo in regola, è colpito da infarto. La proteina C reattiva è oggi considerata come marker di preditività dell’infarto a lungo termine. In altre parole, è una spia d’allarme in più rispetto agli arcinoti fattori di rischio della malat-tia cardiovascolare. Il legame tra la C e l’infarto non sembra però essere così automatico cioè averla alta non significa necessariamente sviluppare prima o poi un’infarto. Solo che, misurare i valori potremmo aiutare ad attuare una prevenzione globale contro l’infarto, che, invece, i soliti fattori non permettono di fare in modo completo. La proteina C reattiva è un’ulteriore strumento per giocare d’anticipo sul-l’infarto. Resta, però, ancora da capire perché questa proteina è in grado di predire l’infarto. In ogni caso dobbiamo tener presente che alti livelli (la soglia di normalità è sempre al di sotto di 3 milligrammi per litro di san-gue). Hanno una bassissima probabilità di avere un infarto gli individui con un livello di proteina C al di sotto di 0’5 milligrammi per litro.

Il rischio globale.Non è più sufficiente combattere solo l’ipertensione, il colesterolo, il fumo, il diabete come fattori di rischio delle malattie cardiovascolari come l’infarto del miocardio o l’infarto cerebrale o la stessa proteina C reattiva (nuovo Killer del cuore). L’importante è prendere in considera-zione il rischio globale, cioè il pericolo che una persona corre (nel campo cardiovascolare) tenendo presente tutti i fattori di rischio di cui soffre, e non i singoli comportamenti che possono esporre a queste malattie. Bisogna, insomma, guardare nel complesso lo stile di vita e lo stato di salute di ogni persona. E’ sulla base di queste informazioni che il medico può stabilire il rischio cardiovascolare che si corre. I diversi elementi che possono influire negativamente sulla salute del cuore, infatti, se asso-ciati tra loro non si limitano a raddoppiare o a triplicare il rischio, ma lo moltiplicano. Così per esempio, se una persona ha il colesterolo e la pressione alta e fuma, corre un rischio cardiovascolare che non solo è 3 volte superiore a chi ha uno stile più sano, ma che può crescere fino di 6, 10 e, in alcuni casi, di 15 volte. Questo, però, non significa che chi ha un rischio elevato non possa fare nulla, anzi: bastano semplici accorgimenti per ridurre notevolmente il pericolo.

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GLI AMICI E I NEMICI DEL CUORE

Ecco i fattori che aiutano il lavoro del cuore e che quindi gli sono amici.

- Il movimento- L’equilibrio psicofisico- Una dieta sana

Ecco i fattori che mettono in pericolo il cuore e la sua attività e che, per questo motivo, vanno evitati il più possibile.

- La pressione alta- Il colesterolo- La sedentarietà- Il fumo- Il sovrappeso- Il diabete- Lo stress

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Colpisce il cervelloProprio come accade nel caso dell’in-farto del miocardio, cioè del cuore, l’ictus è un disturbo della circolazio-ne del sangue che compare improv-visamente, ma a livello del cervello. In pratica, quando il flusso di sangue diretto ad una zona del cervello si ri-duce o si interrompe, le cellule ner-vose di quell’organo non ricevono più sostanze nutritizie ed ossigeno suffi-cienti per soddisfare le loro necessità e vanno incontro a sofferenza. Que-sto comporta una perdita delle loro funzioni, i danni possono interessare qualsiasi parte del cervello e la serietà della malattia dipende dai vasi coin-volti. Le cause possono essere diver-se, ma portano tutte a questo evento e tutte sono di natura vascolare (va-sculopatie).Quando si parla di ictus cerebrale ci si riferisce ad un’improvvisa alterazio-ne della parola, alla capacità di movi-mento, che dura più di 24 ore e che nelle situazioni più serie può arrivare al coma. Ogni anno questa malattia colpisce, in Italia, oltre 180 mila per-sone (ci sono circa 30 mila ricadute), causando una seria invalidità nel 15 per cento dei casi o alla morte. Arginare i danni di questa infermità è meno difficile di un tempo, perché le cure sono decisamente più efficaci rispetto al passato, grazie a reparti specializzati istituti in molti ospedali, ad un’assistenza più rapida, ad esami più sofisticati ed a farmaci più mirati.

L’ictus cerebrale può essere di due tipi: ischemico o emorragico.Anche se i sintomi e le conseguenze di un ictus sono generalmente gli stessi, le cause di questa malattia possono essere di due tipi: si parla, infatti, di ictus ischemico e di ictus emorragico.

L’ictus ischemico È il più frequente (circa l’85% di ictus è di questo tipo) ed è dovuto ad un blocco sanguigno, cioè alla ostruzione di un arteria che porta il sangue ricco di ossigeno al cervello. Questo blocco può essere causato: da un

l’ictus: è una malattia tEmibilE, ma si può prEVEnirE, Quindi cErcarE di EVitarE

È una malattia a carico dei vasi san-guigni arteriosi del nostro organismo, che interessa so-prattutto la popola-zione di età avan-zata e, in media, più gli uomini che le donne. Negli ul-timi decenni, però, si sta diffondendo in maniera preoc-cupante, complice uno stile di vita non adeguato. Ha conseguenze molto serie.

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restringimento progressivo o da una chiusura improvvisa di un’arteria che porta il sangue al cervello, provocati a loro volta dalla presenza di un ostacolo (per esempio, un accumulo di sostanze grasse, di colesterolo o coaguli di sangue), cioè di un trombo, favorito dalle eventuale presen-za di placche aterosclerotiche sulla parete dell’arteria in questione; da un’embolia, cioè dalla presenza di frammenti di trombi (gli emboli, ap-punto), che si staccano dal coagulo di sangue originario e raggiungono le arterie cerebrali, occludendole. L’embolia può essere causata da alcune malattie del cuore, come l’infarto del miocardio, da malattie delle valvole cardiache, ecc.L’interruzione del flusso di sangue priva il cervello degli elementi neces-sari alla sopravvivenza di moltissime cellule nervose, cioè i neuroni, che costituiscono il cervello. In mancanza di ossigeno i neuroni possono so-pravvivere al massimo i pochi minuti, dopo di che il tessuto cerebrale si altera e porta ai danni ed alle conseguenze tipici dell’ictus.

Ictus emorragicoL’ictus emorragico è legato invece alla rottura di un vaso sanguigno cerebrale e ad una fuoriuscita di sangue, il che porta all’immediata distru-zione del tessuto nervoso circostante. La pressione esercitata dall’emato-ma e la tossicità del sangue per le cellule nervose possono infatti creare danni molto seri. Tanto che, quando l’ematoma si riassorbe, i neuroni risultano sostituiti da un tessuto inerte, che non possiede la capacità di svolgere le funzioni specifiche del tessuto nervoso originario. Per questo motivo si deve intervenire tempestivamente per evitare il rischio di danni permanenti e di invalidità. Il tempo, in ogni tipo di ictus, è veramente prezioso. Se i tessuti cerebrali si trovano in uno stato di sofferenza per un tempo limitato, è possibile recuperare in parte le funzioni cerebrali intaccate dalla malattia. Gli esperti indicano in 6 ore dalla comparsa dei sintomi il tempo entro il quale il malato deve essere visitato e sottoposto alle cure più adatte alla situazione.

I reparti di terapia intensiva.Però, la velocità, da sola non basta. Deve essere accompagnata da un’elevata competenza dei medici che devono capire quale potrebbe essere l’area del cervello colpite dalla malattia, indicare e somministrare la cura migliore in tempi ristretti. Una volta poi che il neurologo ha indi-viduato i vasi sanguigni che possono essere coinvolti (l’errore possibile è oggi piuttosto basso), è necessario sottoporre il malato ad esami sempre più mirati per valutare con certezza la localizzazione del danno cerebrale e, semmai, intervenire chirurgicamente. È quello che viene fatto nei re-parti di terapia intensiva.

Segnali d’allarme e conseguenzeQuando un’area del cervello è stata danneggiata da un ictus, tutte le parti del nostro corpo controllate da quest’area sono destinate a risentirne

Prima si arriva in ospedale e maggiori sono le possibilità di recuperare.

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ed anche azioni molto semplici possono diventare complesse. I sintomi che possono mettere in allarme (perché possono annunciare un ictus cerebrale) sono di natura neurologica. Tra i più comuni ci sono: parali-si completa o parziale, che di solito interessa una sola metà del corpo (emiparesi); perdita della forza di una o più parti del corpo (difficoltà di stringere la mano, ad esempio); difficoltà ad esprimersi e ad articolare le sillabe, cioè disturbi del linguaggio (afasia); difficoltà della memoria e dell’attenzione; disturbi della vista (per esempio, perdita della visione in una parte del campo visivo); perdita o riduzione della sensibilità ad una metà del corpo; disturbi dell’equilibrio; problemi di deglutizione: formicolio alle dita.Una caratteristica dell’ictus, dovuto all’incrocio delle fibre nervose che si verifica nel midolo allungato, è che se viene colpita la parte destra del cervello, il danno si manifesta sul lato sinistro del corpo e viceversa.

L’ictus si può prevenire? Si può evitare?Secondo gli esperti l’80% degli ictus potrebbe essere prevenuto ed evi-tato semplicemente seguendo, molto prima che si manifesti, giuste re-gole di vita. Come per le altre malattie cardiovascolari , anche per l’ictus esistono determinati fattori di rischio che lo favoriscono e che pertanto, bisogna conoscere. Ci sono dei fattori di rischio che, come l’età, (il rischio è maggiore a partire dai 55 anni), il sesso (gli uomini sono a rischio più delle donne); la familiarità, non possono essere in alcun modo modifi-cati e si dicono, pertanto, “fattori di rischio non modificabili”. In parti-colare per quanto riguarda la familiarità, bisogna tener presente che se qualche parente è stato colpito da questa infermità, non è detto che la si erediti in sé e per sé, ma si può ereditare la predisposizione ad esse-re colpiti da malattie che la favoriscono, come l’ipertensione, il diabete, l’ipercolesterolemia ed alcuni deficit congeniti della coagulazione del sangue. In caso di queste malattie può essere utile tenerle sotto controllo con accertamenti periodici, onde diminuire la probabilità di essere col-piti da ictus.L’ictus si può prevenire correggendo invece i fattori di rischio che ciascu-no di noi può modificare, evitando così i danni che essi possono pro-vocare a livello dei vasi. Tra questi fattori di rischio, detti invece fattori di rischio modificabili, ricordiamo: il sovrappeso, per cui è necessario diminuire le entrate energetiche giornaliere, incrementare una regolare attività fisica, diminuire la quantità di grassi animali ingeriti e gli elevati valori della pressione.Negli ipertesi, anche solo la riduzione del sale da cucina può abbassare del 20% circa i valori della pressione senza usare medicinali. Le perso-ne anziane con la pressione sistolica (massima) uguale o superiore a 160mmhg, dovrebbero abbassarla sui 140 mmmhg, mentre se la pres-sione diastolica è uguale o superiore a 90 mmhg dovrebbero ridurla fra i 70 e gli 80. Mantenere il livello di colesterolo nel sangue al di sotto dei 200 mg per decilitro e l’Ldl (quello cattivo, perché si deposita sulla parete interna delle arterie, ostruendole) sotto i 130 mg per decilitro. Solo se

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queste misure non sono efficaci, si può ricorrere ai farmaci ipocolestero-lemizzanti e cioè in grado di ridurre il tasso di colesterolo Ldl e di incre-mentare l’Hdl (“quello buono”, perché protegge le arterie).Anche alcune malattie predispongono all’ictus, per esempio le cardiopa-tie legate all’incapacità degli atri di far funzionare bene il cuore, perché i suoi muscoli si contraggono senza sincronia ed il sangue tende a rista-gnare nell’atrio. In queste condizioni è probabile che tendano a formarsi dei trombi che possono poi migrare verso le arterie cerebrali.Occhio al diabete, rivelato da un valore troppo alto della glicemia (cioè della concentrazione di zuccheri nel sangue). E il diabete può portare dall’aterosclerosi, cioè alla formazione di placche sulle pareti interne delle arterie dalle quali si possono staccare dei frammenti (sotto forma di emboli) e andare ad ostruire altre arterie, per esempio quelle che por-tano sangue al cervello: le carotidi. E, da qui, per arrivare ad un ictus il passo è breve.Chiude questo elenco dei fattori di rischio modificabili (ma non è il meno importante) il fumo, che crea danni a tutto l’organismo, in particolare al sistema cardiocircolatorio; aumenta la pressione del sangue (una delle cause dell’ictus); aumenta il battito del cuore (cioè il lavoro di quest’orga-no) e l’aggregazione delle piastrine (cioè la tendenza ad attaccarsi fra loro a formare coaguli nelle arterie); interferisce con la normale ossigenazione dei tessuti, danneggia lo strato di cellule che riveste l’interno dei vasi san-guigni, logorando i vasi stessi e favorendo così l’accumulo di grasso nelle arterie. Tutti questi effetti dannosi del fumo sono alla base di malattie come l’ictus, l’aterosclerosi e l’infarto del miocardio. Ecco perché è im-portante smettere di fumare. I danni del fumo, anche se si manifestano il là con gli anni, cominciano comunque ad instaurarsi già da giovani.

Gli esami utiliGli esami diagnostici più efficaci in casi di ictus sono: la TAC (Tomografia assiale computerizzata) che, quando il malato arriva in ospedale, per-mette di distinguere tra un ictus ischemico ed un ictus emorragico e di identificare segnali precoci di sofferenza dei tessuti del cervello.La Risonanza magnetica, che meglio della Tac, permette di seguire l’ic-tus e le sue eventuali conseguenze ed è in grado di visualizzare già nelle primissime ore dalla comparsa dei sintomi eventuali lesioni dovute ad un ictus ischemico ed indicare qual è la proporzione fra l’area irreparabil-mente danneggiata e l’area ancora vitale, verso la quale possono essere diretti alcuni interventi in modo da preservarla.L’angiografia cerebrale, viene eseguita per confermare la sede e la na-tura dell’occlusione del vaso sanguigno e per capire se l’occlusione può essere raggiunta e sciolta con i farmaci trombolitici.

I farmaciLa cura dell’ictus deve essere sempre eseguita in urgenza, indipenden-temente dalle causa della malattia. Nel caso di ictus ischemico causato da un trombo, può essere utile ricorrere a farmaci trombolitici (capaci

Tomografia assiale computerizzata

Risonanza magnetica

Angiografia celebrale

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di sciogliere il trombo) ed eliminare così l’occlusione. Mentre nel caso di infarto del miocardio questa cura è ormai standard, nell’infarto cerebrale di tipo ischemico (ictus) è necessario prestare molta attenzione.

La riabilitazione?Ultimamente l’attenzione degli studiosi si è concentra-ta più che in passato sulla riabilitazione dopo l’ictus, Anche chi ha subito conseguenze importanti a causa di questa malattia (come difficoltà di movimento o del-

la parola) oggi può, almeno in parte recuperare. Per questo, una volta dimesso dall’ospedale, è importante iniziare subito un programma di riabilitazione personalizzato presso strutture specializzate che, di solito, vengono consigliate dall’ospedale in cui si è stati curati. Generalmente si tratta di un programma di riabilitazione motoria, del linguaggio o contro la depressione, purtroppo abbastanza frequente dopo un ictus.

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L’embrione è vita. Mai come in questi tempi la ricerca medico-scientifica ha prodotto soprattutto dibattiti etici, con venature politiche e religiose. I dubbi della scienza spingono alla prudenza. E’ certamente un bene che la comunità scientifica si soffermi a pensare quello che sta facendo.

Per gli embrioni esiste un’ora X?Quando, lasciati gli studi di medicina, intrapresi quelli di Biologia (1950), ed allora la biologia era una stupenda favola, non avrei mai immaginato che qualcuno si potesse interessare tanto al det-taglio cronologico delle prime fasi di formazione dell’embrione umano. Ed oggi sento e leggo di continue dispute sull’argomento, tanto più accese quanto più confuse.Ci si chiede quando inizi la vita umana. Se due giorni dopo la fecondazio-ne si possa già parlare di essere umano oppure no; oppure se per questo occorra aspettare la fine della seconda settimana; o se l’embrione sia un individuo in potenza, cioè un progetto di individuo e via discorrendo.Da anni noi cattolici poniamo una domanda: se l’embrione al primo sta-dio non è un essere umano, qualcuno dovrebbe dire in quale momento preciso lo diventa e non così per convenzione, ma con un certo appiglio scientifico. Si mischiano e si confondono in queste polemiche concetti molto diversi come quello di vita, di essere umano, di concepito, di em-brione, di individuo e di persona, umana o giuridica. Cercherò di mettere a fuoco alcuni punti, almeno quelli di più stretta pertinenza scientifica.

Quando inizia una nuova vita?La fecondazione. Non c’è dubbio che la vita di un organismo (un uomo, per esempio) inizi con l’incontro e la congiunzione di un gamete ma-schile (lo spermatozoo) ed un gamete femminile (la cellula-uovo, cioè l’ovocita maturo). Il processo di fecondazione dura alcune ore, per cui non è facile dire esattamente quando inizi la nuova vita. Per parlare di un nuovo organismo è necessario che si combinino fra loro i due genomi (si dice genoma l’insieme dei geni di una cellula) uno di origine paterna e uno di origine materna, per dare un genoma nuovo. L’importanza della fecondazione deriva dal fatto che la fusione del genoma paterno con quello materno permette: 1° un rimescolamento dei caratteri ereditari ad ogni generazione per cui viene mantenuta ed accresciuta la variabilità genetica di una popolazione che, pertanto, diventa adattabile all’insorge-re di nuove condizioni ambientali; 2° stimola tutta una serie di processi di segmentazione e di differenziazione di tutto un complesso di nuove cellule figlie che lavorano in modo continuo e coordinato per assicurare la vita ad un nuovo organismo. La fecondazione è il primo atto che porta alla formazione di un embrione. Lo sviluppo embrionale che ne segue non è un semplice accrescersi e suddividersi di cellule e l’embrione che ne deriva è da considerare, fin da questo primo processo biologico, come un essere vivente, che costruisce se stesso in una sequenza conti-nua a ordinata di cambiamenti progressivi, verso strutture di complessità sempre più elevata.

“la mia opinionE a proposito dElla ricErca suGli Embrioni”

Il prof. Neviani in-terviene con questo articolo, su una con-troversa questione di bioetica.

Principali tappe dello sviluppo embrionale dell’uomo.

Spermatozoi e cellula uovo umani, osservati al microscopio ottico.

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Dai gameti alla formazione dell’embrione.L’uovo fecondato prende il nome tecnico di zi-gote. E’ una cellula unica che viene a trovarsi con un patrimonio genetico per metà paterna e per metà di origine materna. La fecondazio-ne è soltanto un punto di partenza e lo zigote comincia ben presto a duplicarsi per dare due cellule, poi quattro, poi otto, poi sedici… fino a

realizzare una masserella consistente dall’aspetto di una minuscola mora e, per questo chiamata morula. Molto presto le cellule che costituiscono la morula danno origine ad una sorta di sfera, formata da un unico strato di cellule giustapposte che delimitano una cavità temporanea detta bla-stocele, piena di liquido. A questo stadio l’embrione è chiamato blastu-la. Fino a qui tutto avviene all’interno della tuba uterina, un canale che collega le ovaie all’utero e che è pure la sede in cui avviene solitamente la fecondazione. Non sopravvivrebbe però a lungo se, attraverso una complessa successione di eventi, non s’impiantasse nel tessuto stesso dell’utero materno, dal quale trarrà poi il nutrimento.

Dai foglietti embrionali si formano organi diversi.Successivamente allo stadio di blastula (con relativa blastocisti), le cellule che formano un emisfero della blastula stessa, tendono ad introflettersi

verso l’altro emisfero (come se una palla sgon-fia venisse compressa da un dito); l’introflessione procede finché l’embrione assume l’aspetto di un sacco a doppia parete. A questo stadio, nell’em-brione si distinguono: una strato di cellule esterno, chiamato ectoderma, e uno strato di cellule inter-no, che tappezza la cavità formatasi nel processo di introflessione, chiamato endoderma. Ectoderma ed endoderma sono i primi due foglietti embrio-nali e l’embrione a questo stadio viene chiamato gastrula. Intanto in tutti i vertebrati (quindi anche nell’uomo) si forma un terzo foglietto embrionale, interposto ai precedenti, detto mesoderma.Per successive continue e graduali differenziazio-ni e specializzazioni, da ciascuno dei tre foglietti embrionali si formeranno organi diversi: dall’ecto-

derna si formano: l’epidermide, il sistema nervoso, gli organi di senso; dall’endoderma si formano parti dell’apparato digerente e le ghiandole annesse (fegato e pancreas); dal mesoderma si formano: i rivestimenti delle cavità del corpo, la muscolatura, l’apparato circolatorio e respirato-rio, lo scheletro, l’apparato urogenitale.Lo schema generale del nostro organismo è già tutto lì, anche se il botto-

Primi stadi dello svi-luppo embrionale di organismi con gastru-la a due foglietti em-brionali: dallo stadio a 2 cellule si passa, dopo una serie di divi-sioni successive, allo stadio di morula e poi blastula, rappresen-tata da una struttura cava, delimitata da un unico strato di cellule. Nelle tappe successi-ve, la blastula si tra-sforma in gastrula.

Dopo l’ovulazione (1) avviene la fecondazio-ne (2) e lo zigote (3) inizia subito a dividersi per successive mitosi (4) originando una mo-rula via via più grande (5-6)

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ne embrionale è lungo (appena) poco più di un decimo di millimetro e siamo a circa tredici giorni dalla fecondazio-ne. Verso la fine della seconda settimana si cominciano a distinguere un asse corporeo principale e la prima traccia di polarità, cioè in parole povere, dove è la testa e dove la “coda”. Cominciano le prime avvisaglie del sistema ner-voso centrale e di una struttura spinale. A poco a poco cominceranno poi a prendere forma altri organi e tutti quanti inizieranno a crescere fino a maturare, ma, ripeto, lo schema generale di un nuovo essere vivente, dicevo, è già tutto lì.

Le cellule staminali embrionali.Il complesso di cellule che formano la blastula, non-ché quelle della parete della blastocisti, finché non si sono ancora impiantate nella parete dell’utero materno, quindi facilmente isolabili, costituiscono un complesso di cellule particolari che vengono chiamate cellule staminali embrionali. Su di esse si stanno febbrilmente indirizzando importanti ricer-che. Sono delle cellule non ancora programmate a svolgere una funzione specifica, cioè delle cellu-le indifferenziate che, in teoria possono diventare qualsiasi tipo di cellula del nostro organismo e svol-gere in futuro funzioni diverse (cerebrali, epidermi-che, muscolari, cartilaginee, cardiache, globuli rossi, globuli bianchi, ecc.). Per questo motivo sono con-siderate delle cellule totipotenti e sono facilmente isolabili. Nell’embrione, dopo l’impianto nell’utero, invece, le cellule staminali, pur mantenendo loro po-tenzialità di moltiplicarsi all’infinito, possono essere programmate (dal DNA dello zigote) per svolgere le funzioni di qualsiasi tipo di cellula e sono più difficili da isolare al fine di condurre su di esse eventuali ul-teriori ricerche. Ma delle cellule staminali, della loro varietà e delle loro potenzialità, parleremo in una successiva occasione. Per ora torniamo allo svilup-po dell’embrione allo stadio di blastula, con la cavità interna chiamata blastocele, delimitata da un unico strato di cellule.

La questione etica, quando comincio io?E’ questa la successione fondamentale e continua di eventi che noi bio-logi abbiamo osservato, imparato e seguito nelle nostre ricerche e nei nostri studi. E, come dice il Prof. E. Roncinelli sul Corriere della Sera, sullo sfondo di questo schema fondamentale, volendo, possiamo farci domande più specifiche.Quando comincia la vita? La vita è cominciata una volta sola 4 miliardi di anni fa, ma la vita di un particolare organismo (l’uomo, per esempio)

Le tappe dello sviluppo embrionale e schema che collega i foglietti embrionali con gli or-gani e gli apparati che da ciascuno di essi hanno origine.

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comincia in condizioni normali con la fecondazione, cioè con l’unione del gamete paterno con quello materno. E questo accade nell’interno nelle ore della prima giornata.Lo zigote ottenuto è un individuo? E’ un individuo la morula di otto, se-dici cellule presenti il giorno dopo, cioè il secondo giorno di gestazione? E’ certamente un progetto d’individuo e, forse, lo diventerà poi, perché le morule, anche in condizioni normali, potrebbero non portare ad alcun embrione. E’ da tener presente che non tutte le morule giungono a dare uno o più embrioni; le morule che potrebbero dare luogo ad embrioni difettosi, vengono semmai “scaricate” dalla natura stessa.Quando comincia l’embrione? Se per embrione intendiamo l’insieme delle parti che formano il corpo, queste, prima del quarto-quinto giorno non ci sono e fino al dodicesimo giorno sono assolutamente informi. Quando è che l’embrione è senziente? Non lo sappiamo con certezza, ma è difficile pensare che ciò possa accadere prima della comparsa di una minima traccia di sistema nervoso (il che si verifica il quattordicesi-mo giorno).Quando è che l’embrione diventa persona e come tale gode di tutti i di-ritti scritti e non scritti spettanti ad una persona? Questa domanda esu-la dalla biologia in generale e qui mi fermo. Non possiamo chiedere alla natura o alla scienza di cavare le castagne dal fuoco al posto nostro.Un fatto per il momento è certo: la ricerca sugli embrioni vivi è certamen-te una questione controversa; scienziati, filosofi, bioetici, cattolici, medici ed i “comuni mortali”, dovrebbero essere convinti di certe idee ed essere compatti nella difesa della vita dei più deboli e indifesi, gli esseri umani degli embrioni. Tutti stiamo aspettando una risposta. E’ certamente un bene che la comunità scientifica si soffermi a pensare quello che sta fa-cendo, perché le frontiere della biologia e della genetica vanno ponendo questioni gigantesche sulla nascita, sulla morte, sulla natura umana. Più siamo informati, più la scienza “tocca” la coscienza umana.Per condannare a morte un embrione è necessario essere proprio sicuri che non sia vita umana. Per risparmiarlo è sufficiente anche un ragione-vole dubbio, e proprio la divisione di opinioni fra certi scienziati è suffi-ciente a dimostrare che c’è spazio per più di un ragionevole dubbio. Se non vado errato, il fenomeno della vita è descritto così dai biologi. Sem-mai dal disaccordo degli scienziati fra loro si potrebbe dedurre un invito alla prudenza. Il nocciolo della questione è l’affermazione della dignità umana dell’embrione che diventa uomo, una potenzialità presente nei gameti che si attua fin dal momento della fecondazione, quando esista-no le condizioni necessarie. Se la causa prossima dello sviluppo del vi-vente è interna ad esso (potenzialità dei gameti), la causa prima e distinta è un Dio Creatore, che ha dato origine all’universo e in esso la vita in tutte le sue forme. Ma l’anima spirituale dell’embrione è creata direttamente da Dio, perché lo spirito non può derivare dalla materia biologica. Che l’anima dell’embrione non si veda nella sua immediatezza è un dato di fatto, ma questo non vuol dire che non esista o non sia spirituale; la sua presenza, infatti, si deduce dagli effetti che nell’essere vivente produce

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man mano che questo si sviluppa. Neppure l’intelligenza di un individuo si vede esteriormente, la si constata per i suoi ragionamenti e quell’in-telligenza risiede nel principio spirituale che guida e sostiene lo sviluppo di un individuo.L’embrione che diventa uomo è un dono di Dio all’uomo. Questa conclu-sione può essere sia della ragione (per i laici), sia della rivelazione biblica (per i credenti). E io non sono ateo!

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Come è fatto il nostro “computer”.Pesa soltanto un chilo e mezzo, ma i suoi miliardi di cellule lo rendo-no un vero e proprio computer, che riceve in continuazione un enorme mole di dati sia dall’ambiente esterno sia da quello interno, li elabora, li organizza, li interpreta e produce delle risposte. Una vera meraviglia, eppure perché funzioni al meglio bisogna prendersene cura. E’ la par-te più importante del sistema nervoso, che regola tutte le funzioni del nostro organismo. Insieme al cervelletto ed al tronco cerebrale forma

l’encefaleo. E’ protetto da una scatola cranica. Internamente è costituito da una sostanza bianca, mentre esterna-mente è avvolto dalla corteccia, grigia. Tre mem-brane sottili e resistenti, le meningi, lo avvolgono e lo proteggono. E’ composto da due metà, l’emisfero destro e quel-lo sinistro, parti che comunicano fra di loro median-te il corpo calloso attraverso il quale si scambiano informazioni. I due lati del cervello sono organizzati in modo diverso e in ognuno di essi sono presenti aree che sottendono a differenti funzioni: l’emisfero sinistro comanda la parte destra del corpo, mentre l’emisfero destro comanda la parte sinistra. Questa inversione dipende dal fatto che i nervi s’in-

crociano quando entrano nel cervello. I neuroni, cioè le cellule nervose, portano l’informazione al cervello e trasmettono i suoi ordini ai vari or-gani ed apparati. In essi circola una corrente nervosa paragonabile ad un circuito elettrico. In particolare, il cervello riceve gli impulsi nervosi che arrivano dagli organi di senso e li traduce in sensazioni, invia ai muscoli impulsi motori, permette di ricordare, ragionare, immaginare e provare emozioni.

Che cos’è un attacco ischemico transitorio.Il cervello è mantenuto in vita da una rete di arterie che gli portano san-gue in grado di fornirgli ossigeno ed alimenti (glucosio). Le principali arterie sono le carotidi, due grossi vasi che si trovano nel

collo e che si biforcano in vasi arteriosi più piccoli fino ad arrivare al cervello. Posteriormente ci sono altre due arterie chiamate vertebrali. Quando l’apporto di sangue ad una zona del cer-vello è insufficiente si verifica un’ischemia cerebra-le. Questa può manifestarsi in due forme: quando i sintomi non durano oltre 24 ore si parla di attacco ischemico transitorio (Tia), dall’inglese Transient ischemic attack, mentre se i sintomi superano le 24 ore si è di fronte ad un ictus cerebrale. In tutti e due i casi, la causa può essere l’occlusione di un vaso arterioso più o meno grande.

un piccolo ictus: un attacco ischEmico transitorio (tia)

Se l’ossigeno non arriva al cervello: un segnale del no-stro organismo.

Sezione longitudinale dell’encefalo, sono rap-presentate le varie parti del il primo tratto del midollo spinale.

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I campanelli d’allarme.Un attacco ischemico transitorio è considerato un mini-ictus e come abbiamo detto, consiste in un’interruzione di breve durata del glusso di sangue in una parte del cervello. Esso si presenta improvvisamente ed i suoi sintomi sono simili a quelli prodotti dall’ictus, ma sono di breve durata (fra i 2 ed i 15 minuti). I sintomi di un Tia sono rappresentati dalla comparsa improvvisa di: un cedimento di breve durata della presa di oggetti anche piccoli come una penna o una posata che cadono per ter-ra; la sensazione momentanea come di una tendina nera che cala sopra un occhio; lo strascicamento di un piede in maniera anomala mentre si cammina; un impedimento nel pronunciare alcune parole mentre si sta parlando; incapacità di comprendere chi sta parlando; ecc. In genere questi segnali vengono trascurati dalla persona in quanto considerati comuni, oppure perché scompaiono anche dopo breve tempo. Invece non vanno sottovalutati perché, come dicevo, possono essere le spie che piccoli frammenti della placca ateromatosa sono andati ad ostruire temporaneamente piccole arterie cerebrali.

Subito dal medico.Questi segnali sono molto importanti, perché avvisano che qualcosa non funziona come dovrebbe a livello della circolazione cerebrale. Non si può prevedere se i sintomi progrediranno in poche ore oppure persisteranno, cioè se si tratta di un attacco ischemico transitorio o di un ictus. Ma, se compaiono questi disturbi, è necessario farsi portare al Pronto soccorso il più presto possibile. Se i sintomi sono di breve durata e sono già regre-diti, è comunque bene rivolgersi subito ad un medico.

Fattori di rischio.Oltre all’età avanzata, altri fattori possono favorire l’aterosclerosi e, quin-di, la comparsa di pericolose masse solide (placche) all’interno della ca-rotide e dei suoi rami, che poi scatenano l’attacco ischemico e l’ictus. Gli elevati valori della pressione arteriosa e di colesterolo nel sangue, l’obe-sità, il fumo di sigarette, l’alimentazione scorretta, un eccessivo consu-mo di bevande alcoliche, l’uso prolungato della pillola anticoncezionale (specie dopo i 35 anni), la scarsa attività fisica. Anche il diabete danneggia i vasi, soprattutto quelli di dimensioni più piccole; se la malattia non viene curata presto e bene, il rischio di attacco ischemico è alto.

Le regole della prevenzione.Come per ridurre il rischio di ictus anche per gli attacchi ische-mici transitori, è necessario: tenere la pressione arteriosa sotto controllo come pure i livelli di zucchero nel sangue; ridurre i grassi seguendo una dieta equilibrata, che privilegi il consumo di frutta e verdura. A tutto questo è da associare una regolare attività fisica ed abolire il fumo.

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Parole, parole, paroleTutte le riviste alla moda di questi tempi ne parlano, ma pochi sanno di che cosa si tratta veramente e che può avere ritmi diversi secondo le per-sone. Spesse volte si fa riferimento ai chili di troppo, alla cellulite, si parla della fatica o, comunque, di essere in “linea” e non si pensa che alcune malattie sono proprio in relazione con il nostro metabolismo. Per questo proviamo con ordine a fare un poco di chiarezza.

Un insieme di processi complessi.Il metabolismo è l’insieme di tutti i processi fisico-chimici che avvengo-no nel nostro organismo e che richiedono la produzione, il consumo e l’accumulo di energia. Sono processi che interessano tutte le cellule dei vari organi (fegato, cervello, tiroide, ecc.) e che sono coinvolti nel mante-nimento della stabilità delle condizioni ideali di vita. Questo complesso di reazioni hanno la funzione di liberare e l’energia contenuta negli alimenti che ingeriamo con la dieta e l’energia necessaria a mantenere costante la temperatura del nostro corpo ed a svolgere le normali attività quoti-diane (camminare, lavorare, praticare attività sportive, ecc.), nonché a sintetizzare eventuali nuove sostanze biochimiche delle quali il nostro organismo necessiti.

Nel metabolismo intervengono enzimi e coenzi-mi.Perché si possano compiere tutti i processi metabolici, è fondamentale la presenza di determinate sostanze: enzimi e coenzimi. Gli enzimi sono sostanze chimiche di natura proteica, che regolano la velocità delle reazioni chimiche. Se venissero a mancare gli enzimi, i processi del me-tabolismo non si verificherebbero o altrimenti sarebbero lentissimi. Per ogni reazione chimica (o per ogni gruppo di reazioni chimiche esiste un enzima specifico). I coenzimi sono invece sostanze (come le vitamine) che permettono ad alcuni enzimi di svolgere al meglio la loro funzione. Gli ormoni (soprattutto quelli prodotti dalla tiroide) ad esempio sono in grado di accellerare o meno il metabolismo. Non a caso chi soffre di un eccessivo lavoro della tiroide quindi con un’elevata produzione di ormo-ni (ipertiroidismo) ha un metabolismo più veloce, mentre chi soffre di scarsa attività della ghiandola tiroidea (ipotiroidismo) ha un metaboli-smo rallentato.

Il nostro organismo può essere paragonato ad una macchina.Per poter funzionare, infatti, deve necessariamente avere a disposizio-ne del carburante (gli alimenti). Per far muovere una macchina, però, è necessario che la benzina venga bruciata, cioè trasformata. Questo è esattamente quello che avviene nel nostro organismo, quando gli ali-menti vengono “bruciati” (attraverso le complesse reazioni chimiche

chE cos’é il mEtabolismo? la chiaVE dEl nostro bEnEssErE

Sapere che cos’è il metabolismo può voler dire com-prendere meglio che cosa significa seguire un compor-tamento alimentare ideale o attenersi ad uno stile di vita sano, in pratica può servire a capire come mantenersi in forma. Regolare il metabolismo dal-l’esterno seguendo determinate “re-gole” può infatti significare salute e benessere.

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che costituiscono appunto il metabolismo) e trasformati i n energia necessaria alla vita. Questa, la vita, richiede infatti la produzione, il consumo o l’accumulo di energia. Il metabolismo, come si diceva è un processo che avviene in tutte le cellule, ma per scoprire come le cellule riescano a ricavare energia dagli alimen-ti, è stato necessario aspettare gli studi americani degli anni settanta. Si è scoperto così che: il com-plesso delle reazioni che portano alla liberazione di energia contenuta negli alimenti in energia che possa essere utilizzata dalle cellule per compiere le loro attività vitali, avviene in caratteristici organelli contenuti in tutte le cellule e che si chiamano “mitocondri”. Per questo, essi vengono considerati delle vere e proprie “centrali energetiche” di tutte le cellule. Qui, i complessi alimenti che noi inge-riamo e che (durante la digestione vengono scissi nei loro costituenti più semplici) vengono utilizzati, cioè bruciati come un carburante. Grazie all’ossigeno (anch’esso portato dal sangue) le molecole di glucosio per esempio vengono ulteriormente rotte, liberando l’energia che contengo-no.

Le due fasi del metabolismo.Nel metabolismo cellulare si distinguono due fasi fondamentali, che sono collegate fra di loro: la fase catabolica, o catabolismo, com-prende delle reazioni nelle quali le complesse molecole organiche (glucidi, o zuccheri, lipidi o grassi e protidi) che provengono dagli alimenti, sono demolite in tappe successive in molecole più semplici e povere in contenuto energetico (come anidride carbonica, acqua, ecc.). La fase catabolica, nella quale si ha la liberazione di un certa quantità di energia, rappresenta la fase di demolizione del processo metabolico.La fase anabolica, o anabolismo, è invece la fase nella quale le piccole molecole di base (prove-nienti dalla fase catabolica), si legano fra di loro per formare altre molecole complesse, quelle appunto presenti nelle cellule del nostro organi-smo. Questa fase del processo metabolico (che porta ad un aumento o della complessità delle strutture) richiede energia, quell’energia che vie-ne liberata durante la fase catabolica. Perciò, mentre il catabolismo è una fase di demolizione, l’anabolismo è una fase di costruzione. Cataboli-smo e anabolismo sono strettamente connessi, in quanto le reazioni che sviluppano energia, forniscono il materiale necessario alle biosintesi. Catabolismo ed anabolismo, infatti, avvengono simultaneamente nelle cellule, sono regolate in modo indipendente, ma sono coordinate e non

DAL CIBO ALL’ENERGIA

Ecco come i cibi (carboi-drati, proteine e grassi) vengono trasformati dall’organismo in ener-gia utilizzabile per le sue funzioni. Il tutto avviene attraverso i processi chi-mici che costituiscono il metabolismo.

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facilmente separabili nel complesso del processo metabolico.

Il metabolismo può essere lento o veloce.Quando si è a riposo lo stato di attività metabolica è minima, cioè suffi-ciente per mantenere le funzioni vitali essenziali del nostro organismo; quando invece il corpo è in attività (anche solo il pettinarsi o lo svolgere le faccende domestiche) consuma energia e deve bruciare un ulteriore quantità di componenti degli alimenti. Quindi, secondo la propria co-stituzione, l’attività, l’età, il metabolismo di ogni persona può diventare più lento o più veloce. Chi ha un metabolismo lento brucia in modo corretto gli zuccheri, ma trasforma con difficoltà le proteine ed i grassi e difficilmente riesce a perdere chili. Può soffrire di depressione, intestino pigro, affaticamento, pressione bassa, ha tendenza a soffrire di malattie croniche, pelle e capelli secchi ecc. Chi ha un metabolismo troppo veloce brucia in modo eccessivamente rapido gli zuccheri. Ne deriva iperattività, ipersudorazione, ipertensione, pelle e capelli grassi, tendenza ad ingras-sare, ma facilità nel perdere peso e nel mantenimento del peso perso. Inoltre può più facilmente soffrire di allergie ed infezioni.

Fegato, tiroide ed ipofisi nel metabolismo.Tre organi, più degli altri, svolgono un ruolo fondamentale nel metabo-lismo. Il fegato è il perno dei vari processi chimici e presiede a tutte le fun-zioni metaboliche in quanto contiene numerose sostanze deputate alla trasformazione degli alimenti. La tiroide, posta al centro del collo, ha la funzione di produrre due ormoni (gli ormoni sono sostanze prodotte da ghiandole che hanno la funzione di regolare l’attività di diversi organi ed apparati) T3 e T4, che hanno il ruolo di stimolare la diverse fasi del me-tabolismo e di regolarne la velocità. L’ipofisi è una ghiandola situata nel cervello, ed è importante perché fa funzionare correttamente la tiroide.

Come regolarlo a tavola?E’ soprattutto con l’alimentazione che si può “raddrizzare” il metaboli-smo. Chi ce l’ha lento, deve preferire alimenti che possano essere fa-cilmente bruciati: al mattino ed alla sera, quando i processi metabolici (già bassi) sono al minimo, vanno bene i carboidrati, cioè gli zuccheri (presenti soprattutto in pane, pasta e riso. Quando il metabolismo è più attivo (a metà giornata), invece, via libera alle proteine (carne pesce e legumi). Chi ce l’ha veloce, deve preferire alimenti che richiedono molto tempo per essere bruciati e quindi non forniscono un’energia immedia-ta. Per esempio: carboidrati integrali, un po’ di grassi a colazione ed alla sera e proteine a pranzo (quando il metabolismo raggiunge il picco). E’ ammesso anche un po’ di burro al mattino durante la colazione. Se si vuole seguire una dieta particolare o se si hanno disturbi specifici che richiedono di tenerlo sotto controllo, può essere utile misurare il meta-bolismo (vengono utilizzati appositi diversi apparecchi e i dati vengono forniti in chilocalorie).

Il fegato: quest’organo è il perno dei vari pro-cessi chimici e presiede a tutte le funzioni meta-boliche. Contiene infatti numerose sostanze deputate alla trasforma-zione degli alimenti in energia.

L’ipofisi: è una ghian-dola posta nel cervello, importante perchè fa funzionare correttamen-te la tiroide.

La tiroide: questa ghian-dola, posta nel collo, ha la funzione di produrre due ormoni (T3 e T4), che hanno il ruolo di stimolare le diverse fasi del metabolismo e di re-golarne la velocità.

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Quale sport scegliere?Chi l’ha lento deve scegliere sport poco faticosi, che richiedono un minor dispendio energetico, perché hanno difficoltà a ricavare energia imme-diata dall’alimentazione. Vanno bene cyclette, corsa, ginnastica dolce. Chi ha il metabolismo veloce, producendo molta energia, questa deve essere dispersa ricorrendo a sport più impegnativi (come il nuoto o il tennis) senza però correre il rischio che il fisico ne risenta.

Metabolismo e malattie.E’ molto importante mantenersi in forma tenendo sotto controllo il meta-bolismo. E’ molto importante per prevenire le malattie tipiche del nostro tempo, come il soprappeso, il diabete l’ipertensione e le affezioni cardio-vascolari. Tenendo sotto controllo il metabolismo attraverso una corretta alimentazione ed un’adeguata attività fisica, possono essere prevenute in particolare le malattie che affliggono il cuore ed il sistema vascolare, come l’aterosclerosi, l’infarto del miocardio e l’ictus. I grassi in eccesso non solo non vengono bruciati per produrre energia, ma vanno ad accu-mularsi nell’organismo favorendo, appunto, l’aterosclerosi e la deposi-zione del colesterolo nelle arterie.

L’ASSIMILAZIONE

E’ bene tenere presen-te che ogni sostanza ha un suo metabolismo e richiede un tempo di-verso di permanenza nello stomaco.

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Diverse malattie hanno una causa psicosomati-ca.Oggi sempre più spesso si sente parlare di disturbi psicosomatici, cioè di manifestazioni fisiche che compaiono o si fanno sentire con maggior forza nei periodi di particolare stress, tensione ed impegno psicologico.In pratica è come se si aprisse sul corpo una sorta di “valvola di sicurez-za” della mente. Ma è bene non semplificare eccessivamente perché, se è pur vero, che può esistere una relazione tra mente e disturbo fisico, non è detto che tutte le cause psicologiche siano le uniche alla base della malattia. Nella maggior parte dei casi, infatti, si ha un intreccio complesso tra elementi psicologici e problemi organici, che peraltro, non sempre possono ri-sultare chiari e conosciuti. Chi soffre di disturbi psicosomatici presenta sintomi reali e fastidiosi, che possono influenzare la vita di tutti i giorni, provocando dolore e sofferenza.Ciò che accomuna i diversi disturbi psicosomatici è il fatto che la loro comparsa (o l’intensificazione dei sintomi) coincide con i momenti psi-cologici negativi di affaticamento, ansia e stress. Le malattie della pelle, ad esempio, sono fra quelle che più frequentemente hanno una causa psicosomatica. Il motivo non è noto.

La psoriasi: gratta gratta, ma non ti passa”.Così è per la psoriasi, una malattia caratterizzata dalla comparsa di chiaz-ze pruriginose sulla pelle. Non è una malattia contagiosa e, anche se si tocca la pelle della persona malata o gli oggetti da lei utilizzati, non si ri-schia di contrarre la psoriasi. Più di un milione di italiani soffre di psoriasi. La psoriasi che colpisce in uguale misura i due sessi, può manifestarsi

psoriasi: una malattia psicosomatica?

Le malattie psicoso-matiche sono quelle che compaiono quando si è sottopo-sti a tensione conti-nua, a stress, ma in esse il più delle vol-te, è compresa una componente fisica. La psoriasi è una malattia caratterizza-ta dalla comparsa di chiazze pruriginose, sulla pelle. Non esi-ste una cura risoluti-va, ma si può tenere sotto controllo. Le zone del corpo che possono essere colpite dalla psoriasi sono molte. Sono raffigurate

in rosso quelle più a rischio e in verde quelle soggette alla malattia, ma più raramente.

Il maggior disturbo è il prurito.

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intorno ai 20 anni, per poi decrescere lentamente; però può rivelarsi an-che nell’infanzia e nell’età avanzata. È una malattia piuttosto diffusa e in notevole aumento, colpisce fra l’1,5 ed il 3% della popolazione dell’Eu-ropa occidentale, Si tratta di una malattia cronica (cioè sempre presente e difficile da debellare completamente), che alterna periodi di remissione (in cui i sintomi scompaiono) a periodi in cui i sintomi sono molto evi-denti, cioè ha un decorso cronico-recidivante.Esistono più tipi di psoriasi, a seconda delle caratteristiche delle chiazze pruriginose che la caratterizzano e delle zone della pelle colpite.Ma, che cos’è la pelle? Come è fatta? La pelle, o cute, è un organo che ricopre la superficie del nostro corpo verso cui ha essenzialmente funzio-ne di protezione. La pelle è formata da una porzione esterna chiamata epidermide, costituita da più strati di cellule; da componente sottostante chiamate derma, ricca di capillari sanguigni.

Come nasce ? Le cause della psoriasi non sono ancora chiare. Il nome di questa ma-lattia deriva dal latino “psora”, che significa squama. Si presenta, infatti, come chiazze pruriginose ricoperte di squame biancastre che poi si sfal-dano. In particolare, è caratterizzata da un eritema, cioè da un’irritazione della pelle contraddistinta da un arrossamento dovuto ad un maggiore afflusso di sangue alla rete dei capillari che irrorano il derma e da un aumento delle cellule dell’epidermide (lo strato più superficiale della pelle) e conseguentemente desquamazione. In pratica: l’aumento della riproduzione delle cellule epiteliali fa sì che l’epidermide stessa si rinnovi velocemente desquamandosi in 4-5 giorni (un’epidermide sana esegue il suo ricambio in 20-28 giorni). È allora che l’eritema sottostante, di colore rosso vivo, si rende visibile parzialmente solo lungo il perimetro a mano a mano che le caratteri-stiche squame di colore bianco argento si desquamano, mettendo in evidenza chiazze di dimensioni variabili (da pochi millimetri a qualche centimetro o di più vaste dimensioni).I dermatologi sono impegnati da anni nella ricerca di una risposta a questa eccessiva proliferazione, ma ancora i pareri sono discordi. Solo ipotesi, ma recentemente è stato dimostrato il coinvolgimento di alcuni meccanismi legati al sistema immunitario il quale, anziché difendere l’or-ganismo da agenti esterni, reagisce contro l’organismo stesso attaccando i propri organi ed apparati (in questo caso la pelle) con un meccanismo simile a quello delle malattie autoimmuni e che potrebbero essere alla base della comparsa e dell’automantenimento della psoriasi.Chi soffre di psoriasi nasce più portato, cioè predisposto, a svilupparla rispetto agli altri. Questa predisposizione è familiare e colpisce più facil-mente chi ha parenti stretti che soffrono di questo disturbo.Per diagnosticare la psoriasi è sufficiente sottoporsi ad una visita da uno specialista in dermatologia, poiché anche le sole macchie possono rive-larne la presenza. La medicina tradizionale propone diversi rimedi per attenuarne i sintomi, ma la cura definitiva non esiste ancora.

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Vari tipi di psoriasi.Esistono più tipi di psoriasi, a secon-da delle caratteristiche delle chiazze pruriginose che la caratterizzano e delle zone della pelle colpite.Le zone del corpo dove più facilmen-te e frequentemente compaiono le chiazze della psoriasi sono quelle ricoperte dai capelli, la regione lom-bosacrale, i gomiti, le ginocchia e,

prediligendo le cosiddette porzioni flessoria della pelle: il polso, il palmo delle mani, la pianta dei piedi, le pieghe ascellari, il solco fra i glutei, ecc. Secondo le caratteristiche delle chiazze e delle zone della pelle colpite si possono distinguere diversi tipi di psoriasi. Nel tipo più diffuso di psoriasi, le chiazze pruriginose sono coperte da squame biancastre che si sovrappongono in più strati. In un altro tipo di psoriasi si presentano delle piccole vescicole che s’intravvedono sotto lo strato corneo della pelle, poi via via che salgono in superficie, le vescicole si desquamano. Un altro tipo di psoriasi colpisce soprattutto le persone giovani spesso dopo un’infiammazione (per esempio alle tonsille e causata dallo strep-tococco) e le chiazze che causano prurito hanno una forma di goccia e si trovano sul dorso. Altre volte, invece, le placche sono ricoperte di squame e di piccole dimensioni, ma possono unirsi fino a formare una placca unica o interessare vaste zone del corpo ecc.

Cause e fattori scatenanti.Se le origini non sono note, alcuni fattori che concorrono a determinare la comparsa o la riacutizzazione della psoriasi sono conosciuti da tempo, ma il meccanismo con cui agiscono non è del tutto chiaro. Per esempio piccoli continui traumi su di una determinata zona del corpo (abrasioni, escoriazioni, sfregamenti, tatuaggi, punture d’insetto) possono far com-parire sulla pelle le classiche lesioni tipiche della psoriasi.L’abitudine di grattarsi molto in certe zone del corpo, gli stessi graffi del pettine favoriscono la psoriasi in testa; come anche l’abitudine a rimane-re appoggiati a lungo sui gomiti. Ne sono responsabili, ad esempio:certe infezioni soprattutto quelle causate da streptococchi che interessano le alte vie respiratorie (è il caso di tonsillite o di morbillo); gli ormoni, in concomitanza con periodi della vita in cui gli ormoni stessi giocano un ruolo importante, come nella pubertà o nella menopausa. Può determi-nare la comparsa o la riacutizzazione della malattia l’uso di: certi farmaci come i betabloccanti (somministrati per abbassare la pressione); i sali di litio (psicofarmaci usati per la cura della depressione); preparati iodati (usati come mezzo di contrasto nelle radiografie); farmaci antinfiamma-tori steroidei (utilizzati per i dolori alle articolazioni); ecc.La psoriasi peggiora in caso di disordini metabolici, come quando si è carenti di calcio o quando ci si deve sottoporre a dialisi. Si è notato che la

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psoriasi tende a riacutizzarsi in casi di particola-re emotività. Nelle persone adulte, infatti, anche lo stress è (in un’elevata percentuale di casi) un fattore scatenante. È stato dimostrato che circa il 70% delle persone con psoriasi ha avuto uno stress di notevole entità (stress intensi legati al lavoro, forti dispiaceri, preoccupazioni varie) nei mesi che hanno preceduto l’inizio della pso-riasi o il suo aggravamento. Ripeto, il ruolo dei fattori neuro-psichici nello scatenamento nelle recidive non è del tutto chiarito, anni di test do-cumentati hanno dimostrato il collegamento fra psoriasi e stress.

Perché tanta importanza allo stress?Lo stress e la tensione, come abbiamo già accennato, rappresentano i fattori scatenanti di numerosi casi di psoriasi. La psiche può modulare cioè variare la produzione delle endorfine (so-stanze che vengono liberate dal cervello e che fungono da tranquillanti naturali) e dei neurotrasmettitori (che permettono alle cellule nervose di comunicare tra loro).Entrambe queste sostanze controllano anche funzioni come il sonno, l’appetito, la liberazione di energia ed influiscono sul sistema di difesa dell’organismo, rendendo più attive alcune cellule. Un’alterazione della loro produzione potrebbe ridurre le difese naturali ed attaccare altri ap-parati del nostro organismo.

Un’affascinante teoria per noi biologiTenta di spiegare la stretta relazione che esiste fra il sistema nervoso (e quindi anche la mente) e la pelle e che tiene conto dell’origine comune di questi apparati durante lo sviluppo dell’embrione.La pelle ed il sistema nervoso, infatti, si formano durante lo sviluppo embrionale del medesimo tessuto, l’ectoderma. Si tratta quindi di due apparati con un’origine comune e perciò direttamente legati fra loro du-rante la vita adulta.

Le cureNonostante la ricerca continui a studiare le cause della psoriasi, ancora oggi i meccanismi che la regolano, come si è detto, non sono chiari. Pertanto, non essendo possibile interferire sui meccanismi genetici della malattia, i trattamenti dotati di reale efficacia si basano sulla possibilità di influenzare in maniera diretta o indiretta i meccanismi che regolano il ri-cambio cellulare dell’epidermide, il cui anormale aumento è direttamen-te responsabile delle manifestazioni della dermatosi nelle varie zone del corpo. Ma, come per tutte le malattie che presentano un risvolto psicolo-

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gico, è importante che fra medico e malato s’instauri un libero rapporto di dialogo e di fiducia che permetta alla persona di esternare ogni suo problema; al dermatologo di affrontare ogni aspetto della malattia. Solo così il trattamento non si limiterà ad un momentaneo miglioramento dei sintomi, ma mirerà a ridurre il rischio di recidive. Una volta preso atto della situazione, il medico valuterà quali soluzioni adottare in base al tipo di psoriasi. Le cure possono riguardare: dei trattamenti leggeri, a base di creme ed unguenti da applicare sulle parti colpite dalla malattia; la foto-terapia, che sfrutta i raggi ultravioletti, sia naturali (il sole) sia artificiali (gli UVB delle lampade); i farmaci, per i casi più seri. In quest’ultimo caso i diversi mezzi e le diverse sostanze mirano tutti a: togliere le squame (si usano in genere i cheratolitici, come la vaselina salicilica); creme a base di catrame minerale, cortisone; derivati della vitamina D e della vitami-na A; il methotrexate; ecc..

Ad ognuno la sua.Dato che la psoriasi è una malattia con base genetica, non esiste una vera e propria cura, adatta indistintamente a tutti. Esistono invece tratta-menti che permettono di tenere sotto controllo la malattia: trattamenti locali; sistemici (per bocca o tramite iniezioni), anche l’alimentazione può influire in qualche modo sull’aggravamento della psoriasi.La psoriasi è una malattia a predisposizione genetica, quindi eredita-ria, che però si manifesta come malattia vera è propria solo in una parte delle persone predisposte, Perché questo accada è infatti necessaria la presenza di fattori scatenanti, più o meno sconosciuti, che possono in-tervenire in qualsiasi momento della vita.

Un aiuto dalla fototerapiaL’esposizione ai raggi Uv è utile in alcune forme di psoriasi.Per tenere sotto controllo la malattia oggi si può contare su nuove tecniche che vanno ad affiancare le cure più tradizio-nali. Ma anche l’alimentazione.

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La malattia di Alzheimer compare generalmente dopo i cinquant’anni e, prima che si trasformi in una forma così seria da rendere inutile ogni intervento per rallentarne il decorso, passano in genere una decina di anni. Un tempo lunghissimo per chi ne soffre ed anche per la famiglia, che deve imparare a convivere con il quotidiano tentativo di tenere in-sieme il più a lungo possibile la memoria e le capacità di comprendere il proprio caro.

I segnali d’allarme.Con il normale avanzare dell’età le cellule cerebrali diminuiscono di nu-mero e di dimensioni e, quindi, anche l’efficienza cerebrale diminuisce. Nell’invecchiamento normale, in linea generale si conserva la memoria a lungo termine (quella che fa ricordare gli episodi del passato), mentre la memoria a breve termine sparisce del tutto ma all’inizio in maniera subdola, cioè difficilmente rilevabile. Sono sintomi interpretati come una confusione tipica dell’età avanzata.In realtà andrebbero subito comunicati dai familiari al medico. Quando ci si accorge dei sintomi, in genere la malattia è già presente da tempo, in media da uno o da due anni. La diagnosi precoce è infatti considerata come uno dei principali obiettivi della cura. Iniziare per tempo il tratta-mento è fondamentale ai fini dei risultati della cura.

Che cosa succede nel cervello ?La malattia di Alzheimer è stata descritta per la prima volta da un neuro-logo tedesco, Alois Alzheimer nel 1907, viene indicata come “demenza degenerativa”, in quanto porta ad una degenerazione dei neuroni.L’Alzheimer è un processo che distrugge lentamente, progressivamen-te le cellule responsabili delle attività cerebrali, i neuroni appunto, e, di conseguenza, provoca la perdita delle capacità mentali e motorie. Acca-de, infatti, che i neuroni che comunicano fra di loro attraverso sostanze chimiche, perdono progressivamente la capacità di comunicare e, di conseguenza, la capacità di trasmettere al corpo i messaggi delle funzioni da svolgere.

Un processo distruttivoNelle persone colpite dal morbo di Alzheimer, ai di-sturbi mentali corrispondono precise lesioni anato-miche a carico soprattutto del cervello con: 1) for-mazioni di placche caratteristiche disseminate nel cervello all’esterno dei neuroni, derivate dall’accu-mulo di una particolare sostanza gelatinosa, detta proteina beta-amiloide che, sostituendosi al tessuto cerebrale ne rallenta la funzionalità e rende sempre più difficile il trasporto degli elementi nutritivi alle cellule, provocandone la morte; 2) la formazione di

alzhEimEr: il difficilE ViaGGio VErso l’oblio

E’ stata chiamata la “malattia del lungo avvio”, perché de-termina una lenta ma progressiva per-dita dei contatti con la realtà quotidiana, con i propri ricordi, il mondo interiore, fino all’abbandono totale, alla comple-ta irresponsabilità della persona.

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piccole fibre di nuova costituzione, che si intrecciano a formare come dei piccoli gomitoli (si parla di “degenerazione neuro-fibrillare”); 3) si creano delle bolle più o meno grosse nel tessuto nervoso, che tende così a frammentarsi (si parla di “degenerazione vacuolare”); 4) si ha una perdita progressiva di cellule nervose di zone del cervello (sedi delle funzioni più nobili, come la memoria, la concentrazione, l’orientamento, ecc…). Per questo motivo si dice che l’Alzheimer è un tipo di demenza senile caratterizzata dalla degenerazione del tessuto cerebrale, con un progressivo deterioramento di tutte le funzioni mentali.

Meccanismo scatenanteAncora non si conosce esattamente il fattore che è in grado di scatenare la malattia. Si sa, però, che il cervello colpito da demenza va incontro ad “atrofia”, cioè si riduce di volume, a causa della morte di molte cellule nervose (neuroni) in zone che controllano i circuiti della memoria, quelli del linguaggio, quelli preposti all’uso degli oggetti, ecc. In un cervello colpito da Alzheimer si vanno accumulando depositi di materiale “tossi-co” sia fuori dai neuroni (sostanza beta-amiloide), sia dentro (sostanze neuro-fibrillare). Probabilmente questi depositi sono favoriti dall’ad-densarsi di radicali liberi (responsabili dell’invecchiamento delle cellu-le), che aumentano la tossicità di questo materiale oltre che all’elevata concentrazione di metalli quali rame, ferro, alluminio. In caso di malattia infatti, si riducono progressivamente i contatti (sinapsi) fra le cellule nervose, che non solo regolano il nostro comportamento, ma che sono quell’enorme circuito attraverso il quale nel cervello si creano e si depo-sitano ricordi, opinioni e conoscenze. Questo accade perché vengono a mancare i “neurotrasmettitori”, cioè quelle sostanze chimiche che sono alla base della trasmissione nervosa, fra le quali l’acetilcolina. Infine, sono presenti in quantità eccessive sostanze (quali il glutammato), che provocano un’esagerata attività delle cellule nervose, portandole presto alla degenerazione.

Quali fattori possono provocare la malatia.I medici hanno notato che alcuni fattori presentano una certa interdipen-

denza con questa malattia. I principali sono: traumi cra-nici violenti (con stati di coma o di prolungata amnesia) nel corso della vita; familiarità per demenze (fra genitori, nonni, zii, ecc..), associata alla presenza di particolari al-terazioni genetiche (che oggi si possono evidenziare ed esaminare con un semplice prelievo di sangue); bassa scolarità (nel senso di uno scarso “uso” delle proprie fun-zioni cerebrali). Ci sono inoltre altre cause che, però, non sono state correlate con certezza con questa malattia: una scarsa attività fisica nel corso della vita; l’abuso di alcolici e stupefacenti.

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La diagnosi non è immediata, anzi…Come si fa a capire se una persona è affetta da malattia di Alzheimer, soprattutto nella fase iniziale? Quella di Alzheimer è una diagnosi per esclusione: il medico, cioè, esclude prima di tutto ciò che non riguarda la demenza e poi tutte le altre forme di questo disturbo (su base vasco-lare, tumorale, infettiva, alcolica…). Solo a questo punto potrà ipotizzare la presenza della malattia. I sintomi all’inizio sono vaghi. La malattia si instaura definitivamente in un arco di tempo che va dagli 8 ai 10 anni. I primi sintomi sono molto vaghi e generici e possono essere comuni ad altre malattie neurologiche come, per esempio, la difficoltà a ricordarsi di alcuni eventi recenti o di trovare le parole giuste per esprimere un pen-siero. I successivi sintomi si concretizzano più o meno in tre fasi: all’ini-zio si verifica una perdita progressiva della memoria, prima delle cose più recenti poi globale, con una diminuita capacità di fare riferimento ai comuni oggetti della vita quotidiana. Più esattamente, il malato di Al-zheimer non ricorda il nome degli oggetti più comuni; può dimenticare dove abita, come si chiama; ripone le sue cose nei posti sbagliati, ecc. Si aggiunge come uno stato confusionale, iniziano le prime difficoltàa camminare e ad esprimersi. A poco a poco, il malato comincia a non riconoscere più i familiari, fa fatica a mangiare da solo ed a muoversi in modo autonomo, diventa così dipendente in modo totale dagli altri ed ha bisogno di assistenza continua. Uno dei maggiori problemi del mor-bo di Alzheimer è pertanto, la difficoltà della sua diagnosi. Al momento, infatti, non esistono metodi diretti in grado di far vedere le placche che si formano nel cervello né esami capaci di rivelarne la presenza in modo indiretto. Proprio per questo si sta cercando di individuare, per esempio, marcatori (i marcatori sono sostanze di facile misurazione che permettono di individuare la presenza di una malattia prima che ne sia-no evidenti i sintomi) che permettano di identificare l’accumulo della proteina beta-amiloide prima che compaiano i sintomi della malattia. Probabilmente, diverrà sufficiente un semplicissimo esame del sangue o un prelievo del liquor cerebrospinale (cioè del liquido trasparente che si trova nel cervello e nel midollo spinale).

Le cause.Si sta facendo sempre più probabile l’ipotesi di un’origine genetica della malattia di Alzheimer. Il rischio, infatti, aumenta nei familiari di primo grado di persone già malate (figli, fratelli, sorelle, ecc.). Probabilmente sono in gioco anche fattori ambientali (esterni). Accennavo prima a traumi della testa (soprattutto se ripetuti, una categoria a rischio sono, per esempio i pugili); l’esposizione cronica all’alluminio, al silicone; il danno può provenire dai radicali liberi; da frammenti di virus. Un’ipo-tesi più recente attribuisce l’origine della malattia di Alzheimer ad un “disturbo dei processi immunitari”.Sono stati trovati, infatti, nel sangue degli ammalati di questo tipo degli anticorpi diretti contro alcune piccole fibre del cervello.

Il cervello si atrofizza.In Italia sono circa 600mila i casi accerta-ti di Alzheimer, che fu descritto per la prima volta nel 1906 da Alois Alzheimer. Nelle fasi della ma-lattia, la progressiva povertà cellulare si traduce in un’atrofia, in un assottigliamento della corteccia cerebra-le su un’area sempre più vasta (la zona che appare bianca, sopra, nelle immagini a colori artificiali, ottenute con la risonanza magne-tica).

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Per saperne di più: come funziona il sistema ner-vosoIl sistema nervoso si divide in: - centrale, costituito dal cervello e dal midollo spinale; - periferico, costituito dai nervi che percorrono tutto l’organismo, coordinando le funzioni di ogni parte del corpo. Questi fungono da tramite tra il cervello, i muscoli e gli organi in entrambe le direzioni. In pratica, trasmettono gli ordini che il cervello impartisce a muscoli e organi, ma ricevono anche i messaggi provenienti dall’esterno o da un organo e li inviano al cervello che li elabora.Il sistema nervoso centrale è formato da tre tipi di cellule: - i neuroni, le cellule più importanti per la funzionalità del cervello; - le glia, cellule che fanno da “supporto” ai neuroni: producono nutrimento (fattori di crescita) per le cellule neurali (funzione trofica), e le difendono (funzione protettiva); - le microglia, cellule immunitarie specifiche per la difesa del cervello.

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Rivediamo rapidamente di che cosa si tratta.Sappiamo già che l’Alzheimer è una malattia caratterizzata da una lenta e pro-gressiva degenerazione delle cellule che costituiscono il cervello, i neuroni, re-sponsabili delle attività cerebrali e, di conseguenza, compromette seriamente la memoria, la capacità di pensare, di parlare, di capire, con cambiamenti repentini di umore e disorientamento nello spazio. Tuttavia, nonostante la somiglianza dei sintomi con altri tipi di demenza, l’Alzheimer si differenzia per alcune anomalie che compaiono a livello del cervello e che consistono: in una notevole riduzione della corteccia cerebrale; nella presenza di alcune lesioni; nell’accumulo di una proteina, chiamata beta-amiloide, sotto forma di placche che si formano sulle terminazioni nervose; nella generazione di una particolare sostanza all’interno delle cellule stesse detta proteina Tau.Come conseguenza di tutto questo, nelle persone colpite dalla malattia, si verifica quella riduzione delle capacità cognitive, di giudizio, di comportamento e di me-moria, a cui si accennava. Con il tempo, il malato va incontro ad una progressiva perdita dell’autonomia, fino a quando, nei casi più seri, la persona deve essere seguita 24 ore al giorno dai familiari oppure da personale specializzato.Abbiamo anche visto che si tratta di una malattia destinata ad aumentare con-siderevolmente nei prossimi anni, a causa soprattutto della maggiore longevità della popolazione. La malattia di Alzheimer è un “disturbo” che ha un grande impatto sulla qualità della vita delle persone che ne sono colpite e per la società. Spesso comincia a manifestarsi con comportamenti in apparenza non preoccu-panti; quando però, durano nel tempo, è bene non trascurarli e rivolgersi allo specialista. Fino ad oggi non è stato possibile stabilire quali cause provochino la comparsa dell’Alzheimer, anche se è stato accertato che il più importante fattore di rischio è l’età avanzata.

Come si scopre. Gli esami utili.Per diagnosticare l’Alzheimer, poiché non esiste un esame specifico, si va per

Preso in tempo si può anche frenare, ma a che prezzo!

l’alzhEimEr è la più frEQuEntE forma di dEmEnza nEi paEsi occidEntali

Seconda parte: altri aspetti del problema.

E’ un disturbo che spesso si manifesta con conportamenti in apparenza non preoccupanti: quando, però, durano nel tempo è bene non trascurarli e rivolgersi allo specialista.

I primi sintomi della malattia di Alzheimer sono vaghi e comuni ad altri disturbi.

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esclusione ed è necessario eseguire alcune indagini che permettono una va-lutazione neurologica ed includono “test psicologici” per le funzioni cerebrali più precocemente colpite (per esempio: memoria, linguaggio, calcolo, ecc.). Il medico può ritenere opportuno richiedere una serie di esami (per esempio, del sangue e delle urine) per escludere altre malattie che potrebbero aver causato uno stato di demenza. La possibilità di diagnosi richiede anche esami strumen-tali che permettono di controllare in modo del tutto innocuo, il cervello. E’ im-portante sottoporre il malato ad esami che evidenzino la struttura del cervello: per esempio, la Tac (che fornisce tramite raggi X immagini tridimensionali); la Risonanza magnetica nucleare o (RMN), attraverso la quale lo specialista è in grado di escludere la presenza di altre cause (come la raccolta di sangue dovuta

alla rottura dei vasi sanguigni, quindi di un ematoma oppure di un tumore del cervello, o anche di misurare il volume delle parti del cervello più a rischio e della loro attività elettromagnetica; la Pet, che, attraverso la somministrazione endo-venosa anche di un mezzo di contrasto (mdc), fornisce un’immagine radiologica istantanea della funzionalità dell’organo in esame e consente di rilevare precoce-mente il grado di accumulo della sostanza beta-amiloide; l’elettroencefalogram-ma con metodi computerizati, può analizzare l’attività delle aree cerebrali.

L’Alzheimer riduce l’autonomia del malato.In caso di malattia possono comparire anche comportamenti antisociali (per esempio, aggressività verso gli altri) in persone che sono sempre state corrette per tutta la loro vita. Si può avere, inoltre, un’inversione dei ciclo del sonno (di giorno) veglia (di notte) e una tendenza al vagabondaggio (cioè uscire di casa senza un fine preciso e vagare tutto il giorno senza alcun motivo e a muoversi in continuazione nel proprio ambiente, proprio come una tigre in gabbia.Purtroppo la malattia avanza inesorabilmente, riducendo in modo progressivo l’autonomia della persona, che deve, quindi, dipendere sempre di più, e per cose sempre più elementari, da altri (negli stadi avanzati della malattia anche per le proprie funzioni fisiologiche, per l’espletamento dell’igiene personale, per la nutri-zione, per vestirsi e svestirsi, ecc.). Oggi, grazie al miglioramento dei trattamenti ed alla diagnosi sempre più precoce, una persona riesce a “vivere”, dall’inizio della malattia 10-12 anni e anche più.

Le cure.La medicina non ha ancora trovato il farmaco in grado di prevenire o guarire l’Al-zheimer, quindi una cura vera e propria non è disponibile. Si possono solo utiliz-zare farmaci che aiutano a controllare i sintomi e migliorarli o a stabilizzarli per un certo periodo. Poiché la malattia di Alzheimer si basa sull’ipotesi che i disturbi della memoria siano dovuti ad una graduale diminuzione del neurotrasmettito-re, l’acetilcolina cerebrale (se ce n’è poca, i sistemi che dipendono da questo neurotrasmettitore, come la memoria, funziona male) per molto tempo è stato utilizzato un gruppo di farmaci che bloccano l’attività della colinesterasi (i cosi-detti farmaci inibitori della colinesterasi), cioè dell’enzima che ha il compito di distruggere l’acetilcolina. Se si blocca questo enzima, l’acetilcolina può svolgere la sua attività per tempi più lunghi, anche se la quantità in cui viene prodotta dal

Le cure disponibili possono solo rallentare la progressione della malattia

Le cellule nervose mala-te hanno un enzima che distrugge l’acetilcolina, la cui carenza è una del-le cause dell’Alzheimer. L’azione dei nuovi farmaci inibidisce l’enzima: l’acetilcolina non viene distrutta.

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nostro organismo è ridotta (come appunto si verifica nella malattia di Alzheimer). Lo scopo di queste medicine è di lasciare a disposizione delle cellule nervose ancora in funzione la maggior quantità possibile di acetilcolina. In questo modo si cerca di assicurare un maggior flusso di informazioni tra una cellula e l’altra. Sono medicine utili soprattutto nella fase iniziale della malattia, quando sono ancora poche le cellule nervose compromesse. Anche per questo motivo, quindi, è im-portante che la diagnosi venga fatta prima possibile. Farmaci più recenti agiscono sui sintomi che riguardano le funzioni cognitive ed i disturbi del comportamento aiutano se pure di poco a rallentare il peggioramento della malattia; altri farmaci da poco disponibili, bloccano l’azione del glutammato (una sostanza che eccita in eccesso le cellule nervose e le porta alla degenerazione). Ma la registrazione, quindi la sperimentazione di alcuni di questi farmaci è ancora troppo vicina per avere dati sufficientemente validi per stabilire l’effettiva validità del farmaco sul-la qualità di vita del paziente. Le nuove frontiere in ogni caso tendono allo studio di un vaccino contro la beta-amilode (sul quale si concentrano le speranze di molti specialisti), e farmaci che possono bloccare il deposito di queste ed altre sostanze tossiche ed evitare così la degenerazione delle cellule nervose.

Le persone a rischio.Al di fuori di pochissimi casi in cui la malattia è dovuta ad un errore genetico ere-ditario, non esistono prove sicure che alcune persone, più di altre, siano destina-te ad ammalarsi. L’Alzheimer, normalmente non è ereditario, la sua causa non è da ricercarsi nel patrimonio genetico ereditato dai genitori, se non in un numero limitato di casi in cui la malattia si manifesta, comunque, sotto i cinquant’an-ni. Avere nella propria famiglia un malato di Alzheimer non significa, dunque, essere destinati ad ammalarsi. Tuttavia i ricercatori hanno scoperto l’esistenza di un gene che può aumentare il rischio proprabilità della malattia. Non esiste ancora un test per scoprire in anticipo se una persona è destinata ad ammalarsi di Alzheimer; ci sono persone, infatti, che pur avendo il gene prima accennato, sono vissute sane fino a tarda età, proprio come altre che non l’avevano e, invece hanno sviluppato la malattia.

Quando sono utili le cure?I farmaci attualmente disponibili per rallentare l’avanzamento della malattia sono gli inibitori della acetilcolinesterasi. Si tratta di sostanze che inibiscono l’azione di un enzima che distrugge l’acetilcolina (uno dei composti chimici che, come abbiamo detto, nel cervello fanno passa-re le informazioni da una cellula nervosa all’altra). Lo scopo di queste medicine è di lasciare a disposizione delle cellule nervose ancora in funzione la maggior quantità possibile di informazioni tra una cellula a l’altra. Sono medicine utili so-prattutto nella fase iniziale della malattia, quando sono ancora poche le cellule nervose compromesse. Anche per questo motivo, quindi, è importante che la diagnosi venga fatta prima possibile.

Affrontando l’Alzheimer ai primi sintomi, la cura darà migliori risultati.

É molto importante che l’ambiente che circonda il malato di Alzheimer sia calmo e sereno.

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La riabilitazione cognitiva.La cura riabilitativa oggi è a carico della famiglia, perché una malattia come l’Alzheimer non prevede servizi di que-sto tipo per gli alti costi a carico delle strutture pubbliche.La riabilitazione cognitiva aiuta a mantenere efficien-te quel residuo di attività cognitiva ancora presente nel malato, attraverso esercizi studiati apposta sui problemi del malato. Sono esercizi che richiedono un allenamento mnemonico, che tenga il paziente a contatto con la realtà. L’elaborazione del percorso di cura e degli esercizi avvie-ne ad opera di un’equipe di specialisti. Questi trattamenti sono utili fino a quando il cervello ha risposte cognitive. Alla luce delle attuali conoscenze, nella fase più avanzata

non servono a nulla.

Assistenza: un grande problema sociale ed umano.La cosa più straziante per chi convive con un malato del morbo di Alzheimer è assistere giorno per giorno, alla lenta distruzione di una persona cara che si dissolve, perdendo memoria di sé, della propria vita e di tutto quello che le stava a cuore.La grande maggioranza dei malati di demenza non richiede particolari cure me-diche, salvo la prescrizione di qualche farmaco. Il vero nodo è assistenziale, con-nesso con la perdita di autosufficienza. Ma i servizi di supporto (aiuto domestico, centri diurni) sono oggi in Italia ancora gravemente insufficienti.I costi dell’assistenza, sono in buona parte sostenuti dai familiari dei malati e la sopravvivenza di questi ultimi è in media 7-10 anni dal primo manifestarsi della malattia. Il fardello che grava su chi deve affrontare un caso di demenza in famiglia è quindi enorme: un aiuto importante può essere trovato attraverso il contatto con una delle numerose associazioni di malati e familiari oggi in gran parte affiliate alla Federazione delle associazioni Alzheimer esistenti in Italia.Solo in alcune realtà territoriali funzionano unità valutative e centri specializzati in grado di programmare un piano assistenziale globale a domicilio. Altrove tutto, o quasi, è affidato ai familiari, ai vicini di casa, al volontariato o al privato. Con costi economici ed umani che impongono enormi sacrifici.

Fino ad ora, c’è molta teoria.Chi si occupa di assistere un malato di Alzheimer deve essere consapevole del fatto che qualsiasi descrizione della malattia (sui libri e su riviste mediche), non risponderà mai precisamente alla propria situazione personale e che nessun malato svilupperà la malattia in maniera identica.Generalmente, l’evoluzione dell’Alzheimer viene classificata in 3 stadi di serietà crescente (iniziale, intermedia, terminale), tuttavia un comportamento menzio-nato nello stadio terminale della malattia potrebbe presentarsi anche nella fase intermedia. Inoltre è bene che chi assiste il malato sappia che possono compari-re, in qualsiasi stadio, anche alcuni momenti di lucidità.

L’incidenza della malattia di Alzheimer aumenta con l’avanzare dell’età.

La ricerca compie ogni giorno progressi per trovare le cure per l’Alzheimer.

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E’ una malattia che colpisce due persone.Si dice che la malattia di Alzheimer sia un male che colpisce due perso-ne: il malato e chi lo assiste. Per il malato rappresenta un lungo declino, un graduale deterioramento della memoria e delle capacità cognitive. Per chi lo assiste è una lunga salita, sempre più faticosa, vicino ad una persona sempre meno autonoma e sempre più lontana dalla realtà.A queste persone la medicina attuale può offrire ben poco aiuto: non esistono cure efficaci, l’assistenza pubblica non ha strutture da offrire per un male che, con l’invecchiamento della popolazione, è in continuo aumento (il 10% della popolazione con oltre 65 anni d’età) e l’assistenza privata ha costi proibitivi.

A quando il vaccino?Un altro aspetto della lotta all’Alzheimer è rappresentato, come si è detto, dal vaccino del quale si è parlato molto ad alto livello, anche con toni contrastanti. Le speranze iniziali, infatti, sono state attenuate dalla notizia della sospensione della sperimentazione del primo vaccino anti-Alzheimer (costituito da una porzione della proteina da cui deriva la sostanza beta amiloide), a causa degli effetti inde-siderati che si sono verificati. Ma: vaccino, ancora un nuovo farmaco e tecniche per la diagnosi precoce, sono le speranze concrete che nel prossimo futuro potranno aiutare a combattere questa malattia.

A chi rivolgersi Per avere maggiori informazioni sull’Alzheimer e le sue cure Associazione Italiana malattia di Alzheimer. Segreteria nazionale, telefono 02/89406254. E’ disponibile anche un numero verde: 800/37133 chia-mare dalle 10,00 alle 13,00 e dalle 14,00 alle 18,00 dal lunedi al venerdi). Federazione Alzheimer Italia (riunisce tutte le associazioni Italiane), sede nazionale, telefono:02/809767, Milano: sito internet www.alzheimer.it

I familiari devono aiutare al malato ad esercitare la memoria e a mantenere il contatto con la realtà.

Diverse ricerche hanno dimostrato che il livello di scolarità è inversamente proporzionale alla comparsa dell’Alzheiner: chi è arrivato a laurearsi ha minore probabilità di ammalarsi rispetto a chi ha interrotto precocemente gli studi.

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L’influenza è una malattia che colpirà anche quest’anno come ac-cade tutti gli anni. E, proprio perché è una malattia “stagionale” viene spesso sottovalutata e ritenuta più che altro un fastidioso contrattempo che costringe a letto qualche giorno. In realtà, inve-ce, l’influenza può dare serie conseguenze, in alcuni casi anche letali. Fra le malattie infettive l’influenza è la terza causa di morte dopo l’Aids e la turbecolosi.

Che cosa è l’influenzaE’ una malattia infettiva provocata da virus che hanno la caratte-ristica di poter cambiare ogni anno: per questo gli anticorpi pro-dotti nel corso di una influenza non sono efficaci per proteggere da quella dell’anno seguente. Il virus, diffuso da chi ne è stato

contagiato, penetra attraverso le vie respiratorie, causando tra l’altro in-fiammazione di faringe, laringe e trachea. Le eventuali complicazioni in-teressano i bronchi e i polmoni.L’influenza è una malattia molto contagiosa causata da alcuni virus che appartengono al genere Orthomyxovirus e che vengono differenziati in tipo A - classificato poi in sottotipi in base alla presenza delle due pro-teine di superficie, l’emoagglutina (H) e la neuraminidasi (N); in tipo B e in tipo C. Per l’uomo, comunque, sono rischiosi soprattutto il tipo A e il tipo B, mentre il tipo C non dà in genere particolari problemi perché, a differenza dei primi due è poco aggressivo e non si modifica genetica-mente ogni anno.

Che cos’è un virusA questa domanda non è facile dare una risposta semplice ed esauriente. I virus sono delle particelle che non hanno alcune delle caratteristiche di una normale cellula vivente, ma sono capaci di provocare malattie negli esseri viventi, cioè sono (ma non tutti) degli agenti patogeni. Le loro dimensioni sono più vicine a quelle di una grossa molecola che a quelle di una cellula ed hanno come unità di misura il nanometro, cioè il miliardesimo di metro. I virus possono avere forma varie: ci sono virus di forma presocchè sferica, lineare, a forma di cubo o di poliedro; ecc. Tutti i virus sono costituiti da una sostanza chimica rappresentata da un acido nucleico (o solo RNA o solo DNA, mai da entrambi) e da alcune molecole di proteine, spesso aggregate in modo da conferire ad essi for-me eleganti. L’acido nucleico contiene l’informazione genetica necessa-ria per codificare, cioè per regolare la moltiplicazione del virus e rappre-senta il genoma del virus. Questo è racchiuso in un involucro proteico, cioè in una capsula, detta capside. Essa serve a proteggere il materiale ereditario ed a consentire l’adesione della particella virale a specifici re-cettori della membrana della cellula ospite (questo, è un concetto molto importante nel processo di trasmissione dei virus).I virus, per questa loro composizione elementare (materiale genetico, o genoma, più involucro protettivo, o capside, di natura proteica) potreb-bero rappresentare “la vita ridotta all’essenziale”. Ma non hanno alcun

influEnza una storia infinita

Anche se con gran-de disinvoltura giornali e televisione parlano di infezioni virali di ogni tipo (dalle più gravi e potenzialmente le-tali come l’Aids, al banale raffreddore o all’influenza), po-chi sanno davvero che cosa è un virus come è fatto che cosa lo rende diver-so da un batterio; o quali sono le sue so-fisticate strategie per sopravvivere e ripro-dursi negli organi-smi che lo ospitano. Eppure questi agenti infettivi rappresenta-no per l’uomo una delle principali cause di malattie.

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tipo di struttura interna delimitata da membrane, non hanno un nucleo né un metabolismo proprio, non respirano, non producono energia, non sono capaci di sintetizzare le molecole proteiche delle quali hanno bisogno, non secernono sostanze particolari (per esempio enzimi), non producono sostanze di rifiuto da eliminare. Inoltre non sono in grado di riprodursi se non entrando in una cellula vivente della quale sfruttano le strutture, il metabolismo ed i meccanismi di sintesi (che loro mancano) per produrre nuovi virus. A prima vista i virus potrebbero es-sere considerati come delle particelle di materiale inerte, che si attivano soltanto quando riescono a penetrare in una cellula vivente.Ad una considerazione più attenta e soprattutto dopo la scoperta dal microscopio elettronico ci si è resi conto che i virus sono costituiti dalle stesse sostanze presenti in tutti gli esseri viventi (dagli acidi nucleici alle proteine) e, in particolare, posseggono del materiale genetico (gli acidi nucleici, appunto). Per questa loro composizione elementare, ma ben definita, e per conte-nere un piano riproduttivo codificato nel proprio materiale genetico, non è possibile considerare i virus soltanto come materiale inerte e come rappresentanti della “vita” ridotta all’essenziale. Potrebbero rappresen-tare semplicemente il mezzo di trasporto da una cellula all’altra di un messaggio: “riproducimi così”. Sono in genere degli agenti portatori di malattie, quindi potremmo anche considerare i virus come “cattive noti-zie” in un involucro proteico. Come vedremo, i virus invadono le cellule degli esseri viventi, perché solo così possono riprodursi e continuare la propria specie (il che è anche il fine ultimo per cui tutti gli esseri viventi si riproducono), e finiscono per trasformarle in vere e proprie “fabbriche” per la riproduzione di nuove forme virali. Infatti, i virus non posseggo-no il complesso macchinario biosintetico necessario alla vita autonoma (come invece tutte le normali cellule possiedono); hanno questa assoluta necessità: “possono moltiplicarsi soltanto all’interno di cellule viventi”. E, ripetiamo: per questa loro assoluta necessità di riprodursi all’interno di cellule viventi, vengono considerati come dei “parassiti obbligati”. Parassiti sì, obbligati sì, ma aggiungerei: ingegnosi, contraffattori e peri-colosi. Nemici pericolosi, dunque, ma “intelligenti”. E lo vedremo.

I virus influenzaliL’influenza è una malattia molto contagiosa causata da alcuni virus. Per quasi cent’anni la stessa comunità scientifica ha cambiato ripetutamente idea su che cosa fossero i virus. Il misterioso mondo dei virus venne finalmente svelato a partire dal 1938, con l’invenzione del microscopio elettronico e solo dopo l’acquisizione che i virus contengono del mate-riale ereditario, cioè genetico.Sono i virus responsabili delle epidemie e delle pandemie dell’influenza che colpiscono l’uomo. Sono più di uno, appartengono tutti alla famiglia degli Orthomyxovirus, hanno una composizione chimica ed una struttu-ra relativamente semplice. Si tratta di virus a RNA, di forma grossolana-

COME SI TRASMETTEL’influenza è una ma-lattia molto contagiosa, causata da virus.La sua trasmissione avviene da persona a persona per via aerea, attraverso le micro-scopiche goccioline emesse con i colpi di tosse o con gli starnuti, oppure anche, più sem-plicemente parlando o respirando.Ne consegue che è molto più facile essere contagiati quando si soggiorna in ambienti chiusi particolarmente affollati, dove il contatto con chi è infetto risulta inevitabile.Un disturbo da non sot-tovalutare, che per alcu-ne categorie di persone può rappresentare un rischio serio.Subito dal medico.

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mente sferica, di dimensioni abbastanza grandi (il loro diametro medio è di circa 80-100 nanometri, cioè miliardesimi di metro). Si possono distinguere tre tipi di virus influenzali: A, B; e C. Il virus influenzale di tipo A causa un’infezione più grave di quella indotta dal tipo B ed è quello capace di dare origine sia ad epidemie sia a pandemie nell’uomo, men-tre il virus di tipo C non sembra particolarmente patogeno per l’uomo. I virus di tipo A sono poi classificati in sottotipi, come vedremo, in base alla presenza delle due proteine di superficie, l’emoagglutinina (HA) e la neuraminidasi (NA).

Identikit di un virus influenzale di tipo AIl virus responsabile di questa malattia (e che qui abbiamo preso come esempio), come tutti i virus (e lo abbiamo già detto) ha una composizio-ne chimica ed una struttura molto semplice. La parte interna contiene il genoma, cioè il complesso di segmenti isolati (filamenti) di RNA; il tutto è racchiuso in una parte esterna, detta capside, costituita prevalente-mente da sostanze proteiche dette proteine di superficie, con funzione di protezione del materiale ereditario. In particolare due “proteine di su-perficie” sporgono come bastoncini e caratterizzano il virus dell’influen-za: l’emoagglutinina (HA) e la neuramminidasi (NA) che variano conti-nuamente negli anni. Il compito della HA è di permettere il legame del virus con specifici recettori presenti sulla superficie delle cellule umane. Dopo che il legame si è stabilito, il virus penetra nella cellula ospite ed è

tutt’altro che inattivo. Si libera dell’involucro, scopre i propri geni e induce l’apparato riproduttore della cellula a riprodurre il suo RNA (cioè quello del virus) e a fabbricare altre copie di proteine virali sulla base delle istruzioni contenute nel proprio genoma. Poi le nuove particelle virali si assemblano, cioè si riuni-scono e il gioco è fatto: si formano nuovi virus che possono a loro volta, infettare altre cellule. A questo punto il compito della neuramminidasi (NA), l’altro antigene virale, è semplice, ma importante: essa interviene sulla membrana cellulare facilitando il di-stacco dei nuovi virus, che possono così disperdersi e muoversi da una cellula all’altra delle vie respira-torie.La forza del virus dell’influenza sta nella capacità di rendere schiavo l’organismo nel quale s’insedia. Ne consegue che ogni cellula nella quale il virus penetra

si trasforma in una “fabbrica di virus” che si moltiplicano così a dismisu-ra, poi fuoriescono attaccando un’altra cellula. Fuoriuscita e dispersione sono favorite, dicevamo, dall’azione dell’altra proteina di superficie, cioè della neuraminidasi (NA). Nel loro trasferimento da un individuo all’al-tro, i virus neoformati viaggiano attraverso le gocce di saliva espulse con il respiro, la tosse e gli starnuti. Un aerosol, quindi, altamente contagioso specialmente se si è in ambienti chiusi ed affollati.

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Cambia ogni anno.L’influenza stagionale è una malattia diffusa in tutto il mondo ed ha una caratteristica parti-colare: cambia ogni anno: i virus influenza-li umani possono modificarsi annualmen-te, perché in situazioni ambientali particolari vengono a contatto con virus animali dalla cui unione può nascere un nuovo virus, modifica-to e più forte. Questa commistione si verifica soprattutto nei Paesi orientali dove le carenze igieniche fanno sì che il contatto uomo-ani-male sia più facile e, da qui, si diffonde in tutto il mondo. Ecco perché ogni anno la formula del vaccino anti-influenzale è diversa. Più il virus si modifica, più le manifestazioni diventano preoc-cupanti provocando, in alcuni casi vere e proprie epidemie (si ricordi la “spagnola” del 1918-19, o l’”asiatica” del 1957, ecc.

Perché non si diventa immuni.I virus influenzali, infatti si caratterizzano proprio per la loro instabilità, che comporta variazioni minori o maggiori del loro patrimonio genico. E sono queste modificazioni alla base del fatto che, ogni anno, si è a ri-schio di ammalarsi. Il sistema immunitario naturale, che come sappiamo difende la nostra salute, non è in grado di riconoscere le varianti del virus, cioè i nuovi antigeni. Viene chiamata antigene qualsiasi sostanza che, penetrata nel nostro organismo se viene riconosciuta come estranea dal nostro sistema immunitario, stimola la produzione di anticorpi allo scopo di renderci immuni dalla malattia che l’agente estraneo avrebbe potuto provocare in noi. Se il nostro sistema immunitario non riconosce i nuovi antigeni (quindi non è in grado di produrre i relativi anticorpi) non diventiamo immuni e ci buschiamo l’annuale influenza.

Prevenzione e cura dell’influenza stagionale.Attualmente, la vaccinazione antinfluenzale è il mezzo più efficace per prevenire e controllare la malattia. Il vaccino di quest’anno è ottenuto dall’insieme dei tre ceppi di virus, che si prevede possano colpire da noi. Chi abita come noi nell’emisfero Nord della Terra ha, infatti, un notevole vantaggio: ogni anno l’epidemia di influenza stagionale che arriva è il proseguimento di quella verificatasi durante l’inverno (cioè quando da noi è piena estate) nell’emisfero Sud. In pratica, quindi, con alcuni mesi di anticipo, si conoscono i virus che colpiranno nella successiva stagione invernale, quindi si ha il tempo di preparare “vaccini su misura”. Il pro-blema, però, è che, come si è visto, i virus influenzali possono mutare continuamente. Se ciò accade, il vaccino può diventare meno efficace contro la malattia. Aver fatto il vaccino, comunque, non è inutile, perché le varianti che possono giungere in Italia hanno la, probabilità di essere molto simili a quelle originali.

Come agisce il virus.Agganciatosi alla pare-te della cellula, il virus penetra al suo interno e immette il proprio acido nucleico nel nucleo di questa. Poi riprodottosi migliaia di volte, infetta nuove cellule.

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Nella maggior parte dei casi, la terapia per la cura dell’influenza stagio-nale (senza complicazioni particolari) può limitarsi all’impiego di farmaci sintomatici e ad interventi di supporto. Va ricordato che i sintomi, ossia le manifestazioni cliniche, sono l’espressione di una vigorosa risposta del nostro organismo all’attacco sferrato dal virus.Dato che la reazione dell’organismo è finalizzata alla guarigione, il tenta-tivo di contrastare i sintomi (la febbre in modo particolare) in maniera troppo energica può risultare controproducente. La prima regola, dun-que, è che i farmaci sintomatici devono essere usati con prudenza. La febbre non va soppressa a tutti i costi mediante la continua assunzione di farmaci antipiretici. La febbre va abbassata quando rischia di essere pericolosa: come nel caso di bambini piccoli e di soggetti anziani e de-bilitati. E’ importante sottolineare che gli antibiotici sono completamente inutili, perché non hanno alcun effetto sui virus. Il loro impiego è riserva-to, su espressa prescrizione medica per la cura di eventuali complicanze batteriche.

IL VACCINO ANTINFLUENZALE

Aver fatto il vaccino è stato inutile? Asso-lutamente no. Contro ceppi virali previsti è efficace e quindi, poi-ché le varianti giunte in Italia sono molto simili ai ceppi iniziali, la “co-pertura” è comunque pittosto elevata: il 60-80% di chi ha fatto il vaccino, quindi, non si ammalerà.

SI PUÒ FARE INSIEME A L L’A N T I P N E U M O -COCCICA.

Quest’anno il ministero della Salute ha sottoli-neato anche la possibi-lità di effettuare, insie-me alla vaccinazione antinfluenzale, anche quella antipneumococ-cica.Lo pneumococco (Streptococcus pneu-moniae) è responsabile della maggior parte delle polmoniti batteri-che che, nelle persone anziane, sono una cau-sa frequente di ricoveri in ospedale e morte.A differenza della vac-cinazione influenzale, che va ripetuta ogni anno, quella antipneu-mococcica va fatta ogni 5 anni. E’ gratuita per le stesse categorie di persone considerate a rischio per l’influen-za.

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SOS: attenzione ai cocktail di droghe. Il consumo dei cocktail è un’abitudine comune nei luoghi come le discoteche o i rave party (cioè le maratone in cui si balla per moltissime ore consecutive), dove i gio-vani si aggregano. Le combinazioni tra una droga e l’altra e tra droga ed alcool sono molto pericolose. Questi mix, infatti, amplificano gli effetti di ciascuna sostanza e possono provocare reazioni incontrol-labili. Inoltre il cumulo dei loro effetti espone al rischio di overdose. Si tratta di un fenomeno che coinvolge adolescenti di tutti gli strati sociali e non più soltanto di quelli benestanti. Questo fatto ha messo in allarme i genitori che spesso sono im-preparati di fronte all’atteggiamento da assumere: se “usare il pugno di ferro” o” seguire la strada del dialogo”.

Perché si usano droghe?Le cause che spingono a fare uso di sostanze stupefacenti cambiano secondo l’età. Un periodo delicato è l’adolescenza, il periodo in cui si forma la personalità di un individuo. E’ in questa fase che si cerca di co-struire la propria autonomia prendendo le distanze dalla famiglia. E’ l’età della ribellione e dell’insofferenza delle regole imposte dall’esterno, che si scontrano con il diritto di decidere liberamente. La trasgressione ed il distacco dai valori della famiglia, quindi, sono molto frequenti. Se negli adolescenti è chiara questa voglia di autonomia, non è altrettanto chiara la direzione verso cui indirizzare le proprie decisioni. Perciò fanno spesso propri gli obiettivi del gruppo di amici, che diventano un punto di riferimento importante al posto dei genitori. Ecco allora che se all’in-terno del gruppo si utilizzano droghe e l’adolescente non è abbastanza responsabile, la conseguenza inevitabile è l’imitazione indiscutibile, che da un lato lo fa sentire grande e dall’altro gli fa credere di poter decidere in totale autonomia e contro il parere dei genitori.Nei giovani adulti, invece, l’uso delle droghe è connesso al bisogno di evasione dalla quotidianità, per tornare ad uno stato pre-cosciente, cioè quello in cui ci si trova, per esempio, quando si sogna.

Cocaina la droga dilaganteIn questi tempi è di scena la cocaina ed il copione prevede invariabil-mente un finale tragico. Fanno sempre parte delle cronache attuali le “sniffate” in casa di amici, i “coma” di prestigiose firme della moda, certi eroi del ciclismo, il ricovero in rianimazione del rampollo di un’illustre fa-miglia (sembra per uso combinato di cocaina ed eroina). Storie lontane, a misura di celebrità? Non proprio. La cocaina è più diffusa di quello che si possa immaginare.

cocaina, una droGa dilaGantE

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La CocainaE’ una droga che si ricava dalle foglie della coca (una pianta originaria dell’America Latina), che si possono anche masticare. Quando è allo stato puro la cocaina è una polvere dall’aspetto cristallino, di colore bian-castro, senza alcun odore. Quella destinata al consumo, e che in gergo viene chiamata “cocaina da strada”, viene “tagliata”, cioè associata a sostanze non attive sulla psiche, appunto inerti (per esempio borotalco, farina…). Solitamente si consuma inalandola per il naso (sniffata), dopo aver preparato le cosiddette “piste”, cioè dopo averla disposta in seg-menti di polvere bianca. Può anche essere iniettata per via endovenosa o impiegata sotto forma vapore e persino fumata: in questo caso si usa sotto forma di corpuscoli biancastri, detti “crack”.

Provoca euforia solo nell’immediatoQuando la cocaina entra in circolo raggiunge il cervello, la persona prova una serie di sensazioni piacevolissime, intense, ma di breve durata, in particolare, la comparsa di euforia e felicità sono associate a varie altre sensanzioni tra cui quelle di essere forti, invincibili, mentalmente lucidi, onnipotenti, liberati dalla necessità di dormire e mangiare. Gli effetti sulla psiche sono sempre variabili a secondo dello stato emotivo di chi ne fa uso. La cocaina agisce potenziando l’azione della serotonina, della sim-pamina e della noradrenalina, cioè di sostanze alcune delle quali vengo-no già prodotte dal nostro organismo e che rendono attivi ed energici.Gli iniziali effetti piacevoli della cocaina però si pagano con conseguenze

fisiche e psicologiche. Può provocare tachicardia (cioè acce-lerazione del battito cardiaco), un aumento della tempera-tura corporea e della pressione del sangue, tremori, mal di testa, sudorazioni, brividi e nausea. Possono manifestarsi anche crisi di ansia e episodi di agitazione psico-motoria. Per chi sniffa cocaina per un periodo continuato può rischia-re la perforazione del setto nasale (la membrana che serve a separare le due cavità nasali), la polmonite. A livello psico-logico, se usata occasionalmente, la cocaina (cessato l’effet-to euforizzante) causa ansia, insonnia ed irritabilità, mentre se usata sistematicamente provoca allucinazioni, attacchi di panico e depressione.

Poi segue la fase depressiva.I rischi legati al consumo di cocaina sono numerosi e temibili. Alla fase euforica iniziale segue una fase depressiva, durante la quale si è in preda a sensazioni di angoscia e di tristezza, associata ad un senso di stan-chezza invincibile e di nullità. Da qui l’impulso incontrollabile di assume-re al più presto un’altra dose, per cui è frequentissimo il passaggio da un uso di cocaina saltuario ad un uso di dosi sempre più ravvicinate che, comunque, possono non bastare ancora.La cocaina determina infatti tolleranza: a lungo andare la cocaina obbliga

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ad aumentare non solo il numero, ma anche la quantità delle dosi per ottenere gli effetti voluti. A questo punto diventa altissimo il rischio di intossicazione e l’epilogo di tale eventualità può essere l’ictus cerebrale o l’infarto cardiaco. Oltre che esporre al pericolo morte, priva del buon umore, danneggia la qualità del sonno, causa allucinazioni, crisi di an-sia, ipertensione, disturbi della memoria, infertilità. Altera, inoltre, la personalità, perché rende litigiosi, presuntuosi, arroganti, induce a con-vincersi di essere perseguitati e spiati.

La cocaina? Devasta se associata all’alcol.“E’ la situazione più pericolosa”, spiega il professor Silvio Garattini, “per-ché contribuisce a formare una nuova sostanza, la “cocaetilene”, in gra-do di provocare il coma cerebrale”.

Alcool, una sostanza troppo facilmente disponi-bile e pericolosa.E’ la sostanza psicoattiva più antica e va considerata una droga sotto tutti gli aspetti. Viene assorbita così rapidamente dallo stomaco e dall’in-testino, che la sua presenza nel sangue può essere rilevata cinque minuti dopo che è stata bevuta, mentre la sua massima concentrazione viene raggiunta nell’arco di 30-60 minuti da quando è stata ingerita.

Le conseguenze.L’alcol è una sostanza sedativa in grado, però, di causare dipendenza fi-sica e psichica. Agisce producendo modificazioni di tipo psicologico (af-fettivo, comportamentale, …), cioè altera il funzionamento del cervello. A dosi crescenti induce alterazioni comportamentali sempre più vistose, che vanno dallo sviluppo di crisi di ansia, ad atteggiamenti esagerata-mente disinibiti fino all’intontimento. A dosi mas-sicce conduce al coma o anche alla morte. A basse dosi può provocare euforia, riduzione delle tensio-ni, rende più espansivi e loquaci. A breve termine può inoltre indurre confusione mentale, irritabilità e aggressività, agitazione disorientamento spaziale e temporale. Nei casi più gravi l’intossicazione acu-ta (ubriachezza), dopo nausea e vomito, è alterata la facoltà di giudizio, la coordinazione motoria, la capacità di controllare atteggiamenti ed azioni (da qui il rischio elevato di incidenti), e si può arrivare al coma alcolico. Nel lungo periodo continua Laura de Laurentiis nella sua relazione, l’uso elevato di alcool può rilevarsi drammatico per tutti gli organi ed apparati e, nello stesso tempo i comportamenti si fanno aggressivi; inaffidabilità, inca-pacità di svolgere la propria professione in modo lucido ed organizzato, può comportare la “morte sociale” dell’individuo.

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Le donne sono più sensibili.L’alcool si concentra in quantità maggiore nell’organismo femminile e, a parità di bevanda alcolica consumata, gli effetti sono maggiori per la donna che: si “inebria” più facilmente, è più esposta ai ri-schi connessi con la salute e tende a sviluppare dipendenza più rapidamente. L’abuso di alcool nella donna può provocare: scar-sa nutrizione o anche sovrappeso, la pelle ed i capelli invecchiano più rapidamente, il viso può gonfiarsi ed i capillari si dilatano fino a rompersi. Non solo, ma la sensibilità nei confronti dell’acool è maggiore alcuni giorni prima della comparsa del flusso mestruale e dell’ovulazione. In gravidanza, attraverso la placenta l’alcol raggiun-ge il sangue del bambino spesso con importanti conseguenze per il rischio che il bambino stesso vada incontro a ritardo mentale o malformazioni varie, e ad un parto prematuro o addirittura l’aborto. E, il rischio aumenta ancora se all’uso di alcol si associa l’utilizzo di farmaci o di droghe.

Altera le cellule nervose.La cocaina, con l’intento di prolungare nel tempo l’effetto della droga, viene assunta volontariamente assieme ad alcol. Ma pochi sanno che

MENO ENERGIA AL CERVELLOLa cocaina riduce nel cervello la quantità di glucosio, fonte di energia per i neuroni (le cellule nervose).

Cervello normale

Cervello con cocaina

Consumo alto di glucosio

Consumo medio-di glucosio

Consumo basso di glucosio

Così si diventa schiavi

cocaina e alcol, presi assieme, producono una nuova so-stanza: la cocaetilene, che è in grado (lo dice il più illustre esperto italiano di farmacologia, il Prof. Garattini, direttore dell’istituto Mario Negri di Milano), di portare ad un auten-tico “sballo” con un grave pericolo di coma cerebrale. In un soggetto in crisi dopo forte assunzione di cocaina (per di più sommata ad alcol vino, birra, superalcolici) può verificarsi una insufficienza respiratoria. In alcuni casi, inoltre, il soggetto ha conati di vomito e la sostanza acida rigettata dallo stomaco viene inalata attraverso la trachea e crea danni ai polmoni. In situazioni estreme l’insufficienza respiratoria può risultare fatale. Se ricoverato per tempo, il paziente può essere trattato con farmaci (benzodiazepine) in grado di mantenerlo in uno stato di sedazione. Poi, al momento del risveglio “guidato” (in pratica ottenuto con la riduzione graduale delle benzodiazepine), le reazioni del paziente sono sempre controllate.

I nuovi cocktail “Esplosivi”L’offerta di nuove droghe si va ampliando. Chi controlla questo mercato evidentemente ha la necessità di trovare nuove formule per incrementa-re il giro d’affari, peraltro già floridissimo. Il mercato delle sostanze stu-pefacenti muove infatti milioni di euro, molti dei quali provengono dalle “paghette” degli adolescenti. Un problema non da poco, per il quale non è facile trovare una soluzione (perché tutti hanno la possibilità di speri-mentarlo con facilità) e che si sta ingigantendo grazie all’idea di associare fra loro varie sostanze: ma l’associazione di più droghe, infatti, aumenta

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il pericolo, già enorme, di andare incontro a conseguenze drammatiche dopo averne fatto uso.

Cocaina + Viagra.Qualcuno ha cominciato ad assumere la cocaina contemporaneamen-te al viagra, la pillola blù che combatte l’impotenza. Lo scopo è quello di arrivare a fornire prestazioni sessuali “leggendarie” e, a farne uso, secondo le indiscrezioni captate fino ad ora, sarebbero i single intorno ai trent’anni. Questa nuova tendenza, però, non tiene conto di un fatto fondamentale: il Viagra non è un afrodisiaco (cioè un eccitante, uno sti-molante) e, quindi, non migliora le prestazioni sessuali. La sua azione è quella di ripristinare il ciclo della risposta sessuale maschile nel caso in cui ci sia un problema di deficit dell’erezione, dovuto, ad esempio al dia-bete e non è efficace in assenza di stimoli eccitanti (cioè se l’uomo non desidera la sua partner). Viagra e cocaina, se presi associati, possono in-vece aumentano invece il rischio di infarto, che rappresenta il maggiore pericolo al quale espone l’uso della cocaina.

Che cosa s’intende per dipendenza?Facendo leva sui meccanismi del piacere tutte le droghe, compreso l’alcol ci rendono schiavi. Una volta introdotte stimolano il cervello a rilasciare dopamina, un neurotrasmettitore che attiva la comparsa di una sensazione di benessere, di appagamento, di nuova energia. L’assunzio-ne di una droga inceppa il meccanismo di autoregolazione del desiderio, che in condizioni normali induce a fermarsi, costringendo a ricorrere di nuovo alla droga, senza curarsi dei rischi a cui ci si espone. In chi fa uso di droghe questo desiderio non si spegne mai, perché, a causa di una azione biochimica che si verifica a livello del cervello blocca la capacità di questo organo di raggiungere una condizione prolungata di appagamen-to. Con l’assunzione di una droga la reazione naturale di rifiuto dell’ ”ec-cesso di soddisfazione” non si verifica, si cerca così nuova droga e… la storia continua. La voglia irrinunciabile di continuare a prendere droghe varie ed alcol (con la speranza di rimettere ordine fra i neurotrasmettitori defraudati da quelle stesse droghe del loro naturale equilibrio) è soltanto un’ipotesi, un’illusione del soggetto. Ricordiamo che i neutrasmettitori sono sostanze proteiche che assicurano il passaggio dell’impulso nervo-so da una cellula all’altra, cioè permettono alle cellule nervose di comu-nicare). E’ un circolo vizioso difficile da spezzare: si scatena così un’ansia incontrollabile ed il soddisfare nuovamente l’assunzione di altra droga permette di sentirsi bene. Tale desiderio, però, si ripresenta sempre più spesso e ci si sente obbligati ad abusare di quanto soddisfa, anche con-tro la propria volontà, e perfino alla propria sopravvivenza.

Cocaina

Da ricordareL’uso di

cocaina èdannoso siaper la salute

fisica siaper quella

mentale

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La cocaina è un alcaloide che si può estrarre facilmente dalle foglie di Erytroxylon coca, un arbusto coltivato da millenni nell’America centro-meridionale, soprattutto in Bolivia e in Perù. I popoli precolombiani, in particolare gli Incas, consideravano le piante di coca come un dono degli dei per contrastare la sofferenza e le utilizzavano nell’ambito di riti religiosi. Dopo l’arrivo degli spagnoli, le foglie di coca vennero utilizzate dagli indigeni ridotti in semischiavitù, tenute in bocca e masticate a lungo, per sopportare la fatica e vincere la fame.Tuttora le popolazioni andine continuano a usarle in questo modo. All’inizio dell’Ottocento diverse sostanze estratte da questa pianta arrivarono anche in Europa: moltissimi preparati a base di coca si diffusero con successo, per curare la depressione e altri disturbi nervosi, ma anche impotenza, febbri, anemia, persino il mal di gola. Nel 1858, il chimico Albert Niemann isolò la cocaina dalle foglie di coca e questa

droGhE, un pEricolo in aumEnto/2

“Una sera di fine luglio, la mia prima volta. A una festa di amici, mi hanno messo davanti una pista bianca: “ti sballa, dai, se poi non ti piace non lo fai più”. Mi sono divertita, andavo a mille... Ora il mio ragazzo vuole riprovare. Ma io ho paura.”

La cocaina. Si estrae da una pianta sacra per gli IncasChi la prova rischia grossoSi sniffa la cocaina per ... Ma poi si paga con...

DANNI CEREBRO-VASCOLARI(infarti ed emorragie cerebrali)L’abbuso di cocaina è stato messo in relazione con danni ai vasi sanguigni che portano ossigeno e nutrimento al cervello. Nello stesso tempo, possono insorgere paranoia e allucinazioni.

SINUSITI E IRRITAZIONI DELLA MUCOSA NASALELa cocaina, in genere, viene aspirata attraverso il naso. Durante questo passaggio la droga danneg-gia le mucose interne, rendendole più vulnerabili alle infezioni batteriche e virali.

PERFORAZIONE DEL SETTO NASALEIl setto nasale è una lamina costituita in parte da tessuto osseo e in parte da tes-suto cartilagineo, che separa le due fosse nasali. Può essere distrutto dalla cocaina.

EMISSIONEDI SANGUEDALLA BOCCA

AUMENTO DELLA PRESSIONE ARTERIOSAUn incremento anomalo ed eccessivo della forza di contrazione del cuore, pro-vocato dalla cocaina, induce un aumento brusco e assai consistente della pressione arteriosa e dello stress a cui vengono sottoposte le pareti dei vasi sanguigni.

DISPNEA, DOLORI AL TORACESe il cervello, i muscoli e altri organi non ricevono una quantità sufficiente di ossigeno, i polmoni fun-zionano in modo irregolare e può subentrare dispnea (difficoltà a respirare).

CARDIOPATIA ISCHEMICA E ARITMIELa frequenza del battito cardiaco controllata dal nodo senoatriale si altera, mettendo in difficoltà l’in-tero sistema circolatorio (trombosi) e il cuore stes-so (aritmie, infarti).

Così si diventa schiaviE pian piano la coca distrugge il corpo

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molecola venne usata come farmaco (anche come anestetico) per alcuni anni. Ma cominciarono a diffondersi anche casi di dipendenza e di overdose da cocaina. Tanto che nel 1912 la Società delle Nazioni (l’odierna Onu) mise al bando la sostanza, che però non ha mai smesso di alimentare un florido mercato clandestino.

Una premessaTorniamo per un attimo all’articolo “Cocaina: una droga devastante”. Per quanto riguarda la cocaina, vi si diceva che nelle persone che ne fanno uso, questa sostanza viene metabolizzata, cioè trasformata dal nostro organismo in un’altra rappresentata soprattutto dalla benzoilecgonina e che viene eliminata con le urine, quindi passa nelle acque di rifiuto, poi nei canali collettori.

Trovata in tracce nelle urineUn interessantissimo studio fatto recentemente da un gruppo di ricerca-tori dell’istituto farmacologico Mario Negri di Milano, ha individuato nelle acque di scarico e di fiume la presenza di farmaci di uso comune, per esempio, gli antibiotici. Da qui l’ipotesi che le urine presenti nelle acque di scarico urbano portino al fiume tracce delle medicine as-sunte, quindi anche delle droghe assunte dalla popolazione della zona. L’indizio che, ad esempio, prova l’esistenza di cocaina nelle acque del Po è soprattutto la presenza di benzoilecgonina, cioè della sostanza che è la risultante delle trasformazioni biochimi-che del metabolismo subito dalla cocaina nel nostro organismo, dopo che se ne è fatto uso. Da questa scoperta, è stato possibile fare una stima piuttosto precisa sulla quantità di droga consumata dalla popolazione nel bacino Po che va da Torino a Pavia, escluso Milano. Il dato ottenuto è molto attendibile, in quanto ottenuto da rilevamenti che non lasciano molto spazio a troppa approssimazi-one di calcolo. In quelle acque di scarico è stata rilevata anche la presenza di cocaina non metabolizzata.

Trovata in grandi quantità nel Po.I dati delle misurazioni delle quantità di cocaina e di benzoilecgonina nelle acque del Po è stata una scoperta sconcertante, perché ha permesso di stimare in modo piuttosto preciso la quantità di “polvere bianca consumata tra la popolazione residente nel tratto di bacino del fiume della zona considerata. Ogni giorno in questa zona viene consumata una quantità di cocaina, pari a circa 10.000 dosi. La cocaina, secondo il rapporto del Dipartimento Nazionale per le politiche antidroga, viene assunta per la prima volta intorno ai 15 anni, per diventare poi una droga di consumo abituale nella fascia di età com-presa fra i 15 ed i 35 anni. E’ nata così l’ipotesi che per ogni 1.000 giovani adulti residenti nel bacino del Po, ce ne siano 27 che utiliz-zano ogni giorno cocaina. Valori questi, molto più alti rispetto a quelli

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stimati prima della recentissima ricerca. Ma quanto è diffuso oggi il con-sumo di cocaina, questa droga che è devastante se poi viene associata all’assunzione di alcol ?

I nuovi cocktail “ESPLOSIVI”Cocaina + alcolCocaina + ViagraCocaina + atropina = cristallina

I mix più pericolosiGià notevolmente pericolosa per la salute da sola, quando è associata ad altre sostanze psicoattive, la cocaina può rivelarsi fatale nell’arco di una sola volta. Nonostante questo, mescolarla ad altri principi oggi è di moda. Le nuove droghe entrate nel mercato delle sostanze stupefacenti sono a base di cocaina, i cui effetti sono potenziati dall’associazione con prodotti farmaceutici. Oltre ai già accennati cocktail: cocaina + alcol e cocaina + viagra, l’ultimo tipo di droga immesso sul mercato è costituito da cocaina + atropina ed è chiamato Cristallina. L’atropina è il principio attivo usato dagli oculisti per dilatare la pupilla degli occhi ed in medicina per alcune forme di bassa pressione e per particolari problemi cardiaci (per esempio, per curare il rallentamento eccessivo del battito cardiaco). Mescolata alla cocaina ne potenzia l’azione inducendo appunto un aumento della pressione del sangue ed un’accelerazione del battito cardiaco. In realtà, l’atropina non ha effetti euforizzanti, ma i sintomi che produce contribuiscono a sentirsi su di giri. Le due sostanze associate, però, possono causare un’emorragia cerebrale o un arresto cardiaco.

Due parole per i genitori.Da una relazione a cura di Laura de Lautentiis, con la collaborazione del dottor E. Zuccato, ricercatore del dipartimento ambiente e salute del suddetto istituto di ricerche farmacologiche M. Negri di Milano e del dott. Luca Biffi psicologo responsabile della prevenzione Sert, il servizio tossicodipendenza di Bergamo.

E’ utile non farsi illusioni.Purtroppo gli adolescenti di oggi, e non solo essi, sono destinati prima o poi, a fare il loro incontro con le droghe alle quali appartiene anche l’alcol. Le occasioni di provare le sostanze stupefacenti sono diventate tante, poiché in ogni luogo d’incontro ci si può imbattere in rischi di questo genere. Il 60-70 degli adolescenti ha assunto una droga almeno una volta e solo il 2% di chi frequenta abitualmente Pub e discoteche non ne ha mai fatto uso o non ha mai bevuto alcol. Tenere lontani i giovani dall’alcol e dalla droga è diventato quasi impossibile; non ci rimane altro che cercare gli strumenti adeguati onde non cedano alla tentazione di farne uso. E, poiché il contatto con le varie droghe va messo in preventivo, occorre adoperarsi per limitare almeno i danni.

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Si spera, infatti, che finito il periodo dell’adolescenza, caratterizzato da fragilità emotiva e da comportamenti di chiara ribellione nei confronti delle regole imposte dagli adulti, si dissolva ogni interesse per questo tipo di trasgressione.

Mettere a conoscenza dei rischi.Affrontare l’argomento droga fin dall’inizio dell’adolescenza può essere determinante. Bisogna parlare con massima chiarezza e trasparenza dei danni che le droghe possono arrecare non solo al fisico, ma anche alla mente. Le droghe ci sono e se ne deve parlare per essere messi in guardia. Utilizzarle fa male e lo dobbiamo sapere.

Ascoltare le esigenze dei figli.Se si affronta l’argomento droga è bene ascoltare con attenzione le riflessioni dei figli, per capire il loro punto di vista ed eventualmente, aiutarli ad aggiustare il tiro, ma sempre attraverso il dialogo e mai con delle minacce.

Essere comprensivi.Soprattutto in caso di insuccessi scolastici, è bene dimostrarsi comprensivi, disponibili a prestare aiuto, cioè solidali. E’ bene rassicurare il figli che si tratta di “incidenti di percorso”, frequentissimi nella vita. In questo modo non si sentono dovuti ad abbassare l’autostima che hanno di sé, vengono incoraggiati a dimenticare i guai senza ricorrere a sostanze pericolose.

Attenti alle parole che si usano.Se si ha il dubbio che il ragazzo possa avere assunto sostanze stupefacenti non tenere atteggiamenti da detective a caccia di prove, perché gli adolescenti considerano comportamenti del genere segno di sfiducia e pensano: “Non l’ho mai fatto ed i miei non ci credono. Allora tanto vale che provi.” E, se si ha la certezza matematica che il figlio ha assunto una droga, è meglio non usare frasi del tipo; “Diventerai un drogato”, perché potrebbe spingere ad imboccare la strada imprudentemente indicata.

Può essere utile parlare dell’aspetto economi-co.Poiché i ragazzi sono particolarmente attenti alla loro paghetta, fare notare che l’alcol e le sostanze stupefacenti costano e acquistarle può togliere la possibilità di comprare cd, magliette, benzina per il motorino...

Stimolare a praticare sport.Incoraggiare l’interesse dei figli verso qualsiasi sport è un’ottima strategia per tenerli lontani dalle droghe. L’inclusione in una squadra o anche solo in un ambiente in cui si pratica attività sportiva è sempre fonte

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di emozioni; opportunità queste che possono distrarre dall’impulso di trasgredire. I ragazzi sanno perfettamente che le droghe e l’alcol impediscono al fisico di dare il meglio “in campo”.

Quello che si può fare e quello che non si può fare.Fino da quando sono bambini è bene far capire ai figli che nella vita c’è una serie di semplici regole da osservare, per cui esiste una netta distinzione fra quello che si può fare e quello che non si può fare. Tra queste ultime ci sono le azioni che possono arrecare un danno di qualsiasi natura a sé stessi ed agli altri. Le regole che si devono fornire ai figli, se sono giuste, servono a dare ai piccoli ed agli adolescenti il “senso del limite”, senza il quale è difficile capire e valutare che cosa è bene rinunciare. Nella preadolescenza, in particolare, è doveroso inserire fra tali regole il divieto di provare sostanze stupefacenti.

La fragilità d’intenti e la scarsa autostima.E’ importante, nei limiti del buon senso, permettere ai figli che entrano nella difficile adolescenza di fare anche esperienze sbagliate trasgredendo alle regole cui prima si accennava, e tra queste ci deve essere il divieto di provare sostanze stupefacenti. E chi è cresciuto in famiglie salde e coerenti, dove si è coscienti che gli esempi e le regole dei genitori sono una conseguenza del loro amore, derivano dalla loro disponibilità, dalla loro serenità, ha certamente una maggiore tendenza a rispettare questa precisa richiesta. E ancora, sempre nei limiti del buon senso, è importante permettere ai figli che entrano oggi nella difficilissima adolescenza di fare esperienze anche sbagliate con il timore di interferire esageratamente nelle loro azioni. Agendo diversamente si rischia di impedire che diventino sicuri di sé stessi ed autonomi. La fragilità e la scarsa autostima possono essere incentivi che spingono verso droghe.Di questi concetti ci ammonisce in una sua relazione Laura de Lauren-tiis (con la consulenza del dottor Luca Biffi, psicologo responsabile della prevenzione Sert del servizio tossico dipendenza Asl di Bergamo) e che io vorrei essere in grado di divulgarli ulteriormente per contribuire ad un migliore stato di salute della mia gente.

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PremessaIl nostro organismo è come un fortino protetto da un “esercito” pronto ad aggredire ogni intruso. Il nostro stato di salute dipende dall’efficienza del suo esercito costituito dal sistema immunitario del quale è parte in-tegrante il sistema linfatico. A difenderci dall’attacco di virus, batteri, fun-ghi microscopici, parassiti, cellule tumorali, organi e tessuti trapiantati e perfino pollini di piante, alimenti ed altre sostanze dannose per la nostra salute, concorre un esercito di “soldati” specializzati, pronti ad aggredire ogni intruso. Di questo esercito microscopico fanno parte gli anticorpi ed i globuli bianchi presenti nel sangue e nella linfa. Senza di essi la vita sarebbe impossibile: l’ambiente in cui viviamo, le sostanze che si ingeriscono, l’aria che respiriamo, non sono sterili; ogni giorno veniamo a contatto con molti agenti patogeni che normalmente risultano innocui, perché vengono subito eliminati dal microscopico “esercito” prima ac-cennato. Adesso, che abbiamo acquisito qualche concetto biochimico in più, possiamo andare oltre e permetteci di affrontare nei particolari il “sistema linfatico”, che è parte integrante dell’accennato “sistema immunitario”. A questo ci stimola anche l’attuale situazione sanitaria mondiale.

Per saperne di più. Il sistema immunitarioIl sistema immunitario è il sistema che difende il nostro organismo. Esso comprende alcuni organi: - il midollo osseo, che produce i linfociti; - i linfonodi, che contengono i linfociti ed i macrofagi; - la milza che con-tiene i linfociti ed i macrofagi; - il timo, che fabbrica alcuni linfociti allo stadio iniziale. Gli organi che costituiscono il sistema immunitario hanno la funzione di produrre e conservare i globuli bianchi, cioè le cellule re-

il sistEma linfatico: una difEsa pEr l’inVErno, un aiuto contro lE infEzioni

Componente essen-ziale del sistema im-munitario, il sistema linfatico è il principa-le strumento di dife-sa del nostro corpo dagli attacchi di virus, batteri e tanti altri tipi di nemici. L’aumento di vo-lume dei linfonodi può segnalare una semplice infiamma-zione, ma spesso è il caso di approfon-dire la situazione.

Da: I. Neviani: EDUCAZIONE SANITARIA - Soc. Editr. Internazionale

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sponsabili della difesa dell’organismo.Parte integrante del sistema immunitario è il sistema linfatico, costituito da una rete di linfonodi connessi tra loro da una rete di vasi linfatici nei quali scorre la ninfa, che contiene i globuli bianchi. Dei globulibianchi ricordiamo alcune grosse tipologie: - i linfociti, che svolgono un ruolo

primario contro gli agenti estranei; i macrofagi che hanno il com-pitodi “mangiare” i batteri; i monociti, che hanno una funzione simile a quella dei linfociti; - basofili, che agiscono nelle infiam-mazioni; - gli eosinofili, che combattono le allergie e le infezioni da parassiti.

Il sistema linfaticoIl sistema linfatico è una componente essenziale del sistema im-munitario assieme al timo, il midollo osseo, alla milza, alle ton-

sille, adenoidi, ecc. Il sistema linfatico nel suo complesso è costituito da un insieme di strutture: una rete di linfonodi connessi da vasi linfatici nel quale scorre la linfa.

Che cosa è la linfaLa linfa è un liquido pressoché incolore, costituito da acqua (93-95%), sostanze nutritizie come proteine, grassi e sali minerali. La linfa proviene dal sangue filtrando attraverso le sottili pareti dei capillari sanguigni. Nel nostro organismo la linfa svolge alcune funzioni, tutte molto impor-tanti: trasporta i principi nutritivi contenuti nel sangue a tutte le cellule e raccoglie le sostanze di scarto e le asporta; protegge l’organismo in quanto, per i numerosi tipi di globuli bianchi che contiene, è in grado di attaccare virus e batteri concorrendo a prevenire ed a combattere eventuali infezioni.

Come circola la linfa nel nostro organismo?Perché la linfa svolga le sue funzioni è fondamentale che essa circoli. La circolazione linfatica, però, è una circolazione un po’ particolare: essa inizia alla periferia del corpo, all’interno dei vari tessuti, quando, usci-ta dalle cellule, si va raccogliendo in capillari di diametro molto piccolo (capillari linfatici). Questi capillari si uniscono poi in vasi sempre più grandi (vasi linfatici) fino ad arrivare a due grossi canali linfatici, che si immettono infine nel sistema venoso, che trasporta il sangue (ricco di sostanze di rifiuto e di anidride carbonica e va al cuore. E’ da tener presente, inoltre, che la circolazione della linfa, in quanto inizia nei tessuti, compie un percorso che va dalla periferia verso il centro del corpo, al contrario, perciò della circolazione del sangue che va dal centro alla periferia.

Nel sistema linfatico sono coinvolti vari organiIl sistema linfatico non è costituito soltanto dalla linfa, altrettanto impor-tanti sono i vasi linfatici, i linfonodi, il timo e la milza, che, in modo

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differente contribuiscono a difendere ed a proteggere il nostro organismo dagli agenti estranei.

I vasi linfaticiSono diffusi in tutto il corpo. Si trovano sia appena sotto la pelle (vasi linfatici superficiali) sia a livello del tessuto muscolare (vasi linfatici pro-fondi). In genere scorrono paralleli ai vasi sanguigni che trasportano il sangue venoso, cioè ricco di sostanze di rifiuto (scorie ed anidride car-bonica). Hanno pareti molto sottili e quelli più grandi sono dotati di valvole che impediscono il reflusso della linfa; grazie a queste valvole la linfa può scorrere soltanto in un senso: dai vasi più piccoli a quelli più grandi. Solo così può svolgere le sue funzioni.

I linfonodiSono piccole ghiandole di colore bianco rosato che si trovano sparsi un po’ in tutto il corpo (lungo i vasi linfatici se ne contano circa (600-700). Producono i linfociti, un importante gruppo di globuli bianchi che passano poi nel sangue e proteggono il nostro organismo dall’attacco di sostanze pericolose. I linfonodi, grazie ai linfociti, trattengono virus e batteri trasportati dalla linfa, favorendone l’eliminazione. Mentre filtra-no possono gonfiarsi e fare male: segno che c’è un’infezione e che le difese stanno reagendo. I linfonodi sono spesso raggruppati nelle aree da cui si diramano i vasi linfatici, come nel collo, sotto la mandibola, nelle ascelle, nell’inguine.

Il timoE’ una ghiandola che si trova davanti al cuore. La sua funzione è quella di far maturare i linfociti T, un tipo di globuli bianchi. Nel timo queste cellule, che vengono prodotte nel midollo osseo (il tessuto che si trova all’interno delle ossa lunghe e delle ossa piatte, come il femore ed il ba-cino), diventano attive, capaci di difendere l’organismo da infezioni ed attacchi di sostanze pericolose. Una volta maturate i linfociti T passano nel sangue. Il timo è molto sviluppato nel feto e nei bambini, mentre i tessuti che lo compongono regrediscono nell’adulto.

La milzaSituato nella parte sinistra dell’addome, nella zona posteriore, quest’or-gano produce alcuni tipi di globuli bianchi, distrugge i globuli rossi or-mai vecchi ed inefficienti ed è in grado di trattenere elevate quantità di piastrine (le cellule del sangue coinvolte nel processo di coagulazione), che vengono liberate nel sangue quando è necessario (per esempio se ci si ferisce). La milza è inoltre capace di trattenere e distruggere i virus ed i batteri, che vengono trasportati attraverso il sangue.

Le tonsille e le adenoidiLe tonsille sono strutture simmetriche situate in fondo al palato, ai lati

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della faringe e dell’ugola. Le adenoidi sono piccole masse di tessuto linfatico che hanno sede nella parete della faringe. Tonsille e adenoidi, formano un importante organo di difesa del tratto alto delle vie aero-dige-stive ed il loro compito principale è quello di captare gli agenti pericolosi (come virus e batteri) contenuti nell’aria e nei cibi, per stimolare nell’organismo i meccanismi di difesa, come la produzione di anticorpi. Questa funzione, però, è attiva soprattutto nei primi anni di vita.

Per saperne di piùCome viene sconfitto il nemico invasore: anticorpi e linfociti.Il sistema linfatico fa parte integrante del sistema immunitario e come tale concorre a difendere il nostro corpo dall’invasione di microrganismi pericolosi per la salute per due linee che agiscono in modo combinato: gli anticorpi e quelle cellule chiamate globuli bianchi che si trovano nel sangue e nella linfa.

Come agiscono gli anticorpiGli anticorpi sono delle sostanze proteiche che circolano in soluzione nel sangue e nella linfa. Sono la prima linea di difesa e la loro produzione viene stimolata da qualsiasi sostanza estranea che penetra nel nostro organismo. La produzione di anticorpi è quindi da considerare come una reazione ad un’invasione esterna. Qualsiasi sostanza che, penetrata nel nostro organismo venga da esso riconosciuta estranea a sé stesso (non self), stimola la produzione di anticorpi e viene detta antigene. Questa reazione antigene-anticorpo viene considerata come una risposta ad uno stimolo preciso e viene detta “risposta immunitaria”. Immunitaria, perché tende a renderci immuni dalla malattia che l’antigene estraneo avrebbe potuto provocare in noi. La produzione degli anticorpi è estre-mamente specifica, cioè l’organismo, produce anticorpi mirati a distrug-gere soltanto un determinato germe invasore o una ben definita sostan-za nociva. Si tratta, quindi di un meccanismo ad altissima precisione, che non va a danneggiare cellule o sostanze diverse dal bersaglio.

Come agiscono i globuli bianchiI globuli bianchi sono delle cellule che vengono prodotte da organi lin-fatici diversi: nel timo vengono prodotti i linfociti T, nel midollo osseo i linfociti B ed altri tipi di globuli bianchi. Quando è necessario difendere l’organismo i globuli bianchi e si spostano nel sangue per raggiungere le aree in cui sono richiesti e filtrano attraverso i linfonodi che incontrano nei vasi linfatici presenti in varie aree del corpo, o attraverso la milza, le tonsille, l’appendice, ecc. I linfonodi intrappolano i microrganismi e le

Due metodi di attac-co degli anticorpi

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altre sostanze estranee e rappresentano il luogo dove i leucociti si raggruppano, interagiscono fra di loro e con le sostanze estranee per generare una risposta im-munitaria specifica; ma qui, nei linfonodi, vengono anche trattenute cellule morte, cellule tumorali e, pertanto, i linfonodi rappresentano una delle prime sedi dove le cellule tumorali si possono diffondere o aumentare di volume in seguito ad un infezione, dal momento che le risposte immunitarie alle infezioni sviluppatesi in qualche parte dell’orga-nismo avvengono proprio nei linfonodi. Fra i tipi di leucociti trasportati dal sangue e dalla linfa e presenti nei linfonodi, molto importanti sono i macrofagi, grosse cellule in grado di riconoscere, di catturare e distrug-gere direttamente i germi patogeni, digerendoli per mezzo di enzimi contenuti al loro interno. Per questo motivo sono considerati una linea di difesa molto importante del nostro organismo verso corpi estranei per-venuti al suo interno. Fra le cellule immunocompetenti sono anche da ricordare i leucociti killer, che si attaccano alle cellule estranee e rilascia-no enzimi ed altre sostanze che ne danneggiano le membrane esterne distruggendo così l’organismo estraneo, ma anche le cellule tumorali o quelle infettate da virus. Costituiscono pertanto, il primo meccanismo di difesa contro le malattie virali.

Una raffinata strategia di difesa… ma degli agen-ti patogeniAlcuni microrganismi non possono essere eliminati definitivamente. Per difendersi da questi microrganismi patogeni, il nostro sistema immuni-tario costruisce come una parete che li circonda formata da macrofogi, che aderiscono l’uno all’altro. Il microrganismo circondato dai macrofagi è detto granuloma. Alcuni batteri, così imprigionati, possono sopravvi-vere nel nostro organismo per un periodo indefinito. In caso di ridotta funzionalità del sistema immunitario (perfino 50 o 60 anni dopo), le pareti del granuloma si possono sgretolare ed i microrganismi possono iniziare a moltiplicarsi, inducendo di nuovo i sintomi della malattia.

Se si ingrossa una ghiandola è la spia di un disturboI linfonodi sono ghiandole che, come abbiamo visto, si trovano nel nostro organismo, ma di essi ci accorgiamo solo quando sentiamo un linfonodo (di quelli che si trovano in superficie, quindi palpabili) che si è ingrossato e ci preoccupiamo. Il fatto che un linfonodo superficiale s’ingrossi, in realtà, non sempre deve essere vissuto come un evento negativo. Anzi, questo significa che l’organismo sta reagendo contro un agente estraneo producendo anticorpi, quindi che il sistema di di-fesa lavora. E’ vero, però, che se il linfonodo assume caratteristiche particolari, è consigliabile una visita dal medico, per un controllo. Un

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ingrossamento dei linfonodi può essere indice di diverse malattie, da quelle lievi come infezioni (che si curano con antinfiammatori o antibiotici), a quelle più gravi e più preu-cupanti come i tumori. I linfonodi ingrossati possono essere ovunque, in qualsiasi sede. In linea di massima, per ciascuna sede del linfonodo superficiale ingrossato, è possibile distin-guere di che cosa si tratta: faringite, un male di gola, un male d’orecchio (otite), o di denti (ascesso), un tumore alla gola, alla paratiroide, il linfoma di Hodgking o non Hodgking, alcuni

tipi di leucemia, un’infiammazione dei dotti attraverso i quali passa il latte per il bambino (mastite), un tumore al seno, un’infiammazione a livello della vagina (vaginite), ecc. Soprattutto nei bambini, capita spesso che i linfonodi siano gonfi e si sentano semplicemente al tatto, soprattutto sul collo. Niente paura, perché nella maggior parte dei casi è una reazione naturale dovuta ad una iper-reattività degli agenti esterni. In questi casi, è utile sottoporre il piccolo ad una visita medica di controllo per escludere la presenza di infezioni, soprattutto se i linfonodi si gonfiano in modo vistoso.

Una stupefacente caratteristica del sistema immunitario: la memoria, perché?Poiché i linfociti vivono a lungo (per anni o addirittura per decenni), il sistema immunitario è in grado di ricordare ogni antigene incontrato.Quando i linfociti incontrano un antigene per la seconda volta, generano una risposta rapida, efficace e mirata verso quello specifico antigene. Questa risposta immunitaria specifica permette ai soggetti di non con-trarre la varicella o il morbillo per più di una volta nella vita ed è il motivo per cui la vaccinazione può prevenire alcune malattie.

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Tbc, il mal sottile non è ancora vinto. L’emergenza per questa malattia, si considerava ormai passa-ta.

La crescita dei casi di tubercolosi già negli anni 90 era stata messa in re-lazione con la comparsa delle accennate categorie a rischio nel territorio nazionale e che prima non erano presenti. Il sistema di controllo messo in atto a livello nazionale aveva permesso di prendere in mano la situa-zione e l’infezione era parsa in discesa, ma adesso? In alcune province e regioni italiane è stata ricreata una nuova rete di controllo sfruttando i di-spensari (sanatori) ed i pochi servizi territoriali ancora attivi, affiancati da-gli istituti d’Igiene. Qualche modifica di una legge del 1970 stabilisce che le Asl di ogni regione debbano provvedere a far eseguire (ne sono anche responsabili legalmente in caso di non ottemperanza) ad una persona ritenuta a rischio di tubercolosi determinate procedere di prevenzione e di cura della malattia. In Lombardia un programma di controllo (come indicato dalla relativa legge e successive modifiche) è già operativo ed ha permesso di tenere sotto controllo l’andamento della malattia in questa regione.

Che cos’è la tubercolosi?La tubercolosi, o Tbc, è una malattia infettiva provocata dal bacillo di Koch (Mycobacterium tubercolosis), che si diffonde per via aerea, at-traverso il respiro, gli starnuti e i colpi di tosse delle persone già malate. Come l’influenza.

Il contagio non è facile.Anche quando il bacillo entra in contatto con l’organismo, non è detto che la malattia si scateni. Solo in una piccola parte dei casi (2-3 per cento in Occidente), chi è infettato dal bacillo sviluppa la Tbc. Nei restanti casi, i batteri sono resi inoffensivi dalle difese del nostro corpo. Solo se la quantità di batteri (carica batterica) presenti nel sangue è alta, il bacillo di Koch riesce a passare da un individuo all’altro. Soprattutto è più fre-quente essere contagiati se si dorme nella stessa stanza (o peggio nello stesso letto) con una persona malata: durante il sonno i colpi di tosse non vengono “parati” con la mano ed i bacilli possono essere “catapulta-ti”, diffondersi con maggiore facilità e piu a lungo nell’ambiente, alzando la possibilità di essere contagiati. La Tbc può colpire tutti gli organi e gli apparati del nostro organismo. La forma più diffusa, però, è quella che colpisce l’apparato respiratorio. Per bloccarne la diffusione, le cellule del sistema immunitario costruiscono una barriera attorno al germe patoge-no.

La malattia.Una volta entrato nell’organismo, il bacillo di Koch, se ha una carica infettante sufficientemente alta o se l’organismo è debilitato, cioè non

tbc, Quali rischi in italia ?

Da circa una decina di anni, periodicamente, si parla di un ritorno di questa infezione respiratoria quando ormai la tubercolosi sembrava scomparsa dai Paesi occidentali, compresa l’Italia. L’allarme Tbc è stato lanciato dalla Gran Bretagnia ed ha provocato una certa apprensione: è possibile un ritorno di nuovi focolai epidemici? Gli esperti invitano alla calma, ma il problema è pressante per la comparsa di nuove categorie a rischio che prima non erano presenti nel territorio nazionale: immigrati extracomunitari ed ammalati di Aids.

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ha sufficienti difese immunitarie (ecco perché i ma-lati di Aids sono più esposti al rischio di contrarre la Tbc), inizia a moltiplicarsi e ad aggredire i polmoni, che sono gli organi veramente bersaglio dell’infezio-ne. Sui polmoni si formano infatti delle lesioni, che sono caratteristiche della malattia. Lentamente se il disturbo non viene curato, le lesioni confluiscono formando dei veri e propri “buchi” nei polmoni, che sono dei ricettori per batteri. Per bloccarne la diffu-sione le cellule del sistema immunitario costruisco-no come una barriera, formando come dei noduli duri (i tubercoli); in queste caverne, i batteri si an-nidano, si rafforzano e si moltiplicano. Questi, però, sono pronti ad uscire all’esterno attraverso il respiro o diffondersi in altre parti dell’organismo, attraverso il sistema linfatico o attraverso il sangue. In questo caso l’infezione coinvolge altri organi come le ossa,

le meningi (cioè le sottili membrane che avvolgono il cervello) o i linfo-nodi del collo. Via via che la malattia progredisce, la funzionalità degli organi della respirazione si riduce progressivamente fino ad azzerarsi, in alcuni casi.

I sintomi.La Tbc: è una malattia subdola, cioè non dà sintomi specifici: ha tempi lunghissimi d’incubazione e si manifesta attraverso sintomi che possono essere erroneamente attribuiti ad altre malattie. Quando il bacillo di Koch aggredisce l’organismo provoca infatti: una tosse secca e continua; su-dorazione notturna; perdita di peso, stanchezza, febbricola; solo nei casi più avanzati, si ha emottisi (tracce di sangue nell’espettorato).

Chi è più in pericolo.Il bacillo della tubercolosi può colpire ogni persona. Perché esso possa prosperare e scatenare la malattia è necessario che le difese naturali dell’organismo siano indebolite. Ma ci sono alcune categorie di individui considerate più a rischio di altre. In particolare: i neonati ed i bambini; gli anziani, il cui sistema immunitario è indebolito da eventuali malattie; le persone affette da Hiv (il virus dell’Aids) ed altre malattie debilitanti; coloro che seguono una cura che indebolisce l’organismo (per esempio, la chemioterapia); chi vive in precarie condizioni sanitarie e di sosten-tamento. In questi casi, poiché non si è nelle condizioni fisiche ottimali, l’organismo può non reagire efficacemente. Molti batteri della tubercolosi che penetrano nei polmoni vengono im-mediatamente uccisi dalle difese immunitarie. Quelli che sopravvivono vengono catturati all’interno da particolari globuli bianchi denominati macrofagi, dove possono rimanere vivi, ma in uno stato inattivo per molti anni, inglobati dentro minuscole cicatrici (infezione latente). Quan-do all’infezione non ha fatto seguito la malattia, per impedire preventiva-

Un batterio, scoperto da Koch nel 1882, è la causa dell’infezio-ne tubercolare

Diffusione e contagio

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mente che la tubercolosi si sviluppi, si sottopone la persona ad una cura preventiva a cura di farmaci antibiotici affinché i germi non si attivino. Come accennato, il sistema immunitario ha costruito come un muro efficace attorno ad essi e, finché i bacilli rimangono inattivi (ma sono sempre vivi), non possono arrecare danni all’organismo.

Possono, però, attivarsi dopo anni.Successivamente, magari dopo diversi anni e in un periodo di particolare debolezza dell’organismo, essi possono nuovamente attivarsi, moltipli-carsi e causare lesioni ai polmoni o ad altri organi del corpo. Per questo motivo, a certe persone che hanno contratto l’infezione viene data una cura preventiva. L’antibiotico utilizzato è l’isoniazide, che è in grado di uccidere i bacilli della tubercolosi, che sono inattivi dentro l’organismo. Una cura di questo tipo viene considerata efficace soprattutto quando il contagio è avvenuto di recente (nell’ultimo anno). Poiché il bacillo di Koch può vivere soltanto nell’uomo e non può essere trasportato da animali, insetti, terreno o altri oggetti inanimati, un individuo può essere contagiato dalla tubercolosi solo da un’altra persona con malattia in atto. I soggetti con patologia latente e con tubercolosi in sede extrapolmonare, non diffondono nell’aria e non possono trasmettere l’infezione.

Quando si è affetti da Tbc?Fino ad oggi nel nostro Paese il rapporto fra i casi di infezione ed i casi di malattia conclamata è stato del 2-3 %, ma forse tra breve, chi è a rischio d’infezione dovrà stare in osservazione e, se malato, curarsi al più pre-sto. Se siamo già stati colpiti dal bacillo di Koch, si scopre: con il test tubercolinico. E’ un test molto comune, che consiste nell’iniet-tare a livello della pelle (cute) una minima quantità di siero contenente bacilli di Koch (morti o resi inoffensivi). Dalla reazione cutanea conse-guente, dopo pochi giorni ci si può accertare se l’organismo è già venuto in contatto con questi bacilli e se questi sono già entrati in quell’organi-smo: in questo caso, l’organismo ha già al suo attivo anticorpi specifici contro il microrganismo aggressore e sulla pelle si forma un ponfo (una ponfo è un rilievo cutaneo, di forma e dimensioni varie, con margini netti e di colore rosso). Se l’ampiezza del ponfo supera un certo numero di millimetri, la persona è infetta, cioè positiva: questo significa che il ba-cillo è entrato in quell’organismo, ma non che la persona sia ammalata di tubercolosi. Come si è già detto, infatti, l’aggressione del batterio può essere bloccata dalle cellule immunitarie del corpo, in modo che non si diffonda fino a ledere alcun organo o apparato. Con la radiografia del torace. Se la persona è risultata infetta al test tu-bercolinico, viene successivamente controllato lo stato di salute dei suoi polmoni per verificare se ci sono già delle lesioni.

Come si leggono i risultati dei due controlli?Essere positivi al test tubercolinico non significa essere malati, ma

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che si è venuti a contatto con il bacillo colpevole dell’infezione. Se il contatto è avvenuto, dopo può verificarsi una di queste condizioni: il bacillo di Koch può aggredire l’organismo e dare il via alla malattia. Questo avviene nel 12 %, circa, delle persone cutipo-sitive; il bacillo di Koch rimane latente e inoffensivo per anni, se non per tutta la vita. Questo accade in più dell’80% dei casi di positività alla tubercolina. E, ag-giungiamo, in caso di sola infezione, la persona non trasmette ad un altro individuo i bacilli: la trasmissio-ne della malattia si verifica soltanto quando la Tbc

ha già dato il via alle lesioni polmonari, evidenziabili con la radiografia.

Terapia. La Tbc si cura in modo efficace.La tubercolosi si cura in modo efficace e completo nel 99% dei casi.

Non ci sono strascichi e conseguenze per la salute della persona. L’unico imperativo è quello di seguire la corretta prescrizione per tutto il tempo necessario, anche perché se la malattia non viene completamente eliminata, tende a ricomparire. Poiché la crescita dei bacilli di Koch è molto lenta, gli antibiotici utilizzati devono essere assunti per un lungo lasso di tempo, spesso per 6 mesi e più. Per il trattamento della tubercolosi vengono sem-pre somministrati due o più antibiotici con differenti meccanismi d’azione, nel timore di non riuscire ad eliminare i germi farma-coresistenti che possono crearsi. Gli antibiotici più utilizzati sono: la streptomicina, l’isoniazide, la rifampicina, ecc. in associazioni diverse e secondo schemi posologici diversi. L’isoniazide, in par-ticolare, è un farmaco molto efficace per bloccare l’infezione pri-

ma che diventi attiva, cioè in quegli individui che siano positivi soltanto al test della tubercolina.

Il vaccino.Contro la tubercolosi esiste anche un vaccino specifico, chiamato Bcg, che iniettato nell’organismo, induce una reazione da parte del sistema immunitario. A differenza di altri vaccini, però, non offre una protezio-ne totale. Sottoporsi al Bcg, dunque, non rende immuni al 100% dal rischio di contrarre l’infezione. Ciò nonostante viene ampiamente utiliz-zato nei neonati e sui bambini, che vivono dove la Tbc è molto comune, perché si ritiene possa comunque limitare la diffusione della malattia. In Italia, dove sino a poco tempo fa i casi di Tbc sembravano in discesa, questa misura precauzionale fra i bambini non è più ritenuta necessaria, né utile. Sarà vero?

Perché le epidemie?Perché, nonostante una cura efficace per la tubercolosi, questa malattia è “ricomparsa” negli ultimi anni nei Paesi occidentali? Gli esperti invitano

I casi, sono in costante aumento. Ma la malat-tia può essere curata e guarita se diagnosticata per tempo.

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alla calma e smentiscono che si debba parlare di nuova emergenza. Nel complesso, il fenomeno della tubercolosi è sotto controllo, nonostante si siano verificati in Italia, come in Inghilterra ed in altri Paesi, focolai di Tbc. In realtà, le notizie che arrivano dalle fonti d’informazioni riguarda-no sempre un numero di casi abbastanza stretto e circoscritto. Questo, anche se non si deve dimenticare che la Tbc, nei gruppi a rischio (e ri-petiamo ancora una volta: immigrati, indigenti, sieropositivi all’Hiv, cioè all’Aids, per esempio è ancora un problema reale). L’afflusso di molti cittadini stranieri (provenienti spesso da zone dove la malattia è diffusa) in Europa ha, oggettivamente, aumentato il pericolo di diffusione del bacillo della Tbc. Ma ciò non mette a rischio la maggioranza della popo-lazione, che vive in condizioni di benessere tali da garantire la massima risposta dell’organismo all’infezione.Il vero rischio, per il controllo della malattia, è costituito dai malati che non concludono la cura antibiotica: interrompendo i farmaci prima del tempo, rimangono “contagiosi” e sviluppano forme di resistenza agli antibiotici (ovvero, i bacilli diventano insensibili all’azione distrut-tiva dei farmaci) normalmente utilizzati per debellare il bacillo della tubercolosi. E’ questo il comportamento che rende più difficile la verifica dell’infezione da parte degli specialisti. Il sistema di controllo messo in atto dall’autorità sanitaria a livello nazionale sembra aver comunque ri-preso in mano la situazione. In buona parte delle regioni italiane è stata ricreata una rete di controllo sfruttando i dispensari (sanatori) ed i pochi servizi territoriali che ancora erano attivi. Intanto, in alcune provincie è stato anche attivato un ambulatorio tisiologico di riferimento. A livello nazionale sembra sia stato possibile ricontrollare la malattia e, soprattuu-to, avere dati sulla reale incidenza e mettere in atto tutti i controlli e le cure necessarie.

La situazione nel nostro paese.Fino a qualche anno fa il nostro Paese era arrivato ad avere una delle più basse percentuali di incidenza di questa malattia in Europa; ciascun anno si registravano circa 4 mila nuovi casi di tubercolosi ogni 100 mila abitanti. Oltre il 50% di queste nuove infezioni riguardavano già cittadini stranieri, mentre il rischio era minimo per i cittadini italiani

...nel resto del mondo. Nel mondo la tubercolosi continua ad essere molto diffusa soprattutto nei Paesi in via di sviluppo (Africa, Sud America), in Asia e nell’est Eu-ropeo. Negli Stati dell’ex Urss, nell’ultimo decenno si è registrata una recrudescenza della malattia, a causa del peggioramento delle condizioni sociali ed economiche.

TBC pronto un nuovo programma di controllo

I casi sono di nuovo in aumento, ma la malat-tia può essere curata e guarita se diagnosticata in tempo.

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Premessa.La nostra fisionomia, il colore dei nostri occhi, dei nostri capelli, le no-stre caratteristiche e tutto ciò che avviene nel nostro corpo è scritto nel patrimonio genetico. In ogni cellula, cioè sono presenti (scritte nei geni) le istruzioni perché si realizzino tutti i meccanismi biologici necessari allo svolgimento della vita. Tutte queste istruzioni le ereditiamo per metà dal padre e per metà dalla madre che, a loro volta, le hanno ereditate dai loro genitori e via di seguito. Tutto questo fa si che in ognuno di noi si possano notare delle somiglianze maggiori ad uno dei due genitori o ai nonni paterni o materni e così via.

Che cos’è il DNA ?Il materiale che costituisce il patrimonio genetico di un individuo è con-tenuto all’interno del nucleo di ognuna dei miliardi di cellule che formano il suo corpo. Questo materiale è costituito da eliche di DNA. Ma che cos’è il DNA? La sigla: DNA, sta per “acido desossiribonucleico”, una molecola costituita da quattro mattoni, chiamati basi azotate, che com-binandosi fra loro danno origine alla sequenza del DNA. La forma: la molecola del DNA ha la forma di una doppia elica che permette di conte-nere in uno spazio ridotto, una quantità enorme di informazioni. Il DNA si trova nel nucleo di tutte le cellule del nostro organismo e l’ordine con cui sono disposte le basi che lo costituiscono varia da specie a specie. Le basi del DNA rappresentano le lettere dell’alfabeto del codice genetico. Una serie di basi dà origine ad una parola che invia alla cellula una preci-sa informazione, per esempio di produrre parte di un enzima (gli enzimi sono delle sostanze chimiche naturali prodotte dalle cellule e ciascuno

di essi favorisce una specifica reazione all’interno del nostro or-ganismo). Più parole insieme costituiscono un gene. In pratica la sequenza delle basi del gene è specifica per ogni individuo. I geni, poi, si organizzano in cromosomi, cioè in strutture a forma di bastoncello contenute nel nucleo di ciascuna cellula. L’uomo ha 46 cromosomi, 2 dei quali sono detti cromosomi sessuali: la coppia XY determina il sesso maschile, la coppia XX il sesso femminile. Il nostro patrimonio genetico, ripetiamo, deriva metà dal padre e metà dalla madre.Basta un capello o una goccia di saliva per individuare malat-tie genetiche o accertare la paternità. Oggi si sente sempre più spesso parlare dello studio del DNA, tanto che sembra ormai essere un test di uso quotidiano; in realtà si tratta di un’indagine che dà indicazioni precise, ma che non permette di risolvere tutti i problemi in questione. Grazie alle conoscenze attuali con il test del DNA è si possibile stabilire se un reperto organico, individuato, per esempio sulla scena di un crimine, appartiene o meno ad una certa persona, ma non ci consente ancora di sapere tutto e non è vero che pos-sa predire se il bimbo sarà un genio.

ErEdità scomodE, chE si possono EVitarE, prEVEnirE

E’ noto da parec-chi anni che la comparsa di deter-minate malattie è influenzata da que-stioni di eredità. I nostri genitori ci possono trasmette-re tratti dell’aspetto o del carattere, ma purtroppo anche alcune malattie o la predisposizione ad esse. Una volta ac-certata la tendenza familiare a contrar-re un determinato disturbo, si posso-no però mettere in atto tutte le strate-gie che consentono di ostacolarne la comparsa. Pertan-to, è fondamentale una diagnosi pre-coce.

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Le malattie genetiche non sono tutte uguali: ereditarietà o solo probabilità.Nel campo delle malattie genetiche è importante distinguere le malattie ereditarie dalle malattie a cui, invece, si è solo predisposti. Oggi infatti, grazie alle maggiori conoscenze nel campo della genetica, si sa che nel corredo di geni che ereditiamo ci sono anche molte malattie; tra que-ste, per esempio, le allergie, l’ipertensione, il colesterolo, l’obesità, il diabete, i calcoli, ecc. A grandi linee si possono dividere in tre gruppi: - le malattie cromosomiche, per esempio, non vengono trasmesse dai genitori o dai nonni, ma dipendono da alterazioni nel numero o nella struttura dei cromosomi (questi sono elementi presenti nel nucleo delle cellule e sono la sede dei geni portatori dei caratteri ereditari) nelle fasi del concepimento ed in quelle successive all’interno del ventre materno. Ne è un esempio molto noto la sindrome di Down, che è causata dalla presenza di un cromosoma in più nel corredo genetico.- le malattie monogeniche, che dipendono dal difetto di funzionamento di un solo gene. I questi casi basta che nel proprio patrimonio genetico sia presente l’alterazione del gene perché si manifesti con buona pro-babilità la malattia. Di malattie monogeniche ne esistono un numero enorme (circa 5 mila), ma si tratta di forme piuttosto rare, fra queste ricordiamo la fibrosi cistica (una malattia delle ghiandole e che provoca la produzione di un muco particolarmente denso che, con il passare del tempo, provoca la distruzione degli organi interessati), l’emofilia, certe cardiomiopatie, certe forme di sordità, ecc.).- le malattie multifattoriali, invece, sono quelle che dipendono dall’al-terazione di più geni e dall’intervento di fattori ambientali, come lo stile di vita e le abitudini alimentari. In questi casi non si può prevedere la possibilità precisa di ammalarsi, ma ciò che si eredita è la predisposi-zione ad una determinata malattia.

Allergie.Tutte le forme allergiche, da quelle respiratorie a quelle di contatto, han-no una predisposizione familiare. La conseguenza è che chi ha genitori o nonni che soffrono di allergie potrebbe esserne a sua volta affetto, anche se non necessariamente nella stessa forma. Così, per esempio, il padre può soffrire di allergia al polline ed il figlio di allergia a determinati alimen-ti. Si può essere allergici a qualsiasi sostanza, ma le allergie più comuni sono quelle: respiratorie (come la rinite e l’asma allergiche; alimentari; da contatto). Attivato dalla cosiddetta “memoria immunologica”, ogni volta che la persona entrerà in contatto con l’allergene, si scatenerà l’allergia. E’ quello che accade ogni primavera in caso si soffra di rinite allergica (la più comune delle allergie respiratorie) a causa del polline di alcune piante e che si manifesta con starnuti a raffica, prurito dal naso al palato, naso chiuso, ecc. In caso, poi di asma allergica, la causa può essere attribuita al pelo degli animali o agli acari della polvere.

Attualmente si ritiene che la molecola sel DNA abbia la forma di una doppia elica, che permette di contenere in uno spazio ridotto una quantità di infor-mazioni.

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Colesterolo alto.Questo disturbo, in termini medici, si chiama “ipercolesterolemia”, è do-vuto all’eventuale tendenza dell’organismo a sintetizzare più colesterolo. Il colesterolo è una sostanza che, se presente nel sangue nelle giuste quantità, ha un ruolo essenziale al buon funzionamento dell’organismo (è indispensabile alla formazione delle membrane delle cellule, partecipa alla formazione della bile, è coinvolto nella produzione della vitamina D, contribuisce alla formazione di alcuni ormoni). Però, se la quantità di colesterolo supera certi valori, questo si deposita lungo le pareti dei vasi sanguigni, contribuendo alla formazione di placche di grasso, principali responsabili delle malattie cardiovascolari.

Obesità.Sconfiggere la predisposizione all’obesità non è certo un compito facile. Chi sa di avere questo fardello familiare deve imparare molto presto alcune regole di prevenzione, che valgono per gli adulti, ma anche per i più piccoli. E’ bene, pertanto che i genitori non si lascino sfuggire alcuni indizi come: il peso, il grasso distribuito uniformemente in tutto il cor-po, lo sviluppo delle ossa (accelerato rispetto all’età), le gambe ad X, lo scarso sviluppo dei genitali e l’aumento del volume delle mammelle nei bambini, ecc.

L’ipertensione.Se c’è familiarità, fra i 40 ed i 50 anni la pressione comincia a superare i 90 mm/hg di minima ed i 140 mm/hg di massima. E l’ipertensione diventa una compagna per il resto della vita ed è una malattia subdola, perché non si manifesta con sintomi specifici. Campanelli d’allarme pos-sono essere comunque: mal di testa (ma in questi casi la pressione è già altissima, vertigini, palpitazioni, riduzione della vista, perdita di sangue dal naso (epistassi), difficoltà (negli uomini) di mantenere l’erezione, ecc. Quando si parla di pressione sanguigna si deve immaginare una specie di sistema idraulico in cui il cuore funziona da pompa. In caso di pres-sione alta le conseguenze a carico del cuore e della circolazione possono essere serie, perché si può andare incontro a infarto, le pareti delle arte-rie perdono elasticità e diventano sempre più spesse, la funzionalità dei reni viene compromessa (insufficienza renale), ecc.

Il diabete.La forma più frequente di diabete è quella di tipo II e fa la sua comparsa dopo i 40 anni. La predisposizione è certa, ma è altrettanto vero che la malattia si può prevenire con facilità. Perché non si scateni, infatti, è ne-cessario mantenere un basilare stile di vita: - mantenere il peso forma. Chi ha dei chili in più, ha un maggior bisogno di insulina, cioè dell’or-mone prodotto dal pancreas per utilizzare gli zuccheri e mantenere la glicemia (ovvero il quantitativo di zuccheri nel sangue) a livelli normali. - Controllare l’alimentazione evitando gli zuccheri semplici o limitando

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quelli complessi come pasta e pane, nonché i grassi. - Fare un po’ di sport, poiché il movimento aiuta a “bruciare”i grassi e gli zuccheri. - Attenzione anche a certi farmaci cortisonici, agli steroidei e ad alcuni diuretici perché possono favorire la malattia a chi ne ha la predisposi-zione. Per essere certi che la glicemia si mantenga nella norma basta un semplice prelievo di sangue.

I tumori.Ci sono alcune forme di tumore, come quello al seno, al colon retto, allo stomaco e al polmone, che si presentano spesso con triste frequen-za nell’ambito della stessa famiglia e la ricerca, per molte forme ha già identificato i geni che vi sono implicati. Per chi è a rischio è necessario consultarsi con il medico onde decidere il calendario personalizzato per i controlli a cui sottoporsi, perché se i tumori vengono diagnosticati in fase iniziale, la guarigione è più sicura. Sarà lui, il medico a decidere e a segnalare quali sono i fattori a rischio da cui ci si deve guardare.

Perché l’attesa di un figlio sia veramente dolce.Decidere di avere un figlio è la conseguenza naturale del desiderio di trasformare la coppia in una famiglia. A volte, però, insieme a questa scelta scattano paure ed ansie circa la possibilità di concepire un figlio malato. Che cosa fare? Ancor prima del concepimento lui e lei dovreb-bero sottoporsi ad alcuni esami per accertare di non essere una coppia a rischio. Che cosa fare quando si è in presenza di una malattia genetica a predisposizione familiare?

Un colloquio.Ecco perché i medici raccomandano a chi ha deciso di avere un figlio di sottoporsi ad una (consulenza genetica), che consiste in una visita di controllo della salute della coppia e in un colloquio con il proprio medico di fiducia. In questo modo si ricaveranno informazioni e consigli e si potranno individuare eventuali problemi. E’ bene, già prima del con-cepimento, ridurre al minimo i fattori di rischio, ma soprattutto capire se si è una coppia cosiddetta “a rischio”. Ma come?

L’albero genealogico.Analizzando anzitutto lo stato di salute dei componenti della propria fa-miglia, con particolare riferimento a fratelli, genitori, zii e zie, primi cugini (figli degli zii materni e paterni). Si cercherà di verificare soprattutto la presenza di: malformazioni di qualsiasi organo o apparato; idrocefalia (cioè accumulo di liquido nel cervello); malformazioni renali o agli arti; individui con ritardo mentale (la sua causa va però appurata, perché se si tratta di un ritardo acquisito, magari acquisito per una meningite, la predisposizione genetica non ha peso); bambini nati e morti presto, per

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cause non chiare; aborti ripetuti; parentela fra i due partner; malattie progressive degenerative (distrofia muscolare, cioè debolezza musco-lare progressiva, che può avere evoluzioni variabili); ecc. Nel caso in cui una o più di queste malattie o di questi eventi siano presenti in uno o più consanguinei, scatta una situazione di rischio aumentato. Oltrepassano la soglia di rischio le future mamme che hanno più di 35 anni d’età con qualche malattia psichiatrica o soffrono di malattie croniche (epilessia, diabete, ipertensione, asma, malattie della tiroide, ecc.). In particolare, l’uomo, anche se affetto da queste malattie o si cura con farmaci antip-sicotici, non fa aumentare il rischio nel figlio: questi fattori, infatti, hanno un peso solo sull’ambiente in cui l’embrione si sviluppa, mentre non intaccano né lo sperma né la cellula uovo. Se, confrontando i due alberi genealogici, non emerge niente di specifico, o se i partener sono giovani e in buona salute, la coppia può considerarsi non soggetta a rischio di concepire un figlio malato (accade in circa il 90 per cento dei casi). Certi particolari comportamenti precauzionali dovranno essere messi in atto soprattutto nella donna. Prima del concepimento, si dovrà cerca-re nel sangue della donna anche la presenza: virus dell’epatite C, dell’Hiv (il virus responsabile dell’Aids), del microrganismo responsabile della sifilide, tutti trasmissibili all’embrione. Va però tenuto presente che pur non essendo un fattore di rischio particolare, esiste sempre la possibilità (calcolata intorno al 3-5 per cento) di concepire un figlio con un difetto congenito. Ogni nuova vita, del resto, è il risultato di due componenti: la componente “genetica” (trasmessa dai genitori), e la componente “am-bientale” (rappresentata dalla madre, dalle sue caratteristiche fisiche e dalle sue abitudini di vita). Questo rischio del 3-5 per cento riguarda tutti, anche chi adotta uno stile di vita inappuntabile.

La consulenza geneticaVa tenuto presente che le uniche coppie effettivamente candidate ad una consulenza genetica sono quelle che, in seguito ad una valutazione dello stato di salute della propria famiglia, sono da considerarsi “a rischio”. La consulenza genetica ha come obiettivo: - di precisare se la malattia riscontrata in uno o più parenti è una malattia genetica oppure no; - se lo è, di appurare anche se è ereditaria; - se è ereditaria, di valutare se com-porta un rischio specifico per la coppia. Oggi sono circa 250 le malattie testabiliti a livello del DNA, su un totaledi 4.500 malattie ereditarie. Tra le

250, quelle più frequenti sono: - la talassemia, la fibrosi, cistica, la distrofia muscolare, l’emofilia, il rene policistico nell’adulto, il ritardo mentale legato alla X,...La consulenza genetica è davvero importante soprattutto di fronte a casi di ritardo mentale o di malformazioni gravi in parenti stretti, ma non può garantire nulla: può solo attestare l’assenza o la presenza di un rischio, non annullarla.Molte anomalie genetiche si verificano senza

NEL MIRINOOgggi sono circa 250 le malattie testabili a livello del Dna, su un totale di 4.600 malattie ereditarie.Ecco, tra le 250, quelle più frequenti.- la talassemia,- la fibrosi cistica,- la distrofia muscolare,- la neurofibromatosi,- l’emofilia,- il ritardo mentale, - il rene policistico del-l’adulto, (una malattia renale degenerativa).

Un bebè, sotto il micro-scopio.

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cause apparenti; tuttavia sono noti vari agenti in grado di provocare alte-razioni nella struttura dei cromosomi: - le infezioni virali, - moltissime sostanze chimiche, - le radiazioni ionizzanti.

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Premessa.La perdita parziale o totale della capacità di richiama-re alla mente esperienze o eventi o senzazioni accaduti nei secondi immediatamen-te precedenti, o nel tempo compreso fra pochi secondi ed alcuni giorni precedenti o quelli ancora più lontani nel tempo, si definisce amnesia.

Si considerano tre tipi di memoria.Memoria, non significa soltanto ricordare fatti, esperienze, sensazioni dopo averli appresi dal mondo esterno o dal mondo interiore. La natura ha predisposto meccanismi mnemonici in modo tale che i dati meno significativi vengano eliminati. Pertanto è possibile distinguere: una me-moria sensoriale, che permette di trattare le informazioni sensoriali, cioè percepite dai sensi (suoni, rumori, luci, colori, odori, gusti, oggetti), sono migliaia ogni secondo, e di queste solo il 25% resta impresso nella mente per circa due secondi; la maggior parte di queste informazioni non lascia poi traccia nella mente e solo circa l’uno per cento dei dati che possono destare qualche interesse si trasforma in memoria a breve termine. Una memoria a breve termine è composta da informazioni che sono state

registrate dai sensi e che provocano un’attivazione dei neuro-ni cerebrali; restano nel cervello da pochi secondi a qualche minuto, poi scompaiono senza lasciare traccia. Se così non fosse la memoria sarebbe piena di molti dati senza importan-za. Un’informazione della memoria a breve termine può però essere richiamata attraverso la ripetizione. In tal modo dopo varie ripetizioni, l’informazione passa nella memoria a lungo termine. La memoria a lungo termine può quindi essere consi-derata come un magazzino di grande capacità. Le informazioni che fanno parte della memoria a lungo termine vengono “regi-

strate” attraverso le ripetizioni di un dato. Questo comporta una modi-ficazione profonda dei neuroni con la produzione di sostanze proteiche che comportano la creazione di ricordi duraturi. Poiché le senzazioni, le emozioni, i fatti coinvolgono molte funzioni collegate fra di loro, pratica-mente qualsiasi tipo di danno cerebrale può causare un’amnesia, cioè un’improvvisa (transitoria o permanente, parziale o globale) incapacità di immagazzinare nuovi ricordi o di richiamare quelli già registrati: Un’am-nesia può essere provocata da un’ostruzione delle arterie che irrorano il lobo temporale del cervello nei soggetti con arteriosclerosi, soprattutto se anziani. Spesso però la causa rimane sconosciuta, la confusione può scomparire rapidamente ed il recupero è totale.

pErché si può pErdErE la mEmoria?

La memoria è la straordinaria capa-cità di registrare in-formazioni di ogni generedalle più semplici alle più complesse. La memoria per-mette di creare un immenso serbatoio di dati da usare in qualsiasi momento ed è necessaria per la sopravvivenza stessa dell’uomo, perché grazie a questa funzione è in grado di man-giare, camminare, lavorare: in una parola, di vivere.

Il cervello è costituito da una foresta di 100 miliar-di di neuroni (sopra), da ognuno dei quali si dira-ma un assone, deputato alla trasmissione dei se-gnali agli altri neuroni, e migliaia di dendriti per la ricezione dei segnali. La comunicazione tra due neuroni avviene attraverso contatti chia-mati sinapsi.

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L’importanza dei neuroni.Sia la memoria a breve termine sia quella a lungo termine dipendono da certi neuroni, cellule nervose che si trovano nel cervello: alla nascita un essere umano ne dispone di un numero altissimo, 15 miliardi. L’età in-fantile è il periodo in cui viene acquisito il maggior numero di ricordi; poi, con il passare degli anni, il numero delle cellule nervose diminuisce progressivamente. Durante la terza età, il numero iniziale si riduce di circa 4-5 miliardi: in questo periodo, quindi, è normale che la memoria non sia più attiva come nella giovinezza. Nelle persone anziane, tutta-via, non è la memoria a lungo termine a soffrire di questa diminuzione di attività, bensì quella a breve termine. In altre parole, gli anziani si ricor-dano con più facilità eventi della giovinezza e dell’età adulta rispetto alle informazioni del passato recente.

Quando il disturbo è legato all’età.Anche il cervello, come gli altri organi del nostro corpo, negli anziani non funziona più così bene a causa della degenerazione delle sue strutture. Un disturbo legato al naturale invecchiamento della macchina della me-moria e di tutti i suoi meccanismi è indicato con il termine di “disturbo fisiologico”. Questa perdita di memoria è dovuta alla diminuzione del numero dei neuroni. Una persona anziana ha difficoltà a memorizzare eventi recenti, che si verificano quando il processo conoscitivo della memoria non è più così attivo. E’ invece perfettamente funzionante la memoria a lungo termine, costituita dai dati acquisiti da giovani.Che cosa fare?Se non è esercitato, il cervello perde la sua capacità di funzionare. E’ quindi importante farlo lavorare, anche quando si è in pensione e si trascorre la giornata in attività intellettualmente “passive”, che non ob-bligano all’esercizio della memoria. E’ utile fare dei cruciverba, giocare a carte, imparare nomi e numeri telefonici, leggere poesie o racconti e cercare di ripeterli, imparare canzoni.

Quando il disturbo è dovuto ad una malattia.In questo caso il disturbo è detto “patologico” e raggruppa tutte le cause naturali che provocano una perdita di memoria. Cause che possono es-sere più o meno serie. Fra queste cause ricordiamo: l’ansia e lo stress.Quando si ha molto da fare, si lavora troppo o si hanno molte preoc-cupazioni, è facile soffrire di problemi della memoria. In questo caso a risentirne è la memoria a breve termine: una persona dimentica gli og-getti dovunque, lascia bruciare sul fuoco una pietanza, non ricorda dove ha parcheggiato l’auto. Se la mente di una persona è occupata da troppi impegni, gli eventi si sovrappongono in continuazione. In questo modo i fatti “secondari” vengono rimossi a favore di altri più importanti. La situazione si complica perché quando si è in uno stato di ansia aumenta la produzione di cortisone, un ormone che ha la capacità di diminuire le facoltà mnemoniche.

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Che cosa fare?A far riacquistare alla mente la capacità di ricordare anche i fatti banali, è sufficiente un periodo di riposo. E’ poi importante non permettere che lo stress condizioni la vostra vita al punto da incidere sull’efficienza della memoria.

L’insonnia.Quando si dorme un numero insufficiente di ore per notte, l’attività dei neuroni può risentirne. Il sonno, infatti, è una pausa indispensabile per permettere al cervello di ridurre al minimo la propria attività, consenten-do ai neuroni di rigenerarsi. Gli anziani, che spesso soffrono d’insonnia, sono più soggetti ad improvvisi vuoti di memoria. Non riescono, a ricor-dare fatti recenti o lontani nel tempo, proprio perché hanno il cervello affaticato dalla mancanza di riposo. Il problema può interessare anche i giovani, soprattutto quelli che fanno un’intensa vita notturna o che lavo-rano di notte e, quindi, non riposano bene.Che cosa fare?Riposare almeno sette ore per notte, in età adulta è il sistema migliore per mantenere il cervello riposato. Prendere sonniferi è sconsigliabile: infatti, le sostanze che contengono benzodiazepine inducono un sonno artificiale che non fa riposare normalmente: possono anzi causare loro stesse difficoltà di memoria. Per riposare bene è meglio prendere qualche tisana rilassante naturale come camomilla, malva, ecc.. andare a dormire abbastanza presto (me-glio se sempre alla stessa ora ecc.)

L’uso di certi farmaci.In persone predisposte, certi farmaci ansiolitici e antidepressivi, pos-sono causare disturbi della memoria. Le molecole di cui sono costituiti intervengono, infatti sulla funzionalità dei neurotrasmettitori, cioè delle sostanze che hanno il compito di trasmettere al cervello gli impulsi ner-vosi e di regolare l’umore, il ritmo sonno-veglia e la memoria.Che cosa fare?Se, usando un certo farmaco si notano disturbi della memoria, è bene avvertire il proprio medico, che può decidere per un diverso dosaggio o prescriverne altri che causino meno problemi.

L’abuso di alcool.Un prolungato abuso di alcool può causare perdita della memoria, sia di quella a lungo termine sia di quella a breve termine. L’alcool, infatti, dan-neggia il sistema nervoso centrale, favorendo la progressiva distruzione dei neuroni.Che cosa fare?E’ necessario diminuire fino ad eliminare progressivamente il consumo di alcool, non solo per migliorare le capacità mnemoniche prima che queste siano compromesse, ma anche per evitare che compaiano altri

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problemi di salute, a volte seri, che coinvolgono soprattutto il fegato ed il sistema cardiocircolatorio. Se bere non è una semplice abitudine ma ha radici in problemi psicologici, va richiesto l’intervento di psicologi e psicoterapeuti.

Il fumo.Le sostanze tossiche che vengono aspirate con la sigaretta entrano in cir-colo nel sangue e predispongono all’aterosclerosi, una malattia che cau-sa irrigidimento ed ispessimento delle arterie. Il cervello non riceve più sangue a sufficienza: di conseguenza i neuroni, non nutriti, non possono svolgere al meglio la loro attività. Si possono, quindi avere problemi con la memoria a breve termine.Che cosa fare?Smettere di fumare, ricorrendo ai vari sistemi oggi disponibili (cerotti, chewing gum alla nicotina, ipnosi, agopuntura) è il sistema più sicuro per evitare seri problemi alla memoria ed anche per rimediare agli eventuali danni già in atto.

L’eccesso di colesterolo.Il colesterolo è un grasso presente nel nostro organismo. Quando il suo livello si alza eccessivamente, per predisposizione familiare o a causa di una dieta troppo ricca di grassi animali, nelle arterie si formano le cosiddette placche aterosclerotiche, depositi di grasso indurito che im-pediscono la corretta circolazione del sangue. Il cervello ed i neuroni non ricevono nutrimento e non possono, quindi, svolgere al meglio le proprie funzioni.Che cosa fare?Se si soffre di disturbi della memoria (specie di quella a breve termine), si può anche prendere in considerazione la presenza di un livello eccessivo di colesterolo. E’ quindi opportuno chiedere al medico di famiglia la pre-scrizione di esami del sangue finalizzati a valutare il livello di colesterolo nel sangue. Una dieta corretta, un po’ di attività fisica ed eventualmente farmaci per abbassare il colesterolo possono migliorare la situazione.

Le crisi epilettiche.L’epilessia o, più correttamente, le epilessie (poiché ne esistono diverse forme), sono disturbi causati da un’eccessiva attività elettrica del cer-vello, che provoca crisi caratterizzate da varie manifestazioni. Gli attacchi epilettici sono infatti diversi e possono coinvolgere lo stato di coscienza e le capacità motorie. In alcune forme di epilessia possono verificarsi al-terazioni della memoria, che possono riguardare quella sia a breve sia a lungo termine. Infatti, la disfunzione dell’attività elettrica dei neuroni può coinvolgere l’ippocampo, un’area del cervello deputata al processo mnemonico.Che cosa fare?L’unico modo per limitare i danni alla memoria dovuti all’epilessia è te-

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nere sotto controllo la malattia stessa con farmaci appropriati per ogni caso, che sono in grado di stabilizzare l’attività dei neuroni, modulando i neuroni trasmettitori cerebrali.

La malattia di Alzheimer.E’ una malattia in cui si verifica un declino progressivo delle capacità cognitive ed intellettive, conseguente alla degenerazione dei neuroni della corteccia cerebrale. La caratteristica principale è la perdita di memo-ria dei fatti recenti. Questi deficit dipendono dalla degenerazione delle cellule che producono l’acetilcolina, un neurotramettitore che interviene nei processi di apprendimento. La malattia (che colpisce circa il 20 per cento delle persone, i 75 enni) è diversa dalla piccola perdita di memoria che colpisce normalmente gli anziani. Per diagnosticarla sono necessari esami specifici. Non è semplice, però, accorgersi della malattia, perché l’evoluzione è lenta e subdola.Che cosa fare?Tenere sotto controllo la malattia di Alzheimer significa prendersi cura an-che della memoria. Questo è possibile con i medicinali: tra i più efficaci la n-acetilcarnitina o i più recenti farmaci inibitori dell’acetilcolinesterasi, capaci di stimolare la produzione dell’acetilcolina. Il trattamento è ancora più efficace se è associato alla somministrazione di vitamina E, che ha un effetto antinvecchiamento. Eventualmente si possono somministrare blande dosi di antidepressivi, che agiscono contro la serotonina, altro neurotrasmettitore coinvolto nei meccanismi della memoria.

Altre cause.Anche altri fattori possono portare alla perdita della memoria: i traumi alla testa per un incidente o un svenimento.

Per saperne di più. Un neurone, che cos’è?

1 - Una cellula nervosaI neuroni sono le cellule elementari che costituiscono il sistema nervoso: un neurone è l’unità fondamentale del sistema nervoso. I neuroni sono presenti nel nostro cervello, nel midollo spinale, all’inter-no dei nervi. Trasportano i messaggi nervosi da un punto all’altro del corpo umano. Alcuni neuroni risultano essere molto lunghi (più di un metro), come ad esempio quelli che regolano il collegamento tra l’alluce del piede e il cervello, mentre altri sono estremamente corti (appena un millesimo di millimetro). La cellula nervosa (neurone) è costituita da un grande corpo cellulare e da fibre nervose, tra cui un prolungamento (assone), per inviare impulsi e varie diramazione (dendriti), per rice-Struttura tipica di

una cellula nervosa

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verli. Ogni assone di un certo diametro è avvolto da una guaina a più strati, la guaina mielinica, che può considerarsi simile all’isolante ad un filo elettrico. Gli impulsi nervosi viaggiano più rapidamente nei nervi provvisti di guaina mielinica che non in quelli che ne sono privi. Se la guaina mielinica di un neurone è danneggiata, la trasmissione nervosa rallenta o s’interrompe. Quando nasciamo, il nostro organismo conta migliaia di migliardi di neu-roni; alcuni di essi vivranno per tutta la vita, mentre altri moriranno na-turalmente. Poiché la rigenerazione dei neuroni è molto limitata, quando si perde un neurone, generalmente è per sempre.

2 - Una fabbrica elettrica e chimica La regola vuole che i neuroni possano comunicare tra loro, a condi-zione che che non si tocchino. Infatti le comunicazioni tra le cellule nervose non avvengono mai direttamente, bensì attraverso un pic-colo spazio: la sinapsi. La sinapsi, però, non è in grado di condurre elettroni (quindi gli im-pulsi nervosi, che sono impulsi elettrici); per ovviare questo ostacolo, è necessaria la presenza di “traduttori”. Stiamo parlando di piccole mo-lecole chimiche, chiamate neuromediatori che, immagazzinati a livello delle terminazioni dell’assone, ne prendono il posto. Liberati dal primo neurone, i neuromediatori hanno il compito di tradurre il messaggio in un impulso nervoso e di trasmetterlo al neurone successivo.

3 - Uno specialista nella comunicazione Anche se i neuroni sono cellule altamente specializzate nella tra-smissionedei messaggi, per funzionare correttamente necessitano di collegamenti efficienti, altrimenti sarebbero inutili quanto un tele-fono scollegato. I neuroni, quindi, collegati tramite le terminazioni dei loro filamenti, co-stituiscono delle vere e proprie autostrade per le informazioni a senso unico. I dendriti raccolgono ed elaborano i messaggi provenienti da al-tre cellule nervose, mentre l’assone li inoltra verso i dendriti del neuro-ne successivo. I messaggi trasportati dal neurone, tradotti sotto forma di segnali elettrici (o impulsi nervosi), si spostano a velocità vicine ai 200 metri al secondo.

4 - Una spia nel nostro corpoI neuroni si occupano di tutto senza bisogno del nostro intervento. In attesa di ricevere le informazioni loro necessarie, provenienti sia dal nostro corpo sia dal loro ambiente naturale, i neuroni sensoriali mettono l’organismo in allerta. Giocano a “fare le spie”, ci tengono aggiornati sugli odori, sul dolore, sulla posizione deio nostri muscoli o sulla temperatura del corpo. Altri, invece, come i neuroni motori, regolano la contrazione dei nostri muscoli, facendoci battere il cuore, permettendoci di giocare a calcio o semplicemente facendoci respirare.

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Questo misterioso mondo in miniatura si occupa del benessere e del buon funzionamento del nostro organismo, anche grazie ai neuroni del cervello.

5 - L’anello di un’immensa catena, la rete nervo-saCentomila chilometri di fibre nervose, 50 milioni di miliardi di connes-sioni… Dalla punta dei nostri alluci fino alla scatola cranica: i neuroni sono ovunque. Collegati e connessi fra di loro, i neuroni tessono una fitta ragnatela nel corpo umano, così complessa da non cessare mai di modi-ficarsi… Si formano continuamente coppie di neuroni, che si attraggono tra loro, oppure si dividono. Il loro obiettivo? Stabilire la connessione più efficace, quella che permetterà di associare il profumo di una torta di mele al sorriso di una mamma. Del resto associano già normalmente Pi-tagora al suo teorema, come il suono della sveglia all’azione di svegliarsi, ed è proprio questa la ricchezza dell’uomo, la sua malleabilità, che gli consente di apprendere, di ricordare e… di innamorarsi di una persona invece che di un’altra: la fitta ragnatela di neuroni e di sinapsi del nostro corpo, che costituiscono la rete nervosa.

La fitta ragnatela di neuroni e di sinapsi del nostro corpo, che costituiscono la rete nervosa.

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Sodio no, potassio sì. Potremmo riassumere così le informazioni che sentiamo ripetere da più fronti su questi elementi fondamentali per il benessere del nostro organismo. Per quanto si senta spesso parlare di queste due sostanze, molte perso-ne non conoscono bene quali siano le loro funzioni. E’ ormai accertato che troppo sodio fa male alla salute e che, invece, bisogna cercare di aumentare la quantità di potassio con la dieta. Ma, perché sodio e potassio vengono sempre considerati "in coppia"? Quali funzioni svolgono all'interno del nostro organismo? Quali sono i rischi di uno squilibrio tra queste due sostanze? Come è possibile riequilibrarle quando ci sono dei problemi?

Premessa.I sali minerali sono necessari per il normale funzionamento delle cellule e il nostro organismo necessita in particolare di una grande quantità di sodio, potassio, calcio, magnesio, cloro, fosforo, ecc. I sali minerali rappresentano una componente fondamentale di una dieta sana. Le persone che seguono una dieta equilibrata, contenente diverse varietà di alimenti, è improbabile che vadano incontro a disturbi nutri-zionali o a deficit dei minerali principali e, chi consuma grandi quantità di integratori senza una supervisione del medico, può avere effetti tossici pericolosi.L’organismo utilizza i sali minerali (elettroliti) per regolare le funzioni nervose e muscolari, per regolare l'equilibrio acido-base del sangue e dell'intero organismo, per mantenere il normale volume di liquidi nei diversi compartimenti dell'organismo, e cioè: 1) i liquidi contenuti nelle cellule; 2) i liquidi presenti nello spazio che circonda le cellule; 3) il sangue.Per funzionare normalmente è necessario che la concentrazione dei sali minerali nei vari compartimenti sia mantenuta entro limiti ben definiti. L’organismo regola la concentrazione dei sali minerali in ogni compar-timento utilizzando gli elettroliti stessi all'interno ed all’estemo delle cellule. I reni poi, filtrano gli elettroliti contenuti nel sangue e ne eliminano la quantità in eccesso con le urine, in modo da mantenere un equilibrio fra assunzione ed escrezione giornaliera. Se l'equilibrio dei sali minerali si altera, si possono sviluppare disturbi anche molto seri. Si può verifi-care uno squlibrio elettrolitico quando un soggetto si disidrata, quando utilizza alcuni farmaci, quando è affetto da patologie cardiache, renali o epatiche, quando ha assunto liquidi per via endovenosa o beve in modo inadeguato,… o suda molto e non beve abbondantemente.

Due minerali pregiati.Sodio e potassio sono fra i minerali che si trovano in una certa quantità nel nostro organismo. Nell'organismo adulto ci sono circa 85-95 grammi di sodio e circa 115-130 grammi di potassio. Si considerano sempre in coppia, perché la concentrazione di uno è strettamente collegata a quella

Pe r un co r re t to funzionamento del-l'organismo è ne-cessario introdurre in esso, attraverso l 'al imentazione o assumendo sotto stretto controllo me-dico farmaci specifi-ci, la giusta quantità di questi due impor-tanti minerali.

sodio E potassio, una pompa VitalE

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dell'altro e perché svolgono compiti comuni. L’equilibrio sodio-potassio è, fondamentale per mantenere il benessere delle cellule dell'organismo.Il sodio. La maggior parte del sodio è localizzata nel sangue e nei liquidi presenti nello spazio extracellulare. E’ necessario in tutte le cellule dell'or-ganismo, per mantenere un normale equilibrio dei liquidi. Riveste un ruolo chiave nel normale funzionamento dei nervi e dei muscoli. Viene assunto attraverso i cibi e le bevande e viene perso principalmente con il sudore e con le urine. Se nell’organismo si accumula sodio in eccesso, i liquidi si ammassano nello spazio presente fra le cellule. Di conseguenza i tessuti si gonfiano, specie a livello dei piedi e delle caviglie (condizione detta edema). Gli anziani che assumono diuretici (farmaci che inducono i reni ad elimi-nare acqua) sono particolarmente a rischio di avere una quantità di sodio superiore ad un certo valore, soprattutto se il clima è caldo o se interven-gono malattie e non viene assunta una determinata quantità di acqua.Il potassio. La maggior parte del potassio nell’organismo è localizzato all'interno delle cellule. II potassio è necessario per il normale funziona-mento delle cellule dei nervi e dei muscoli. I livelli di potassio nel sangue devono essere mantenuti entro limiti molto stretti. Se il livello di potassio è troppo elevato o troppo basso, possono verificarsi gravi conseguenze come alterazioni del ritmo cardiaco o persino un arresto del cuore. II potassio contenuto all’interno delle cellule può essere utilizzato dall'orga-nismo per mantenere costante il livello di potassio nel sangue. Il potas-sio viene assunto con i cibi e con le vivande contenenti sali minerali e viene eliminato con le urine, anche se una quota viene persa attraverso il tubo digerente ed il sudore. Ci sono diverse ragioni per cui il potassio può essere eliminato con le urine. Quella più comune è rappresentata dall'uso di diuretici, che determinano un aumento dell’escrezione renale di sodio, acqua e potassio.

Il loro equilibrio è fondamentalePerché organi, apparati e l'intero nostro organismo possano svolgere le proprie funzioni (per esempio respirare, camminare, difendersi da virus e batteri) devono consumare energia e questa deriva dalle sostanze nutrienti. Perché queste sostanze possano essere trasformate in energia devono

però entrare all’interno delle cellule. La cosa non è immediata, visto che la membrana che cir-conda ogni cellula è un filtro efficiente. Il glucosio, gli ami-noacidi e le altre sostanze nutrienti che forniscono energia vengono fatte entrare nelle cellule grazie alla cosidetta "pompa sodio-potassio". E' questa una struttura che si trova nella membrana cellulare e che consente l'ingresso e I’uscita dalle cellule in base alla concentrazione locale di sodio e di potassio. Questa struttura funziona come un sistema rotatorio che consente nello stesso momento di portare all'esterno molecole di potassio ed all'interno molecole di sodio e di materie nutrienti.

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In pratica, quindi, temporanei cambiamenti della concentrazione sia di sodio sia di potassio nelle cellule e nei liquidi esterni, consentono di trasportare all’interno sostanze fondamentali per la vita.Se l’equilibrio sodio potassio è fondamentale per mantenere il benessere delle cellule dell’organismo, non si tratta, però, di un equilibrio stabile, ma di un processo fisico-chimico in continua evoluzione e strettamente collegato alle reazioni necessarie alla vita.

Sodio e potassio sono forniti dall’alimentazioneSodio e potassio vengono normalmente forniti dall'alimentazione quoti-diana. Il sodio è garantito dal sale di cucina e da tutti gli alimenti che lo contengono (pane, formaggi stagionati, cibi conservati, ecc). In ogni caso, il fabbisogno giornaliero viene coperto da 3-5 grammi di sale da cucina. Il potassio è invece contenuto in tutte le verdure (in particolare quelle a foglia verde), nelle arance, nei cereali integrali. Banane, patate e spinaci ne sono dei veri e propri concentrati. Il fabbisogno giornaliero di questo sale minerale è di 2 grammi al giorno, ma è bene non dimenticare che caffè ed alcol ne aumentano l'eliminazione.Sodio e potassio ci vengono sì forniti con l'alimentazione, ma è il nostro organismo che provvede a mantenerli in equilibrio. E questo come ab-biamo visto attraverso meccanismi raffinati e complessi che permettono di dosare i sali secondo le necessità.A volte, però, l'equilibrio del sodio e del potassio può andare momenta-neamente in "tilt", sia per situazioni “banali" che non farebbero sospettare alcuna alterazione, sia per la presenza di malattie che ne impediscono la corretta eliminazione. Ma non mancano i rimedi: da quelli più semplici fino all'uso di farmaci specifici.

Sodio e potassio regolano l’idratazioneLa corretta concentrazione di sodio e di potassio nelle cellule e nei liquidi esterni consente, quindi, di garantire la giusta idratazione dell’organi-smo. Permette, cioè di fare affluire ai tessuti la necessaria quantità di acqua, evitando un accumulo di liquidi.Quando il sodio è in eccesso (perché, per esempio ne introduciamo trop-po con la dieta) tende a richiamare e trattenere l’acqua. La concentra-zione di liquidi all’interno o all’esterno della cellula dipende perciò dalla quantità di sodio presente in quel specifico settore del nostro corpo.Come abbiamo già detto, concentrazione di sodio e di potassio dentro e fuori dalle cellule dipende strettamente dalla pompa sodio-potassio, che lavora scambiando i due minerali fra interno ed esterno. La giusta idrata-zione si ha quando si mantiene un equilibrio fra i due minerali.

Le conseguenze di un eventuale squilibrio.Sodio e potassio possono perdere l’equilibrio che li caratterizza. In questi casi, le conseguenze non tardano a farsi sentire. Il problema più diffuso è quello di un’eccessiva disponibilità di sodio, questo si accumula nei

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liquidi extracellulari, tra cui il sangue. L’elevata presenza di questo sale richiama molta acqua, che fa aumentare il volume del sangue circo-lante, e quindi la pressione, fattori di rischio importanti per le malattie cardiovascolari.Inoltre, come abbiamo detto, un eccesso di sodio porta ad un accumulo di liquidi nei tessuti, con effetti spiacevoli: cellulite e gonfiori alle gambe sono in gran parte dovuti ad un consumo eccessivo di sale.

Se i valori si alterano.I motivi per cui l’equilibrio sodio-potassio può subire alterazioni sono diversi. Anzitutto l’eccesso di sodio con la dieta. Secondo gli addetti ai lavori, ogni giorno ci basterebbero 3,5 grammi di sodio, mentre ne con-sumiamo fino a 10-15 grammi. Il pericolo è rappresentato dal sale da cucina. (il cloruro di sodio) aggiunto ai cibi e dal sale usato per insaporire e conservare gli alimenti industriali, come i cibi in scatola, insaccati o affumicati. A questo si deve aggiungere la quota di sale contenuta natu-ralmente negli alimenti.In genere, invece, non si corrono pericoli di eccessi con il potassio; il suo fabbisogno quotidiano è di 2-5 grammi e in genere ne introduciamo 2-4 grammi. Si è quindi, eventualmente, un po’ in difetto, di questo mi-nerale.

A volte è colpa dei diuretici stessi…Anche un uso improprio dei diuretici può però portare ad un’alterazione delle quantità di sodio e potassio presenti nel nostro organismo. I diu-retici, infatti, sono farmaci che incrementano la diuresi (e quindi l’eli-minazione dei liquidi) e fanno eliminare sodio: un meccanismo, come sappiamo utilissimo per contrastare l’ipertensione e le malattie che determinano forte ritenzione di liquidi.Insieme al sodio, però, può venire eliminato anche il potassio, per cui buona parte dei diuretici blocca infatti i meccanismi attraverso cui i reni riescono a rielaborare le urine e riassorbire i sali minerali necessari. Proprio per questo i diuretici vanno sempre assunti sotto lo stretto controllo del medico, che regola la cura in modo da evitare pericolose perdite di potassio. Questo lo si può fare ricorrendo ad integratori che contengono questo minerale, o servendosi dei cosiddetti diuretici ri-sparmiatori di potassio, che impediscono perdite a rischio.

… o di certe malattie Alcune malattie portano ad un’alterazione nelle quote di sodio e di potas-sio normalmente tratteneute dal nostro organismo. È il caso dello scom-penso cardiaco, dell’insufficienza renale e della cirrosi epatica poiché queste malattie fanno trattenere una maggiore quantità di sali minerali e, di conseguenza di liquidi, l’organismo tenta con l’acqua di diluirla e di eliminarli. In realtà, invece, i liquidi possono andare ad accumularsi nei

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tessuti sotto forma di edemi. L’organismo tenta allora di compensare questa situazione trattenendo di nuovo sodio e di nuovo potassio (per avere a disposizione una maggiore quantità di liquidi), ma così facendo innesca un vero e proprio circolo vizioso del quale ne fa direttamente le spese la salute di tutto l’organismo. Questo circolo vizioso piò essere fortunatamente spezzato ricorrendo a dei diuretici mirati.

I pericoli.Il mantenimento dell’equilibrio dei sali minerali (quindi anche dell’equi-librio sodio potassio) avviene grazie ad un lavoro di collaborazione fra reni, surreni, attraverso un gruppo di ormoni. I sali minerali che sono in eccesso vengono immessi nelle urine, mentre se sono carenti, gli organi-filtro o altre strutture competenti provvedono a trattenerli ed a riutilizzarli. Le situazioni che più spesso possono alterare l'equilibrio sodio e potassio sono strettamente legate alla perdita di liquidi da parte dell'organismo, visto che i sali minerali sono disciolti proprio nell'acqua presente fra una cellula e l'atra e nel liquido presente all'interno delle cellule stesse. Le cause che più spesso ne sono responsabili sono: - La sudorazione abbondante, in quanto determina forte perdita di li-quidi e in conseguenza di sali minerali.- La diarrea, in quanto impedisce l'assorbimento da parte del colon (un tratto dell'intestino) dei liquidi introdotti con l'alimentazione e di quelli derivati dalle secrezioni del fegato, dal pancreas dello stomaco e delle ghiandole intesinali.- Il vomito, con il quale si toglie al nostro organismo quella parte di liquidi e di sali minerali che derivano dai succhi digestivi. - La febbre, che fa aumentare l'evaporazione degli liquidi attraverso la pelle ed i polmoni. - Un'eccessiva introduzione di liquidi (per motivi dietetici o per certe alterazioni del comportamento alimentare) o far diminuire troppo le con-centrazioni di sali minerali, che risultano di conseguenza alterate.- L'età avanzata, poiché la terza età è un periodo della vita in cui lo sti-molo della sete si fa meno intenso. Quando si è avanti negli anni è facile bere meno per cui l'organismo rasenta la disidratazione rischiando di andare a corto di liquidi e sali minerali. Tutti questi problemi legati alla presenza di sodio e di potassio nel nostro organismo, si fanno sentire in particolare nella stagione estiva, quando sudiamo di più, quindi perdiamo sali minerali in maggiore quantità e... non beviamo a sufficienza.

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Che cosa sono i batteri?Sono organismi viventi, microscopici, costituiti da una sola cellula. In tutto il mondo vivono migliaia di diversi tipi di batteri. Alcuni vegetano nell’ambien-te esterno, altri sulla nostra pelle, nelle vie respiratorie, nel tubo digerente e nell’apparato genito-urinario di uomini ed animali. Solo pochi tipi di batteri causano malattie.

Che cosa sono gli antibiotici?Sono i farmaci che più di qualsiasi altra medicina hanno contribuito ad allun-gare la nostra vita ed a migliorarne la qualità. Gli antibiotici, infatti, contrastano tutte le infezioni, più o meno importanti, che prima della loro messa a punto potevano provocare conseguenze fatali. Irrinunciabili e preziosi nel corso delle malattie causate da batteri, gli antibiotici rappresentano lo “zoccolo duro” delle cure farmacologiche. Nonostante questo, non di rado vengono utilizzati in modo improprio oppure assunti con riluttanza, ma il loro ruolo è insostituibile. Sono un salvavita in tutte le infezioni gravi.Come agiscono sull’organismo, quali sono le differenze fra i loro principiativi attivi? Quando sono davvero indicati? Quando, invece, si rivelano inutili? Perché sono sempre meno efficaci?

La loro scoperta ha contribuito ad allungare la vita…Sono principi attivi che impediscono la crescita dei batteri e che derivano in massima parte da organismi viventi. Il capostipite di tutti gli antibiotici è la pe-nicillina, una sostanza prodotta da delle muffe allo scopo di allontanare tutti i microrganismi che potrebbero aggredirle attentando alla loro sopravvivenza.

…ma ha reso più cattivi i batteri.Inevitabilmente, come vedremo, alcuni ceppi di batteri responsabili delle infezioni più diffuse hanno sviluppato una “resistenza” ad alcuni antibiotici, rendendo più complesse le cure. Uno studio molto recente, condotto negli ultimi tre anni, ha permesso di tracciare una mappa della resistenza dei batteri responsabili delle infezioni respiratorie che si contraggono nel normale ambien-te di vita. I risultati fanno riflettere sia il medico che deve scegliere l’antibiotico più adatto, sia il malato che deve seguire scrupolosamente le “modalità” d’uso; proprio il cattivo impiego dell’antibiotico, preso di propria iniziativa alla prima comparsa del disturbo, o sospesane l’assunzione prima del tempo per il timore di prenderne troppo, può far emergere ceppi “resistenti”.

Che cos’è la farmacoresistenza.Con il termine di farmacoresistenza s’intende l’insensibilità di certi batteri all’azione di alcuni antibiotici: questo significa che la malattia causata da una specie batterica non riesce più ad essere debellata da un farmaco che prima la curava con successo. Il fenomeno della farmacoresistenza è in continuo aumento e, da quando sono stati scoperti i primi casi, viene costantemente

Gli antibiotici, sono ancora Efficaci?

Sono tra i farmaci più prescritti al mondo, ma l’abuso come il cattivo uso che se ne fa, può renderli inuti-li. Il risultato è che gli antibiotici tendono a diventare sempre meno efficaci, perchè incapaci di combatte-re le infezioni per le quali sono stati creati. Perchè i batteri vanno acquisendo la capa-cità di resistere agli antibiotici? Il rischio non è remoto, ma è già in atto. Andiamo con ordine.

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tenuto sotto controllo.Per esempio, la resistenza agli antibiotici da parte di certe famiglie di germi avviene, come vedremo, per vari motivi e già dagli anni ’80, quando cominciò ad incrinarsi la con-vinzione che tutte le malattie infettive (causate appunto da germi) potessero essere debellate dagli antibiotici, i farma-cologi hanno cominciato a ricercare sempre nuovi farmaci per superare il fenomeno della resistenza dei batteri agli antibiotici.Per quanto siano composti da una sola cellula, i batteri sono esseri viventi e, come tali si riproducono; dunque anche nell’ambito dello stesso ceppo, cioè della stessa “famiglia”, possono presen-tarsi con individui un po’ diversi l’uno dall’altro. Infatti, grazie a tutta una serie di evoluzioni biologiche (sulle quali si sta ancora indagando), essi possono mettere in atto meccanismi che col tempo li rendono immuni dall’attacco dei farmaci ai quali prima il ceppo era sensibile. E l’uso curativo di una specifi-ca molecola antibiotica, uccidendo tutti i batteri “sensibili” del ceppo, lascia di fatto in vita quelli “diversi”, che a questo punto restano i soli in grado di riprodursi. E’ questo il complesso di fenomeni, assolutamente naturale, che si definisce “resistenza”.

Come fanno gli antibiotici a bloccare i batteri?Gli antibiotici riescono a bloccare i batteri attraverso alcuni meccanismi. Per esempio:- poiché la pressione interna dei batteri è leggermente superiore a quella ester-na, rendono permeabile la membrana che li delimita fino a farli esplodere;- impediscono la produzione delle proteine indispensabili alla crescita degli stessi microrganismi;si legano a particolari enzimi, allo scopo di ostacolare la duplicazione dei batteri;- impediscono la trasmissione delle informazioni del materiale genetico, osta-colandone la riproduzione.

Ma, come si organizzano i batteri per resistere agli antibiotici?Ogni volta che un batterio viene esposto all’azione dell’antibiotico, se la cellula che lo costituisce è sensibile a questo tipo di farmaco, muore. Ci sono, però, alcuni tipi di cellule batteriche meno sensibili alla molecola dell’antibiotico e, pertanto, in grado di sopravvivere e di moltiplicarsi; questo perchè la quantità del farmaco usato (in questo caso di antibiotico) risulta insufficiente per combattere l’intera popolazione di cellule batteriche poco sensibili. Ciò accade quando si prende un antibiotico per un periodo di tempo inferiore a quello prescritto dal medico, oppure quando se ne assume un dosaggio inferiore a quello stabilito.Nascono così nuove cellule con una certa “resistenza” agli antibiotici, e, con il tempo, tali cellule diventeranno sempre più resistenti e, quindi del tutto

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insensibili all’antibiotico.Quello della resistenza è un fenomeno naturale e graduale. Tuttavia il pro-blema subisce un’accelerazione e acquisisce dimensioni esagerate quando gli antibiotici vengono usati con troppa facilità o in modo non corretto.

I possibili rischi della resistenza.Il rischio rappresentato dalle resistenze agli antibiotici è davvero grande, tanto è vero che l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato un forte appello sull’importanza dell’uso corretto degli antibiotici, chiedendo la particolare col-laborazione degli Stati, dei medici, ma anche dei singoli cittadini. Il pericolo, infatti, è quello che questi farmaci perdano la loro efficacia lasciandoci senza armi contro malattie (come le polmoniti, le bronchiti, le infezioni delle vie urinarie), che oggi sono considerate comuni e quasi banali, proprio perché possono ancora essere curate con gli antibiotici. I batteri resistenti non vengono uccisi da questi farmaci e più le resistenze si diffondono, più è difficile curare le malattie causate da ceppi insensibili.

L’efficacia di una terapia antibiotica è nelle mani del medico.Sull’uso degli antibiotici, per il medico valgono certe regole tradizionali: uti-lizzare un antibiotico solo se c’è infezione da batteri, nelle dosi e per il tempo necessario a sradicare effettivamente quelli che provocano quella determinata infezione. E questo viene fatto dal medico in base alla sua esperienza perso-nale, che gli suggerisce quale può essere il batterio all’origine dell’infezione, alla sua conoscenza della situazione personale di salute del malato. E’ proprio per evitare la comparsa di resistenze che il medico non prescrive mai lo stesso antibiotico per la stessa malattia che si ripresenta dopo due o tre mesi.

Anche il malato deve però rispettare certe regole.Per evitare, per quanto è possibile di far insorgere nel proprio organismo dei ceppi di batteri antibioticoresistenti, anche il malato ha certe ”regole d’oro” da rispettare: basta seguire scrupolosamente i consigli del proprio medico. Non usare mai di propria iniziativa degli antibiotici per delle malattie causate da virus, come l’influenza, il raffreddore e la maggior parte delle forme di mal di gola. Gli antibiotici non servono contro questi microrganismi. Non utilizzare gli antibiotici che si hanno in casa, cercando di curarsi da soli. Secondo il tipo di malanno, bisogna usare l’antibiotico più adatto, che deve essere prescritto dal medico. Non insistere col medico perché prescriva antibiotici quando non lo ritiene necessario. Prima di prescrivere un antibiotico, il medico sa che sa-rebbe opportuno, nei casi più seri, fare eseguire un antibiogramma, un esame che consente di capire con quale germe si ha a che fare ed a quali antibiotici è resistente.Non interrompere la cura se scompaiono i sintomi: perché l’antibiotico sia veramente efficace è, infatti, necessario assumere il farmaco per il tempo indicato dal medico.Gli antibiotici vanno presi sempre alla stessa ora. Se la concentrazione di

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questi farmaci nel sangue diminuisce è, infatti, possibile che i germi contro i quali si sta combattendo si rafforzino e diventino resistenti.Non usare mai più antibiotici in associazione, a meno che non vengano prescritti dal medico. Non passare ad un altro antibiotico se non si vedono miglioramenti nelle prime 24 ore.Non esagerare con prodotti antibatterici per l’igiene personale e per le pulizie perché possono contribuire a diffondere resistenze batteriche.

Chi lo direbbe che negli ospedali la situazione è più seria?Il problema delle resistenze batteriche è particolarmente serio negli ospedali. Qui, infatti, i germi resistenti si diffondono con maggiore facilità, perché trova-no persone con ridotte difese immunitarie naturali, che cadono facilmente vittima di queste infezioni.Non a caso le infezioni da germi resistenti sono particolarmente diffuse nei reparti più a rischio, come la chirurgia, l’ortopedia, l’oncologia, i reparti di malattie infettive, le terapie intensive. In questi casi diventa fondamentale osservare scrupolosamente le norme igieniche (per esempio la disinfezione degli strumenti chirurgici, il cambiare i guanti dopo ogni operazione medica, ed evitare l’abuso di antibiotici), perché si può contribuire ad aumentare il rischio di resistenze batteriche.

Con il tempo cresce l’insensibilità dei batteri agli antibiotici.Dopo decenni che usiamo gli antibiotici, è abbastanza normale che le resistenze siano diffuse, perché il tempo favorisce il contatto dei germi con i farmaci e lo sviluppo di ceppi “insensibili”. Ma anche altre particolari situazioni, però, concorrono ad accrescere lo sviluppo delle resistenze. Per esempio: le dosi troppo basse e le cure interrotte prima del tempo, permettono ai batteri anche leggermente resistenti (che nella realtà sono i più diffusi), di sopravvivere senza problemi. Un particolare: il 60 per cento dei batteri isolati (cioè individuati) è resistente ad almeno un antibiotico. Uno dei batteri più resistenti agli antibiotici è lo stafilococco aureus.Se è un processo evolutivo naturale che i batteri sviluppino con il passare del tempo o nelle situazioni particolari accennate rafforzino lo sviluppo delle resi-stenze agli antibiotici, il vero problema è oggi la velocità con la quale queste si manifestano. I germi, infatti, non sono resistenti soltanto ad antibiotici in commercio da decenni, come la penicillina.

Contribuiscono al fenomeno della resistenza an-che: gli antibiotici destinati agli animali…Una grande quantità di antibiotici prodotti non è destinata all’uomo bensì agli animali, contribuendo così al fenomeno della resistenza. Gli antibiotici vengono usati in zootecnia: per prevenire le infezioni negli animali da allevamento; per stimolare la crescita dei vari animali, aggiungendo l’antibiotico in piccole dosi

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ai vari mangimi. Si tratta di quantitativi insufficienti per combattere comunque una qualsiasi infezione, ma in tal caso si favorisce la proliferazione di batteri resistenti agli antibiotici, che possono contagiare non solo gli altri animali ma anche l’uomo e tutti coloro che mangiano carne poco cotta. Si potrebbe, anzi si dovrebbe limitare l’impiego di antibiotici e migliorare, invece, l’igiene degli allevamenti.

…quelli destinati all’agricoltura.Anche il settore agricolo contribuisce alla diffusione del problema della resi-stenza agli antibiotici.

Sotto accusa anche i prodotti antibatterici.Sul banco degli imputati anche i detersivi ed i prodotti per l’igiene perso-nale ad azione antibatterica: in virtù di questa loro capacità disinfettante e di eliminare tutti i microbi, non farebbero altro che accrescere il fenomeno della resistenza e favorire la nascita di “superbatteri”, ossia di ceppi di microrganismi ultraresistenti anche agli attacchi della vancomicina, un antibiotico di nuova generazione, molto potente, in genere usato esclusivamente nelle strutture ospedaliere.Si raccomanda, quindi, di non abusare anche dei disinfettanti per la pulizia della casa (saponi per stoviglie o per il bagno); nel bucato va bene la candeggina o i saponi di un tempo. I prodotti ad azione antibatterica vanno riservati solo se c’è un malato in casa o una persona con il sistema immunitario indebolito.

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Un recente studio inglese, ha acceso i riflettori su un tema delicato ed importante: il rapporto medico-paziente, la cui qualità buona o cattiva, ha un peso, nel bene e nel male, sull’esito delle cure. Il dialogo fra que-ste figure è spesso ridotto all’osso, motivo per cui cresce la sfiducia nei confronti di chi vigila sul nostro benessere.Riporta lo studio inglese che colà il paziente ha a disposizione più o meno 18 secondi per poter esporre al medico la propria situazione, poi si viene interrotti da una domanda, di norma volta a cogliere più velocemente pos-sibile l’essenza del problema, in modo da fare, altrettanto rapidamente, diagnosi e relativa prescrizione. E da noi come stanno le cose?Dalla gente comune, mai abbastanza rimpianti richiamano a quella figura del medico dei tempi passati e che tutti cercano e difficilmente trovano. La gente comune, che a volte trova difficoltà ad esprimere quello che ha dentro, ricorda il proprio medico di fiducia come una persona che guar-dava al malato e non solo alla malattia, che curava qualsiasi cosa, con pochi mezzi e con molta carica umana e con un eccellente occhio clinico. Il medico era una figura alla quale non si chiedeva solo professionalità, ma anche partecipazione, interessamento, capacità di far sentire che si era ascoltati e compresi.Il medico non è infatti, e mai lo sarà, un professionista come gli altri: a lui si affida la salute, il bene più prezioso di tutti, che non si può com-prare a nessun prezzo. Ed è proprio per questo che è condivisibile l’idea sostenuta da molti giovani medici e da illustri nomi della medicina, che la prima cura per un malato è il medico stesso, ed in particolare il rap-porto basato sul dialogo che si dovrebbe instaurare con lui: il dottore è la prima cura.

Oggi: più attenzione alla malattia che alla persona.Dagli anni sessanta, con l’avvento di farmaci ad azione “miracolosa“ e di strumenti diagnostici sempre più sofisticati e precisi, certi medici sembrano aver imboccato la strada “meno umana“: meno ascolto, meno disponibi-lità, non più vero interesse nei confronti del malato come persona. Al centro della loro attenzione c’è la malattia, studiata sui libri ed uguale per tutti, non il malato, con la sua unicità, la sua fragilità, le emozioni, le paure, tutti importanti quanto i sintomi puramente fisici.Di fronte a questi atteggiamenti quasi da “automi“, programmati per attua-re specifiche competenze, ma “incapaci“ modularle sul singolo caso, un certo disorientamento iniziale della gente si va gradualmente trasformando in un malcontento sempre più tangibile. Tutto questo, oggi, trova la sua espressione in un fenomeno che è stato battezzato “doctor shopping“.

Perché? Perché ogni malato ha la sua storia.Ricordo che il Prof. Campanacci alla sua prima lezione che fece alla Uni-versità di Parma a noi studenti del 4° anno di medicina, cominciò così: il criterio ispiratore dei medici, dovrebbe essere: la medicina centrata sul malato e come loro preciso compito indicava la valutazione del modo col quale ognuno fronteggiava la malattia anche sul piano emotivo.

la prima cura pEr il malato è il mEdico

Pochi gesti del medico di famiglia possono servire ad individuare subito la causa di un malessere o di un do-lore. Un medico che ascolta chi ha di fron-te, conquista subito la sua fiducia. Oggi alla classica visita viene data poca importanza anche dai medici. Per-ché non ricominciare ancora effettuando una visita accurata e poi, nel caso in cui ci siano i presupposti o anche determinati sospetti, indirizzarsi verso uno specifico esame?

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Il “vissuto di una malattia“ comprende sempre alcune aree comuni a tutti gli ammalati, ma diverse per quanto riguar-da i contenuti, perché influenzate dalla storia di ciascuno:- un’area dei sentimenti (che comprende la paura, l’ansia, la speranza di guarigio-ne, lo smarrimento,…); - un’area delle interpretazioni, che il malato dà della sua malattia e che comprendono le ipotesi personali sulle cause; - un’area delle aspettative che il malato nutre nei confronti del medico e in gene-rale dei trattamenti sanitari; - un’area del “quotidiano“, che comprende il contesto sociale, culturale, affettivo nel quale la persona vive.Il Prof. Campanacci ripeteva con forza a noi giovani allievi che ci avviavamo

a questa professione che: l’esplorazione di queste aree avrebbe dovuto essere la parte integrante della professione medica, sia in caso di ma-lattie acute sia in caso di malattie croniche. Del resto la letteratura medica internazionale insiste come un tale atteggiamento di apertura nei confronti del paziente, possa essere d’aiuto per collaborare insieme (medico e paziente) alle cure ed essere più soddisfatti delle prestazioni ricevute senza pensare di essere stati trascurati.

Saper ascoltare e saper comunicare: è un dono innato o si acquisisce?Per porre un freno al fenomeno del “doctor shopping“ secondo il Prof. Umberto Veronesi, per i medici l’unico rimedio è quello di migliorare la comunicazione con il paziente, nonostante le difficoltà oggettive. Cioè saper comunicare e saper ascoltare. Ma questo si può imparare a farlo o è un dono di natura?Secondo gli studi riportati nella letteratura scientifica, la capacità di mettere l’altro a proprio agio, di entrare in sintonia con lui di farsi comprendere e di cogliere i significati più nascosti delle sue parole è una competenza che si “insegna “e che si può “apprendere“. E’ innegabile che i medici per il loro temperamento siano aperti nei confronti degli altri, siano mossi da un reale desiderio di aiutare il prossimo, siano appassionati del loro lavoro e convinti che sia (se non la “missione“ di vecchia memoria) senz’altro prezioso per l’umanità. Sono senz’altro favoriti nell’ambito della comuni-cazione e quindi destinati a creare con i malati rapporti di qualità.Al contrario chi è scostante, poco motivato e poco gratificato, probabil-mente non potrà mai imparare a comunicare meglio, anche perché molto probabilmente non è interessato a farlo.

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Una prassi di moda: cambiare continuamente medico.La prassi ormai di moda di cambiare continuamente medico è detta: “doctor shopping”. E questo nel tentativo di trovare finalmente qualcuno con uno spessore non solo professionale, ma anche umano.Si cerca il medico “giusto” per sè, che risponda ad un’esigenza di ascolto e di comprensione, che la scienza stessa conferma essere fondamentale ai fini della guarigione.D’altronde, oggi si sa che il tono dell’umore influisce direttamente sulla risposta immunitaria e che, quindi, uscire dallo studio del medico con la netta sensazione di aver consultato un “muro” di ghiaccio non può che abbattere psicologicamente, peggiorando la propria condizione.

Cominciamo dalla prima visita: un momento chiave.Dare spazio alle parole della persona serve non solo a raccogliere infor-mazioni, peraltro importanti, sulla sua emotività e sul contesto in cui vive, ma anche ad avere un quadro più chiaro delle sue condizioni generali, della sua salute e dei rischi ai quali è esposta e, quindi, maggiori notizie utilissime ai fini della diagnosi.La chiave, è la cossidetta raccolta minuziosa di tutti i dati riguardanti le malattie sviluppate dalla persona e dai suoi parenti più stretti. Questa chiave è detta: anamnesi.Oggi, infatti, si sa che quasi tutti i disturbi della salute hanno una base familiare, cioè ricorrono tra consanguinei. Questo dato ha un peso note-vole nella prevenzione.Per il medico può essere fondamentale sapere che, per esempio, entram-bi i genitori della persona che ha di fronte hanno avuto un infarto: una simile informazione, che segnala un rischio oggettivo di andare incontro allo stesso problema, permette di mettere in atto con grande puntualità tutte le strategie utili per conservare a lungo la salute del cuore.L’anamnesi che il medico fa durante la prima visita, perchè abbia un suo preciso valore non deve essere però incalzante ed ansiogena come un interrogatorio di polizia. L’ideale sarebbe che il medico lasciasse spazio al racconto, concedendo a chi ha di fronte di esporre le cose secondo la propria logica, che rappresenta poi l’espressione più diretta del suo modo di essere. Se i medici sono gli “esperti” in generale, il malato è l’esperto più preparato per quanto riguarda la propria malattia.

Anche l’”anima” ha la sua importanzaImportante è che il medico non guardi solo alla malattia, ma prenda in considerazione la persona nella sua interezza di essere umano, con emozioni, paure, dubbi ed incertezze.Un medico capace di ascoltare e, quindi di far sentire il paziente in buone mani può essere già un benefico effetto curativo. Per contro, un medico scostante, frettoloso o gelido può indurre sentimenti di autosvalutazione, di scoraggiamento o di rabbia impotente che

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possono rallentare la guarigione o addirittura modificare negativamente il modo con cui la persona affronta le cure.

Senza ascolto si può sbagliare facilmente.D’altra parte, ascoltare un paziente per capire il suo vissuto non è utile soltanto per “mettere le persone a proprio agio”: è una possibilità in più per non sbagliare la diagnosi.E se questo vale per tutti i medici lo è ancora di più per gli psichiatri ed i neuropsichiatri che si occupano di bambini e di adolescenti. Da qui i vari errori diagnostici, come il mancato riconoscimento delle forme depressive, non di rado scambiate per un disturbo di ansia e quindi curate in modo improprio o sottovalutate.Le mamme, poi, pur esprimendosi con un linguaggio poco scientifico, riescono a fornire una descrizione dei comportamenti del bambino che può risultare “illuminante”. Basterebbe ascoltarle, ma questo purtroppo non sempre avviene.Il medico che ascolta chi ha di fronte conquista subito la sua fiducia!Di recente, in seno all’Università di Milano è nato un Centro di ricerca nel campo della comunicazione in medicina che ha come riferimento culturale il modello di “medicina centrata sul paziente”. Fra i vari studi in corso, l’obiettivo è di stabilire come i differenti stili di comunicazione dei medici possano determinare anche un diverso modo della persona di affrontare le cure.

Poco tempo a disposizione del malato.I medici ospedalieri e quelli di base si scontrano con la realtà di non poter dedicare più tempo al malato. Le persone da visitare sono tantissime e, quindi è impossibile dedicare a ciascuno il “giusto tempo”, che Umberto Veronesi ex ministro della sanità (grande sostenitore della tesi che la storia personale del paziente sia un elemento base della “buona cura” moderna), indica in circa 10-20 minuti per il dialogo più la visita. Poiché da qualche anno gli ospedali sono diventati aziende che devono fornire prestazioni remunerative (come interventi chirurgici e velocissime visite specialistiche), un medico ospedaliero può dedicaread ogni persona circa 45 minuti. E, anche tutto questo è un’utopia! Per i medici di base, poi, la situazione non è molto diversa: nei loro ambulatori accedono ogni giorno decine e decine di persone.

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La persona che si reca dal medico, sia esso di famiglia o uno specialista, pensa generalmente che per riuscire a trovare una risposta sicura a tutti i suoi mali, sia fondamentale sottoporsi ad un esame diagnostico più o meno invasivo. Sono infatti molti i malati che si recano dal medico pretendendo che sia loro prescritta una Tac, una Risonanza magnetica o, come minimo un’ecografia. Se poi l’esito di questi esami è negativo, si sentono rassicurati. Molti malati, però, non sanno che un’indagine semeiotica (oggi quasi dimenticata), sebbene praticata manualmente ma in modo accurato dal medico stesso, permette di dare un giusto peso all’esito di questi esami. Il medico, poi, in base ai sintomi lamentati ed alla classica visita (seppure condotta con sole quattro mosse ma-nuali), si sentiva in grado sospettare la presenza di una determinata patologia o, eventualmente continuava con ulteriori indagini più mirate e più costose per quei tempi. Un’accurata “antica” ispezione semeiotica era comunque di aiuto al medico per formulare l’ipotesi di una malattia indipendentemente dai tanti esami di routine, indubbiamente utili più per un’eventuale conferma.

Una diagnosi in quattro mosse.Perché il medico chiedeva quasi sempre di “dire 33”? Perché certe volte chiedeva di poter esaminare le gambe, oppure metteva le mani in corrispon-denza dei vasi del collo? E quando invece usava il martelletto sul ginocchio o percuoteva il torace con le dita, che cosa stava verificando?Si trattava di gesti comuni che venivano quasi sempre eseguiti nel corso di una normale visita del proprio medico; di queste mosse, tuttavia, non si sapeva il significato, ma che potevano servire per individuare la causa del malessere o di un dolore. Erano mosse sottovalutate dai malati (e talora anche dagli stessi medici), eppure questi gesti hanno invece tuttora un ruolo fondamentale nel riconoscimento di alcune malattie sia comuni e banali sia serie. Tutte le tecniche che vengono effettuate manualmente dal medico sono chia-mate “manovre di semeiotica” e la diagnosi veniva fatta essenzialmente con queste quattro mosse. Pochi gesti del medico di famiglia potevano servire ad individuare subito la causa di un malessere o di un dolore. E oggi?

1 – Ispezione: occhio, orecchie, torace, gambe.L’ispezione rappresenta il primo passo per formulare una diagnosi ed impo-stare la relativa cura. L’ispezione consiste infatti nell’osservare determinate parti del corpo per raccogliere gli elementi necessari alla diagnosi.Il medico guarda anzitutto la parte bianca dell’occhio per valutare eventuali problemi di fegato. In questo caso (il rivestimento esterno ricoperto da una sottile membrana, chiamata congiuntiva) appare giallo. Se invece è pallido, si può sospettare un’anemia.LE UNGHIE.Quando si hanno problemi respiratori che comportano un’insufficiente apporto di ossigeno ai vari tessuti, le unghie appaiano di colore violaceo. Se invece presentano macchie bianche, possono fare sospettare una psoriasi o una dermatite atipica; se sono scure, può essere conseguenza di un trauma oppure la presenza di un neo o di un melanoma. Se le macchie sono chiare e scure, può essere presente una micosi. Se le unghie sono scavate al centro (a

c'Era una Volta il mEdico

Pochi ges t i de l medico di famiglia possono servire ad individuare su-bito la causa di un malessere o di un dolore.

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forma di cucchiaio) o con solchi orizzontali, si può pensare ad un’anemia da carenza di ferro; se sono convesse (tipo un vetrino da orologio) una malattia dell’apparato respiratorio, del fegato o dell’intestino.LA LINGUA.L’indizio dello stato di salute può essere dato anche dall’osservazione della lin-gua. Se, per esempio, è di colore pallido può segnalare un’anemia da carenza di ferro; se invece è bianca e “sporca” può essere presente un’infezione delle vie respiratorie; in caso di scarlattina è di colore rosso fragola; se è arrossata e lucida, può essere dovuto alla carenza di vitamina A e D; ecc.IL TORACE.Eventuali asimmetrie del torace possono indicare una pleurite o un versa-mento pléurico (raccolta di liquidi nelle membrane che rivestono i polmoni). I movimenti respiratori, che nelle donne e nei bambini sono per lo più costali mentre per negli uomini sono addominali. Movimenti invertiti nei due sessi possono, per esempio, essere il segnale di un’ascite (raccolta abbondante di liquidi nella cavità attorno ai visceri addominali), o di un ingrossamento del fegato nell’uomo, ecc. Una ridotta espansibilità del torace può far pensare ad un enfisema (che si manifesta con tosse e difficoltà a respirare). Un aumen-to della frequenza e del ritmo degli atti respiratori, può essere indice di un problema di cuore e, se la fase di espirazione è prolungata e rumorosa, può essere indice di asma o enfisema.LE GAMBE.L’ispezione delle gambe consente di rivelare la presenza di serie malattie car-diache, renali o venose. Se sono gonfie, può trattarsi: di vene varicose; di uno scompenso cardiaco, ossia della incapacità del cuore di fornire un apporto di sangue ossigenato ai tessuti adeguato alle necessità dell’organismo; di malattie dei reni, perchè se non funzionano adeguatamente, si verifica una ritenzione di liquidi alle gambe. Se poi il medico rileva una diminuzione dei muscoli, può sospettare una sciatica, o, nei casi più seri una malattia neurologica come la sclerosi multipla (malattia caratterizzata dalla distruzione della guaina che riveste le fibre nervose).

2 – Palpazione: addome, torace, collo.Si tratta di una importante manovra diagnostica che può essere effettuata dal medico con le mani e che ha la funzione di verificare lo stato di salute di diversi organi ed i rapporti con quelli vicini. Con la palpazione è possibile stabilire le dimensioni, la consistenza, il grado di dolore, la forma, il volume degli organi. L'ADDOME.La palpazione dell'addome permette di rilevare ingrossamenti anomali di fegato e milza; la presenza di un problema a carico del pancreas; se sono presenti pulsazioni anomale e abnormi a livello addominale, potrebbe essere un segnale allarmante di un aneurisma dell’aorta addominale.Molto importante è la palpazione delle ghiandole linfatiche poste sotto il mento (ma anche sotto le ascelle e all’altezza dell’inguine). Se risultano ingrossate, significa che c’è un’infiammazione in atto. Infatti, le ghiandole, aumentano di volume quando viene prodotto un numero di anticorpi superiore al nor-

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L’accennata infiammazione può essere a carico della gola, delle orecchie, dei denti, mentre l’ingrossamento delle ghiandole delle ascelle o dell’inguine può far pensare alla mononucleosi (infezione caratterizzata dall’ingrossamento di milza e linfonodi) o a un’infezione del sangue. Palpare la base del collo può anche servire a verificare le condizioni della tiroide.

3 – Auscultazione.Il medico di famiglia ha la possibilità ascoltare i rumori provenienti da vari organi, per lo più dal cuore e dai polmoni e valutarne il buon funzionamento. A tal scopo si serve di uno strumento chiamato stetoscopio.I POLMONI.In condizioni normali, il rumore dei polmoni che si avverte è intenso e lungo nell’ispirazione, più debole e di durata inferiore nella fase espiratoria. Una riduzione dell’intensità del rumore respiratorio può essere indice di: - ostru-zione progressiva delle vie aeree, che porta ad un’insufficienza respiratoria); - un focolaio di polmonite (il rumore respiratorio può anche non esserci). Il medico può rilevare anche fruscii, rantoli, gorgoglii, tipici di una bronchite e di asma.IL CUORE.Se il medico usa lo stetoscopio per auscultare il cuore, riesce a rilevare even-tuali aritmie (cioè dei battiti irregolari, che nella maggior parte dei casi sono benigne (talora causate da ansia, da eccesso di caffè o di nicotina). Altre volte, però, le aritmie sono un segnale di malattie importanti da diagnosticare al più presto e che mettono in serio pericolo la persona.L’auscultazione dell’addome non ha un peso così importante quando l’auscul-tazione del cuore e dei polmoni, ma questo metodo di diagnosi è comunque utile per rilevare: - rallentamenti o blocchi intestinali che richiedono un inter-vento immediato; - rumori vascolari addominali che possono far richiedere più specifici esami onde individuare eventuali malattie dei vasi dell’addome o delle arterie renali.

4 – Percussione: torace.E’ la tecnica che consente al medico di valutare lo stato di salute di un orga-no o di un apparato in base alle caratteristiche del suono che questo emette quando viene percorso con uno o più dita. Tipica è la percussione del torace. Il medico posiziona il dito medio di una sua mano sul torace nella posizione che si vuole indagare, poi con il dito medio dell’altra sua mano (piegato ad angolo retto) lo percuote con un colpo leggero e rapido. Secondo il tipo di suono che si sente, il medico è in grado di valutarne se si possa pensare alla presenza di un enfisema polmonare (cioè di un aumento del volume degli alveoli polmonari, che si manifesta con tosse e difficoltà di respirare); o alla mancanza di aria fra i polmoni e la parete del torace, dove può essersi verificata un’infiltrazione di acqua oppure un addensamento di muco, per cui si potrebbe essere in presenza di una pleurite o di una polmonite.IL CONTROLLO DEI RIFLESSI.Se il medico prende in mano un particolare martelletto significa che vuole

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controllare i “riflessi” (per riflesso s’intende una contrazione muscolare invo-lontaria che si ottiene stimolando una struttura sensitiva). I riflessi possono essere il segnale di una lesione nervosa, di una mancata reazione ad uno stimolo o di una reazione esagerata.In pratica il medico, battendo lievemente il martelletto su di un tendine mu-scolare, genera una reazione che provoca la propagazione di impulsi nervosi verso il midollo spinale e da qui ad altri neuroni che innervano i muscoli. A questo punto i muscoli interessati si contraggono automaticamente. Un esempio: quando con il martelletto viene colpito il legamento sotto la rotula, in corrispondenza del ginocchio, automaticamente la gamba si estende; se invece si colpisce il tendine di Achille (a livello del calcagno), i muscoli del polpaccio si contraggono e di conseguenza il piede si flette. Altri riflessi invece possono essere suscitati mediante una stimolazione cutanea, per esempio con una punta smussata. E’ il caso di quando il medico misura i riflessi perché sospetta un problema di sciatica (la sciatica è una patologia che si caratterizza per un dolore che s’irradia a tutta la gamba) ed è il segno indiretto di una compressione dei nervi che potrebbe nascondere un’ernia del disco oppure una malattia neurologica. Questo metodo è un altro esempio di indagine semeiotica che viene eseguito quando il medico teme che la persona soffra di neuropatia diabetica (una complicazione del diabete che si manifesta con alterazioni della sensibilità).Quando si cambia medio sarebbe opportuno chiedere una visita completa.

A VOLTE, OGGI, LA COLPA È DEI DOTTORI. PERCHÉ?Anzitutto, è da imputare ai medici stessi la poca importanza che essi attri-buiscono alla visita medica. Molti medici, ad esempio, non sanno fare o hanno perso l’abitudine di fare l’esame semeiotico. In un epoca all’insegna della ipertecnologia, molti medici tendono a dare più importanza alle inda-gini fatte con macchinari piuttosto che ai ragionamenti clinici raffinati che richiederebbe proprio l’ispezione semeiotica. Alcuni trovano più comodo e veloce prescrivere un esame piuttosto che visitare il malato e cercare di interpretare i sintomi lamentati. Dopotutto, però, il malato stesso in genere non è contento di quello che il medico riesce a diagnosticare senza gli esami. Questo potrebbe anche essere interpretato come un modo per tutelarsi ed evitare guai medico-legali: infatti, nel caso in cui dovesse accadere qualche imprevisto spiacevole al malato, il giudice li potrebbe anche condannare il medico per essere stato negligente ed essersi limitato all’esame clinico, trascurando invece l’esito di eventuali esami.Forse bisognerebbe ancora cominciare effettivamente con un’accurata visita e poi, nel caso in cui siano i presupposti oppure determinati sospetti, indirizzarsi verso uno specifico esame più mirato.In questo modo: potrebbero diminuire i tempi delle liste d’attesa; i malati perderebbero meno tempo; verrebbero ridotti i costi a carico del Servizio sanitario nazionale. Ma, “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Oggi alla visita viene data poca importanza anche dai medici.

EducazionE alla salutE ..................................................................................................................8

impariamo a star bEnE ...................................................................................................................9

combattiamo l’abuso dEi farmaci .................................................................................................14

Quali farmaci consumiamo di più .................................................................................................16

Gli psicofarmaci /1 ...................................................................................................................18

Gli psicofarmaci /2 ...................................................................................................................22

sonno E… insonnia /1 ...............................................................................................................24

sonno E… insonnia /2 ...............................................................................................................27

l’ansia non è sEmprE nEmica ........................................................................................................29

l’artrosi: un malE ormai di tutti ....................................................................................................30

in attEsa dEl “ViaGra” ................................................................................................................36

comE difEndiamo la nostra salutE ................................................................................................39

d.n.a. il codicE dElla Vita ..........................................................................................................41

chE cosa ci raccontano i nostri GEni ..........................................................................................45

il nostro corpo è una fabbrica di droGhE naturali pEr il nostro bEnEssErE ........................................48

farmaci nEmici dEll’amorE ...........................................................................................................51

anchE in bioloGia c’è una corsa inintErrotta aGli armamEnti .........................................................54

tEniamo puliti i nostri piccoli tubi: lE artEriE ...................................................................................57

Quando cambia il tEmpo.... lE mEtEoropatiE ...................................................................................60

il dolorE. sua oriGinE E suE tErapiE ................................................................................................64

un problEma bioloGico: pErché s’inVEcchia ...................................................................................67

rEstarE GioVani con Gli antiossidanti killErs dEi radicali libEri .........................................................70

luci E ombrE sui farmaci anticolEstErolo .......................................................................................73

i triGlicEridi: ViGilati molto spEciali da tEnErE sotto controllo .......................................................78

mElatonina: il più EfficacE antiossidantE .......................................................................................81

transaminasi E salutE dEl fEGato ...................................................................................................84

i Globuli bianchi, sEntinEllE dElla nostra salutE ..............................................................................88

sE i Globuli rossi sono lEnti a sEdimEntarE è sEGno di buona salutE: la VEs ........................................91

Quando il sanGuE è troppo dolcE: GlicEmia E diabEtE .......................................................................95

la salutE dEl fEGato: uno dEi filtri naturali* ...................................................................................99

Epatiti E Virus a confronto ........................................................................................................102

EpatitE b, una malattia pEricolosa E infida ...................................................................................105

la tEmibilE EpatitE c, chE spEsso c’é anchE sE non si sEntE ..............................................................108

Quando lE difEsE sbaGliano bErsaGlio: lE malattiE autoimmuni .......................................................112

polmonitE? mEGlio prEVEnirE chE curarE, cioè Vaccinarsi ............................................................115

Quando il cibo Va controcorrEntE E torna su: il rEflusso GastroEsofaGEo ....................................118

salutE maschilE, l’andropausa: Gli ormoni maschili fanno rinGioVanirE o fanno malE? ..................122

al VolantE, attEnti ai farmaci chE fanno dormirE! .......................................................................126

si ai Grassi, ma solo sE “buoni” .................................................................................................130

acido acEtilsalicilico (aspirina) o paracEtamolo (tachipirina): attEnzionE! QualE scEGliErE? ..........134

la salutE dElla prostata: 3 problEmi ............................................................................................137

Quando la prostata s’inGrossa è colpa di un adEnoma ................................................................140

la salutE dElla prostata, il tErzo motiVo pEr una Visita: il tumorE o carcinoma dElla prostata ..........145

salViamo lE nostrE fraGili ossa dall’ostEoporosi .........................................................................149

ossa fraGili: oGGi c’è rimEdio ...................................................................................................152

ostEoporosi, oVVEro ossa fraGili ...............................................................................................157

il nostro cuorE Visto da Vicino ..................................................................................................160

lE malattiE cardioVascolari rapprEsEntano la prima causa di mortE E di inValidità nEl mondo industrializzato ...165

l’ictus: è una malattia tEmibilE, ma si può prEVEnirE, Quindi cErcarE di EVitarE ...................................172

“la mia opinionE a proposito dElla ricErca suGli Embrioni” ...........................................................177

un piccolo ictus: un attacco ischEmico transitorio (tia) ..........................................................182

chE cos’é il mEtabolismo? la chiaVE dEl nostro bEnEssErE .............................................................184

psoriasi: una malattia psicosomatica? ........................................................................................188

alzhEimEr: il difficilE ViaGGio VErso l’oblio ..................................................................................193

l’alzhEimEr è la più frEQuEntE forma di dEmEnza nEi paEsi occidEntali .............................................197

influEnza una storia infinita .......................................................................................................202

cocaina, una droGa dilaGantE .................................................................................................207

droGhE, un pEricolo in aumEnto/2 .............................................................................................212

il sistEma linfatico: una difEsa pEr l’inVErno, un aiuto contro lE infEzioni .......................................217

tbc, Quali rischi in italia ? .......................................................................................................223

ErEdità scomodE, chE si possono EVitarE, prEVEnirE .......................................................................228

pErché si può pErdErE la mEmoria? ..............................................................................................234

sodio E potassio, una pompa VitalE .............................................................................................241

Gli antibiotici, sono ancora Efficaci? .......................................................................................246

la prima cura pEr il malato è il mEdico .......................................................................................251

c’Era una Volta il mEdico .........................................................................................................255