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Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo Il caso della Regione Campania Rapporto C.Re.A.T. – Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza di Margherita Scarlato* * Dipartimento di Economia, Università Roma Tre, e-mail [email protected].

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Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo

Il caso della Regione Campania

Rapporto C.Re.A.T. – Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

di Margherita Scarlato*

* Dipartimento di Economia, Università Roma Tre, e-mail [email protected].

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 66 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Centro Regionale di Analisi Territoriale – Città della Scienza

Città della Scienza spa Socio Unico Regione Campania

via Coroglio n.57/104 I - 80124 Napoli

e-mail: [email protected] Tel.: +39 081 7352 449/447

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Realizzato con il cofinanziamento dell’Unione Europea P.O.R. Campania FESR 2007 – 2013 Ob. 7.2

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 67 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Welfare e sviluppo nel Mezzogiorno: la strategia degli Obiettivi di servizio

Gli Obiettivi di servizio Impresa sociale, azione collettiva e sviluppo umano L’impresa sociale come strumento per realizzare gli Obiettivi di servizio Rischi e difficoltà di un approccio basato sull’impresa sociale

Qualità della vita e servizi collettivi in Campania Amministrazioni locali e impresa sociale: la Campania al confronto con le altre Regioni meridionali

Analisi dei Piani di azione e dei POR (Programmi Operativi Regionali) Riflessioni conclusive sugli Obiettivi di servizio e l’impresa sociale nella cornice della programmazione regionale Un approfondimento sulla Regione Campania

L’impresa sociale nella programmazione delle Regioni italiane più innovative: i casi di Lombardia ed Emilia-Romagna

La Regione Lombardia La Regione Emilia-Romagna Conclusioni

Una presentazione di alcune buone prassi nelle Regioni del Centro-Nord

La diffusione dell’impresa sociale in Italia Esempi di buone prassi replicabili nel Mezzogiorno Suggerimenti di policy

L’impresa sociale negli altri Stati Membri dell’Uni one Europea Riferimenti bibliografici

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 68 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

1. Welfare e sviluppo nel Mezzogiorno: la strategia degli Obiettivi di servizio Gli Obiettivi di servizio

L’impresa sociale è un’organizzazione che accresce le capacità dei cittadini e che genera beni relazionali e capitale sociale. La tesi che qui si sostiene è che nel Mezzogiorno la promozione dell’impresa sociale avrebbe l’effetto diretto di espandere l’accesso ai servizi collettivi, e dunque le capacità dei residenti meridionali, e l’effetto collegato di ridurre il divario di capitale sociale tra Mezzogiorno e Centro-Nord, elemento che contribuisce fortemente a spiegare il ritardo di sviluppo delle Regioni meridionali. In questo capitolo, gli argomenti a favore della diffusione di imprese sociali intrecciano quindi gli aspetti del welfare e quelli dello sviluppo.

Una premessa. Per impresa sociale s’intende un’organizzazione senza scopo di lucro (associazione, fondazione, cooperativa sociale, ecc.) che svolge un’attività di produzione di beni e servizi di utilità sociale con l’obiettivo dell’interesse generale della comunità. In concreto, all’interno del terzo settore queste caratteristiche contraddistinguono prevalentemente le organizzazioni che assumono la forma giuridica della cooperativa sociale.

Il tema, a mio avviso, è di grande interesse per il dibattito, spesso ripetitivo, sulle politiche di sviluppo del Mezzogiorno. Queste politiche, com’è noto, hanno attraversato dal dopoguerra ad oggi tutte le sperimentazioni messe in campo su scala internazionale da politici ed economisti, tanto che il Mezzogiorno viene spesso definito come un vero e proprio laboratorio delle politiche di sviluppo.

Non è questa la sede per ripercorrere gli alti e bassi delle teorie che hanno ispirato i più diversi approcci e del loro impatto sul territorio meridionale nel corso del tempo. Ripercorro brevemente solo l’ultima fase, il periodo relativo al ciclo finanziario 2000-2006 dei Fondi Strutturali Europei. Durante questo arco di anni, abbiamo assistito alla definizione della cosiddetta Nuova Programmazione. La novità dell’impianto risiedeva nell’idea dello sviluppo locale, trainato da processi endogeni di accumulazione di capitale fisico ed umano. In questa prospettiva, lo Stato doveva farsi “mediatore” tra gli attori locali, intervenire sulle condizioni di contesto, migliorare l’efficienza delle amministrazioni pubbliche. L’esperienza della Nuova programmazione non ha tuttavia prodotto i risultati sperati né in termini di crescita dei territori né di innalzamento della qualità delle istituzioni (Rossi 2005)1. Le cause dei risultati deludenti della recente politica di sviluppo sono approfondite in D’Antonio e Scarlato (2008) e, per motivi di spazio, non mi soffermo qui sull’argomento.

Ciò che invece in questa sede è interessante analizzare è un aspetto visibile del fallimento dell’approccio seguito: quello della scarsa dotazione e bassa qualità dei servizi collettivi e dei beni meritori. La Nuova Programmazione puntava al rilancio delle condizioni dei territori dove i cittadini vivono e le imprese operano fornendo beni pubblici, servizi e infrastrutture che generano esternalità diffuse (Viesti 2009). Tutto ciò non è accaduto, al contrario si è accresciuto il divario rispetto al

1 Il dibattito sulla Nuova Programmazione è sintetizzato e ripreso in D’Antonio e Scarlato (2008), cui si rimanda. Per una difesa della Nuova programmazione, si veda invece Barca (2006) e Viesti (2009).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 69 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Centro-Nord per indicatori relativi all’istruzione, alla giustizia, all’ambiente e alla sicurezza, ai servizi pubblici locali (inclusi i trasporti, oltre al settore idrico e a quello dei rifiuti urbani) (Banca d’Italia 2008, 2009).

Le Regioni del Mezzogiorno registrano ritardi anche sul versante dei servizi sociali (ad esempio, servizi all’infanzia e servizi di cura) e della qualità della vita nel suo complesso (Scarlato 2007 e 2008).

La Tabella 1 riassume alcuni indicatori di disagio sociale per l’anno 2006: il disagio legato alla zona di residenza, la difficoltà di utilizzare, per lontananza o affollamento, alcuni servizi sanitari (l’Azienda Sanitaria Locale, ASL, e il pronto soccorso), le difficoltà di accesso, per lontananza o affollamento, a servizi di asili nido o scuola materna (ISTAT 2007a). Gli indicatori registrano marcati divari territoriali con eccezione dell’accesso agli asili nido: ciò si collega alla ridotta partecipazione delle donne meridionali al mercato del lavoro che rende meno sentito questo problema.

Ulteriori informazioni sono racchiuse nella Tabella 2, che mostra i valori per circoscrizione geografica di alcune variabili relative alla dotazione di servizi collettivi. I divari effettivi, come si vede, sono maggiori rispetto ai disagi percepiti nel caso dei servizi per l’infanzia, poiché la domanda cresce laddove è più alta l’occupazione femminile e sono più basse le alternative di affidamento all’interno della famiglia. La carenza di beni pubblici e servizi collettivi nel Mezzogiorno è ancora più grave se si considera che in quest’area del Paese si concentrano povertà e marginalità sociale. Riporto alcuni dati significativi per fornire un’istantanea dell’entità di questi fenomeni. Le famiglie italiane che vivono in condizione di povertà relativa2 erano nel 2007 oltre 2 milioni e 600 mila, circa l’11% del totale e comprendevano 7 milioni e mezzo di persone (ISTAT 2008a). Il fenomeno è più diffuso nel Mezzogiorno dove le famiglie relativamente povere sono nel 2007 il 22,5% del totale (il 65% del totale delle famiglie povere italiane) mentre nell’Italia del Nord rappresentano il 5,5% delle famiglie ivi residenti e nell’Italia Centrale il 6,4%. Nel Sud si concentrano poi le famiglie definite “sicuramente povere”, quelle che hanno una spesa in consumi inferiore alla linea standard di oltre il 20%: due terzi di queste famiglie (in tutta l’Italia erano nel 2007 oltre 1 milione e 170 mila) risiedono, infatti, nel Mezzogiorno.

2 Si parla di povertà assoluta per indicare l’incapacità di accedere ad un paniere di beni definito come essenziale. La povertà

relativa indica invece l’incapacità di accedere al tenore di vita medio. In Italia la povertà relativa è stimata dall’ISTAT in base alla spesa media mensile per consumi: è classificata come relativamente povera una famiglia composta da due persone che spende meno della media ovvero è al di sotto della linea di povertà (986,35 euro al mese nel 2007). Per famiglie di ampiezza diversa, il valore della linea di povertà si calcola applicando un opportuno criterio di equivalenza che tiene conto delle economie di scala realizzabili nei consumi all’aumentare del numero di componenti.

Tabella 1 - Indicatori di disagio sociale. Anno 2006

Ripartizione Almeno un problema Molte difficolt� di accesso Molta o qualche difficolt�

geografica nella zona ad ASL e Pronto Soccorso di accesso ad asilo

nido/scuola materna

Nord-Ovest 32,8 6,2 17,2

Nord-Est 24,5 7,9 18,6

Centro 38,4 12,3 26,2

Mezzogiorno 40,6 14,8 18,3Fonte: ISTAT (2007a).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 70 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Le stime dell’ISTAT sulla povertà assoluta (ISTAT 2009b) mostrano che nel 2007 nel Mezzogiorno l’incidenza è quasi due volte superiore rispetto al resto del Paese: la percentuale delle famiglie povere in termini assoluti è del 3,5% tra le famiglie residenti nel Nord, del 2,9% tra le famiglie del Centro e del 5,8% tra le famiglie meridionali.

Dall’indagine campionaria annuale sul reddito e le condizioni di vita dell’ISTAT (2008b), relativa ai redditi percepiti nel 2005 e alle condizioni di vita nel 2006, risulta poi che il reddito (netto) mediano delle famiglie che vivono nel Mezzogiorno è pari a circa il 70% del reddito delle famiglie residenti al Nord. Inoltre, ordinando le famiglie per quinti di reddito netto, si calcola che il 38% delle famiglie residenti nel Mezzogiorno appartiene al quinto dei redditi più bassi contro il 12,8% delle famiglie nel Centro e il 10,9% delle famiglie nel Nord.

Infine, il valore dell’indice di Gini3 è superiore alla media nazionale (0,300) in molte Regioni meridionali: la Calabria (0,302), la Sicilia (0,307), e specialmente la Campania (0,315) (cfr. Tabella 3). Anche la quota di popolazione a basso reddito (cioè un reddito inferiore o uguale al 60% del valore mediano) raggiunge picchi molto elevati in Sicilia (41,2%), Campania (36,8%) e Calabria (36,4%).

3 L’indice di Gini è un indicatore di diseguaglianza che assume valori compresi tra zero (quando tutte le famiglie ricevono lo stesso

reddito) e 1 (massima diseguaglianza, tutto il reddito è percepito da una sola famiglia).

Tabella 2 - Indicatori dei servizi per la qualità della vita: istruzione, servizi alla persona, sanitàAbbandonano Studenti con Studenti con Diffusione servizi Presa in carico Attrattività premat. scuola scarse compet. scarse compet. per l'infanzia (d) per anziani dei servizi

geografica quota % (a) in lettura (b) in mat. ( c) per ADI (e) osped. (f)Anno 2007 Anno 2006 Anno 2006 Anno 2005 Anno 2007 Anno 2005

Abruzzo 15,0 26,2 3,6 10,5Molise 16,4 2,9 3,7 18,7Campania 29,0 36,1 44,3 39,2 1,6 9,9Puglia 25,1 36,3 43,0 27,5 1,6 7,9Basilicata 14,1 34,0 38,4 32,8 4,3 22,2Calabria 21,3 7,8 2,7 16,2Sicilia 26,1 40,8 48,9 33,3 1,0 7,5Sardegna 21,8 37,2 45,3 17,2 1,2 4,7Nord-ovest 17,9 18,5 22,2 47,0 3,0 5,0Nord-est 15,0 15,7 18,3 59,9 5,8 4,7Centro 13,8 20,2 28,2 49,8 3,3 5,5Mezzogiorno 24,9 37,0 45,7 25,1 1,8 9,7Sud 24,8 35,1 41,8 24,9 2,2 11,1Isole 25,1 39,5 50,7 25,4 1,1 6,7ITALIA 19,7 26,4 32,8 42,8 3,2 6,7Fonte: ISTAT-DPS (2009), Variabili di rottura e di contesto.(a) Popolazione 18-24 anni con al più la licenza media e che non frequenta altri corsi scolastici o svolge attività formative superiori ai 2 anni (%).(b) Percentuale di 15-enni con un livello basso di competenza (al massimo primo livello) nell'area della lettura.(c) Percentuale di 15-enni con un livello basso di competenza (al massimo primo livello) nell'area della matematica.(d) Percentuale di Comuni che hanno attivato servizi per l'infanzia (asilo nido, micronidi o servizi integrativi e innovativi) sul totale dei Comuni della Regione.(e) Anziani trattati in Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) rispetto al totale della popolazione anziana. (65 anni e oltre) (%)(f) Emigrazione ospedaliera in altra regione per ricoveri ordinari acuti sul totale delle persone ospedalizzate residenti nella Regione (%).

Ripartizione

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 71 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Nel complesso, il quadro che emerge è che la qualità della vita delle Regioni meridionali è sensibilmente inferiore rispetto al Centro-Nord. Ciò è sinteticamente mostrato nella Tabella 4, che raccoglie l’indicatore di Qualità Regionale dello Sviluppo (QUARS) tratto dal rapporto annuale dell’associazione Lunaria (2008)4. Si noti, in particolare, che la Campania appare all’ultimo posto della graduatoria.

Queste annotazioni descrivono lo sfondo della nuova strategia di sviluppo per il ciclo finanziario 2007-2013. Il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo (DPS), l’organo centrale di coordinamento tecnico delle politiche regionali, ha accantonato il meccanismo premiale basato sull’obiettivo “efficienza delle istituzioni locali”, definito da indicatori relativi ad atti burocratici che non coglievano effettivamente la qualità dei servizi. Il nuovo meccanismo, etichettato “Obiettivi di

4 La misurazione del QUARS è frutto della ricerca di un indicatore di benessere sostenibile nell’ambito della campagna Sbilanciamoci! condotta da 50 associazioni nazionali. Gli indicatori che formano il QUARS sono 41 e sono suddivisi nelle categorie Ambiente, Economia, Diritti, Salute, Pari Opportunità e Partecipazione. L’indicatore è standardizzato in modo che la media nazionale sia pari a zero e valori positivi rappresentino un punteggio sopra la media, valori negativi un punteggio al di sotto. In un recente lavoro, Felice (2007) calcola invece l’Indice di sviluppo umano per le Regioni italiane per il periodo 1891-2001. L’indice è una media ponderata (con pesi uguali) di indicatori sintetici relativi al reddito, alla speranza di vita e all’istruzione. Il lavoro mostra che nel corso del tempo si sono ridotte in modo significativo le differenze regionali nella speranza di vita e nei livelli di istruzione, quindi la graduatoria delle regioni meridionali in termini di sviluppo umano ricalca sostanzialmente quella in termini di reddito.

Tabella 4 - La classifica delle Regioni italiane per l'indicatore QUARS 2008

Regione QUARS 2008

Trentino-Alto-Adige 1,57

Emilia-Romagna 1,00

Friuli-Venezia-Giulia 0,95

Toscana 0,82

Valle D'Aosta 0,74

Umbria 0,69

Marche 0,65

Lombardia 0,61

Veneto 0,53

Piemonte 0,46

Liguria 0,25

Lazio 0,04

Abruzzo -0,11

Sardegna -0,27

Basilicata -0,78

Molise -0,80

Calabria -1,32

Puglia -1,52

Sicilia -1,65

Campania -1,86

Fonte: Lunaria (2008).

Tabella 3 - Indicatori di diseguaglianza. Anno 2006

Indice di Popolazione a

Gini (a) basso reddito (b)

Abruzzo 0,272 17,7

Molise 0,284 28,7

Campania 0,315 36,8

Puglia 0,289 31,1

Basilicata 0,274 31,9

Calabria 0,302 36,4

Sicilia 0,307 41,2

Sardegna 0,291 21,2

Nord-ovest 0,282 10,4

Nord-est 0,255 7,8

Centro 0,284 11,2

Mezzogiorno

Sud 0,301 32,9

Isole 0,307 36,2

ITALIA 0,300 18,4

Fonte: ISTAT (2009c).

(a) L'indice di concentrazione di Gini è calcolato includendo gli affitti figurativi.

(b) Si definisce a basso reddito un individuo appartenente ad una famiglia il cui

reddito equivalente è inferiore o uguale al 60% del valore mediano del reddito

equivalente del Paese.

Ripartizione geografica

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 72 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

servizio”, catalizza le risorse e gli sforzi degli enti locali verso gli avanzamenti sul fronte dei servizi essenziali. Tali progressi sono misurati rispetto a target fissati dal DPS con riferimento a 11 indicatori (S.1-S.11) di disponibilità, erogazione e qualità dei servizi per i quali il DPS ha individuato gli standard minimi al fine di garantire un livello di prestazioni accettabile (DPS 2008; 2009). La Tabella 5 mostra in dettaglio gli Obiettivi di servizio mentre dalla Tabella 6 si traggono informazioni sul gap che le Regioni meridionali devono ridurre con riferimento ad alcuni indicatori.

Tabella 5 - Obiettivi di servizio, indicatori e target al 2013 OBIETTIVO I: Elevare le competenze degli studenti e la capacità di apprendimento della popolazione

VALORE ATTUALE

TARGET 2013

S.01. Giovani che abbandonano prematuramente gli studi: % della popolazione in età 18-24 anni con al più la licenza media, che non ha concluso un corso di formazione professionale

26% 10%

S.02. Studenti con scarse competenze in lettura: % di 15-enni con al massimo il primo livello di competenza in lettura secondo la scala del test OCSE-PISA

35% 20%

S.03. Studenti con scarse competenze matematiche: % di 15-enni con al massimo il primo livello di competenza matematica secondo la scala del test OCSE-PISA

47% 21%

OBIETTIVO II : Aumentare i servizi per infanzia e cura per anziani e alleggerire i carichi di famiglia, al fine di innalzare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro

VALORE ATTUALE

TARGET 2013

S.04. Diffusione dei servizi per l'infanzia: % di Comuni che hanno attivato servizi per l'infanzia sul totale Comuni della Regione

21% 35%

S.05. Presa in carico degli utenti dei servizi per l'infanzia: % bambini fino ai tre anni che hanno usufruito di servizi per l'infanzia sul totale della popolazione di riferimento

4% 12%

S.06. Presa in carico degli anziani per l'Assistenza Domiciliare Integrata (ADI): % di anziani assistiti in ADI rispetto al totale della popolazione anziana (65 anni e oltre)

2% 3,5%

OBIETTIVO III : Migliorare la qualità dell’ambiente in relazione al sistema di gestione dei rifiuti urbani

VALORE ATTUALE

TARGET 2013

S.07. Rifiuti urbani smaltiti in discarica: kg di rifiuti urbani smaltiti in discarica per abitante l'anno

395kg 230kg

S.08. Raccolta differenziata dei rifiuti urbani: % di rifiuti urbani oggetto di raccolta differenziata sul totale dei rifiuti urbani raccolti

9% 40%

S.09. Quantità di frazione umida trattata in impianti di compostaggio per la produzione di composti di qualità: quota di frazione umida trattata in impianti di compostaggio su frazione di umido del rifiuto urbano totale

3% 20%

OBIETTIVO IV : Tutelare e migliorare la qualità dell’ambiente in relazione al servizio idrico integrato

VALORE ATTUALE

TARGET 2013

S.10. Efficienza nella distribuzione dell'acqua per il consumo umano: % di acqua erogata sul totale dell'acqua immessa nelle reti di distribuzione comunale

63% 75%

S.11. Quota di popolazione equivalente servita da depurazione: abitanti equivalenti effettivi serviti da impianti di depurazione delle acque reflue, con trattamento secondario o terziario, in % degli abitanti equivalenti totali urbani per Regione

56% 70%

Fonte: DPS (2008)

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 73 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Le variabili obiettivo della politica di sviluppo regionale sono state quindi tradotte in nuovi indicatori più mirati, legati direttamente ai progressi realizzati nell’offerta di servizi essenziali: istruzione di base, servizi di cura per l’infanzia e la popolazione anziana, ciclo integrato dei rifiuti urbani e risorse idriche. Tra questi, i servizi di cura alla persona ricoprono un ruolo cruciale anche all’interno del processo federalista in atto poiché sarà necessario definire il fabbisogno standard per i livelli essenziali delle prestazioni da garantire ai cittadini su tutto il territorio nazionale. Il meccanismo premiale rappresenta quindi un’esperienza ritenuta dal DPS utile per raccogliere informazioni su costi e fabbisogni così come per facilitare il raggiungimento di una maggiore uniformità territoriale (DPS 2009).

Volendo dare un inquadramento teorico a questo approccio, si può dire che la nuova politica di sviluppo s’ispira all’approccio delle capabilities di Amartya Sen, prefigura cioè interventi finalizzati ad accrescere le opportunità e la partecipazione dei cittadini più deboli. Questo clima culturale in cui è maturata la politica di sviluppo 2007-2013 per il Mezzogiorno è ben riconoscibile anche in altre linee guida, ad esempio, nella previsione che una somma pari al 5% delle risorse complessive venga destinata all’istruzione, cioè ad un fattore cruciale per lo sviluppo umano. Tuttavia l’obiettivo finale dichiarato in vari documenti di programmazione, in modo alquanto contraddittorio, sembrerebbe non tanto quello di incidere sulla povertà di capabilities quanto di stimolare la competitività, l’attrazione di investimenti esterni, e dunque la crescita, attraverso una migliore offerta di servizi a cittadini e imprese. L’attenzione agli Obiettivi di servizio è poi giustificata anche dall’esigenza di raccogliere il consenso intorno alla strategia di sviluppo attuata dagli enti locali sotto la supervisione del DPS. Si afferma infatti che le politiche strutturali hanno effetti solo nel lungo termine e che dunque, per ottenere una legittimazione pubblica, devono essere affiancate da interventi che diano risultati tangibili nel breve periodo (Brezzi e Utili 2007). In altre parole, lo sviluppo umano sembra essere considerato ancora come strumentale allo sviluppo economico e non meritevole di attenzione di per sé. Questa impressione è confermata dal Quadro Strategico Nazionale (QSN) 2007-2013, che rappresenta il documento di programmazione delle politiche regionali comunitaria e nazionale, e di

Tabella 6 - Alcuni Indicatori degli Obiettivi di servizio

Ripartizione S.01 S.04 S.05 S.06 S.07 S.08 S.09

geografica % % % % kg % %

(2006) (2004) (2004) (2005) (2005) (2005) (2005)

Abruzzo 14,7 23,6 6,7 1,8 398,5 15,6 12,1

Molise 16,2 2,2 3,2 6,1 395,1 5,2 1,1

Campania 27,1 30,5 1,5 1,4 304,8 10,6 2,3Puglia 27,0 24,0 4,8 2,0 453,1 8,2 1,8

Basilicata 15,2 16,8 5,1 3,9 235,2 5,5 0,1

Calabria 19,6 6,6 2,0 1,6 394,7 8,6 0,8

Sicilia 28,1 33,1 6,0 0,8 473,2 5,5 1,3

Sardegna 28,3 14,9 10,0 1,1 389,6 9,9 4,5

Mezzogiorno 25,5 21,1 4,2 1,6 395,3 8,7 2,6

Centro-Nord 16,8 47,6 15,5 3,5 263,8 31,8 29,1

ITALIA 20,6 39,2 11,3 2,9 310,3 24,3 20,5

TARGET 2013 10,0 35,0 12,0 3,5 kg230 40,0 20,0

Fonte: DPS (2008).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 74 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

raccordo tra queste e le politiche nazionali ordinarie: i complessivi 101 miliardi di euro destinati al Mezzogiorno sono concentrati sui tradizionali obiettivi della politica di coesione (misure per la competitività del sistema produttivo e occupazione, interventi di contesto) mentre l’inclusione sociale e i servizi per la qualità della vita pesano solo per l’8,8% delle risorse, una quota comunque di circa tre volte superiore rispetto al passato (QSN 2007-2013). Va riconosciuto però che si tratta di un cambiamento sensibile, rafforzato anche dai principi che si affermano con sempre maggiore forza all’interno del più ampio dibattito sulle prospettive della politica di sviluppo dell’Unione Europea. Ad esempio, di recente è stato pubblicato un Rapporto indipendente che contiene proposte di riforma della politica di coesione nella direzione di garantire la parità di accesso ai servizi (Barca 2009). L’impostazione adottata ruota interamente intorno all’obiettivo di migliorare la qualità della vita dei cittadini attraverso l’offerta di beni pubblici e servizi collettivi. I riferimenti alle teorie di Sen nel definire le politiche di inclusione sociale in senso multidimensionale sono espliciti così come è molto chiaro il fine di innalzare l’efficienza delle istituzioni locali affidando loro target visibili e misurabili riferiti ai servizi e beni pubblici (sanità, istruzione, sicurezza, trasporti ecc.). Trasferendo il discorso generale al caso particolare del Mezzogiorno, queste proposte assumono un rilievo concreto poiché la scarsa efficienza delle Amministrazioni locali del Sud è spesso chiamata in causa per spiegare la mancata realizzazione della Nuova Programmazione. In termini monetari, la concessione di premi per gli Obiettivi di servizio è pari a circa 3 miliardi di euro (a valere sul FAS, Fondo per le Aree Sottoutilizzate) ed è condizionata al raggiungimento entro il 2013 degli standard vincolanti predisposti dal DPS, ma già nel 2009 verrà condotta una verifica intermedia e sarà devoluta alle Regioni una quota di risorse proporzionale ai progressi maturati rispetto ai vari target. Inoltre, è stabilito che le risorse perse dalle Regioni che non conseguiranno i risultati previsti, verranno riassegnate alle Regioni virtuose. Resta ovviamente da verificare quale sarà l’effettiva disponibilità di risorse nei prossimi anni, visto che l’aggravarsi della crisi finanziaria ed economica ha determinato l’introduzione di misure straordinarie finanziate anche attraverso il ricorso alle risorse del FAS. La dotazione del FAS, da destinarsi per l’85% alle Regioni del Mezzogiorno e per il restante 15% al Centro-Nord, viene indicata nelle delibere del CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica). Tale dotazione era pari a circa 63 miliardi di euro al dicembre 2007, ma al marzo 2009 risultava ridimensionata a circa 54 miliardi di euro Sulla base dell’ultimo aggiornamento (6 marzo 2009), le risorse destinate al FAS sono costituite da circa 27 miliardi euro, assegnati ai Programmi strategici regionali, interregionali e agli Obiettivi di servizio e da 25,4 miliardi di euro attribuiti ai Fondi nazionali (le risorse rimanenti sono attribuite ad altri interventi) 5.

Impresa sociale, azione collettiva e sviluppo umano L’ispirazione della nuova programmazione alla teoria delle capabilities a mio avviso è una novità di grande rilievo e, in particolare, mi sembra interessante perché apre nuove prospettive per l’impresa sociale nel Mezzogiorno. Mi spiego.

5 In seguito all’accordo della Conferenza Stato-Regioni del 26 febbraio 2009, l’assegnazione dei Fondi nazionali è la seguente: 4

miliardi di euro a favore del Fondo sociale per occupazione e formazione; 12,4 miliardi di euro per il Fondo Infrastrutture (edilizia scolastica e carceraria); 9 miliardi di euro al Fondo strategico a sostegno dell’economia reale.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 75 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

L’approccio delle capacità (capabilities) postulato da Amartya Sen e da Martha Nussbaum, vede il processo di sviluppo come un’espansione delle libertà sostanziali6. Le capacità sono infatti varie combinazioni di funzionamenti (functionings), vale a dire risultati che possono essere realizzati e che riflettono la libertà di scegliere tra possibilità di vita alternative. In altre parole, le capacità sono libertà sostanziali di condurre la vita che si è scelta e di accedere ad opportunità a cui viene attribuito un valore oggettivo, largamente condiviso. Il processo attraverso il quale le persone raggiungono le capacità è plasmato dallo spazio dell’agire individuale (agency) che definisce la libertà di azione e di decisione, e il modo in cui questa libertà si esercita, al fine di realizzare concretamente le capacità. E’ evidente che concetti quali capacità, funzioni, agenzia poggiano tutti su una convinzione: le persone sono agenti attivi, anche quanto vivono in uno stato di forte deprivazione, e hanno il diritto e la responsabilità di impegnarsi in azioni coerenti con i loro valori (Alkire 2008b). Sul piano delle implicazioni di policy, a questa visione corrisponde che le politiche pubbliche devono proporsi il fine di allargare lo spazio delle opportunità reali fornite ai cittadini. Tale spazio è molto ampio fino ad includere aspetti non economici e non materiali della vita umana che vanno dalla dignità e dal rispetto di se stessi, alle attività culturali, alla libertà politica, sociale e religiosa. Secondo questo paradigma, quindi, gli interventi di policy devono incidere sullo sviluppo umano, oltre che sul tradizionale obiettivo dello sviluppo economico, dove per sviluppo umano s’intende un miglioramento globale della qualità della vita attraverso un processo in cui le persone sono al tempo stesso i beneficiari e gli artefici del cambiamento7. Vanno qui sottolineate due riflessioni sulle implicazioni di politica economica di questo approccio. La prima è che guardare ai funzionamenti e alle capacità per giudicare la qualità della vita, anziché all’utilità e al benessere, non significa trascurare le ragioni dell’efficienza (Chiappero Martinetti 2007). Infatti molte capacità danno origine ad esternalità positive perchè hanno natura di beni pubblici o meritori: si pensi a istruzione, sanità, difesa dell’ambiente e sicurezza. Seppure sviluppo economico e sviluppo umano sono fenomeni distinti, è possibile quindi trovare interazioni reciproche profonde e affrontare i problemi di policy tentando sempre di integrare questi due aspetti. La seconda notazione è che la disponibilità di risorse non assicura la realizzazione dei risultati, cioè dei funzionamenti, a causa delle diversità personali tra individui (ad esempio, lo stato di salute), diversità nel loro contesto sociale (che influenza preferenze, informazioni, rapporti di potere) e diversità nel luogo di residenza (ad esempio, una zona urbana piuttosto che rurale, una casa in affitto o di proprietà). In altre parole, le diversità inter-individuali influenzano fortemente la conversione delle risorse (i mezzi) in risultati finali (essere istruiti e ben nutriti, fruire di un’abitazione, partecipare alla vita di comunità, ecc.). E’ opportuno che di questo le autorità di policy tengano conto nella definizione degli interventi sociali. Ad esempio, trasferimenti monetari destinati alle famiglie possono riflettersi in dotazioni inadeguate per alcuni componenti deboli, quali le donne, o i minori, o gli anziani (si veda anche Granaglia 2007). Più in generale, Sen tende ad essere scettico sull’idea che l’eguaglianza delle opportunità possa essere raggiunta ricorrendo prevalentemente ai trasferimenti monetari, ed esprime piuttosto

6 Si rimanda al volume Development as Freedom dove Sen sintetizza i lavori in cui, a partire dalla fine degli anni ’70 in poi, ha

sviluppato l’approccio delle capabilities (Sen 1999) e a Nussbaum e Sen (2003). Si rimanda anche alla rassegna di Robeyns (2005), che raccoglie le discussioni sugli aspetti teorici e alla rassegna di Alkire (2008a), rivolta invece a riassumere le azioni concrete che conducono ad un’espansione delle capabilities.

7 L’approccio dello sviluppo umano è stato adottato dalle Nazioni Unite a partire dalla pubblicazione nel 1990 del primo Human Development Report.

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un’opzione in favore dell’erogazione di beni essenziali, servizi, beni pubblici e meritori che riguardano direttamente la pluralità di variabili che possano essere causa di svantaggio. A questo punto, posso accostare il paradigma delle capacità all’analisi dell’impresa sociale partendo dalla considerazione che non sempre la società genera la domanda di diritti, di partecipazione, di equità, in breve la domanda di un’espansione delle capacità. Le capacità si trasformano in diritti se la società li percepisce come tali, se vi è un consenso diffuso. Quando questa domanda non viene spontaneamente dal basso, a causa di preferenze distorte da uno stato di deprivazione o di problemi di agenzia, lo Stato può fare da catalizzatore: nella scelta tra diversi assetti sociali/istituzionali deve tener conto della loro attitudine a promuovere le capacità umane e della loro efficacia nel realizzare i funzionamenti (Sen 2007). Andando più a fondo nella questione, in questo scritto si sostiene la tesi che questi scopi possono essere perseguiti oltre che attraverso strumenti operativi del governo (centrale e locale), anche dalle imprese sociali e dalla sfera della società civile, e che anzi lo Stato dovrebbe impegnarsi a creare spazi per la nascita e il rafforzamento delle organizzazioni non profit. Infatti, le imprese sociali contribuiscono allo sviluppo inteso come espansione delle capabilities sotto due aspetti: (i) forniscono servizi associati ai funzionamenti di base (istruzione, salute, cura e assistenza) e a bisogni non strettamente materiali (esigenze di socialità, qualità dell’ambiente, responsabilità sociale dell’impresa, consumo solidale ecc.); (ii) generano beni relazionali, dunque accrescono la consapevolezza, l’empowerment delle fasce deboli della popolazione che normalmente non hanno aspirazioni né voce 8. L’enfasi sul principio di reciprocità, inscindibile dalla teoria e dalla prassi dell’impresa sociale, è in realtà assente nell’approccio delle capabilities. Ma è immediato costruire un ponte tra economia civile e capabilities valutando le imprese sociali, invece che in termini di output prodotto, sulla base di parametri quali la libertà, la partecipazione, l’integrazione che queste alimentano, elementi che formano anche il tessuto di cui è fatto lo sviluppo umano. La chiave per spiegare questa convinzione, a mio avviso è il concetto di “agenzia” che riassume la connessione stretta tra il paradigma delle capabilities e l’impresa sociale come strumento per la sua applicazione: Drèze e Sen descrivono questo approccio con le parole: ”it is essentially a ‘people-centered’ approach, which puts human agency (rather than organizations such as markets or governments) at the centre of the stage” (Drèze e Sen 2002, p.6). Questo argomento chiarisce che le politiche pubbliche sono certo fondamentali per lo sviluppo ma la direzione che nelle specifiche realtà il processo assume, in definitiva, dipende dal grado di partecipazione delle persone nei processi decisionali e attuativi. Ciò richiama in causa, ancora una volta, l’idea della libertà che si fa tutt’uno con la responsabilità, con la cooperazione nella comunità di appartenenza e con l’ empowerment della società civile. E’ opportuno qui fare un chiarimento. Sen in realtà è interessato alla dimensione individuale delle libertà, pur riconoscendo che la libertà è un prodotto sociale in quanto il contesto e le relazioni influenzano fortemente le preferenze, i valori, e la stessa abilità di realizzare le scelte individuali. L’importanza della dimensione collettiva dell’agire umano e delle capacità è stata invece messa in evidenza da altri Autori che hanno ripreso l’approccio di Sen 9.

8 “Empowerment might be thought of as an expansion of agency – the ability to act on behalf of what you value and have reason to

value” (Ibrahim e Alkire 2007, p.8). 9 Si rimanda a Evans (2002). Per una discussione su argomenti che richiamano l’importanza della dimensione sociale della libertà,

si veda il lavoro della Stewart (2005), che analizza le capacità create all’interno di un gruppo, definendole in modo ampio come desiderabili o meno in relazioni agli scopi che il gruppo si propone; e al paper di Foster (2008), che invece introduce il concetto di external capabilities come capacità che dipendono dalle relazioni umane di tipo prevalentemente informale.

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L’interpretazione della teoria delle capacità che assumo nella mia analisi è che la responsabilità, insita nel concetto di libertà individuale, implica l’opportunità di radicamento e di partecipazione attiva delle persone nella società di appartenenza e questo porta in primo piano la nozione di “capacità collettive” come potenziamento, estensione e piena realizzazione delle capacità individuali. Ciò anche considerando che l’opzione di praticare la stessa libertà di agire, per gli individui in una condizione di marginalità è spesso una capacità semplicemente non conosciuta e dunque non accessibile e può essere “accesa” solo coltivando la partecipazione a gruppi e associazioni che forniscono un supporto al processo di scelta e di azione individuale10. Alcuni approfondimenti di Sabina Alkire (2002) aiutano a spingerci oltre, rilevando che data la nota (e intenzionale) indeterminatezza dell’approccio di Sen (le capacità sono molto numerose e possono cambiare nel tempo, è assente un criterio-guida per selezionare le capacità prioritarie, ecc.), il processo decisionale per mettere in atto concretamente l’espansione delle capacità non può essere una programmazione dall’alto. La Alkire ritiene che gli strumenti operativi cui ricorrere si devono ispirare invece al principio di sussidiarietà, declinato in termini di sviluppo umano: “the principle of subsidiarity argues that the most local agents whose identity and well-being will be affected by a choice and who are capable of making it, should do so.” (p.143). Il nesso tra imprese sociali e sviluppo umano diventa allora evidente. L’impresa sociale si caratterizza infatti per la presenza di una missione sociale esplicita nello statuto, una governance allargata di tipo multistakeholder, la difesa di diritti di partecipazione ai redditi e alla fruizione di servizi sociali da parte di fasce sociali svantaggiate (Borzaga e Tortia 2004; Borzaga 2007a). Ancora, le imprese socialmente responsabili sono radicate in ambiti territoriali definiti dove attivano relazioni, attitudini, motivazioni non auto-interessate. Tali imprese contribuiscono quindi allo sviluppo locale attraverso la produzione di beni relazionali e fiducia generalizzata (Bruni e Zamagni 2004). Le imprese sociali offrono quindi a tutti coloro che vi partecipano e ne utilizzano i benefici uno spazio di condivisione tra chi è dotato di capabilities e chi non lo è. Collegando gli individui attraverso una rete di interazioni quotidiane, e dunque di rapporti che valorizzano i beni relazionali, le imprese sociali forniscono una sorta di “collective agency” che può rafforzare e fare esprimere l’azione individuale, specie di persone appartenenti a gruppi sociali vulnerabili, all’interno dei processi politici che definiscono gli obiettivi di sviluppo così come nella fase di attuazione concreta di quegli obiettivi. Schematizzando, individuo cinque funzioni che le imprese sociali svolgono ai fini dell’obiettivo dello sviluppo umano: - accrescere direttamente le capabilities; - favorire l’accumulazione di beni relazionali; - potenziare la conversione di capacità potenziali in funzionamenti; - attuare concretamente il principio di sussidiarietà; - stimolare la domanda dei cittadini per un progressivo miglioramento delle istituzioni. Le imprese sociali possono essere considerate in modo strumentale nel senso che grazie all’azione collettiva sono un mezzo per accrescere le capabilities a cui un individuo da solo non sarebbe in grado di accedere (e qui torna l’idea delle collective capabilities). Ma queste imprese possono essere viste anche come un fine, un obiettivo di sviluppo da perseguire di per sé, in quanto tali imprese sono un luogo dove affermare la solidarietà, l’inclusione, l’impegno civile, ecc., contribuendo all’accumulazione di beni relazionali e di capitale sociale.

10 Su questo punto, è di grande interesse Alkire (2002), in particolare il cap.4.

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L’azione collettiva svolge poi una funzione costruttiva perché serve a diffondere valori e, aiutando le persone a confrontarsi, fa da leva ad una crescita della conoscenza: permette dunque a persone marginalizzate di mettere a fuoco quali sono il tipo di vita e le capacità che per loro hanno realmente un valore. Questo significa che le imprese sociali operano come fattore di conversione di opportunità potenziali in funzionamenti che effettivamente si realizzano. Quanto alla sussidiarietà, l’azione svolta dalle imprese sociali pur essendo collettiva, “esterna” al singolo individuo, non è calata dall’alto e ma è costruita dentro la società. Dunque si tratta di un corpo intermedio che realizza concretamente il principio di sussidiarietà preservando la libertà e la responsabilità delle persone: ciascuno è libero di scegliere le organizzazioni dell’economia civile in cui impegnarsi e coinvolgersi, a cui domandare beni e servizi, in relazione alle proprie esigenze e aspirazioni. Infine, è interessante ragionare sul rapporto tra l’empowerment che le imprese sociali promuovono e le politiche di sviluppo, specie quelle attuate dai governi locali (Ibrahim e Alkire 2007). Su questo tema mi sembra utile richiamare due aspetti che nella letteratura teorica ed empirica sono stati evidenziati. In primo luogo, l’empowerment migliora l’efficacia dei progetti di sviluppo perché coinvolge i cittadini nel processo decisionale, dà possibilità di “voce” ad individui svantaggiati e trasferisce informazioni “locali” ai livelli superiori di governo. Il secondo punto riguarda l’innalzamento della qualità delle istituzioni locali . Si sottolinea che empowerment e buone istituzioni si rinforzano reciprocamente: “once empowered, these communities may promote good governance and reduce state capture through their effective civic cooperation, voice and inclusion” (Ibrahim e Alkire 2007, p.32). Considerando che la scarsa efficienza delle Amministrazioni locali del Sud è spesso chiamata in causa per spiegare la mancata realizzazione della Nuova Programmazione, queste potenzialità appaiono di importanza non trascurabile.

Impresa sociale come strumento per realizzare gli Obiettivi di servizio

La legge 118/2005 disciplina l’impresa sociale disponendo che questa forma giuridica può essere assunta da tutte le organizzazioni private senza scopo di lucro che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine di produzione o scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale e che hanno il requisito della assenza dello scopo di lucro. Le imprese sociali sono inoltre vincolate alla redazione del bilancio sociale e all’adozione di misure di partecipazione dei lavoratori e dei destinatari delle attività alla governance di impresa. Il raggio di azione dell’impresa sociale è molto ampio, includendo oltre alle attività tradizionali, quali l’assistenza, la sanità, l’istruzione, anche campi non tradizionali come la formazione universitaria e post-universitaria, la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale, il turismo sociale, la tutela dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile, i servizi alle altre imprese sociali. Il legislatore dunque, da un lato, ha voluto saldare la solidarietà ai criteri di efficienza e di efficacia propri della logica imprenditoriale, dall’altro ha inteso fare chiarezza sulla natura peculiare dell’impresa sociale (Borzaga e Ianes 2006). La legge infatti esalta tre caratteristiche: la finalità consiste nell’interesse della comunità e dunque queste imprese devono fornire una rendicontazione dei risultati non solo economici ma anche sociali; l’impresa sociale è soggetta a dei vincoli, relativi sia alla distribuzione di utili sia alla discriminazione in favore di soci; la governance deve fondarsi sulla partecipazione dei lavoratori e dei beneficiari (Borzaga 2007a).

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Tenuto conto di ciò, ritengo che il nuovo assetto della politica di sviluppo per il Mezzogiorno apre nuovi spazi all’azione delle imprese sociali. In questo paragrafo metto in evidenza alcuni aspetti significativi ai fini di una riflessione sul legame tra impresa sociale, qualità dello sviluppo e riforma del welfare locale, in particolare: - l’innovazione istituzionale che l’economia sociale comporta; - il contributo alla soluzione dei problemi di sostenibilità finanziaria del welfare, problemi

accentuati dal procedere del federalismo fiscale; - la ricaduta sull’empowerment dei cittadini; - l’impatto sul capitale sociale. Innovazione istituzionale Il primo punto di interesse è che i documenti di programmazione della politica di sviluppo da un lato stabiliscono degli obiettivi vincolanti di quantità e qualità dei servizi essenziali, dall’altro lasciano libere le Regioni di scegliere le modalità attraverso cui garantire tali standard e viene anzi sollecitata la creatività degli enti locali nell’individuare nuove forme organizzative di offerta per avvicinare il sistema del welfare locale alle effettive esigenze dei cittadini.

Sostenibilità finanziaria e federalismo fiscale

La seconda questione, strettamente collegata, è quella della sostenibilità finanziaria dei modelli di offerta dei servizi collettivi oltre il periodo in cui affluiranno le risorse comunitarie. La crisi della finanza pubblica rende urgente la ricerca di soluzioni innovative e di forme di risposta ai bisogni che valorizzano le risorse, pubbliche e private, presenti sul territorio (Vittadini 2005). In questa direzione si pone anche il recente Libro Bianco emanato dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali. Il Libro Bianco, nel rimarcare le disfunzioni e gli sprechi del modello di welfare attuale, indica come via di uscita una nuova organizzazione dei servizi pubblici locali che sia basata su più pilastri e che utilizzi il terzo settore come suo punto di forza. Inoltre nel Mezzogiorno la carenza di beni pubblici e di servizi collettivi potrebbe aggravarsi per effetto dell’attuazione del federalismo fiscale (legge 42/2009). Nel breve termine, i trasferimenti statali saranno soppressi e ciò imporrà una riduzione di fondi da destinare alla politica sociale in caso di ritardi di una definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e dell’avvio della perequazione in base al fabbisogno (ISAE 2009). Al riguardo, l’ISAE nel Rapporto 2009 sulla Finanza Pubblica stima il fabbisogno di spesa standard dei Comuni e verifica che la transizione verso il nuovo regime potrebbe comportare forti tagli per numerosi enti locali. La metodologia di calcolo del fabbisogno di spesa standard segue le indicazioni fornite dalla legge 42/09: la misura riguarda una quota uniforme per abitante, corretta per tener conto della diversità della spesa in relazione all’ampiezza demografica, caratteristiche territoriali, sociali e produttive degli enti. Attraverso tecniche econometriche, i livelli di spesa pro capite dei Comuni, desunti dai bilanci comunali, sono regrediti su variabili esplicative che influiscono in modo “oggettivo” sul fabbisogno di spesa. Si stima in questo modo la spesa media (standard) che dovrebbero presentare enti locali con caratteristiche analoghe.

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In particolare, tra le Regioni i cui Comuni in media dovranno effettuare una riduzione significativa della spesa pro capite per rispettare il criterio del fabbisogno di spesa standard, si colloca la Campania con una riduzione necessaria del 13,4% della spesa storica (cfr. Tabella 7 e Tabella 8). Gli argomenti esposti prefigurano dunque una ridefinizione delle politiche sociali in cui potranno essere negoziati i ruoli del governo centrale, dei diversi livelli locali di governo, e del terzo settore. Nel nuovo regime, le imprese sociali potranno fornire un contributo soddisfacendo quei segmenti di domanda che, in prospettiva, la Pubblica Amministrazione avrà crescenti difficoltà di raggiungere. Empowerment e coerenza con la Risoluzione europea del 19 febbraio 2009

Il terzo punto è relativo ai continui rimandi della politica di sviluppo regionale (cioè nel QSN 2007-2013) al tema dell’empowerment dei cittadini, considerato di notevole importanza sia come strumento per accrescere il controllo sull’operato delle istituzioni locali, sia come fonte di informazioni sulle reali esigenze delle persone e delle famiglie, sia ancora come feedback rispetto all’azione delle Amministrazioni pubbliche coinvolte e ai progressi compiuti. In definitiva, è realistico aspettarsi che una migliore offerta di servizi espanda le capabilities dei cittadini e modifichi verso l’alto le loro preferenze sulla disponibilità ed efficacia dei beni pubblici locali, facendo emergere nuovi bisogni e nuove domande rivolte agli amministratori.

L’impresa sociale rappresenta dunque un modo di fare impresa coerente con il modello di sviluppo adottato dal QSN: è un’impresa radicata nel territorio, si fonda sulla partecipazione attiva dei cittadini, si pone come obiettivo primario l’inclusione dei gruppi svantaggiati e può dunque veicolare alle Amministrazioni pubbliche informazioni utili all’individuazione dei bisogni e degli strumenti di policy ad essi adeguati.

Tabella 7 - Percentuale dei Comuni che sperimentano una spesa effettiva superiore a quella standard

Ripartizione geografica <=2,5% 2,5%-5% 5%-7.5% 7,5%-10%10%-20% 20%-30% 30%-50% >=50%

Abruzzo 4,59 5,57 4,59 6,23 10,49 5,25 1,64 0,33 118Basilicata 10,08 3,88 6,98 5,43 16,28 13,95 6,98 0,00 82Calabria 8,15 6,67 4,44 1,98 11,36 4,20 3,46 0,00 163Campania 6,10 7,09 5,51 6,69 17,52 9,65 2,76 0,39 283Emilia-Romagna 4,82 4,82 9,34 5,42 17,47 8,73 4,22 0,30 183Lazio 5,75 5,17 6,32 3,45 10,63 4,89 2,30 0,57 136Liguria 2,99 3,85 2,56 0,85 8,12 2,14 1,28 0,00 51Lombardia 6,68 6,55 6,49 5,51 18,22 5,84 2,01 0,26 795Marche 5,69 5,69 6,10 6,10 9,35 6,10 6,50 0,00 112Molise 2,36 3,94 2,36 5,51 12,60 5,51 6,30 2,36 52Piemonte 5,66 4,48 2,53 2,28 7,85 3,63 2,62 0,59 351Puglia 8,20 2,87 2,46 2,46 4,10 2,05 0,82 0,41 57Toscana 7,02 4,21 5,61 7,02 15,09 5,96 6,32 0,70 148Umbria 6,52 5,43 4,35 1,09 8,70 5,43 4,35 0,00 33Veneto 4,14 4,66 3,10 2,07 5,34 1,38 0,86 0,69 129TOTALE 5,96 5,37 4,88 4,16 12,30 5,20 2,77 0,41 2.693Fonte: ISAE (2009).

Numero Comuni

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Del resto, nella sezione del QSN dedicata alla Priorità 4, “Inclusione sociale e servizi per la qualità della vita”, è esplicitamente previsto che va sostenuta la presenza del terzo settore e dell’impresa sociale con riferimento sia agli interventi per l’integrazione lavorativa sia alle misure rivolte ad accrescere l’accesso ai servizi di protezione sociale, di cura e dei sistemi di formazione (QSN 2007-2013 p.115). Inoltre, nel QSN è contenuto un invito a valorizzare le lezioni ricavate dall’Iniziativa Comunitaria Equal, che nel periodo 2000-2006 ha sostenuto interventi mirati all’inserimento lavorativo, all’accesso all’istruzione e alla formazione professionale, finanziando progetti di partenariato tra i settori pubblico, privato e non profit11. Come ho accennato, questa visione è coerente anche con i recenti orientamenti europei12. In particolare, una novità di rilievo è che l’Integruppo sull’economia sociale del Parlamento Europeo ha varato il 19 febbraio scorso una Risoluzione che mira a: (i) dare visibilità all’economia sociale; (ii) legittimare le imprese sociali; (iii) invitare la Commissione Europea a proporre misure per attuare politiche di sostegno del settore. Tra l’altro, nel documento si afferma che “i modelli dell'economia sociale dovrebbero essere portati avanti per raggiungere gli obiettivi in materia di crescita economica, occupabilità, formazione e servizi alla persona che permeano tutte le politiche dell'Unione europea”.

11 L'Iniziativa Comunitaria Equal, nata nel 2000 nell'ambito della Strategia Europea per l'Occupazione e cofinanziata dal Fondo

Sociale Europeo per il periodo 2001-2006, promuoveva la sperimentazione di politiche di contrasto alla discriminazione e alla disuguaglianza nel mercato del lavoro attraverso la cooperazione transnazionale. In Italia, le risorse finanziarie complessive assegnate al Progetto Equal sono state 800 milioni di euro (ISFOL 2006 e 2007). Più in generale, sugli interventi a sostegno dell’impresa sociale finanziati attraverso i Fondi Strutturali del ciclo 2000-2006, si veda Giorio (2005).

12 Sull’economia sociale nei Paesi Membri, si consulti il sito di Social Economy Europe, l’istituzione europea di rappresentanza dell’economia sociale, http://www.socialeconomy.eu.org/?lang=en, e il sito della DG Enterprise and Industry dell’Unione Europea dedicato all’economia sociale, http://ec.europa.eu/enterprise/entrepreneurship/craft/social_economy/soc-eco_intro_en.htm.

Tabella 8 - Spesa obiettivo, spesa storica pro capite 2006 e scostamento % tra spesa obiettivo e storica

NORDEmilia-Romagna 564,28 604.94 -6,72Liguria 693,44 634,64 9,25Lombardia 524,55 562,39 -6,73Piemonte 544,95 573,99 -5,05Veneto 486,46 439,11 10,78

CENTROLazio 685,37 624,88 9,68Marche 505,19 498,06 1,43Toscana 567,93 584,65 -2,86Umbria 534,05 495,73 7,72

MEZZOGIORNOAbruzzo 512,00 470,01 8,93Basilicata 445,01 448,16 -0,70Calabria 434,63 413,68 5,07Campania 464,9 536,85 -13,40Molise 485,11 459,33 5,61Puglia 437,87 405,48 7,80Fonte: ISAE (2009).

Ripartizione geograficaObiettivo alla fine del

quinto annoSpesa storica 2006 Scostamento %

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A questo scopo, viene proposto che le imprese dell'economia sociale non siano soggette all'applicazione delle stesse regole di concorrenza delle altre imprese e che quindi la Commissione adotti misure di promozione ad hoc quali: l'accesso agevolato al credito e sgravi fiscali, lo sviluppo del microcredito, l'introduzione di statuti europei per le associazioni, le fondazioni e le mutue, un adeguato finanziamento dell'Unione europea e incentivi per fornire un migliore sostegno alle organizzazioni dell'economia sociale che operano nei settori di mercato ed extra-mercato e che vengono create a scopi di utilità sociale. Infine, la Risoluzione chiede espressamente che l’economia sociale diventi parte integrante, tra l’altro, delle politiche comunitarie e nazionali di sviluppo regionale.

Capitale sociale

Voglio ancora soffermarmi su alcuni peculiari motivi per i quali all’impresa sociale andrebbe assegnato un posto centrale nella cornice degli Obiettivi di servizio. Riprendo quindi le fila della discussione sul ruolo dell’economia civile nelle economie in ritardo di sviluppo. Analizzando questo problema, tradizionalmente la letteratura si sofferma sul contributo delle cooperative alla lotta alla povertà e all’ampliamento delle capabilities attraverso la riduzione della disoccupazione, l’emersione del lavoro irregolare, il miglioramento delle condizioni di lavoro (ILO 2002; Birchall 2004). Il riferimento prevalente è alle cooperative di produzione e lavoro, o alle cooperative di consumo che offrono ai lavoratori beni a buon mercato13. Ad esempio, il recente Rapporto EMES-UNDP sul terzo settore nelle economie in transizione, riassume efficacemente gli argomenti relativi all’impatto positivo dell’economia sociale sulla generazione di nuova occupazione attraverso le funzioni di empowerment dei disoccupati e di reintegrazione dei lavoratori a bassa qualifica (EMES-UNDP 2008, p.44): “To generate new employment in transition economies, the development of labour-intensive activities is needed. Third sector organizations and social enterprises, in particular, have a role to play in promoting new employment in the fields where they have a comparative advantage. Third sector organizations and social enterprises perform significant functions in the labour market, activating the unemployed and reintegrating low-skilled groups by: - reducing the duration of unemployment through the generation of new temporary and

permanent jobs within social enterprises; - expanding the share of social enterprise activities; - sustaining the level of employment in social enterprises; - addressing the specific problems of youth, women and poorly educated people.”

Poiché l’attenzione principale di questo mio scritto è rivolta all’inadeguatezza dei servizi collettivi, la bassa qualità della vita, l’inefficacia delle tradizionali politiche di sviluppo nel Mezzogiorno, sposto l’enfasi del discorso verso l’impatto delle imprese sociali su aspetti immateriali legati alla produzione di capitale sociale, valori, beni relazionali14.

13 Al riguardo, si rimanda ai documenti di accompagnamento della campagna Cooperating out of poverty, lanciata

dall’International Labour Office (ILO) e dall’International Co-operative Alliance (ICA) nel 2004. Più di recente, hanno acquistato maggiore attenzione anche i temi connessi alla produzione di capitale sociale e di reti di relazioni (Simmons e Birchall 2008).

14 In questo scritto, il capitale sociale è inteso seguendo l’approccio relazionale (Donati 2008a e 2008b), cioè come un reticolo di rapporti sociali che valorizzano i beni relazionali. Un bene relazionale è un bene “la cui utilità per il soggetto che lo consuma dipende, oltre che dalle sue caratteristiche intrinseche e oggettive, dalle modalità di fruizione con altri soggetti” (Bruni e Zamagni op. cit., p.163).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 83 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Quello che più mi interessa mettere in luce è che nel Mezzogiorno il capitale sociale, sotto entrambe le dimensioni della fiducia e della reciprocità, è una risorsa scarsa15 ed è plausibile che la sua accumulazione sia stata erosa nel tempo, e non incentivata, in seguito alla gestione di rilevanti flussi di risorse provenienti dai Fondi Strutturali perché ciò ha alimentato assistenzialismo e pratiche clientelari (D’Antonio e Scarlato op.cit.)16. Mi spiego meglio. Il Mezzogiorno soffre di un fenomeno che è stato definito con molta acutezza di “intermediazione impropria” (Barucci 2008) cioè un peso eccessivo della politica sulle istituzioni e sui gruppi sociali, su tutti gli aspetti della vita civile ed economica. Le risorse pubbliche, governate dall’alto, hanno alimentato questa continua intromissione della politica, rendendo asfittici i corpi intermedi e dipendente la società. Questa amara constatazione comporta due implicazioni. Innanzitutto, in gran parte della realtà meridionale, data la modesta capacità amministrativa delle istituzioni pubbliche e la bassa diffusione di capitale sociale, offrire servizi collettivi e dunque opportunità è un approccio preferibile rispetto a quello di offrire assistenza e sostegno al reddito (si veda anche Scarlato 2007). L’offerta diretta di beni pubblici (ovvero l’espansione delle capabilities) in questo ambito è infatti più efficace e meno distorsiva perchè i servizi non sono trasferibili e non generano incentivi perversi. Alcuni servizi pubblici (si pensi, ad esempio, all’istruzione), attenuano poi l’iniquità della distribuzione del reddito facilitando l’accesso degli strati più deboli della popolazione a prestazioni essenziali per una migliore qualità della vita così come ad opportunità di lavoro che agevolano la mobilità sociale. In secondo luogo, nella scelta delle modalità di erogazione di beni pubblici e servizi collettivi, a mio avviso è opportuno tener conto che le imprese sociali, quando sono autenticamente orientate alla mission, da un lato riescono effettivamente a coinvolgere i cittadini e a dare voce ai bisogni, e dall’altro, hanno una forte ricaduta sulla diffusione di valori (solidarietà, equità, cooperazione), beni relazionali e fiducia generalizzata. Le imprese sociali operano infatti con modalità peculiari, attivando reti di relazioni e comportamenti non auto-interessati, accrescendo l’empowerment dei beneficiari, cioè la loro capacità di diventare soggetti attivi delle politiche sociali e di sviluppo locale. In sintesi, le imprese sociali generano un Valore Aggiunto Sociale (VAS) che ha un suo peso specifico, e una sua misura, accanto ai tradizionali parametri economici e finanziari17. Questo valore aggiunto è considerato un carattere specifico e distintivo dell’impresa sociale anche dalla Risoluzione europea a cui ho già accennato. Attraverso la promozione dell’economia civile, le istituzioni pubbliche possono quindi favorire l’accumulazione di capitale sociale18 e questo, a sua volta, può innescare una pressione al miglioramento della qualità delle istituzioni formali. Inoltre, la crescita della partecipazione e dell’agenzia dei cittadini che ne consegue, attraverso un effetto di “contaminazione” di altre sfere dell’economia e della società, può rafforzare l’azione dello Stato nella lotta alla illegalità diffusa che affligge le Regioni meridionali.

15 Si rimanda agli studi di de Blasio e Nuzzo 2006; Sabatini 2005, 2007; Tronca 2008. 16 In Sabatini (2007) emerge che il valore della spesa pubblica è negativamente correlato sia con il capitale sociale (costituito da

associazioni volontarie) sia con l’indice di qualità sociale (che sintetizza i dati sulla qualità della sanità e della scuola, la precarietà del lavoro e le pari opportunità). Con le dovute cautele, questo dato segnala che non necessariamente la quantità della spesa si associa con la qualità e che le organizzazioni civili possono aiutare a razionalizzare la spesa pubblica.

17 Si veda Zamagni (2005) e Borzaga (2007b). 18 Per un approfondimento sul legame tra attività delle imprese sociali e accumulazione di capitale sociale, si veda Sacco e Zarri

(2006). Per un’analisi empirica della relazione tra pratiche di responsabilità sociale e formazione di capitale sociale nel caso italiano, si veda Degli Antoni e Portale (2007).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 84 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Rischi e difficoltà di un approccio basato sull’impresa sociale

Questo approccio non è in realtà privo di problemi e difficoltà. Le imprese sociali spesso producono servizi, dal settore socio-assistenziale al settore sanitario, dei quali il settore pubblico è il principale acquirente, pertanto la domanda può essere condizionata dalla “politica” e il rapporto con l’Amministrazione Pubblica può diventare facilmente un rapporto di dipendenza. Se le istituzioni locali non sono in grado di predisporre adeguati strumenti per garantire la qualità del servizio e per valutare i risultati della gestione, sorge il il rischio di ricalcare comportamenti opportunistici e di “esternalizzare” le inefficienze tipiche della Pubblica Amministrazione, senza risolvere il problema della carenza di beni pubblici di qualità né quello della scarsità di capitale sociale. Il rischio che le imprese sociali diventino un allungamento della sfera dello Stato e delle sue articolazioni territoriali, può essere invece ridotto se tali imprese privilegiano un’organizzazione a rete, attivando collaborazioni con altre imprese sociali, con imprese for profit e istituti di credito, con altre aggregazioni della società civile (Demozzi e Zandonai 2007; ISFOL 2006). In sintesi, il rischio di comportamenti opportunistici si stempera se le organizzazioni civili assumono la forma di imprese sociali di comunità, fortemente radicate nel territorio e se portano realmente pezzi di società civile e di beneficiari nella governance. Al riguardo, va sottolineato che, in definitiva, un’impresa sociale può esistere stabilmente solo se legittimata dalla collettività di appartenenza e questo comporta una sorta di vigilanza che limita i comportamenti difformi dalla missione o opportunistici: per l’impresa sociale, “la possibilità di essere riconosciuta e legittimata dalla comunità di appartenenza è legata alla sua capacità di continuare a dare risposte ai bisogni della comunità stessa” (Salani 2005, p.178). La pratica di stabilire relazioni regolari allargate e di promuovere la partecipazione attiva di diversi stakeholder nel governo dell’impresa, è funzionale anche ad una maggiore autonomia operativa e all’acquisizione di risorse di natura diversa, il che aiuta a superare gli ostacoli finanziari che frenano lo sviluppo e la crescita delle imprese non profit. Non va poi dimenticato che l’adozione di un codice etico o la redazione di un bilancio sociale19, prevista espressamente dalla legge 118/2005, e molto diffusa nella cooperazione, permettono all’esterno di verificare l’adesione dell’impresa ad un comportamento socialmente responsabile e quindi di vigilare su come le risorse sono effettivamente utilizzate. In altre parole, gli strumenti di responsabilità sociale consentono agli stakeholder e alla comunità di appartenenza di convalidare la reputazione dell’organizzazione. Questo può rendere le imprese sociali strumenti di gestione delle risorse pubbliche più trasparenti rispetto a quegli enti locali che mettono in atto politiche sociali senza disporre di adeguate risorse organizzative per effettuare un valido screening degli aventi diritto e il monitoraggio dei risultati raggiunti. Un cenno merita infine la questione della qualità dei beni e servizi offerti. Innanzitutto, i beni pubblici e meritori sono beni che generano esternalità diffuse, visibili ai cittadini, elementi che possono essere misurati e valutati riducendo il rischio di pratiche clientelari. Inoltre è possibile introdurre incentivi per innalzare la qualità dei servizi collettivi. Ad esempio, si può preservare la libertà di scelta da parte dei portatori di bisogni attraverso la concorrenza tra i soggetti fornitori, una concorrenza che va interpretata come un processo finalizzato all’introduzione di differenti organizzazioni e soluzioni produttive per migliorare i servizi e per raggiungere una maggiore soddisfazione delle esigenze dei residenti (Bruni e Zamagni op. cit.; Ianes e Tortia 2008).

19 Il bilancio sociale rende conto dell’outcome dell’impresa, cioè di quanto la produzione/attività è valsa a raggiungere gli obiettivi

di utilità sociale (Agenzia per le ONLUS 2007).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 85 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Contestualmente, la qualità dei servizi dovrebbe essere valutata da enti autonomi di controllo attraverso indicatori che tengano conto dei risultati e dei processi, oltre che degli input, coinvolgendo i diretti beneficiari in modo che possano esprimere il loro apprezzamento e le loro esigenze (Fazzi 2008; Libanora 2008). Nel concludere questo paragrafo è opportuno segnalare un’ultima avvertenza, da tener ben presente prima di sperimentare quanto siano replicabili nella realtà meridionale i casi di successo maturati in altri contesti. E’ evidente che nel Mezzogiorno, cioè la parte del territorio nazionale dove si concentrano la povertà e i fenomeni di disagio sociale nonché i ritardi delle istituzioni locali in materia di politica sociale, è auspicabile lo sviluppo dell’economia civile come leva per lo sviluppo economico. La disponibilità di risorse aggiuntive, fornite dalla politica regionale di sviluppo dell’Unione Europea, può rappresentare un’occasione di stimolo alle istituzioni locali nella direzione della promozione di imprese sociali. E’ altrettanto evidente che l’impegno delle Amministrazioni Pubbliche nel Mezzogiorno dovrà essere molto forte per arrivare ad un risultato tangibile. Oltre che risorse finanziarie, questo percorso richiede riforme istituzionali di un certo spessore: la predisposizione di sistemi di accreditamento (che fissano i requisiti minimi essenziali perché le imprese sociali possano operare sul mercato) e di verifica dei risultati, l’adeguamento delle leggi regionali alla normativa nazionale e l’introduzione di incentivi alla nascita e al consolidamento delle imprese sociali.

Infatti imprese come le cooperative sociali si sono diffuse “spontaneamente” nei territori ricchi di tradizione civica e dove erano radicate le abitudini fondate su fiducia generalizzata e relazioni mirate al bene comune. Queste abitudini e propensioni si propagano per imitazione attraverso interazioni sociali ripetute e prolungate, creando un ambiente favorevole all’imprese sociale (Ianes e Tortia op. cit.). In assenza di queste condizioni, diventa necessario ancora più che in altre Regioni che le istituzioni pubbliche locali favoriscano gli embrioni di economia civile piccoli e tutto sommato isolati rispetto alle comunità di appartenenza, embrioni che nascono in un contesto ostile al loro sviluppo e che sono essenziali per attuare dall’interno un cambiamento. In altre parole, queste esperienze embrionali sono fattori cruciali per rompere la trappola della povertà sociale, una peculiare trappola della povertà dovuta a scarsità di capitale sociale e di beni relazionali20. 2. Qualità della vita e servizi collettivi in Campania In questo paragrafo mostro alcuni dati indicativi del contesto economico-sociale della Regione Campania, al confronto con le altre Regioni del Mezzogiorno, con i valori medi nazionali e con i valori medi per circoscrizione. Le variabili possono essere lette come indicatori di povertà multidimensionale quindi colgono la deprivazione non solo sotto l’aspetto del reddito ma anche considerando le dimensioni legate alla diffusione di beni relazionali e di servizi essenziali. I dati sono tratti dal Sistema delle Indagini Multiscopo dell’ISTAT che raccoglie informazioni su numerosi temi di rilevanza sociale quali le condizioni abitative e della zona in cui si vive, le condizioni di salute e gli stili di vita, i comportamenti legati al tempo libero e alla cultura, il

20 Sulla trappola della povertà sociale, si veda Antoci, Sacco e Vanin 2006; Sacco, Vanin e Zamagni 2006.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 86 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

rapporto dei cittadini con i servizi di pubblica utilità. Tra le variabili presentate vi sono poi anche alcune variabili di contesto chiave e variabili di rottura contenute nella banca dati DPS-ISTAT21. Mi sono soffermata in particolare sulle informazioni di carattere qualitativo, relative alla percezione dei cittadini e al grado di soddisfazione per alcuni servizi collettivi. In sintesi, la Tabella 9 indica una condizione di generale malessere dei residenti campani in relazione alle condizioni ambientali dei luoghi in cui abitano, in particolare con riferimento all’inquinamento, al rumore e alla sporcizia. La Tabella 10 mette a fuoco un altro aspetto collegato, le difficoltà delle famiglie di attuare la raccolta differenziata dei rifiuti e poco sorprende quindi l’esito estremamente deludente della raccolta differenziata in Campania che risulta dalla Tabella 11, con una percentuale di raccolta differenziata pari solo al 10% del totale contro una media nazionale del 24,3%. La Tabella 12 mostra invece il bassissimo grado di soddisfazione dei cittadini campani verso la qualità dei servizi ospedalieri, dato confermato dalla Tabella 13, in cui sono racchiusi gli indicatori relativi all’emigrazione ospedaliera oltre che indicatori della diffusione di servizi sociali per l’infanzia e per gli anziani. I valori esposti segnalano che la condizione della Regione Campania è peggiore anche rispetto alla media delle Regioni del Mezzogiorno: ad esempio, l’indice relativo alla presa in carico per i servizi all’infanzia è pari a 1,9 in Campania contro un valore del 4,5 nel Mezzogiorno e di 11 per l’Italia. La Tabella 14 riassume alcuni dati sulla diffusione della criminalità e sulla percezione del rischio delle famiglie. Ancora una volta la Campania si stacca da tutte le altre Regioni registrando i valori più alti del Paese per la percezione del rischio (avvertito da oltre la metà delle famiglie), la microcriminalità, l’indice della criminalità organizzata. Le Tabelle 15 e 16 sintetizzano il nesso tra il mondo della scuola, lo sbocco sul mercato del lavoro e la diffusione della povertà. Come si vede dalla Tabella 15, in Campania è estremamente elevato il numero di giovani che abbandonano precocemente gli studi mentre il tasso di scolarizzazione superiore risulta pari appena al 66,8%. Non solo i giovani campani trascorrono meno tempo a scuola rispetto agli altri giovani italiani, ma il tasso di disoccupazione giovanile è tra i più elevati del Paese (32,5%), specialmente per le giovani donne (35,4%). La Tabella 16 mostra che il disagio giovanile si inserisce in un quadro più ampio del mercato del lavoro caratterizzato da forte disoccupazione (11%), su cui incide per più della metà la disoccupazione di lunga durata (54%). Colpisce poi che il tasso di partecipazione della popolazione femminile è pari appena al 32,7%, il più basso tra tutte le Regioni italiane. Infine, gli indicatori di povertà relativa raggiungono in Campania un’incidenza pari al 21% delle famiglie e al 24% della popolazione. La Tabella 17 contiene la distribuzione delle famiglie a basso reddito per caratteristiche della famiglia. Come si vede, la probabilità di un reddito basso è notevolmente più elevata nelle famiglie meridionali con tre e più figli, in cui è presente un unico percettore di reddito, dove la fonte principale di remunerazione non deriva da un lavoro dipendente ma da lavoro autonomo, trasferimento pubblico, altro, il cui titolo di studio è molto modesto (nessuno e fino alla licenza media). Anche la presenza di anziani in famiglia accresce il rischio di basso reddito. Questi dati rafforzano l’evidenza a favore di una politica di offerta di servizi essenziali per ridurre la marginalità sociale. La Tabella 18 e la Tabella 19 coprono alcuni aspetti della vita quotidiana dei cittadini: la partecipazione ad attività sociali, di volontariato e politiche. I dati evidenziano lo scarso interesse

21 Si tratta di un insieme di 170 indicatori impiegati per quantificare e misurare gli obiettivi delle politiche strutturali dell’Unione

Europea. Queste variabili sono suddivise per settori di intervento (ambiente, cultura, risorse umane, sviluppo locale, città, reti e nodi di trasporto) e sono disaggregate per Regioni. La banca dati copre il periodo 1995-2007.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 87 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

per la comunità di appartenenza dei residenti in Campania e dunque sono un segnale della bassa accumulazione di capitale sociale e di beni relazionali. Le informazioni della Tabella 20 sono invece indicative della partecipazione ai problemi di carattere nazionale: i cittadini campani assegnano forte priorità ai problemi avvertiti a livello locale (la disoccupazione, la povertà, la criminalità, i problemi ambientali) e mostrano una bassa consapevolezza della rilevanza di alcune grandi questioni nazionali (il debito pubblico, l’evasione fiscale, l’immigrazione) così come dei problemi a forte ricaduta collettiva che pure riguardano l’area di residenza (l’inefficienza del sistema sanitario, del sistema scolastico, del sistema giudiziario). Lo scenario che emerge è quello di un territorio che offre uno standard di vita estremamente modesto, carente sotto il profilo delle relazioni sociali e solidali, delle opportunità di mobilità sociale, delle aspettative di un avanzamento. Una strategia di sviluppo attenta agli Obiettivi di servizio così come al ruolo della imprenditorialità sociale appare quindi cruciale in un’ottica non solo di breve periodo (fornire servizi collettivi che riducono il disagio sociale specie delle famiglie più povere) ma anche di lungo periodo. E’ infatti chiaro che le politiche fino ad oggi privilegiate, politiche basate sostanzialmente su trasferimenti monetari a famiglie ed imprese, incidono marginalmente sulle aspettative, sulle relazioni sociali e sulle motivazioni degli agenti economici e non possono dunque fare da leva per innescare un processo di sviluppo endogeno, guidato da cittadini consapevoli e responsabili che concorrono direttamente al progresso economico e civile della comunità di appartenenza. L’offerta di servizi collettivi di qualità produce invece consistenti benefici intangibili (quali l’innalzamento del capitale umano), attiva numerosi effetti indiretti (si pensi all’impatto sull’equità di genere e sulle pari opportunità), genera esternalità diffuse (ad esempio, tutti beneficiano dal vivere in una comunità con alti livelli di istruzione e di salute) ed è un presupposto per radicare reti sociali sul territorio. Tutto ciò si traduce nell’accumulazione di beni relazionali che appaiono indispensabili in Campania, come del resto in tutte le Regioni del Mezzogiorno, anche per realizzare un’autonoma crescita delle attività produttive. Al contrario, continuare a puntare su politiche redistributive è una soluzione di corto respiro che frena piuttosto che stimolare lo sviluppo economico e civile. La mia critica a tale approccio non si basa sull’argomento di evitare che la logica di una permanente assistenza pubblica possa creare trappole della povertà, bassi incentivi al lavoro ecc. La questione a mio avviso è piuttosto porsi l’obiettivo di rivitalizzare un tessuto sociale che è deprivato di libertà positiva e di autodeterminazione a causa non solo del basso reddito ma di opzioni di vita molto ristrette che inibiscono la capacità di capire cosa sia degno di essere perseguito. Una società di questo tipo, tra l’altro, non internalizza il beneficio collettivo di selezionare una classe politica sulla base del criterio della capacità di governare istituzioni pubbliche efficienti, essendo assuefatta al criterio dei sussidi a pioggia che la classe politica somministra. D’altra parte, come si può pretendere che i residenti siano esigenti verso le istituzioni e che rispettino obblighi e responsabilità verso la comunità di appartenenza se i governi locali e nazionali non sono in grado di garantire i diritti essenziali ai servizi di base? E come si può continuare a credere che lo sviluppo economico nel Mezzogiorno possa bypassare il problema di fondo, cioè la scarsità di cooperazione, di fiducia, di rispetto delle regole del gioco che caratterizzano i comportamenti sociali in gran parte dei territori meridionali?

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 88 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Tabella 9 - Giudizio delle famiglie su alcune caratteristiche della zona in cui abitano e presenza di problemi ambientali(tassi per 100 famiglie). Anno 2007

Ripartizione geograficaInquinamento Rumore (*)

Irregolaritànell'erogazionedell'acqua (*)

Non bevonoacqua di rubinetto

Sporcizia nelle strade (*)

Abruzzo 26,25 27,01 17,47 22,69 26,45Molise 16,15 19,29 13,16 31,24 23,72Campania 48,30 46,73 18,08 34,13 52,80Puglia 36,76 40,14 17,10 36,86 26,37Basilicata 21,98 27,33 15,12 19,11 28,72Calabria 19,13 27,38 30,62 45,87 33,71Sicilia 41,39 44,76 30,53 68,54 33,53Sardegna 19,78 28,96 15,13 59,02 36,56Mezzogiorno 36,34 39,27 21,81 45,30 36,66 - Sud 36,49 38,46 19,34 34,81 37,86 - Isole 36,06 40,87 26,73 66,19 34,27Nord-Ovest 52,79 37,37 9,04 32,93 35,12Nord-Est 43,59 29,86 6,48 27,25 22,98Centro 42,41 38,82 12,09 30,89 39,65ITALIA 43,63 36,78 13,25 35,39 34,11Fonte: ISTAT (2008d), La vita quotidiana nel 2007. (*) Percentuali di famiglie che dichiarano "molta" o "abbastanza" presenza del problema indicato.

Tabella 10 - Famiglie con facile accessibilità ai contenitori per la raccolta differenziata dei rifiuti nella zona in cui abitano (per 100 famiglie della stessa zona). Anno 2007

Carta Vetro FarmaciBatterie usate

Lattine in alluminio

Contenitori in plastica

Rifiuti organici

Altro

Abruzzo 53,8 55,4 25,6 17,8 27,4 40,6 46,2 12,9Molise 41,9 42,4 27,2 23,7 24,7 28,1 27,6 11,0Campania 29,1 36,3 21,0 13,6 21,3 25,8 32,8 11,3Puglia 56,1 55,0 30,8 20,7 29,6 44,4 43,9 10,6Basilicata 32,1 37,0 22,1 17,0 19,4 28,3 27,1 6,8Calabria 38,8 38,4 15,3 11,6 23,2 24,9 31,8 9,3Sicilia 27,9 30,4 16,5 8,8 13,5 23,4 24,5 4,3Sardegna 43,9 50,7 32,0 23,4 36,9 35,4 42,8 22,7Sud 41,3 44,2 23,7 16,2 24,6 32,7 36,9 10,7Isole 31,9 35,4 20,3 12,4 19,3 26,3 29,1 8,8Nord-Ovest 69,4 72,0 51,1 40,2 51,4 61,2 58,9 28,7Nord-Est 74,6 76,7 51,7 47,6 63,9 66,1 67,5 36,1Centro 62,2 62,8 30,8 23,0 40,1 50,3 46,0 11,6ITALIA 59,0 61,2 38,0 30,1 42,4 50,2 50,1 20,8Fonte: ISTAT (2008d), La vita quotidiana nel 2007.

Ripartizione geografica

Contenitori raggiungibili per la raccolta differenziata di

Tabella 11 - Raccolta di rifiuti urbani per tipo e regione. Anno 2005

Vetro Plastica Carta Alluminio Altro (*) Totale

Abruzzo 15,6 14,7 7,3 38,5 0,7 38,8 100,0Molise 5,2 18,6 3,2 43,0 0,0 35,2 100,0Campania 10,6 10,2 3,1 37,6 0,1 49,1 100,0Puglia 8,2 12,0 9,4 52,0 0,1 26,5 100,0Basilicata 5,5 10,2 8,2 55,8 0,0 25,7 100,0Calabria 8,6 36,2 1,9 40,2 4,6 17,1 100,0Sicilia 5,5 15,0 7,6 53,5 0,6 23,3 100,0Sardegna 9,9 22,6 7,9 35,0 0,0 34,4 100,0Mezzogiorno 8,7 15,5 6,1 44,1 0,6 33,6 100,0 - Sud 9,8 14,8 5,6 43,0 0,7 35,8 100,0 - Isole 6,6 17,6 7,7 47,3 0,4 27,0 100,0Nord-Ovest 37,9 24,9 9,1 40,5 0,1 25,4 100,0Nord-Est 38,3 21,8 8,0 40,4 0,7 29,1 100,0Centro 19,4 13,5 5,0 55,3 0,0 26,1 100,0ITALIA 24,3 20,6 7,6 43,9 0,3 27,6 100,0Fonte: ISTAT (2009a), Variabili di contesto e di rottura.(*) Sono inclusi rifiuti organici, rifiuti verdi, ingombranti a recupero ecc.

Raccolta differenziata (composizione percentuale)

Ripartizione geografica

% raccoltadifferenziata

sul totale

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 89 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Tabella 12 - Persone molto soddisfatte dei servizi ospedalieri (rapporti per 100 ricoverati). Anno 2007

Ripartizione geograficaAssistenza

medica

Assistenzainfermie-

ristica

Serviziigienici

Abruzzo 26,9 20,2 17,4Molise 32,1 19,5 36,5Campania 19,4 14,8 9,3Puglia 20,7 20,7 15,4Basilicata 13,8 16,0 12,1Calabria 26,2 27,8 27,3Sicilia 20,0 15,2 12,4Sardegna 35,8 34,8 20,9Mezzogiorno 22,3 19,5 15,1 - Sud 21,7 19,4 15,5 - Isole 23,5 19,6 14,3Nord-Ovest 43,2 39,7 35,0Nord-Est 51,0 49,7 47,0Centro 38,0 37,1 30,2ITALIA 35,9 33,6 28,9Fonte: ISTAT (2008d), La vita quotidiana nel 2007.

Tabella 13 - Servizi per l'infanzia e per gli anziani e attrattività dei servizi ospedalieri. Anni vari

Ripartizione geografica

Diffusione servizi per l'infanzia (a)

Anno 2005

Presa in carico dell'utenza dei servizi per l'infanzia (b) Anno

2005

Presa in carico degli anziani per il servizio di assistenza domiciliare

integrata (c) Anno 2007

Incidenza del costo dell'ADI sul totale della spesa

sanitaria (d) Anno 2006

Indice di attrattività dei servizi

ospedalieri (e) Anno 2005

Abruzzo 26,2 7,2 3,6 0,9 10,5Molise 2,9 3,9 3,7 0,7 18,7Campania 39,2 1,9 1,6 0,4 9,9Puglia 27,5 4,9 1,6 0,4 7,9Basilicata 32,8 5,6 4,3 1,4 22,2Calabria 7,8 2,1 2,7 0,4 16,2Sicilia 33,3 6,4 1,0 1,4 7,5Sardegna 17,2 9,1 1,2 0,7 4,7Mezzogiorno 25,1 4,5 1,8 0,7 9,7 - Sud 24,9 3,3 2,2 0,5 11,1 - Isole 25,4 6,9 1,1 1,3 6,7Nord-Ovest 47,0 14,1 3,0 0,9 5,0Nord-Est 59,9 17,0 5,8 1,6 4,7Centro 49,8 14,3 3,3 1,6 5,5ITALIA 42,8 11,1 3,2 1,1 6,7Fonte: Fonte: ISTAT (2008d), La vita quotidiana nel 2007; ISTAT (2009a) Variabili di contesto e di rottura.(a) Percentuale di Comuni che hanno attivato servizi per l'infanzia (asilo nido, micronidi o servizi integrativi e innovativi) sul totale dei Comuni della Regione.(b) Bambini tra zero e 3 anni che hanno usufruito dei servizi per l'infanzia (asilo nido, micronidi, o servizi integrativi e innovativi) di cui il 70% in asili nido, sul totale della popolazione 0-3 anni (%).(c) Anziani trattati in Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) rispetto al totale della popolazione anziana (65 anni e oltre) (%).(d) Incidenza percentuale del costo dell'ADI sul totale della spesa sanitaria regionale (%).(e) Emigrazione ospedaliera in altra Regione per ricoveri ordinari sul totale delle persone ospedalizzate residenti nella Regione (%).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 90 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Tabella 14 - Criminalità. Anni vari

Ripartizione geografica

Percezione delle famiglie del rischio di criminalità nella zona

in cui vivono (a) Anno 2008

Indice di microcriminalità

nelle città (b) Anno 2003

Indice di criminalità diffusa (c) Anno 2006

Indice di criminalità

organizzata (d) Anno 2006 1995=100

Indice di criminalità minorile

(e) Anno 2003

Abruzzo 28,7 8,2 18,2 193,6 2,3Molise 16,7 4,8 11,2 250,8 1,9Campania 53,6 23,2 20,9 132,3 1,8Puglia 36,5 14,3 19,4 119,3 1,8Basilicata 11,8 4,4 7,0 99,8 1,6Calabria 30,4 15,1 15,1 111,2 1,2Sicilia 27,5 14,4 20,4 48,3 2,5Sardegna 20,0 14,3 14,0 42,2 2,6Mezzogiorno 35,2 16,0 18,6 88,6 2,0 - Sud 40,0 17,0 18,6 123,6 1,7 - Isole 25,6 14,4 18,8 47,0 2,5Nord-Ovest 39,2 27,6 33,1 156,2 2,5Nord-Est 33,7 18,6 28,0 120,0 3,0Centro 38,9 23,9 32,5 154,0 2,4ITALIA 36,8 21,5 26,9 111,7 2,4Fonte: ISTAT (2009a), Variabili di contesto e di rottura.(a) Famiglie che avvertono molto o abbastanza disagio al rischio di criminalità nella zona in cui vivono (%).(b) Totale delitti legati alla microcriminalità nelle città per 1.000 abitanti.(c) Furti e rapine meno gravi per 1.000 abitanti.(d) La definizione di criminalità organizzata comprende, secondo le nuove definizioni del sistema informativo del Ministerodell'Interno: omicidi per mafia, attentati, incendi dolosi, e rapine gravi (rapine in banche, in uffici postali, a rappresentanti di preziosi, a trasportatori di valori bancari e postali, di automezzi pesanti trasportanti merci). Ogni delitto è stato poi ponderato per la rispettiva pena media edittale. (e) Indice di criminalità minorile (%).

Tabella 15 - Giovani: scuola e lavoro. Anni vari

Ripartizione geografica

Giovani che abbandonano

prematuramente gli studi (a) Anno 2007

Tasso di abbandono alla fine del

secondo anno delle scuole secondarie

superiori (b) Anno 2006

Tasso di abbandono alla fine del primo anno delle scuole secondarie

superiori (c) Anno 2006

Tasso di scolarizzazione superiore (d)

Anno 2007

Tasso di disoccupazione giovanile (e) Anno 2007

Tasso di disoccupazione giovanile femminile (f) Anno 2007

Abruzzo 15,0 1,5 7,7 80,7 17,2 26,2Molise 16,4 0,9 8,0 80,2 23,8 26,9Campania 29,0 3,8 14,1 66,8 32,5 35,4Puglia 25,1 2,4 11,5 69,8 31,8 34,6Basilicata 14,1 3,2 9,2 81,8 31,4 48,5Calabria 21,3 3,3 13,4 74,3 31,6 39,4Sicilia 26,1 5,0 15,2 69,6 37,2 45,8Sardegna 21,8 4,4 11,5 68,6 32,5 43,3Mezzogiorno 24,9 3,6 13,1 70,3 32,3 38,3 - Sud 24,8 3,1 12,5 70,7 30,6 35,0 - Isole 25,1 4,8 14,3 69,3 36,0 45,1Nord-Ovest 17,9 3,6 10,0 78,0 13,9 15,2Nord-Est 15,0 -0,1 8,4 80,6 9,6 13,0Centro 13,8 1,6 10,2 81,1 17,9 21,4ITALIA 19,7 2,6 11,1 75,7 20,3 23,3Fonte: ISTAT (2009a), Variabili di contesto e di rottura.(a) Popolazione 18-24 anni con al più la licenza media e che non frequenta altri corsi scolastici o non svolge attività formative da più di 2 anni (%).(b) Abbandoni sul complesso degli iscritti al secondo anno delle scuole secondarie superiori (%) .(c) Abbandoni sul totale degli iscritti al primo anno delle scuole secondarie superiori (%).(d) Percentuale della popolazione in età 20-24 anni che ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore. (e) Persone in cerca di occupazione in età 15-24 anni su forze di lavoro della corrispondente classe di età (%).(f) Persone in cerca di occupazione in età 15-24 anni sul totale delle forze di lavoro femminili in età 15-24 anni - Femmine (%).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 91 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Tabella 16 - Mercato del lavoro e povertà. Anno 2007

Ripartizione geografica

Tasso di disoccupazione

(a)

Incidenza della disoccupazione di lunga durata (b)

Incidenza della disoccupazione

femminile di lunga durata (c)

Tasso di attività totale della popolazione femminile (d)

Indice di povertà relativa regionale

(famiglie) (e)

Indice di povertà relativa regionale (popolazione) (f)

Abruzzo 6,2 46,6 45,8 49,0 13,3 12,4Molise 8,1 49,2 54,4 45,4 13,6 14,3Campania 11,2 54,1 56,7 32,7 21,3 23,9Puglia 11,2 52,9 55,7 35,5 20,2 21,9Basilicata 9,5 54,4 60,2 40,3 26,3 27,9Calabria 11,2 55,5 58,1 36,3 22,9 25,7Sicilia 13,0 60,7 65,2 35,2 27,6 31,8Sardegna 9,9 46,4 47,7 45,5 22,9 24,6Mezzogiorno 11,0 54,8 57,5 36,6 22,5 24,9 - Sud 10,5 53,4 55,8 36,0 20,5 22,5 - Isole 12,1 57,4 60,5 37,8 26,4 30,0Nord-Ovest 3,8 36,8 38,8 59,3 5,8 6,3Nord-Est 3,1 31,4 34,2 60,2 5,0 5,2Centro 5,3 45,4 47,8 55,8 6,4 7,2ITALIA 6,1 47,4 49,2 50,7 11,1 12,8Fonte: ISTAT (2009a), Variabili di contesto e di rottura.(a) Persone in cerca di occupazione in età 15 anni e oltre sulle forze di lavoro nella corrispondente classe di età (%).(b) Quota di persone in cerca di occupazione da oltre 12 mesi sul totale delle persone in cerca di occupazione (%).(c) Quota di persone in cerca di occupazione da oltre 12 mesi sul totale delle persone in cerca di occupazione - Femmine (%).(d) Tasso di attività della popolazione in età 15-64 anni: Forze di lavoro in età 15-64 anni sulla popolazione nella corrispondente classe di età (%).(e) Famiglie al di sotto della soglia di povertà (%).(f) Popolazione che vive in famiglie al di sotto della soglia di povertà (%).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 92 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Tabella 17 - Popolazione a basso reddito per caratteristiche della famiglia (*). Anno 2006

Caratteristiche della famiglia Nord Centro Mezzogiorno ITALIA

NUMERO DI COMPONENTI

Uno 11,1 12,4 30,3 16,8

Due 6,2 7,4 27,8 12,3

Tre 7,5 7,2 26,7 13,6

Quattro 8,8 13,4 36,3 21,0

Cinque e più 23,9 22,9 47,9 36,1

TIPI DI FAMIGLIE

Persone sole 11,1 12,4 30,3 16,8

con meno di 65 anni 11,1 14,1 34,9 17,7

di 65 anni e oltre 11,3 10,8 26,6 15,9

Coppie con figli 9,1 11,8 34,8 19,8

Coppie con tre o più figli 26,8 30,7 47,3 38,6

Monogenitori 14,0 18,0 35,3 21,7PRESENZA DI MINORIUno 10,6 12,6 37,1 20,5

Due 12,7 20,9 44,1 27,3

Tre o più 35,4 33,4 58,9 46,2

PRESENZA DI ANZIANIUno 8,4 10,4 29,1 15,6

Due o più 6,1 3,1 21,7 10,4

NUMERO DI PERCETTORIUno 28,8 25,0 50,2 34,2

Due 6,1 6,8 27,0 12,9

Tre o più 2,6 4,2 17,5 7,7

FONTE PRINCIPALE DI REDDITOLavoro dipendente 8,3 8,6 30,5 16,2

Lavoro autonomo 11,1 15,4 39,7 21,2

Trasferimenti pubblici 8,5 10,1 34,2 18,1

Capitale e altri redditi 23,3 43,4 59,6 40,2

TITOLI DI STUDIO

Nessuno-licenza elementare 13,2 14,8 44,6 26,3

Licenza media 12,2 16,1 44,0 25,2

Diploma 7,1 8,8 24,4 12,6

Laurea 2,9 3,7 3,1 3,1

TOTALE 9,3 11,2 34,0 18,4Fonte: Istat (2009c).

(*) Su 100 persone con le stesse caratteristiche. Il reddito include gli affitti figurativi.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 93 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Tabella 18 - Persone di 14 anni e più che negli ultimi 12 mesi hanno svolto almeno una delle attività sociali indicate e persone di 6 anni e più per frequenza con cui si sono recate in luogo (per 100 persone della stessa zona). Anno 2007

Ripartizione geografica

Riunioni in associazioni ecologiche,

eccetera (a) (c)

Riunioni in associazioni

culturali, eccetera (a) (c)

Attività gratuita per associazioni volontariato

(a) (c)

Attività gratuita per associazioni

non di volontariato

(a) (c)

Attività gratuita

per un

sindacato (a) (c)

Versano soldi

ad una associazione

(a) (c)

Si recano in un

luogo di culto almeno una

volta a settimana

(b)

Non si recano

mai in un luogo

di culto (b)

Abruzzo 1,3 8,2 6,2 2,9 1,3 12,6 31,0 15,8Molise 2,4 8,7 6,8 3,1 1,9 11,0 39,1 11,0Campania 1,4 5,1 5,2 2,0 1,0 8,6 43,8 9,6Puglia 1,9 6,7 6,2 1,9 1,4 9,8 40,4 10,4Basilicata 1,6 9,2 7,8 3,9 1,7 15,2 34,5 11,0Calabria 1,3 6,7 5,4 2,1 0,9 9,1 36,2 11,8Sicilia 1,2 6,9 4,8 2,0 1,0 6,5 38,6 12,3Sardegna 2,2 9,4 9,1 4,8 2,1 19,1 28,8 20,2Sud 1,5 6,4 5,8 2,2 1,2 9,7 40,0 10,8Isole 1,4 7,6 5,9 2,7 1,3 9,7 36,1 14,3Nord-Ovest 1,8 10,0 11,7 3,7 1,0 20,3 34,1 20,9Nord-Est 2,5 13,1 13,4 5,4 1,5 23,6 29,7 21,5Centro 1,9 8,1 7,7 2,8 1,6 17,5 26,0 22,9ITALIA 1,9 9,1 9,2 3,4 1,3 16,7 33,3 18,2Fonte: ISTAT (2008d), La vita quotidiana nel 2007.(a) Per 100 persone di 14 anni e più della stessa zona.(b) Per 100 persone di 6 anni e più della stessa zona.(c) Almeno una volta l'anno.

Tabella 19 - Persone di 14 anni e più per frequenza con cui si informano dei fatti della politica italiana (per 100 persone di 14 anni e più della stessa zona). Anno 2007

Tutti i giorniQualche volta alla settimana

Una volta alla settimana

Qualche volta al mese

Qualche volta all'anno

Mai Non indicato

Abruzzo 30,6 19,6 3,7 8,6 5,8 29,0 2,6Molise 28,2 18,8 3,9 10,3 6,8 28,4 3,6Campania 28,0 18,1 3,5 7,6 6,1 34,9 1,9Puglia 28,3 20,1 3,0 7,7 6,3 30,8 3,8Basilicata 28,9 19,2 3,6 9,9 7,5 27,9 2,8Calabria 26,3 20,5 3,4 7,7 7,7 31,4 3,0Sicilia 28,2 18,3 2,8 8,0 6,6 34,4 1,7Sardegna 41,2 18,0 3,1 6,7 4,8 23,2 3,0Sud 28,1 19,2 3,4 7,9 6,4 32,2 2,7Isole 31,5 18,2 2,9 7,7 6,1 31,6 2,0Nord-Ovest 40,9 23,9 4,3 6,8 4,4 17,2 2,4Nord-Est 44,4 22,4 3,7 6,1 4,4 17,0 2,0Centro 41,2 19,9 3,1 8,3 4,9 20,0 2,6ITALIA 37,6 21,1 3,6 7,3 5,2 22,9 2,4Fonte: ISTAT (2008d), La vita quotidiana nel 2007.

Si informano dei fatti della politica italianaRipartizione geografica

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 94 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Tabella 20 - Persone di 14 anni e più per problemi considerati prioritari nel Paese (per 100 persone di 14 anni e più dellastessa zona). Anno 2007

Ripartizione geografica

Disoccu-pazione

Criminali-tà

Evasione fiscale

Problemi ambientali

Debito pubblico

Inefficienza del sistema sanitario

Inefficienza del sistema scolastico

Inefficienza del sistema giudiziario

Immigrazio-ne extra-

comunitariaPovertà

Abruzzo 70,7 54,8 21,1 12,1 12,0 28,5 8,4 12,4 24,4 32,7Molise 81,7 50,6 18,5 19,9 11,7 27,3 5,9 11,3 12,8 25,6Campania 85,3 75,5 11,9 23,9 6,0 21,0 4,7 7,4 13,9 32,6Puglia 82,0 64,7 14,8 13,7 7,1 29,6 4,2 8,2 13,5 33,6Basilicata 86,5 45,2 17,3 17,7 13,7 25,1 6,3 8,3 12,2 36,1Calabria 86,5 58,8 14,1 12,1 4,5 34,0 4,9 9,4 14,5 31,3Sicilia 86,9 59,3 12,1 12,8 6,8 33,1 6,0 8,5 10,0 41,6Sardegna 84,7 51,5 18,9 12,6 10,6 26,5 9,1 10,9 8,7 40,8Sud 83,1 66,1 14,3 17,8 7,2 26,4 5,0 8,5 14,8 32,7Isole 86,3 57,3 13,8 12,7 7,7 31,5 6,7 9,1 9,7 41,4Nord-Ovest 53,1 64,4 23,7 21,8 13,1 23,4 6,1 15,1 34,2 22,8Nord-Est 43,6 58,1 27,8 20,9 18,2 24,1 6,7 16,5 38,4 19,4Centro 64,2 59,4 23,0 15,3 12,1 27,1 7,6 12,2 26,8 26,2ITALIA 64,3 61,8 21,0 18,4 11,9 25,9 6,3 12,6 26,2 27,2Fonte: ISTAT (2008), La vita quotidiana nel 2007.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 95 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

3. Amministrazioni locali e impresa sociale: la Campania al confronto con le altre Regioni meridionali Analisi dei Piani di azione e dei POR (Programmi Operativi Regionali) Le indagini disponibili mostrano che nel Mezzogiorno le imprese sociali sono numerose ed il fenomeno è in crescita ma nel complesso queste organizzazioni rappresentano una forma alternativa di economia che è ancora gracile e che impiega competenze di livello inferiore rispetto ad altre aree del territorio nazionale (CNEL-ISTAT 2008; Unioncamere-Excelsior 2008). Approfondisco questo punto nel capitolo 5, mentre di seguito cercherò di verificare se le Regioni del Mezzogiorno stanno compiendo o meno dei passi nella direzione di modificare l’attuale scenario, favorendo il radicamento dell’impresa sociale. Come è noto, lo sviluppo dell’economia civile si fonda sull’iniziativa di imprenditori sociali privati, i quali portano avanti un’idea di intervento nel sociale e gradualmente realizzano il progetto grazie alla reputazione che si costruiscono nella comunità locale. Le istituzioni pubbliche sono però anch’esse un punto di snodo importante perché possono facilitare lo sviluppo del progetto, valorizzando il Valore Aggiunto Sociale, oppure possono diventare un fattore di ostacolo. In particolare, è fondamentale il ruolo delle Regioni che, in virtù del nuovo Titolo V della Costituzione, hanno competenze esclusive o concorrenti negli ambiti di azione delle imprese sociali. Un elemento cruciale per lo sviluppo dell’economia civile è quindi che le Regioni garantiscano una programmazione unitaria delle risorse disponibili e sostengano l’innalzamento della qualità del sistema dell’offerta di servizi collettivi, valorizzando le reti presenti sul territorio (Odifreddi 2008)22. Ciò significa che in primo luogo le Amministrazioni locali devono predisporre delle regole su cui costruire i mercati di qualità sociale. De Vincenti (2003), ad esempio, ritiene che il settore pubblico debba promuovere le imprese sociali fornendo sussidi diretti ai consumatori (attraverso forme di voucher o di detraibilità fiscale delle spese) invece che alle imprese. In questo modo viene preservata la concorrenzialità del mercato e, allo stesso tempo, si amplifica l’effetto di incentivo al consumo dei servizi la cui domanda è sottodimensionata rispetto all’utilità sociale a causa di esternalità ed asimmetrie informative. Sempre allo scopo di accrescere il grado di fiducia degli acquirenti, e quindi la domanda, è indispensabile l’organizzazione di un sistema di controllo della qualità dei servizi (accreditamento, monitoraggio e valutazione). L’ampliamento della domanda pagante rappresenta a sua volta la precondizione per la crescita dimensionale delle imprese sociali, migliorando lo sfruttamento di economie di scala e di scopo e il funzionamento del mercato. Sul fronte dell’offerta, va invece incentivata l’attivazione di nuove imprese sociali, ad esempio fornendo servizi reali e finanziari per lo start-up o introducendo clausole sociali nelle gare pubbliche di appalto dei servizi collettivi che tengano conto del Valore Aggiunto Sociale delle imprese non profit. Una digressione. La legge 328/2000 ha istituito due tipi di titoli sociali: il voucher e l’assegno di cura, entrambi subordinati a requisiti legati a soglie di reddito e alla condizione di bisogno. Il voucher è un titolo di acquisto che può essere speso solo per comprare i servizi di assistenza previsti

22 Sul rapporto tra enti locali e imprese sociali, si veda anche Ecchia (2008).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 96 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

e solo presso i soggetti accreditati. L’assegno di cura è un trasferimento monetario per sostenere un carico di cura familiare23. In Italia, le Regioni tendono a preferire l’assegno di cura perché non ha vincolo di destinazione, dunque è più apprezzato dalla popolazione e genera un consenso immediato sul piano politico. L’assegno di cura poi comporta minori costi gestionali e amministrativi. Tuttavia, il voucher appare decisamente superiore al generico trasferimento monetario in quanto “con i voucher si passa da un sistema che finanzia l’offerta dei servizi (a gestione diretta o in convenzione) a un sistema che sostiene la loro domanda, puntando sulla libertà di scelta di individui e famiglie” (Pasquinelli e Gambino 2006, p.123). Inoltre, vincolando la domanda all’acquisto di specifici servizi, il voucher “promuove lo sviluppo dei mercati dell’offerta dei servizi in questione, aiuta ad orientare la domanda, e favorisce l’emersione del lavoro irregolare, poiché può essere speso solo presso imprese che operano sulla base di rapporti di lavoro a norma” (Cavallo ed altri 2008, p.284-285). Da un recente studio di FNP-CISL risulta che forme di contributi economici per le famiglie in cui vivono persone non autosufficienti sono previste dalle Regioni Abruzzo e Puglia (assegno di cura), Basilicata e Sardegna. La Sicilia invece dispone di un sistema di buoni socio-sanitari (voucher e contributo economico) ai nuclei familiari con anziani non autosufficienti o disabili, ma il sistema di accreditamento per i servizi socio-assistenziali non è stato ancora predisposto. Molise, Calabria e Campania non hanno erogato fondi specifici per i non autosufficienti (FNP-CISL 2008). Riprendiamo le fila del discorso sulla programmazione regionale. Nel Mezzogiorno, come si è visto, i temi sociali si intersecano con i problemi tipici delle aree sottoutilizzate, quindi il corretto punto di vista da assumere è quello dell’integrazione della politica sociale ordinaria e della politica di sviluppo attraverso misure come gli Obiettivi di servizio. Su questo punto va detto che ad oggi è possibile raccogliere solo alcuni “indizi” sull’orientamento delle Regioni meridionali in merito all’attuazione della nuova strategia di politica regionale. Più esattamente, il Rapporto annuale 2007 del DPS prevedeva che entro i primi mesi del 2008 le Regioni meridionali varassero un Piano di azione in cui rendere esplicito il percorso per la realizzazione degli Obiettivi di servizio24. Ad oggi (giugno 2009) sono disponibili i Piani di azione di tutte le Regioni meridionali, anche se i documenti in realtà sono stati conclusi solo da pochi mesi e molte indicazioni contenute rimandano a successivi provvedimenti che dovranno individuare effettivamente le misure specifiche. Metto quindi a tema, in sintesi, alcuni tratti interessanti delineati nei Piani di azione, tenendo presente che lo spazio per il terzo settore è potenzialmente molto ampio per gli obiettivi legati all’istruzione, in particolare alla riduzione della dispersione scolastica, successo scolastico e pari opportunità, così come per i servizi di cura, che rientrano nelle tradizionali attività delle cooperative sociali. Il non profit può avere un peso non trascurabile anche nel raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale, ad esempio nelle attività di sensibilizzazione e informazione così come nei servizi a domicilio della raccolta differenziata. Si ricorda, infatti, che le legge 118/2005 sull’impresa sociale, comprende l’ambiente tra le tematiche di interesse generale proprie di questa forma d’impresa. Va inoltre premesso che per quanto riguarda l’obiettivo 1, “Istruzione”, è il Ministero dell’Istruzione ad essere formalmente beneficiario del premio, e dunque anche il Ministero dovrà elaborare un Piano di azione. Al riguardo, le Regioni Abruzzo e Basilicata non hanno esposto nei

23 Si rimanda allo studio di Pasquinelli (2006), per un esame dei vantaggi e svantaggi connessi ai titoli sociali. Una sintesi delle tematiche relative ai voucher è offerta in Beltrametti (2004). Per un’analisi critica dell’esperienza italiana si legga invece Fazzi e Gori (2004).

24 I Piani di azione sono consultabile sul sito web del DPS dedicato agli Obiettivi di servizio: http://www.dps.mef.gov.it/obiettivi_servizio/monitoraggio.asp#pianiazione.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 97 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

loro Piani previsioni sull’obiettivo “Istruzione” in quanto attendono l’elaborazione del Piano del Ministero (in corso di definizione) per poi emanare delle azioni di raccordo. Nel discorso che segue, presento anche le informazioni tratte dall’esame dei POR, i Programmi Operativi Regionali in cui le Regioni illustrano la strategia di sviluppo e la ripartizione della spesa dei Fondi Strutturali per il ciclo finanziario 2007-2013. Più precisamente, il mio tentativo è di indagare se sul tema dell’impresa sociale sussiste un collegamento coerente tra la strategia di sviluppo dei POR ed i Piani di azione. Le voci più rilevanti per questo scopo sono gli Assi “Inclusione sociale”, “Sviluppo urbano” del Fondo Sociale Europeo (FSE) e del Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale (FESR), a cui fanno capo gli interventi di promozione della qualità della vita per tutte le fasce della popolazione25. Di un certo rilievo è anche l’Asse “Occupabilità” che contiene riferimenti al sostegno delle piccole imprese a cui possono accedere anche le imprese sociali. I POR esaminati si riferiscono all’obiettivo di coesione “Competitività Regionale e Occupazione” per Abruzzo, Molise e Sardegna (quest’ultima in regime di phasing in) mentre i POR delle rimanenti Regioni, Basilicata (in regime di phasing out), Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, ricadono nell’obiettivo “Convergenza”, cioè l’obiettivo di riequilibrio e riduzione dei divari sul quale si concentrano le risorse comunitarie (70%)26. La premessa è che nel caso delle Regioni collocate nell’obiettivo “Competitività Regionale e Occupazione”, le strategie di sviluppo privilegiano priorità legate all’irrobustimento del sistema produttivo e all’inserimento lavorativo e dunque l’attenzione dei Piani Operativi Regionali si sofferma poco sulle politiche sociali in senso stretto o sulla qualità della vita e molto di più sulle politiche di formazione e lavoro. Sottolineo poi che, all’interno degli strumenti predisposti dai POR, è di particolare interesse la nuova iniziativa comunitaria JEREMIE (Joint European Resources for Micro to Medium Enterprises). Il progetto JEREMIE utilizza i Fondi Strutturali nonché risorse e consulenza del Fondo Europeo per gli Investimenti (FEI) al fine di migliorare l’accesso delle piccole e medie imprese ai finanziamenti (al microcredito, al capitale di rischio e alle garanzie). Questo fondo dedicato consente quindi ai Paesi Europei che vi accedono di ricapitalizzare o promuovere la nascita di piccole imprese attraverso una gestione mediata da una società finanziaria regionale, e potrebbe quindi rappresentare un volàno per lo start-up delle imprese sociali. Come mostrerò, solo pochi enti locali del Mezzogiorno hanno colto questa potenzialità.

Campania

Il punto di partenza è il Piano di azione della Regione Campania dove si adotta il principio di sussidiarietà inteso tuttavia per lo più in senso restrittivo, limitato ad un incremento dell’offerta dei servizi ricorrendo al privato sociale. In quest’ottica, si prevede l’accreditamento dei servizi per l’infanzia, la differenziazione dell’offerta attraverso la creazione di servizi integrativi e innovativi, anche a carattere sperimentale (con priorità alle aree non coperte dai servizi per l’infanzia), l’introduzione di buoni. La valutazione è correttamente orientata a misurare l’impatto degli interventi sotto l’aspetto quantitativo e qualitativo. Si tiene quindi conto dei risparmi di costo, del numero di utenti presi in carico e di interventi realizzati, del reddito generato attraverso il “tempo

25 I POR delle Regioni del Mezzogiorno sono scaricabili dal sito web del DPS:

http://www.dps.mef.gov.it/qsn/qsn_programmioperativi.asp). 26 I regimi di phasing out e phasing in prevedono un sostegno a carattere transitorio e decrescente.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 98 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

liberato” cioè sottratto al lavoro di cura. Ma si considerano, e questa è una nota positiva, anche numerosi indicatori qualitativi come il grado di soddisfazione degli utenti rispetto ai servizi offerti e il grado di soddisfazione degli stakeholder e degli enti territoriali per le attività di supporto realizzate. Con riferimento ai servizi di assistenza, il Piano introduce l’accreditamento e conferma alcuni obiettivi già presenti (sulla carta) nella vecchia programmazione: la realizzazione di un sistema di erogazione di voucher sociali e assegni di cura alle famiglie, l’accrescimento delle competenze delle figure professionali impegnate nel sociale, l’adozione di protocolli unitari per l’accesso ai servizi e l’introduzione di carte dei servizi nei Piani di zona. Il Piano contiene poi una proposta innovativa rispetto al vecchio ciclo finanziario, quella di costruire e promuovere un sistema di aiuti alle imprese sociali che offrono servizi di Assistenza Domiciliare Integrata. Questo riferimento (che rientra nell’obiettivo “Città solidali e scuole aperte” del FESR, di cui poi si dirà) è di grande interesse, ma al momento non è stato declinato in azioni da avviare e si tratta quindi solo di una buona intenzione. Le misure, nel complesso, vanno nella direzione giusta, ma sono estremamente generiche e non è dunque ancora possibile esprimere un giudizio complessivo. Il Piano della Regione Campania appare comunque tra i più attenti all’impresa sociale tra i documenti presentati dalle Regioni meridionali. Quanto al POR della Regione Campania, tra i principali obiettivi dell’Asse III “Inclusione sociale” del FSE, compaiono: l’inserimento lavorativo per le fasce svantaggiate, la cultura delle pari opportunità per le donne e i disabili, la lotta alla povertà, la promozione di una cittadinanza partecipata, i servizi per la sicurezza delle città anche in sinergia con le misure per ridurre l’abbandono scolastico e il disagio sociale, il supporto ai sistemi di integrazione socio-sanitaria. Il programma contempla anche la distribuzione alle donne di voucher per l’acquisizione di servizi che ne facilitino l’ingresso sul mercato del lavoro così come un programma di voucher a sostegno della formazione, entrambi presupposti per accrescere la domanda rivolta al terzo settore. L’Asse II “Occupabilità” ha tra le sue misure la concessione di microcredito per la creazione di imprese, includendo tra i destinatari le cooperative sociali. E’ stabilita poi la complementarietà con altri programmi, cioè con l’Asse VI “Sviluppo urbano e qualità della vita” del FESR e con il programma comunitario Progress (Programma comunitario per l’occupazione e la solidarietà sociale). L’Asse “Sviluppo urbano” del FESR comprende tra gli obiettivi operativi quello definito “Città solidali e scuole aperte” che intende accrescere i servizi sociali anche attraverso un sistema di aiuti mirato alle imprese sociali, con priorità per quelle che offrono servizi per l’infanzia, per gli anziani e i disabili e quelle che sostengono donne, giovani e immigrati a inserirsi stabilmente nel mercato el lavoro. Nonostante questi richiami, nel complesso il POR Campania affida un ruolo marginale alle imprese sociali, ed anzi nel documento di pianificazione del FSE si parla di scarso attivismo della cooperazione sociale in materia di inserimento lavorativo dei disabili. Da notare però che la Regione Campania è l’unica in Italia che non ha ancora recepito la legge 381/1991 sulla cooperazione sociale e dunque non ha predisposto azioni specifiche a sostegno di queste imprese né ha istituito un Albo regionale delle cooperative sociali. Inoltre, la legge nazionale 328/2000 sulle politiche sociali è stata recepita formalmente dalla Campania attraverso la legge regionale 11/2007 (Legge per la dignità e la cittadinanza sociale) ma l’attuazione effettiva di una politica sociale organica è appena all’inizio: infatti il Piano sociale regionale, completato nel gennaio 2009, è stato approvato il 16/4/2009. Non c’è quindi molto da stupirsi se poi l’economia civile mostra evidenti fragilità a strutturarsi sul territorio campano.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 99 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Tuttavia, uno strumento innovativo a favore dell’impresa sociale in Campania può derivare dall’accordo siglato tra la Regione e la Banca Europea degli Investimenti (BEI) all’interno del progetto JEREMIE (Joint European Resources for Micro to Medium Enterprises). L’accordo tra BEI e Regione Campania mobilità 10 milioni di euro a capo dell’Assessorato per le Politiche sociali e 80 milioni di euro gestiti dall’Assessorato per le Attività produttive e potrebbe essere utilizzato anche per favorire lo start-up delle imprese sociali. Altra innovazione degna di essere sottolineata è l’adozione del Piano sociale regionale 2009-2011 (Regione Campania 2009) a cui ho è fatto cenno precedentemente. Il Piano si sforza di collegare le politiche sociali alla programmazione comunitaria, in particolare a quanto predisposto dal Piano di azione per gli Obiettivi di servizio, colmando, almeno nelle intenzioni, una lacuna vistosa della strategia di sviluppo perseguita fino ad oggi. Si noti al riguardo che il disegno di far confluire in una strategia organica le politiche sociali assume in certi punti dei contorni poco chiari: ad esempio, nella sezione dedicata all’Assistenza Domiciliare Integrata, si prevede di introdurre assegni di cura alle famiglie mentre successivamente, con riferimento alle politiche per le persone anziane, si parla della diffusione di buoni spendibili per l’acquisto di servizi. La stessa oscillazione tra un approccio che punta sul sostegno diretto del reddito delle fasce svantaggiate e la preferenza per una politica d’inclusione sociale realizzata privilegiando l’accesso ai servizi collettivi, intesi in senso lato, ricompare nel capitolo dedicato alle politiche di contrasto alla povertà. Infatti da un lato si afferma la priorità di assicurare ai cittadini un esteso ventaglio di servizi collettivi e politiche attive del lavoro come strumenti per l’inclusione sociale, dall’altro si ribadisce l’opportunità di tracciare un bilancio dell’esperimento del Reddito di cittadinanza (introdotto con la legge regionale 2/2004 e rifinanziato per il 2009 con 77 milioni di euro, di cui 65 milioni assegnati negli anni precedenti e non spesi!) al fine di individuare i punti di forza e di debolezza della sperimentazione in corso.

A mio parere, se il Piano intende conciliare i due diversi approcci, quello basato sull’erogazione di servizi e quello fondato invece su trasferimenti monetari, andrebbe reso esplicito con che modalità farlo per evitare ambiguità o effetti contraddittori che potrebbero, nella fase di attuazione, creare problemi di gestione rendendo queste misure poco efficaci.

Abruzzo

Per un confronto, considero in primo luogo il Piano di azione della Regione Abruzzo, tenendo però conto che il terremoto che ha colpito L’Aquila lo scorso aprile pone nuove necessità e che quindi potrebbe essere modificata in modo sostanziale la precedente pianificazione. L’Abruzzo è un territorio montano per il 65% caratterizzato da una scarsa densità della popolazione e da un tasso di crescita naturale negativo. L’offerta di strutture di cura si concentra nei Comuni con maggior numero di abitanti, lasciando sguarnita una parte consistente di domanda per motivi dovuti sia alla scarsa diffusione territoriale dei servizi sia al costo elevato. In considerazione di questi dati, il Piano di azione prevede un incremento dell’offerta di servizi socio-educativi a gestione diretta dei Comuni ma anche concessi in gestione a soggetti esterni, in special modo nelle zone interne, nelle aree rurali e nelle aree extraurbane che sono poli di attrazione del pendolarismo per lavoro. A questo fine, si avvia l’attuazione del sistema di accreditamento dei soggetti del terzo settore che erogano servizi alla persona e si annuncia l’introduzione di sistemi di tariffazione differenziata.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 100 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Per quanto riguarda i servizi di cura ad anziani, disabili e malati cronici, il Piano punta a raggiungere i target relativi all’Assistenza Domiciliare Integrata (cioè assistenza sanitaria e sociale) attraverso (i) il miglioramento del sistema informativo; (ii) la collaborazione con le reti sociali e di solidarietà; (iii) la valutazione della qualità dei servizi anche attraverso indicatori di soddisfazione degli utenti. Inoltre, la Regione ha disposto l’emanazione di linee guida per riqualificare l’assegno di cura, utilizzato dal 2006 come strumento a sostegno delle famiglie che assistono direttamente le persone non autosufficienti. La strategia del FSE della Regione Abruzzo riconosce l’importanza dell’impresa sociale sia con riferimento alle attività delle banche etiche e del microcredito per favorire l’occupazione delle donne (Asse II “Occupabilità”), sia inserendo le cooperative sociali e le organizzazioni non profit tra i beneficiari dell’Asse III “Inclusione sociale”, rivolto prevalentemente al (re)inserimento di persone svantaggiate in percorsi di istruzione, formazione e lavoro. La programmazione del FESR non fa invece alcun cenno al privato sociale e al terzo settore.

Molise

Spunti utili sull’impresa sociale sono sostanzialmente assenti nel caso del Molise, una Regione che ha molti tratti in comune con l’Abruzzo sul piano delle caratteristiche territoriali. La Regione Molise parte da una condizione di elevata coesione sociale, bassa presenza di criminalità e limitate condizioni di degrado sociale. Tuttavia la questione dei servizi collettivi presenta delle criticità legate all’invecchiamento della popolazione e alla difficoltà di raggiungere attraverso l’offerta pubblica una grande parte di cittadini, date le caratteristiche del territorio (vi sono molte zone montane e rurali poco accessibili). Nonostante ciò, il Piano di azione non contiene riferimenti specifici di rilievo al terzo settore, salvo un richiamo alla necessità di coinvolgere nella realizzazione degli Obiettivi di servizio “tutte le reti sociali interessate” così come si dichiara che il Partenariato avrà un ruolo centrale nella scelta degli strumenti di valutazione della qualità e dell’efficacia degli interventi. Per l’espansione dei servizi all’infanzia e agli anziani si fa piuttosto esplicito riferimento all’azione dei Comuni, enti pubblici e soggetti privati (ad esempio, per la realizzazione di asili nido aziendali) mentre il sistema di accreditamento è stato attuato per i servizi all’infanzia ed è in via di definizione per i servizi di Assistenza Domiciliare Integrata. Anche nel POR, gli interventi per migliorare la qualità della vita e l’offerta di servizi sociali non menzionano tra gli attori il terzo settore, fatta eccezione per l’Asse III “Inclusione sociale” del FESR con riferimento circoscritto alle azioni di inserimento lavorativo svolte dalle imprese sociali. Infine, il miglioramento del sistema di accreditamento e degli standard qualitativi è mirato unicamente ai servizi di formazione e servizi per il lavoro.

Sardegna

La Regione Sardegna ha predisposto un Piano di azione in cui si annuncia la promozione dell’empowerment degli attori locali, l’attivazione di reti di relazione e di fiducia, un sistema di accreditamento e di voucher per favorire nuovi servizi per l’infanzia, il potenziamento del volontariato sociale nelle cure domiciliari, l’attività di valutazione. Dallo studio del contesto emerge che il sistema a rete è ancora molto debole, anche se si riconosce come punto di forza una vasta

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 101 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

presenza sul territorio degli organismi del terzo settore che la Regione intende consolidare attraverso accordi tra volontariato, Aziende Sanitarie Locali (ASL) ed enti locali per fornire servizi innovativi specialmente nelle aree interne e rurali non servite dall’offerta pubblica di servizi collettivi. Non si parla di impresa sociale nella sezione dedicata all’obiettivo “Istruzione” mentre si nominano le associazioni di volontariato a proposito delle attività di sensibilizzazione sui vantaggi ambientali e della gestione dei rifiuti. Nel complesso, il Piano della Sardegna appare piuttosto vago sul ruolo dell’impresa sociale nel raggiungimento degli Obiettivi di servizio e quando si cita il terzo settore, ciò viene fatto esclusivamente con riferimento alle attività di volontariato. Quanto al Piano Operativo del FSE, la Regione Sardegna ammette le imprese del terzo settore tra i beneficiari delle misure di sostegno dell’Asse III “Inclusione sociale”, in sinergia con l’Asse II “Inclusione sociale” del FESR, destinati prevalentemente ai servizi per l’impiego. Il Piano riconosce la presenza di un numero elevato di cooperative sociali che però sono piccole, poco imprenditoriali ed eccessivamente legate agli appalti pubblici. Il sostegno alle imprese sociali consiste dunque in azioni di riqualificazione del personale e del management e incentivi al networking, a progetti di eccellenza, alla stabilizzazione del personale. Tuttavia la certificazione di qualità e il sistema di accreditamento di cui si parla sono finalizzati esclusivamente agli organismi che svolgono formazione.

Basilicata

La Regione Basilicata è caratterizzata da una struttura del territorio “difficile”, con uno squilibrio tra aree interne che da decenni subiscono una riduzione della popolazione ed aree cosiddette di corona (limitrofe ad altre Regioni) dove si concentrano i poli di sviluppo. La distribuzione dei servizi collettivi è quindi concentrata nei due capoluoghi, Matera e Potenza. Per migliorare la diffusione territoriale dei servizi per l’infanzia, specie nei centri rurali e montani, il Piano di azione ha ideato dei servizi innovativi, i nidi rurali e i le famiglie nido. In sostanza si tratta di una rete di strutture socio-educative che mette insieme le aziende agricole, le famiglie, gli educatori e le cooperative sociali. Il coinvolgimento del terzo settore è proposto anche nella gestione dell’Assistenza Domiciliare Integrata ad anziani e non autosufficienti, un settore molto delicato a causa dell’incremento di dipendenze gravi dovute all’allungamento della vita della popolazione. Questo fenomeno si è accompagnato ad una forte disgregazione dei tradizionali sistemi di supporto familiare in seguito agli elevati flussi migratori, prevalentemente di giovani, allo svuotamento delle aree rurali, alla maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Per il sostegno dei servizi di cura, il Piano mette in campo l’introduzione di voucher destinati alle famiglie, la costituzione di un sistema informativo27 (che dovrebbe servire anche per realizzare un sistema di accreditamento delle cooperative sociali, ma questo punto non è chiaro) e la valutazione della qualità. Infine, il Piano promuove e sostiene la collaborazione con vari enti, incluso il terzo

27 Il sistema informativo dovrebbe servire anche per realizzare un sistema di accreditamento delle cooperative sociali, ma questo punto non è chiaro. Il Piano infatti si limita a prevedere il monitoraggio dell’attività delle cooperative sociali ed eventualmente un raccordo con il sistema di accreditamento delle strutture sanitarie.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 102 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

settore, per le campagne di sensibilizzazione, educazione e formazione professionale in materia ambientale. La Regione Basilicata poi nell’Asse IV “Inclusione sociale” del FSE enfatizza le misure per il (re)inserimento lavorativo di fasce svantaggiate della popolazione, come i servizi di accompagnamento per le donne, contemplando anche una maggiore offerta di servizi sociali da parte del terzo settore. I servizi di inserimento lavorativo si associano all’erogazione di un sussidio di integrazione di reddito introdotto nel 2005. Si prevede inoltre di intervenire sulle capacità professionali del terzo settore al fine di ridurne la dipendenza dal sostegno pubblico, utilizzando anche il microcredito all’imprenditorialità sociale in tutti i campi di contrasto alla marginalità e alle discriminazioni. L’indirizzo della strategia è dunque quello di estendere gli spazi per le imprese sociali attive nei servizi di cura e di inserimento lavorativo delle fasce deboli. Questa ambizione agisce in sinergia con l’Asse V “Sistemi urbani” e l’Asse VI “Inclusione sociale” del FESR, in cui si riprende ancora il tema dell’introduzione di incentivi all’economia civile come strumento per combattere il degrado sociale e migliorare l’offerta dei servizi collettivi (assistenza domiciliare ai non autosufficienti, gestione degli asili nido, servizi di mensa, trasporto disabili, ecc.). Precisamente, al fine di accrescere l’esternalizzazione dei servizi collettivi alle imprese sociali, si tracciano due linee di intervento per la promozione e la qualificazione dell’economia civile: (i) il sostegno a modelli imprenditoriali innovativi di organizzazione dei servizi sociali (ii) l’introduzione di un regime di aiuti ad hoc per gli investimenti realizzati da imprese sociali.

Calabria

Tra le Regioni dell’obiettivo “Convergenza”, la Calabria parte da una condizione decisamente difficile poiché mancano ancora i principali strumenti di programmazione della politica sociale: il Piano sociale regionale, previsto dalla legge 328/2000, è in fase di avvio e non sono stati ancora definiti i Piani di zona, presupposto per l’effettiva responsabilizzazione dei Comuni. Date queste difficoltà, il Piano di azione riconosce che il terzo settore, specialmente il volontariato, svolge un’azione determinante, bilanciando l’assenza o la carenza di servizi pubblici sul territorio. Il Piano incoraggia quindi la partecipazione dell’associazionismo e del volontariato nell’ambito delle misure per l’obiettivo 1, “Istruzione”, attraverso il progetto “Scuole aperte” che persegue la riduzione della dispersione scolastica e la promozione della cultura della legalità intensificando le attività educative e ricreative oltre l’orario curriculare. Viene stabilita poi l’introduzione di sistemi di accreditamento per innalzare la qualità dei servizi all’infanzia e dei servizi di cura rivolti alle famiglie. Si parla inoltre dell’adozione di strumenti di valutazione che utilizzano rilevazioni sul campo e interviste a gruppi di utenti per cogliere aspetti legati alla soddisfazione dei servizi. Da notare però che per i servizi all’infanzia e di cura, il ruolo del terzo settore è identificato prevalentemente come coinvolgimento del volontariato nelle attività dedicate ai nuclei familiari più emarginati e residenti nei territori periferici. In modo coerente, il POR della Regione Calabria è esplicito nell’affermare un orientamento della politica di inclusione sociale che potenzi il terzo settore e le imprese sociali, probabilmente anche a causa della debolezza delle strutture pubbliche esistenti e del riconoscimento che le organizzazioni non profit, pur essendo numerose, sono poco coordinate ed organizzate e richiedono dunque un’azione mirata. Al terzo settore è riservata una particolare attenzione all’interno del Piano

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 103 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Operativo del FSE, nell’Asse II “Occupabilità” dove si prevedono programmi di formazione e consulenza per migliorare le capacità delle imprese sociali e specialmente nell’Asse III “Inclusione sociale”. In quest’ultimo, l’intervento a favore delle imprese sociali si articola in servizi di assistenza tecnica e in numerosi incentivi per l’adozione di modelli aziendali innovativi, per stabilizzare l’occupazione, realizzare servizi per l’infanzia, adottare marchi di qualità, ecc. Il Piano Operativo per il FESR, nell’Asse IV “Qualità della vita e inclusione sociale”, prevede azioni per migliorare i servizi collettivi così come per la sicurezza e la legalità ma non coinvolge il terzo settore. Infine la Regione Calabria intende ricorrere agli strumenti finanziari offerti dal programma europeo JEREMIE attraverso i fondi della BEI e del FEI.

Sicilia

Come la Calabria, anche la Sicilia mostra forti criticità sia per l’estensione del disagio sociale e dell’illegalità sia perché non è stato ancora approvato un testo integrato degli interventi e servizi sociali. Con riferimento all’obiettivo “Istruzione”, il Piano di azione della Regione dispone un generico coinvolgimento delle reti sociali, in particolare del volontariato, nelle attività integrative e nei percorsi di alternanza scuola-lavoro. Nella definizione della strategia di diffusione dei servizi di cura per l’infanzia e dei servizi sociali a domicilio per anziani, si indica invece la necessità di ricorrere a convenzioni con il privato sociale ma senza alcun cenno ai sistemi di accreditamento (da definire) e di valutazione. Più precisi e innovativi sono gli interventi dedicati all’obiettivo del miglioramento della gestione dei rifiuti , dove sono accolti due progetti per la prevenzione e la riduzione dei rifiuti proposti da associazioni di volontariato. Il primo progetto è destinato alla raccolta e alla valorizzazione dei beni usati (mobili, vestiti ecc.) donati dai cittadini, beni ancora in buone condizioni e riutilizzabili. Il secondo è invece rivolto al recupero e alla redistribuzione delle merci invendute o non consumate, per assegnarli alle cooperative sociali attive sul territorio. Non cambia sostanzialmente la linea espressa nella sezione del POR relativa al FSE: la Regione Sicilia evidenzia la necessità di supplire alle carenze di capacità e progettazione del non profit ma non sono indicati i dettagli di questa azione di promozione. Al riguardo, da un lato viene previsto il coinvolgimento del terzo settore nell’Asse II “Occupabilità”, nell’Asse III “Inclusione sociale” e nell’Asse IV “Capitale umano” con riferimento prevalentemente ai servizi per la formazione e l’inserimento lavorativo, dall’altro le misure di sostegno sono generiche, ad eccezione dell’aggiornamento del sistema di accreditamento e della costituzione di patti formativi locali. Il Piano Operativo del FESR contiene invece un Asse “Sviluppo urbano sostenibile” che affronta il tema dei servizi ai cittadini e, trasversalmente, le questioni sociali, considerando le imprese non profit tra i potenziali beneficiari ma fornendo poche indicazioni al riguardo (la creazione di centri di servizio per le imprese sociali, l’adeguamento dei criteri di qualità sociale, ecc.). La formulazione di un nuovo sistema di accreditamento si riferisce poi solo alle strutture che si occupano di formazione, mentre i voucher di cui si discute nei documenti sono destinati alla formazione e ai servizi di conciliazione del lavoro e carichi familiari rivolti alle donne. Nel complesso, la Regione Sicilia non sembra aver messo a fuoco interventi integrati per cogliere le potenzialità dell’impresa sociale come strumento di attuazione delle politiche di sviluppo.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 104 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Puglia Infine, illustro i punti di interesse della programmazione predisposta dalla Regione Puglia. Il Piano di azione, emanato nel marzo 2009, nel complesso testimonia lo sforzo rilevante che si sta compiendo per costruire una rete moderna di servizi sociali. Tra i vari interventi, va ricordato che la Regione nel 2006 si è dotata di un sistema di requisiti minimi per le strutture che offrono servizi sociali, nel 2008 ha introdotto l’assegno di cura per il sostegno economico ai gruppi familiari fragili ed ha varato il piano Famiglie al Futuro che include servizi all’infanzia e agli anziani. Il Piano di azione procede in questa direzione, indicando anche misure concrete. Ad esempio, per i servizi all’infanzia la Regione punta sull’allargamento dell’offerta ricorrendo anche al privato sociale e destinando un bando a piccole e medie imprese del terzo settore che realizzino nuove strutture, ampliamenti o ammodernamenti delle strutture esistenti. Il Piano prevede poi di sostenere la domanda delle famiglie attraverso l’erogazione di voucher o buoni servizio. Sull’assistenza agli anziani il Piano non indica invece azioni specifiche per il coinvolgimento delle imprese sociali, ma introduce tra gli obiettivi operativi la stipula di accordi con il volontariato impegnato nei servizi di cura e di assistenza. Di un certo rilievo è poi l’idea di attivare flussi informativi per il monitoraggio delle azioni ed un sistema di premialità destinato agli enti locali che raggiungono risultati soddisfacenti sul fronte dei servizi di ADI. Dalla ricognizione effettuata per il POR della Regione Puglia, il risultato che emerge è piuttosto complesso. La Puglia introduce il voucher di conciliazione e un nuovo sistema di accreditamento per gli enti di formazione, nonché voucher e sussidi per facilitare l’accesso ai servizi da parte di persone a rischio di esclusione sociale. Nonostante ciò, nel Piano Operativo del FSE le imprese sociali appaiono in modo esplicito solo in un punto molto circoscritto: la realizzazione di progetti per la gestione dei beni confiscati alle associazioni mafiose (Asse II “Occupabilità”). Invece nella programmazione del FESR si trovano riferimenti al privato sociale nell’Asse III “Inclusione sociale”, che annuncia la predisposizione di un regime di aiuti per accrescere i servizi di cura offerti dal privato sociale, dando priorità ai processi di aggregazione in consorzi, ai processi di certificazione di qualità e alla formazione di capacità manageriali. Le imprese sociali sono poi elencate espressamente nell’Asse VI “Competitività dei sistemi produttivi ed occupazione” tra i potenziali beneficiari del microcredito per le fasce deboli finanziate anche attraverso l’iniziativa JEREMIE . Infine, l’asse VII “Competitività dei sistemi urbani” intende incentivare la gestione di immobili recuperati o realizzati dal privato sociale e dall’economia civile. Sembra quindi che l’Amministrazione pugliese abbia una chiara intenzione di valorizzare il terzo settore, l’impresa sociale specialmente, anche in connessione con il recente avvio dei Piani sociali di zona e con l’inizio di una nuova fase del welfare locale. Tuttavia, questo interesse generale in pratica si traduce in strumenti di promozione non sempre collegati tra loro in modo coerente e si rimanda a prossimi atti amministrativi la disciplina dei punti relativi al terzo settore.

Riflessioni conclusive sugli Obiettivi di servizio e l’impresa sociale nella cornice della programmazione regionale Al termine di questa indagine basata sugli atti di programmazione regionale dello sviluppo, posso

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tentare di ricomporre il quadro frammentato cercando alcune relazioni unificanti, delle analogie all’interno della varietà di interventi predisposti.

Volendo rintracciare i punti comuni verso cui convergono le disparate versioni delle varie Regioni, si nota innanzitutto che quasi tutte le Amministrazioni prevedono nei Piani di azioni interventi nel campo dei sistemi di accreditamento e monitoraggio e l’introduzione di voucher per garantire la pluralità dell’offerta, così come è frequente l’annuncio di un maggior coinvolgimento del privato sociale nella gestione dei servizi collettivi. Tutto ciò rappresenta senza dubbio un progresso.

Sembra tuttavia ancora fortemente sottostimato il contributo che le imprese sociali possono fornire alle politiche di welfare e sviluppo. Le Regioni meridionali tendono spesso ad identificare il terzo settore con le associazioni di volontariato o con un indefinito “privato sociale” e trascurano il tratto distintivo delle imprese sociali: la potenzialità di realizzare un’attività imprenditoriale, anche complessa sul piano manageriale, nata per soddisfare bisogni che non trovano una risposta nei servizi offerti dallo Stato o dal mercato, con una ricaduta forte sotto l’aspetto sociale, educativo e di trasmissione di valori. La logica dell’esternalizzazione residuale dei servizi pubblici laddove gli enti locali non dispongono di risorse appropriate, o la logica di ricorrere ad attività di assistenza, prevalgono dunque su una strategia che punti alla valorizzazione delle specificità autentiche delle imprese sociali.

Una conferma di questa tesi è data dal fatto che i Piani di azione contengono prevalentemente dei generici riferimenti alla partecipazione del volontariato, terzo settore, privato sociale, riferimenti che raramente si convertono in strumenti operativi di promozione della nascita di nuove imprese sociali fornitrici di servizi collettivi così da favorire effettivamente un’offerta plurale, tale da aumentare le capacità di scelta delle persone e delle famiglie.

Il secondo punto da rimarcare è che le attività di monitoraggio e di valutazione si concentrano, salvo eccezioni, su indicatori di efficacia e di efficienza relativi alle azioni svolte dai soggetti che attuano le politiche sociali (numero di interventi realizzati, richieste soddisfatte, tempistica, risorse umane impiegate, progetti avviati), mentre è molto più bassa l’attenzione rivolta agli indicatori di processo, di empowerment dei beneficiari e del grado di soddisfazione dei cittadini fruitori dei servizi. Solo Abruzzo, Calabria e Campania introducono indicatori per misurare il gradimento dei destinatari accanto ad indicatori di valutazione relativi alla tempistica degli interventi, all’efficacia e all’efficienza.

Come è stato già evidenziato, sarebbe invece opportuno introdurre una valutazione di processo, oltre che dei risultati, utilizzando dati raccolti con tecniche partecipative (interviste e focus group) che danno informazioni sul grado di apprezzamento per le modalità di erogazione dei servizi, sulle dimensioni del benessere prodotte e sull’entità dei benefici agli stakeholder (inclusa la valorizzazione dei diritti umani) (Libanora 2008). Queste elaborazioni dovrebbero inoltre ricevere la massima pubblicità presso i beneficiari degli interventi. Infine, se la qualità deve diventare l’elemento che discrimina le attività del terzo settore all’interno del welfare, il sostegno all’impresa sociale dovrebbe concretizzarsi anche attraverso il finanziamento di sistemi di controllo della qualità all’interno delle organizzazioni non profit (Fazzi 2008).

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Passando alle differenze tra i Piani di azione, si può cercare di spiegare perché alcune Regioni abbiano assunto un orientamento a favore della promozione dell’impresa sociale in modo più netto di altre. In particolare, si riscontra maggiore attenzione e impegno a sostegno dell’impresa sociale nei documenti della Regione Abruzzo tra quelle dell’obiettivo “Competitività” e delle Regioni Basilicata, Campania e Puglia, nel gruppo dell’obiettivo “Convergenza”. La Regione Calabria invece è molto propositiva ma rivolge un’attenzione prevalente al volontariato piuttosto che all’impresa sociale, specie con riferimento ai servizi sociali.

Per spiegare i differenti livelli di sostegno, la prima idea su cui riflettere è che le scelte politiche compiute dagli enti locali potrebbero essere semplicemente vincolate dalla presenza attuale del terzo settore. In realtà, la rilevanza assegnata alle imprese sociali solo in parte rispecchia il peso del non profit nel territorio (si veda la Tabella 21).

Ad esempio, il POR della Regione Sardegna riconosce come punto di forza il terzo settore, e infatti il numero di cooperative sociali è molto elevato sia in valore assoluto sia in rapporto alla popolazione. Tuttavia l’impostazione di policy seguita non è ben delineata nel Piano di azione. Allo stesso modo, la Regione Sicilia, pur essendo al primo posto tra le Regioni del Mezzogiorno per il numero di cooperative sociali, limita il privato sociale e il terzo settore a segmenti marginali nelle politiche di sviluppo e nel Piano di azione. La Regione Basilicata, invece, parte da una presenza ridotta di cooperative sociali eppure punta decisamente sulla loro azione per attuare la strategia di sviluppo e realizzare gli Obiettivi di servizio. In parte anche la Regione Calabria segue questo percorso, anche se con una traiettoria un pò più obliqua. E così via, si riscontrano dati contraddittori nelle esperienze e negli indirizzi di tutte le Regioni del Mezzogiorno.

Tabella 21 - Cooperative sociali nel Mezzogiorno. Anno 2005Cooperative ogni100mila abitanti

Abruzzo 201 15,4Molise 67 20,9Campania 235 4,1Puglia 545 13,4Basilicata 131 22,1Calabria 235 11,7Sicilia 589 11,7Sardegna 484 29,2Mezzogiorno 2.487 12,0Nord-Ovest 1.979 12,7Nord-Est 1.466 13,2Centro 1.431 12.6ITALIA 7.363 12,5Fonte: Istat (2007b).

Ripartizione geografica Numero

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 107 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

La seconda ipotetica spiegazione del diverso accento che il terzo settore assume all’interno della programmazione regionale, è che questa decisione sia correlata allo stato di attuazione della legge 328/2000 sulle politiche sociali integrate. Non è questa la sede per addentrarci in un’analisi approfondita, però alla luce dei documenti di programmazione, la lettura è che l’applicazione della politica sociale presenta tratti molto disomogenei e comunque mostra gravi lacune in tutte le Regioni del Mezzogiorno, come del resto risulta dal livello di partenza degli Indicatori degli Obiettivi di servizio.

Similmente, è arduo trovare qualche nesso sistematico considerando il livello della spesa dei Comuni per la politica sociale, anch’esso molto differenziato tra le Regioni meridionali ma, con l’eccezione della Sardegna, sempre largamente al di sotto della media nazionale (cfr. Tabella 22 e Figura 1).

Le linee di intervento assunte verso l’impresa sociale sembrano quindi il risultato di scelte politiche che riflettono, più che un’esperienza già maturata o altri fattori di contesto, differenti visioni di lungo periodo adottate dalle Amministrazioni locali in materia di welfare e sviluppo. Tali visioni, peraltro, non sempre sono disegnate seguendo una linea di continuità tra i Piani di azione e Programmi Operativi Regionali e appare spesso debole il coordinamento delle azioni previste nei diversi Assi.

Tabella 22 - Spesa pro capite per servizi sociali dei Comuni nel Mezzogiorno. Anno 2005

Spesa pro capite per servizi (*)sociali dei Comuni

Abruzzo 55,8Molise 41,8Campania 39,4Puglia 42,4Basilicata 41,0Calabria 27,0Sicilia 75,3Sardegna 110,4Mezzogiorno - - Sud 40,1 - Isole 84,0Nord-Ovest 112,6Nord-Est 146,1Centro 111,0ITALIA 98,0Fonte: Istat (2008c).(*) Per spesa si intendono gli impegni di spesa in conto corrente di competenza relativi al 2005, di comuni e associazioni di comuni per l’erogazione deiservizi e degli interventi socio-assistenziali.

Ripartizione geografica

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 108 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Altre contraddizioni emergono mettendo insieme la documentazione relativa ai Piani di azioni, la programmazione dei Fondi Strutturali e alcune affermazioni contenute nelle leggi regionali. Ad esempio, la Regione Puglia ha emanato la legge 17/2003 che riconosce una funzione strategica al terzo settore e che chiama le organizzazioni non profit a partecipare alla programmazione del sistema integrato dei servizi sociali e alla sua realizzazione. Inoltre, presso l’Assessorato ai servizi sociali è stata istituita una Commissione per le politiche sociali in cui è presente una rappresentanza del terzo settore. Anche la Regione Abruzzo con la legge 38/2004 ha attuato un riordino delle norme sulla cooperazione sociale ribadendo l’intento di promuovere lo sviluppo delle cooperative sociali e istituendo una Commissione regionale per la Cooperazione sociale di cui sono membri anche rappresentanti delle cooperative28. Da queste due Regioni sarebbe stato dunque legittimo aspettarsi degli interventi più incisivi a favore del terzo settore nella programmazione dello sviluppo e in quella relativa agli Obiettivi di servizio.

In conclusione, lo scenario per l’impresa sociale nelle Regioni del Mezzogiorno allo stato attuale non è ancora completamente e uniformemente tratteggiato. Infatti spesso sembra che il modello identitario del terzo settore che hanno in mente gli Amministratori locali meridionali sia quello di organizzazioni private viste come semplici emanazioni della sfera pubblica, un supporto del welfare istituzionale laddove questo è molto esile o al massimo un sistema di imprese regolamentate che favoriscano la pluralità dell’offerta di alcuni servizi ai cittadini. Nell’attuazione delle linee guida enunciate nei documenti analizzati, questa visione dovrebbe subire invece una drastica sterzata verso un modello più completo, che ha come sua cifra l’offerta di servizi differenziati alla persona per combattere la marginalità sotto diverse dimensioni così come la crescita delle capacità di tutti

28 Si veda anche Cittadino ed altri (2008).

Figura 1 - Spesa dei Comuni per servizi sociali: valori pro-capite. Anno 2005

0,0

50,0

100,0

150,0

200,0

250,0

300,0

350,0

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Calabr

ia

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 109 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

gli stakeholder che partecipano all’impresa e che fruiscono dei suoi benefici. Un modello d’imprenditorialità sociale che sia autonomo e interdipendente rispetto a Stato e mercato, che adotti un codice di comportamento peculiare, fondato sulla solidarietà, e che rappresenti un terreno su cui possa fiorire un’autentica “economia civile”. Questo modello si può raffigurare solo esaltando le specificità dell’impresa sociale all’interno di una strategia unitaria, che integri la normativa nazionale e le indicazioni regionali, i Piani di azione ed i Programmi Operativi Regionali, e superando la tendenza a ricorrere a previsioni frammentarie ed episodiche che appaiono aspirazioni puramente formali quando non è detto nulla circa le modalità in cui dovrebbe svolgersi la partecipazione del terzo settore. Oltre alla programmazione omogenea (anche in merito a procedimenti amministrativi, sistemi di accreditamento, misure di valutazione, ecc.), una formulazione adeguata di questo processo di trasformazione richiede la coprogettazione insieme al terzo settore, assegnando ad esso il compito di interpretare i bisogni del territorio e indirizzare le risposte, e il riconoscimento di un ruolo attivo dell’impresa sociale nel sistema produttivo locale, sperimentando nuove aree di intervento. Un modello di welfare e sviluppo in cui il terzo settore è pienamente valorizzato, richiederebbe infatti uno sguardo ampio, includendo nel raggio di azione dell’impresa sociale funzioni di primo piano nell’ambito dei servizi alla persona, della lotta alla dispersione scolastica, delle misure di accompagnamento e inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, fino alla riqualificazione di quartieri urbani degradati, agli interventi per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile così come nel campo della cultura e del tempo libero. Resta comunque l’attesa di miglioramenti in corso d’opera, quando verranno definite le linee di intervento solo abbozzate, affinché l’ultimo ciclo di finanziamenti comunitari per lo sviluppo del Mezzogiorno rappresenti un’occasione per la crescita delle imprese sociali e dell’economia civile. Un’occasione che sarebbe bene non venisse sciupata dalle Amministrazioni locali delle Regioni meridionali.

Un approfondimento sulla Regione Campania

Per quanto riguarda, in particolare, la Regione Campania, va sottolineato che la condizione di partenza è un evidente squilibrio tra intensità del disagio sociale e inadempienza delle Amministrazioni locali sul fronte del recepimento delle leggi nazionali e dell’attuazione di una politica sociale organica. La Campania registra inoltre la più bassa incidenza di cooperative sociali pro capite tra le Regioni meridionali (Tabella 21) e la spesa pro-capite per i servizi sociali dei Comuni è al penultimo posto nella graduatoria nazionale, seguita solo dalla Calabria (Tabella 22 e Figura 1). La recente approvazione del Piano sociale regionale pone le basi per un processo di integrazione tra welfare e sviluppo, annunciando alcune innovazioni di rilievo quali:

(i) l’adozione di strumenti di rendicontazione sociale (bilancio sociale, Carta dei servizi); (ii) la costituzione di un Sistema informativo sociale; (iii) il raccordo tra i diversi strumenti di programmazione destinati agli Obiettivi di servizio anche

attraverso la costituzione di un Fondo sociale regionale in cui confluiscono risorse europee, nazionali e regionali. In questa cornice istituzionale rinnovata vanno inseriti interventi mirati su più fronti per consentire lo sviluppo dell’imprenditorialità sociale.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 110 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Tavola sintetica della programmazione delle Regioni obiettivo “Competitività”

REGIONI Piano di azione PORABRUZZO - servizi socio-educativi - banche etiche/microcredito per occupazione

- servizi agli anziani donne

- sistema di accreditamento - reiserimento lavoro di persone svantaggiate

- assegno di cura

- valutazione dei servizi legata

anche alla soddisfazione

MOLISE - richiamo alle reti sociali - azioni di reinserimento lavorativo

- sistema di accreditamento

SARDEGNA - sistema di accreditamento - riqualificazione risorse umane delle imprese soc.

- assegno di cura - incentivi al networking, progetti, stabilizzazione

- voucher per i servizi per l'infanzia del personale

- servizi di cura (volontariato)

- sensibilizzazione gestione dei rifiuti

- valutazione della qualità dei servizi

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 111 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Tavola sintetica della programmazione delle Regioni obiettivo “Convergenza”

REGIONI Piano di azione PORBASILICATA - servizi all'infanzia - reinserimento lavorativo di fasce svantaggiate

- servizi anziani e non autosufficienti - microcredito all'impresa sociale

- assegno di cura - aiuti ad hoc per l'impresa soc. (modelli innova-

- voucher tivi di organizzazione e investimenti)

- sensibilizzazione ambiente

- monitoraggio e valutazione della

qualità dei servizi

CALABRIA - dispersione scol., cultura della legalità - servizi alle imprese sociali

- servizi all'infanzia (volont./fasce deboli) - incentivi per l'adozione di modelli organizzativi

- servizi di cura (volont./fasce deboli) innovativi di impresa sociale

- sistema di accreditamento - programma JEREMIE

- valutazione dei servizi legata

anche alla soddisfazione

SICILIA - convenzioni con il privato sociale per - servizi per il reinserimento lavorativo

i servizi di cura - servizi per le imprese sociali

- buoni socio-sanitari

- prevenzione e riduzione dei rifiuti

PUGLIA - servizi all'infanzia, bando ad hoc per - aiuti per servizi di cura offerti dal privato sociale

le imprese sociali - incentivi alla gestione di immobili recuperati/

- servizi agli anziani realizzati dal privato sociale

- sistema di accreditamento - programma JEREMIE

- voucher

- assegno di cura

- sistema informativo, monitor. e premialità

CAMPANIA - servizi per l'infanzia - voucher alle donne per servizi di cura

- servizi di assistenza - voucher per la formazione

- sistema di accreditamento - microcredito per le imprese, incluse le coop.

- voucher sociali

- assegni di cura - aiuti ad hoc per le imprese sociali

- carta dei servizi - programma JEREMIE

- valutazione dei servizi legata

anche alla soddisfazione

- accordi di reciprocità tra Regione e un

Ente intermedio che aggrega più Comuni

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 112 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

4. L’impresa sociale nella programmazione delle Regioni italiane più innovative: i casi di Lombardia ed Emilia-Romagna

La Regione Lombardia

Alcune idee utili per una riflessione su ciò che è stato fatto dalle Regioni meridionali e sulle strade che potrebbero essere esplorate, si ricavano da un esempio riconducibile ad un polo diametralmente opposto: il caso della Regione Lombardia, che negli ultimi dieci anni ha impostato un modello di welfare “a scelta individuale” utilizzando il sistema dei voucher formativi e sociali e numerosi incentivi per la promozione del terzo settore29. Il POR per la programmazione del FSE nel ciclo 2007-2013 conferma questa attenzione nell’Asse “Inclusione sociale”, individuando il non profit e le cooperative sociali tra i principali soggetti che dovranno progettare e realizzare i servizi alle persone e, allo stesso tempo, tra i soggetti beneficiari di misure di sostegno (ad esempio, per la creazione e la qualificazione delle reti del privato sociale). Inoltre viene considerato il ricorso al programma JEREMIE per accrescere i finanziamenti ed i sussidi agli enti non profit, oltre che alle piccole e medie imprese. Questo canale di accesso al credito si aggiungerebbe al Fondo per i finanziamenti agevolati alle cooperative sociali e ai contributi per la costituzione di nuove cooperative introdotti dalla legge regionale 21/2003 sulla cooperazione sociale, condizionando però il sostegno finanziario al rispetto dei criteri fissati per garantire la qualità dei servizi (controllata anche con rilevazioni della soddisfazione dei beneficiari). A questo scopo, la Regione ha istituito un sistema informativo che consente di monitorare l’evoluzione del comparto, di pari passo con il monitoraggio dell’esclusione sociale condotto dall’Osservatorio regionale al cui interno è coinvolto direttamente il terzo settore. La concezione di welfare plurale della Regione Lombardia è dunque definita su più fronti, a cominciare dalla coprogettazione degli interventi attraverso il Tavolo permanente del terzo settore istituito nel 2002 presso la Direzione Generale Famiglia e Solidarietà Sociale della Regione e attraverso la Consulta regionale per lo sviluppo della cooperazione, introdotta dalla legge 21/2003. Come si è detto, il modello lombardo si articola poi in varie direzioni: gli interventi per la raccolta di informazioni, la promozione di iniziative fino ad arrivare alle misure di sostegno della qualità30. In breve, in Lombardia le istituzioni locali stanno consolidando la presenza del terzo settore e della cooperazione sociale nel welfare e, più in generale, nel sistema imprenditoriale, potenziando sia la domanda sia l’offerta di servizi che esso produce, e dunque creando un mercato dei servizi di qualità sociale in un numero via via crescente di settori in cui si configurano attività di utilità collettiva. E’ facilmente intuibile che il percorso di trasformazione del welfare verso la creazione di mercati di qualità sociale non è affatto semplice e che la piena efficacia di un sistema fondato sul valore della

29 La giunta regionale ha introdotto nel 2003 un programma di voucher e ha avviato la creazione di un “quasi mercato” per

l’Assistenza Domiciliare Integrata agli anziani non autosufficienti e ai disabili (Fazzi e Gori 2004). E’ questo l’unico caso in Italia in cui il sistema dei voucher sociali è stato adottato dalla Regione, mentre altrove vi sono state sperimentazioni limitate all’iniziativa di alcuni Comuni. Per un esame esteso del sistema lombardo di welfare, si rimanda a Gori (2005) e Pasquinelli (2006).

30 Lo sforzo di dare un’impronta unitaria alla programmazione è testimoniato anche dal fatto che nel febbraio 2008 la Regione Lombardia ha emanato un Testo Unico sul terzo settore che riordina e semplifica le leggi regionali in materia (legge 1/2008). Inoltre è stata approvata una legge quadro (n.3/2008) che riorganizza l’intera rete di servizi sociali e socio-sanitari definendo i compiti degli enti pubblici e del non profit e che chiama il terzo settore a partecipare alla programmazione e alla gestione della rete regionale dei servizi.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 113 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

libertà di scelta si dispiega in un contesto maturo (le persone devono avere un’adeguata informazione sui servizi alternativi, deve essere poco costoso per le famiglie cambiare istituzione/impresa sociale, i mercati devono essere contendibili, ecc.). Nè va trascurato il rischio che l’accresciuta competitività tra le organizzazioni non profit possa snaturarne logiche e comportamenti (Fazzi e Gori 2004). Il modello lombardo non è dunque esente da difetti, ambiguità, elementi controversi (Gori 2005; Pasquinelli 2006; ISAE 2009). Tuttavia, l’esperienza dei Comuni lombardi che hanno fatto ricorso ai voucher sociali mostra che, una volta metabolizzato, il cambiamento può rappresentare una spinta a migliorare i servizi e, in particolare, “quanto più l’offerta di servizi, in un dato ambito territoriale, è chiusa, rigida, legata a uno o pochi enti produttori, tanto più il voucher costituisce un’opportunità da sfruttare” (Pasquinelli e Ielasi 2006, p.157).

La Regione Emilia-Romagna

La Regione Emilia-Romagna ha un modello di welfare diverso da quello lombardo, caratterizzato da una maggiore autonomia degli enti locali e più orientato a rafforzare la capacità di selezione e indirizzo degli utenti da parte delle aziende pubbliche (ISAE 2009). Tuttavia, al pari della Lombardia, l’Emilia-Romagna rappresenta un esempio significativo di democrazia partecipativa e di attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale (Cittadino ed altri op.cit.): la legge 3/1999 ha istituito una Conferenza regionale del Terzo settore come strumento di raccordo presso la Giunta regionale, il settore non profit affianca le istituzioni pubbliche nella disciplina della legge 2/2003 sul Sistema integrato di interventi e servizi sociali, la Regione ha emanato linee guida per la partecipazione nel Terzo Settore ai processi di programmazione previsti dal Piano Socio Sanitario Regionale 2008-2010. La Regione sta cercando poi di strutturare l’informazione e l’accesso ai servizi di welfare attraverso una rete di sportelli sociali che orientino i cittadini sulle opportunità offerte dai diversi sistemi locali, strumento che in futuro potrà rappresentare un punto di snodo anche a favore dei servizi sociali offerti dal terzo settore. Inoltre, la legge 7/1994 sulla cooperazione sociale afferma che “la Regione riconosce alla cooperazione sociale un ruolo specifico in ragione della finalità pubblica, della democraticità e della imprenditorialità che la contraddistinguono”. La legge quindi stabilisce un sistema di contributi (a fondo perduto e a tasso agevolato, garanzie fidejussorie) per l’avvio e lo sviluppo di queste imprese nonché norme di raccordo tra settore pubblico e settore non profit per costituire una rete integrata di servizi pubblici in materia socio-assistenziale, sanitaria, educativa, formativa e di sviluppo dell'occupazione. Da notare ancora che all’art.7 la legge disciplina le politiche attive del lavoro, dichiarando che “la Regione riconosce nelle cooperative sociali un soggetto privilegiato per l'attuazione di politiche attive del lavoro finalizzate a: (a) sviluppare nuove occupazioni nei servizi socio- assistenziali, sanitari ed educativi; (b) sviluppare nuova occupazione a favore delle fasce deboli del mercato del lavoro.” L’art.8, poi, incoraggia le cooperative sociali a svolgere attività formative rivolte ai soggetti svantaggiati mentre l’art.10 stabilisce che nell’assegnazione degli appalti di fornitura di beni o servizi diversi da quelli socio-assistenziali, sanitari ed educativi, il progetto di inserimento dei soggetti svantaggiati costituisce un importante elemento di valutazione qualitativa. Considerando i servizi assistenziali, la Regione Emilia-Romagna ha privilegiato, rispetto ai voucher, un sistema di trasferimenti monetari (gli assegni di cura), a integrazione delle cure domiciliari offerte dal servizio pubblico. Nei vari segmenti delle politiche sociali, la Regione sta

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 114 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

però esplorando i vantaggi di un modello fondato sul sistema di accreditamento (adottato nel 2000 nei servizi per l’infanzia e l’adolescenza e avviato dal 2004 nei servizi sanitari e socio-assistenziali a domicilio) e sui buoni-servizio, come si evince dall’esempio di un progetto innovativo, il “Progetto Anziani” della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna: la Fondazione, sulla base di una convenzione con gli enti locali, organizza l’offerta di servizi di assistenza agli anziani fortemente personalizzati che vengono forniti da soggetti del terzo settore. L’esperimento propone 11 tipologie di pacchetti di servizi di assistenza attribuiti attraverso voucher a valere su un conto aperto dalla Fondazione, in cui confluiscono i contributi della Fondazione e quelli della famiglia beneficiaria. La famiglia può fare di volta in volta prelevamenti dal conto per pagare i servizi compresi nel pacchetto all’impresa sociale che la stessa famiglia ha scelto tra quelle ammesse dalla Fondazione (per i dettagli, si rimanda a Cavallo ed altri 2008; Beltrametti 2004). Un ultimo cenno lo riservo alla programmazione delle risorse comunitarie predisposta dalla Regione Emilia-Romagna. I lineamenti degli Assi prioritari del FSE dettano una strategia di integrazione tra politiche attive del lavoro e politiche sociali, definendo esplicitamente la crescita dell’imprenditorialità sociale e del terzo settore come motore dello sviluppo economico. In dettaglio, l’Asse “Adattabilità” elenca tra le azioni significative quelle a sostegno della nascita e del consolidamento delle imprese sociali, soprattutto femminili, mentre l’Asse “Inclusione sociale” concentra le politiche occupazionali per i soggetti svantaggiati sulla promozione dell’economia sociale. Conclusioni Tirando le fila, gli esempi delle Regioni Lombardia ed Emilia-Romagna, seppur descritti molto brevemente, mostrano che sul territorio nazionale è in atto una fase di sperimentazione di nuovi ruoli per l’impresa sociale, un serbatoio di esperienze da cui le Regioni meridionali possono attingere per tentare di replicare nei loro territori buone prassi già rodate con successo altrove. E se da un lato va tenuto conto delle difficoltà organizzative e di regolazione che incontrerebbero le Regioni meridionali nella trasposizione dei principi ispiratori di modelli innovativi in contesti fragili sotto il profilo istituzionale, dall’altro lato devono essere considerati con grande attenzione anche i potenziali benefici che ne potrebbero discendere. L’analisi comparata con le esperienze più evolute di altre Regioni del Paese fa però capire, per differenza, che nelle Regioni del Mezzogiorno sono molto ampie le carenze degli enti locali in tutti i settori della politica sociale e dell’offerta di servizi collettivi.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 115 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

5. Una presentazione di alcune buone prassi nelle Regioni del Centro-Nord La diffusione dell’impresa sociale in Italia Dalla fine degli anni ’70 in poi in Italia si è assistito ad una progressiva espansione del settore non profit, un percorso che è stato accompagnato gradualmente dal riconoscimento giuridico delle varie forme che compongono questo mondo variegato ed eterogeneo, fino all’approvazione della legge 118/2005 sull’impresa sociale. Allo stato attuale, in Italia sono attive 501 imprese sociali ma l’universo delle imprese che producono beni e servizi di utilità collettiva e che potrebbero adottare questa nuova veste giuridica, comprende circa 10mila imprese: 7.363 cooperative sociali e 2.632 altre imprese non profit, in particolare fondazioni (Iris Network 2009). Le rilevazioni esplorative al 2009 condotte da Iris Network in collaborazione con Unioncamere e ISTAT, stimano che a breve il numero complessivo di imprese sociali dovrebbe raddoppiare, toccando quota 20mila imprese, per un totale di 300mila lavoratori coinvolti e 5milioni di utenti. Restringo ora l’attenzione alle cooperative sociali, che all’interno del terzo settore rappresentano in modo significativo i connotati dell’impresa sociale. Questa forma giuridica è stata istituita in Italia dalla legge 381/1991 come attività imprenditoriale che persegue l’interesse generale della comunità attraverso l’erogazione di servizi sociali a persone in stato di disagio31. La legge individua le cooperative sociali di tipo A, dedicate alla gestione dei servizi socio-sanitari ed educativi, e le cooperative sociali di tipo B, che si occupano dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. A queste si aggiungono le cooperative ad oggetto misto (attività di tipo A e B) ed i consorzi sociali. La dimensione del fenomeno “cooperative sociali” si può cogliere grazie all’ultima rilevazione biennale dell’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), pubblicata nel 2007 con riferimento all’anno 200532. In sintesi, sul territorio nazionale operano 7.363 cooperative sociali che impiegano circa 244mila addetti retribuiti e 34mila volontari, con una forte prevalenza di personale femminile (71,2%). Il volume della produzione ammonta a 6,4 miliardi di euro. Le cooperative sociali nel 59% dei casi erogano servizi socio-assistenziali ed educativi e più di un terzo di esse (33,8%) è localizzato nel Mezzogiorno. In rapporto alla popolazione però il quadro muta: in media in Italia sono attive 12,5 cooperative ogni 100mila abitanti, ma il tasso di diffusione nelle Regioni meridionali oscilla da un rapporto pari a 29 in Sardegna a un tasso pari a 4 in Campania. Tra le cooperative sociali del Centro-Nord e quelle del Mezzogiorno emergono poi forti differenze strutturali: le cooperative meridionali impiegano una percentuale di lavoratori dipendenti inferiore alla media, pesano per il 15,3% appena sul valore complessivo prodotto dalle cooperative sociali italiane, sono di dimensioni più piccole, e nel 77% dei casi ottengono finanziamenti da fonte prevalentemente pubblica (contro una media nazionale del 65,9%). Anche il numero di utenti raggiunti è diverso su scala territoriale: la maggiore concentrazione di utenti è nel Nord-Ovest (32%), segue il Nord-Est (29,9%), poi il Mezzogiorno (19,4%) e infine il Centro (17,5%). Non sono disponibili dati sul capitale umano impiegato, ma la debolezza strutturale delle cooperative sociali del Mezzogiorno fa presumere che anche sotto questo aspetto sussista un divario rispetto alle cooperative sociali che operano nel resto del Paese.

31 Sull’evoluzione delle cooperative in Italia e sul dibattito politico che ha portato all’emanazione della 381/1991, si rimanda a

Borzaga e Ianes (2006). 32 Si veda ISTAT (2007b) e CNEL-ISTAT (2008).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 116 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Alcune conferme di ciò sono fornite dall’indagine Unioncamere-Excelsior sui fabbisogni professionali e formativi delle imprese sociali per l’anno 2008 (Unioncamere-Excelsior 2008).. L’indagine include nella definizione di “impresa sociale” non solo le cooperative sociali ma anche a fondazioni, enti morali, istituti religiosi ecc. cioè a tutte le forme organizzative che non perseguono finalità di lucro e che sono iscritte al Registro delle Imprese delle Camere di Commercio. Nel complesso, sono considerate oltre 10mila imprese sociali (al 2005) per un totale di quasi 300mila addetti dipendenti (si vedano la Tabella 23 e la Tabella 24).

In aggregato, dall’Indagine Excelsior risulta un maggior dinamismo delle imprese sociali rispetto al resto dell’economia, con una previsione di un saldo attivo nel 2008 di 5.700 occupati, pari al 5% del saldo attivo di occupazione previsto per il Paese. I dati mostrano poi che le imprese sociali assorbono in occupazioni non stagionali una quota consistente di donne (cfr. Tabella 25) e una quota di laureati e di lavoratori con qualifica professionale molto più elevata rispetto alla media nazionale di tutte le imprese (per i laureati il 23% contro l’11% medio, per i lavoratori con qualifica professionale il 35,4% contro il 14,5 medio) e mostrano una propensione più forte verso la formazione del personale (il 50% delle imprese investe in formazione contro una media del 21,9%). Tuttavia, considerando i dati territoriali si riscontra che, tra le imprese sociali, quelle meridionali domandano in misura inferiore lavoratori con una qualifica professionale (sono il 26% dei lavoratori richiesti, mentre questo dato è del 35,6% nel Nord-Ovest, del 43,5% nel Nord-Est e del 29,7% nel Centro), impiegano una quota più elevata di laureati con laurea triennale rispetto ai laureati con laurea specialistica, ricorrono in misura decisamente inferiore ai corsi di formazione esterna o interna (con un’incidenza del 41% nel Mezzogiorno, del 55,8% nel Nord-Ovest, del 55,9% nel Nord-Est e del 49% nel Centro), coinvolgendo in tali corsi un minor numero di dipendenti (solo il 24% dei dipendenti contro una media nazionale del 33%). Al riguardo, si rimanda alle Tabelle 26-29.

Tabella 23 - Le imprese sociali in Italia. Anno 2005

Ripartizione geografica Valori assoluti Distribuzione % Variazione % 2003-2005

Nord-Ovest 3.130 30,7 15,1Nord-Est 1.980 19,4 25,3Centro 1.890 18,5 19,6Sud e Isole 3.190 31,3 22,7ITALIA 10.190 100,0 20,2Fonte: Unioncamere-Excelsior (2008).

Tabella 24 - L'occupazione dipendente delle imprese sociali in Italia. Anno 2007 (stime)

Ripartizione geografica Valori assoluti Distribuzione %

Nord-Ovest 107.600 36,3

Nord-Est 75.800 25,6Centro 57.200 19,3Sud e Isole 55.900 18,9

ITALIA 295.500 100,0

Fonte: Unioncamere-Excelsior (2008).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 117 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

In conclusione, dall’analisi delle banche date disponibili si comprende che le imprese sociali nel Mezzogiorno sono numerose e in crescita ma nel complesso rappresentano una forma alternativa di economia che è ancora poco radicata e che impiega competenze di livello inferiore rispetto ad altre aree del territorio nazionale. Le stesse imprese sociali meridionali hanno una percezione forte della loro debolezza e dichiarano di incontrare molte difficoltà, come emerge dalle interviste condotte dall’Osservatorio ISNET sull’Impresa sociale, Osservatorio che analizza l’evoluzione di un panel di 400 cooperative sociali operanti in Italia (ISNET 2008)33. Queste differenze dipendono in parte dalla presenza più rarefatta sul territorio meridionale di iniziative non profit promosse dal basso così come di consorzi territoriali, e questo è ovviamente il portato dell’evoluzione storica, sotto il profilo economico-sociale, delle Regioni meridionali. Ma in realtà i diversi dati strutturali dei territori sono anche il frutto delle scelte politiche attuate negli ultimi 15 anni dagli enti locali, in particolare dalle Regioni. Ad esempio, la legge 381/1991 ha demandato alle Regioni la promozione delle cooperative sociali, e tale compito è stato assolto in modo estremamente differenziato sul territorio nazionale. Allo stesso modo, le Camere di Commercio hanno predisposto gli Albi e gli strumenti per la registrazione delle imprese sociali solo in alcune aree del Paese.

33 La debolezza strutturale della cooperazione sociale nel Mezzogiorno è da tempo oggetto di studi e discussioni. Borzaga e Ianes

(2006), al riguardo, citano i programmi predisposti fin dal 1985 all’interno della Centrale delle cooperative di matrice cattolica, Confcooperative, al fine di promuovere l’attecchimento di cooperative sociali nel Mezzogiorno attraverso attività di formazione, assistenza tecnica, coinvolgimento nelle esperienze consortili già esistenti. Tale impegno è stato ripreso successivamente da Federsolidarietà, l’organismo di rappresentanza politico-istituzionale del movimento. L’idea su cui si muove Confcooperative è quella di rafforzare l’aggregazione consortile delle fragili cooperative meridionali e stimolare il collegamento dei consorzi territoriali con la dimensione nazionale.

Tabella 26 - Assunzioni previste per le imprese sociali nel 2008 secondo il livello di istruzione segnalato

universitario secondario e post secondario qualifica professionale

Nord-Ovest 12.530 25,0 23,1 35,6Nord-Est 11.210 21,1 22,9 43,5Centro 6.190 21,4 34,3 29,7Sud e Isole 6.230 23,7 31,0 26,0ITALIA 36.170 23,0 26,3 35,4Fonte: Unioncamere-Excelsior (2008).

Ripartizioni geografiche AssunzioniLiivello di istruzione segnalato (%)

Tabella 25 - Assunzioni previste dalle imprese sociali nel 2008 e segnalazioni del genere ritenuto più adatto allo svolgimentodella professione

Uomini Donne Ugualmente adattiNord-Ovest 12.530 7,0 32,3 60,7Nord-Est 11.210 5,6 30,0 64,4Centro 6.190 9,8 22,4 67,7Sud e Isole 6.230 20,2 21,9 57,9ITALIA 36.170 9,3 28,1 62,6Fonte: Unioncamere-Excelsior (2008).

Ripartizione geografica Assunzionidi cui (% sul totale delle assunzioni)

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 118 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Esempi di buone prassi replicabili nel Mezzogiorno

Le imprese sociali nel Mezzogiorno dovrebbero tener conto di modelli già adottati con successo, in altre aree del Paese o altrove, che siano replicabili nel contesto meridionale. La nostra ipotesi di partenza è che l’impresa sociale può contribuire a generare partecipazione, capabilities, rafforzamento delle persone coinvolte e maggiore trasparenza delle istituzioni. Ma sotto quali condizioni tutto ciò si realizza? La questione più importante in effetti è verificare se le imprese sociali sono un surrogato di funzioni pubbliche, una forma di esternalizzazione a basso costo della Pubblica Amministrazione o se c’è un’identità specifica, che esprime una volontà collettiva e modalità di erogazione dei servizi sociali

Tabella 27 - Assunzioni previste per le imprese sociali nel 2008 con titolo universitario per titolo di laurea e formazione post-laurea

Totale di cui con post-laurea Totale di cui con post-laureaNord-Ovest 3.140 39,1 9,7 27,4 2,9 33,5Nord-Est 2.370 19,1 3,9 33,4 5,0 47,4Centro 1.330 36,1 2,8 27,1 1,4 36,7Sud e Isole 1.480 45,2 5,3 23,7 7,5 31,3ITALIA 8.310 34,0 6,2 28,4 4,1 37,5Fonte: Unioncamere-Excelsior (2008).

Indifferente

Assunzioni previste con titolo universitarioRipartizione geografica

Assunzioni con titolo universitario

(v. a.) Laurea breve (3 anni) Laurea special. (5 anni)

Tabella 28 - Imprese sociali che, internamente o esternamente, hanno effettuato nel 2007 corsi di formazione peril personale (quota % sul totale)

1-9 dip. 10-49 dip. 50 e oltre TotaleNord-Ovest 50,0 55,6 64,9 55,8Nord-Est 42,7 57,8 70,7 55,9Centro 43,3 42,8 68,2 49,0Sud e Isole 36,5 43,3 54,0 41,3ITALIA 42,3 50,5 64,6 50,0Fonte: Unioncamere-Excelsior (2008).

Ripartizione geograficaClasse dimensionale

Tabella 29 - Dipendenti che nel 2007 hanno partecipato a corsi di formazione effettuati dalla propria impresa(quota 5%sul totale dei dipendenti)

1-9 dip. 10-49 dip. 50 e oltre TotaleNord-Ovest 31,5 35,1 34,5 34,5Nord-Est 26,2 37,1 41,7 40,1Centro 23,5 23,4 32,6 29,8Sud e Isole 24,7 28,1 20,9 24,0ITALIA 26,5 31,7 34,2 33,1Fonte: Unioncamere-Excelsior (2008).

Ripartizione geograficaClasse dimensionale

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 119 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

al cui interno i beneficiari sono agenti attivi e non semplici destinatari. Le buone prassi che riporto di seguito mostrano la ricchezza di potenzialità e la specificità autentica delle imprese sociali.

San Patrignano

L’analisi delle buone pratiche può aiutare a capire le potenzialità delle imprese sociali come attori delle politiche di sviluppo. Un esempio emblematico è rappresentato dal caso della Comunità di San Patrignano, un’impresa sociale all’avanguardia come centro di accoglienza e recupero dalla tossicodipendenza, vincitrice di numerosi premi e riconoscimenti nazionali e internazionali (nel 2006 ha ricevuto dalla Schwab Foundation il premio come la “Miglior impresa sociale dell’anno”, assegnato al World Economic Forum di Davos). San Patrignano è una struttura complessa (basti pensare che ha in carico 1.635 ragazzi) e racchiude la Fondazione San Patrignano ONLUS (Organizzazione non lucrativa di utilità sociale), la ONLUS Comunità di San Patrignano e un Consorzio formato da tre cooperative sociali che sostengono le attività di laboratorio, artigianali e quelle nei settori dell’agricoltura, dell’allevamento ed altri. Il bilancio di esercizio è sottoposto alla revisione della PricewaterhouseCoopers mentre il bilancio sociale di San Patrignano (premiato anch’esso nel 2008 con l’Oscar di Bilancio per le Organizzazioni Non Erogative Non Profit), pubblicato anche on-line sul sito della Comunità, rispetta il principio di responsabilità sociale illustrando non solo il rendiconto economico-finanziario ma anche l’impatto sociale prodotto dalle attività dell’impresa. Il bilancio esprime chiaramente la mission e la storia di San Patrignano, elenca in dettaglio le risorse che vengono gestite, la governance e la struttura dell’impresa, le numerose attività che vanno dalla prevenzione all’assistenza sanitaria, dallo sport e attività culturali alla formazione e al reinserimento lavorativo. Scorrendo le pagine del bilancio sociale, i punti di forza di San Patrignano possono essere facilmente individuati. Innanzitutto, la funzione di guida che il fondatore, Vincenzo Muccioli, e in seguito il figlio Andrea, hanno esercitato nella creazione di una visione condivisa di obiettivi, valori (dignità, onestà, responsabilità, solidarietà), stili operativi dell’impresa sociale. Allo stesso tempo, il ruolo forte della leadership è coniugato con un’organizzazione multistakeholder che poggia sulla centralità della persona e che, nella gerarchia degli obiettivi dell’impresa, assegna la priorità ai portatori di bisogni cioè i ragazzi accolti. In armonia con questa logica che valorizza il potenziamento delle capacità dei ragazzi, il metodo di recupero è concepito come metodo educativo piuttosto che di cura e rivestono quindi un’importanza cruciale le motivazioni delle persone (infatti non sono richiesti né accettati contributi dai ragazzi e dalle loro famiglie né rette dallo Stato). Lo strumento per restituire dignità e autonomia alla persona è il lavoro, di conseguenza viene posta un’attenzione costante all’istruzione e alla formazione di competenze professionali che potranno poi essere spese sul mercato. Le relazioni tra i diversi portatori di interesse e i vincoli fiduciari sono anch’essi parte integrante della mission della Comunità come mostra il coinvolgimento delle persone in una vita di relazione responsabile, il legame stretto non solo con la comunità di appartenenza34 ma anche con un reticolo di istituzioni nazionali ed internazionali (inclusi altre imprese sociali che operano in rete in Italia e

34 Alcuni dati sintetizzano l’impatto economico sulla realtà locale: le retribuzioni pagate da San Patrignano ammontano a 7,6

milioni di euro, e la domanda di beni e servizi rivolta alle aziende fornitrici della Provincia di Rimini è pari a 14,1 milioni di euro. Quanto all’impatto sociale nella comunità di appartenenza, si sottolinea che le tre cooperative sociali di San Patrignano occupano 85 soci, di cui 23 soci volontari e 23 lavoratori. Inoltre nel 2007 San Patrignano ha registrato 30.500 ingressi durante eventi organizzati nella sede e ha ospitato 8.700 visitatori (studenti e membri di associazioni varie e di volontariato).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 120 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

all’estero, istituti di credito, imprese for profit, Università, Nazioni Unite, Unione Europea). Nel corso del tempo San Patrignano ha mostrato anche una forte capacità di innovare e di intercettare nuovi bisogni sociali. Ciò si concretizza, ad esempio, nella realizzazione di un asilo nido e una scuola materna per bambini che provengono da esperienze di disagio sociale, nell’impegno in progetti di sostenibilità ambientale e nel progetto goodFOOD, un’iniziativa di cooperazione internazionale che mette insieme le attività gastronomiche dell’impresa sociale italiana e l’attività delle cooperative di contadini colombiani che riconvertono le produzioni di coca in coltivazioni di cacao35. Va sottolineato che la reputazione, fondata sulla trasparenza e sull’efficacia dei servizi, è indispensabile per San Patrignano poiché il centro opera secondo i principi dell’autonomia finanziaria e dell’autogestione: le risorse pubbliche incidono in modo estremamente ridotto sul bilancio (15%) e sono destinate a specifici progetti (come infrastrutture, corsi di formazione e progetti di prevenzione mirati), mentre il fabbisogno economico è garantito, in parti sostanzialmente uguali, dalla vendita di beni e servizi di alta qualità realizzati nei laboratori e nei settori in cui opera la Comunità e da donazioni di privati, aziende e fondazioni. Il bilancio sociale permette quindi di convalidare la coerenza della mission con le attività realizzate e rappresenta anche uno strumento di monitoraggio sull’efficacia del servizio poiché riporta le valutazioni di organismi esterni sui risultati conseguiti: ad esempio, emerge che oltre il 72% di coloro che hanno concluso il programma, a distanza di cinque anni dall’uscita, non utilizza più alcuna droga, contro un valore medio riconosciuto a livello internazionale del 20%. In conclusione, la realtà di San Patrignano indica una best practice illuminante su ciò che può e deve essere un’impresa sociale.

La Piazza dei Mestieri

Il secondo caso che fornisce indicazioni utili sui meccanismi virtuosi che l’impresa sociale può generare, è quello della Piazza dei Mestieri, una Fondazione che opera a Torino dal 2003 e si occupa di problemi di abbandono scolastico e difficoltà di inserimento lavorativo di giovani che vengono da esperienze di disagio sociale (per una trattazione estesa, si veda Ragazzi 2008). La Piazza è una vecchia conceria di 7.000mq che cinque imprenditori hanno acquistato e poi ristrutturato con il contributo della Regione Piemonte, del Comune di Torino, della Fondazione CRT e della Compagnia di San Paolo. Oggi la struttura è un punto di aggregazione che dispone di mensa, laboratori, aule, sala convegni. La Piazza accoglie ogni giorno 450 ragazzi tra i 14 e i 18 anni, ragazzi espulsi da percorsi scolastici tradizionali o dal mercato del lavoro, che qui sono coinvolti in attività didattiche, anche personalizzate, finanziate dalla Regione Piemonte con risorse proprie e comunitarie, e in altri percorsi formativi flessibili che sono finanziati da fondazioni o altri enti del territorio. Accanto ad un’ampia offerta di percorsi formativi e alle attività culturali e sportive, convivono attività di produzione e vendita di merci (cioccolato, birra, prodotti tipografici) e servizi (birrificio, ristorante, affitto spazi). La peculiarità di questo percorso che alterna il trasferimento di conoscenze all’insegnamento di mestieri artigianali, garantisce che gli indicatori di efficacia dei percorsi

35 Al progetto GoodFood partecipa anche la Fondazione Piazza dei Mestieri, il secondo esempio di buona prassi di cui si parla in

questo capitolo.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 121 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

formativi siano molto alti: entro sei mesi dalla fine dei corsi, oltre il 70% dei partecipanti si inserisce positivamente nel mondo del lavoro con un’occupazione coerente (Poggio e Odifreddi 2008). A questo risultato contribuiscono anche i rapporti privilegiati che la Piazza ha con numerose aziende del territorio (circa settecento) e il coinvolgimento di tutor aziendali nella stessa progettazione degli interventi formativi, di stage e tirocini. Anche in questo caso, come per San Patrignano, risulta quindi determinante il progetto educativo del soggetto promotore, un progetto che attraverso le attività di formazione e accompagnamento intende avviare un processo di rafforzamento della persona, oltre che di insegnamento di contenuti. La cura delle infrastrutture, e il fatto stesso che la Piazza è situata in una zona centrale di Torino, quindi lontano dalle aree periferiche di degrado urbano, segnalano che il fine del percorso è tirar fuori i partecipanti da una condizione di marginalizzazione, a rischio di devianza. Allo stesso modo, anche in questo caso come per San Patrignano, è fondamentale l’attivazione di rapporti relazionali molto fitti con la comunità locale. La Piazza opera in una rete che include le famiglie e le scuole, gli altri operatori sociali, le istituzioni pubbliche, gli artigiani, le imprese e gli istituti di credito. La rete poi si allarga a livello nazionale, un passaggio facilitato dal fatto che la Piazza dei Mestieri aderisce alla Federazione dell’Impresa Sociale-Compagnia delle Opere (FIS-CdO), il network nazionale della Compagnia delle Opere che riunisce enti attivi nel sociale. La Piazza dei Mestieri ancora non predispone un bilancio sociale, che comunque è un obiettivo che la struttura ha deciso di realizzare nel breve periodo (è già in fase di elaborazione). Nonostante ciò, la missione educativa, d’ispirazione cattolica, e la ricaduta sociale dell’iniziativa sono stati elementi distintivi molto chiari sin dall’inizio, e ciò ha consentito di ottenere l’adesione dei soggetti pubblici nella fase di avvio. Le condizioni per l’accesso ai fondi esterni sono ancora una volta la diffusione delle informazioni sull’impatto positivo che la Piazza genera per la collettività e la trasparenza delle attività dei fondatori nei confronti dei finanziatori. Occorre poi notare che la Piazza ha assunto l’obiettivo di medio-lungo termine di raggiungere un equilibrio finanziario tale da garantire una sostanziale autonomia della Fondazione grazie alle entrate generate dalla gestione. Si tratta dunque di un’iniziativa in cui le capacità manageriali sono essenziali, data anche l’architettura societaria complessa (la Piazza racchiude una fondazione, un’associazione, una cooperativa di produzione ed un ente di formazione). Ciò significa che gli aspetti sociali, educativi e di trasmissione di valori sono visti in armonia e non in antitesi con l’imprenditorialità dell’iniziativa, nata per soddisfare bisogni che non trovavano una risposta nei servizi offerti. Caratteristiche, queste, che qui come nel caso di San Patrignano rispecchiano pienamente l’astratta definizione di un’impresa che si qualifica “sociale”.

Buone prassi: alcune schede tratte da Associazione ISNET e Impresasociale.net (http://www.impresasociale.net/) Fiori di Strada Associazione Onlus, Bologna “Fiori di Strada” nasce per volontà di un nutrito gruppo di volontari, tra cui avvocati, medici, psicologi ed operatori sociali, che nel 2006 decidono di utilizzare la combinazione delle loro competenze per dare vita ad un ambizioso progetto atto a contrastare il fenomeno della tratta e dello sfruttamento della prostituzione.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 122 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Il progetto nasce e parte da Bologna, ma intende costruire ‘una Rete’ tra tutte le associazioni italiane che operano nello stesso ambito, e promuovere azioni anche comuni all’estero per contrastare il fenomeno della tratta direttamente nei paesi da cui maggiormente provengono le vittime. Tra i principali servizi offerti da “Fiori di Strada” vi sono le unità mobili che garantiscono una presenza capillare e costante in ogni angolo della città. Oltre a questo, un servizio di reperibilità telefonica è attivo 24 ore su 24 per l'intero arco dell'anno. Le attività dell’unità mobile si svolgono essenzialmente in strada, tramite il contatto diretto con chi si prostituisce, distribuendo profilattici, generi di conforto, farmaci da banco e materiale informativo nella loro lingua d’origine. Le unità mobili informano sull’uso corretto degli strumenti di profilassi, sulle malattie a trasmissione sessuale, la contraccezione, l’interruzione volontaria di gravidanza e la gravidanza, sulle normative vigenti in materia d’immigrazione. Inoltre gli operatori spiegano cosa siano i presidi sanitari e come accedervi, e, quando necessario, viene svolto un servizio di accompagnamento. Infine, viene offerta consulenza ed assistenza legale.

Associazione Amici di Piazza Grande Onlus, Bologna Dal 1993 a Bologna, l’Associazione Amici di Piazza Grande Onlus lavora nell’ambito dell’esclusione sociale per dare assistenza alle persone senza dimora, per difenderne i diritti, per favorirne il reinserimento all’interno della società da cui sono state emarginate. Oltre alla pubblicazione di un giornale che viene venduto nelle strade della città dalle persone senza dimora, dalla sua fondazione ad oggi l’associazione ha dato vita a due cooperative sociali, ad un’associazione teatrale, ad una unità mobile che gira per le strade di Bologna per distribuire informazioni e generi di prima necessità, ad una sartoria che impiega persone che vengono dalla strada, ad un officina di biciclette che effettua riparazioni e dove i senza tetto possono apprendere un mestiere, ad uno sportello legale, quello di Avvocato di strada, dove avvocati professionisti volontari assistono gratuitamente le persone in strada che hanno bisogno di un supporto legale. A queste realtà, ancora oggi pienamente attive, vanno aggiunti innumerevoli altre esperienze: progetti europei, festival musicali, raccolta differenziata di materiale da riciclare, corsi di formazione, gestione di alloggi e di bagni pubblici, progetti di ricerca ecc. Agave Società Cooperativa Sociale, Imola L’Agave, servizi per l’intercultura, è nata nel 2003 ad Imola grazie allo sforzo di sette donne immigrate e tre native. Agave nasce per lavorare alla creazione di una società che tuteli le differenze e che porti alla realizzazione personale e professionale delle donne, in particolare immigrate. Agave vuole promuovere l’idea di una società multietnica che favorisca l’integrazione e convivenza di tutti i cittadini affinché vengano rispettate le differenze culturali e venga riconosciuto il valore della diversità nei suoi molteplici aspetti. Oggi, grazie alle attività di mediazione linguistica-culturale, di sostegno alle famiglie di immigrati, ai corsi di formazione rivolti a genitori e insegnanti nonché al supporto linguistico per limitare le difficoltà di comunicazione nei servizi socio sanitari e giuridici, Agave è diventato un punto di riferimento per le attività di accoglienza e orientamento

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 123 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

scolastico. L’obiettivo dell’integrazione può essere sintetizzato dall’ultimo progetto realizzato dalla cooperativa: una rosticceria in grado di offrire specialità Romagnole, Nigeriane, Magrebine e Est Europee. Ladri di Carrozzelle Onlus, Roma Ladri di Carrozzelle è il nome della omonima Rock Band formata a Roma da musicisti diversamente abili. Oltre alla loro attività artistica che prevedere tour e concerti dal vivo, l’associazione si preoccupa di testimoniare la diversità come valore e non come limite. Negli ultimi anni, grazie anche ai contributi della Fondazione Cariplo e della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma, l’associazione si è fatta promotrice di diversi progetti innovativi che hanno permesso a decine di portatori di handicap di imparare la musica e di vivere l’emozione dell’esibirsi su di un palcoscenico. Nel 2007 e 2008 Ladri di Carrozzelle ha partecipato, con un Tour di 10 esibizioni Live, all’iniziativa del Comune di Roma “Diversi da Chi” rivolta ai giovani delle scuole superiori secondarie con l’obiettivo di abbattere i pregiudizi e le barriere mentali, proponendo un’immagine insolita di chi vive le diversità, non come ostacolo ma come risorsa, ricchezza, e soprattutto come occasione di crescita, sia individuale che collettiva. Men at Work Cooperativa Sociale, Roma Dal 2003, la cooperativa sociale Men at Work, ha avviato un progetto per l’avviamento al lavoro di detenuti ed ex detenuti del carcere di Rebibbia a Roma. Sono state coinvolte 25 persone nel servizio di ristorazione della casa circondariale con l’obiettivo di formarle e avviarle ad una professionalità che possa essere spesa, fuori dal carcere, nel mondo del lavoro. Il progetto ha portato alla creazione di una pizzeria al taglio anche grazie al lungo percorso formativo sotto la supervisione di rappresentanti dell’Associazione Italiana Pizzaioli. Altri esempi di buone prassi (schede)

Galdus Formazione e Ricerca Società Cooperativa, Milano (http://www.galdus.it/) Galdus opera a Milano dal 1990. È costituita da un gruppo di professionisti della formazione, che elaborano e realizzano progetti di formazione professionale, orientamento e inserimento occupazionale. Le attività di ricerca e le pubblicazioni curate dal personale Galdus completano il quadro delle attività istituzionali. La cooperativa si rivolge a tutti coloro che desiderano dare forma al proprio progetto professionale e/o di studio, ma anche a coloro che hanno delle incertezze e sentono il bisogno di un supporto orientativo o motivazionale: - persone che cercano una qualifica di base o una specializzazione; - giovani che hanno difficoltà nella carriera scolastico/formativa; - persone che sono in una situazione di svantaggio (sociale o economico)

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- persone che cercano un’opportunità di inserimento lavorativo; - persone che necessitano di orientamento; - enti o istituzioni che desiderano formare o riqualificare il proprio personale (istituti scolastici

medi e superiori, enti pubblici, ecc.); - aziende che necessitano di percorsi formativi per il proprio personale o che desiderano inserire

nuove risorse qualificate o stagisti. Le tipologie di attività che Galdus offre sono: Servizi di orientamento (accoglienza e informazione orientativa, consulenza orientativa, accompagnamento e sostegno al lavoro) aperto a ragazzi, alle loro famiglie e al mondo della formazione, della scuola e del lavoro; - Percorsi, finanziati dal Fondo Sociale Europeo e completamente gratuiti (anche individuali -

counselling orientativo: colloquio o brevi percorsi di orientamento finalizzati ad un bilancio delle competenze e alla conseguente elaborazione di un progetto personale) di rimotivazione all’apprendimento, di orientamento, di riorientamento, di sostegno al successo formativo, di accompagnamento all’inserimento occupazionale (40-900 ore);

- Corsi finanziati dal Fondo Sociale Europeo – percorsi professionalizzanti di media durata (600-800 ore) - che prevedono attività di formazione in aula e un periodo di stage in azienda;

- Corsi in partnership con agenzie di lavoro interinale – percorsi professionalizzanti brevi o molto brevi (20-200 ore) che prevedono attività di formazione in aula e un rapido inserimento nel mondo del lavoro tramite un contratto temporaneo. Si tratta anche in questo caso di percorsi completamente gratuiti.

- Corsi aziendali – percorsi commissionati direttamente dall’azienda per la qualificazione o specializzazione di propri dipendenti o di risorse in acquisizione. Tali percorsi sono progettati e realizzati per rispondere alle esigenze espresse dalle singole aziende. Si svolgono secondo modalità concordate tra Galdus e l'organizzazione interessata sia per la durata dei corsi, sia per le modalità tecniche di realizzazione;

- Stage in azienda – un periodo (3 – 6 mesi o più) di inserimento in azienda finalizzato all’acquisizione di esperienza ed eventualmente all’inserimento occupazionale.

Gli esiti delle attività sinora svolte sono i seguenti: - per le attività professionalizzanti: inserimenti occupazionali per il 90% degli allievi (dato

relativo ai corsi del 2002); - per le attività di lotta alla dispersione scolastica: le iniziative realizzate da Galdus per favorire

il successo formativo e la permanenza nel circuito scolastico di giovani in difficoltà, avviate in diversi Istituti scolastici da circa 10 anni, hanno raggiunto 2.500 giovani a rischio di dispersione o che già avevano abbandonato gli studi; terminati nel 2000, i progetti Paideia e Sofia II (co-finanziati dal Fondo sociale europeo a valere sull'Iniziativa Occupazione YouthStart), hanno confermato la capacità organizzativa della cooperativa Galdus (coinvolti più di 1.700 giovani) che si è manifestata anche negli esiti positivi delle visite ispettive che hanno verificato alcune delle attività elencate.

Cometa, Como (http://www.puntocometa.org/)

Cometa è un'opera orientata all'educazione e al sostegno dei minori e delle loro famiglie con sede a Como. Dal 1987 Cometa accoglie minori in affido, sostiene le famiglie nello svolgimento dei

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loro compiti educativi, opera nel campo della prevenzione della dispersione scolastica, dello sport, della formazione e dell'orientamento. Oggi in Cometa, oltre ai 14 figli naturali delle quattro famiglie residenti, vivono 24 ragazzi sotto la forma dell’affido residenziale in Comunità Familiare. Per dare una risposta ai bisogni incontrati, nel corso del tempo sono nate: - Associazione Cometa - Fondazione Cometa - Associazione Sportiva Cometa - Cometa Formazione - Il Manto L’Associazione Cometa è una Onlus che nasce nel 2000 a Como a partire da una rete di famiglie e amici che nel tempo si è costituita attorno al nucleo originario. E’ un'associazione di volontariato che accoglie minori in Comunità Familiare e attua una presa in carico globale dei minori, nel rispetto e nella valorizzazione del loro contesto di appartenenza. L’associazione si definisce “un luogo per le famiglie, di sostegno e di risposta ai bisogni normali della vita” ed offre un sostegno educativo quale modalità operativa "di rinforzo" della funzione genitoriale-educativa. Le attività sono: Accoglienza nella comunità familiare: - Affido residenziale - Affido diurno - Pronto Intervento - Nido famiglia Educazione: - Supporto scolastico - Orientamento individuale e stage - Progetti sperimentali in ambito scolastico - Attività ricreative Sostegno alle famiglie: - Gruppi di Auto Mutuo Aiuto - Percorsi di sostegno alla genitorialità - Consulenza legale per minori e genitori - Mediazione familiare - Sostegno a minori affetti da sindrome autistica e alle loro famiglie Tutte le attività sono supervisionate da un'equipe specialistica che garantisce una presa in carico anche sotto il profilo psicologico e pedagogico, sostenendo la famiglia nello svolgimento del suo compito educativo. Nel 2001 si è poi costituita la Fondazione Cometa per favorire una società in cui sia assicurato lo sviluppo integrale della persona, promuovendo iniziative culturali, manifestazioni, seminari, convegni, pubblicazioni e attività editoriali inerenti il lavoro di approfondimento scientifico a sostegno della proposta culturale da cui nasce l'Associazione. La Fondazione si avvale di un Comitato Scientifico per la valutazione dei risultati di tutte le attività svolte da Cometa a favore dei minori e promuove le attività di fund raising. Alla Fondazione è stato donato l'immobile che ha permesso negli anni di continuare l'esperienza di accoglienza ed educazione iniziata. L’Associazione Sportiva Cometa è nata nel 2002 dal desiderio di vivere lo sport come circostanza privilegiata per educare la persona. La società dilettantistica si propone di sviluppare, in tutte le

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forme possibili, la conoscenza e la pratica dello sport e delle attività ricreative, culturali, formative, turistiche e di intrattenimento ad esso connesse. Nel 2003 nasce Cometa Formazione, un’associazione che risponde alle esigenze formative dei protagonisti del processo educativo, Cometa Formazione rivolge la propria attività a giovani ed operatori del terzo settore, ai quali offre percorsi personalizzati e opportunità di crescita professionale, ma anche ad aziende, personale occupato e disoccupato. Cometa Formazione è un ente accreditato presso la Regione Lombardia e ha ottenuto la Certificazione di Qualità ISO 9001-2000 IT 25387. Il Manto è lo strumento operativo per lo sviluppo dei servizi socio-educativi promossi da Cometa. La Cooperativa nasce nel 2005 dall’esperienza di Associazione Cometa per rispondere alle necessità di minori in situazioni di disagio e a rischio di emarginazione, attraverso la creazione di un luogo, aperto al territorio, di accoglienza ed educazione per ragazzi e le loro famiglie. Il tema dell’educazione, quest'ultima intesa come cammino decisivo con il quale impegnarsi per diventare se stessi, è al centro dell’intera proposta: è l’avvenimento educativo che introduce i giovani alla conoscenza della realtà e al senso della vita nella semplicità dei gesti quotidiani, rispettando la storia e il contesto da cui ciascuno proviene.

Cooperativa sociale Giotto, Padova (http://www.coopgiotto.org/) La Giotto è una Cooperativa sociale di tipo B nata negli anni ‘80 a Padova. Si occupa dell'inserimento lavorativo di persone svantaggiate, in particolare disabili e detenuti. Giotto è stata fondata nel 1986 da un gruppo di giovani laureandi e laureati in scienze agrarie e forestali. La cooperativa sociale viene così costituita per occuparsi di progettazione e manutenzione di parchi e giardini. Fin dagli inizi i fondatori portano avanti l‘idea sviluppata negli anni universitari a contatto con associazioni studentesche motivate: partire sempre dalla persona, valorizzando le caratteristiche di ognuno. Nel 1991 c'è il primo incontro con il mondo del carcere, punto di partenza per lo sviluppo nel sociale e la successiva apertura al mondo della disabilità. La collaborazione con il mondo del carcere nasce per caso. Giotto partecipa a un bando di gara indetto dall'Istituto Penitenziario di Padova per la pulizia e manutenzione delle aree verdi interne. In attesa di una risposta, i fondatori hanno un'idea: in carcere ci sono centinaia di persone inoccupate che hanno bisogno di lavorare… ma perché non gli insegniamo il lavoro? I fondatori danno quindi il via al primo corso di giardinaggio, che ad oggi ha visto coinvolti 20 allievi per ogni edizione per un totale di oltre 250 detenuti. Nel 1999 realizzano il primo Parco Didattico presente in un carcere di massima sicurezza italiano dove sono svolte le lezioni pratiche del corso. Nel corso degli anni questa attenzione alla persona fa crescere e maturare una sensibilità precisa verso il settore sociale che con il varo della legge 381/91 (disciplina delle cooperative sociali) porta a caratterizzare la Giotto come cooperativa sociale di tipo B, offrendo lavoro alle fasce svantaggiate. Parallelamente crescono le aree di intervento, quali il servizio di pulizia, di custodia, la gestione di parcheggi, l'accoglienza nei musei, ponendo Giotto sul mercato come interlocutore unico in grado di offrire un servizio globale ai clienti. Nel 2001 Giotto trasforma un capannone vuoto in un'impresa artigianale per la produzione di manichini in cartapesta, realizzati a mano secondo una antica tecnica toscana. Si tratta di un

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prodotto di nicchia molto apprezzato nel settore dell'alta moda e della sartoria, che coniuga le abilità dei maestri artigiani con la tecnologia più innovativa. Dopo un anno di attività Giotto ottiene il sistema di qualità ISO 9000. Ad oggi sono più di 25 i detenuti impiegati nella produzione dei manichini, risorse finora non utilizzate, che hanno trovato un ambito in cui esprimere il proprio desiderio di operare, creare e condividere. Nel maggio 2004 c’è l’avvio di un nuovo progetto, “Ristorazione Due Palazzi”, che vede la cooperativa Giotto coinvolta in qualità di partner operativo nella gestione del servizio. Il progetto si occupa della selezione, formazione e gestione del personale, 20 detenuti, che nella cucina del carcere 7 giorni su 7 preparano i tre pasti per gli oltre 700 detenuti; dell’organizzazione del corso di qualità e igiene nella ristorazione ai detenuti selezionati prima dell'inserimento e dell’ordinaria manutenzione dei locali adibiti a cucina all'interno del carcere. Contemporaneamente, dagli anni ‘90 ad oggi la cooperativa si è impegnata nel campo delle disabilità: ha inserito al lavoro più di 120 disabili e ne ha coinvolti quasi 400 nelle azioni formative e nei singoli progetti. Insieme alla collaborazione di partner quali i Comuni e le Aziende Ulss di Padova, Chioggia, Rovigo, Venezia, Verona, la Regione Veneto ha potuto formare il personale disabile impiegandolo poi in attività di manutenzione del verde, pulizie, custodia di locali pubblici, parchi cittadini e parcheggi. Fino al 1996 il verde rimane il settore prevalente poi si fa strada l'idea di diversificare le attività della cooperativa per soddisfare sia le diverse abilità delle persone svantaggiate sia le esigenze degli enti pubblici che richiedono di dialogare con un solo interlocutore. La cooperativa è quindi diventata un global service in grado di offrire servizi di pulizia di strade, piazze e interni, gestione dei parcheggi, custodia e sorveglianza museale, raccolta dei rifiuti. Giotto ha così capovolto la dinamica della legge dell'offerta e domanda del mercato: per la cooperativa diventa importante offrire quei servizi dove le persone svantaggiate, portatori di handicap e detenuti, possono esprimere le proprie potenzialità e capacità, creando un'opportunità di lavoro su misura della persona. Oggi le attività spaziano dalla progettazione, realizzazione e manutenzione del verde alla gestione di parcheggi, dalle pulizie civili e industriali al settore dei rifiuti, dalla gestione dei servizi museali alla produzione di prodotti artigianali e alla ristorazione. La cooperativa lavora per le Amministrazioni Pubbliche (quali Comuni, province, aziende municipalizzate, consorzi di bonifica), le imprese e i privati, prevalentemente nel territorio della Regione Veneto, grazie alla presenza di due sedi principali a Padova e Chioggia. La Cooperativa Giotto offre alle Amministrazioni Pubbliche e aziende: - attività di progettazione, realizzazione e manutenzione del verde, pulizie, progettazione e

gestione di parcheggi, servizi museali, raccolta rifiuti, guardiania, sorveglianza, anche in soluzioni di Global Service

- ideazione, realizzazione e gestione di progetti sociali per l’integrazione delle fasce svantaggiate nel mondo del lavoro.

Giotto mira a valorizzare le caratteristiche di ogni persona, in modo da permettere a ognuno di esprimere le proprie potenzialità e svolgere la mansione più congeniale. La mission è di coniugare il sociale al professionale, fornendo a più persone possibili in condizione di svantaggio, disabili e detenuti, una opportunità di inserimento socio-lavorativo e allo stesso tempo mantenendo un livello di qualità elevata dei servizi erogati alle aziende private e pubbliche. Le attività svolte dalla cooperativa sociale sono realizzate grazie all'interazione di una pluralità di organizzazioni ed istituzioni private e pubbliche, secondo un modello di "lavoro a rete" e di sviluppo di collaborazioni e partnership.

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Dal 1986 ad oggi Giotto ha avuto una crescita esponenziale in termini di risorse umane e fatturato grazie all'allargamento del settore di attività, alla collaborazione dei partner, all'acquisizione di commesse e all'avvio di progetti mirati. La cooperativa ha ottenuto negli ultimi cinque anni una notevole crescita del valore della produzione, passando dai 2 milioni di euro del 1999 agli 8 milioni di euro del 2005. La flessione del 2006 è dovuta in gran parte alla difficoltà nel reperimento delle commesse, dovuto sostanzialmente alla mancata applicazione delle normative a favore del sociale da parte degli enti pubblici, e in minima parte alla diversa distribuzione delle commesse tra le cooperative sociali nell'ambito del Consorzio sociale Rebus, che la Giotto ha costituito per consolidare e incrementare le attività lavorative all'interno della Casa di Reclusione di Padova. Per quanto riguarda le risorse umane impiegate nella cooperativa, dalle 9 persone iniziali e fondatori della Cooperativa oggi è una realtà di 180 dipendenti, di cui oltre 30% sono persone svantaggiate, in particolare disabili e detenuti. La Cooperativa conta al suo interno 13 laureati in discipline economiche, di ingegneria, agrarie e forestali, scienze sociali, che coordinano i diversi progetti e settori di intervento.

Suggerimenti di policy Dai casi esaminati emergono alcune sintetiche indicazioni che, a mio avviso, dovrebbero essere considerate nel formulare le misure di policy per il sostegno alle imprese sociali nelle Regioni del Mezzogiorno: - vanno adottate facilitazioni fiscali per la nascita e il consolidamento dell’impresa sociale; - va sostenuto l’accesso al credito di esercizio e il rafforzamento della dotazione di capitale per agevolare lo start-up di imprese sociali; - di grande rilievo sono la qualità del management e la formazione professionale delle risorse umane coinvolte; - va rafforzato il monitoraggio delle buone pratiche e occorrono strumenti per il loro trasferimento nei contesti deboli; - va promossa la diffusione di incentivi ad un costante miglioramento della qualità dell’offerta (certificati di qualità, bilancio sociale); - la governance delle imprese sociali va aperta ai vari stakeholder che appartengono alla comunità e vanno introdotti strumenti di premialità legati anche alle iniziative che differenziano le fonti di entrata; - è necessario puntare sulla costruzione di reti (locali, regionali, nazionali), adesione ai consorzi nazionali e creazione di distretti di imprese sociali; - gli incubatori di imprese sociali possono rappresentare uno strumento per lo sviluppo locale solidale; - le Amministrazioni locali devono predisporre non solo un sistema di regole per l’affidamento dei servizi alle imprese sociali ma anche dei meccanismi di programmazione condivisa.

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6. L’impresa sociale negli altri Stati Membri dell’Unione Europea

In questo capitolo riprendo e sviluppo alcuni temi relativi all’impresa sociale nel contesto europeo. La premessa è che, anche su questa dimensione territoriale più ampia, l’economia sociale riveste un forte rilievo e che dall’Europa possono venire stimoli e suggerimenti per un progresso dell’economia sociale nelle Regioni italiane. Nei capitoli precedenti ho già accennato a due documenti di grande interesse. Il primo è il Rapporto Barca sulle prospettive della politica di coesione sociale (Barca 2009), centrato sullo sviluppo umano e l’estensione dell’accesso ai servizi collettivi negli Stati Membri (si rimanda al cap.1); il secondo è la Risoluzione assunta dall’Intergruppo sull’economia sociale del Parlamento Europeo del febbraio 2009, che legittima l’impresa sociale invitando il Parlamento Europeo ad introdurre misure specifiche di promozione e sostegno (si rimanda al cap.1). Su questo tema, informazioni utili si traggono anche dalla consultazione del sito della DG Enterprise and Industry dell’Unione Europea dedicato all’economia sociale, sito che contiene il materiale relativo alle azioni, studi e progetti sull’economia sociale finanziati dalla Commissione Europea36. Questa documentazione così come la rappresentanza dell’economia sociale in seno alle istituzioni dell’Unione Europea, testimoniano l’importante tradizione storica delle organizzazioni non profit in Europa (molto consistente, ad esempio, nel Regno Unito, Francia, Germania e Belgio, oltre che in Italia). Negli anni ’70 e ’80 nelle varie economie europee si è andata poi consolidando la forma dell’impresa sociale, cioè di un’organizzazione privata con finalità sociali e partecipazione alla gestione dei gruppi di portatori di interesse (Borzaga e Santuari 2000). Come mostrano Borzaga e Santuari (op.cit.), l’affermazione dell’impresa sociale si è verificata contestualmente alla trasformazione dei modelli tradizionali di offerta dei servizi di welfare, che in Europa possono essere schematizzati attraverso tre tipologie: (i) offerta pubblica prevalente (Danimarca, Svezia, Finlandia, Regno Unito); (ii) finanziamento pubblico e rilevante offerta privata attraverso organizzazioni non profit (Germania, Olanda e Francia); (iii) scarsa offerta di servizi e larga prevalenza di trasferimenti (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia). Tutti questi Paesi stanno evolvendo, con diversa velocità e diverso grado di innovazione, verso un modello composito di finanziamento e gestione dei servizi in cui coesistono pubblico e privato e in cui emerge il ruolo potenziale delle imprese sociali. Sul piano delle informazioni sulla dimensione e le caratteristiche dell’economia sociale negli Stati Membri, alcuni elementi sono contenuti in Rapporto sull’impresa sociale che la Commissione Europea ha affidato all’Istituto KMU Forshung Austria, studio presentato nel marzo 2009 a Bruxelles durante la Conferenza Europea sull’Impresa Sociale. La Tabella 30 riassume i dati contenuti nelle schede di sintesi sulle misure di sostegno dell’impresa sociale in 31 Paesi europei. Il Rapporto invita gli Stati Membri a valorizzare le lezioni ricavate dall’Iniziativa Comunitaria Equal, che nel periodo 2000-2006 ha sostenuto interventi mirati all’inserimento lavorativo, all’accesso all’istruzione e alla formazione professionale, finanziando progetti di partenariato tra i settori pubblico, privato e non profit. Nel nuovo ciclo finanziario 2007-2013, dunque, si suggerisce

36 Il sito è: http://ec.europa.eu/enterprise/entrepreneurship/craft/social_economy/soc-eco_intro_en.htm.

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ad irrobustire l’economia civile per seguire una strategia che integri il sostegno ai gruppi a rischio di marginalizzazione, la riqualificazione territoriale e la riduzione dei divari regionali. Più in generale, tra le proposte di policy lo studio del KMU include: - supporto finanziario (incentivi fiscali, sussidi ai progetti o all’assunzione di lavoratori

svantaggiati, esenzioni fiscali per le donazioni private); - adozione di specifiche forme legali su scala europea; - supporto alle imprese a livello locale; promozione di strutture per la cooperazione tra imprese

sociali e tra queste e le istituzioni pubbliche; - supporto alla ricerca e al monitoraggio a livello trans-nazionale; - implementazione di misure di sostegno all’interno delle politiche strutturali 2007-2013. Lo studio è stato molto criticato dagli esperti del settore e ad esso è seguito un commento della rete EMES, European Research Network (2009). Le critiche partono dal fatto che l’impresa sociale viene assimilata alla piccola e media impresa, trascurando le specificità (la dimensione collettiva e la finalità di interesse generale) di cui si è discusso estesamente anche in questo lavoro. Il Rapporto del KMU quindi ridimensiona il contributo originale che l’impresa sociale potrebbe dare alle politiche di sviluppo e di welfare. Inoltre è estremamente parziale la trattazione di vari casi presenti negli Stati Membri, in particolare del caso dell’Italia, di cui si ignora la legge sull’impresa sociale e la significativa esperienza nel campo delle cooperative sociali e dei consorzi di cooperative. Infine, non sono presentati dati sull’economia sociale ma solo schede-Paese. Considerando questi limiti, preferisco in questa sede utilizzare alcuni recenti lavori della rete EMES (Defourny e Nyssens 2008; Defourny and Pestoff 2008) sull’impresa sociale in Europa. Dalla lettura di questi testi si riscontra, ad esempio, che l’Italia è stato il primo Paese europeo ad introdurre una legge specifica sulle cooperative sociali nel 1991, seguita dalla legge sull’impresa sociale del 2005. Il Regno Unito ha adottato una normativa ad hoc nel 2004 e istituito l’Office of the Third Sector presso il governo nel 2006 (oltre ad un organo di ricerca, l’Economic and Social Research Council). Sempre nel Regno Unito, nel 2005 è nata la Community Interest Company, una nuova forma giuridica di impresa che svolge servizi per la comunità di interesse collettivo, può distribuire in parte i profitti, raccogliere fondi emettendo azioni. Da allora sono sorte 1.176 imprese di questo tipo. Similmente, vari Paesi europei (Francia, Portogallo, Spagna, Grecia, Belgio) hanno introdotto delle forme giuridiche che riflettono l’approccio di un’attività imprenditoriale volta all’interesse generale (per lo più nella forma di imprese cooperative)37. Altri Paesi, in particolare la Germania, non hanno una normativa né un dibattito in corso sul tema. Ciò è dovuto al modello socio-economico fondato sul concetto di “economia sociale di mercato” considerata come un’articolazione tra Stato e mercato al cui interno sono presenti numerose organizzazioni ibride ed è difficile individuare forme giuridiche con i tratti specifici dell’impresa sociale. Il filone di attività prevalente tra le imprese sociali europee è comunque quello dell’inserimento lavorativo, il che si spiega con la persistenza della disoccupazione strutturale negli ultimi decenni e l’esigenza di nuove politiche di inclusione sociale. Ad esempio, in Finlandia le imprese sociali sono state istituite nel 2003 con il compito esclusivo di promuovere l’inclusione dei lavoratori a bassa qualifica o con disabilità nel mercato del lavoro. La Polonia (che ha fortemente beneficiato dell’Iniziativa Equal per la promozione dell’economia sociale) nel 2006 e la Spagna nel 2007 hanno

37 Le forme giuridiche sono diverse: ad esempio, in Francia si parla di “cooperative di interesse collettivo”, in Portogallo di “cooperative per la solidarietà sociale”, in Belgio di “imprese di interesse generale”, in Spagna di “cooperative di iniziativa sociale” mentre Finlandia e Polonia hanno legiferato sulle “cooperative per l’integrazione lavorativa”.

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anch’esse varato delle leggi che istituiscono cooperative mirate all’integrazione lavorativa di fasce deboli. Portogallo, Svezia e Danimarca non utilizzano il termine “impresa sociale” ma promuovono le associazioni del terzo settore nel campo delle politiche attive del lavoro o dei servizi alla persona. Irlanda e Belgio hanno programmi simili, rispettivamente, a livello nazionale e regionale. In Francia agiscono circa 2.300 strutture che forniscono servizi per l’inserimento lavorativo, occupando 220mila lavoratori salariati, mentre in Italia le cooperative sociali di tipo B hanno questo fine (si rimanda al cap.5). Altre finalità delle imprese sociali europee sono i servizi all’infanzia, prevalenti in Svezia e Francia. Nel Regno Unito si aggiungono anche l’edilizia sociale, i servizi di assistenza domiciliare, altri servizi locali. In Irlanda è posta l’enfasi sui servizi per lo sviluppo locale, così come in Grecia dove, ad esempio, sono sorte in aree remote numerose cooperative a prevalenza femminile nei settori agricolo e turistico. In prospettiva, si configura un progressivo allargamento del campo di azione di queste imprese. Quanto ai rapporti con la Pubblica Amministrazione, prevale la pratica della fornitura in appalto di servizi e beni pubblici, a volte introducendo anche clausole sociali (in Italia, e Belgio, ad esempio). Inoltre la diffusione dei sistemi di voucher e di quasi-mercati per i servizi sta creando in Europa nuovi spazi, anche se ciò fa emergere il rischio che le imprese sociali vengano spiazzate dalla concorrenza delle imprese private for profit in assenza di regole esplicite che tengano conto dei benefici collettivi che esse apportano. Informazioni dettagliate sono disponibili poi con riferimento alle economie europee in transizione, su cui l’EMES, insieme alle Nazioni Unite, ha di recente condotto un’indagine (EMES-UNDP 2008). Questo riferimento potrebbe essere utile per le Regioni del Mezzogiorno che, come i Paesi dell’Europa centro-orientale, rientrano nell’obiettivo “Convergenza” della politica di coesione. I Paesi dell’Europa centrale e orientale hanno un’antica tradizione di associazioni, cooperative, imprese fondate sulla solidarietà e mutualità, che tuttavia dopo la Seconda Guerra Mondiale sono state assorbite all’interno dell’infrastruttura pubblica e utilizzate come strumenti di intervento statale nell’economia nazionalizzata. Dopo la caduta del comunismo e l’avvio della transizione politica ed economica, si è manifestata una rinascita delle associazioni ed organizzazioni della società civile. Il terzo settore ha ricevuto una grande attenzione per il suo contributo alla costruzione della democrazia e allo sviluppo economico. Il discredito che invece si è riversato sullo Stato e sulla proprietà cooperativa ha contribuito alla convinzione che le imprese non profit non costituissero una strada percorribile oltre alla privatizzazione, conducendo allo smantellamento del settore delle cooperative (in particolare in Polonia e nella Repubblica Ceca). L’orientamento è cambiato solo con il tempo, anche sotto impulso dell’Unione Europea, che ha divulgato l’interesse verso soluzioni alternative allo Stato e al mercato. Per alcuni Paesi (Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Polonia e Slovenia) l’accesso all’Unione e ai Fondi Strutturali ha condotto al riconoscimento politico e legislativo delle imprese cooperative e di altre organizzazioni del terzo settore. Il quadro rappresentato dal Rapporto mostra che oggi la realtà dell’impresa sociale è ancora nella sua infanzia, ostacolata da numerosi fattori di debolezza (difficile accesso alle risorse, sistema legislativo lacunoso e frammentario, risorse umane poco qualificate ecc.) oltre che dal problema culturale di cui si è detto: la cattiva immagine delle cooperative, associate al passato regime comunista e a numerosi scandali che hanno minato la reputazione di queste associazioni. Tuttavia vanno sottolineate dalle novità di rilievo. In primo luogo, alcuni Paesi, hanno istituzionalizzato le imprese sociali: ad esempio, la Polonia ha varato una legge sulle cooperative

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per il lavoro delle persone svantaggiate, la Repubblica Ceca ha introdotto la categoria delle “imprese per il beneficio pubblico “ (public benefit company). Inoltre sono state create imprese sussidiarie, di proprietà di associazioni e fondazioni, con lo scopo di raccogliere risorse (attraverso attività di mercato) per finanziare le attività sociali condotte dai fondatori. Nel complesso, secondo i dati raccolti dalla John Hopkins University (Center for Civic Society Studies) e da CIVICUS (World Alliance for Citizen Partecipation), la dimensione del terzo settore nei nuovi Stati Membri è quantificata come indicato dalla Tabella 31. Si allegano inoltre le schede-Paese tratte dal Rapporto EMES-UNDP relative alla Repubblica Ceca e alla Polonia, che rappresentano le esperienze più significative tra le economie in transizione.

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 133 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Tabella 30 - Misure di sostegno per l'impresa sociale in Europa

Country Measure Type of measure

Austria Sheltered workshops ltd. legal regulation

Master studies in social management business support

Tax privileges for non profit organizations legal regulation

Civilian service others

Belgium Advice fee financial support

Project grants financial support

Start centre financial support

Flemish Partecipation Fund for the Social Economy financial support

Bulgaria Bulgaria Community Fund and Social Enterprise Programme others

Measures under the Law on Integration of Disabled financial support

Social Services Against New Employment (SANE) Project others

Cyprus Programme for Pres-School Children financial support

Centres for School-Age Children financial support

Programmes for Persons with Special Needs financial support

Programme for the Elderly financial support

Programmes for various groups in need financial support

Czech Republic Programme to support social services provided by NPOs

(Non Profit Organizations) on regional level to seniors and disabled

Denmark Co-operation with voluntary social organizations and associations fostering co-operation

Grants for Voluntary Social Work financial support

Estonia Entrepreneurship development fostering co-operation

Enabling the development of municipality fostering co-operation

Finland Act on Social Enterprise No.1351/2003 legal regulation

National Support Structure for Social Enterprises business support

Labour Political Project Support financial support

France Job accompaniment contract financial support

Contract for the future financial support

National council for work integration by means of economic activity fostering co-operation

Public procurament regulation /articles 14 and 15) legal regulation

Germany Berlin Development Agency for Social Enterprises and Neighbourhood

Economy

Public Utility legal regulation

Master studies in social management business support

Greece DYEKO (network for supporting social economy enterprises) EQUAL

Non-governmental Perspective EQUAL

Soc-Eco EQUAL

Social Amphictiony (School of social economy) EQUAL

Hungary Law LxxxViii/2005 on Private Voluntary Activity legal regulation

Civil Employment Workshop fostering co-operation

Law IV/2006 on Economic Companies legal regulation

Iceland Law on private and self-sufficiet institute which provide jobs legal regulation

Ireland Community Service Programme financial support

Community Employment Development Programme (CE) financial support

Italy Support to social enterprises (Objective 2 Programme-Measure

1.4 -Action C)

Regulation on social enterprise legal regulation

Latvia Tax relief on immovable property EQUAL

Result-driven and transparent development NGOs business support

Liechtenstein Exemption from tax on assets or on profit and income of social enterprises legal regulation

continua

financial support

business support

financial support

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 134 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

continua

Lithuania Estabilishment of Social Enterprises EQUAL

Development of Social Employment Enterprises business support

Luxemburg National Service of Social Action (SNAS) business support

Malta Income tax act legal regulation

VAT act legal regulation

Norway Tax exemption legal regulation

The National Federation Companies providing permanent Jobs fostering co-operation

adapted to the Individual (ASVL)

Poland Act on Social Co-operatives legal regulation

Programme Supporting the Development of Social Co-operatives others

Portugal Co-operation Agreements financial support

Development of the National Network of Facilities and Services for financial support

Social Promotion (Measure 5.1. Of POEFDS)

Support to social and community development (Measure 5.1. Of POEFDS)financial support

Programmes of the Social Employment Market others

Romania Romain Social Development Fund financial support

Protected Units business support

Subsidies accorded to Romanian associations and foundations, with financial support

legal status, which estabilish and administrate social assistance units

Slovakia Income tax assignation financial supportTransformation of some institutions financed from the State budget into legal regulation

NPOs providing publicly beneficial services

Support for employment of disabled people financial support

Slovenia Subsidy to salary for disabled persons financial support

Exemption from payment of tax on paid salary of companies for legal regulation

disabled persons

Spain State Council of Non-Governmental Organizations for Social Action fostering co-operation

(Royal Degree 235/2005 of March 4)

Orientation service for citizen entities in Madrid business support

Website www.solucionesong.org business support

Sweden Termination of the monopoly of Samhall legal regulation

Wage subsidy financial support

The Netherlands Taste the meeting (name of a café) EQUAL

Masterclass Social Entrepreneurship business support

Work corporations for young persons EQUAL

Turkey Turkish Civil Law-Foundations Regulation legal regulation

Associations Act No. 5253 legal regulation

UK Social Enterprise Unit others

Community Interest Company (CIC) legal regulation

Development Trusts Associations (DTA) fostering co-operation

Co-Enterprise Birmingham business support

Fonte: KMU (2008).

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Tabella 31 - La dimensione del terzo settore nei nuovi Stati Membri dell'Unione Europea

Country Type of organization Number of organization

Bulgaria Foundations and associations 22.000

Cooperatives 7.000

Total 29.000

Czch Republic Associations 54.964

Cooperatives 1.831

Public Benefit Companies 1.158

Total 56.852

Estonia Associations and societal organizations 12.000

Consumer/agricultural cooperatives 200

Housing cooperatives/association 8.000

Total 20.200

Poland Associations and foundations 78.228

Cooperatives 10.585

Social integration centres and clubs 135

Social cooperatives 107

Cooperatives for disabled people 350

Vocational centres for disabled people 30

Total 83.465

Slovenia Non-profit societies and associations 20.000

Companies for disabled people 150

Cooperatives 988

Private not-for-profit institutes 534

Total 21.672

Fonte: EMES-UNDP (2008).

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Repubblica Ceca

Fonte: EMES-UNDP (2008).

‘Il ruolo dell’impresa sociale nelle politiche di sviluppo’ 137 Rapporto CReAT 2009 - Centro Regionale di Analisi Territoriale Città della Scienza

Polonia

Fonte: EMES-UNDP (2008).

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JEL classification: L31; Z13; R58; I38