il ritorno del celeste impero
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Se vogliamo collocare storicamente il ruolo della Cina di oggi nel mercato mondiale,dobbiamo tornare indietro di circa due secoli, esattamente a prima delle guerre perl’oppio e alla rivolta dei boxers. In quegli anni la Cina, con una popolazione di oltre400milioni di abitanti, rappresentava un mercato importantissimo per le principalinazioni europee; fu per questo che Hong Kong venne conquistato dagli inglesi.La tesina vuole sottolineare il ruolo di questo immenso paese nel contesto globale,valutarne i suoi straordinari progressi, evidenziarne il modello di crescita sottolineandonesoprattutto i principali problemi.TRANSCRIPT
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Il ritorno del celeste Impero Lo sviluppo economico in Cina
F. Giubileo
Dipartimento di ricerca sociale
Università degli studi di Milano-Bicocca
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 2
Indice
Introduzione……………………………………………………………………………...3
La stagione delle riforme………………………………………………………………..5
Il balzo in avanti della produzione agricola……….………………………….....6
La politica della porta aperta…………………………………………………………...7
L’economia socialista di mercato……………………………………………………….9
Il ritorno del celeste impero…………………………………………………………....11
Il comportamento dell’offerta di lavoro………………………………………....13
Il mercato internazionale…………………………...……………………………15
Il modello di crescita cinese……………………………………………………………18
Una crescita insostenibile………………………………………………………………21
Serve un welfare cinese………………………………………………………………...23
Riflessioni conclusive…………………………………………………………………...25
Bibliografia e Sitografia....……………………………………………………………..26
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
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Introduzione
Se vogliamo collocare storicamente il ruolo della Cina di oggi nel mercato mondiale,
dobbiamo tornare indietro di circa due secoli, esattamente a prima delle guerre per
l’oppio e alla rivolta dei boxers. In quegli anni la Cina, con una popolazione di oltre
400milioni di abitanti, rappresentava un mercato importantissimo per le principali
nazioni europee; fu per questo che Hong Kong venne conquistato dagli inglesi.
La tesina vuole sottolineare il ruolo di questo immenso paese nel contesto globale,
valutarne i suoi straordinari progressi, evidenziarne il modello di crescita sottolineandone
soprattutto i principali problemi.
Una eventuale crisi finanziaria cinese, come avrò modo di evidenziare, non potrebbe che
provocare irreparabili danni su scala mondiale, in particolare per gli Stati Uniti e
l’Europa.
Ammetto che può risultare paradossale parlare di una crisi per un paese che dal 1978 al
2005 presenta una crescita media del prodotto interno lordo (Pil) di oltre il 9 per cento
all’anno (Chiarlone e Armighini, 2007).
Tabella nr.1
Tasso di crescita del PIL (variazione percentuale media annua) 1980-89 1990-99 2000-05 1980-05
Cina 9,8 10 9,3 9,6
Fonte: International Monetary Fund & The Istitute for International Finance
In valori assoluti, il Pil cinese è secondo solo agli Stati Uniti (13.130miliardi di dollarii).
Grafico nr. 1
Fonte: http://www.indexmundi.com
Da 5.700miliardi di dollari nel 2003 a quasi 10.170miliardi nel 2007, praticamente il
prodotto interno lordo in cinque anni è quasi raddoppiato. Probabilmente, se la crescita
rimane costante la Cina diventerà tra pochi anni la più potente economia del mondo.
Tuttavia, ho notevoli riserve ad accettare uno dei paradigmi della teoria della crescita,
ovvero che i paesi meno sviluppati tendono a convergere verso livelli di reddito dei paesi
più avanzati (Chiarlone e Armighini, 2007). Per esempio, se osserviamo più attentamente
la Cina di oggi, l’unica convergenza con gli Stati Uniti sono le sperequazioni nelle
politiche sociale.
Infatti, la Repubblica Popolare Cinese rimane un paese povero, il suo Pil annuo pro-
capite è circa sei volte inferiore a quello statunitense (http://www.indexmundi.com).
2003 2004 2005 2006 2007
5.700 6.449 7.2628.883
10.170
Prodotto Interno Lordo (PIL)
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
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Grafico nr.2
Fonte: http://www.indexmundi.com
In effetti, per quanto riguarda il salario, risulta corroborata una condizione tipica per i
sostenitori della teoria classica: dato il vasto serbatoio di disoccupazione/sotto-
occupazione presente in Cina, esso tende ad essere costante ad un livello determinato,
cioè da fabbisogni fisiologici e sociali della sussistenza (Seravalli e Boggio, 2003).
Alcuni autori sottolineano come, negli ultimi trent’anni, il valore del Prodotto interno
lordo cinese non abbia fatto altro che adeguarsi alle dimensioni di questo paese. Con un
territorio di 9,6 milioni di chilometri quadrati (http://www.globalgeografia.com), la Cina
ha una superficie comparabile a quella degli Stati Uniti. Durante i primi anni della
dittatura comunista avvenne la transizione demograficaii (Lemoine, 2005 pag. 51),
causata principalmente dal miglioramento complessivo delle condizioni di vita; questo
processo portò a oggi il numero della popolazione cinese sopra il miliardo e trecento
milioni di persone. Pertanto, secondo molti autori, la crescita cinese è il naturale
riposizionamento di un paese che conta una popolazione tre volte quella europea.
Pur condividendo in parte queste considerazioni va tenuto presente, come avrò modo di
dimostrare, che l’integrazione commerciale e la competitività internazionale
dell’economia cinese (anche a causa della debolezza della sua valuta) sono le principali
cause che hanno portato il paese a divenire un nodo primario manifatturiero
internazionale (Lieberthal e Lieberthal, 2005).
Se questi due aspetti risultano ovvi e diffusi, non altrettanto lo sono i meccanismi che
hanno portato un paese a economia pianificata a divenire una delle più dinamiche
economie del mondo; solamente la comprensione delle cause di questo fenomeno
possono permetterci di capire il modello di sviluppo cinese.
0
20.000
40.000
60.000
2003 2004 2005 2006 2007
7.700
44.000
Pil pro capite
Pil pro-capite della Cina Pil pro capite Usa
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La stagione delle riforme
Un sistema economico pianificato è condannato nel lungo periodo a una crescita
potenziale ed effettiva risibile, in quanto incapace di perseguire l’innovazione (Viola,
2000a).
Un sistema industriale che non persegue l’innovazione tecnologica e organizzativa e non
ammette la “distruzione creatriceiii
” schumpeteriana (assente in un sistema basato su
imprese di Stato che non possono chiudere né fallire) è incapace di imprimere sostanziali
accelerazioni alla produttività totale dei fattori ed è condannato all’arretratezza, una volta
che si siano esaurite le possibilità di accelerare l’accumulazione di capitale e/o lavoro
(Chiarlone e Armighini, 2007). Questo è esattamente ciò che è capitato in Unione
Sovietica.
In Cina, all’inizio delle riforme, sia il sistema industriale che quello finanziario erano ben
lungi da una situazione anche lontanamente assimilabile a un contesto di mercato.
Il primo era pienamente statalizzato e fondato su scelte di massimizzazione della
produzione e non per profitto (Lemoine, 2005).
Il secondo era composto da un unico istituto bancario statale, che svolgeva il
ruolo di banca commerciale e di banca centrale (Chiarlone e Armighini, 2005).
Nel 1975, Deng Xiaoping, uno dei vicepresidenti del Comitato centrale del Partito,
presenta un rapporto sullo sviluppo industriale in favore della gestione diretta e rigorosa
delle imprese e del ricorso sistematico alle tecnologie importate (http://www.time.com).
Seppur nella ferma intenzione di mantenere un sistema economico di tipo socialista, la
necessità di aumentare la produzione convince il comitato direttivo del Partito comunista
cinese ad accettare il rapporto e a lanciare nel 1978, un ampio programma di riforme
strutturali volte a stimolare la produttività.
Inizia così la stagione delle riforme: i due principali obiettivi erano aumentare la
produttività del settore agricolo e incentivare investimenti diretti.
Per quanto riguarda il primo, si iniziò con il graduale smantellamento delle comuni
popolari nel settore agricolo, a favore di un sistema semi-privato di gestione della terra,
chiamato “Household responsibility system”, il quale introduceva un’importante
tipologia di imprese collettive e concedeva alle famiglie il diritto di tenere per sé tutta la
produzione in eccesso rispetto al livello stabilito dal governo (Chiarlone e Armighini,
2007). In altre parole, venne ristabilito il profitto come criterio di gestione nelle imprese
e si reintrodussero i premi di produttività per i salariati (Lemoine, 2005).
La riforma agraria consiste nella possibilità offerta concretamente ai contadini poveri di
acquistare un fondo di dimensioni adeguate ad una vita dignitosa della famiglia, attuata
mediante l’esproprio del latifondo (in questo caso lo Stato).
La riforma agraria ha potenti effetti sul reddito dei poveri, effetti diretti e soprattutto
indiretti. Ha effetti diretti perché mette a disposizione dei contadini poveri i mezzi
indispensabili (terre sufficienti) che consentono loro di provvedere a se stessi. Ciò
produce un immediato miglioramento delle loro condizioni di vita. Ma gli effetti più
importanti sono quelli indiretti, con la riforma agraria aumenta in modo notevole la
produttività della terra (il contadino senza terra o il mezzadro non hanno adeguati
incentivi all’intensificazione delle prestazioni lavorative).
Seravalli e Boggio, 2003.
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
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Sempre nel 1978 la Cina cerca soprattutto di attrarre investimenti diretti, che consentono
di associare più saldamente le importazioni con i trasferimenti di tecnologia e
l’acquisizione di metodi di gestione moderni (Ibidem). In particolare, incoraggia gli
investimenti stranieri sia nelle industrie esportatrici che in quelle in cui la produzione è
destinata a sostituirsi alle importazioni; per questo nel 1979 vengono create quattro zone
economiche nelle provincie del Guangdong e del Fujian. Localizzando queste zone in
prossimità di Hong Kong e Taiwan, le autorità puntavano a sedurre in primo luogo i
“cinesi d’oltremare” (Ibidem, pag. 46).
Infine, sempre nel 1978 avviene la trasformazione del sistema bancario cinese, si
abbandona la preesistente struttura monopolistica a favore di un sistema di quattro
banche commerciali specializzate di proprietà statale: la People’s Bank of China (per
l’industria e il commercio); la Bank of China (per le transizioni valutarie); la China
Costruction Bank (per investimento immobiliare); e la Agricultural Bank of China (per il
credito rurale).
Il balzo in avanti della produzione agricola
Mentre prima del 1978 la crescita della produzione agricola era di poco superiore a
quella della popolazione, lasciando così pochi margini per l’aumento della disponibilità
alimentare pro-capite, tra il 1978 e il 2001 si assiste a una trasformazione della struttura
della produzione agricola, con un relativo arretramento delle culture il cui contributo al
valore della produzione agricola passa dall’80 al 55%; ne approfitta l’allevamento, la cui
produzione nello stesso periodo aumenta dal 15 al 41% (Lemoine, 2005). La spiegazione
risiede nel ricorso intensivo ai concimi e nell’estensione della superficie irrigata, che
copre più della metà di quella coltivata.
Nel campo dell’agricoltura la Cina ha raggiunto il proprio obiettivo di autosufficienza fin
dalla metà degli anni ottanta, oggi esporta all’estero la produzione in eccedenza di
prodotti agroalimentari (Ibidem).
Nel 1978 l’economia cinese era caratterizzata da una quota molto elevata della
produzione industriale sul lavoro ufficiale del Pil (48%), nonostante gran parte della
forza lavoro fosse occupata in agricoltura (71%). Lo squilibrio era riflesso della elevata
occupazione della forza lavoro agricola e della bassissima produttività in questo settore
(Chiarlone e Armighini, 2007).
La maggiore produttività raggiunta in agricoltura è testimoniata dal fatto che viene
generata la stessa quota di PIL, nonostante la forza lavoro si sia progressivamente
spostata verso altri settori urbani, più remunerativi e caratterizzati da maggiore domanda
di lavoro (Ibidem).
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La politica della porta aperta
Il successo delle riforme nel settore agricolo comportò una fortissima migrazione della
forza lavoro verso altre occupazioni (Chiarlone e Armighini, 2007). Questo spinse il
governo, nel periodo 1984-88, a intervenire nei settori industriali e urbani, promuovendo
una serie di liberalizzazioni dei prezzi e dei salari e consentendo alle imprese di tenere
per sé i propri profitti al netto di un’aliquota fiscale progressiva (Weber, 2005).
Mentre prima delle riforme, le imprese (quasi totalmente pubbliche) non avevano alcuno
stimolo a rendere efficienti le loro strutture di governance e di produzione a causa
dell’assenza di incentivi monetari e non monetariiv
. L’interesse dei vertici politici cinesi
erano gli elevati livelli produttivi necessari per mantenere alta l’occupazione, in un’ottica
nella quale le imprese pubbliche (SOE) erano investite di una funzione implicita di
previdenza socialev, anche a scapito dell’efficienza economica.
“Gli operai vogliono mangiare, gli operai vogliono lavorare” è questo lo slogan dei
lavoratori delle imprese pubbliche, che sono anche la componente più grossa del
sindacato ufficiale cinese (Imparato, 2003)vi
. Questi lavoratori, prima delle (e in parte
anche dopo le) riforme esercitavano un’influenza molto forte verso i vertici politici cinesi
e sono stati i principali oppositori delle riforme. Per assicurare un lavoro a circa
200milioni di operai le imprese venivano finanziate a piè di lista dallo Stato purché
producessero, indipendentemente dalla loro profittabilità e dai costi-opportunità connessi
alla produzione: la loro condizione finanziaria e la qualità dei bilanci non avevano alcuna
importanza per il loro funzionamento, che veniva assicurato dallo Stato (Chiarlone e
Armighini, 2007).
Un sistema industriale di questo tipo era funzionale all’obiettivo di massimizzare la
produzione, ma implicava che la produttività rimanesse su livelli molto bassi. Questi
risultati deludenti dipendevano in parte dall’ambiente in cui le imprese operavano, dalla
loro posizione nel settore industriale (spesso in declino), ma soprattutto perché erano
imprese con dotazioni di capitale vetuste e tecnologie obsolete (Lemoine, 2005).
Alle riforme del 1978, si aggiunsero ulteriori incentivi fiscali che le autorità cinesi
concessero alle quattro zone economiche speciali. Tali scelte presero il nome di “politica
della porta aperta” e contribuirono alla crescita del peso delle imprese estere.
Nel 1984, vennero prese le prime scelte cruciali per la riforma dell’industria: il passaggio
da un sistema fondato su imprese che ricevevano sussidi a fondo perduto dallo Stato e a
quest’ultimo versavano i loro profitti, a uno nel quale le imprese hanno diritto a trattenere
i profitti realizzati, fu all’origine di forti aumenti di produttività (Ibidem; Zeng e
Williamson, 2005).
Al riassetto del sistema industriale contribuisce anche la trasformazione, nel 1983, del
sistema monobancario in un sistema bancario a due livellivii
: la riforma separa la banca
centrale (Banca popolare di Cina), a cui vengono affidati esclusivamente i compiti
macroeconomici (tasso di interesse, politica del credito), dalle banche di seconda fila
(Lemoine, 2005). In altre parole, si divide la responsabilità della politica monetaria
dall’attività creditizia, trasformando il sistema cinese in un tradizionale two-tier
(Chiarlone e Armighini, 2007).
Il forte aumento della produttività industriale registrato negli anni successivi al 1984
dipese proprio dal miglioramento delle pratiche di gestione delle imprese. Tuttavia, nel
1986 le imprese di Stato continuavano ad essere in grossa difficoltà e ad appesantire i
bilanci delle banche cinesi: venne approvata una legge provvisoria che ne regolava la
bancarotta, ma i risultati sono tutt’oggi deficitari (Ibidem).
Le tensioni inflazionistiche che si manifestano alla metà degli anni ottanta portano
all’estremo le distorsioni di prezzo. Per contrastarle, nell’autunno 1988 il governo cinese
congela le riforme e ristabilisce i prezzi amministrativi (Lemoine, 2005; Viola, 2000b). I
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traffici illeciti si moltiplicano, mentre speculazione e corruzione assumono dimensioni
mai viste in precedenza, diventano lo sfondo degli avvenimenti del giugno 1989
(Imparato, 2003).
Le contrapposizioni fra riformisti e conservatori si accentuano nel governo cinese. Dopo
la morte di Hu Yaobang, gli studenti occupano piazza Tian’anmen. L’occupazione si
trasforma in una manifestazione a favore di ulteriori riforme politiche ed economiche.
Deng Xiaoping, preoccupato per la stabilità del sistema comunista, ordina la repressione:
oltre 1.000 manifestanti vengono uccisi dall’esercito e 30.000 arrestati (Viola, 2000b).
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L’economia socialista di mercato
Il crollo del comunismo in Unione Sovietica alla fine del 1991 è un colpo fatale al
tentativo di “restaurazione”, perché convince definitivamente la classe dirigente cinese
che la propria legittimità si basa sullo sviluppo economico e sul miglioramento delle
condizioni di vita della popolazione.
L’elevata e prolungata crescita economica di cui la Cina ha beneficiato le ha permesso di
dimezzare, fra il 1990 e il 2003, la popolazione in condizione di povertà da 377 a 173
milioni di individui, anche per merito del trasferimento di grandi masse di lavoratori da
occupazioni agricole nelle regioni interne verso l’occupazione industriale e terziaria nelle
grandi aree metropolitane (Chiarlone e Armighini, 2007). Inoltre, la maggior parte delle
famiglie urbane cinesi è dotata di tutta una serie di elettrodomestici, mentre segno dei
tempi, la dotazione di biciclette è diminuita (Imperato, 2003).
Secondo stime pubblicate nei working papers del FMI (http://www.imf.org) la crescita
della produttività del lavoro registrata in Cina (17% annuo fra il 1995 e il 2002) è dovuta
prevalentemente alla ristrutturazione e al ridimensionamento delle imprese statali e
all’aumento del numero e del peso di quelle private.
Nel 1992, il Congresso del Partito comunista cinese ha formalmente riconosciuto che
l’economia di mercato non è incompatibile con il socialismo e confermato la liceità della
proprietà privata nel settore industriale, ponendo le basi per la privatizzazione e la
quotazione in borsa di molte imprese di Stato e per la nascita di molte imprese private
(Chiarlone e Armighini, 2007; Zeng e Williamson, 2005).
Nell’autunno dello stesso anno il quattordicesimo congresso del partito definisce un
nuovo obiettivo per le riforme: “l’economia socialista di mercato” (Lemoine, 2005).
Elemento centrale di queste nuove riforme è la promulgazione della Corporate Lawviii
e il
contestuale riconoscimento della contabilità della proprietà privata con gli ideali del
socialismo (Lieberthal e Lieberthal, 2005). L’apertura alla proprietà privata ha creato il
supporto per un forte aumento della natalità di imprese private e per la privatizzazione di
molte imprese pubbliche attraverso la vendita al mercato di quote azionarie.
I frutti della “politica della porta aperta“ del 1984 non tardano ad arrivare, infatti le fasi
di espansione degli anni novanta sono trainate soprattutto da un forte aumento delle
esportazioni e dell’investimento concentrato nel settore immobiliare e nell’industria
manifatturiera, mentre rimane molto basso il contributo dei consumi privati (Armighini e
Chiarlone, 2005). Una crescita guidata principalmente dagli investimenti e dalla domanda
estera non indica un diffuso migliorante del benessere nazionale poiché non comporta un
generale miglioramento della capacità d’acquisto del paese e questo rappresenta un
aspetto molto importante che riprenderemo in seguito.
Dal 1995 la politica del governo nei confronti delle imprese pubbliche consiste nello
“sbarazzarsi delle piccole imprese, e riprendere in mano le grandi” (Lemoine, 2005), la
privatizzazione delle piccole imprese viene effettuata su impulso delle autorità locali, alla
fine del 1999 circa la metà di esse sono trasformate in società (Zhang, 2005).
Tuttavia, nel corso degli anni novanta il peggioramento delle perfomance delle imprese
industriali pubbliche mostra come le riforme hanno avuto effetti deludentiix
. Nonostante
possano usufruire di una adeguata dotazione di capitale e di manodopera più qualificata,
esse hanno una produttività più bassa delle imprese private (Lardy, 1998). Nel 1998 quasi
la metà delle imprese pubbliche si ritrovano in perdita e sopravvivevano/sopravvivono
esclusivamente grazie a credito bancario, sovvenzioni fiscali e differimenti di imposta
(Ibidem).
Questo spinge i vertici comunisti a formulare l’ennesima riforma nei riguardi delle
imprese pubbliche, con la decisione di concentrare la loro attenzione solo sulle 196
maggiori imprese statali con attività superiori a 6.900 miliardi di Yuan renminbi, con
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l’obiettivo di creare 30 grandi gruppi di rilevanza internazionale per mezzo di fusioni e
acquisizioni e vendite sul mercato (Chiarlone e Armighini, 2007; Lemoine, 2005).
Questa decisione aggiunta all’adesione della Cina nell’Organizzazione Mondiale per il
Commercio (OMC)x nel 2001 (http://www.time.com) hanno contribuito ad aumentare
considerevolmente la quota di imprese private. Infatti, la State Administration of Industry
and Commerce (http://www.saic.gov.cn) riporta che il numero di imprese private
registrate è passato da poco più di 100.000 nel 1990 a oltre 3milioni nel 2003,
rappresentando oltre il 70% del totale.
Nel 2005 il numero di imprese controllate dallo Stato è fortemente diminuito, da circa
300.000 a circa 150.000 in seguito proprio alla chiusura di molte imprese o/e a processi
di consolidamento (Chiarlone e Armighini, 2007). Inoltre nel 2004 gli investimenti
hanno continuato a crescere a tassi superiori al 15%, con evidenti segnali di
surriscaldamento in molti settori (Chiarlone e Armighini, 2005). Mentre, come negli anni
ottanta, i consumi privati sono cresciuti a tassi pari a poco più della metà degli
investimenti. La motivazione di questa lenta crescita dei consumi va ricercata proprio
nella mancanza di un sistema di welfare adeguato e generalizzato e nel forte aumento dei
prezzi di molti servizi sociali, che hanno spinto in alto il risparmio cinese, per motivi
precauzionali e/o assicurativi (Targetti, 2006).
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Il ritorno del celeste impero
Il principale fattore di rilancio economico della Cina è stato di tipo istituzionale,
favorendo un andamento del Prodotto interno lordo negli ultimi trent’anni
impressionante.
Grafico nr. 3
Fonte: International Monetary Fund & The Istitute for International Finance
Fonte: dato 2006 http://www.bollettinocina.it
Fonte: dato 2007 Finanzaonline.com
Riassumendo i paragrafi precedenti possiamo individuare due grandi forze propulsive:
1. l’apertura al resto del mondo, sia al commercio internazionale che agli
investimenti diretti esteri (Lieberthal e Lieberthal, 2005; http://www.imf.org);
2. un vasto e graduale programma di riforme strutturali che ha posto le basi per la
nascita di un sistema produttivo privato. Esso ha progressivamente affiancato
l’industria di Stato fino a superarla, per numero di occupati, per produttività e per
valore aggiunto (Chiarlone e Armighini, 2007).
Per quanto riguarda la prima forza propulsiva, osservando le componenti del Pil dal lato
della domanda, è evidente che la domanda estera, cioè le esportazioni verso il resto del
mondo, ha giocato un ruolo fondamentale per la sua crescita in questi ultimi anni,
sebbene le esportazioni nette abbiano spesso avuto un impatto limitato sul tasso di
crescita reale di Pil per il contestuale aumento delle importazioni (Lemoine, 2005).
Grafico nr.5
Fonte: International Monetary Fund (anno di riferimento 2005).
0
5
10
15
20
19
78
19
81
19
84
19
87
19
90
19
93
19
96
19
99
20
02
20
05
Tasso di crescita del Pil (valori espressi in %)
9,9
19,7 17,9
Pil Esportazioni di beni e servizi
Importazioni di beni e servizi
Tasso di crescita del Pil reale e delle sue componenti
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Fra il 1978 e il 2005 le esportazioni della Cina sono aumentate da 10 a 762 miliardi di
dollari e le importazioni da 11 a 628 miliardi di dollari (http://www.saic.gov.cn).
Il peso del commercio estero sul Pil è più che quadruplicato: le esportazioni ne
rappresentavano il 6,8 per cento nel 1978 e ne valgono il 34,4% nel 2005; per le
importazioni questi pesi passano dal 7,4 al 28,3% nel medesimo periodo (Chiarlone e
Armighini, 2007).
Mentre per quanto riguarda la seconda forza propulsiva dello sviluppo cinese, potrebbe
stupire che un successo così rapido sia stato possibile sebbene l’approccio cinese alle
riforme economiche sia stato caratterizzato da un accentuato gradualismo e dalla
mancanza di un piano di azione dettagliato a priori; al contrario, l’accentuato
gradualismo è stato una delle chiavi di successo delle riforme.
Ciò dipende dal fatto che le riforme sono state applicate su base sperimentale in alcune
località, per poi essere estese in tutto il paese dopo averne verificata l’efficacia e corretto
gli effetti indesiderati (Lemoine, 2005).
L’insieme delle riforme commerciali ha profondamente trasformato il modello di
specializzazione cinese in direzione dei beni nei quali il paese gode di un vantaggio
comparato a livello internazionale, cioè quelli intensivi in lavoro non o poco qualificato,
incluse le fasi produttive standardizzate e/o ad alta intensità di lavoro nel settore
dell’elettronica di consumo o degli elettrodomestici (Weber, 2005).
La forza della Cina nei prodotti intensivi in lavoro non qualificato dipende dal sua
vantaggio di costo, collegato all’abbondanza di forza lavoro che consente alle imprese di
questo paese di aumentare le proprie quote internazionali, oltre che dal fatto che molte
società straniere utilizzano la Cina come base produttiva o di assemblaggio (Chiarlone e
Armighini, 2007).
Un interessante particolare è che sebbene la presenza di investitori esteri sia elevata sia
nel settore delle tecnologie (TIC) che in quello dei veicoli, la Cina è competitiva
soprattutto nel primo (Ibidem). Questo potrebbe dipendere dal fatto che nel settore TIC la
strategia di industrializzazione cinese è basata sulla liberalizzazione del mercato senza
particolari protezioni per le imprese nazionali (http://www.imf.org).
Tabella nr.2
Peso dei settori nel PIL cinese (percentuale)
Agricoltura Industria Servizi 1978 28,1 48,2 23,7
1980 30,1 48,5 21,4
1985 28,4 43,1 28,5
1990 27 41,6 31,3
1995 19,8 47,2 33,1
2000 14,8 45,9 39,3
2005 12,5 47,5 40,3
Fonte: Datastream
Valutando la tabella qui sopra riportata, possiamo vedere come in trent’anni il peso
dell’industria sia rimasto tutto sommato stabile, mentre si è dimezzato il peso
dell’agricoltura sul Pil totale, me nel frattempo è quasi raddoppiato il peso dei servizi, in
particolare privati; si pensi che secondo le stime effettuate nel 1998 dal China Statistical
Yearbook (2002) il settore non statale produce circa il 60% del prodotto interno lordo e
sempre secondo i dati del 2001 il settore non statale impiega la stragrande maggioranza
della popolazione urbana (Lemoine, 2005).
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
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Infine, all’evoluzione e alla crescita delle maggiori imprese cinesi ha fatto seguito
l’aumento degli investimenti diretti all’estero delle imprese cinesi (http://www.imf.org).
Fra le motivazioni più specifiche degli investimenti cinesi in altri paesi in via di sviluppo
vi è la necessità di instaurare collegamenti diretti con importanti fornitori di risorse
naturali (pensiamo agli oltre 8miliardi di dollari al Congo).
Il comportamento dell’offerta di lavoro
Riprendendo le considerazioni fatte nella parte introduttiva di questa tesina, dal 1953 la
transizione demografica comporta un considerevole aumento della popolazione in età
lavorativa (16-64), che passa dai 350milioni di allora agli 744milioni del 2000 e con un
tasso di occupazione che passa dal 59 al 70% (www.friedlnet.com). Secondo le stime
della China Statistical Yearbook (www.friedlnet.com), questa evoluzione ha costituito
un fattore positivo per la crescita economica poiché ha creato manodopera in abbondanza
(la popolazione attiva è aumentata in media di 11milioni all’anno).
Tabella nr. 3
Occupazione (milioni di persone)
1980 1990 1995 2000 2003 Occupazione urbana 105 170 190 231 256 Imprese pubbliche 80 103 112 81 70 Soe 67 73 76 43 35 Imprese collettive 24 35 31 15 10 Imprese a
responsabilità limitata e
per azioni
0 1 4 13 18
Imprese straniere 0 1 5 6 8 Imprese private 1 7 20 34 45 Altre* 0 23 17 81 97
Occupazione rurale 318 477 490 490 488 Township and village
enterprises 30 92 128 128 132
Lavoratori in proprio n.d. 15 30 30 25 Agricoltori 288 368 326 320 318
*La categoria dipende dalla differenza fra le statistiche sull'occupazione e quelle sull'occupazione per
tipologia d'impresa che sottostima sensibilmente l'occupazione privata.
Fonte: International Monetary Fund (2004).
La tabella nr.3 mostra la composizione in valori assoluti della forza lavoro dal 1980 al
2003. Se da una parte è raddoppiata in poco più di vent’anni l’occupazione urbana, la
stragrande maggioranza degli occupati sono rurali, di questi la maggioranza sono
agricoltori. Eppure, dal 1978 al 2001 il settore che assorbe la maggior parte dell’aumento
della popolazione attiva, circa la metà, è quello dei servizi, mentre agricoltura e industria
si ripartiscono equamente la rimanente metà (www.friedlnet.com).
Sempre secondo le stime della China Statistical Yearbook, nel 2001 ci sono 365milioni
attivi recensiti nell’agricoltura, 202milioni nei servizi e 165 nell’industria (che
comprende anche l’edilizia).
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 14
E’ mia opinione che tuttavia questi dati vanno presi con cautela in quanto possano
presentare errori statisticamente rilevanti. Nelle ricerche della China Statistical Yearbook
non sono compresi circa 200milioni di persone, sono soggetti che passando dalla
campagna alla città vanno ad ingrossare la sottooccupazione e mantengono il salario
cinese vicino al livello di sussistenza (Imparato, 2000). Duecento milioni di persone sono
tante! Praticamente la metà di tutta la popolazione europea.
Se stimare l’occupazione risulta complicato, ancora più difficile risulta studiare la
disoccupazione.
Grafico nr.4
Fonte: http://www.indexmundi.com
Sebbene il tasso di disoccupazione urbano ufficiale compreso fra il 3 e il 4,5%
rappresenti una situazione del tutto sostenibile, tuttavia esso sottostima le vere
dimensioni del fenomeno poiché (Weber, 2005):
1. la disoccupazione ufficialmente è poco affidabile, anche perché la definizione di
“disoccupazione” adottata dalle autorità è assai restrittiva;
2. non considera molti lavoratori fuoriusciti dalle imprese pubbliche ma
formalmente inseriti in programmi di riqualificazione, nascondendo profonde
differenze regionali.
Inoltre, in Cina esistono oggi diverse categorie di persone senza lavoro, trattate tra loro in
modo differente (a differenti categorie continuano ad essere erogate differenti
prestazioni: solo alcuni godono d’assistenza sociale). Questo contribuisce ad evitare che
si formi un gruppo sociale coeso, che condivida le stesse rivendicazioni e possa risultare
socialmente destabilizzante.
Vi sono diversi modi per indicare le categorie di disoccupati. Per esempio, il termine
disoccupati urbani che usa l’ufficio statistico di Pechino, non include i cosiddetti laid-off
workers, cioè i lavoratori dismessi dalle imprese di Stato, ma che mantengono alcuni
benefici dall’azienda d’appartenenza (Weber, 2005 pag.149). Sono una categoria
relativamente privilegiata che riceve un sussidio base e l’assistenza sanitaria.
Secondo “The Economist” (21 agosto 2004) sono almeno 15milioni di disoccupati nelle
grandi città e 150milioni i disoccupati o sottoccupati nelle campagne (Weber, 2005). Se
fosse vero, il tasso di disoccupazione si aggirerebbe intorno all’otto per cento, il doppio
di quello ufficiale.
2004 2005 20062007
10,1 9,89
4,2
Tasso di disoccupazione
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 15
Mercato internazionale
Torniamo alle considerazioni fatte all’inizio di questo paragrafo, quando abbiamo parlato
del ruolo del commercio internazionale come principale forza propulsiva dello sviluppo
cinese.
Nel 1978, all’inizio del processo di riforme, era raro trovare all’estero beni prodotti in
Cina, il paese praticava una politica di sostituzione delle importazioni a vantaggio dei
prodotti nazionali finalizzata a favorire una rapida industrializzazione (Chiarlone e
Armighini, 2007).
Tabella nr.4
Tasso di crescita delle esportazioni e importazioni
Prezzi costanti, percentuali. 1980-88 1990-99 2000-05
Esportazioni di beni e servizi 18,8 14 20,5 Importazioni di beni e servizi 18,6 12,7 22
Fonte: International Monetary Fund & The Istitute for International Finance
Oggi la Cina è il terzo esportatore del mondo dopo Usa e Germania e gli scambi hanno
assunto un’importanza sempre maggiore nell’economia.
La lavorazione di prodotti destinati all’esportazione e la concorrenza sui mercati
internazionali hanno favorito l’acquisizione di competenze e conoscenze che hanno
accresciuto la produttività delle imprese cinesi. Il contestuale afflusso di investimenti
diretti all’estero e la trasformazione del paese in una base manifatturiera globale, la
cosiddetta “fabbrica del mondo”, ha attivato un meccanismo di learning by doingxi che ha
favorito il rapido avanzamento del modello industriale cinese verso produzioni più
complesse e un ulteriore aumento delle esportazioni e importazioni legate alla
frammentazione internazionale della produzione.
Una quota rilevante delle sue esportazioni da un lato rappresenta il frutto di lavorazioni
successive di beni importanti, dall’altro dipende soprattutto dall’attività di imprese
straniere ivi localizzate. Esse rappresentano oltre il 50% delle esportazioni e delle
importazioni in Cina (Chiarlone e Armighini, 2005; http://www.saic.gov.cn).
L’industria manifatturiera è stata protagonista indiscussa di questa riposizionamento
nell’economia internazionale: oggi rappresenta oltre il 95% delle esportazioni totali
cinesi, rispetto al 50% del 1980, quando gran parte delle esportazioni proveniva ancora
dal settore primario (Lemoine, 2005).
Anche la composizione delle esportazioni manifatturiere è profondamente cambiata
(Weber, 2005):
tra il 1978 e il 1983 l’aumento delle esportazioni si è concentrato nel settore
dell’abbigliamento, prima di soli semilavorati e poi anche di prodotti finiti;
tra il 1984 e il 1988 si sono rafforzati i vantaggi comparati cinesi in settori
industriali come giocattoli, articoli sportivi, elettronica di consumo, prodotti
elettronici;
infine dall’inizio degli anni novanta le esportazioni si sono diversificate verso
beni intermedi, soprattutto nei settori elettronico ed elettrico, che dal 2001 hanno
superato il tessile-abbigliamento come maggiore categoria esportata.
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 16
L’aumento delle quote nei settori tecnologicamente più avanzati dipende dalla
frammentazione produttiva internazionale che ha favorito l’integrazione delle imprese
cinesi lungo le catene internazionali del lavoro. L’economia cinese in questo settore, è
stata trainata soprattutto dalle imprese estere che hanno trasferito in Cina le fasi più
standardizzate della loro produzione, contribuendo ad accrescere la capacità esortativa
del paese in settori nei quali altrimenti non sarebbe stato presente.
I drivers di questa performance sono molteplici (Weber, 2005):
da un lato, ha giocato un ruolo cruciale la politica di incentivazione che ha spinto
le imprese straniere a investimenti finalizzati a sfruttare la possibilità di
outsourcing;
dall’altro la dimensione del mercato di consumo e la crescita economica hanno
spinto molte imprese a localizzarsi in Cina con modalità market seeking xii
.
Solo marginalmente le multinazionali ad alta tecnologia stabiliscono in Cina centri di
ricerca e sviluppo, grazie all’ampia disponibilità di laureati di buon livello a basso costo
(http://www.time.com). Nei mercati dell’OCSE la Cina ha un vantaggio comparato, fra
gli altri, nelle esportazioni di calzature, abbigliamento, tessile, arredamento e idraulica,
come si deduce dal fatto che l’indice di Balassaxiii
(metti riferimento) di questi settori è
maggiore di uno, ovvero proprio dei beni che usano intensivamente manodopera non
qualificata (Lieberthal e Lieberthal, 2005).
Tutto ciò suggerisce che sono destinate ad aumentare fortemente solo le quote
internazionali della Cina nei settori in cui ha un vantaggio comparato, cioè una
produttività relativa superiore. Si tratta di quei settori che usano in modo intensivo fattori
produttivi dei quali la Cina è ampiamente dotata, cioè per il momento i settori intensivi in
manodopera non qualificata.
La produzione cinese tende a essere tuttora focalizzata su beni caratterizzati da basso
prezzo e bassa qualità, sebbene abbia registrato negli ultimi anni un vantaggio nei settori
tecnologicamente più avanzati (apparecchi radiotelevisivi, sonori, elettrodomestici,
macchinari elettrici).
Queste specializzazioni, apparentemente poco coerenti con la definizione di “fabbrica del
mondo”, si spiegano facilmente. In questi settori la specializzazione cinese tende ad
essere focalizzata su beni a basso contenuto di valore aggiunto e basati su tecnologie
prevalentemente mature, mentre il paese continua a importare l’elettronica maggiormente
ricca in conoscenza innovativa (Ibidem; Chiarlone e Armighini, 2007).
La spiegazione di tale apparente contraddizione è ancora più evidente laddove si
consideri che si tratta di settori caratterizzati da un’elevata frammentazione produttiva.
Sono settori nei quali la produzione può essere scomposta in fasi: ciascuna fase viene
localizzata laddove i fattori necessari sono relativamente più abbondanti e quindi meno
costosi.
Il vantaggio comparato cinese in questi settori potrebbe dipendere proprio dal fatto che
grandi imprese multinazionali hanno localizzato in Cina le fasi maggiormente intensive
in lavori non qualificati, tramite investimenti diretti e contratti di subfornitura. Anche i
prodotti dei settori tecnologicamente più avanzati richiedono fasi di assemblaggio a
elevato utilizzo di manodopera non qualificata (Weber, 2005; http://www.time.com).
La conseguenza è che la Cina risulta specializzata in settori ad alta tecnologia, ma vi
contribuisce solo nelle fasi intensive di manodopera non qualificata e meno ricche di
valore aggiunto!
Tali considerazioni sono corroborate: secondo i dati dell’ International Monetary Fund i
flussi commerciali scomposti per destinazione economica mostrano che il 95% delle
importazioni cinesi è costituito da beni intermedi, beni capitali e materie prime. Il loro
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 17
peso nelle esportazioni della Cina è ben più limitato, dato che una quota superiore al 32%
è costituita da beni di consumo, mentre gli intermedi e beni di capitale pesano per il
64,4% (http://www.imf.org/). In molti settori le imprese cinesi non fanno altro che
importare componenti, compiere alcune fasi di lavorazione ed esportare beni finali o
semilavorati.
Ciò impone di guardare in un’ottica differente le esportazioni della Cina: una parte
rilevante delle esportazioni che a livello doganale risultano cinesi in realtà sono
espressione di entità straniere operanti in Cina (Lieberthal e Lieberthal, 2005).
Pertanto, nel caso dell’esportazione cinese di abbigliamento/tessuti il ruolo
dell’imitazione tecnologica è fondamentale, mentre incide molto poco per quanto
riguarda i settori più avanzati. In questi la Cina svolge più il ruolo di gregario alla
produzione dei prodotti che di imitatore.
Infine, Chiarlone e Armighini (2005) valutando il modello di specializzazione cinese, si
chiedono quanti prodotti cinesi esportati ogni anno sui mercati occidentali servono per
poter sostenere il costo delle importazioni costituite da altrettanti prodotti, ma più costosi
e a più elevato valore aggiunto. Per farsi un’idea ci si potrebbe chiedere quanti miliardi di
magliette occorre esportare per pagare il costo dell’importazione di un aeroplano di
linea?
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 18
Il modello di crescita cinese
La descrizione storica fatta nei paragrafi precedenti è indispensabile per capire il modello
di sviluppo cinese. Possiamo sintetizzare che le riforme economiche degli anni ’80 si
sono basate su ristrutturazione delle imprese pubbliche, basso costo del lavoro mantenuto
tale dalla immigrazione di lavoratori dalle campagne alle città, alto tasso di risparmio e
apertura al mercato internazionale.
Si potrebbe dire che almeno fino alla metà degli anni novanta è stato un modello di
crescita dualistico alla Lewis inserito nel mercato aperto dell’attuale fase di
globalizzazione.
Gli effetti di questa politica sono stati (Targetti, 2006):
da un lato un elevatissimo tasso di investimento che ha determinato uno
straordinario tasso di crescita;
Il modello di sviluppo dualistico proposto da Lewis (1954).
Le due ipotesi fondamentali del modello sono un’offerta di lavoro “illimitata”
e il risparmio che determina gli investimenti. L’assunzione d’offerta illimitata
di lavoro discende da una catena di ipotesi che parte dal dualismo agricoltura-
industria.
Nella società tradizionale l’ordine sociale è assicurato perché nessuno viene
escluso né dalla distribuzione del reddito né dal lavoro, anche a prescindere
dal reale contributo produttivo. Dall’agricoltura potrebbe essere estratta una
quantità di lavoro da destinare ad altri impieghi, senza che la produzione
agricola totale subisca riduzioni significative.
Se ad un certo punto a questo mondo tradizionale si accosta un embrione di
moderna industria capitalistica, nella quale vige il principio di “pagare solo
ciò che è produttivo”, il settore agricolo tradizionale sarà visto come un
settore a produttività marginale del lavoro nulla (la produzione agricola totale
non cambia con la riduzione di una unità di lavoro impiegato). Esiste allora
una riserva di lavoro che può essere considerata disoccupazione nascosta, è
nascosta perché il lavoratore agricolo marginale è in realtà impiegato in
un’attività produttiva.
Se egli si trasferisce dall’agricoltura all’industria a parità di salario,
personalmente non guadagna e non perde nulla. Mentre il sistema economico
nel suo insieme guadagna qualcosa e precisamente l’intera sua produttività
marginale che nell’industria è positiva e non nulla come nell’agricoltura.
Questo guadagno, a patto che non si risolva in un aumento dei consumi, può
trasformarsi interamente in risparmi e quindi in investimenti produttivi. Se
quindi accanto al settore agricolo tradizionale, dove vige il principio “da
ciascuno secondo le sue possibilità”, cresce l’industria capitalista dove invece
vige il principio “salario uguale produttività marginale”, il trasferimento di
lavoratori dal primo settore al secondo a parità di salario può costituire un
fattore importante di sviluppo.
Il guadagno netto di produttività nel sistema può in effetti essere interamente
percepito sotto forma di profitti perché la grande offerta di lavoro disponibile
per l’industria può mantenere i salari reali ancorati ai livelli della produttività
agricola pro-capite.
Seravalli e Boggio, 2003 pg. 109-110.
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 19
dall’altro un elevato tasso di risparmio ed un’elevata competitività del prezzo che
hanno determinato un forte attivo commerciale e crescenti riserve valutarie che
hanno raggiunto i 1000 miliardi di dollari.
Un grande merito di questo modello è quello di aver fatto fuoriuscire dalla soglia della
povertà centinaia di milioni di cinesi, dal 1978 al 1999 il numero di cinesi che si
collocano sotto la soglia della povertà, calcolata come un dollaro al giorno a parità di
poteri d’acquisto, è passato da 600 a 34 milioni (Dollar, 2005).
In secondo piano, l’altro merito del modello è stato quello di aver fatto assumere alla
Cina un posto tra le grandi potenze economiche del mondo, un posto che per 2000 anni
aveva mantenuto e che aveva perso nel xix secolo con l’avvio della rivoluzione
industriale in Europa (Viola, 200b; Targetti, 2006).
All’interno del modello di crescita cinese si ritrovano gli ingredienti tipici dei cicli di
natura keynesianaxiv
, laddove l’iperinvestimento porta ad alta capacità produttiva
inutilizzata e a conseguente riduzione degli investimenti e inversione del ciclo.
La corsa cinese essendo molto rapida rischia che la sua frenata sia altrettanto brusca. Per
comprendere il meccanismo dell’iperinvestimento cinese, un’importante considerazione
ci viene dalla Banca Mondiale (http://www.worldbank.org). In Cina la quota di reddito
nazionale risparmiata nel 2006 è altissima, più del 40%: la fonte principale di tale
risparmio sono le imprese con più del 20%, seguono le famiglie con più del 15% e anche
il governo risparmia (surplus di bilancio) con il 5%.
Secondo l’Economist (del 29 luglio “Dividends in China” 2006) la ragione risiede nel
retaggio storico della riforma degli anni ’80: a quell’epoca le imprese statali dovevano
usare i profitti per ristrutturarsi e i profitti erano magri. Oggi almeno parte di quelle
imprese si sono ristrutturate e i profitti sono molto alti (nel 2005 le 169 imprese maggiori
hanno ottenuto 75 miliardi di dollari di utili), ma continuano ad essere trattenuti dalle
imprese.
Con la riforma del 1994 le imprese cinesi sono tenute a pagare il 33% dell’utile (le
imprese straniere in partnership circa la metà) sotto forma di imposta (Chiarlone e
Armighini, 2007). Tutto il resto non è distribuito come dividendo, ma trattenuto e
reinvestito, non stupisce quindi che la quota di investimenti fissi sia molto elevata
(secondo l’Economist si aggira sul 40% del Pil).
Secondo Targetti (2006) la disponibilità amplissima di risparmio attraverso il
reinvestimento degli utili e il credito facile ha portato ad un incremento degli
investimenti anche quando la redditività degli investimenti stessi non giustificava la loro
attuazione.
Domar parte dal problema Keynesiano di eliminare l’eccesso di capacità
produttiva rispetto alla domanda, secondo Keynes per ottenere la piena
occupazione della capacità produttiva occorre generare un investimento
adeguato. La formulazione di Domar sottolinea tuttavia che esiste un
duplice ruolo dell’investimento: da un lato, esso contribuisce a formare la
domanda aggregata e quindi, nel presente a occupare la capacità
produttiva esistente; ma, dall’altra, aumenta successivamente la capacità
produttiva stessa e tende a riproporre (nel futuro e continuamente) il
problema keynesiano.
Seravalli e Boggio, 2003.
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 20
Dalla metà degli anni novanta ad oggi ritengo che il modello di Lewis sia incompleto per
spiegare lo sviluppo cinese. Il ruolo del mercato internazionale e in particolare la
domanda estera è fondamentale per l’economia cinese, abbiamo visto infatti il suo ruolo
di gregario nel mercato mondiale della microelettronica e di leader in assoluto in
determinati settori, come per esempio il tessile. In quest’ultimo caso, è mia opinione che
il comportamento della Cina possa rientrare nelle teorie evoluzionistiche: è stata la più
adatta, spazzando via le dirette concorrenti (che praticamente si sono estinte nel mercato
oppure hanno abbassato i propri diritti e salari verso quelli cinesi, giocando sul formale e
informale, Prato docet!) nel conquistarsi intere fette di mercato internazionale.
Molti paesi nel nuovo mercato globale hanno perso interi settori industriali; non sono
sopravissuti perché non capaci di adattarsi alle nuove esigenze del mercato, così come
nelle specie biologiche la Cina è stata la più brava ad adattarsi.
Tuttavia, non credo che tale competitività internazionale cinese si giochi esclusivamente
sul prezzo tramite un contenimento dei costi. Qui riprendo le considerazioni di Kaldor il
quale, contraddicendo i modelli tradizionali, formula un modello nel quale dimostra che
nel lungo periodo quote di mercato crescenti si accompagnano a prezzi crescenti
(Seravalli e Boggio, 2003).
Un fattore di crescita nel modello di Kaldor è la domanda di beni e servizi, in particolare
la sua componente autonoma delle esportazioni, introducendo alla base della crescita
delle esportazioni fattori di competitività non di prezzo (Ibidem). Qui rientrano, più che
le differenze nelle capacità tecnologiche, considerazioni nei processi organizzativi, in
particolare non è sicuramente facile svolgere il compito di assemblaggio su scala globale:
richiede infatti elevatissimi livelli di specializzazioni; che poi questi compiti vengano
fatte da manovalanza non-qualificata non sminuisce il ruolo strategico della Cina.
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 21
Una crescita insostenibile
Riprendendo le affermazioni fatte nell’introduzione, discutiamo in questo paragrafo forse
l’aspetto centrale della nostra tesina, cioè i principali problemi presenti in Cina.
Va precisato che l’obiettivo dichiarato del governo è stato il miglioramento del sistema
economico, senza mettere in discussione lo status quo politico. Anche se tale argomento
esula dal tema della tesina, non si può non segnalare che è impellente per il governo
cinese la necessità di mantenere tassi di crescita elevati. Infatti una crescita elevata è
necessaria per garantire una continua riduzione della povertà e l’assorbimento della
sottoccupazione rurale e della disoccupazione urbana.
Se l’instabilità economica dello sviluppo evidenziata dalla difficoltà di mantenere nel
tempo il tasso di crescita garantito, si può ritenere un problema minore, la sua instabilità
sociale è un problema effettivamente presente e grave. Come abbiamo già detto la Cina è
un paese povero, vi sono gravi squilibri nel divario tra ricchi e poveri (acuta
polarizzazione) che hanno raggiunto livelli da America Latina. Il 10% più povero della
popolazione cinese ha una quota del 1,8% del reddito nazionale, mentre il 10% più ricco
ha una quota del 33% (Targetti, 2006).
Gli elevati tassi di crescita registrati nell’ex-celeste Impero dall’inizio del nuovo
millennio e il fatto che essi dipendano soprattutto dagli investimenti (molto più che dalla
spesa per consumi) fanno temere che il paese possa aver imboccato un sentiero
pericoloso, cioè che questa crescita miracolosa possa avere alimentato un’enorme bolla
speculativa che potrebbe sfociare in un crollo rovinoso (Chiarlone e Armighini, 2007)
non dissimile da quello che ha colpito buona parte dell’Asia sud-orientale nella seconda
metà degli anni novanta.
La motivazione delle ripercussioni globali nella crisi cinese, dipende dal fatto che un suo
brusco rallentamento nell’economia potrebbe causare una minor domanda cinese di titoli
americani (Targetti, 2006; Lieberthal e Lieberthal, 2005). Un aumento dei tassi di
interesse americani potrebbe incidere sulla crescita degli Usa e il deprezzamento del
dollaro comporterebbe un rallentamento sulla crescita europea.
Aver mantenuto in vita il sistema delle imprese pubbliche ha lasciato al governo un
rilevante ruolo economico (Chiarlone e Armighini, 2007):
da un lato esso ha sussidiato le più deboli per non farle fallirexv
;
dall’altro ha continuato a sostenere con una serie di aiuti le più grandi e
importanti.
Molte delle imprese pubbliche hanno il dominio o il monopolio dei rispettivi comparti
industriali; nel 2002 le 196 più grandi imprese hanno generato il 64% dei profitti totali
delle imprese di Stato cinese (Zhang, 2005). Tuttavia, la metà di tutte le imprese
pubbliche cinesi hanno ancora un retaggio di economie pianificate, con scarsa
profittabilità ed elevata fragilità finanziaria.
Fra il 1998 e il 2000 hanno avuto luogo, in media, 100-200 bancarotte di imprese statali
all’anno (Ibidem; Chiarlone e Armighini, 2005): un numero insignificante rispetto al
totale di imprese pubbliche. Questo fenomeno sembra dipendere proprio dall’alto costo
sociale dei fallimenti, collegati al peso che essi potrebbero avere sull’occupazione.
La quota media di dipendenti pubblici nell’intera economia nazionale è pari a circa il 5%
nei paesi sviluppati e al 10% nei paesi in via di sviluppo, mentre in Cina si attesta su
valori che raggiungono ancora il 30% al termine del decimo Piano Quinquennale 2001-
2005 (Zhang, 2005).
L’alto costo sociale induce a mantenere in vita imprese tecnicamente fallite spingendo il
sistema bancario (con pressioni politiche) a continuare a finanziarle. Per fare un paragone
con il caso italiano, in Cina sono presenti centinaia di Alitalia sull’orlo della bancarotta.
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 22
Sostenere la crescita delle imprese private e la ristrutturazione di quelle pubbliche è un
compito che ricade prevalentemente sul sistema bancario. Tuttavia, esso non sembra aver
operato in questa direzione per la sua riluttanza a finanziare le imprese private in misura
adeguata al loro peso nel settore industriale (Imparato, 2003; Lemoine, 2005). Questa
inefficienza allocativa genera un rischio di tipo industriale, ovvero che il sistema
bancario non finanzi la crescita delle imprese più promettenti ma di quelle con maggiori
legami con il sistema politico, rallentando la modernizzazione del sistema economico.
L’eccesso di investimento in settori fra cui quello automobilistico, dell’allumino, del
ferro e del cemento ha creato, oltre a gravi problemi di inquinamento, un pericoloso
eccesso di capacità produttiva e molte tensioni sulla disponibilità e sul costo delle materie
prime (Weber, 2005). Infatti, per sostenere la crescita economica, la Cina necessita di
quantitativi sempre maggiori di materie prime che in molti casi non possono essere
reperiti in territorio cinese.
Infine, oltre ai problemi dell’instabilità economica, si aggiungono problemi di
sostenibilità della sanità pubblica e di insufficienze nella fornitura di servizi sociali.
Durante il primo trentennio del regime comunista viene data la priorità alle misure di
sanità pubblica, alla prevenzione e ad una larga diffusione delle cure mediche di base. I
progressi fatti registrare in trenta anni nel campo della sanità sono sorprendenti: tra il
1950 e il 1980 la speranza di vita passa da 40 a 66 anni; la mortalità infantile crolla del
40% (Lemoine, 2005). Tuttavia, con la sparizione delle comuni popolari si assiste alla
disintegrazione del sistema di cooperative mediche. La disuguaglianza nell’accesso alle
cure, preesistente alle riforme, è notevolmente aumentata; ciò è avvenuto in particolare
per quanto riguarda il divario tra famiglie rurali e famiglie urbane e tra regioni povere e
ricche (Ibidem; Imparato, 2003). La maggior parte delle spese mediche è a carico dei
pazienti, proprio quando si assiste ad un aumento significativo del costo dei trattamenti;
inoltre il sistema sanitario è una delle principali vittime dei crescenti deficit di bilancio.
Le tasse riscosse dal governo corrispondono solo al 18% del Pil: in vent’anni la quota
della spesa sanitaria coperta dal governo centrale s’è all’incirca dimezzata, il governo
centrale copre meno del 40% delle spese complessive per la salute (Weber, 2005).
In Cina i servizi sociali sono sempre stati erogati dalle imprese pubbliche: la loro
progressiva scomparsa ha comportato per molti la perdita di ogni beneficio assistenziale
e previdenziale e della garanzia del posto di lavoro a vita senza che esistano sussidi di
disoccupazione, mentre i costi per l’istruzione dei figli e per le abitazioni sono aumentati
considerevolmente (Zhang, 2005). Per molti l’unica forma di risparmio è il deposito
bancario e il risparmio così accumulato si traduce in eccesso di liquidità per le banche.
La scarsità di finanziamenti per l’acquisto di beni durevoli contribuisce a esacerbare
questa situazione e a spiegare la debolezza dei consumi (Chiarlone e Armighini, 2007).
E’ evidente che, in assenza di un sistema di welfare universale (finanziato in parte con
fondi attualmente utilizzati per sostenere le imprese pubbliche), i consumi sono destinati
a rimanere deboli e la liquidità eccessiva.
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 23
Serve un welfare cinese
Sono necessarie nuove riforme economiche per favorire un’integrazione benigna
dell’economia sui mercati globali, caratterizzato da una presenza ancora forte di imprese
pubbliche inefficienti e da un peso eccessivo dell’industria rispetto ai servizi.
Indispensabili per l’apparato industriale un cambio di politica che introduca elementi di
ingegneria istituzionale (Seravalli e Boggio, 2003) fondati su meccanismi di controllo
messi in atto dallo Stato nei confronti delle imprese. Ciò rappresenterebbe un aspetto
importante ma attualmente irrealizzabile, in quanto significa scardinare il rapporto tra
dirigenti pubblici e politici.
Tuttavia, è sempre più necessario in Cina una politica di riequilibrio fra le componenti
della domanda e dell’offerta a favore dei consumi, per ridurre le pressioni
protezionistiche che provengono da resto del mondo (Targetti, 2006).
Inoltre, se la Cina vuole cambiare il proprio status di gregario del mercato internazionale,
deve fare investimenti a lungo termine in ricerca e sviluppo, probabilmente in settori che
attualmente non la riguardano. Per esempio, se vuole entrare nel mercato vero della
microelettronica i tempi richiesti sono lunghi, pensiamo alle memorie ram Samsung, si è
trattato di un percorso a tappe forzate che comunque ha richiesto complessivamente per
diciannove anni, dal 1975 al 1994, una forte determinazione strategica, elevati
investimenti ed uno sforzo organizzativo ed umano eccezionale (Seravalli e Boggio,
2003).
Mentre per contenere l’espansione degli attuali investimenti gli strumenti
macroeconomici tradizionali sono l’innalzamento dei saggi di interesse e la rivalutazione
della moneta. Tuttavia in Cina entrambi gli strumenti sono poco efficaci (Targetti, 2006):
i tassi di interesse sono stati recentemente aumentati di ¼ di punto e sono state
aumentate le riserve obbligatorie delle banche, ma il credito è erogato con criteri
non di mercato e le banche periferiche sono poco propense ad ascoltare le
direttive della banca centrale, volte a contenere l’espansione del credito, e più
propense ad ascoltare le autorità politiche locali, preoccupate di non trovarsi di
fronte ai gravi problemi sociali che deriverebbero da masse di immigrati dalle
campagne che perdono il lavoro;
la rivalutazione della moneta è la politica suggerita da Washington, ma le autorità
cinesi sono restie ad adottare la misura in dosi massicce per almeno due ragioni.
Innanzitutto perché ridurrebbe il valore delle riserve in dollari, in secondo luogo
perché impoverirebbe i contadini cinesi.
La strada che le autorità cinesi dovrebbero battere non è tanto quella monetaria ma quella
reale della modifica della composizione degli investimenti e in generale della domanda
aggregata.
Gli investimenti oggi si indirizzano nel settore industriale e nelle province ricche
costiere, si indirizzano poco verso l’interno del paese e poco verso i servizi di welfare.
Una strada per ridurre il tasso di investimento e di crescita e nel contempo per ridurre i
tassi di disuguaglianza potrebbe consistere in una maggiore distribuzione di dividendi
allo Stato e una maggior spesa pubblica dello Stato in spesa sociale.
I profitti delle imprese pubbliche cinesi sono il 170% della spesa in educazione e sanità:
basterebbe che un terzo dei profitti fosse ridistribuito e destinato a queste voci che queste
aumenterebbero del 50% (Targetti, 2006).
Inoltre, maggiori investimenti nei servizi alla persona potrebbero saturare una grossa
parte della disoccupazione urbana, come avviene nei paesi Scandinavi. Anche questo
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aspetto comunque rischia di restare un miraggio, significa licenziare numerosi insider per
favorire degli outsider (che onestamente incidono poco nelle scelte del comitato
centrale).
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Riflessioni conclusive
La corazzata rossa ha messo a punto una combinazione vincente: una manodopera
disciplinata e a basso costo, un’ampia gamma di personale qualificato, tasse e altri
incentivi per attrarre investimenti nonché adeguate infrastrutture per supportare l’operosa
rete manifatturiera e le esportazioni. Le riforme hanno cambiato la struttura proprietaria,
dimensionale e settoriale delle imprese cinesi: la forza lavoro si è spostata
dall’agricoltura verso l’industria e servizi e dal settore pubblico a quello privato, con un
impatto positivo sulla produttivitàxvi
.
Vorrei concludere questa breve tesina sottolineando come spesso e volentieri le analisi
più tradizionali dell’integrazione economica della Cina si sono soffermate ai rischi per i
paesi che hanno un modello di specializzazione simile al suo, prevalentemente basato su
prodotti maturi. La loro unica via di fuga sarebbe, sostengono queste tesi, una
convergenza della remunerazione dei fattori produttivi soggetti a questa concorrenza, in
particolare del fattore lavoro, verso i livelli cinesi. Queste considerazioni trovano anche
delle corroborazioni nella realtà, per esempio nel distretto industriale tessile di Prato
(dove, come abbiamo detto, è molto forte il rapporto tra lavoro regolare e lavoro in nero).
Il ragionamento alla base di questa interpretazione è tanto semplice quanto errata
(Targetti, 2006; Weber, 2005;Chiarlone e Armighini, 2007):
si tralascia ogni riferimento alle opportunità che si aprono sul mercato cinese, in
seguito alla profonda liberalizzazione imposta con l’adesione nel 2001 alla OMC;
viene trascurata la diversificazione delle funzioni di domanda dei consumatori e
la differenziazione del prodotto perseguita delle imprese;
non si considera che molte delle importazioni cinesi derivano dall’attività di
multinazionali straniere che hanno spostato in Cina alcune fasi produttive. Quella
cinese è la rivoluzione dell’outsourcing e del low cost manufacturing, molte
imprese sfruttano i vantaggi comparati della Cina nelle fasi produttive intensive di
manodopera poco qualificata e in tal modo contribuiscono ad aumentare i flussi
commerciali cinesi.
Oggi la Cina è una potenza non solo economica ma anche militare, difficilmente rischia
di fare la fine di due secoli fa. Ma il nuovo rischio è quello di fermarsi al ruolo di
“fabbrica del mondo” o meglio di “assemblatore del mondo”.
La nuova sfida di questo paese, che ricorda tanto l’Inghilterra della rivoluzione
industriale è il settore dei servizi, che è ancora poco sviluppato e chiuso agli investimenti
esteri (i servizi postali, i trasporti, le telecomunicazioni, l’energia sono sotto il controllo
statale). Ritengo che proprio il settore terziario può consentire quello sviluppo economico
sottolineato da Serravalli e Boggio (2003), cioè con l’aumento nel lungo periodo del
reddito pro-capite e con la diversificazione dei beni economici che compongono il
reddito.
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Bibliografia e Sitografia
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commerciale della Cina, in Demattè C. e Perretti F. (a cura), La sfida cinese_Rischi e
opportunità per l’Italia, Editori Laterza, Roma-Bari.
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Perretti F. (a cura), La sfida cinese_Rischi e opportunità per l’Italia, Editori Laterza,
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SITOGRAFIA
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Fonte: http://www.imf.org/
Sito del Time
Fonte: http://www.time.com
Sito del State Administration for Industry and Commerce People’s Repubblic of China
Fonte: http://www.saic.gov.cn
Sito disponibilità di fonti e di elaborati della China Statistical Yearbook
Fonte: www.friedlnet.com
Giubileo F. - Lo sviluppo economico in Cina
pag. 28
i Fonte: http://www.indexmundi.com ii Per transizione demografica si intende un processo di crescita della popolazione determinato dalla diminuzione della
mortalità, seguita con ritardo da quella della natalità (Seravalli e Boggio,2003). Aggiungiamoci, che per quanto
riguarda la Cina comunista, l’aumento demografico iniziato negli anni cinquanta fu dettato da una precisa azione
politico-militare, (Imperato, 2003), centrata nel disincentivare eventuali occupanti Nato, “più siamo … più è difficile
batterci”. iii Distruzione creatrice Schumpeteriana: teoria formulata da Joseph Shumpeter secondo il quale il processo di
creazione di nuove idee e prodotti produce automaticamente l’obsolescenza dei prodotti esistenti e pertanto porta con
sé un continuo turn over di imprese (Chiarlone e Armighini, 2007 pag.162). iv I prezzi di vendita erano in gran parte fissati o regolamentati dallo Stato sulla base di logiche indipendenti dalla
profittabilità d’impresa (Chiarlone e Armighini, 2007 pag. 28). v Le imprese pubbliche hanno ereditato dal periodo precedente funzioni sociali molto estese; esse provvedono alla
protezione sociale dei loro impiegati e a bisogni di base come l’alloggio (Lemoine, 2005 pag. 33). vi In Cina non sono legali altri sindacati. vii La riforma del 1984 rafforza l’autorità della banca centrale nei confronti tanto delle banche commerciali quanto delle
autorità locali. Essa tuttavia non introduce elementi di indipendenza rispetto all’autorità politica. Un comitato di
politica monetaria con un mandato di sei anni nominato dal governo è il solo ad avere autorità sulla politica della banca
(Lemoine, 2005 pag. 40). viii La legge classificò le imprese in closely held, alle quali fu imposto di avere due organi societari, l’amministratore
delegato e il consiglio di amministrazione. Si trattava di un importante innovazione organizzativa per le imprese cinesi,
abituate prevalentemente a eseguire le istruzioni del potere politico e prive di organi statuari preposti a determinare le
strategie ( Chiarlone e Armighini, 2007 pag. 30). ix In mancanza di diritti di proprietà univocamente definiti, spesso le attività più profittevoli delle imprese pubbliche
sono trasferite alle filiali, cosicché l’impresa madre si ritrova a contabilizzare solo le attività deficitarie e il debito. La
privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite delle imprese pubbliche sono un fenomeno difficile da
quantificare (Lardy, 1998). x L’adesione all’OMC è fondamentale, perché consente di imporre alla Cina una sempre maggior tutela della proprietà
intellettuale estera, attraverso gli strumenti giudiziari propri dei trattati commerciali multilaterali. xi Learning by Doing: miglioramento delle tecnologie che avviane in alcuni settori a seguito all’apprendimento
attraverso l’esperienza che riduce i costi medi all’aumentare della produzione (Chiarlone e Armighini, 2007).
Si riferisce all’assimilazione di ciò che è già noto, tale forma di apprendimento entrò nel linguaggio degli economisti
come l’espressione learning by doing (l’esperienza nel produrre genera aumenti di produttività, “curva di
apprendimento”). Il learning by doing dipende dalla dimensione dell’attività produttiva: quanto più numerose sono le
persone che lavorano tanto più numerose sono quelle che (a parità di altre condizioni) imparavano lavorando. Ogni
singola persona impegnata nell’attività produttiva impara di più quanto più a lungo dura tale impegno (Seravalli e
Boggio, 2003). xii Acquisire localmente delle quote di mercato. xiii Indice di Balassa: indice che misura la “performance esortativa” relativa di ciascuna industria di un determinato
paese; è definito come la quota del paese nelle esportazioni mondiali di un bene divisa per la sua quota nel totale delle
esportazioni mondiali (Chiarlone e Armighini, 2007). xiv Keynes aveva evidenziato le difficoltà di autoregolazione di un’economia capitalistica, in particolare la difficoltà di
avere un livello d’investimenti sufficienti a generare una domanda effettiva pari alla loro capacità produttiva esistente
(Seravalli e Boggio,2003). xv Il sistema bancario cinese nonostante il vasto numero di operatori rimane estremamente fragile. La causa della sua
debolezza è la fragilità del sistema industriale pubblico, spesso finanziato al di là di ogni considerazione commerciale e
di ogni rischio (Imparato, 2003). xvi Produttività del lavoro: rapporto tra produzione e numero di lavoratori impiegati o numero di ore lavorate (Chiarlone
e Armighini, 2007).