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1 Il rischio di corruzione negli appalti pubblici dal punto di vista della magistratura contabile di Francesco Lombardo Vice Procuratore Generale della Corte dei conti 1.Premessa La collusione e la corruzione sono fenomeni strettamente legati ed aumentano proporzionalmente in relazione al grado di discrezionalità dell’amministrazione appaltante, e per essa del responsabile unico del procedimento e degli altri organi che a diverso titolo si interfacciano con l’operatore economico che gareggia per ottenere la commessa e successivamente esegue il contratto d’appalto aggiudicatogli, se detti organi mirano ad ottenere un illecito profitto dal contratto. Se si escludono i reati di cui agli artt. 416 e 416-bis c.p., rilevano il reato di turbata libertà degli incanti ex art. 353 c.p. ed il reato di rivelazione del segreto d’ufficio ex art. 326 c.p. L’art. 13, comma 2, del Codice dei contratti pubblici prevede, oltre ad alcune ipotesi di differimento del diritto d’accesso agli atti, la sussistenza del reato di cui all’art. 326 c.p. in alcuni casi specifici (rivelazione dell’elenco dei soggetti che hanno presentato offerte prima della scadenza del termine di presentazione, rivelazione dei soggetti che hanno fatto richiesta di invito per procedure ristrette o negoziate, rivelazione delle offerte prima dell’approvazione dell’aggiudicazione, dei segreti tecnici o commerciali dichiarati dagli offerenti, dei pareri legali in merito alla soluzione di liti in corso o potenziali ricevuti dai concorrenti, del contenuto delle

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Il rischio di corruzione negli appalti pubblici dal punto di vista

della magistratura contabile

di Francesco Lombardo Vice Procuratore Generale della Corte dei

conti

1.Premessa

La collusione e la corruzione sono fenomeni strettamente legati ed

aumentano proporzionalmente in relazione al grado di

discrezionalità dell’amministrazione appaltante, e per essa del

responsabile unico del procedimento e degli altri organi che a

diverso titolo si interfacciano con l’operatore economico che

gareggia per ottenere la commessa e successivamente esegue il

contratto d’appalto aggiudicatogli, se detti organi mirano ad

ottenere un illecito profitto dal contratto.

Se si escludono i reati di cui agli artt. 416 e 416-bis c.p., rilevano

il reato di turbata libertà degli incanti ex art. 353 c.p. ed il reato di

rivelazione del segreto d’ufficio ex art. 326 c.p. L’art. 13, comma

2, del Codice dei contratti pubblici prevede, oltre ad alcune ipotesi

di differimento del diritto d’accesso agli atti, la sussistenza del

reato di cui all’art. 326 c.p. in alcuni casi specifici (rivelazione

dell’elenco dei soggetti che hanno presentato offerte prima della

scadenza del termine di presentazione, rivelazione dei soggetti che

hanno fatto richiesta di invito per procedure ristrette o negoziate,

rivelazione delle offerte prima dell’approvazione

dell’aggiudicazione, dei segreti tecnici o commerciali dichiarati

dagli offerenti, dei pareri legali in merito alla soluzione di liti in

corso o potenziali ricevuti dai concorrenti, del contenuto delle

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relazioni del direttore dei lavori o dell’organo collaudatore su

domande o riserve formulate dall’esecutore del contratto).

Il rischio aumenta esponenzialmente se i criteri di aggiudicazione

sono sbilanciati a favore del prezzo più basso o eccessivamente

restrittivi nel caso della realizzazione di opere pubbliche, se il

responsabile conosce in anticipo il contenuto delle offerte e

consente alle imprese concorrenti di modificarlo. Ai sensi del

d.P.R. 25 gennaio 2000, n. 34, inoltre, la pubblica

amministrazione non può chiedere ai concorrenti particolari

qualificazioni con modalità, procedure e contenuti diversi da

quelli contenuti espressamente nel d.P.R. stesso. Spesso, questa

disposizione viene disattesa con evidenti svantaggi per alcuni

concorrenti. Se il bando di gara richiede, per l’ammissione ad una

gara d’appalto, il possesso di requisiti eccessivamente onerosi che

non trovano alcuna giustificazione nelle fonti normative, ciò

rappresenta una indebita restrizione del mercato di cui è

responsabile la stazione appaltante che ha predisposto il bando.

La collusione, inoltre, facilita le distorsioni delle gare d’appalto e

le modalità con cui queste si realizzano sono molteplici: alcune

attengono alla collusione tra imprese, intesa quale fattore

facilitante della corruzione, altre, invece, riguardano

specificamente ipotesi di corruzione dei funzionari.

Tra le prime, rientrano la presentazione di offerte plurime

riconducibili ad un unico centro di interessi, la presenza di cartelli

di imprese, di sistemi di turnazione (bid rotation) e di

coordinamento delle offerte per gli appalti di rilevante importo, la

presentazione di offerte caratterizzate da rialzi troppo elevati in

modo da essere escluse a favore di un altro concorrente (cover

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bidding), le cordate di imprese ed il coordinamento delle offerte al

ribasso, il coordinamento al fine di predeterminare la

partecipazione ad una gara, le condizioni di partecipazione o la

spartizione dei lotti disponibili (market allocation), la presenza di

subaffidamenti di varia natura contrattuale concessi ad imprese

controllate, il ritiro delle offerte senza giustificato motivo (bid

suppression).

Il novero delle seconde comprende la predisposizione di bandi di

gara contenenti requisiti soggettivi od oggettivi pensati

appositamente per escludere concorrenti non graditi, la violazione

della segretezza delle offerte, il mancato controllo sui ribassi, sulla

documentazione antimafia necessaria o sull’esecuzione dei lavori,

la mancata autorizzazione di subappalti, l’ammissibilità di varianti

in corso d’opera di valore superiore a quello di aggiudicazione, le

pressioni indebite sul direttore dei lavori per gli appalti di minore

entità, la predisposizione di bandi o capitolati “fotografia” o di

“griglie di sbarramento tecnico” da parte dei pubblici funzionari

responsabili.

Può affermarsi, quindi, che lo sviluppo di forme di concorrenza

per il mercato degli appalti, utili a ridurre il grado di

concentrazione e la possibile collusione tra imprese, è uno dei

cardini degli interventi sistemici che le istituzioni e gli stessi

organismi internazionali considerano basilari per prevenire e

combattere la corruzione. La necessità di un ruolo rafforzato dei

regolatori nazionali appare, in tale contesto, necessario.

La lotta alla corruzione deve essere di sistema: selezione

qualitativa e di merito non solo degli operatori, ma anche e sopra

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tutto delle stazioni appaltanti, sulle quali esercitare controllo e

vigilanza e valutazione dei risultati.

Occorrono, inoltre, più efficaci strumenti di coordinamento a

livello anche giudiziario tra tutte le giurisdizioni che si occupano,

a diverso titolo, della materia.

Le norme finora intervenute hanno affrontano il tema della

prevenzione della corruzione in maniera asistematica: anche se la

logica di fondo è ispirata da alcune idee utili a prevenire il

fenomeno corruttivo negli appalti pubblici (inasprimento delle

sanzioni, maggiori controlli sui centri di spesa degli enti locali,

modifiche ad alcune norme “sensibili”  del Codice dei contratti

pubblici).

Le norme preventive di lungo periodo, sono state contenute nella

(ormai datata) legge anti-corruzione n. 190/2012.

In tale contesto, si esplicano i compiti affidati dall’ordinamento

alla Corte dei conti per la tutela della legalità e delle pubbliche

risorse, per mezzo delle due funzioni tipiche di garanzia del

controllo e della giurisdizione. E’ per questo che vanno bandite le

limitazioni ai controlli, al regime di pubblicità e di concorrenza,

che costituiscono l’humus anticoncorrenziale tipico dei contratti

pubblici segretati e del ricorso a procedure di emergenza, tipiche

dei “grandi eventi” e delle ricostruzioni susseguenti ad eventi

calamitosi.

Una forma di controllo imparziale, quale quello della Corte dei

conti, è svincolata dalla politica e proprio la terzietà di detto

controllo è alla base della sua efficacia, ma deve poter essere

svolto con strumenti incisivi sui contratti di maggiore rilevanza

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economica, spesso non esercitabili così come attualmente

strutturati e nei tempi brevi previsti per l’esercizio del controllo

preventivo.

Del resto, la ratio degli interventi legislativi succedutisi a breve

distanza di tempo risulta quella di dare massima attuazione ai

principi di concorrenza e di par condicio - divenuti sempre più

principi ispiratori della disciplina comunitaria degli appalti

pubblici - e quindi di rendere obbligatorio il ricorso alle procedure

di evidenza pubblica ai fini della scelta del contraente, salvi i casi,

eccezionali e dunque di stretta interpretazione, consentiti dal

legislatore comunitario.

Significativo dello stretto collegamento del fenomeno della

corruzione con il settore dei contratti pubblici è il comma 16

dell’art. 1 della citata legge n. 190 del 2012, per cui le pubbliche

amministrazioni assicurano il livello essenziale della trasparenza

dell’attività amministrativa con particolare riferimento, tra l’altro,

ai procedimenti di evidenza pubblica per la scelta del contraente,

ai sensi del codice dei contratti pubblici, alla medesima stregua di

quanto richiesto per la concessione ed erogazione di sovvenzioni,

contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché attribuzione di

vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici

e privati.

A questo riguardo, un ruolo non secondario per la prevenzione

della corruzione e dell’illegalità deve essere svolto dalla

giurisdizione della Corte dei conti. Ciò con la valorizzazione del

principio, che costituisce uno degli assi portanti della novella

legislativa, che responsabilizza la stessa dirigenza pubblica, oltre

che gli organi politici di vertice delle amministrazioni, ad

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approntare, anche attraverso appositi piani, misure idonee a

prevenire la commissione di reati contro la pubblica

amministrazione, riguardanti l’organizzazione interna, il razionale

utilizzo del personale e l’attuazione dei meccanismi previsti dalla

legge per garantire la trasparenza dell’attività amministrativa.

L’art. 1 comma 12, l. cit., ha previsto, infatti, che il dirigente

responsabile della prevenzione della corruzione può essere

chiamato a rispondere a titolo di responsabilità amministrativa (sia

per danno patrimoniale che all’immagine della pubblica

amministrazione) nel caso della commissione all’interno

dell’Amministrazione di un reato di corruzione accertato con

sentenza passata in giudicato, salvo che provi la predisposizione

del piano anticorruzione, previsto dalla legge, e di aver vigilato sul

funzionamento e sull’osservanza dello stesso.

Una ulteriore e più specifica forma di garanzia che prevede la

competenza delle Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti è

quella introdotta con la disposizione di cui all’art. 10 comma 7,

del Regolamento di esecuzione ed attuazione Codice dei contratti

pubblici.

Tale disposizione – peraltro finora disattesa – prevede l’obbligo,

per il Responsabile Unico del Procedimento, di rendere il conto

della gestione con conseguente applicazione, relativamente ai

contratti di rilevanza comunitaria nei settori ordinari e a ogni altro

contratto di appalto o di concessione che alla normativa propria di

tali contratti faccia riferimento, delle disposizioni concernenti: i

giudizi di conto e di responsabilità di cui al Titolo II, capo V, sez.

I, r.d. n. 1214 del 1934, la forma delle istanze, dei ricorsi e dei

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termini nei giudizi innanzi alla Corte dei Conti di cui al r.d. n.

1038 del 1933, l’art. 2, l. n. 20 del 1994.

2. L’aggregazione dei soggetti aggiudicatori di contratti pubblici

La l. 23.06.2014, n. 89  di conversione, con modificazioni, del d.l.

24.04.2014, n. 66 si è occupata, tra l’altro, del risparmio e

dell’efficientamento della spesa pubblica.

A detto fine, il Legislatore ha deciso di razionalizzare il sistema

degli acquisti delle Amministrazioni aggiudicatrici, attraverso lo

strumento dell’aggregazione delle loro domande. In altri termini,

l’intervento legislativo si fonda sull’idea che, riducendo il numero

di soggetti che possono bandire gare pubbliche e concentrando

queste ultime in capo a pochi enti, si possa ottenere un

miglioramento dell’efficienza degli stessi nello svolgimento di tali

funzioni e una razionalizzazione della spesa pubblica. 

Con tali obiettivi di risparmio, l’art. 9 della l. 89/2014, rubricato

“acquisizione di beni e servizi attraverso soggetti aggregatori e

prezzi di riferimento”, ha introdotto la figura dei “soggetti

aggregatori”,  disciplinando gli obblighi a questi connessi. 

Come noto, le direttive comunitarie del 2004 in materia di

contratti pubblici  hanno avuto il merito di introdurre, in ambito

europeo, la figura della centrale di committenza quale

amministrazione aggiudicatrice che “acquista forniture e/o servizi

destinati ad altre amministrazioni aggiudicatrici”  o “aggiudica

appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o

servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici” (art. 1,

paragrafo 10, della direttiva 2004/18/CE. Una definizione analoga

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per i settori speciali è contenuta nell’art. 1, paragrafo 8, della

direttiva 2004/17/CE).

Di conseguenza, il Legislatore europeo, pur lasciando liberi gli

Stati membri di prevedere la possibilità per le proprie

Amministrazioni aggiudicatrici di ricorrere alle centrali di

committenza per l’acquisizione di lavori, forniture e servizi  (art.

11, paragrafo 1, della direttiva 2004/18/CE), ne dava una

definizione e indicava la disciplina che le stesse erano tenute ad

applicare  (art. 11, paragrafo 2, della direttiva 20004/18/CE), nel

rispetto della non discriminazione e della parità di trattamento 

(considerando n. 15, della direttiva 2004/18/CE).

L’atteggiamento dell’Unione è palesemente diverso nella direttiva

2014/24/UE  (si tratta della c.d. direttiva appalti che ha abrogato la

precedente direttiva 2004/18/CE ed è una delle tre nuove direttive

europee sui contratti pubblici del 26.02.2014, insieme alla

direttiva 2014/23/UE sui contratti di concessioni e alla direttiva

2014/25/UE sui settori speciali, che abroga la precedente direttiva

2004/17/CE), in cui l’attenzione per le centrali di committenza è

maggiore che in passato, pur sempre con significativi spazi di

manovra per gli Stati membri. 

La nuova direttiva appalti si inserisce all’interno di una politica

europea affermatasi negli ultimi anni e fondata sull’idea che il

miglioramento del settore dei contratti pubblici necessita anzitutto

della “professionalizzazione” degli organi  delle stazioni

appaltanti. 

Nella nuova direttiva appalti, il Legislatore europeo specifica che

le centrali di committenza sono solo uno degli strumenti con cui le

Amministrazioni possono procedere ad aggiudicare

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congiuntamente gli appalti. Ne esistono, infatti, altri di carattere

“occasionale”,  che utilizzano sistemi di acquisizione non

istituzionalizzati (considerando n. 71 della direttiva 2014/24/UE).

Gli appalti congiunti occasionali permettono alle Amministrazioni

coinvolte di perseguire gli stessi obiettivi di economia ed

efficienza delle centrali di committenza, ma, data la loro natura

temporanea, possono rivelarsi meno rischiosi per la concorrenza.

Ed è per questo che, al di là delle centrali di committenza, due o

più Amministrazioni aggiudicatrici “possono decidere di eseguire

congiuntamente alcuni appalti specifici” (art. 38, paragrafo 1,

della direttiva 2014/24/UE).

In questo modo, se è vero che l’aggregazione della domanda

permette di ottenere “economie di scala” e un miglioramento della

“professionalità nella gestione degli appalti”,    al tempo stesso

merita di essere adeguatamente monitorata per evitare collusioni

all’interno delle Amministrazioni e garantire “la trasparenza e la

concorrenza e la possibilità di accesso al mercato per le

PMI” (considerando n. 59 della direttiva 2014/24/UE). In tal

senso, è necessario assicurare che le centrali di committenza e le

Amministrazioni che ad esse ricorrono siano effettivamente

responsabili per il proprio operato, ciascuno secondo l’attività

svolta  (considerando n. 69, della direttiva 2014/24/UE).

L’Amministrazione rimane, infatti, responsabile per le parti di

gara che, eventualmente, continua a gestire, come può accadere

nel caso di un accordo quadro e nell’ambito di un sistema

dinamico di acquisizione  (art. 37, paragrafo 2, direttiva

2014/24/UE). In questo modo, viene assicurato un sistema

adeguato, che ricollega la responsabilità all’effettività dell’azione.

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Le centrali di committenza sono definite come Amministrazioni

aggiudicatrici  che forniscono “attività di centralizzazione delle

committenze e, se del caso, attività di committenza ausiliarie” (art.

2, paragrafo 1, n. 16, della direttiva 2014/24/UE).

La grande novità apportata dal Legislatore europeo del 2014

consiste nel fatto che all’attività di centrale di committenza

tradizionale, a carattere permanente e finalizzata all’acquisizione

di servizi e forniture destinati ad altre Amministrazioni, anche

attraverso gli accordi quadro,  si affianca quella di committenza

ausiliaria, che consiste nel dare supporto alle Amministrazioni

aggiudicatrici, fornendo loro gli elementi necessari per gestire

autonomamente le proprie procedure più complesse.

*****

La centralizzazione delle stazioni appaltanti  è collegata tanto al

tema dell’efficienza degli affidamenti, quanto a quello della lotta

alla corruzione.

L’aggregazione mira, invero, a risolvere non solo un problema di

riduzione di spesa, ma anche, e soprattutto, ad aumentare le

competenze delle stazioni appaltanti per assicurare una maggiore

efficienza delle stesse nella scelta del contratto e del contraente. 

La disciplina dell’accorpamento dei soggetti aggiudicatori può

essere meglio compresa se si considera che nella materia dei

contratti pubblici vi sono due possibili patologie.

Da un lato, vi è il pericolo dell’inefficienza dell’Amministrazione

che si traduce nell’affidamento di contratti inefficienti con, ad

esempio, eccessi di spesa, qualità scadente, prestazioni rese

inutilmente. La disciplina dei contratti pubblici dovrebbe, in primo

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luogo, garantire l’efficienza, ovvero il buon risultato

(performance) del contratto, in termini di spesa, qualità e

tempestività. La disciplina comunitaria, da ultimo novellata dalle

nuove direttive del 2014, si occupa essenzialmente di questo

problema, in relazione alla fase dell’affidamento, unica fase di

interesse del Legislatore comunitario in quanto rilevante per la

concorrenza e l’apertura del mercato.

Dall’altro lato, vi è il rischio che si verifichino fenomeni

corruttivi, problema di per sé molto grave, assai frequente nel

nostro ordinamento.

Vale la pena rilevare che la preoccupazione principale del

Legislatore comunitario è quella dell’efficienza delle scelte

dell’Amministrazione, perseguita attraverso la grande flessibilità

dell’aggiudicazione con ampi spazi per le modifiche dell’oggetto

del contratto in corso di esecuzione.  Il Legislatore europeo non

rinuncia all’efficienza delle procedure e sposta la lotta alla

corruzione su misure esogene, diverse da quelle basate sulla

privazione della discrezionalità amministrativa (ad esempio,

quelle finalizzate a prevenire i conflitti di interesse), senza però

entrare nel merito delle stesse e lasciando gli Stati membri di

adottare le opportune soluzioni.

In Italia, invece, per molto tempo, a partire dalla legge 109/1994

(c.d. Merloni), si è creduto che la corruzione potesse essere

ostacolata attraverso l’irrigidimento di procedure amministrative e

modelli contrattuali e con la creazione di automatismi tali da

impedire l’esercizio della discrezionalità amministrativa. Tale

atteggiamento è stato giustificato con la preoccupazione che le

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procedure flessibili e le negoziazioni si possano prestare

facilmente a fenomeni di corruzione e collusione.

Si è però visto che la limitazione della discrezionalità

amministrativa, soprattutto nel caso di contratti complessi, è fonte

di inefficienza, dal momento che impedisce la costruzione di

procedure di affidamento e modelli contrattuali esattamente

calibrati sul contratto da aggiudicare e eseguire. 

Solo negli ultimi tempi, sembra che il Legislatore abbia preso atto

che la corruzione deve essere combattuta senza rinunciare a priori

all’efficienza dei contratti, attraverso misure esterne alle procedure

di affidamento. La gara deve avere come unico obiettivo quello di

selezionare la migliore offerta possibile. Fuori dalla gara, occorre

individuare misure contro la corruzione.

Da ultimo, con d.l. 26.06.2014, n. 90, convertito in l. 11.08.2014,

n. 114, il Governo ha emanato disposizioni volte a garantire un

migliore livello di certezza giuridica, correttezza e trasparenza

delle procedure nei lavori pubblici introducendo, tra l’altro, misure

di controllo preventivo  (art. 29), misure relative all’esecuzione di

opere pubbliche, servizi e forniture  (artt. 30-35-37)) e,

nell’ambito di queste, misure straordinarie di gestione, sostegno e

monitoraggio di imprese  (art. 32), affidandone l’attuazione al

Presidente dell’ANAC  e al Prefetto competente.  Da ultimo, in

data 15.07.2014, è stato adottato di concerto tra l'ANAC (che ha

assorbito la soppressa Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici)

e il Ministro dell'Interno un Protocollo di intesa contenente Linee

Guida per l'avvio di un circuito stabile e collaborativo tra ANAC -

Prefetture UTG - Enti Locali per la prevenzione dei fenomeni di

corruzione e l'attuazione della trasparenza amministrativa.

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Tutte le misure appena citate mostrano un apprezzabile cambio di

strategia del Legislatore rispetto alla lotta alla corruzione.

3. Le varianti in corso d’opera

Nella fase di esecuzione del contratto di appalto rilevano due

interessi potenzialmente confliggenti. Da un lato, vi è l’interesse

del committente ad ottenere una prestazione conforme alle

modalità pattuite e alle regole dell’arte, cui si aggiunge quello a

non sopportare maggiori spese non volute o, addirittura, al di fuori

delle sue possibilità economiche; dall’altro, va considerato

l’interesse dell’appaltatore all’ottenimento di un corrispettivo

proporzionato all’opera effettivamente realizzata e a non incorrere

in sanzioni conseguenti alla violazione di regole professionali.

Per le varianti in corso di esecuzione vige il principio della

tassatività: le stazioni appaltanti possono consentire varianti in

corso d’opera unicamente se ricorre uno o più casi elencati nel

Codice (art. 132, comma 1). Il rischio di corruzione è elevato, in

relazione alle varianti, poiché il funzionario corrotto o il

responsabile dei lavori possono certificare la necessità di una

variante non supportata da verificabili ragioni di fatto: la diretta

proporzionalità tra aumento di spesa da parte dell’amministrazione

e prezzo dello scambio occulto rappresenta un indice del rischio.

Per quanto concerne le varianti c.d. “migliorative”, ossia quelle

varianti in aumento o in diminuzione che hanno lo scopo di

migliorare la funzionalità dell’opera, sono ammesse solo se

ricorrono circostanze sopravvenute ed imprevedibili che le

rendono obiettivamente necessarie. La loro disciplina è, perlopiù,

demandata al regolamento attuativo del Codice. Sono queste

varianti che, se approvate, consentono o un aumento del prezzo

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della prestazione o un risparmio per l’appaltatore, il quale

potrebbe accordarsi occultamente con il direttore dei lavori e con

il responsabile unico del procedimento al fine di ottenere i

vantaggi del caso.

Si può facilmente immaginare come le varianti, comportando

l’aumento dell’importo da corrispondere all’appaltatore mediante

l’utilizzo di somme già accantonate per imprevisti o generate dai

ribassi ottenuti in sede di gara, possano prestarsi ad utilizzi occulti

e al pagamento di tangenti. Per l’appunto, si può ritenere, quale

dato pacifico e incontrovertibile, che l’uso improprio delle varianti

copra parte della corruzione nel settore degli appalti pubblici:

buona parte delle risorse che fanno lievitare i costi delle opere

alimenta gli scambi occulti tra imprenditori, funzionari e politici.

Orbene, quantunque sia da valutare con favore l’introduzione

nell’ordinamento di settore dell’art. 37 del d.l. 24 giugno 2014, n.

90, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114 –

secondo cui “le varianti in corso d’opera di cui al comma 1,

lettere b), c) e d) dell’articolo 132 del decreto legislativo 12 aprile

2006, n. 163 sono trasmesse…all’Autorità nazionale

anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle

amministrazioni pubbliche entro trenta giorni dall’approvazione

da parte della stazione appaltante per le valutazioni e gli

eventuali provvedimenti di competenza” – desta forti perplessità la

vaghezza contenutistica della disposizione in merito all’esito di un

tale procedimento, fino ad adombrarne un inutile “aggravamento”,

a fronte di altra disposizione contenuta nell’ordinamento stesso fin

dal regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici.

Quest’ultima, contenuta nell’ultimo comma dell’art. 10 del DPR

n. 207/2010 (di cui s’è detto al par. 1), è rimasta fino ad ora

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inspiegabilmente inattuata, nonostante la sua portata, ben più

ampia della disposizione in argomento e come tale comprensiva di

quest’ultima, avallando il sospetto che il nostro ordinamento sia

sempre più conforme alla logica gattopardesca, secondo la quale

“è necessario che tutto cambi, acciocché tutto rimanga com’è”.

4. Le procedure concorsuali di scelta dei contraenti della P.A.

quale affermazione del diritto comunitario della concorrenza e

limite naturale dei fenomeni di corruzione

La disciplina degli appalti costituisce sempre di più uno strumento

fondamentale di crescita per le pubbliche amministrazioni teso a

coniugare i profili economici dell’agire pubblico e i fattori sociali

coinvolgenti l’esercizio del potere. Ma un tale strumento per

essere davvero funzionale all’interesse pubblico deve garantire la

competitività attraverso l’impiego di trasparenti procedure

concorsuali di scelta degli affidatari delle commesse pubbliche. Il

principio di concorrenza che da esse promana deve quindi indurre

ad un ripensamento del rapporto tra istituzioni pubbliche in un

costante processo di europeizzazione delle regole atto ad inverare

il principio di buon andamento espresso dall’art. 97 Cost.: troppo

spesso proclamato e non sempre conseguito.

In Italia gli appalti, strumentali all’esecuzione di opere ed al

reperimento di beni e servizi da parte delle singole

amministrazioni, sono progressivamente divenuti, grazie al diritto

comunitario della concorrenza, un mezzo di concreta attuazione

degli obiettivi e dei principi dell’UE, fatti propri dal nostro

ordinamento con il D.Lgs. n. 163 del 12 aprile 2006 (Codice dei

contratti pubblici); di talché, i fenomeni di crescente corruzione, ai

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quali assistiamo da tempo, rappresentano una vera regressione alle

origini della contrattualistica pubblica nazionale, risalenti alla

legge di contabilità dello Stato (R.D. n. 2440/1923 e relativo

regolamento di attuazione, R.D. n. 827/1924), con la quale le

modalità di acquisto di beni e servizi erano unicamente intese a

tutelare dal malaffare le amministrazioni pubbliche,

esclusivamente sotto il profilo economico e finanziario.

Ciò costituisce un evidente vulnus ai principi di buon andamento

ed imparzialità declinati dall’art. 97 Cost. ed una ancor più

evidente trasgressione della disciplina comunitaria degli appalti,

basata sulla concorrenza (nella più ampia declinazione della

libertà di prestazione di servizi, di stabilimento delle imprese, del

divieto di discriminazione e di restrizione nelle procedure ad

evidenza pubblica), la cui tutela è stata più volte ribadita dalla

Corte di giustizia e la cui nozione di matrice comunitaria è stata

posta in evidenza dalla Corte Costituzionale ( si vedano le

sentenze n. 401 del 2007; n. 270, n. 232 e n. 45 del 2010; n. 314 e

n. 148 del 2009; n. 63 del 2008; n. 430 e n. 401 del 2007; n. 272

del 2004; n. 310 del 2010 e n. 38 del 2013).

Da qui l’importanza per le amministrazioni pubbliche di efficaci

controlli interni sulla stretta osservanza degli obblighi in vigore in

materia di trasparenza e di pubblicità, con particolare riferimento

ai procedimenti di scelta del contraente per l’affidamento di lavori,

forniture e servizi (occorre ricordare in proposito che l’art. 11 del

D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 e, più di recente, l’art. 1, comma

15, L. 6 novembre 2012, n. 190 (Legge anticorruzione),

qualificano la trasparenza dell’attività amministrativa “livello

essenziale delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai

sensi dell’art. 117, comma 2, lettera m), della Costituzione”,

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facendola assurgere a vero e proprio valore di rango

costituzionale.

Va richiamata, in questo senso, l’attenzione su due strumenti

preziosi affidati dalla legge all’Autorità per la Vigilanza sui

contratti pubblici (oggi ANAC) proprio per monitorare e garantire

il principio di trasparenza negli appalti e, quindi, favorire il

contenimento dei fenomeni corruttivi. Il riferimento è, in

particolare, alla Banca Dati Nazionale dei Contratti pubblici e

all’Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti.

La prima, introdotta dall’art. 6-bis, comma 1, D.Lgs. 12 aprile

2006, n. 163, con entrata in vigore dal 1° gennaio 2013, è stata

istituita al fine di creare un sistema centralizzato presso l’AVCP

alla quale devono essere trasmessi tutti i documenti comprovanti il

possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico organizzativo

ed economico finanziario necessari per la partecipazione alle

procedure di cui al Codice degli appalti.

L’AVCP, per arginare gli oneri amministrativi e il contenzioso

legato al sistema di autocertificazione in vigore, ha predisposto un

sistema di verifica online del possesso dei requisiti per la

partecipazione alle procedure di affidamento: Authority Virtual

Company PASSport (AVCPASS), in vigore dal 1° gennaio 2014.

Grazie ad esso è possibile verificare in tempo reale il possesso dei

requisiti con un’importante semplificazione del procedimento e

riduzione degli oneri per le imprese.

Anche il secondo strumento, l’Anagrafe Unica delle Stazioni

Appaltanti (prevista dall’art. 33-ter D.L. 18 ottobre 2012, n. 179,

convertito nella L. 17 dicembre 2012, n. 221), è entrato in vigore

dal 1° gennaio 2014, sempre con l’intento di favorire la

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realizzazione di un sistema di appalti trasparente nel quale sia

possibile conoscere e classificare le stazioni appaltanti operanti sul

territorio.

Ma la novità di più recente rilievo è costituita dal fatto che

l’Unione Europea, con l’emanazione della direttiva del 15 gennaio

2014, ha avviato un nuovo corso, che concorrerà senz’altro a

restringere ulteriormente i perduranti spazi di opacità delle

amministrazioni appaltanti.

Gli Stati membri saranno, infatti, obbligati a recepire nella

legislazione nazionale le nuove disposizioni che modificano le

norme attuali sugli appalti pubblici comunitari con la conseguenza

che nel nostro ordinamento si renderà necessario un nuovo e

invasivo intervento sul Codice dei contratti pubblici e sul relativo

Regolamento di esecuzione ed attuazione di cui al DPR 5 ottobre

2010, n. 207.

La nuova direttiva in materia di appalti pubblici giustifica, infatti,

l’intervento di modifica della disciplina vigente con l’esigenza di

“incorporare alcuni principi della giurisprudenza consolidata

della Corte di Giustizia dell’Unione europea” e prosegue nella

linea già intrapresa su trasparenza, semplificazione e innovazione.

In più passaggi, infatti, a partire dal considerando 45 per arrivare,

poi, al 58 e al 90, trasparenza e tracciabilità dei processi ricorrono

come precondizione per il rispetto del principio della parità di

trattamento e per la tutela della concorrenza nonché, considerando

126, “come strumento per garantire procedure leali e combattere

le frodi” e per favorire la semplificazione amministrativa

attraverso informazioni complete e di qualità.

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A seguire sono state pubblicate le tre direttive “gemelle” sugli

appalti e sulle concessioni, che si pongono sullo stesso sentiero

della precedente emanata a gennaio (in G.U.U.E. n. L/94 del 28

marzo 2014).

Ci si riferisce alle Dir. 2014/24/UE (COM (2011) 896) e

2014/25/UE (COM (2011) 895), rispettivamente relative agli

appalti pubblici e alle utilities e alla Dir. 2014/23/UE (COM

(2011) 897), decisamente innovativa, che detta nuovi criteri per le

aggiudicazioni dei contratti di concessione.

Con tali nuove direttive l’Unione europea, nel confermare la

volontà di costruire un sistema teso a favorire la concorrenza e

combattere la corruzione, intende perseguire ulteriori obiettivi di

semplificazione e linearità della disciplina attualmente vigente.

Si attende, quindi, un nuovo e decisivo intervento del Legislatore

nazionale sull’attuale Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 12

aprile 2006, n. 163) e sul suo Regolamento di attuazione ed

esecuzione (D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207), che si auspica possa

porre rimedio anche alle importanti criticità che oggi li

caratterizzano.

Le novità apportate dall’Unione rappresentano, infatti, un ulteriore

passo avanti nel percorso di semplificazione delle gare e della

trasparenza, arma preziosa contro le pericolose criticità

procedurali che facilitano il rischio corruzione.

In particolare, il legislatore europeo introduce il principio delle

“gare sempre” per appalti e concessioni “salvo casi espressamente

previsti”, al fine di favorire la concorrenza e arginare il pericoloso

ricorso alle deroghe estemporanee, costituenti terreno fertile di

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coltura della corruzione; la centralizzazione delle stazioni

appaltanti per evitare che la frammentazione renda più complessa

l’individuazione dei responsabili dei processi; un miglioramento

delle condizioni di accesso al mercato degli appalti e delle

concessione pubbliche per le P.m.i.; la “riduzione degli oneri

documentali” a carico dei soggetti partecipanti alle gare; la

“revisione” delle S.o.a. e del sistema di qualificazione;

l’introduzione del débat public alla francese per la consultazione

dei cittadini e del territorio sui progetti (che ripropone il tema di

scottante attualità della consultazione pubblica per la realizzazione

delle opere di interesse strategico, come nel caso della Val di Susa

legato al problema della realizzazione della linea ferroviaria ad

Alta Velocità); un rafforzamento del “dialogo competitivo” ex art.

58 del Codice dei contratti, anteriore alla fase della gara con la

partecipazione dei “portatori qualificati di interessi”.

A queste innovazioni, sempre in materia di appalti, si aggiunge

l’introduzione di metodi di risoluzione delle controversie

alternative al rimedio giurisdizionale anche per la fase della gara e

dell’aggiudicazione; di strumenti finanziari innovativi e incentivi

per il project financing e per la partecipazione dei capitali privati.

In materia di concessioni, invece, l’introduzione, per la prima

volta, di una terza direttiva dedicata, permette la definizione di un

quadro giuridico della materia più chiaro e un maggior dettaglio

della procedura di aggiudicazione; l’applicazione della normativa

per concessioni di servizi e di lavori con valore pari o superiore ad

euro 5.000.000,00; la definizione più precisa di “contratti di

concessione” con particolare riferimento al concetto di “rischio

operativo sostanziale”; infine, la qualificazione puntuale dell’in

house providing attraverso la precisazione dei casi in cui i contratti

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di concessione non sono soggetti all’applicazione delle norme

sull’aggiudicazione delle concessioni.

Le nuove direttive ridefiniscono anche i criteri di aggiudicazione.

Il principio dell’equivalenza tra prezzo più basso e offerta più

vantaggiosa viene superato. L’orientamento verso gli appalti di

qualità porta il legislatore comunitario ad attribuire un ruolo

centrale al criterio di aggiudicazione dell’“offerta economicamente

più vantaggiosa” che risulta nettamente privilegiato e

diversamente denominato, quale criterio del “miglior rapporto

qualità/prezzo”. Agli Stati membri viene consentito addirittura di

proibire o limitare il ricorso al solo criterio del prezzo o del costo

per valutare l’offerta economicamente più vantaggiosa qualora lo

ritengano opportuno. Il criterio del massimo ribasso non è abolito

formalmente, ma il suo utilizzo, nelle nuove direttive, risulta

drasticamente ridimensionato.

Occorre, tuttavia, considerare che la gestione del criterio del

“miglior rapporto qualità prezzo” è certamente più impegnativa

rispetto al prezzo più basso e richiede stazioni appaltanti più

attrezzate, più qualificate, ma anche più controllate, considerando

il rischio di corruzione laddove prevale una maggiore soggettività

di giudizio e una maggiore discrezione.

Le nuove direttive, inoltre, non si limitano ad attribuire la facoltà

alle stazioni appaltanti di autorizzare varianti in sede di offerta ma

le richiedono e le esigono, privilegiando un orientamento verso la

massima partecipazione del know-how delle imprese concorrenti.

Ed anche questo richiede un sapere tecnico degli organi delle

stazioni appaltanti in grado di resistere a possibili tentativi di

corruzione. Anche le nuove procedure di gara, sempre più

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flessibili, sempre più dinamiche, introdotte dalle direttive

comunitarie, responsabilizzano ulteriormente le amministrazioni

aggiudicatrici.

La procedura competitiva con negoziazione sostituisce la vecchia

procedura negoziata con pubblicazione di bando. Essa è prevista

se ricorrono determinati presupposti : a) nel caso in cui le esigenze

delle amministrazioni aggiudicatrici non possano essere

soddisfatte senza l’adattamento di soluzioni immediatamente

disponibili; b) laddove esse implichino progettazione o soluzioni

innovative; c) nel caso in cui l’appalto non possa essere

aggiudicato senza preventive negoziazioni a causa di circostanze

particolari in relazione alla loro natura, complessità o

impostazione finanziaria e giuridica o a causa dei rischi ad essi

connessi; d) laddove le specifiche tecniche non possano essere

stabilite ex ante con sufficiente precisione.

La procedura competitiva con negoziazione ha un obiettivo chiaro:

apre spazi maggiori di flessibilità e discrezionalità alle

amministrazioni in modo da individuare un’offerta pienamente

rispondente alle esigenze della pubblica committenza. Ma il

ricorso a questo modello richiede una profonda

professionalizzazione degli operatori: occorre innanzitutto

conoscere perfettamente le esigenze della stazione appaltante e poi

essere in grado di gestire la negoziazione con competenza e in

modo equo e trasparente.

La funzione delle negoziazioni, che possono riguardare tutte le

caratteristiche dei lavori, forniture e servizi, è infatti quella di

migliorare le offerte adeguandole, quanto più possibile, alle

specifiche esigenze delle amministrazioni. Ma le negoziazioni,

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particolarmente quelle orientate allo sviluppo di nuove soluzioni,

richiedono abilità e competenze degli operatori pubblici, oltre che

trasparenza per evitare che la flessibilità possa favorire derive

oscure ed interessi opachi.

Tra le principali novità delle nuove direttive europee su appalti e

concessioni va senza dubbio rilevata la possibilità di

rinegoziazione del contratto aggiudicato. Ma anche questa

ulteriore flessibilità, consentita solo a seguito di una serie di

circostanze precisamente elencate, chiama anch’essa i soggetti

pubblici ad un maggiore senso di responsabilità, ad una maggiore

efficienza e competenza.

Tra i principali elementi di novità delle nuove direttive, c’è il

nuovo quadro normativo sull’aggiudicazione dei contratti di

concessione, che costituisce di per sé una novità di grandissimo

rilievo sistematico che va a colmare un vuoto disciplinare che non

ha favorito il mercato.

Il diritto di gestire i lavori o i servizi oggetto del contratto

comporta il trasferimento al concessionario del c.d. “rischio

operativo sostanziale”; ciò avviene nel caso in cui non sia

garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi

sostenuti per la gestione dell’opera o dei servizi.

E’ evidente, quindi, che le nuove direttive europee richiedono una

maggiore professionalità nella gestione degli appalti e delle

concessioni e che il concetto di “stazioni appaltanti” che il

legislatore comunitario ha in mente è profondamente differente

dalla situazione attuale della committenza pubblica in Italia.

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Il legislatore comunitario ha in mente un numero ridotto di

stazioni appaltanti, fortemente professionalizzate, con tecnologie e

risorse umane adeguate, completamente informatizzate, con

notevoli capacità negoziali, in cui accentrare tutti i controlli di

trasparenza e legalità. Ciò al fine di assicurare la migliore qualità

ed efficienza della spesa pubblica ma anche al fine di prevenire i

fenomeni di corruzione nelle procedure di affidamento.

Il disegno di legge, recante la delega al Governo per l’adozione di

un decreto legislativo finalizzato a dare attuazione alle nuove

direttive europee del Parlamento e del Consiglio del 26 febbraio

2014, prevede esplicitamente, tra i criteri di delega la

“razionalizzazione delle procedure di spesa attraverso criteri di

qualità, efficienza, professionalizzazione delle stazioni appaltanti,

contenimento dei tempi, piena verificabilità dei flussi finanziari

anche attraverso adeguate forme di centralizzazione delle

committenze e di riduzione del numero delle stazioni appaltanti e

l’introduzione di misure volte a contenere il ricorso a variazioni

progettuali in corso d’opera”.

5. Il ruolo della Corte dei conti1

Dal quadro di insieme sopra delineato, emerge l’imprescindibile

esigenza di tutela della “concorrenza per il mercato” consistente

nell’adempimento dell’obbligo delle amministrazioni

aggiudicatrici – lato sensu intese ai sensi dell’art. 3, commi 25-34

del D.Lgs. n. 163/2006 – di procedere alla soddisfazione delle 1 Questo paragrafo è tratto dal contributo dello scrivente alla memoria (pp.135-159)

depositata dal Procuratore Generale, in occasione del giudizio di parifica svolto,

dinanzi alle Sezioni Riunite della Corte dei conti nell’udienza del 25 giugno 2015, sul

rendiconto generale dello Stato 2014.

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proprie esigenze mediante l’affidamento di un contratto pubblico

ad un soggetto selezionato attraverso un’apposita procedura di

gara.

Al riguardo, fermo restando che l’ordinamento, sia comunitario

che nazionale, sancisce in maniera specifica che l’affidamento di

un contratto pubblico deve avvenire mediante procedure ad

evidenza pubblica, relegando le ipotesi in cui è possibile non

procedere in tal senso a mere eccezioni, rileva quanto sostenuto

dall’AGCM (Segnalazione AS 222 - Disciplina dei servizi

pubblici locali) in ordine al fatto che l’aggiudicazione mediante

gara, attuando il principio della “concorrenza per il mercato”,

costituisce il solo valido strumento di individuazione del soggetto

a cui affidare l’esecuzione dei lavori, forniture o servizi.

Ne consegue che, anche nel rispetto della posizione assunta al

riguardo dall’ordinamento comunitario, il ricorso all’affidamento

diretto costituisce un’ipotesi del tutto eccezionale, giustificata solo

in particolari condizioni economiche e tecniche.

Per questo si rende necessario che il legislatore nazionale

riconosca uno specifico ruolo alla Corte dei conti, sub specie di

interpositio legislatoris ex art. 103, secondo comma della

Costituzione, e l’occasione potrebbe essere quella di tipizzare la

fattispecie di “danno alla concorrenza” di elaborazione pretoria,

alla medesima stregua di quanto fatto per il “danno all’immagine”

– anch’esso di derivazione pretoria – con l’art. 1, comma 62 della

legge n. 190/2012, che ha inserito nel corpo dell’art. 1 della legge

14 gennaio 1994, n. 20, dopo il comma 1-quinquies, il comma 1-

sexies, secondo il quale “nel giudizio di responsabilità, l’entità del

danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante

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dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica

amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si

presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di

denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente

percepita dal dipendente”.

Val la pena, a questo riguardo, richiamare: 1) la sentenza

n.11031/08, con la quale la Corte di Cassazione ha statuito che

“nel contratto di appalto pubblico l’omissione della gara

prescritta dalla legge per l’individuazione del contraente privato

comporta la nullità del contratto per contrasto con norme

imperative”, aggiungendo che, a seguito della declaratoria di

nullità, all’appaltatore “eventuali restituzioni potevano spettare

soltanto in forza di azione di ripetizione dell’indebito o di indebito

arricchimento”; 2) la sentenza n. 3672/2010, con la quale la

suprema Corte ha ribadito che “l’elusione delle garanzie di

sistema a presidio dell’interesse pubblico prescritte dalla legge

per l’individuazione del contraente privato più affidabile

comporta la nullità del contratto per contrasto con le relative

norme inderogabili … e conseguentemente non dovuti, dagli enti, i

compensi sulla base di questo erroneamente riconosciuti…”.

La Cassazione, con la sentenza n. 3672/2010 ha, inoltre, stabilito

che se la violazione di dette norme imperative “è stata altresì

preordinata alla conclusione di un contratto le cui reciproche

prestazioni sono illecite e la cui condotta è assolutamente vietata

alle parti e penalmente sanzionata nell’interesse pubblico

generale - che nel reato di corruzione è il buon andamento e

l’imparzialità dell’amministrazione - la nullità per contrasto con

norme imperative sussiste anche sotto tale ulteriore profilo, e deve

esser dichiarata onde impedire che dalla commissione del reato

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derivino ulteriori conseguenze”, per cui “non sono dovuti, dagli

enti, i compensi”.

In linea con detti principi giurisprudenziali, possono trarsi le

seguenti conclusioni: 1) le norme di evidenza pubblica sulla

concorrenza sono imperative; 2) la loro violazione comporta la

nullità del contratto; 3) dalla nullità del contratto discende la non

debenza, da parte della P.A., di compensi a favore del privato

contraente, se non nei limiti dell’arricchimento senza causa; 4)

l’esborso di somme eccedenti tali limiti costituisce danno erariale;

5) il pubblico funzionario che, per dolo o colpa grave, autorizza

una gara in violazione delle norme imperative sulla tutela della

concorrenza, con conseguente declaratoria incidentale di nullità

del contratto, è responsabile del danno erariale conseguente

all’indebito pagamento al privato contraente di somme eccedenti

l’arricchimento senza causa.

In tal caso, è nell’assenza di un titolo, idoneo a giustificare il

contratto posto in essere ed a fondare la spesa pubblicistica, che si

consuma la responsabilità amministrativa-contabile in discorso.

L’utile di impresa incassato dall’operatore economico rappresenta

- in considerazione dell’invalidità del contratto di affidamento –

una prestazione sine titulo (trattasi, appunto, dell’eccedenza

rispetto all’arricchimento. senza causa ex art. 2041 c.c. di cui ha

beneficiato la p.a.) e come tale, per ciò solo, costituisce evento di

danno ascrivibile alla fattispecie di responsabilità erariale in

discorso.

In detta fattispecie, in sintesi, si configura un danno erariale,

assumendosi come priva di causa la spesa pubblicistica a

remunerazione dell’utile di impresa, dovendo l’esborso della p.a.

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considerarsi “autorizzato” nei soli limiti dell’arricchimento (senza

causa) dell’ente pubblico conseguente all’avvenuta esecuzione (e

favorevole collaudo) dei lavori, del servizio, della fornitura, ecc.

In tal caso, in effetti, è proprio nell’assenza di un titolo (nullità del

contratto) della spesa pubblicistica, remunerante l’utile

dell’operatore economico, che si perfeziona il danno erariale.

Peraltro, può osservarsi per incidens, per detta tipologia di illecito,

che appare, per così dire, “codificato” anche il requisito

psicologico della “colpa grave” necessario per un addebito di

responsabilità amministrativa.

Si deve rammentare, infatti, che, ai sensi dell’art. 121 del codice

del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104

rubricato “Inefficacia del contratto nei casi di gravi violazioni”,

l’omessa gara ovvero la stipula di un contratto di affidamento a

trattativa privata in assenza delle condizioni di legge integra

proprio una di quelle violazioni più “gravi” delle fondamentali

regole concorrenziali; disposizione, dunque, che appare senz’altro

idonea a recare un pregnante “valore dimostrativo” nel processo

erariale, in punto di requisito psicologico della responsabilità

contabile, sub specie, appunto, di colpa “grave”.

Al riguardo, val la pena rammentare che da tempo i giudici

contabili – pur tra le inevitabili oscillazioni della giurisprudenza

(diceva, infatti, Salvatore Satta che se la forza della Matematica è

quella di NON essere un’opinione, la forza del Diritto è quella di

ESSERLO) – ai fini della quantificazione del “danno alla

concorrenza” mutuano il criterio “dell’utile di impresa”, già

utilizzato anche dalla giurisprudenza amministrativa per la

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quantificazione del risarcimento danni spettanti alla impresa

pretermessa .

In applicazione di tale criterio, dunque, il “danno alla

concorrenza” potrebbe essere tipizzato dal legislatore, mutuando

quanto già fatto per il “danno all’immagine”, con l’inserimento

nel corpo dell’art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20 di un

ulteriore comma del seguente tenore: “nel giudizio di

responsabilità, l’entità della sanzione da comminare agli organi

dell’amministrazione appaltante per il danno alla concorrenza da

essi causato, derivante da una aggiudicazione definitiva avvenuta

con procedura negoziata senza bando o con affidamento in

economia fuori dai casi consentiti dal decreto legislativo 12 aprile

2006, n. 163, è pari ad una percentuale variabile, a seconda della

gravità della violazione accertata, dal 5 al 10% del valore

dell’appalto qualora si tratti di lavori e dall’1 al 5% qualora si

tratti di forniture di beni e servizi”.

Ciò potrebbe portare a rilevanti e concreti risultati di dissuasione

dell’attività illecita dei pubblici funzionari nella gestione delle

gare pubbliche, con condanne risarcitorie esemplari, tanto più

necessarie in un momento nel quale si avverte il rischio reale della

corruzione in subiecta materia.

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