il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO – BICOCCA Facoltà di Sociologia Corso di Laurea triennale in Sociologia – Lavoro e organizzazione IL RECENTE DECLINO DELLA SINDACALIZZAZIONE E IL CASO ITALIANO Relatore: Chiar.mo Prof. Emilio REYNERI Tesi di laurea di: Niccolò CAVAGNOLA Matr. N. 073506 Anno Accademico 2008-2009

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Tesi di laurea triennale in Sociologia del lavoro e dell'organizzazione presso l'università di Milano-Bicocca

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Page 1: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO – BICOCCA

Facoltà di Sociologia

Corso di Laurea triennale in Sociologia – Lavoro e organizzazione

IL RECENTE DECLINO DELLA SINDACALIZZAZIONE

E IL CASO ITALIANO

Relatore: Chiar.mo Prof. Emilio REYNERI

Tesi di laurea di:

Niccolò CAVAGNOLA

Matr. N. 073506

Anno Accademico 2008-2009

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INDICE

Premessa p. 004

I. IL SINDACATO

1.1. A che cosa serve il sindacato? 007

1.2. Chi e perchè si iscrive al sindacato? 012

1.2.1. Logica dell’azione collettiva 012

1.2.2. Logica dell’azione individuale 019

— L’Italia 024

II. IL DECLINO DELLA SINDACALIZZAZIONE

2.1. Il quadro generale 028

— Rappresentanza e rappresentatività 028

— La sindacalizzazione nel secondo dopoguerra 030

2.2. Perchè si riduce la sindacalizzazione netta? 042

2.2.1. Variabili cicliche 043

— Disoccupazione 043

— Inflazione 045

— Clima politico 047

— Sciopero 048

2.2.2. Variabili strutturali 050

— Nuova occupazione 052

— Impiego pubblico 054

— Globalizzazione 056

— Immigrazione 058

2.2.3. Variabili istituzionali 060

— Sistema Ghent 060

— Corporativismo, centralizzazione e copertura 062

— Rappresentanza sui luoghi di lavoro 064

2.3. Il caso italiano 067

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— Le fasi della sindacalizzazione in Italia 067

— Il declino 070

— Un declino resistibile 075

— Il sindacalismo non confederale 078

— Le determinanti della sindacalizzazione 083

III. IL FUTURO DELLA PRESENZA DEL SINDACATO

3.1. L’attore sindacale 087

— Declino o ripiegamento? 087

— Reazioni adattive 090

3.2. Il futuro dei sistemi di relazioni industriali 097

— Convergenza o divergenza? 097

— Patti sociali 104

Riferimenti bibliografici 110

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PREMESSA

Secondo Anthony Giddens [1994] la frattura fondamentale che ha avviato la modernità (intesa

come i modi di vita e organizzazione sociale sorti in Europa intorno al XVII secolo), distinguendola

qualitativamente dall’epoca precedente, è stata il progressivo “svuotamento dello spazio e del

tempo”. Il tempo si svuota perché si stacca dal contesto socio-spaziale in cui è vissuto, smette di

essere organizzato socialmente diventando uno standard a livello globale. Il “quando” non è più

necessariamente collegato a un “dove”, diventando una misura indipendente dal contesto. Lo spazio

si svuota a sua volta perché si separa dal “luogo”: diventano sempre più frequenti i contatti tra

persone “assenti”, lontane da qualunque tipo di interazione faccia a faccia localmente situata. Oggi,

come esito e continuazione di tale processo, ci troveremmo in un periodo che Giddens chiama di

“modernità radicalizzata”, in cui culmina la disaggregazione (disembedding) dei sistemi sociali,

cioè «l’enuclearsi dei rapporti sociali dai contesti locali di interazione e il loro ristrutturarsi

attraverso archi di spazio-tempo indefiniti» [Giddens 1994, 32]. In termini di relazioni industriali e

mercato del lavoro tale situazione trova il suo relativo nel processo di riorganizzazione del

capitalismo iniziato negli anni ’70 che, a un sistema di relazioni lavorative localmente e socialmente

embedded e workplace centered, ha sostituito un sistema sempre più flessibile e teso allo sviluppo

di forme di lavoro contingente, tale da portare a «schemi eterogenei di presenza e assenza dal posto

di lavoro e a una crescente non permanenza e transitorietà delle relazioni lavorative» [Haunschild

2004, 77]. Come rileva Federico Butera, «scompaiono chiarezza e stabilità di strutture entro cui

ricoprire mansioni e posizioni chiave e entro cui sviluppare una carriera prevedibile. Si appannano

le culture dell’appartenenza. Diventano instabili le relazioni industriali su base aziendale» [Butera

1990, 23]. Secondo Manuel Castells, col rapido sviluppo delle tecnologie informatiche e

dell’informazione, il sistema produttivo è riuscito a riorganizzarsi globalizzandosi e

delocalizzandosi, così che «lo spazio delle organizzazioni nell’economia dell’informazione è

sempre più uno spazio di flussi (space of flows). […] Le conseguenze di tale conclusione sono di

ampia portata, in quanto più le organizzazioni dipendono, in definitiva, dai flussi e dai network,

meno sono influenzate dal contesto sociale associato alla loro localizzazione» [Castells 1989, 169-

170]. E’ evidente come questo processo di trasformazione del sistema produttivo e delle relazioni di

lavoro abbia necessariamente delle conseguenze sul piano delle relazioni industriali, quindi dei

modelli di conflitto tra le imprese e i lavoratori. I correlati di classe diventano meno deterministici e

meno legati al posto di lavoro, in quanto, come sostiene Giuseppe Bonazzi, «in un regime

produttivo post-fordista il cleavage tra destra e sinistra si sposta sempre più dalla fabbrica alla

società esterna, dal momento della produzione a quello della distribuzione» [Bonazzi 2001, 143].

4

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Ulrich Beck a sua volta afferma come la nuova dinamica del mercato del lavoro, unita alle garanzie

delle stato sociale, in un processo di crescente individualizzazione, abbiano dissolto le classi

internamente al capitalismo (pur senza risolvere i problemi di disuguaglianza), fino al punto in cui

«l’azienda e il posto di lavoro perdono importanza come luogo di formazione di conflitti e di

identità e si afferma un nuovo luogo di genesi di vincoli e conflitti sociali: la disposizione e

configurazione dei rapporti sociali privati e delle forme di vita e di lavoro» [Beck 2000, 146]. La

disgregazione in definitiva porta a «una crescita di importanza di identità caratterizzate sempre più

dalle differenze, dalle multiformità e dalla mutevolezza delle storie di vita personali, a fronte di una

progressiva perdita di significato di ideologie e quadri di riferimento collettivi legati al lavoro e alla

struttura di classe della società» [Bordogna 2007, 230].

Sempre secondo Giddens, però, ad un processo di disaggregazione sociale si accompagna

necessariamente uno speculare processo di riaggregazione (reembedding), offrendo nuove occasioni

per il reinserimento dei rapporti sociali enucleati dai loro specifici contesti spazio-temporali. Il

nostro è ancora un “mondo di persone” [Giddens 1994]. Sul piano delle relazioni industriali e del

mercato del lavoro, vista la loro connotazione inevitabilmente embedded nei sistemi di relazioni

sociali [Granovetter 1985; 1998], a fianco dello sviluppo di un paradigma di sviluppo più flessibile

e contingente, emergono nuove “invarianti” [Butera 1990], distribuite su tre livelli: individuale,

d’impresa e istituzionale (o nazionale).

A livello locale, o d’azienda, nonostante la forte e generalizzata diminuzione della densità sindacale

nei paesi europei a partire degli anni ’80 [Visser 1996], proprio in questo periodo si sono sviluppati

modelli di relazioni industriali a livello d’impresa connotate in senso collaborativo o addirittura

partecipativo [Cella e Treu 1998b]. La motivazione risiede paradossalmente nella stessa logica del

nuovo modello di sviluppo: le nuove incertezze con cui si confrontano le imprese richiedono sì

maggiore flessibilità, ma allo stesso tempo maggiore fiducia nella forza lavoro e commitment della

stessa nei confronti dell’azienda, obiettivi difficilmente ottenibili tramite la repressione del lavoro

organizzato e un tasso di turnover incontrollato. La logica stessa delle nuove forme di lean

production, fondate sui principi del just in time (JIT) e del total quality management (TQM)

richiedono una manodopera poco propensa a interrompere il “flusso teso” della produzione tramite

il ricorso allo sciopero e personalmente coinvolta nel miglioramento continuo (kaizen) del prodotto,

condividendo con l’azienda astuzie e conoscenze tacite. Nel conseguire tale obiettivo risulterà

economicamente più razionale per il management coinvolgere le forme di rappresentanza

tradizionali, piuttosto che tentare di spiazzarle con un più smaliziato (e costoso) ricorso a tecniche

unilaterali di human resource management [Streeck 1987; Regini 2003]. Gli esempi in questa

direzione, a partire dagli anni ’80, non mancano, come i noti accordi General Motors-Saturn a

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Spring Hill (USA) nel 1985 e della Nissan a Sunderland (UK) nel 1986 [Ichino 2006]. Per l’Italia,

invece, il protocollo IRI del dicembre 1984 [Negrelli 2001], l’accordo alla FIAT-SATA di Melfi del

giugno 1993 [Fortunato 2000], la formalizzazione del sistema di relazioni industriali partecipative

alla Electrolux-Zanussi col Testo Unico del 1995 [Perulli 1999] e la gestione partecipata dei

processi di outsourcing alla FIAT di Mirafiori e Rivalta sul finire degli anni ’90 [Pulignano 2003].

A livello individuale, un mercato del lavoro meno connotato in termini di classe e più

individualizzato permette alla parte della forza lavoro più forte sul mercato (i resource-rich

employees) una forma di economic reembedding [Haunschild 2004], cioè un’attivazione individuale

in senso quasi-professionale [Butera 1990] capace di ammortizzare gli svantaggi derivanti dalle

forme di lavoro contingente.

Infine, a livello istituzionale e nazionale, la riaggregazione del lavoro e delle relazioni industriali,

almeno nei paesi europei, sono avvenuti con lo sviluppo negli anni ’90 della prassi dei “patti

sociali”, fornendo la possibilità agli attori collettivi indeboliti dalla crisi del fordismo di collaborare

al rilancio economico del paese [Regini 2003].

Il cambiamento della struttura produttiva e la conseguente trasformazione del mercato del lavoro, i

cambiamenti istituzionali e le variazioni cicliche dell’economia risultano perciò gruppi di variabili

particolarmente utili nello studiare il cambiamento del comportamento dell’attore sindacale. In

particolare, cambiamenti come la globalizzazione della produzione, lo sviluppo delle tecnologie

dell’informazione, la ristrutturazione industriale verso sistemi di specializzazione flessibile, la

destabilizzazione dei mercati del lavoro e la disoccupazione di massa, il cambiamento delle strutture

e dei correlati di classe, la pluralizzazione degli interessi, il crescere di politiche neo-liberiste con

atteggiamenti anti-labour in molti paesi a partire dagli anni ’80 [Visser 1996], il sempre più

pressante trade-off tra uguaglianza e livelli di occupazione nelle società dei servizi [Esping-

Andersen 2000], portano una sfida sempre più dura nei confronti del lavoro organizzato, in primis

colpendo la sua consistenza numerica, ponendo sempre più in dubbio la sua rappresentatività,

incisività ed efficacia. Il recente declino della densità sindacale però, per quanto consistente, non

risulta necessariamente in relazione causale univoca col declino di influenza del sindacato come

attore collettivo presente sulla scena pubblica [Calmfors et al. 2002]: il tasso di sindacalizzazione

non costituisce un dato decisivo quando il sindacato tenta di rappresentare il lavoro nel suo

complesso o rappresenta effettivamente l’insieme dei lavoratori, o li rappresenta al di fuori delle

relazioni industriali. Considerando però le recenti difficoltà proprio in quest’ultimo settore, ove

effettivamente risulta decisiva la rappresentanza in termini di iscritti, è opportuno parlare di un

ripiegamento dell’attore sindacale, e non di un declino vero e proprio, non ricorrendo le condizioni

per un eclissi delle funzioni naturali e dei significati dell’esperienza sindacale [Baglioni 2008].

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I.

IL SINDACATO

1.1 A che cosa serve il sindacato?

Il mercato del lavoro è un “mercato” del tutto particolare, in quanto la “merce” lavoro è «un bene

sufficientemente differente dai carciofi e dagli appartamenti da affittare, tale da richiedere un

differente metodo di analisi» [Solow 1994, 23]. Le relazioni di scambio tra imprese e lavoratori

risultano infatti viziate da un rapporto di forza strutturalmente asimmetrico, dovuto principalmente

al fatto che da parte del lavoro vi è una necessità (di sopravvivenza) di offerta continua di

manodopera, mentre da parte dell’impresa la domanda può variare con ampi margini di discrezione

(per maggiore riserva di capitale, disponibilità di tecnologie labour-saving, e capacità di definire e

rilocalizzare la domanda con più facilità) [Reyneri 2005a]. Il sindacato nasce perciò con l’obiettivo

di rovesciare tale asimmetria, in modo da «porre l’andamento dei salari e delle condizioni di

erogazione del lavoro al riparo dalla concorrenza, in primo luogo quella fra i lavoratori, ma anche

quella fra i datori di lavoro» [Cella 2004, 7]. Si tratta perciò di un istituzione di protezione e

conservazione tale da sottrarre il lavoro dal libero e incondizionato funzionamento del mercato,

riportando le relazioni sociali a una dimensione collettiva in contrasto con «le concezioni

individualiste che hanno permeato la società borghese a partire dalle rivoluzioni inglesi e francesi

del XVII e del XVIII secolo, quella che fonda e sviluppa il mercato, e quella che struttura il sistema

politico e istituzionale» [Cella 2004, 4].

Secondo Robert Solow [1994] il mercato del lavoro è un’istituzione sociale, regolata non dal

semplice livello dei prezzi, ma in misura notevole anche da norme sociali. In questo caso la norma

fondamentale sarebbe quella che sconsiglierebbe ai lavoratori di entrare in competizione per i posti

disponibili, abbassando i salari di mercato. Nonostante le norme siano interiorizzate

indipendentemente dalla loro razionalità, Solow dimostra, tramite il dilemma del prigioniero, come

su un numero infinito di partite la cooperazione (il non vendere forza lavoro al di sotto del salario di

mercato) risulti più remunerativa della defezione (che però comporterebbe un immediato

vantaggio), in quanto se tutti i lavoratori defezionassero si cadrebbe in una situazione di

“concorrenza hobbesiana” che presto porterebbe i salari di mercato a livello di quello di riserva. Si

darebbe così una spiegazione razionale alla norma tale per cui i lavoratori preferirebbero sopportare

un periodo di disoccupazione prolungato con la certezza che il prossimo lavoro avrà un salario più

elevato grazie alla cooperazione degli altri (in caso contrario il vantaggio iniziale presto diverrebbe

nullo, in quanto la defezione collettiva abbasserebbe i livelli retributivi). Non è difficile immaginare

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il ruolo dei sindacati nel custodire e diffondere tale norma tra i lavoratori e nella società [Reyneri

2005a].

Lo strumento principale tramite cui il sindacato è in grado, a partire da certe condizioni di forza

numerica in termini di iscritti, di raggiungere gli obiettivi sopra illustrati, è la contrattazione

collettiva, cioè quel «processo di co-decisione basato su cooperazione conflittuale» [Visser 1996,

14] che la tradizione pluralista della scuola di Oxford definisce di “legislazione privata” condivisa

da imprenditori e sindacati, non ridotta alla semplice contrattazione economica, ma estesa

all’applicazione e gestione degli istituti salariali e normativi [Cella 2004]. Tramite la contrattazione

collettiva i sindacati perseguono obiettivi di equità distributiva, tendendo, nel livello a cui si esercita

la contrattazione, a «favorire una remunerazione unica e uguale per tutti piuttosto che un modello di

retribuzione individualizzata, una retribuzione legata alla specifica mansione piuttosto che alla

persona» [Calmfors et al. 2002, 86]. Laddove la contrattazione ha un’elevata estensione e

un’elevata centralizzazione la struttura salariale tenderà quindi ad essere più compressa, e le

disuguaglianze meno accentuate [Calmfors et al. 2002]. Colin Crouch [1982] afferma che

all’interno delle organizzazioni sindacali, nello svolgersi della loro ordinaria attività contrattuale, vi

è un pressante trade-off nella scelta tra obbiettivi “sostanziali” e “procedurali”, intendendo con i

primi la normale attività acquisitiva collegata agli incrementi salariali e alle condizioni di lavoro,

mentre coi secondi «il fine estrinseco di controllare i mezzi con cui assicurare i loro obbiettivi

intrinseci. In altre parole, parallelamente ai loro obbiettivi sostanziali potrebbero perseguirne uno

procedurale: il diritto di controllare, di co-determinare, o di contrattare ogni dettaglio di una

relazione di lavoro» [Crouch 1982, 149]. Non essendo possibile assicurare contemporaneamente

elevati risultati su entrambi gli obbiettivi, paradossalmente può risultare più conveniente sul medio-

lungo periodo puntare sugli obbiettivi procedurali a scapito di quelli sostanziali, in quanto un

maggiore controllo delle relazioni lavorative risulta necessario per continuare a garantire e

incrementare nel futuro le condizioni materiali del lavoro.

Il sindacato, come accennato sopra, non ha però esclusivamente la funzione di monopolio

sull’offerta di lavoro atta ad appropriarsi di rendite disponibili a livello d’impresa, ma rappresenta

anche il tramite dell’espressione collettiva di desideri e preoccupazioni tra lavoratori e impresa

[Calmfors et al. 2002]. Secondo Albert Hirschman [1970] gli individui partecipanti a un

organizzazione (un sindacato, un’impresa, un partito politico, ...) o a un mercato dei prodotti,

possono influire sul loro funzionamento tramite due vie: la defezione (exit), cioè abbandonare

l’organizzazione di cui si è membri (o smettere di acquistare un prodotto di cui non si è più

soddisfatti) e la protesta (voice), esercitata in maniera individuale o collettiva nei confronti

dell’organizzazione o dell’impresa le cui performance risultano in declino. All’interno di

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un’azienda ove le condizioni di lavoro si trovino a declinare, la costituzione, l’adesione o la

partecipazione a un sindacato possono costituire un opzione di voice esercitata collettivamente. E,

visti i costi sia del cercare un nuovo lavoro (exit) ove esso sia un bene scarso, o i rischi connessi a

un’azione individuale, la contrattazione collettiva del sindacato in azienda risulterà l’opzione più

praticabile per migliorare le proprie condizioni lavorative [Calmfors et al. 2002]. O, per dirla nei

termini più generali di Hirschman, «questo è uno dei motivi per cui il meccanismo di voice gioca un

ruolo più importante nei confronti delle organizzazioni di cui un individuo è membro, rispetto alle

imprese di cui acquista i prodotti: le prime sono decisamente meno numerose rispetto alle seconde»

[Hirschman 1970, 40]. Il fight from within, rispetto alla più rapida e certa opzione di exit, dipenderà

quindi da: la dimensione in cui i membri siano disponibili a scambiare le certezze dell’exit con le

incertezze della voice; la previsione che i membri hanno della loro capacità di influenzare

l’organizzazione; il grado di istituzionalizzazione dei meccanismi di voice, per esempio incentivati

tramite una legislazione promozionale alla presenza sindacale sui luoghi di lavoro. Non è un caso

quindi che nei contesti ad alta mobilità job-to-job, come nei sistemi di piccola impresa o a economia

diffusa, il ricorso a meccanismi di voice, identificabili con una forte presenza sindacale a livello di

impresa, sia meno frequente. In Italia ad esempio (contrariamente alla maggior parte dei paesi

OCSE [Lee 2005]) la percentuale di lavoratori occupati nell’industria, a parità di altri fattori, risulta

associata negativamente al tasso di sindacalizzazione, vista la prevalenza delle piccole unità

produttive nel settore manifatturiero [Ballarino 2005b].

Il sindacato può inoltre contribuire a una serie di iniziative volte a facilitare il funzionamento

dell’impresa e incrementarne la performance economica. Contrariamente alla teoria economica

prevalente, che vede per lo più il sindacato come fonte di inefficienza allocativa, si può dimostrare

che in realtà esso possa contribuire ad aumentare l’efficienza delle imprese e dei mercati. Ad

esempio limitando le rendite da monopsonio in mercati con pochi datori di lavoro, evitando

un’aspra concorrenza tra imprese sui costi del lavoro, aumentando impegno e produttività dei

lavoratori fornendo sicurezza e protezione, incentivando le imprese a investire in capitale umano

abbassando il turn-over, diminuendo i costi di transazione per le imprese facenti parte di industrie in

corso di ristrutturazione fornendo un pratico ed efficiente canale per raggiungere e coinvolgere la

forza lavoro interessata [Calmfors et al. 2002].

Più recentemente, anche in reazione a una situazione di calo delle iscrizioni e conseguente perdita di

risorse finanziarie derivanti dalle minori quote associative raccolte, si è sviluppata una fiorente

economia dei servizi offerti direttamente dai sindacati [Calmfors et al. 2002], tracciando una nuova

possibile linea di tendenza per la loro evoluzione futura come “aziende di servizi” [Feltrin 2007]. La

prima tipologia di servizi offerti, ricalcante quelli storici, mette al centro la tutela dei diritti e

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costituisce «lo strumento per rendere agibili i diritti individuali e, in senso lato, per rispondere ai

bisogni dei lavoratori e dei pensionati. In quest’ottica i servizi sono la traduzione sul piano

individuale delle conquiste della contrattazione collettiva. […] Secondo questa visione, i servizi di

tutela devono essere tendenzialmente universali e gratuiti» [Salvato 2001, 137]. Rientrano in questa

categoria i servizi di assistenza e tutela previdenziale e infortunistica, spesso svolta in regime di

sub-fornitura di servizi pubblici, la tutela sindacale nelle vertenze del lavoro [Salvato 2001] e

l’offerta di formazione e aggiornamento [Calmfors et al. 2002]. Una seconda e differente tipologia

di servizi, venuta a galla più di recente, riguarda invece quelli diretti specificamente all’associato,

offerti a condizioni particolarmente vantaggiose e utilizzati come incentivi selettivi atti a rendere

più appetibile l’iscrizione [Salvato 2001]. Secondo Gian Primo Cella «per alcuni aspetti tali

iniziative sembrano rispondere alle caratteristiche della nuova “individualizzazione” della forza

lavoro, e, in effetti, possono contrastare le tendenze alla uscita dall’associazione sindacale» [Cella

2004, 126]. I più noti ed estesi sono i servizi di assistenza fiscale, ma possono essere dei più diversi,

dalle convenzioni a prezzi agevolati con banche e compagnie assicurative o con agenzie di viaggio,

ai servizi finanziari, all’assistenza agli anziani e alle famiglie, etc…

E’ il caso solo di accennare (vista l’ampiezza dell’argomento) al ruolo del sindacato sull’arena

politica. I sindacati, al momento del loro emergere, hanno sempre ricercato rapporti con partiti

politici affini, in modo da assicurarsi una rappresentanza esplicitamente pro-labour nell’arena

politica (utile a svolgere un ruolo di sostegno promozionale alla presenza sindacale e ad assicurare

un livello di base di diritti sociali), seppur con fini e metodi diversi (andando dai rapporti di

dipendenza pura, all’interdipendenza paritaria, all’assenza di rapporti stabili) [Cella 2004]. Secondo

Colin Crouch [1982] esisterebbe una “inevitability of politics” delle organizzazioni sindacali

centralizzate, atta a contrattare coi governi nazionali una serie di provvidenze atte a proteggere i

lavoratori dalle fluttuazioni economiche e dal mercato, offrendo in cambio moderazione salariale (e

quindi complessivamente maggiore occupazione), tentando di contenere le rivendicazioni delle

rappresentanze di base, più particolaristiche e meno attente ai livelli occupazionali complessivi.

Questo avverrebbe, secondo Alessandro Pizzorno [1977], in una logica di “scambio politico”, nel

caso che il soggetto delle rivendicazioni sia abbastanza grande e rappresentativo e capace di

coordinare le rivendicazioni di un insieme di portatori di interessi potenzialmente contrastanti.

Tramite una «sottoutilizzazione del potere di mercato di breve periodo» [Pizzorno 1977, 414] può

instaurarsi un rapporto Stato-sindacato basato su obiettivi di lungo periodo, fondato sulla

cooperazione a mantenere il più ampio consenso sociale possibile. Questo rapporto può assumere

carattere continuativo e duraturo e riguardare un ampio spettro di questioni (come nei sistemi neo-

corporativi), oppure saltuario e limitato, teso più o meno esclusivamente ad assicurare le condizioni

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per l’attività sindacale, rimandando la regolazione della maggior parte delle questioni economiche e

normative alla contrattazione collettiva, secondo un principio di maggior volontarismo (tipico delle

economie anglosassoni).

In definitiva si può concludere con Anna Grandori che «il sindacato è dunque un’organizzazione

“intermediaria”, per sua natura in “tensione di ruolo”: pur agendo come rappresentante di una parte,

la sua azione è efficace se si rende accountable anche verso altri stakeholders e su altri parametri»

[Grandori 2001b, 17]. Il problema dell’accountability, cioè della responsabilità verso i propri

referenti, è di centrale importanza per tutte le organizzazioni di grandi dimensioni, in quanto in esse

si presenta con più forza la tendenza alla “legge ferrea dell’oligarchia” di Roberto Michels, cioè, nel

caso del sindacato, il difficile dilemma del “rispecchiare o interpretare” i desideri della base [Cella

2003]. In effetti un’evoluzione gerarchica, con passaggio ai vertici dei poteri decisori a prescindere

dell’opinione della base, sembrerebbe occorrere nei sindacati con maggiore forza mentre si passa

dai livelli di contrattazione inferiori a quelli superiori: in particolare la responsabilità nei confronti

della base risulterebbe essere più forte e continuativa per le scelte compiute a livello di azienda

piuttosto che per quelle prese dalle segreterie confederali nazionali [Grandori 2001b]. In questo

risiede la “tensione di ruolo” con cui deve convivere l’attore sindacale, in quanto, per legittimare la

sua azione, deve risultare accountable principalmente sotto quattro diverse dimensioni: nei

confronti del gruppo di riferimento (gli associati o la generalità del lavoro, a seconda che si tratti di

un sindacato “associativo” o “di classe” [Della Rocca 1998]); nei confronti di terzi verso cui ha una

“responsabilità sociale” (ad esempio in relazione al frequente utilizzo dello sciopero nei servizi

pubblici); nei confronti delle controparti contrattuali (imprese, associazioni, Stato); nella fornitura

di servizi pubblici in caso gli vengano delegati dallo Stato (ad esempio i servizi di patronato o la

gestione dei sussidi di disoccupazione nei sistemi Ghent) [Grandori 2001b]. E’ evidente come

un’accountability continua nei confronti della base da parte delle centrali confederali risulterebbe

difficilmente compatibile con una responsabilità parimenti robusta sulle altre dimensioni (e

viceversa), ed è proprio nell’equilibrio tra queste che si giocano i dilemmi organizzativi che

determinano la struttura interna di un sindacato. In caso il divario interpretativo sugli obiettivi da

perseguire dei diversi stakeholders diventi troppo ampio, si crea una frattura tra rappresentanti,

rappresentati e detentori di interessi, portando al limite la tensione e dando spazio a nuove forme di

identità collettiva e a una ristrutturazione dei rapporti tra gli attori in gioco [Pizzorno 1977].

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1.2 Chi e perché si iscrive al sindacato?

Prima di arrivare ad analizzare quali sono le variabili che influiscono sulle dimensioni del fenomeno

sindacale, è importante fornire un quadro teorico dell’azione collettiva, tale da spiegare i motivi per

cui gli attori corporati si formino e agiscano. E’ altresì importante analizzare le motivazioni che

spingono gli attori individuali ad agire in senso collettivo, cioè nel caso specifico ad iscriversi e/o a

partecipare a un sindacato. Nel primo dei seguenti paragrafi l’attenzione sarà sulle teorie dell’azione

collettiva, con particolare riferimento all’azione sindacale. Nel secondo verranno indagate a livello

empirico le caratteristiche e le motivazioni individuali che spingono i singoli attori a cercare

l’adesione agli organismi di rappresentanza dei lavoratori.

1.2.1 Logica dell’azione collettiva

Dal 1965, anno di uscita di The logic of collective action di Mancur Olson, ogni discorso sull’azione

collettiva si apre confrontandosi con un paradosso, il paradosso del free-rider (o dell’opportunista).

Tale paradosso si applica a quelle situazioni in cui un attore collettivo di grandi dimensioni (ad

esempio un sindacato) si muove per promuovere un bene pubblico, cioè un tipo di bene che è

consumabile liberamente da tutti gli appartenenti a un dato gruppo (ad esempio la totalità dei

lavoratori coperti da un contratto collettivo nazionale), che contribuiscano alla sua fornitura (in

termini monetari o di partecipazione) o meno. Secondo Olson un attore individuale che si muova

razionalmente non avrebbe alcun interesse a partecipare (in questo caso pagando la quota

associativa sindacale o partecipando a uno sciopero) all’azione collettiva orientata all’ottenimento

di un bene pubblico, in quanto «sebbene tutti i membri del gruppo abbiano un comune interesse

nell’ottenere tale beneficio collettivo, non hanno alcun interesse comune nel pagarne il costo.

Ognuno preferirebbe che gli altri pagassero l’intero costo, e solitamente riceverebbero qualsiasi

beneficio ottenuto, che si siano caricati parte del costo o no» [Olson 1971, 21]. Oltretutto il

contributo marginale di ogni individuo all’azione di gruppo risulterebbe sostanzialmente

insignificante, mentre comporterebbe un forte dispendio di tempo e risorse da parte del singolo che,

in caso di successo, otterrebbe una piccola parte del bene acquisito, parte che avrebbe ottenuto

anche se non si fosse sobbarcato i rischi e i costi del partecipare all’azione collettiva. Infine i costi

per organizzare grossi gruppi di interessi sono solitamente molto elevati, includendo anche la

difficoltà del portare a sintesi una serie di interessi eterogenei e in potenziale conflitto tra loro,

particolarmente difficili da coordinare [Olson 1982]. Olson definisce i grandi gruppi eterogenei

latent groups, per rimarcarne la dispersione ed eterogeneità e il conseguente minore controllo

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sociale esercitato tra i membri. I piccoli gruppi (privileged groups), invece, non andrebbero incontro

allo stesso genere di paradosso (perlomeno non nella stessa dimensione), grazie alla loro minore

eterogeneità e dispersione (a cui conseguirebbe una maggiore pressione sociale e maggior controllo

tra i membri), i minori costi di organizzazione, ma soprattutto grazie al fatto che, dal momento in

cui il bene pubblico verrebbe spartito tra un ristretto numero di membri, il beneficio individuale

sarebbe di molto maggiore, rendendo razionale il fornire il bene pubblico in ogni caso, anche se

l’intero costo dovesse gravare su un singolo soggetto. In particolare i sindacati espressione di

piccoli gruppi di lavoratori (come i vecchi sindacati di mestiere o, oggi, quelli occupazionali e

particolaristici, fino ad arrivare ai sindacati “di qualifica”) avrebbero meno difficoltà

nell’organizzarsi e scoraggiare comportamenti opportunistici.

Olson quindi risolve il paradosso del free-rider in un’ottica utilitarista, affermando che i grandi

gruppi di interessi saranno in grado di portare avanti un’azione collettiva solo in presenza di

qualche forma di coercizione, o, in alternativa, fornendo dei benefici selettivi ai membri che

decidano di partecipare a tale azione. Con riferimento alla partecipazione al movimento sindacale

strumenti di coercizione possono essere considerate le clausole contrattuali di closed-shop o di

union-shop (tipiche dei sistemi di relazioni industriali anglosassoni); i benefici selettivi invece

riguardano qualsiasi tipo di servizio o beneficio la cui erogazione dipende in ultima analisi

dall’appartenenza al sindacato (in particolare l’assistenza legale gratuita nelle dispute di lavoro, i

sussidi di sciopero, i servizi forniti a condizioni agevolate, etc…) [Olson 1971].

L’argomentazione di Olson è indubbiamente di grande efficacia, e mette in luce alcuni dei dilemmi

fondamentali alla base delle organizzazioni costituite in funzione dell’ottenimento di beni pubblici,

come i sindacati. In particolare la spiegazione dell’adesione in termini di benefici selettivi trova

preciso riscontro empirico, qualora con ciò si intenda una protezione selettiva e preferenziale da

parte del sindacato nei confronti dei propri membri sulle dispute di lavoro: «mentre i sindacati

potrebbero trattare le rimostranze anche dei non membri, in parte per convincerli dell’utilità del

sindacato, il non membro sarebbe senza dubbio consapevole del fatto che la sua rimostranza contro

il management potrebbe prima o poi essere l’ultima ad avere un seguito se persistesse

indefinitamente a rimanere fuori dal sindacato» [Olson 1971, 73]. Diverse survey stimano infatti

come elemento decisivo per l’adesione al sindacato la possibilità di avere supporto in relazione a

problemi lavorativi [Waddington e Whitston 1997; Calmfors et al. 2002]. L’argomento però non

spiega diversi altri risultati empirici relativi alle stesse survey, cioè perché come spinta all’iscrizione

persistano con la stessa forza motivazioni collettive e ideali, o relative al miglioramento delle

retribuzioni e delle condizioni di lavoro (che data la natura di bene pubblico risulterebbero

disponibili a prescindere dall’iscrizione) [Paoletti 2001; Visser 2002]. Né spiega perché tutti gli altri

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Page 14: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

benefici selettivi (dall’assistenza legale, ai servizi, alle convenzioni a prezzi agevolati), altri dal

supporto nelle dispute, abbiano un ruolo del tutto marginale nelle motivazioni all’adesione, né come

possano persistere in diversi paesi alti livelli di densità sindacale in assenza di incentivi selettivi

sviluppati e in assenza di coercizione [Crouch 1982]. Infine non dà una spiegazione soddisfacente

dell’andamento ciclico della sindacalizzazione, evadendo la spiegazione di eventuali picchi di

mobilitazione con temporanee “motivazioni ideologiche” [Olson 1971]. In definitiva il modello di

attore ipotizzato da Olson corrisponde all’attore economico neoclassico definito da Amartya Sen

rational fool, per cui «una persona ha un ordine di preferenze, e come e quando nasce la necessità si

suppone rifletta i suoi interessi, rappresenti il suo benessere, riassuma le sue idee su cosa andrebbe

fatto, e descriva le sue scelte e comportamenti effettivi. […] Una persona così descritta potrebbe

essere “razionale” nel limitato senso di non rivelare incongruenze nel suo comportamento di scelta,

ma, se non ha alcuna utilità da queste distinzioni tra concetti abbastanza differenti, dev’essere un

po’ sciocco» [Sen 1977, 335-336].

Albert Hirschman [2003] propone uno schema dell’azione basato su un “ciclo privato-pubblico”. La

caratteristica che accomunerebbe la vita privata, basata sul consumo, e la vita pubblica, fondata

sulla partecipazione a movimenti collettivi, sarebbe la delusione e l’insoddisfazione. Ogni atto di

consumo ha in sé, inevitabilmente, una parte di delusione, derivante dalla naturale insaziabilità

dell’uomo e dalla non coincidenza tra aspettative e risultati effettivi. Lo stesso accadrebbe nella

partecipazione alla vita pubblica, a causa della sovente discrepanza tra ideali e loro realizzazione, e

all’eccessivo utilizzo di tempo richiesto sottratto ad affari privati. In tal modo, secondo Hirschman,

si alternerebbero periodi in cui la delusione crescente negli affari privati spingerebbe gli individui a

cercare le soddisfazioni, ormai carenti nel campo del consumo, nella vita pubblica. Similmente, al

crescere della delusione per gli affari collettivi, si tenderebbe a ritornare alle questioni private,

instaurando per l’appunto un ciclo che tenderebbe a spiegare il mutamento di preferenze degli

individui nell’allocazione del proprio tempo e nelle loro abitudini di consumo. In particolare

Hirschman contrasta la posizione olsonsiana in quanto stabilisce una differenza qualitativa, e quindi

una diversa interpretazione, dell’azione pubblica rispetto a quella privata: dal momento in cui

spesso l’azione collettiva si risolve in una forte delusione, è possibile che quanto più si possa

ottenere da questa sia niente più che la partecipazione stessa. Quindi «dalla fusione-confusione tra il

momento del perseguimento e il momento del raggiungimento dell’obbiettivo deriva che la

distinzione netta tra costi e benefici dell’azione compiuta nell’interesse pubblico scompare, poiché

la lotta, che dovremmo considerare dal lato dei costi, si rivela essere parte dei benefici. […] Il

beneficio dell’azione collettiva per un individuo non è dato dalla differenza tra il risultato atteso e lo

sforzo compiuto, ma dalla somma di queste due grandezze» [Hirschman 2003, 112]. In particolare,

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Page 15: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

rifacendosi a Sen [1977], Hirschman riprende l’idea che accanto allo schema di preferenza che

secondo la teoria economica descriverebbe il comportamento degli individui (come l’iscriversi a un

sindacato solo in presenza di benefici selettivi), esisterebbero degli schemi di “meta-preferenze”,

contenenti schemi di preferenza anche diversi da quelli propri del soggetto (ad esempio più

desiderabili socialmente, rappresentanti scrupoli morali, etc...). I cambiamenti di stile di vita, come

il passaggio dal privato al pubblico, consisterebbero perciò nel prevalere di una meta-preferenza

differente dallo schema di preferenze abituale, favorita da un concomitante evento catalizzatore, per

esempio una serie di esperienze deludenti (in campo privato o pubblico). In questo modo,

sommando costi e benefici nell’azione collettiva, e proponendo una teoria del ciclo privato-

pubblico, Hirschman spiegherebbe la scarsa diffusione del free-riding nei movimenti collettivi e

renderebbe conto del carattere ciclico (in termini di conflitto e di dimensioni numeriche) del

fenomeno sindacale.

Anche Claus Offe e Helmut Wiesenthal [1980] criticano l’approccio di Olson con particolare

riferimento al processo di calcolo dei costi-benefici nel partecipare all’azione collettiva. Questo si

baserebbe sulla dogmatica “equazione liberale” secondo cui “l’interesse di un individuo è

semplicemente ciò che dice esserlo”, un assunto eccessivamente ingenuo secondo i due autori. Tale

assunto risulterebbe veritiero per le aziende, singole o associate in organi di rappresentanza, in

quanto la loro logica di azione collettiva sarebbe di tipo “monologico”, cioè gli interessi delle

singole imprese risulterebbero meno in contrasto tra di loro, fornendo più facilmente una

concezione condivisa del loro interesse collettivo. Per i lavoratori la situazione sarebbe diversa, in

quanto l’auto-percezione dei propri interessi risulta difficilmente condivisa dalla totalità del mondo

del lavoro, e pertanto la loro logica di azione collettiva dovrà essere innanzitutto “dialogica”,

dipendendo comunque il successo della loro azione su una concezione comune e condivisa del loro

interesse. Così ogni azione collettiva in questo senso si baserà sulla concorrenza tra due tipi di

logica: la lotta per perseguire i propri interessi (di natura monologica) e la lotta nel definire quali

essi siano (di natura dialogica). La logica olsonsiana sarebbe infatti «incapace di includere e

descrivere il secondo livello di conflitto, ove i parametri diventano variabili, e l’azione collettiva è

tesa a una ridefinizione di cosa intendiamo con “costi” e “benefici”. […] L’obiettivo di questo

secondo tipo di conflitto non è “ottenere qualcosa”, ma di metterci in una posizione da cui possiamo

vedere meglio cosa sia in realtà ciò che vogliamo, e dove diventa possibile liberarci di nozioni

distorte e illusorie dei nostri interessi» [Offe e Wiesenthal 1980, 96]. Anche questo modello

risulterebbe pertanto ciclico, prevalendo la natura dialogica delle organizzazioni sindacali nei

periodi di definizione (o ridefinizione) delle identità collettive e degli interessi comuni, per poi

passare alla natura monologica nelle fasi di istituzionalizzazione del movimento. Nel primo stadio

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Page 16: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

prevarrebbe la partecipazione e la “volontà di agire” (willingness to act), ponendo un freno ai

comportamenti opportunistici, grazie al processo partecipato di definizione identitaria e degli

interessi da rappresentare. Nel secondo l’organizzazione diverrebbe più distaccata dalla base,

cercando altre fonti di legittimazione (come lo Stato nei sistemi neo-corporativi), determinando un

riflusso dell’azione collettiva.

Sulla linea tesa a spiegare la partecipazione ai movimenti collettivi in termini identitari, e in

contrasto con le formulazioni rigide della teoria della scelta razionale, si pone anche il contributo di

Alessandro Pizzorno. In una prima formulazione della sua teoria [Pizzorno 1977; 1978], tesa a

spiegare il ciclo di conflittualità sindacale 1968-1972 in Italia, anch’egli si poggia

sull’individuazione di due logiche dell’azione collettiva: quella legata alla militanza di base, alla

partecipazione diretta e al “ritiro della delega”; e quella legata al processo di scambio e

contrattazione con le controparti (governo e impresa), fondato su maggiore autonomia dei

rappresentanti dai rappresentati e connotata in senso più moderato e responsabile. In particolare, per

spiegare le fasi a elevata militanza, Pizzorno prende le mosse dal concetto di “formazione di nuove

identità collettive”, così qualificandone il processo: «quando una massa di individui, appartenenti a

una data categoria professionale, o frazione di classe, o in genere aventi interessi obiettivi comuni,

prima esclusi dal sistema di rappresentanza, vengono a trovarsi in condizioni favorevoli per

mobilitarsi, o essere mobilitati, e per condurre un’azione collettiva volta ad ottenere il

riconoscimento della loro identità e quindi il diritto di essere rappresentati, la conflittualità che ne

deriva tende ad essere più intensa che quella per le normali rivendicazioni di benefici, e ad

assumere forme e contenuti nuovi» [Pizzorno 1978, 13]. Secondo questa formulazione la

mobilitazione tesa alla costituzione e al riconoscimento di una nuova identità collettiva sarebbe fine

a sé stessa, costituendo la premessa a ogni possibile negoziazione. La partecipazione espressiva

tende a sostituirsi a quella strumentale. Perciò «condotte che possono sembrare irrazionali alla luce

dei benefici rivendicati, o di altri fini espliciti, appaiono razionali se si considera che il fine reale è il

costituirsi e raggiungere coesione della nuova identità» [Pizzorno 1978, 13], sviluppando nuovi

simboli (necessari al riconoscimento dell’identità, sia internamente che esternamente), reti di

relazioni interpersonali e solidarietà tra i partecipanti. Le spinte di partecipazione non si formano

necessariamente in modo spontaneo, ma si innestano su preesistenti tradizioni e modelli

organizzativi, venendo catalizzate da eventi contingenti. Una volta riconosciuta la nuova identità

collettiva però si pone il problema del riassorbimento del movimento, trasformando la

partecipazione espressiva in partecipazione strumentale, fondata sul calcolo dei costi e benefici

individuali. Così il movimento tenderebbe a spaccarsi in due: coloro per cui la partecipazione

espressiva continua ad avere un senso, e coloro per i quali tenderà a comportare un costo eccessivo,

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Page 17: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

ristabilendosi così il principio di rappresentanza e negoziazione [Pizzorno 1977]. La logica dello

standing for rifluirà nella logica dell’acting for [Cella 2003].

In una seconda formulazione, Pizzorno [1996; 2007] abbandonerà la logica duale dell’azione

collettiva, riconducendo la teoria a unità interpretativa e fornendo un «contributo a sostegno di un

approccio relazionale in grado di fondare in modo unitario il rapporto tra interessi e identità» [Mutti

2002, 107]. La ridefinizione teorica parte dall’analisi a livello micro del cambiamento sociale.

Viene in particolare criticata l’attitudine delle diverse teorie della scelta razionale ad assumere la

decisione come unità di analisi. Secondo Pizzorno sarebbero le interazioni tra individui, e non le

decisioni dei singoli, a costituire l’oggetto da spiegare. Tali relazioni sarebbero strettamente

correlate al concetto di identità, in quanto «il riconoscimento reciproco di una qualche identità fra

gli individui partecipanti a un’interazione sociale costituisce la condizione perché l’interazione

stessa sia possibile» [Pizzorno 1996, 118]. Il concetto di identità è centrale nel modello di Pizzorno,

ed è proprio in merito a questo che la teoria della scelta razionale risulterebbe fallace, in quanto

«una persona che sceglie “razionalmente” deve essere in grado di valutare le conseguenze della sua

scelta nei termini del suo stesso interesse. Ma, in primo luogo, gli interessi dell’io di ora non sono

gli stessi degli io futuri» [Pizzorno 2007, 55]. L’anticipare le conseguenze derivanti da una scelta

razionale presupporrebbe logicamente anche l’anticipazione parallela dei nostri “io futuri”, non

essendo l’identità di una persona fissa e stabilmente definita (rendendo non automatica la coerenza

delle scelte fatte oggi con le conseguenze valutate domani), gettando così ogni processo di scelta in

una condizione di persistente incertezza. Costituire un’identità stabile, tale da vincere questa

condizione d’instabilità, è possibile «solo grazie a qualche connessione interpersonale orizzontale

tra io individuali» [Pizzorno 2007, 57], cioè grazie alla partecipazione a una qualche cerchia sociale

di riconoscimento. Perciò «l’azione sociale non è il prodotto che risulta dagli io che massimizzino

soddisfazioni istantanee né di io che elaborino strategie atte a procurare vantaggi per io futuri o

future generazioni di io; risulta piuttosto da io che mirano ad assicurare legami orizzontali con gli io

di altre persone o legami verticali con gli io futuri» [Pizzorno 2007, 59]. In modo simile, nel campo

della teoria economica, anche Amartya Sen aveva già messo in luce le difficoltà inerenti al modello

di individuo razionale con riferimento alla coerenza individuale su una serie di scelte distanziate

temporalmente, in quanto «l’intervallo di tempo rende difficile distinguere tra incoerenza e

cambiamento di gusti» [Sen 1977, 325]. L’identità dell’individuo verrebbe quindi a formarsi

nell’interazione continua e giornaliera con gli altri, in un processo di comune riconoscimento,

laddove la partecipazione è immediatamente visibile e condivisa, e tesa alla condivisione di

un’identità collettiva. Perciò «l’azione collettiva, o la comunicazione intensificata, con il

conseguente formarsi e venir riconosciute di nuove identità collettive nel loro stesso svolgersi,

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procurano ai partecipanti quella sicurezza di essere riconosciuti che sentivano come mancante»

[Pizzorno 1996, 123]. Intendendo l’azione in questo senso scomparirebbe il paradosso del free-

riding, in quanto non deriverebbe vantaggio alcuno dal non partecipare all’azione collettiva,

venendo meno lo scopo della stessa e cioè il riconoscimento degli altri e l’affermazione

dell’identità: «la motivazione a partecipare va quindi cercata in benefici che nascono dalla

partecipazione stessa» [Pizzorno 1996, 126]. Pertanto accettare un tale ordine di idee significa

abbandonare la prospettiva della decisione individuale, ponendo il fuoco sulle reti di relazioni (quali

il capitale sociale di una persona) e alla loro connessione con l’idea di “identità di lungo periodo”,

in quanto «la dinamica dell’identità precede logicamente e rende possibile il calcolo razionale

mezzi-fini» [Mutti 2002, 109]. Pizzorno quindi fa un passo avanti rispetto alla precedente

formulazione, in quanto interpretare il cambiamento sociale come mero affermarsi di nuove identità

collettive non spiegherebbe perché la società cambierebbe in un certo qual modo, tralasciando il

processo di formazione degli scopi collettivi. Tali scopi possono essere invece interpretati come

costituti e formati «piuttosto nel processo stesso tramite il quale si costituiscono le identità

collettive» [Pizzorno 1996, 130]. Pertanto un movimento collettivo, come un sindacato, stimola sì la

partecipazione per la ricerca di identità da parte degli individui: «per essere riconosciuti, però, e per

poter quindi offrire con efficacia tale identità, debbono presentarsi con scopi dichiarati» [Pizzorno

1996, 130]. E’ il contenuto di tali scopi che permette agli attori collettivi di distinguersi da altri,

quindi è la scelta degli stessi che possono meglio determinare l’identità offerta e cercata. Ed è

quindi l’atto di “nominare”, cioè il «fare esistere obiettivi e aspirazioni (con le connesse aspettative)

dei soggetti collettivi attraverso la apposizione di alcuni nomi invece che di altri […], che spesso si

traduce nella utilizzazione di nomi diversi per l’indicazione dello stesso obiettivo o della stessa

posta in gioco» [Cella 2003, 234], secondo Gian Primo Cella una delle dinamiche fondamentali

dell’azione collettiva.

E’ possibile ora trarre qualche conclusione a partire dagli assunti di alcune delle teorie presentate. Il

concepire l’azione come orientata a una ricerca di identità e riconoscimento a partire dalle cerchie

sociali di appartenenza fornisce una spiegazione dell’azione collettiva decisamente persuasiva, nel

momento in cui viene intesa a spiegare la formulazione di scopi collettivi fornendo la base per

l’orientamento dell’individuo nella società. Resta da tener presente che l’identità individuale è per

natura sociale, e pertanto è costituita dalla somma delle appartenenze dell’individuo a una pluralità

di cerchie sociali. Come sosteneva già Georg Simmel «da un lato l’individuo trova pronta per

ciascuna delle sue tendenze e aspirazioni una comunità che gli agevola il loro soddisfacimento, che

offre alle sue attività una forma di volta in volta sperimentata come conforme allo scopo e tutti i

vantaggi dell’appartenenza a un gruppo; d’altro lato l’elemento specifico dell’individualità viene

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conservato dalla combinazione delle cerchie, che può essere in ogni caso diversa. Così si può

affermare che dagli individui sorge la società, dalla società sorge l’individuo» [Simmel 1989, 370].

Mentre, in un passaggio molto vicino a Pizzorno, si sostiene che «spesso l’assunzione di certi

contenuti di vita non è assolutamente comprensibile in base alla loro importanza oggettiva, ma

soltanto in base al soddisfacimento [trovato in essi …]. Il bisogno di una posizione chiara, di uno

sviluppo inequivocabile dell’individualità spinge l’individuo a selezionare certe cerchie nel cui

punto di intersecazione egli possa porsi e dal cui insieme – una cerchia offrendo essenzialmente la

forma dell’aggregazione, l’altra quella della concorrenza – egli possa acquisire un massimo di

quella determinatezza individuale» [Simmel 1989, 366]. Pertanto, una volta spiegata la logica

dell’azione collettiva in termini di interazioni e riconoscimento sociale, il compito successivo

consiste nello spiegare come i vari gruppi di appartenenza si alternino in importanza, e in che modo

l’azione in termini identitari si fondi su appartenenze diverse in periodi diversi. In questo senso

potrebbe essere interessante lo studio dell’alternarsi in importanza delle identità decisive in

relazione ai cicli della partecipazione sindacale. Indubbiamente l’argomentazione di Hirschman

[2003] offre un’ottima spiegazione di come la costruzione delle identità possa basarsi su assunti

periodicamente differenti a causa del fattore “delusione”. Più nello specifico un ulteriore elemento

teso a spiegare la recente disaffezione dal movimento sindacale potrebbe fondarsi sul cambiamento

dei presupposti su cui fondare le identità individuali nelle società post-fordiste, che tende a spostarsi

sempre più verso cerchie esterne all’attività lavorativa. Come nota Guido Baglioni «la questione del

lavoro salariato, del rapporto capitale-lavoro, dell’impiego del lavoro nelle strutture produttive

dell’economia capitalistica non è più, comunque, la questione sociale centrale nei paesi industriali»

[Baglioni 2008, 98], e di conseguenza la posizione lavorativa non definirebbe più l’individuo in

quanto tale inglobandone la maggior parte dell’identità e guidandone gli obbiettivi [Paci 1996].

1.2.2 Logica dell’azione individuale

Distaccandosi dall’analisi teorica dell’azione sociale, l’attenzione verrà ora posta, in un’ottica di

individualismo metodologico e con maggiore ancoraggio empirico, sulle motivazioni e sulle

caratteristiche dei soggetti che rendono più probabile la decisione di iscriversi a un sindacato.

Partendo dalle caratteristiche personali, è possibile riscontrare una serie di regolarità nelle diverse

strutture di adesione sindacale, tali da portare a un sufficiente livello di generalizzazione delle

conclusioni sulle categorie a maggiore propensione nel cercare adesione agli organismi di

rappresentanza collettiva dei lavoratori.

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Innanzitutto il sesso è una discriminante importante nel predire l’iscrizione al sindacato di un

lavoratore. I differenziali di genere sono spesso comparativamente elevati. Vi è però una differenza

sostanziale nelle strutture di adesione per sesso tra i differenti sistemi di welfare. In particolare i

regimi “conservatori-familistici” [Esping-Andersen 2000], cioè fondati sul breadwinner come

principale percettore di reddito e sulla famiglia come principale fornitore di servizi sociali,

presenterebbero un’adesione maschile molto più consistente rispetto alla controparte femminile.

Negli anni ’90 paesi come Olanda, Germania, Austria e Italia (in questo caso nel 2004), presentano

differenze tra il tasso di sindacalizzazione maschile e femminile nell’ordine di 15 punti percentuali

[Calmfors et al. 2002; ISFOL 2006; Visser 2006]. Tale differenza invece si ribalta, pur riducendosi,

nei paesi scandinavi (Danimarca e Svezia hanno donne più sindacalizzate di 3-5 punti percentuali) e

quasi scompare in quelli anglosassoni (Regno Unito e Stati Uniti nel 2004-2005 presentano un tasso

maggiore per gli uomini di soli 1-2 punti percentuali, mentre il Canada non presenta differenze)

[Calmfors et al. 2002; Blanchflower 2007]. I divari, qualora esistano, vengono però meglio spiegati

dalla diversa composizione settoriale del mercato del lavoro più che da una diversa propensione di

genere nei confronti del sindacato, in quanto le donne lavorerebbero per la maggior parte in quei

segmenti del mercato del lavoro dove minore è la propensione generale ad iscriversi (in particolare

il lavoro part-time, a forte predominanza femminile, sarebbe caratterizzato da una minore

sindacalizzazione). Allo stesso modo nei paesi scandinavi la diversa composizione della

sindacalizzazione verrebbe spiegata dalla forte presenza femminile nel settore pubblico, dove la

propensione all’iscrizione al sindacato è generalmente maggiore che nel privato [Calmfors et al.

2002]. In controtendenza, David Blanchflower [2007] trova per 3 paesi anglosassoni (Stati Uniti,

Regno Unito e Canada), una maggiore propensione degli uomini (controllando per settore

d’impiego – pubblico o privato – e tipo di contratto – full-time o part-time) all’iscrizione al

sindacato, nell’ordine di 2-5 punti percentuali, differenza che si annulla o si riduce sensibilmente

nel settore pubblico. Altri studi (citati nello stesso Blanchflower [2007] e in Calmfors et al. [2002])

non trovano invece, a parità di condizioni, significative differenze nella propensione di genere

all’iscrizione al sindacato.

Come già accennato, una delle caratteristiche fondamentali nello spiegare la diversa propensione

dei soggetti a iscriversi a un sindacato è il tipo di relazione d’impiego. Tale differenza è solitamente

indagata differenziando i lavoratori con contratti full-time e part-time, ma più in generale è facile

percepire i motivi di una sindacalizzazione ridotta nella massa di lavoratori con contratti “atipici”

(sia flessibili, come i contratti a termine, interinali o di collaborazione, che stabili ma a tempo

ridotto), considerati tradizionalmente dai sindacati come “lavori di serie B” [Calmfors et al. 2002].

In particolare la discontinuità e temporaneità sul posto di lavoro e la presenza inferiore in termini di

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orario creano un clima socialmente meno coeso e quindi meno favorevole alla costituzione di

strutture sindacali stabili e solide: più un lavoratore permane nella stessa impresa, più la sua

propensione all’iscrizione al sindacato locale aumenta [Ebbinghaus e Visser 1999]. Anche qui

troviamo delle forti differenze tra paesi con diversi regimi di welfare: nei paesi scandinavi, grazie

alla forte concentrazione dei lavori part-time nel settore pubblico [Calmfors et al. 2002], le

differenze nella sindacalizzazione tra lavoratori a tempo pieno e parziale è molto ridotta (in

Norvegia di soli 5 punti percentuali a favore del full-time, che presenta una densità sindacale del

62%, mentre in Svezia di 7 punti, ma con un tasso di sindacalizzazione dei lavoratori a tempo

parziale pari addirittura all’83%). Questo anche grazie alla “normalizzazione” del lavoro part-time,

«nel senso dell’essere coperti dagli stessi diritti, benefici e condizioni d’impiego che si applicano ai

lavoratori full-time» [Visser 2006, 47]. Non sono disponibili dati per i regimi “familisti” (se non per

l’Olanda, con una densità sindacale tra i lavoratori part-time del 19%, 8 punti percentuali inferiore

ai colleghi full-time), mentre nei paesi anglosassoni le percentuali per il tempo parziale sono

complessivamente inferiori, anche a causa della loro maggiore flessibilità e minore copertura da

parte di accordi collettivi sindacali: di 7 punti negli Stati Uniti (6,4%), 8 in Canada (23,6%) e 10 nel

Regno Unito e Irlanda (rispettivamente 21,1% e 29,2%). I lavoratori temporanei, poi, mostrano tassi

di sindacalizzazione ancora inferiori, rispetto ai colleghi con condizioni d’impiego standard: di 12

punti percentuali nel Regno Unito, di 19 in Irlanda, di 16 in Olanda e di 26 in Norvegia [Visser

2006]. I motivi per cui il lavoratori part-time risultano meno sindacalizzati rispetto alla loro

controparte a tempo pieno vengono sostanzialmente individuati nella minore attrattività di membri a

tempo parziale o flessibili per il sindacato [Ebbinghaus e Visser 1999], e nella «relativa incapacità

dei rappresentanti sindacali locali a mettersi in contatto coi lavoratori part-time in modo da

reclutarli» [Waddington e Whitston 1997, 537]. In una survey condotta nel Regno Unito, inoltre,

Jeremy Waddington e Colin Whitston [1997] notano come i motivi ideali all’adesione (del tipo

“credo nel ruolo dei sindacati”) siano molto meno diffusi tra i lavoratori a tempo parziale,

prevalendo motivazioni all’iscrizione più strumentali, come l’essere assistiti nelle dispute di lavoro.

Tuttavia la proporzione di lavoratori che si siano attivati personalmente nel cercare l’iscrizione al

sindacato risulta sostanzialmente analoga tra i lavoratori appartenenti a diversi regimi di orario,

sottolineando quindi l’inesistenza di una maggiore attitudine anti-union tra i lavoratori a tempo

ridotto.

L’età è un altro fattore che discrimina diverse strutture di adesione sindacale. In generale i giovani

si iscrivono molto meno dei lavoratori di mezza età. Tra i 16 e i 24 anni il tasso di sindacalizzazione

è circa un terzo del totale negli Stati Uniti e nel Regno Unito, meno della metà in Olanda e

Norvegia, poco più della metà in Svezia e poco più di due terzi in Finlandia [Visser 2006]. In questo

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caso una spiegazione possibile per la minore adesione giovanile potrebbe essere la

destandardizzazione del mercato del lavoro, che allocherebbe la maggior parte dei rapporti di lavoro

atipici in entrata alle nuove leve [Calmfors et al. 2002]. David Blanchflower [2007] trova in ben 34

paesi (27 membri dell’OCSE e 7 extra) che la relazione tra età e iscrizione al sindacato, tra i

lavoratori attivi, assume la forma di “U rovesciata”, massimizzando l’adesione intorno ai 50 anni,

pur con una discreta varianza tra paesi. In parte questo risultato sarebbe dato da un effetto coorte,

ma controllando per tale variabile la relazione inverted U-shaped rimane, per quanto i picchi di

adesione ora intervengano in fasce d’età complessivamente inferiori. Blanchflower formula diverse

ipotesi per spiegare tale relazione. Per esempio il declino del vecchio settore manifatturiero avrebbe

spostato una quota consistente di lavoratori anziani in posti a minore sindacalizzazione (come le

piccole imprese fiorite grazie ai processi di outsourcing nel processo di ristrutturazione del modello

produttivo). Oppure i settori fortemente sindacalizzati aumenterebbero la protezione per i lavoratori

maturi, riducendo il turnover, lasciando più giovani trovare lavoro nei settori meno sindacalizzati

(come i servizi a bassa qualificazione).

La scolarità poi è un’altra caratteristica che porta a propensioni differenti nella scelta di aderire a un

sindacato. Secondo Colin Crouch [1982] l’utilità, e quindi la propensione, nell’iscriversi a un

sindacato dipende da una combinazione tra l’agio con cui è possibile farlo e il grado di dipendenza

dall’azione collettiva nel perseguire i propri interessi. In particolare, perciò, i lavoratori più istruiti

(white-collars e professionals) risulterebbero più forti sul mercato del lavoro, avendo minore

necessità di aderire a un sindacato per tutelarsi. Effettivamente i lavori manuali (considerata come

proxy di livelli d’istruzione inferiori) in Europa risultano mediamente più sindacalizzati di quelli

non manuali [Ebbinghaus e Visser 1999], però, testando la relazione tra scolarità e

sindacalizzazione a parità di altri fattori, la relazione risulta più ambigua, non fornendo una

direzione causale netta [Calmfors et al. 2002; Blanchflower 2007]. Su un campione più piccolo

(Stati Uniti, Regno Unito e Canada) sempre Blanchflower [2007] trova correlazioni significative

per tutti e tre i paesi: il livello di istruzione è associato positivamente a una maggiore densità

sindacale solo nel settore pubblico, mentre nel privato è associato negativamente. Questo potrebbe

derivare dalla forte presenza di lavoratori ad alta qualificazione nelle pubbliche amministrazioni

(come medici e insegnanti) che, grazie all’appartenenza a un settore dove l’adesione al sindacato è

più facile e diffusa, risulterebbero quindi molto più sindacalizzati dei loro colleghi nel settore

privato [Checchi et al. 2007].

La dimensione dell’unità produttiva in cui si è occupati è inoltre un fattore importante nel

determinare una maggiore probabilità nell’adesione a un sindacato. La sindacalizzazione è correlata

positivamente con le dimensioni dell’impresa, assumendo dimensioni nulle o ridotte nelle micro e

22

Page 23: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

piccole imprese [Ebbinghaus e Visser 1999]. Infatti «per i sindacalisti è molto più facile reclutare

nuovi membri, fornire servizi e mantenere un’organizzazione efficace all’interno di luoghi di lavoro

che concentrano grandi masse di lavoratori» [Calmfors et al. 2002, 41].

In ultimo ci si può domandare se a spiegare le variazioni tra paesi e nel tempo della propensione alla

sindacalizzazione possano intervenire elementi valoriali e culturali, che nel passaggio alle società

post-fordiste diverrebbero sempre meno orientati collettivamente e sempre più fondati in termini

individualistici, portando a una sorta di “Thatcher’s children effect” [Waddington e Whitston

1997]. Questo non sembrerebbe però il caso, in quanto moventi “egocentrici” all’adesione al

sindacato erano già preponderanti negli anni ’50 [Calmfors et al. 2002], mentre motivazioni relative

al mutuo supporto, all’attaccamento al ruolo sociale dei sindacati e al controllo dei colleghi

risultano ancora molto diffuse tra iscritti e non [Waddington e Whitston 1997; Calmfors et al. 2002;

Visser 2002; Feltrin 2007].

Passando quindi dalle caratteristiche individuali alle motivazioni dei soggetti all’iscrizione, una

delle spiegazioni fornite è data dalla Social custom theory [Visser 2002]. Secondo i fautori di questo

approccio l’iscrizione al sindacato sarebbe un costume sociale, derivante dal fatto che la mancata

adesione, in un ambiente con una densità sindacale al di sopra di un livello critico, comporterebbe

dei costi per il singolo superiore ai benefici “reputazionali” e di integrazione coi colleghi derivanti

dall’adesione e al supporto del sindacato locale. Tale costume sarebbe mantenuto dal controllo

sociale diffuso tra i lavoratori appartenenti a un’unità produttiva, e ciò avverrebbe anche nel caso di

grosse organizzazioni sindacali, in quanto, contrariamente a quanto ipotizzato da Olson [1971],

l’unità di riferimento tale da assicurare incentivi e disincentivi di carattere sociale sarebbero i

piccoli gruppi di lavoro, le corrispondenti sezioni sindacali e i gruppi di militanti locali,

contraddistinti da numerosi rapporti faccia-a-faccia tali da facilitare un controllo sociale diffuso

[Crouch 1982]. Jelle Visser [2002] trova diversi indicatori dell’esistenza di un costume sociale nelle

motivazioni all’adesione tra i lavoratori olandesi, essendo il livello di sindacalizzazione percepito e

la percezione di un clima pro-union fortemente correlati con l’appartenenza a un sindacato, oltre ad

esistere una correlazione significativa con l’appartenenza di uno o entrambi i genitori. L’uscita

dall’organizzazione, specularmente, è più probabile laddove meno colleghi siano membri e i

contatti coi sindacati siano meno frequenti.

Nella loro survey sui lavoratori inglesi anche Waddington e Whitston [1997] trovano indizi

dell’esistenza di un costume sociale, per quanto non risulti una delle ragioni fondamentali nel

decidere dell’adesione al sindacato (solo il 13,8% dei nuovi iscritti dichiara come motivazione

all’ingresso “la maggior parte dei colleghi sono membri”). Invece decisive risultano le motivazioni

collettive, nel senso del mutuo supporto in caso di problemi (citato dal 72,1% del campione),

23

Page 24: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

migliori paghe e condizioni di lavoro (36,4%) e la credenza nel ruolo del sindacato (16,2%), per

quanto il supporto nelle dispute di lavoro, come già notato, possa essere considerato un incentivo di

carattere individuale. Gli incentivi selettivi (assistenza legale gratuita, servizi finanziari, servizi

professionali) hanno una portata del tutto marginale (15,1%, 3,5%, 6,2% rispettivamente), ma non

sono distribuiti omogeneamente tra tutti i settori occupazionali. Visser [2002], invece, trova una

forte correlazione tra appartenenza al sindacato e utilizzo agevolato dei servizi offerti, ma questo

non spiega se l’interesse e l’adesione all’organizzazione siano derivati da tale beneficio selettivo, o

semplicemente se i lavoratori, una volta diventati membri, trovino l’utilizzo dei servizi offerti

particolarmente interessante o conveniente.

Perciò, concludendo, pare che le differenze nelle strutture di adesione non siano sostanzialmente

determinate dalle caratteristiche dei singoli, quanto dalle caratteristiche del lavoro e del contesto

lavorativo: una motivazione importante per non aderire risulta infatti essere il mancato contatto da

parte di militanti a livello di luogo di lavoro [Waddington e Whitston 1997; Calmfors et al. 2002].

Tali conclusioni sarebbero compatibili con l’ipotesi avanzata nel paragrafo 1.2.1, in quanto la

mancata adesione sindacale parrebbe non essere riconducibile a un astratto cambiamento di valori

interno alle società dei servizi come filiazione delle società fordiste (meno favorevole alla

dimensione collettiva del lavoro e più orientato in senso individualistico), quanto, per lo meno in

misura importante, al fatto che in sempre meno settori vi siano sindacati disponibili e in grado di

organizzarsi con facilità. Perciò in tali settori sempre meno lavoratori fonderebbero la propria

identità con la connessa costituzione di obbiettivi in un’ottica “sindacale” a livello di workplace (in

senso rivendicativo o di business unionism), rivolgendosi ad altre cerchie probabilmente esterne al

luogo di lavoro, senza con questo necessariamente maturare sentimenti anti-union a livello più

generale (per esempio acquisendo un maggiore interesse per il sindacato come attore politico).

L’Italia

In ultimo resta da esplorare se le caratteristiche sopra individuate, valide per la maggior parte dei

paesi OCSE pur con alcune specificità, valgano effettivamente anche per l’Italia. Un quadro

generale può essere tracciato a partire da una survey dell’ISFOL condotta nel 2004, su un campione

di lavoratori dipendenti, residenti in Italia e occupati nei settori privati del terziario e dell’industria

in senso stretto. Purtroppo i dati sulla sindacalizzazione per le diverse categorie di persone, non

reperibili altrimenti a partire dai dati di fonte sindacale, risultano gonfiati, in quanto calcolati a

partire dalla domanda “lei è iscritto al sindacato o ne è simpatizzante?” [ISFOL 2006, 69]. E’ quindi

più opportuno soffermarsi sulle differenze piuttosto che sui valori assoluti.

24

Page 25: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

Innanzitutto la composizione per età pare coerente con i risultati precedenti, in quanto la

sindacalizzazione tende a crescere invecchiando: risulta pari al 17,6% per i giovani tra i 15 e i 29

anni, 24,8% tra i 30 e 44 anni, mentre 33,6% nella fascia 45-64. Anche in Italia, poi, gli uomini

tendono ad avere una propensione maggiore all’iscrizione, in quanto a un tasso maschile del 29,9%

si contrappone un tasso solo del 17,7% per le donne. La scolarità è un’altra caratteristica che non

presenta particolarità rispetto agli altri paesi, scendendo l’attrattiva per il sindacato al crescere del

titolo di studio conseguito: la densità sindacale si afferma intorno al 24% per i lavoratori in possesso

di licenza media, qualifica professionale o diploma. Decresce poi tra i laureati (21,9%), tra chi ha

conseguito un master post-laurea (19,1%), toccando il minimo tra chi ha svolto anche un dottorato

di ricerca (5,3%). Sempre in coerenza con la teoria, la sindacalizzazione cresce nettamente al

crescere delle dimensioni dell’unità produttiva, risultando del 18,6% nelle imprese con 4-9

dipendenti, 20,6% in quelle con 10-15, e 30,2% nelle aziende da 16 a 49 addetti. Nelle unità tra i

100 e 499 dipendenti la densità tocca invece il suo massimo, risultando pari al 45%. Più ambigui,

infine, risultano i tassi per qualifica professionale: i dirigenti e i quadri sono i più sindacalizzati

(32%), seguiti dagli operai (27,1%), e toccando il minimo tra gli impiegati (20,9%).

Ora, per cogliere le differenze di propensione a prescindere da eventuali distorsioni dovute a una

sistematicamente differente collocazione di diverse categorie di soggetti in contesti in cui, per vari

motivi, la sindacalizzazione è complessivamente diversa, occorre analizzare i differenziali di

probabilità all’iscrizione per le diverse caratteristiche dei soggetti a parità di altri fattori. A questo

provvede uno studio di Daniele Checchi, Massimiliano Bratti e Antonio Filippin [2007] basato su

dati derivanti da una serie temporale di campioni di lavoratori dipendenti dell’International Social

Survey Programme dal 1985 al 1998.

Per prima cosa le donne risultano avere una propensione inferiore all’iscrizione rispetto agli uomini,

anche tenendo conto del tipo di contratto (full-time o part-time). Questo effetto però, contrariamente

a quanto stimato da Blanchflower [2007] per il Regno Unito e il Canada, varrebbe sia per le

lavoratrici del settore privato che per quello pubblico, sebbene in modo più attenuato nel secondo

caso. Per quanto riguarda l’età, invece, anch’essa è associata positivamente all’aumento della

sindacalizzazione e, solo nel settore privato, presenta l’andamento a U rovesciata ipotizzato da

Blanchflower, con un picco a 47 anni. Gli autori ipotizzano quindi che «l’adesione al sindacato

presenta un profilo temporale analogo a quello della retribuzione nell’arco della vita, dove la

capacità di guadagno si esprime compiutamente al crescere dell’esperienza, e comincia a declinare

quando le competenze individuali diventano progressivamente obsolete. Per questo i dati sembrano

suggerire che la domanda di tutela sindacale (nel settore dove è maggiormente a rischio di mancata

valorizzazione economica, quale è il settore privato) si esprima in relazione all’esigenza di

25

Page 26: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

protezione del valore di mercato individuale» [Checchi et al. 2007, 7]. Inoltre la minore

propensione giovanile all’iscrizione al sindacato non sembrerebbe del tutto riconducibile alla

maggiore precarietà dei lavori a loro disponibili, in quanto controllando per il numero di ore

lavorate (maggiore o inferiore a 36 settimanali), la relazione rimane comunque positiva. Resta

comunque da tenere in considerazione che il numero di ore lavorate è una proxy imperfetta nel

cogliere il tipo di rapporto di impiego, e che riesce ad approssimare solo in modo imperfetto il

carattere flessibile o precario della condizione, non fornendo dunque una risposta conclusiva. Il

lavorare meno di 36 ore settimanali, dunque, risulta associato negativamente alla propensione

all’iscrizione, fattore riscontrabile sia nel settore privato che nel pubblico, dove anzi risulta più

forte. Anche la scolarità produce risultati coerenti con i precedenti riscontri, infatti un diplomato, a

parità di altri fattori, ha un tasso atteso medio di sindacalizzazione inferiore di 4 punti percentuali

rispetto a chi abbia completato l’obbligo scolastico, mentre un laureato addirittura di 12 punti. Tale

risultato tiene per i dipendenti del settore privato e del pubblico, contrariamente ai riscontri in altri

paesi [Blanchflower 2007], in cui una maggiore scolarità produce più sindacalizzazione nel

pubblico. Assumere compiti di sorveglianza ha poi un effetto positivo sulla possibilità di aderire a

un sindacato, soprattutto nella pubblica amministrazione: ciò tra l’altro fornirebbe una conferma

all’assunto per cui l’ampia sindacalizzazione del settore pubblico sarebbe, tra l’altro, dovuta alla

maggiore densità sindacale tra i dirigenti statali stessi, che configurerebbe una minore avversione

datoriale all’iscrizione dei propri dipendenti [Bordogna 1987]. In ultimo i tre autori analizzano la

diversa propensione all’iscrizione per lavoratori appartenenti a diverse fasce di reddito. Mentre per i

lavoratori con retribuzione più elevata della retribuzione mediana l’effetto sull’iscrizione è solo

lievemente negativo (e non significativo), per coloro la cui retribuzione si trovi al di sotto il

disincentivo sarebbe invece sorprendentemente forte e significativo. Questo potrebbe essere dato

dalla minore credibilità di un miglioramento salariale collettivo per il lavoratore a basso reddito, e

di conseguente disaffezione dal sindacato [Checchi et al. 2007].

Infine è possibile chiedersi se e quanto i costumi sociali tendano a favorire il sindacato in termini di

iscritti. Purtroppo i lavori in questo senso sul caso italiano sono particolarmente scarsi. In uno

studio di Daniele Checchi e Giacomo Corneo [2000] vengono indagati i fattori che influiscono sui

cicli di sindacalizzazione in Italia, e viene testata l’ipotesi dell’esistenza di qualche social custom.

Vista la scarsezza di variabili utilizzabili opportunamente come proxies, l’unica misura disponibile

per catturare qualche effetto di omogeneità e controllo sociale tra i lavoratori appare la dimensione

degli scioperi (data dalla quota di partecipanti sul totale dei lavoratori dipendenti), che

effettivamente risulta correlata positivamente a una maggiore densità sindacale, spingendo i due

26

Page 27: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

autori a concludere positivamente sull’esistenza, in qualche misura, di norme di costume sociale

nella decisione di aderire a un sindacato tra i lavoratori italiani.

27

Page 28: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

II.

IL DECLINO DELLA SINDACALIZZAZIONE

2.1 Il quadro generale

Rappresentanza e rappresentatività

Nello stimare la forza, il ruolo e la legittimità d’azione di un sindacato nell’arena delle relazioni

industriali in senso stretto o la sua influenza più generale nell’ambito della scena pubblica, si usa

tentare di individuarne il livello di rappresentanza del mondo del lavoro, concetto sovraordinato ma

strettamente interdipendente alla sua principale dimensione, cioè la rappresentatività effettiva dello

stesso: «con il primo concetto si fa riferimento alla capacità dei sindacati di collegarsi al mondo del

lavoro nel suo insieme e nelle sue diverse articolazioni, interpretandone le istanze. Con il secondo si

allude ai criteri di misurazione della rappresentatività, mediante i quali si pesano i diversi soggetti

sindacali nella loro azione di rappresentanza» [Bordogna e Carrieri 2008, 56-57]. Il concetto di

rappresentanza è quindi più di natura qualitativa, in quanto si fonda sì principalmente sulla

rappresentatività numerica del sindacato, ma comprende anche dimensioni non direttamente

osservabili, quali l’influenza effettiva sulle decisioni pubbliche, la capacità generale di influenzare i

valori predominanti nella società e l’intensità ed efficacia della partecipazione alle arene politico-

istituzionali. Specularmente la dimensione della rappresentatività ha una natura maggiormente

quantitativa, fondandosi sostanzialmente su indicatori quali il numero di aderenti delle diverse

organizzazioni sindacali, il numero di voti da loro riportato in occasioni elettorali (ad esempio nei

work councils a livello d’impresa o in occasione di referendum promossi dalle associazioni

sindacali), e la capacità di ottenere mobilitazioni e seguito tra i lavoratori (per esempio in occasione

di scioperi o manifestazioni) [Bordogna e Carrieri 2008]. Indica pertanto «la capacità

dell’organizzazione di unificare i comportamenti dei lavoratori in modo che gli stessi operino non

ciascuno secondo scelte proprie ma, appunto, come gruppo» [Giugni 2006, 61].

Tra questi indicatori del livello di rappresentatività del mondo del lavoro il più importante risulta

essere la consistenza in termini di iscritti, in quanto «l’adesione è una misura fondamentale del

potere di base delle organizzazioni di interessi e un indicatore della capacità di azione collettiva dei

lavoratori» [Ebbinghaus e Visser 2000, 59]. In particolare il tasso di sindacalizzazione risulta essere

una misura di grande utilità in quanto, pur non catturando tutte le dimensioni che concorrono a

determinare lo stato di salute e la capacità di influenza ed efficacia di azione di un sindacato, riesce

a fornirne un indicatore sintetico di relativamente facile rilevazione, in grado di descrivere il

cambiamento del peso delle associazioni sindacali nel tempo, tra diversi gruppi sociali, diversi

28

Page 29: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

settori produttivi e tra i paesi, rendendo possibili confronti comparativi e analisi econometriche tali

da portare a risultati sufficientemente generali nello spiegare i fattori che influiscono sui

comportamenti sindacali [Visser 2006]. Il tasso di sindacalizzazione può essere calcolato a partire

da diverse definizioni operative, ma la misura più comunemente utilizzata è il tasso di

sindacalizzazione netto (net union density): il valore è ottenuto ponendo il numero dei membri del

sindacato attivi (quindi escludendo disoccupati e pensionati) al numeratore, mentre al denominatore

il numero degli occupati. Escludere pensionati e disoccupati dal computo della densità sindacale è

un procedimento necessario se si vuole misurare la forza di pressione effettiva che un sindacato può

porre sulle controparti (essendo l’astensione dal lavoro l’arma più incisiva nelle mani

dell’organizzazione): includere i membri non occupati distorcerebbe verso l’alto l’indicatore,

soprattutto in quei paesi in cui le federazioni dei pensionati rappresentano ormai una quota decisiva

del totale (come in Italia, col 48% dei membri pensionati, la Francia, col 20%, o il Belgio, col

18,2%) [Visser 2006]. Solitamente vengono incluse nel calcolo dei membri solo le principali

confederazioni e federazioni nazionali, escludendo la compagine dei sindacati autonomi o di piccole

dimensioni, in quanto spesso di scarsa consistenza (come in Germania, Belgio o Austria), o, seppure

di consistenza notevole, in quanto spesso non forniscono fonti sufficientemente trasparenti sul

numero degli iscritti, o a causa della loro numerosità e frammentarietà (come in Francia, Italia o

Spagna). In diversi paesi europei (soprattutto nordici), comunque, esiste un sistema di rilevazione

anche delle federazioni più piccole non affiliate alle principali confederazioni. In letteratura, però,

esistono diverse definizioni anche della densità sindacale netta, ponendo spesso problemi di

comparabilità. Spesso si preferisce calcolare il tasso rapportando i membri attivi dipendenti

(escludendo quindi, oltre a pensionati e disoccupati o ritirati, i lavoratori autonomi) al numero di

occupati dipendenti (coloro che percepiscono un salario o uno stipendio: di solito vengono esclusi

gli occupati non civili, in molti paesi non potendo per legge aderire a un’associazione sindacale);

altrove vengono rapportati i membri attivi (autonomi inclusi) al totale del lavoro dipendente

(sovrastimando il dato in quei paesi in cui le principali confederazioni affiliano federazioni di

lavoratori non dipendenti, come in Italia nel caso dei coltivatori diretti); infine a volte viene

calcolato il rapporto tra membri attivi occupati (di qualunque posizione professionale) e

occupazione totale.

La densità sindacale può essere rilevata con diverse metodologie: di regola ci si basa sui dati forniti

dalle organizzazioni sindacali stesse, considerando membro chiunque paghi regolarmente la propria

tessera venendo così considerato un iscritto da parte dell’associazione: in tal caso si pongono però

dei problemi di attendibilità relativi al numero effettivo dei tesserati, in quanto questioni di

prestigio, rivalità intersindacale o questioni di riconoscimento politico possono portare i dati ad

29

Page 30: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

essere ritoccati verso l’alto. Inoltre i dati di fonte sindacale sono spesso forniti a un livello di

aggregazione abbastanza elevato, impedendo spesso la loro disaggregazione per sesso, età,

caratteristiche del posto di lavoro, etc…, tutti elementi particolarmente utili nello studiare il

comportamento sindacale. Una fonte che viene incontro a questi problemi sono perciò le diverse

surveys nazionali qualora, tra le altre cose, stimino l’adesione complessiva degli intervistati alle

organizzazioni sindacali, contravvenendo a possibili fonti amministrative distorte, e considerando

membri del sindacato solo coloro che si considerino tali. Questo permette di sdrammatizzare la

difficile scelta delle associazioni da includere nel computo dei lavoratori complessivamente

sindacalizzati, riuscendo a rilevare anche quegli affiliati a piccole federazioni o sindacati autonomi

che non abbiano un sistema di rendicontazione degli iscritti efficiente o trasparente quanto

solitamente quello delle maggiori confederazioni nazionali. La discontinuità dei dati basati su

indagini campionarie, però, rende preferibile l’utilizzo delle fonti amministrative dei sindacati

stessi, solitamente disponibili anno per anno [Visser 2006].

La sindacalizzazione nel secondo dopoguerra

Per comprendere lo stato attuale dei sindacati europei, bisogna innanzitutto considerarne

l’evoluzione, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, punto di partenza naturale in quanto è

solo dopo la caduta dei regimi autoritari e fascisti e a seguito della seconda guerra mondiale che le

organizzazioni dei lavoratori della maggior parte d’Europa possono riorganizzarsi liberamente,

ponendo la base per una rifondazione su nuove basi dei rapporti tra capitale e lavoro, nel passaggio

dal warfare state al welfare state. Nonostante questo, resta da tener presente che la maggior parte

delle esperienze sindacali europee sorte nel dopoguerra non sono nate dal nulla, ma si sono poste in

continuità con la più o meno lunga tradizione sindacale confederale antecedente il secondo conflitto

mondiale e spesso risalente alla fine del XIX secolo (come in Austria, Germania o Regno Unito),

rifondandosi sulla base delle organizzazioni forzatamente soppresse negli anni interbellici. Per i

pochi paesi rimasti fuori dal conflitto mondiale, poi, il 1945 risulta in effetti una data artificiosa,

non avendo creato nessuna reale frattura nell’evoluzione delle relazioni industriali di tali paesi (ad

esempio nel caso della Svezia, Svizzera e Irlanda) [Ebbinghaus e Visser 2000]. Complessivamente

però, fatte le dovute precisazioni, nel secondo dopoguerra, con le importanti anticipazioni negli anni

’30 degli Stati Uniti e della Svezia (col Wagner act del 1935 e il basic agreement di Saltsjöbaden

nel 1938, rispettivamente), si sarebbe avviata una vera e propria nuova fase nel percorso

dell’esperienza sindacale, nettamente contraddistinta dalla prima, caratterizzata dall’enorme

squilibrio di potere politico e istituzionale fra classi dominanti e classi subalterne, quindi innervata

da un’azione operaia intesa in senso difensivo e atta a ottenere il riconoscimento del mondo del

30

Page 31: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

lavoro dalle proprie controparti, istituzionali o padronali [Baglioni 1998]. Nella seconda fase invece

avverrebbe un forte riequilibrio di forze tra capitale e lavoro, a favore del lavoro. Secondo Guido

Baglioni le caratteristiche principali di questa nuova fase nella storia del sindacato sarebbero: la

critica, politica e culturale, del capitalismo del laissez-faire, con l’istituzione di meccanismi di

regolazione del mercato; la percezione del lavoro dipendente come questione centrale del mondo

politico e sociale; la costituzione delle diverse fondamenta nazionali dei moderni sistemi di

relazioni industriali, fondati sulla contrattazione collettiva ai diversi livelli; la tutela contrattuale e

legislativa del mondo del lavoro intesa come acquisitiva e progressiva, e non più solo difensiva; lo

sviluppo dei sistemi nazionali di welfare, fornendo così cittadinanza sociale al mondo del lavoro

[Baglioni 2008]. A questa seconda fase ne seguirebbe quindi una terza, iniziata nella seconda metà

degli anni ’70 e ancora oggi perdurante, «contrassegnata dal ripiegamento del lavoro rispetto alle

imprese e al capitale, dalle difficoltà non contingenti dell’azione sindacale, dalla riduzione

complessiva della tutela» [Baglioni 2008, 59], che metterebbe in discussione i fondamenti della fase

precedente (con la crisi degli stati sociali, la flessibilizzazione del mercato del lavoro e il

coinvolgimento diretto dei lavoratori tramite tecniche di human resource management tese a

spiazzare il lavoro organizzato). Tali aggiustamenti avverrebbero a seguito di tre nuove tendenze,

sconosciute alle fasi precedenti: la globalizzazione produttiva e finanziaria dell’economia, che

produrrebbe una spiccata concorrenza internazionale, a causa anche della rapida crescita dei paesi di

recente industrializzazione; un generale squilibrio fra domanda e offerta di lavoro a sfavore della

seconda, fenomeno con radici strutturali (il cambiamento di composizione della forza lavoro,

trainato dal forte aumento della presenza femminile a partire dagli anni ’70, e seguito con la crescita

dell’economia dei servizi e la diffusione di forme di lavoro meno standardizzate); una crescente

attenzione da parte dei governi nel tenere sotto controllo gli elementi essenziali della stabilità e

competitività economica (inflazione, debito pubblico, costo del lavoro, etc…) [Baglioni 1998].

Indicativamente, per sottolineare la tendenza più ampia nella diminuzione di potere del lavoro

organizzato, negli anni ’80 in Europa il declino della sindacalizzazione è accompagnato da altri tre

indicatori dell’influenza sindacale: il calo della militanza (inteso come numero di giorni lavorativi

persi per sciopero persi), la diminuzione della quota dei salari all’interno del prodotto complessivo e

l’aumento della disoccupazione [Calmfors et al. 2002]. In questa fase la tutela fornita dal sindacato

risulterebbe perciò declinata in senso adattivo (superando sia la tutela difensiva che quella

progressiva, caratterizzanti rispettivamente le due fasi precedenti), e comporterebbe la revisione

delle precedenti acquisizioni salariali e normative con l’obbiettivo di favorire e difendere i livelli

occupazionali [Baglioni 2008].

31

Page 32: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

Anno Stati Uniti Giappone Canada Germania1 Francia Italia Regno Unito

Irlanda

1946 - - - - *43,8 - **43,0 -1950 - - - 38,2 *30,2 43,6 **44,1 37,01955 - - - 36,2 *23,5 38,8 **44,5 -

1960 30,9 32,3 29,2 34,7 19,6 24,7 40,4 45,01965 28,2 35,3 26,7 32,9 19,5 25,5 40,3 -1970 27,4 35,1 31,0 32,0 21,7 37,0 44,8 53,01975 21,6 34,5 34,3 34,6 22,2 48,0 48,3 56,01980 22,3 31,1 34,0 34,9 18,3 49,6 50,7 57,01985 17,4 28,8 33,1 34,7 13,6 42,5 46,2 56,01990 15,5 25,4 32,9 31,2 10,1 38,8 39,3 51,11991 15,5 24,8 33,1 36,0 9,9 38,7 38,5 50,21992 15,1 24,5 33,2 33,9 9,9 38,9 37,2 49,81993 15,1 24,3 33,0 31,8 9,6 39,2 36,1 47,71994 14,9 24,3 32,6 30,4 9,2 38,7 34,2 46,21995 14,3 24,0 32,2 29,2 9,0 38,1 32,6 45,81996 14,0 23,4 31,9 27,8 8,3 37,4 31,7 45,51997 13,6 22,8 31,5 27,0 8,2 36,2 30,6 43,51998 13,4 22,5 31,0 25,9 8,0 35,7 30,1 41,51999 13,4 22,2 30,2 25,6 8,1 36,1 29,8 -2000 12,8 21,5 30,4 25,0 8,2 34,9 29,7 -2001 12,8 20,9 30,4 23,5 8,1 34,8 29,3 36,62002 12,6 20,3 30,3 23,2 8,3 34,0 29,2 36,32003 12,4 19,7 30,3 22,6 8,3 33,7 29,3 35,3

2004 12,0 19,3 29,6 22,2 8,0 33,9 28,8 -2005 12,0 18,8 29,9 21,6 8,0 33,8 28,8 -2006 11,5 18,3 29,6 20,7 7,9 33,4 28,2 -2007 11,6 18,3 29,4 19,9 7,8 33,3 28,0 -

Differenza (punti percentuali)

1946-1955 - - - -2,02 -20,3 -4,82 1,5 -1960-1970 -3,5 2,8 1,8 -2,7 2,1 12,3 4,4 8,01970-1980 -5,1 -4,0 3,0 2,9 -3,4 12,6 5,9 4,01980-1990 -6,8 -5,7 -1,1 -3,7 -8,2 -10,8 -11,4 -5,91990-2003 -3,1 -5,7 -2,6 -8,6 -1,8 -5,1 -10,0 -15,82004-2007 -0,4 -1,0 -0,2 -2,3 -0,2 -0,6 -0,8 -1960-1980 -8,6 -1,2 4,8 0,2 -1,3 24,9 10,3 12,01980-2003 -9,9 -11,4 -3,7 -12,3 -10,0 -15,9 -21,4 -21,7

Tab. 2.1. Tasso di sindacalizzazione netto in 17 paesi, 1946-2007, percentuali

Note: * Totale membri occupati; ** Tasso lordo (inattivi compresi) sul totale occupati; 1 Dal 1950 al 1990 dati relativi alla solaGermania Ovest; 2 1950-1955.

Fonti: 1946-1955 Ebbinghaus e Visser [2000]; 1960-1985, 2004-2007 OCSE; 1990-2003 Visser [2006]. Stati Uniti, Giappone,Canada: 1960-2007 OCSE; Irlanda: 1950-1985 Calmfors et al. [2002].

32

Page 33: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

Anno Finlandia Svezia Norvegia Danimarca Olanda Belgio Spagna Svizzera Austria

1946 *34,7 **63,1 - ***51,1 42,0 ***26,3 - - 49,21950 *29,9 **67,3 - ***55,5 43,2 ***43,3 - - 61,01955 *28,7 **69,2 - ***61,1 36,6 ***47,8 - - 62,2

1960 31,9 66,13 60,0 56,9 41,7 41,5 - - 60,01965 38,3 66,3 59,0 58,2 40,1 39,9 - - 58,51970 51,3 67,7 56,8 60,3 38,9 42,1 - 28,9 62,81975 65,3 74,5 53,8 68,9 37,8 51,9 - - 59,01980 69,4 78,0 58,3 78,5 34,8 54,1 12,9 31,1 56,71985 69,1 81,3 57,5 78,2 28,0 52,4 12,5 - 51,61990 72,5 80,8 58,5 75,3 24,3 53,9 12,5 24,3 46,91991 75,4 80,6 58,1 75,8 24,1 54,3 14,7 22,7 45,51992 78,4 83,3 58,1 75,8 25,2 54,3 16,5 23,0 44,31993 80,7 83,9 58,0 77,3 25,9 55,0 18,0 22,9 43,21994 80,3 83,8 57,8 77,5 25,6 54,7 17,6 23,3 41,41995 80,4 83,1 57,3 77,0 25,7 55,7 16,3 22,8 41,11996 80,4 82,7 56,3 77,1 25,1 55,9 16,1 22,9 40,11997 79,5 82,2 55,5 75,3 25,1 56,0 15,7 22,6 38,91998 78,0 81,3 55,5 75,6 24,5 55,4 16,4 21,7 38,41999 76,3 80,6 54,5 74,1 24,6 55,1 16,2 21,0 37,42000 75,0 79,1 53,7 73,3 23,1 55,6 16,1 19,4 36,52001 74,5 78,0 52,8 72,5 22,5 - 16,1 17,8 35,72002 74,8 78,0 53,0 - 22,4 55,4 16,2 - 35,42003 74,1 78,0 53,3 70,4 22,3 - 16,3 - 34,4

2004 73,3 77,3 55,0 71,7 21,3 52,9 15,5 - 34,12005 72,4 76,5 54,9 71,7 21,0 52,9 15,0 - 33,02006 71,7 75,1 54,9 69,4 20,4 54,1 14,6 - 31,72007 70,3 70,8 53,7 69,1 19,8 52,9 - - -

Differenza (punti percentuali)

1946-1955 -6,0 6,1 - 10,0 -5,4 21,5 - - 13,01960-1970 19,4 1,64 -3,2 3,4 -2,8 0,6 - - 2,81970-1980 18,1 10,3 1,5 18,2 -4,1 12,0 - 2,2 -6,11980-1990 3,1 2,8 0,2 -3,2 -10,5 -0,2 -0,4 -6,8 -9,81990-2003 1,6 -2,8 -5,2 -4,9 -2,0 1,55 3,8 -6,56 -12,52004-2007 -3,0 -6,5 -1,3 -2,6 -1,5 0,0 -0,99 - -2,49

1960-1980 37,5 11,9 -1,7 21,6 -6,9 12,6 - - -3,31980-2003 4,7 0,0 -5,0 -8,1 -12,5 1,37 3,4 -13,38 -22,3

Tab. 2.1 (continua). Tasso di sindacalizzazione netto in 17 paesi, 1946-2007, percentuali

Note: * Totale membri occupati; ** Tasso lordo (inattivi compresi) sul totale occupati; *** Tasso lordo (inattivi compresi) sul totaleoccupati dipendenti; 3 1963; 4 1963-1970; 5 1990-2002; 6 1990-2001; 7 1980-2002; 8 1980-2001; 9 2004-2006.

Fonti: 1946-1955 Ebbinghaus e Visser [2000]; 1960-1985, 2004-2007 OCSE; 1990-2003 Visser [2006]. Svezia: 1946-1960Ebbinghaus e Visser [2000]; Spagna: 1980 Visser [2006]; Svizzera: 1970-2001 Visser [2006]; Austria: 1956-1965 Ebbinghaus eVisser [2000].

33

Page 34: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

E’ quindi ora possibile presentare i dati sulla sindacalizzione in Europa e in alcuni paesi

extraeuropei a partire dall’immediato dopoguerra, e discuterne brevemente le tendenze di breve e

lungo periodo che hanno portato allo stato attuale di relativamente bassa densità sindacale. Nella

tabella 2.1 vengono riportati i tassi di sindacalizzazione netti (tranne ove diversamente specificato)

a partire dal 1946, intesi come il rapporto tra membri del sindacato che ricevono uno stipendio o un

salario e il numero di occupati in posizioni dipendenti, per 17 paesi OCSE, di cui 12 membri

dell’Unione Europea. I dati sono riportati per quinquennio, mentre dal 1990 si è preferito riportare il

dato annualmente, vista la specifica attenzione sugli andamenti della sindacalizzazione negli ultimi

anni.

Innanzitutto si può notare come a partire dal 1946 abbia inizio un aumento pressoché generalizzato

della densità sindacale tra i paesi considerati, destinato a durare fino alle soglie degli anni ’80. Tra il

1946 e il 1955, tra i dieci paesi per cui vi siano dati disponibili la tendenza alla crescita non è ancora

maggioritaria, in quanto cinque paesi presentano un aumento del proprio tasso di sindacalizzazione,

in alcuni casi molto consistente (6,1 punti per la Svezia, 13 punti per l’Austria, 21,5 per il Belgio e

10 per la Danimarca, ma solo 1,5 per il Regno Unito), mentre altri cinque vedono tale valore

declinare (di soli 2 punti per la Germania, 5,4 per l’Olanda, 4,8 per l’Italia, 6 per la Finlandia e

addirittura di 20,3 per la Francia). Nel decennio 1960-1970, invece, la crescita dei membri del

sindacato in rapporto ai lavoratori salariati diventa pressoché generale, mostrando degli aumenti in

ben undici paesi sui quindici per cui vi siano dati disponibili per il periodo (declinano solo

Norvegia, Olanda, Stati Uniti e Germania). Nel decennio successivo, quindi, la tendenza si

mantiene costante, in quanto l’aumento della densità sindacale continua a toccare undici paesi,

mostrando un declino solo nei rimanenti cinque (tra i diversi casi solo in cinque la tendenza si

inverte: passano da declino a crescita la Norvegia e la Germania, mente il contrario avviene in

Giappone, Francia e Austria). Con gli anni ’80, invece, si ha un vero e proprio punto di svolta per

quanto riguarda la consistenza numerica dei sindacati. Le linee di tendenza maturate e rafforzatesi

nei trentacinque anni precedenti si ribaltano rapidamente in quasi la totalità dei paesi analizzati, nel

senso di un marcato quanto generalizzato declino della membership sindacale sul totale del lavoro

dipendente. Sul complesso dei diciassette paesi per cui risultano disponibili dati analizzabili (con

l’ingresso della Spagna a seguito dalla sua uscita dalla dittatura franchista nel 1975), ben quattordici

presentano un declino del tasso di sindacalizzazione, mentre il trend di crescita si mantiene solo nei

tre paesi scandinavi (Finlandia, Svezia e Norvegia, in crescita già nel decennio precedente). Il

declino è improvviso quanto forte, toccando o anche superando i dieci punti percentuali in Italia,

Regno Unito, Olanda e Austria, e fermandosi a una perdita di otto in Francia. Negli anni seguenti,

dal 1990 al 2003, la tendenza continua inesorabilmente nella stessa direzione: sempre quattordici

34

Page 35: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

paesi perdono iscritti rispetto agli occupati dipendenti, mentre solo tre presentano un aumento. In

particolare la Svezia e la Norvegia passano a una diminuzione della densità sindacale dopo due

decenni di crescita (la Finlandia invece continua a crescere per il quarto decennio di fila), mentre

Belgio e Spagna, in lieve decrescita nel decennio precedente (-0,2 e -0,4 punti rispettivamente),

passano a un aumento della membership relativa. Per quanto gli anni dal 2004 al 2007 coprano un

periodo troppo ristretto per trarne delle tendenze ben definite, è indicativo il fatto che nei quattro

anni considerati nessun paese presenti più aumenti del tasso di sindacalizzazione netto, dopo il

quadriennio 2000-2003 ove la situazione sembrava in via di stabilizzazione, e in alcuni casi di lieve

recupero [Feltrin 2006]: in Belgio la densità rimane costante, mentre negli altri quattordici paesi per

cui siano disponibili dati vi è una riduzione ulteriore, con la diminuzione più consistente (-6,5 punti

percentuali) per la prima volta in un paese scandinavo, cioè la Svezia (che, comunque, mantiene la

densità sindacale più elevata tra i paesi considerati, pari al 70,8%).

E’ quindi opportuno scomporre la lunga stagione della sindacalizzazione del secondo dopoguerra in

due macro periodi per cui disponiamo di dati sufficientemente omogenei: il ventennio 1960-1980, e

quello successivo, 1980-2000. Come delineato in precedenza si tratta di due periodi

qualitativamente differenti per quanto riguarda la sindacalizzazione del lavoro dipendente. E come

riassunto dallo scatter diagram riportato in figura 2.1 (in cui non sono riportati i casi di Svizzera e

Fig. 2.1. Variazioni della sindacalizzazione, 1960-1980 e 1980-2000, percentuali Fonte: elaborazione su dati Visser [2006] Note: per l’Irlanda 1980-2001

y = 0,227x - 27,77 R2 = 0,228 Sig. = 0,072

35

Page 36: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

Spagna, per mancanza di dati continuativi relativamente al ventennio 1960-1980), nel primo

periodo la densità sindacale aumenta complessivamente in nove paesi sui quindici per cui risultino

dati disponibili (in media del 41%), diminuendo in sei (mediamente del 10%). Nel ventennio

incominciato negli anni ottanta, invece, la sindacalizzazione netta aumenta in soli quattro paesi

(Finlandia, Svezia, Belgio e Spagna, mediamente del 9%), mentre diminuisce nei restanti tredici

casi (del 30%). L’inversione di tendenza è perciò duplice, riguardando sia estensione che intensità:

non solo la maggior parte dei paesi smette di crescere, passando in modo generalizzato alla

tendenza opposta, ma, qualora persista, anche la velocità della crescita diventa minimale, mentre la

diminuzione risulta a sua volta consistente. Inoltre per la quasi totalità dei paesi nel lungo periodo

del secondo dopoguerra l’andamento della sindacalizzazione si configura come un fenomeno ciclo,

mentre in soli due paesi (Stati Uniti e Olanda), dagli anni ’60 a oggi la relazione assume

sostanzialmente una forma monotonica decrescente. Sempre in figura 2.1 è riportata la retta di

regressione che approssima i casi considerati, così da stabilire se esista una qualche correlazione tra

0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

50,0

60,0

70,0

80,0

90,0

1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005

Fig. 2.2. Trends di sindacalizzazione, 1960-2007, percentualiFonte: OCSE

Stati Uniti Giappone Canada Germania Francia ItaliaRegno Unito Irlanda Finlandia Svezia Norvegia DanimarcaOlanda Belgio Spagna Svizzera Austria

36

Page 37: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

la crescita negli anni ’60 e ’70 e quella del ventennio successivo. In effetti si trova una discreta

correlazione positiva (con r = 0,478) tra la crescita nel primo periodo e quella nel secondo,

connotata da una buona, e quasi significativa, intensità (beta pari a 0,227, con p-value a 0,072),

mettendo in luce come, in una certa misura, i paesi che abbiano saputo approfittare della forte

crescita della sindacalizzazione nel secondo dopoguerra siano riusciti ad ammortizzare meglio gli

effetti negativi del periodo storico successivo, probabilmente riuscendo a consolidare le proprie

forze grazie all’ottenimento di un maggiore riconoscimento giuridico e sociale in un’ottica di lungo

termine, inserendosi in meccanismi di scambio politico a partire da un periodo caratterizzato da

rapporti di forza più sbilanciati verso le associazioni sindacali. Questa sembra essere l’opinione

anche di Bernard Ebbinghaus e Jelle Visser, che trovano una correlazione simile per il periodo

1950-1995, portandoli a concludere come «la sindacalizzazione è il risultato

dell’istituzionalizzazione. Mobilitazioni di successo nel passato costituiscono un acquis per il

futuro. Più alto il livello di organizzazione nel 1975, più basso il declino durante gli “anni di crisi»

[Ebbinghaus e Visser 1999, 148].

E’ ora possibile cercare di stabilire se esiste qualche trend generale che accomuni o differenzi

sistematicamente i diversi paesi. La figura 2.2 mostra l’andamento della sindacalizzazione netta per

tutti i diciassette paesi analizzati nel periodo 1960-2007. Come si può immediatamente notare le

differenze sono notevoli, ed emergono diversi percorsi specifici nella crescita e diminuzione della

densità sindacale. Prima di arrivare a formulare una tipologia è perciò interessante spostare lo

sguardo sui valori medi della membership relativa tra i paesi analizzati. Nel grafico rappresentato in

figura 2.3 è perciò riportato l’andamento del tasso di sindacalizzazione netto, calcolato come media

0,00

10,00

20,00

30,00

40,00

50,00

60,00

70,00

1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005

Den

sità

sind

acal

e ne

tta

%Fig. 2.3. Tasso di sindacalizzazione medio, 1960-2006Fonte: elaborazione su dati OCSENote: Svezia dal 1963, Austria dal 1968, Svizzera dal 1976, Spagna dal 1981

Media +1 st.dev

Media

Media -1 st.dev

37

Page 38: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

Tab. 2.2. Coefficienti di variazione, 1960-2006

Anno 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2006

CV 0,31 0,34 0,31 0,33 0,39 0,49 0,53 0,56 0,58 0,60 0,61

Fonte: elaborazione su dati OCSENote: Svezia dal 1963, Austria dal 1968, Svizzera dal 1976, Spagna dal 1981

non ponderata dei diciassette paesi presi in considerazione. Parallelamente ad esso è riportato

l’andamento della sindacalizzazione media, aumentata e diminuita di una deviazione standard, in

modo da stabilire se a partire dagli anni ’60 è possibile parlare di un trend comune convergente o

divergente. Innanzitutto dal grafico è percepibile visivamente la tendenza sopra descritta: a partire

dagli anni ’60, fino al 1979, la crescita media della sindacalizzazione è continua, mentre a partire

dal 1980 comincia un lungo declino che arriva fino a oggi, interrotto solo da una lieve increspatura

nei primi anni ’90. Analizzando i valori aumentati e diminuiti di una deviazione standard, si vede

invece come a partire dall’inizio del periodo esista una crescente divergenza dalla media,

inizialmente di scarsa o nulla intensità, diventando quindi più marcata a partire dalla seconda metà

degli anni ’70, ritornando poi a stabilizzarsi a cavallo del volgere del secolo. Questo sta a indicare

come le traiettorie della sindacalizzazione dei diversi paesi, pur concorrendo a costituire un trend

comune per i principali paesi europei e dell’OCSE, presentino una volatilità crescente nel tempo,

rendendo plausibile l’ipotesi che accanto a fattori ciclici e strutturali, che colpiscono in modo

sempre più simile i diversi paesi nell’era della globalizzazione, esistano fattori istituzionali che

concorrano a formare risposte diverse a stimoli simili, creando l’incredibile varietà di traiettorie e

livelli nel percorso della sindacalizzazione del secondo dopoguerra, come già mostrato dalla figura

2.2. Questo porta infatti Jelle Visser a concludere che «mentre nel dopoguerra i trends di crescita

economica, di struttura sociale e dell’occupazione sono largamente simili, spiegazioni politiche e

istituzionali del cambiamento nella rappresentanza dei sindacati sono le più importanti» [Visser

2002, 404].

Dal momento in cui però la deviazione standard è influenzata dal valore della media, può essere

utile infine analizzare i coefficienti di variazione, rispetto alla densità sindacale media, anno per

anno, in modo da individuare con più precisione i periodi in cui divergenza o convergenza si

accentuino, e quelli in cui domini una certa stabilità nelle tendenze. Nella tabella 2.2 vengono

perciò riportati i coefficienti di variazione per quinquennio a partire dal 1960, fino al 2006, ultimo

anno in cui vi siano dati disponibili per tutti e 17 i paesi. Da tali dati si ricava come, dopo un primo

quindicennio di oscillazioni intorno a un valore grosso modo stabile, il coefficiente cominci a

crescere costantemente, presentando una seppur lieve crescita anche nell’ultimo anno, il 2006.

Questo significa che effettivamente, come già mostrato dalla figura 2.3, dalla metà degli anni ’70 la

38

Page 39: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

sindacalizzazione tra i diversi paesi comincia a divergere nettamente, con oscillazioni sempre più

ampie dalla media. Il dato più interessante però risulta il rallentamento di questa divergenza a

partire dalla seconda metà degli anni ’90, il che indica una sempre minore differenziazione cross-

nazionale prodotta dalle differenti caratteristiche istituzionali. Per quanto appaia quindi plausibile

poter ipotizzare un futuro rallentamento nelle divergenze tra paesi fino a un loro arresto, più

difficile risulta valutare se si stia avviando una fase in cui i tassi di sindacalizzazione dei diversi

paesi cominceranno a convergere, come ipotizzato da David Blanchflower [2007]. Basandosi sui

dati disponibili è perciò solo possibile cogliere il rallentamento della tendenza alla differenziazione,

che rimane comunque di segno lievemente positivo.

E’ ora possibile concludere chiedendosi se gli andamenti nella sindacalizzazione nel secondo

dopoguerra siano raggruppabili sotto diverse tipologie, accomunati da caratteri comuni. Un’ipotesi

0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

50,0

60,0

70,0

80,0

90,0

1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005

Fig. 2.4a. Tasso di sindacalizzazione, 1960-2007 - ConservatoriFonte: OCSENote: Irlanda dal 1961; Svezia dal 1963

Giappone Germania Olanda Francia

0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

50,0

60,0

70,0

80,0

90,0

Fig. 2.4b. Socialdemocratici

Danimarca SveziaFinlandia Norvegia

0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

50,0

60,0

70,0

80,0

90,0

Fig. 2.4c. Liberali

USA Canada UK Irlanda

39

Page 40: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

di partenza potrebbe consistere nel valutare se le traiettorie di crescita della densità sindacale siano

raggruppabili sotto la classica tipologia di Gøsta Esping-Andersen [2000], che divide i paesi a

seconda del regime di welfare adottato (intendendo con tale termine le diverse configurazioni

derivanti dall’interazione tra mercati del lavoro, famiglie e stato). I tre tipi ideali prefigurati

dall’autore, con riferimento ai diciassette paesi qui analizzati, sono il regime Liberale (Stati Uniti,

Regno Unito, Canada, Irlanda), il regime Conservatore (Italia, Spagna, Francia, Olanda, Belgio,

Germania, Austria, Svizzera, Giappone) e il regime Socialdemocratico (Svezia, Finlandia,

Norvegia, Danimarca). Esping-Andersen trova come i diversi sistemi di relazioni industriali siano

correlati con le diverse tipologie di regimi di welfare. In particolare i regimi socialdemocratici

sarebbero caratterizzati da un alto grado di copertura contrattuale (inteso come la proporzione di

lavoratori coperti da un contratto di lavoro collettivo), e da una centralizzazione e un coordinamento

della contrattazione collettiva medio-alta. I regimi liberali, al contrario, presenterebbero livelli di

copertura medio-bassi, e una centralizzazione e coordinamento della contrattazione decisamente

scarsi. Infine i regimi conservatori non presenterebbero un modello univoco, godendo comunque di

un’elevata copertura contrattuale, e un medio livello di centralizzazione e coordinamento. E’ quindi

ragionevole aspettarsi che anche le traiettorie della sindacalizzazione presentino dei tratti comuni tra

regimi simili, per quanto inevitabilmente non sia possibile adattare esattamente ogni paese agli

stretti confini di un tipo ideale: un problema ulteriore consiste nella lunghezza del periodo

analizzato, «principalmente per l’incapacità delle tipologie di tener conto dei cambiamenti»

[Esping-Andersen 2000, 149]. In figura 2.4 sono perciò riportati gli andamenti del tasso di

sindacalizzazione netto per quattro paesi per ogni tipologia. I regimi conservatori presentano un

andamento tutto sommato affine, caratterizzato da una fase iniziale di stabilità, con lievi oscillazioni

sopra e sotto la media, e da un marcato declino a partire dagli anni ottanta, che tende a rallentare sul

finire degli anni ’90. In particolare la Germania mostra un picco di iscrizioni nel 1991, derivante

dall’unificazione tra Germania Est e Ovest e dall’improvvisa acquisizione del grande numero di

tesserati provenienti dal regime socialista, tesi comunque a diminuire rapidamente a seguito della

normalizzazione del paese [Streeck e Visser 1998]. I regimi liberali risultano invece più variegati:

Regno Unito e Irlanda, pur con livelli diversi, mostrano un trend quasi identico, anche se meno

lineare nella fase discendente per l’Irlanda. A partire dagli anni ’80 però la tendenza di entrambi

comincia a somigliare nettamente a quella degli Stati Uniti, che a sua volta si differenzia dagli altri

per il periodo 1960-1980, avendo cominciato per primo la fase di declino. Il Canada invece non

mostra affinità col resto del gruppo, essendo caratterizzato da una certa stabilità (il suo tasso di

sindacalizzazione del 1960 è quasi identico a quello del 2007). Una spiegazione dell’ “anomalia

canadese” potrebbe risiedere nel fatto che in questo paese sono garantite o addirittura incoraggiate a

40

Page 41: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

livello legislativo le clausole contrattuali di union shop (detto anche post-entry closed shop, regola

contrattata collettivamente che obbliga all’iscrizione al sindacato, o al semplice pagamento della

relativa quota, tutti i lavoratori assunti in uno stabilimento coperto da condizioni di lavoro

contrattate collettivamente da un’associazione sindacale) [Taras e Ponak 2001], clausole invece

fortemente scoraggiate nel Regno Unito a partire dalla legislazione conservatrice degli anni ’80, e

indebolite negli Stati Uniti già a partire dal 1947 con l’approvazione del Taft-Hartley Act, che ha

messo fuori legge il pre-entry closed shop (cioè l’obbligo per le imprese, stabilito contrattualmente,

di assumere solo membri del sindacato maggiormente rappresentativo in azienda), lasciando ai

singoli stati la possibilità di varare Right to work laws, tese a impedire anche la pratica dell’union

shop (il che aiuterebbe a spiegare il declino precoce nella densità sindacale degli Stati Uniti). Una

peculiarità del Regno Unito, tesa a mettere in luce la difficoltà delle tipologie a tener conto dei

cambiamenti interni nel trascorrere del tempo, è che la sua curva, nel ventennio 1960-1980, risulta

estremamente simile a quelle dei regimi socialdemocratici, per poi assomigliare sempre più a quella

degli Stati Uniti nel ventennio successivo. Come nota Esping-Adersen, «se avessimo condotto i

nostri confronti nei primi decenni del dopoguerra, quasi certamente avremmo messo Gran Bretagna

e paesi scandinavi nello stesso raggruppamento […]. Nei confronti condotti oggi, la Gran Bretagna

appare sempre più liberale. E’ un caso di passaggio di regime» [Esping-Andersen 2000, 149]. Infine

i regimi socialdemocratici si dimostrano i più affini, con la parziale eccezione della Norvegia. Non

solo i trends sono nettamente assimilabili, ma anche i livelli di sindacalizzazione risultano assai

vicini. Questo, come verrà approfondito in seguito, può derivare dal forte influsso sulla densità

sindacale esercitato dall’adozione del sistema Ghent nella gestione del sussidio di disoccupazione,

presente in Svezia, Finlandia e Danimarca, ma non in Norvegia. Il Belgio, non riportato nei grafici,

che adotta in parte tale sistema, presenta in effetti una curva molto più vicina ai paesi

socialdemocratici di quanto non sia ai regimi conservatori in cui solitamente viene classificato.

In conclusione possiamo dire che, nonostante le difficoltà presentate da ogni tipologia

sufficientemente inclusiva, il raggruppamento dei paesi sopra proposto presenta qualche grado di

plausibilità, mettendo ancora una volta in luce come le differenze istituzionali e sistemiche

influiscano sul comportamento sindacale in misura maggiore dei cambiamenti ciclici dell’economia

e della struttura sociale che interessano sempre più omogeneamente tutti i paesi.

41

Page 42: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

2.2 Perché si riduce la sindacalizzazione netta?

Nel tentare di spiegare un fenomeno così complesso come l’andamento ciclico della

sindacalizzazione, tanto variegato e caratterizzato da differenze di tale intensità, è necessario un

approccio multivariato, che prenda cioè in considerazione diverse categorie di variabili e le

interazioni tra le stesse come explanans della variabile dipendente. Come suggeriscono Bernard

Ebbinghaus e Jelle Visser [1999] è possibile suddividere in tre categorie i diversi approcci utilizzati

storicamente nello spiegare l’andamento della densità sindacale. Innanzitutto vi sono gli approcci

ciclici, tesi a ricondurre le oscillazioni nella membership relativa dei sindacati a fattori legati al ciclo

economico, ipotesi inizialmente avanzata da John R. Commons e colleghi già nel 1918 [Calmfors et

al. 2002]. La sindacalizzazione seguirebbe quindi i cicli di espansione e recessione dell’economia, e

le variabili principali nella spiegazione del fenomeno risulterebbero i cambiamenti nei tassi

d’inflazione o di disoccupazione. Un secondo tipo di approccio è quello strutturale, che individua la

spiegazione dell’andamento alterno nelle fortune del sindacato nei cambiamenti di lungo termine

nella struttura dell’economia e della società: «in quest’ottica, il declino del sindacato risulta dal

cambiamento delle strutture di classe, dai nuovi modi di produzione, dai mercati del lavoro

flessibili, o dalla diffusione di valori sociali individualistici» [Ebbinghaus e Visser 1999, 136].

Infine abbiamo l’approccio istituzionale (o configurazionale), teso a cogliere le differenti specificità

nazionali nel mediare e fornire risposte differenti a stimoli di carattere ciclico o strutturale

largamente simili. Questo approccio risulta perciò complementare agli altri due, i quali

singolarmente presi trovano difficoltà non indifferenti nello spiegare le persistenti (e crescenti)

diversità nei livelli e nelle traiettorie della sindacalizzazione tra diversi paesi, in quanto tendenti a

spiegare le variazioni nella sindacalizzazione rifacendosi a una logica omogenea, valida nonostante

le diverse configurazioni istituzionali. Secondo un’ottica configurazionale invece le «differenze

istituzionali “strutturano le alternative”; pongono le costrizioni e le opzioni per gli attori corporati

come i sindacati, le imprese o le associazioni imprenditoriali nello scegliere le loro risposte»

[Ebbinghaus e Visser 1999, 136]. E’ perciò necessario tenere presente tutte e tre le categorie di

variabili, e considerare i cambiamenti nella sindacalizzazione del lavoro dipendente nel tempo come

il risultato di una continua interazione tra fattori appartenenti a tipologie diverse. Il fatto, inoltre,

che la figura 2.3 riportata nel paragrafo 2.1 mostri sia un comune e netto cambiamento del trend di

crescita nel 1980, sia una persistente differenziazione cross-nazionale del tasso di sindacalizzazione

(come dimostrato dai coefficienti di variazione riportati in tabella 2.2 sempre del paragrafo

precedente), è un’ulteriore dimostrazione del fatto che siano all’opera contemporaneamente fattori

ciclici, strutturali e istituzionali. Come notano Daniele Checchi e Jelle Visser, «un comune

42

Page 43: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

cambiamento di trend suggerisce forze strutturali simili e cicli con del tutto simili tempistiche e

impatti. Persistenti e crescenti differenze tra paesi sono una prova prima facie che i sindacati e la

loro membership siano da osservare nel contesto delle istituzioni specifiche ai vari mercati del

lavoro nazionali» [Checchi e Visser 2005, 1]. Nei seguenti paragrafi verranno perciò esposti i

principali risultati relativi alle tre diverse tipologie di variabili, cominciando dai fattori ciclici e

concludendo con quelli strutturali.

2.2.1 Variabili cicliche

Le variabili cicliche sono generalmente divise in due categorie: quelle relative al ciclo economico e

quelle relative al ciclo politico. Alla prima categoria vengono associate sia la misura della

disoccupazione (intesa come aumento anno per anno, per catturarne gli effetti di breve periodo, o

come livello complessivo, in relazione agli effetti di lungo periodo) che dell’inflazione, mentre con

la seconda si tende a fare riferimento al ciclo elettorale (alternanza di governi pro e anti-union) e al

tipo di politiche pubbliche messe in essere (di matrice keynesiana o neo-liberale) [Ebbinghaus e

Visser 1999]. Una terza variabile ciclica infine può essere considerata il ricorso allo sciopero,

fattore a sua volta strettamente collegato all’andamento del ciclo economico [Checchi e Visser

2005].

Disoccupazione

La disoccupazione, in generale, risulta avere un effetto negativo sulla consistenza numerica relativa

del sindacato. Dal momento che una crescita della disoccupazione tende, a parità di altri fattori, a

far decrescere il tasso di sindacalizzazione netto (che esclude la forza lavoro disoccupata), ciò

significa che in periodi di depressione vi è una tendenza tra i lavoratori rimasti occupati ad

abbandonare il sindacato. Secondo le teorie del ciclo economico ciò avverrebbe in quanto «la

disoccupazione aumenta i costi e diminuisce i benefici dell’adesione al sindacato per i lavoratori. La

membership diventa relativamente più costosa e i sindacati possono ottenere di meno. Inoltre, la

disoccupazione tende a rendere il reclutamento più costoso per i sindacati, dal momento in cui

aumenta la capacità dei datori di lavoro nel resistere all’organizzazione dei sindacati e incrementa il

timore tra i lavoratori nel dimostrare solidarietà» [Ebbinghaus e Visser 1999, 139]. Allo stesso

modo, nella misura in cui la disoccupazione riduce il livello di domanda aggregata, l’eventuale

perdita di produzione associata a scioperi o conflitti risulterebbe meno drammatica per i datori di

lavoro, mettendoli in una posizione di forza rispetto al lavoro organizzato, rendendo i lavoratori

inclini a “ricercare la pace” con l’impresa, tenendosi alla larga dai sindacati. [Calmfors et al. 2002].

43

Page 44: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

La disoccupazione però, come tutte le variabili cicliche e strutturali, risulta sempre filtrata dalle

configurazioni istituzionali dei diversi paesi, portando così a effetti differenti a partire da uno

stimolo del tutto simile. Condizioni legislative o accordi collettivi a un elevato livello di

istituzionalizzazione, favorevoli a una gestione contrattata coi sindacati degli esuberi e delle

politiche per l’occupazione, potrebbero rendere più appetibile l’iscrizione in periodi di crisi, in

quanto l’appartenenza a un sindacato costituirebbe per il lavoratore una spesa assicurativa

necessaria per mantenere il posto di lavoro o trovarne uno nuovo rapidamente una volta licenziato.

Pertanto, nel determinare l’effetto che una crescita del tasso di disoccupazione verrà a determinare

sulla membership relativa dei sindacati, fattori da tenere a mente risulteranno soprattutto il livello di

rappresentanza dei lavoratori a livello d’impresa (spesso legittimati a contrattare i licenziamenti), e

l’organizzazione dell’assicurazione contro la disoccupazione [Calmfors et al 2002].

Gli studi più recenti risultano comunque generalmente concordi nel trovare che la disoccupazione, a

parità di altri fattori, eserciti un effetto negativo sulla crescita della densità sindacale netta, e questo

sia nel breve che nel lungo periodo [Calmfors et al. 2002; Visser 2002; Checchi e Visser 2005; Lee

2005]. Tale correlazione rimarrebbe di intensità simile considerando tutto il periodo del secondo

dopoguerra: Daniele Checchi e Jelle Visser [2005] dimostrano infatti come i valori siano del tutto

simili e parimenti significativi sia per il periodo 1950-1975 che per il periodo 1975-1996. Esistono

però delle differenze nell’effetto della disoccupazione sulla densità sindacale dettate dalle diverse

configurazioni istituzionali tra paesi. Come verrà approfondito nel paragrafo 2.2.3, e come messo in

luce dagli stessi studi, nei paesi in cui vige il sistema Ghent nella gestione dell’assicurazione

volontaria contro la disoccupazione (sistema per cui i sussidi di disoccupazione di natura

assicurativa volontaria vengono finanziati dalla fiscalità generale e supervisionati dallo stato, ma

gestiti da agenzie, per quanto formalmente indipendenti, legate alle associazioni sindacali e

solitamente divise per settore, in modo da ricalcare le divisioni determinate dalle federazioni

sindacali di categoria [Clasen e Viebrock 2008]), la disoccupazione risulta avere un effetto positivo

sulla densità sindacale netta. L’effetto positivo si mantiene, curiosamente, anche nel Regno Unito,

non fornito ad oggi di un sistema di gestione sindacale dei sussidi di disoccupazione né di un

controllo da parte del sindacato delle strutture di collocamento [Brugiavini et al. 2002]. Tale

risultato configura un’anomalia nel panorama internazionale, anche una volta tenuto conto delle

differenze istituzionali [Freeman e Pelletier 1990; Calmfors et al. 2002].

Una delle caratteristiche particolarmente negative della disoccupazione è la sua capacità di

esercitare effetti negativi sulla densità sindacale persistenti nel lungo termine. Anche gli shock

temporanei sono destinati a esercitare un effetto continuo per diverso tempo, rendendo difficoltoso

un riaggiustamento rapido della sindacalizzazione sui valori precedenti all’aumento temporaneo del

44

Page 45: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

tasso di disoccupazione. Questo «sembrerebbe implicare, per esempio, che l’aumento della

disoccupazione in Europa che si è registrato a partire dalla metà degli anni Settanta fino alla metà

degli anni Ottanta non abbia esercitato tutto il suo effetto sul livello di sindacalizzazione. Pertanto,

ne consegue anche che un ritorno a un livello di disoccupazione notevolmente inferiore (ma non

così basso come era all’inizio degli anni Settanta) negli anni successivi non debba implicare

un’inversione della tendenza dei livelli di sindacalizzazione» [Calmfors et al. 2002, 52]. Questo

sarebbe coerente con l’ipotesi della Social custom theory (cfr. par. 1.2.2), in quanto ogni caduta del

tasso di sindacalizzazione causata da shock temporanei tenderebbe a essere persistente, riducendosi

la pressione sociale tra colleghi [Checchi e Visser 2005]. Ciò collimerebbe anche con l’esistenza di

una certa inerzia della densità sindacale, essendo la densità attuale fortemente correlata a quella

passata [Ebbinghaus e Visser 1999]. Considerando perciò il forte aumento della disoccupazione a

partire dalla crisi degli anni ’70 in tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti è facile fornire un

primo collegamento con le parallele difficoltà sperimentate dai sindacati nello stesso periodo.

Inflazione

L’effetto dell’inflazione sul tasso di sindacalizzazione netto risulta più ambiguo, non portando

sempre a conclusioni generalizzabili. A livello teorico si suppone che l’inflazione giochi un effetto

positivo sulla membership relativa del sindacato, per un duplice motivo. In periodi a elevata

inflazione i salari reali decrescono, rendendo più probabile l’iscrizione sindacale per mantenere

inalterate le condizioni salariali in una logica assicurativa. Inoltre gli aumenti salariali strappati

dalla contrattazione, che esercitano un effetto di pressione inflazionistica, si tradurrebbero in un

“premio” per il sindacato in termini di maggiori iscritti. In caso di manovre monetarie di carattere

espansivo, poi, i datori di lavoro sarebbero meno restii nel concedere aumenti ai dipendenti,

potendo scaricare con più facilità i relativi costi sul mercato. Tale impostazione teorica però non

terrebbe conto dei problemi del free-riding, in quanto aumenti o diminuzioni salariali in termini

reali sono di norma disponibili a iscritti o meno in eguale misura. Infatti spesso nei modelli di

regressione basati su un numero sufficientemente ampio di paesi le misure dell’inflazione non

risultano significative, solitamente di scarso impatto e di carattere contraddittorio [Calmfors et al.

2002]. Anche qui rientrano in gioco specificità nazionali nei sistemi di relazioni industriali: in

particolare «possiamo aspettarci una relazione positiva tra inflazione e crescita della membership in

combinazione con accresciuti conflitti inter-gruppo, ove differenti gruppi di lavoratori […]

ingaggino una gara per mantenere le proprie posizioni relative […]. Questo potrebbe spiegare

perché l’inflazione è stata più consistentemente correlata con la crescita dei sindacati nei paesi con

relazioni industriali oppositive e pluraliste, come nei paesi anglosassoni, almeno fino alla vittoria

45

Page 46: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

del monetarismo» [Ebbinghaus e Visser 1999, 139]. Una competizione identitaria nel perseguire gli

stessi obiettivi di difesa dall’inflazione potrebbe fornire da incentivo nello schierarsi in formazioni

contrapposte, aumentando la densità complessiva. Effettivamente, in Calmfors et al. [2002], l’unico

modello che trovi una correlazione positiva e significativa tra il tasso d’inflazione e la crescita

sindacale si basa su un sottocampione di nove paesi, tra i quali l’Italia, il Regno Unito, la Francia e

la Spagna, paesi caratterizzati da una certa frammentazione nella rappresentanza e un livello medio-

basso di coordinamento [Ebbinghaus e Visser 2000; Calmfors et al. 2002].

Più recentemente, Checchi e Visser [2005] trovano una correlazione positiva (ma non significativa)

tra il tasso d’inflazione e la crescita della membership sindacale relativa, su un campione di 14 paesi

OCSE. Anche Cheol-Sung Lee [2005] trova la stessa correlazione positiva su un campione di 16

paesi, per quanto significativa in un solo modello. All’opposto, invece, il tasso di accelerazione

dell’inflazione esercita un effetto negativo e significativo, a causa delle difficoltà per i sindacati nel

difendere il tenore di vita dei lavoratori in periodi di crescente aumento dei prezzi. Tale effetto

verrebbe però neutralizzato in quei paesi in cui esistano norme o clausole contrattuali che

stabiliscano qualche forma di indicizzazione dei salari al costo della vita, correlando positivamente

al tasso di sindacalizzazione l’interazione tra le due variabili. Tale effetto non sarebbe però

omogeneo nell’intero periodo del secondo dopoguerra. L’accelerazione dell’inflazione risulta

associata in modo particolarmente negativo alla sindacalizzazione nel periodo 1950-1975, mentre la

correlazione diverrebbe ancora una volta non significativa (per quanto lievemente positiva) nel

periodo 1975-1996, «quando i paesi occidentali democratici hanno seguito un sentiero di

stabilizzazione basato su valuta forte, deflazione e alta disoccupazione» [Checchi e Visser 2005,

12].

In un periodo quale quello attuale, perciò, caratterizzato da bassa inflazione (in particolare per i

paesi dell’Unione Europea, in cui la stabilità dei prezzi è assicurata dalla Banca Centrale Europea

stabilendo un tasso di inflazione comune al massimo del 2%), gli spazi per i sindacati

nell’assicurare ai propri membri un costante aumento dei salari reali si riducono notevolmente

(soprattutto nella fase a basso incremento di produttività attraversata dalle economie europee). C’è

inoltre la possibilità che «ridurre l’inflazione a zero renderà i contratti a tempo indeterminato e

sindacalmente regolati meno attrattivi per i datori di lavoro […]. Ci si può aspettare che bassa

inflazione e bassa crescita della produttività perduranti aumenteranno le domande delle imprese per

maggiore flessibilità contrattuale, minori livelli di protezione dell’impiego, minori tassi di

sostituzione e salari minimi più bassi» [Visser 2005, 295]. In tal modo, riducendosi gli spazi entro

cui contrattare e l’utilità per i datori di lavoro di avere contratti sufficientemente lunghi per ridurre

le incertezze dovute alle fluttuazioni dei prezzi, vi è il rischio che «non ci sarà più niente da

46

Page 47: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

negoziare a livello di settore, e la contrattazione a tale livello perderà la sua funzione quando il suo

ruolo di determinazione dei salari sarà indebolito» [Visser 2005, 295], creando condizioni

potenzialmente molto pesanti per il futuro della rappresentanza sindacale.

Clima politico

Il cambiamento del clima politico, inteso come l’alternarsi di governi pro e anti-labour, è una

variabile strettamente collegata ai fattori istituzionali di sostegno alle rappresentanze sindacali.

Teoricamente l’effetto sulla densità sindacale complessiva derivante da governi di carattere

laburista può essere ambiguo. La vittoria di coalizioni pro-union può derivare da una maggiore

adesione tra i cittadini a valori solitamente associati con le politiche sindacali, il che si tradurrebbe

parallelamente in una maggiore adesione al sindacato. Allo stesso modo, però, la vittoria di

coalizioni anti-union potrebbe spingere i lavoratori a cercare maggiore protezione nelle

organizzazioni sindacali, sentendosi minacciati dalla sterzata a destra del clima politico [Checchi e

Visser 2005]. Empiricamente, la variabile relativa alla composizione del governo in carica risulta

avere una scarsa capacità predittiva e porta a risultati ambigui. La presenza all’esecutivo di

coalizioni di centrosinistra risulta non avere alcun effetto significativo [Calmfors et al. 2002],

mentre una composizione conservatrice del governo risulta avere un effetto negativo e significativo

[Lange e Scruggs 1999], o negativo ma non significativo [Lee 2005]. Checchi e Visser [2005]

trovano invece come la percentuale di voti ottenuti dalle coalizioni di centrosinistra nelle elezioni

più vicine sia correlata negativamente e in modo significativo, per quanto l’effetto sia di lieve

entità, alla densità sindacale. Secondo i due autori un’ipotesi valida potrebbe essere che l’aderire a

un sindacato e votare per partiti di centrosinistra siano opzioni parzialmente sostitutive. La

protezione sul mercato del lavoro verrebbe cercata in modo diverso a seconda della situazione

politica: in caso di coalizioni laburiste al governo la protezione del mondo del lavoro verrebbe

cercata in arrangiamenti di tipo legislativo, provocando un riflusso dal sindacato, mentre in caso le

garanzie non siano ottenibili pubblicamente grazie a coalizioni pro-labour ci si rivolgerebbe più

spesso alle associazioni sindacali. Ciò spiegherebbe i rapporti ambigui delle associazioni sindacali

rispetto a uno spostamento ulteriore della protezione del lavoro dalla contrattazione collettiva alla

tutela legislativa (storicamente associata alle coalizioni di centrosinistra), il che porta Tiziano Treu,

discutendo dei necessari riequilibri tra i due ambiti nelle società post-fordiste, a ritenere che «non a

caso il rapporto tra legge e contratto continua a essere uno degli aspetti più problematici» [Treu

2007, 97]. Un chiaro esempio è fornito dalle diverse opinioni dei sindacati europei rispetto

all’istituto del salario minimo. Secondo Guido Baglioni, con la sua introduzione, «al sindacato,

principale o esclusivo attore che produce tutela, viene tolta una parte del suo ruolo naturale, nel

47

Page 48: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

senso che si ridimensiona la prerogativa di autorità negoziale» [Baglioni 2008, 145]. Ed è

indicativo che, accanto ai paesi che adottano tale sistema, «gli assenti corrispondono ad un nutrito

gruppo di paesi che hanno un tratto significativo in comune: sono quelli con esperienze sindacali

ancora forti o abbastanza forti e con relazioni industriali relativamente consolidate. Parlo dei paesi

scandinavi, della Germania e dell’Italia» [Baglioni 2008, 143]. L’ipotesi di una concorrenza tra

associazioni sindacali e partiti di centrosinistra nel fornire diversi tipi di protezione del mondo del

lavoro risulta perciò plausibile, ponendo problemi inediti nella collaborazione tra due movimenti

storicamente strettamente associati.

Il clima politico misurato semplicemente come composizione partitica del governo (o percentuale

di voti ottenuti dalle coalizioni di centrosinistra alle elezioni politiche) risulta quindi un predittore

labile, dal momento in cui dagli anni ’80 riforme istituzionali del mercato del lavoro e dei sistemi di

relazioni industriali storicamente associate coi partiti conservatori sono avvenute anche in presenza

di governi di orientamento socialdemocratico. Questo porta a concludere Checchi e Visser che, dal

momento in cui si tenga conto di questo, «non c’è bisogno di un’addizionale variabile “catch all”.

La misurazione diretta dei cambiamenti istituzionali, attraverso le politiche piuttosto che la

composizione governativa, è sicuramente più precisa» [Checchi e Visser 2005, 17]. Per questo

motivo se ne rimanda la relativa discussione al paragrafo 2.2.3.

Sciopero

Partendo dall’ipotesi di fondo della Social custom theory, Daniele Checchi e Giacomo Corneo

ritengono che la «partecipazione agli scioperi può anche essere vista come un indicatore di fattori di

costume sociale che spingono verso l’alto la membership sindacale» [Checchi e Corneo 2000, 170].

In occasione di sciopero, molti sindacati sono dotati di casse di resistenza, utili nel fornire un

sussidio ai propri membri, teso a ripagare il lavoratore della paga perduta a causa della

partecipazione all’attività di sciopero. Questo costituirebbe un incentivo selettivo con l’effetto di

attrarre un maggiore numero di lavoratori all’iscrizione [Visser 1996]. In occasione di aumenti della

conflittualità e della crescita dei partecipanti agli scioperi è possibile, poi, che si crei un clima di

maggiore pressione e controllo sociale tra i lavoratori, a causa del quale gli incentivi reputazionali

per il singolo potrebbero diventare decisivi nel decidere di aderire all’organizzazione sindacale dei

colleghi. Allo stesso modo, nel momento in cui l’attività conflittuale è tesa altresì a fornire incentivi

identitari al gruppo e ai singoli, in modo da facilitarne la costituzione di basi per il calcolo costi-

benefici (come sostenuto da Pizzorno, cfr. par. 1.2.1), un aumento dell’attività di sciopero potrebbe

coincidere con una parallela ridefinizione identitaria dei lavoratori in termini più vicini alla

partecipazione sindacale, aumentando gli iscritti. Questa seconda ipotesi appare più coerente di

48

Page 49: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

quella derivata dalla Social custom theory, in quanto, come sostiene Jon Elster, «quando le norme

sono internalizzate sono seguite anche quando le violazioni non sarebbero osservate e quindi non

esposte a sanzioni. La vergogna o la sua anticipazione è una sanzione interna sufficiente […]. Le

persone hanno un giroscopio interno che li tiene fermamente attaccati alle norme,

indipendentemente dalle effettive reazioni degli altri. [… Inoltre] le persone solitamente non

disapprovano gli altri quando manchino di sanzionare persone che manchino di sanzionare persone

che manchino di sanzionare persone che manchino di sanzionare la violazione di una norma. Di

conseguenza alcune sanzioni devono essere eseguite per altri motivi che la paura di essere

sanzionati» [Elster 1989, 105]. Pertanto è difficile che si crei una catena di sanzioni di secondo

ordine o superiore che punisca chi non sanzioni socialmente i non iscritti, come sostenuto da

Checchi e Corneo.

Passando ai risultati empirici, Checchi e Visser [2005] trovano come effettivamente variazioni

dell’attività di sciopero (calcolato come estensione relativa del conflitto, cioè dal rapporto tra

scioperanti e lavoratori dipendenti), intese come allontanamento (in positivo o in negativo) dalla

media nazionale, risultino correlate positivamente con una crescita della densità sindacale. L’effetto

non è particolarmente intenso, ma si manterrebbe costante in tutto il periodo considerato (1950-

1996), anche disaggregando per sottoperiodi (1950-1975 e 1975-1996). Per la dimensione che più

approssima la costituzione di un costume sociale o la creazione di un’identità condivisa (cioè il

numero relativo di lavoratori coinvolti), è possibile notare come gli anni ’80 rispetto ai ’70

costituiscano una brusca diminuzione della partecipazione nella maggior parte dei paesi (con le

rilevanti eccezioni di Danimarca e Svezia, che passano a livelli complessivamente più alti di

conflitto). Negli anni ’90, tra gli otto paesi analizzati da Lorenzo Bordogna e Gian Primo Cella

[2002] (Danimarca, Francia, Germania, Italia, Svezia, Olanda, Regno Unito, Stati Uniti), la

tendenza è ulteriormente declinante, tranne che per un lieve incremento in Germania e Olanda.

Accanto a questa diminuzione tendenziale della partecipazione agli scioperi, si accompagna però

anche una tendenza alla sua trasformazione. A partire grosso modo dagli anni ’80, la percentuale di

giorni persi per sciopero nel settore manifatturiero rispetto al totale delle giornate perse è in costante

diminuzione in quasi tutti i paesi analizzati [Bordogna e Cella 2002], venendo alla luce così una

situazione di “terziarizzazione del conflitto”, come definita da Aris Accornero [1985], intesa sia

come diffusione del conflitto nel settore dei servizi, sia come maggiore coinvolgimento di soggetti

“terzi”, cioè principalmente gli utenti. Questo può costituire un problema per le organizzazioni

sindacali storiche, in quanto specialmente nel settore dei servizi «le forme di sciopero più “efficaci”

e “dirompenti” non possono essere rese con i tradizionali indicatori (segnatamente la partecipazione

e i giorni persi)» [Bordogna e Cella 2002, 600]. Brevi scioperi nei servizi pubblici che coinvolgano

49

Page 50: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

un basso numero di partecipanti possono risultare molto più efficaci di conflitti nel settore

manifatturiero che coinvolgano larghe masse di lavoratori, in quanto può «venire talmente esaltata

la crucialità posizionale di certe occupazioni e la criticità sociale di certe figure, da mutare

comunque la portata di uno stesso o anche minore volume di conflitti» [Accornero 1985, 284]. Se

quindi le forme del conflitto sono destinate a cambiare, coinvolgendo sempre meno lavoratori e

sempre più localizzati in settori che non necessitino un’elevata partecipazione, è evidente come

possano cambiare anche i modelli di adesione sindacale, della solidarietà e della costituzione di

identità collettive, in senso sfavorevole alle organizzazione di massa dei lavoratori.

2.2.2 Variabili strutturali

Le spiegazioni strutturali si basano sui cambiamenti attraversati nel tempo dalla struttura economica

e sociale, in particolare in relazione al mutamento di peso avvenuto tra i diversi settori economici

sul totale dell’occupazione. Tra gli anni ’70 e ’80 la struttura produttiva e occupazionale della

stragrande maggioranza delle economie avanzate ha subito cambiamenti radicali. In primis, a partire

dagli anni ’70 avviene il decollo della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Mentre negli

anni ’60 i tassi lordi di attività femminile non superavano il 30% nella quasi totalità dei paesi

europei e negli Stati Uniti, nei primi anni dopo il 2000 quasi ovunque si attestano anche ben al di

sopra del 40% (con picchi intorno al 50% nelle socialdemocrazie scandinave e in Canada, e valori

poco sopra il 30% nei paesi mediterranei) [Reyneri 2005a]. Avviene poi una rapido cambiamento

nella struttura produttiva, maturando il passaggio dalle società industriali fordiste a quelle post-

industriali o dei servizi. Mentre nel 1970 la metà dei lavoratori dipendenti era occupata nel settore

manifatturiero, alla metà degli anni ’90 gli addetti all’industria sono scesi a un terzo o meno

[Calmfors et al. 2002]. Nel 2002 gli occupati nei servizi rappresentano i due terzi e oltre degli

occupati negli Stati Uniti e nell’Europa a 15 [Reyneri 2005b]. Inoltre, dal lato dell’offerta di lavoro,

si delineano importanti differenze rispetto al periodo di deruralizzazione e nascita delle società

fordiste, compreso per la maggior parte dei paesi avanzati tra gli anni ’40 e ’60, in cui la perdita di

posti di lavoro nell’agricoltura è stata di norma più che compensata dalla crescita del settore

manifatturiero senza creare disoccupazione aggiuntiva. Nel periodo compreso tra gli anni ’70 e ’90,

invece, il processo di deindustrializzazione è stato sì più che compensato dalla forte crescita

dell’occupazione nel settore dei servizi, ma questo si è accompagnato a un’altrettanta vertiginosa

crescita dell’offerta di lavoro (spinta dai risultati dell’alta fecondità degli anni ’50 e ’60 e

50

Page 51: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

Tab. 2.3. Tasso di sindacalizzazione netto nei principali settori economici

Anno Totale Agricoltura Industria Costruzioni Commercio Trasporti Finanza Servizi

Austria

1961 56,6 50,6 66,3 56,3 25,0 71,2 36,8 54,11980 56,6 54,1 67,6 63,6 26,4 81,6 35,9 55,21995 40,7 41,8 57,3 48,2 16,0 61,3 17,0 44,1

Belgio

1961 37,9 21,2 45,7 37,0 23,1 53,7 25,2 24,41980 48,7 73,9 79,8 47,2 32,2 62,6 25,8 26,71995 50,7 76,7 98,7 61,2 36,9 71,9 21,6 27,2

Danimarca

1970 57,9 37,6 61,8 79,3 25,6 81,5 70,0 49,11985 56,6 44,1 +100,0 +100,0 37,7 79,7 69,7 84,51995 81,2 47,9 +100,0 +100,0 37,4 64,1 48,0 84,2

Germania

1961 31,2 17,4 39,9 18,2 18,0 73,9 37,4 18,61980 37,3 20,6 49,0 20,2 16,1 80,7 23,1 29,61995 30,7 17,6 49,1 14,8 11,6 58,3 12,9 27,6

Italia

1980 49,6 +100,0 55,9 35,8 22,1 76,9 32,6 38,41995 38,5 +100,0 40,1 41,9 22,6 63,8 17,4 30,0

Olanda

1960 40,0 57,7 44,0 44,8 16,3 52,2 17,7 37,41980 34,7 40,8 42,8 44,2 9,6 49,2 8,3 41,91992 25,1 27,3 27,3 41,2 11,1 37,6 10,6 29,5

Norvegia

1960 52,0 18,9 66,0 44,8 21,6 76,6 54,5 49,71980 55,5 31,2 77,6 44,2 16,9 68,1 44,8 60,31995 55,0 21,0 79,3 47,3 12,9 61,1 33,0 65,6

Svezia

1960 70,2 43,4 65,6 92,0 52,0 88,3 85,0 64,91980 79,8 52,9 89,1 95,3 45,3 78,7 83,0 84,11995 95,3 +100,0 +100,0 +100,0 62,3 88,3 62,5 +100,0

Note: + supera il 100%Fonte: Ebbinghaus e Visser [2000]

dall’esplosione dell’occupazione femminile), portando a una situazione caratterizzata da alta

disoccupazione [Esping-Andersen 2000].

Il rapido cambiamento della struttura occupazionale e produttiva della società è in stretta

correlazione coi cambiamenti della sindacalizzazione complessiva, a causa della diversa 51

Page 52: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

propensione tra le diverse categorie di lavoratori nell’aderire al sindacato. Come già notato (cfr. par.

1.2.2) le donne risultano generalmente molto meno sindacalizzate degli uomini, il che si traduce in

una minore densità complessiva nel momento in cui l’offerta di lavoro tenda a femminilizzarsi.

Come si evince dalla tabella 2.3, poi, le differenze nella propensione ad aderire a un sindacato sono

particolarmente marcate tra settori economici differenti. Più in generale si nota come i settori

tradizionali blue-collar (industria, costruzioni e trasporti) risultino mediamente più sindacalizzati

dei complementari settori white-collar, concentrati nel settore dei servizi privati (commercio,

finanza e servizi in generale), mentre i servizi pubblici risultano mediamente più sindacalizzati delle

controparti private in quasi tutti i paesi [Ebbinghaus e Visser 2000; Visser 2006]. Pertanto uno

sbilanciamento della struttura occupazionale verso i lavoratori mediamente meno sindacalizzati del

settore dei servizi privati, unita a un arresto della crescita, e in alcuni casi una contrazione,

dell’impiego pubblico, possono fornire i presupposti per una diminuzione complessiva della densità

sindacale. Per quanto tale spiegazione sia di grande utilità, da sola non può rendere conto dell’intero

declino della sindacalizzazione cominciato negli anni ’80. Si stima infatti che il cambiamento di

struttura delle economie avanzate possa spiegare da solo il 30-40% del declino intervenuto nel

periodo intercorso tra gli anni ’70 e ’90 [Ebbinghaus e Visser 1999; Calmfors et al. 2002]. Inoltre

l’analisi inter-settoriale non tiene adeguatamente conto dei mutamenti avvenuti internamente ai

settori economici. Lo spostamento della struttura produttiva verso sistemi di specializzazione

flessibile, la pratica dell’outsourcing, il revival della piccola impresa e la diffusione di contratti di

lavoro atipici, tendono infatti a spostare il tessuto produttivo verso unità lavorative dove la

sindacalizzazione risulta tendenzialmente più difficile [Ebbinghaus e Visser 1999]. I processi di

mutamento strutturale intra-settoriale permettono così di rendere conto anche del declino della

densità sindacale avvenuto internamente ai diversi settori produttivi storicamente più sindacalizzati.

Nuova occupazione

Nel momento in cui la produzione si riorganizza su basi differenti è più che probabile che la

maggior parte della nuova occupazione creata si inserisca in un contesto differente rispetto a quello

tipico della stagione di affermazione del fordismo e del sindacato, fondato sulla centralità sociale

della grande fabbrica. Tramite il processo di deindustrializzazione e ristrutturazione intra-settoriale

si riducono i luoghi di lavoro storicamente molto sindacalizzati, mentre aumentano le unità

produttive (di piccole dimensioni, del settore dei servizi privati, che utilizzano forme di contratto

atipiche) in cui la sindacalizzazione trova più ostacoli. Pertanto «avvicinandosi al problema

dell’organizzazione del sindacato come un investimento […] bisogna stabilire i benefici derivanti

dai membri aggiuntivi […] rispetto ai costi di reclutamento. Il costo marginale del reclutare nuovi

52

Page 53: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

membri crescerà se i lavoratori più facili da organizzare – quelli della grande impresa, con impiego

stabile e diritti di rappresentanza in impresa istituzionalizzati, o provenienti da un background

sociale favorevole al sindacalismo – sono già membri. Espandere o creare sindacalizzazione fuori

da questi domini consuetudinari è più costoso» [Checchi e Visser 2005, 3].

I risultati empirici confermano questa ipotesi, in quanto un aumento del tasso di occupazione risulta

correlato negativamente e in modo significativo con l’aumento della densità sindacale, e tale

correlazione risulta avere un effetto negativo ben più intenso nel periodo 1975-1996 rispetto ai

venticinque anni precedenti [Visser 2002; Calmfors et al. 2002; Checchi e Visser 2005]. I risultati

relativi al cambiamento nella composizione dell’occupazione sono invece più ambigui, e risentono

di alcune specificità nazionali. L’aumento della componente femminile del lavoro dipendente risulta

spesso un regressore non significativo quando si analizza un numero sufficientemente ampio di

paesi [Lee 2005], mentre presenta una correlazione positiva con l’aumento del tasso di

sindacalizzazione complessivo laddove venga testato su un sottocampione di paesi ove i tassi di

sindacalizzazione femminile siano complessivamente più elevati di quelli maschili, o non

presentino particolari differenze (come in Finlandia, Svezia, Norvegia, Regno Unito e Francia). La

crescita dei contratti di lavoro a tempo determinato e dei giovani (sotto i 35 anni) sul totale del

lavoro dipendente hanno anch’essi correlazione negativa rispetto la densità sindacale. E’

interessante notare come, se considerati congiuntamente, i due regressori perdano di significatività,

suggerendo come stiano catturando lo stesso effetto [Calmfors et al. 2002].

Passando al mutamento della struttura del sistema produttivo, è ipotizzabile che una diminuzione

dell’occupazione nei settori industriali accompagnata da una crescita nel settore dei servizi (causata

dall’alta produttività industriale che tende a espellere lavoratori verso un settore a bassa produttività

e labour-intensive come quello dei servizi, e dalla maggiore concorrenza internazionale sui costi del

lavoro manifatturiero) risulti in una diminuzione della membership sindacale relativa [Lee 2005].

La sindacalizzazione nel terziario risulterebbe comparativamente più difficoltosa a causa della

frammentazione e dispersione dei luoghi di lavoro, la prevalenza di piccole attività e il

relativamente alto turn-over degli occupati. Cheol-Sung Lee [2005] trova quindi come la

deindustrializzazione sia una delle cause determinanti del recente declino della sindacalizzazione:

l’occupazione industriale risulta in modo robusto correlata positivamente con una maggiore densità

sindacale. Allo stesso modo l’aumento della quota dei lavoratori dei servizi privati sul totale degli

occupati risulta correlata negativamente, per quanto con una significatività abbastanza debole, alla

crescita della membership relativa [Calmfors et al. 2002].

In uno studio di caso sul Regno unito, Stephen Machin [2000] trova riscontro empirico rispetto alla

difficoltà nel sindacalizzare i settori e le unità produttive nate tra gli anni ’80 e la fine degli anni

53

Page 54: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

‘90. L’insieme di unità produttive nate prima del 1980 presenterebbero una proporzione

sistematicamente più elevata di imprese che riconoscono un sindacato locale per la contrattazione

collettiva rispetto a tutte quelle nate nel ventennio successivo. La percentuale di imprese

sindacalizzate si sarebbe ridotto, nel periodo considerato, a un terzo nel settore manifatturiero, si

sarebbe dimezzato in quello dei servizi privati, mentre non ci sarebbero state diminuzioni

apprezzabili nel settore pubblico. Questi risultati non sembrano dipender però da una mutata

composizione produttiva dei settori, per esempio a causa dello spostamento verso unità più piccole

e meno sindacalizzate, in quanto i risultati restano comunque negativi controllando sia per la

dimensione dell’impresa e per il settore di appartenenza (industria-servizi, pubblico-privato), che

per la diffusione di lavoratori part-time. I risultati rimangono parimenti robusti qualora come

variabile dipendente venga considerato il tasso di sindacalizzazione piuttosto che la proporzione di

unità produttive sindacalizzate. Questi riscontri, data la specificità del caso inglese, possono essere

ben spiegati da fattori di carattere istituzionale relativi al contesto legislativo meno favorevole al

riconoscimento dei sindacati a partire dagli anni ’80 (cfr. par. 2.2.3). Ma, «almeno in parte, questo

riflette l’incapacità propria dei sindacati nell’organizzare i lavoratori nelle nuove tipologie

d’imprese fondate in anni recenti, il che sembra collegato all’accresciuta pressione competitiva che

investe le aziende in diversi settori» [Machin 2000, 642], confermando in una certa misura

l’importanza dei cambiamenti strutturali del tessuto produttivo avvenuti negli ultimi anni.

Impiego pubblico

L’impiego nel settore pubblico costituisce un caso particolare nella struttura dell’occupazione,

soprattutto in relazione alla densità sindacale. La sindacalizzazione dei dipendenti pubblici, o degli

occupati in strutture para-statali, risulta complessivamente più elevata rispetto alla controparte

privata nella totalità dei paesi occidentali, anche rispetto a un settore storicamente propenso alla

sindacalizzazione come il manifatturiero, costituendo una delle poche regolarità riscontrabili anche

tra le configurazioni istituzionali più varie. Sottostanti a tale regolarità esistono però diverse

tipologie di dislivello tra i tassi di sindacalizzazione nei due settori: a cavallo del 2000 si va da una

differenza relativamente contenuta in Svezia (93% nel pubblico e 77% nel privato), Finlandia (86%

e 55%) e Olanda (39% e 22%) a differenze sostanziali in Canada (72% e 18%), Stati Uniti (36% e

8%), Germania (56% e 22%) e Francia (15% e 5%) [Visser 2006].

Hugh Clegg [1986], nel suo modello esplicativo del comportamento sindacale, individua quattro

motivazioni principali per cui il settore pubblico risulterebbe sistematicamente più sindacalizzato

del settore privato. Innanzitutto il settore pubblico è costituito da un numero ridotto di unità

produttive: questo significa che una volta riconosciuta la legittimità della rappresentanza sindacale

54

Page 55: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

tale decisione abbia un valore immediato e pressoché universale per tutto il ramo d’attività in

questione. In secondo luogo, solitamente le imprese del settore pubblico sono sottoposte a un più o

meno stretto controllo governativo. Questo farebbe sì che «una volta assunta in sede politica la

decisione di riconoscere i sindacati, le singole autorità responsabili non vi si possono facilmente

opporre – senza considerare i casi in cui il riconoscimento sindacale è imposto per legge» [Clegg

1986, 53]. Da queste prime due caratteristiche consegue la possibilità, nel settore statale, di ottenere

una sindacalizzazione rapida anche qualora il riconoscimento venisse concesso con un

considerevole ritardo rispetto al settore privato [Bordogna 1987]. La terza motivazione addotta da

Clegg riguarda la maggiore burocratizzazione del rapporto di lavoro pubblico, fondato su norme

prefissate non modificabili caso per caso come nel settore privato, e sottoposte a un continuo

controllo governativo. In tal senso è molto difficile che un’azione individuale possa sperare di

piegare a proprio favore le condizioni d’impiego, rendendo l’azione collettiva organizzata l’unico

mezzo per ottenere un cambiamento collettivo. Infine, «diversamente dai dirigenti di alto grado

nella maggior parte delle aziende private, nei pubblici servizi […] i funzionari di grado elevato

presentano in genere un notevole livello di sindacalizzazione» [Clegg 1986, 53]. Dipendendo,

contrariamente ai dirigenti d’azienda operanti nel privato, da un potere politico esterno (come

sottolineato dalla tipologia weberiana della burocrazia come organismo per sua natura acefalo

[Bonazzi 2006]), e dovendo difendere il proprio operato di fronte a commissari governativi o

assemblee legislative, i dirigenti del settore pubblico avrebbero quindi maggiore necessità di difesa,

il che li spingerebbe ad aderire o costituire associazioni sindacali, facilitati oltretutto dalle piccole

dimensioni del gruppo da organizzare [Olson 1971]. Pertanto, «la quarta caratteristica significa che

i dirigenti, essendo essi stessi sindacalizzati, avranno meno motivi che nel settore privato di

assumere un atteggiamento di rifiuto verso i sindacati che rappresentano i loro dipendenti. Così il

sindacato diventa non solo soggetto negoziale, ma parte di un meccanismo per la gestione dei

servizi e delle organizzazioni pubbliche» [Bordogna 1987, 156].

L’aumento dell’occupazione nel settore pubblico rispetto al totale risulta solitamente correlata

positivamente alla crescita della densità sindacale, per quanto non sempre superando il test di

significatività. Sul lungo periodo, invece, maggiori livelli di occupazione pubblica sono

significativamente correlati, a parità di alti fattori, ad alti livelli di densità sindacale. Inoltre,

probabilmente riflettendo la crescente instabilità dei contratti di lavoro, l’intensità dell’effetto risulta

molto maggiore e più significativa nel periodo 1975-1996 rispetto al periodo 1950-1975, grazie alla

persistenza di caratteristiche favorevoli alla sindacalizzazione nel settore pubblico parallelamente

alla loro riduzione in quello privato [Visser 2002; Checchi e Visser 2005; Lee 2005]. A un livello di

minore aggregazione, invece, la correlazione è più intensa e significativa tra i paesi con una forte

55

Page 56: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

istituzionalizzazione del lavoro organizzato (maggiore corporativismo, accesso ai luoghi di lavoro,

centralizzazione della contrattazione e coinvolgimento dei sindacati nella gestione dello stato

sociale), come Svezia e Belgio, mentre ha un impatto lievemente negativo o positivo, ma non

significativo, in paesi caratterizzati da più bassa istituzionalizzazione (come, rispettivamente, negli

Stati Uniti e, in misura inferiore, in Germania) [Lange e Scruggs 1999]. E’ quindi possibile

concludere come, in un periodo di arresto o contrazione della crescita dell’apparato pubblico, la

densità sindacale complessiva potrebbe risentirne negativamente, derivando tale effetto più dalla

contrazione dei dipendenti di tale settore che da condizioni maggiormente sfavorevoli alla

sindacalizzazione dei suoi dipendenti.

Globalizzazione

Col concetto di globalizzazione si intende «primariamente la produzione di globalità, un processo

comprendente Stati, organizzazioni internazionali, gruppi economici multinazionali, associazioni e

gruppi di pressione, che agiscono in modo sistematico allo scopo di espandere alla totalità del globo

l’economia di mercato, unitamente ai suoi modelli di organizzazione internazionale della

produzione, di governo delle imprese, di tecnologia, di scambi commerciali e mercato del lavoro;

nonché sistemi politici, tratti culturali e mezzi di comunicazione che siano con quelli coerenti»

[Gallino 2006, 323]. A livello teorico esistono diversi buoni motivi per cui il processo di

globalizzazione dell’economia dovrebbe mettere in difficoltà le organizzazioni sindacali nei paesi a

capitalismo avanzato. Secondo Guido Baglioni effettivamente la liberalizzazione e la mobilità dei

mercati produttivi e finanziari, dei servizi e del lavoro «sottopongono a dura prova gli assetti e

l’impostazione consueta dell’azione sindacale e della protezione legislativa. Si pensi solamente

all’abbondanza di forza lavoro disponibile, alla loro mobilità geografica, alla concorrenza fra

lavoratori con la crescita della loro offerta» [Baglioni 2008, 14]. Per Alain Supiot, inoltre, «con

l’apertura delle frontiere alle merci ed ai capitali, si fa strada la tendenza a considerare gli

ordinamenti giuridici nazionali non come le fondamenta istituzionali dell’economia di mercato,

bensì come strumenti di quest’ultima […]. Questa trasposizione agli Stati dei metodi di gestione

delle imprese conduce a considerare il diritto nazionale come uno degli elementi della competizione

di ciascun paese in concorrenza con tutti gli altri» [Supiot 2005, 171]. In questo modo una minore

protezione giuridica del lavoro e dei suoi soggetti organizzati diventerebbe sempre più uno

strumento di politica economica teso a rendere maggiormente competitive le economie nazionali in

concorrenza le une con le altre. Vicine a questo quadro interpretativo troviamo le teorie della

convergenza, fondate sull’idea che «la modernizzazione delle economie e delle società avanzate

segua percorsi obbligati, fondamentalmente dettati da fattori esogeni, ai quali le istituzioni pre-

56

Page 57: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

esistenti e gli attori penalizzati possono frapporre maggiore o minore resistenza, senza riuscire però

a fare altro che a ritardare il corso della storia» [Regini 1999, 4]. Pertanto «le nuove condizioni di

competizione prevalenti a livello internazionale verrebbero a determinare una progressiva erosione

delle istituzioni regolative delle economie coordinate. Il risultato finale sarebbe una convergenza

nel tempo verso il modello istituzionale del capitalismo anglosassone» [Trigilia 2002, 236]. In

particolare, a causa della crescente concorrenza internazionale, si ridurrebbe l’autonomia dei singoli

stati nel determinare la politica economica a livello macro e micro (soprattutto i sistemi di relazioni

industriali e di regolazione del mercato del lavoro), il tutto a vantaggio di quelle economie già

fondate principalmente sulla regolazione di mercato. Inoltre il crescente numero di accordi

internazionali favorirebbe l’introduzione di forme di regolazione sempre più simili, volte a ridurre

le barriere protettive e introdurre standard comuni [Trigilia 2002].

Tale tesi non risulta però del tutto confermata. Innanzitutto, un aumento delle ragioni di scambio tra

paesi non configura necessariamente una maggiore concorrenza, soprattutto nel caso in cui tale

apertura favorisca imprese transnazionali con forte potere di mercato. Inoltre, la crescita degli

investimenti diretti all’estero può effettivamente essere dettata da una logica di contenimento dei

costi (delocalizzando rapidamente la produzione laddove il costo del lavoro sia più basso, creando

così una pressione concorrenziale sui sindacati), ma spesso è altresì mossa dal raggiungimento di

paesi con mercati dei prodotti più vasti, redditizi o specializzati. In particolare gli investitori esteri

nel settore dei servizi, potendo questi essere forniti solo localmente, non potrebbero ricorrere alla

minaccia della delocalizzazione per contenere le rivendicazioni salariali dei sindacati [Calmfors et

al. 2002]. Pertanto, risulta plausibile anche l’ipotesi che «l’integrazione economica in Europa finora

non abbia necessariamente compromesso le prospettive del sindacato di conquistare una quota delle

rendite generate da mercati dei prodotti caratterizzati (in modo persistente) da condizioni di

concorrenza imperfetta» [Calmfors et al. 2002, 78], il che si tradurrebbe in un ulteriore persistenza

delle differenti istituzioni delle relazioni industriali, piuttosto che in una loro convergenza, in

particolar modo rispetto ai diversi patterns di sindacalizzazione.

Il grado di globalizzazione di un’economia può essere approssimato tenendo conto di tre dimensioni

critiche: l’apertura commerciale, quella finanziaria e gli investimenti diretti all’estero [Lange e

Scruggs 1999]. Secondo Peter Lange e Lyle Scruggs non vi sarebbero evidenze decisive tali da

mettere in relazione il declino della sindacalizzazione con l’accrescersi dell’estensione delle tre

variabili legate alla globalizzazione. Innanzitutto a causa di una crescente divergenza tra i tassi di

sindacalizzazione parallelamente all’ondata liberalizzatrice degli anni ’80 (cfr. par. 2.1). Inoltre,

nonostante la fine degli anni ‘70/inizio anni ’80 possa essere considerato il periodo critico nella

liberalizzazione globale, è da rilevare come in diversi paesi il declino sia cominciato già diverso

57

Page 58: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

tempo prima (come in Olanda, Giappone o Stati Uniti), mentre in altri, negli anni ’80, nonostante la

crescente internazionalizzazione dei mercati dei capitali, la densità sindacale si è mantenuta stabile

(come in Norvegia). In altri paesi, poi, il periodo di liberalizzazione dei mercati coincide coi periodi

a più elevata crescita sindacale (Danimarca e Finlandia negli anni ’70). Questo porta i due autori a

concludere come la globalizzazione eserciti effetti differenti a seconda delle caratteristiche

istituzionali dei vari paesi, il che «significa che i paesi a bassa sindacalizzazione/debole movimento

dei lavoratori all’inizio dell’era della globalizzazione si sono ulteriormente indeboliti, mentre i paesi

ad elevata sindacalizzazione/forte movimento dei lavoratori all’inizio del periodo di rapida

globalizzazione si sono ulteriormente rafforzati» [Lange e Scruggs 1999, 45].

Effettivamente due delle tre variabili associate alla globalizzazione, singolarmente prese, non

risultano avere effetti negativi significativi sulla densità sindacale (l’unico regressore significativo

risulta essere l’apertura finanziaria) [Lange e Scruggs 1999]. Lo stesso risultato è ottenuto da

Checchi e Visser [2005], che non rilevano effetti significativi sulla sindacalizzazione derivati da

variabili relative all’apertura commerciale e finanziaria. Anche Cheol-Sung Lee [2005] non trova

relazioni significative tra investimenti diretti all’estero, apertura finanziaria e apertura dei mercati

verso i paesi in via di sviluppo rispetto a una diminuzione della densità sindacale. Ciò che risalta,

però, risulta essere il diverso impatto che trends comuni risultano avere su paesi con diverse

configurazioni istituzionali. Le misure associate alla crescita della globalizzazione (segnatamente

l’apertura finanziaria) risultano avere un impatto positivo e significativo sulla crescita della densità

sindacale in quei paesi caratterizzati da un’alta istituzionalizzazione del lavoro e delle relazioni

industriali, mentre risultano avere l’effetto esattamente opposto tra quei paesi caratterizzati da

relazioni coi sindacati più debolmente istituzionalizzate. Pertanto i risultati empirici sembrano

suggerire una secca smentita dell’ipotesi della convergenza, implicando come la globalizzazione

sembri provocare l’effetto esattamente opposto, cioè una crescente divergenza tra paesi. In

particolare i risultati suggeriscono come le istituzioni tese a regolare il mercato del lavoro

potrebbero facilitare l’organizzazione sindacale in condizioni di crescente concorrenza in

determinati paesi, specialmente laddove i sindacati riescano a inserirsi fruttuosamente nel governare

le nuove opportunità di crescita offerte da una maggiore interconnessione globale dell’economia

[Lange e Scruggs 1999].

Immigrazione

Una variabile solitamente non considerata riguarda l’impatto che la crescente immigrazione

internazionale ha sulla capacità rappresentativa di un sindacato. La migrazione internazionale della

forza lavoro avrebbe «accresciuto l’eterogeneità e la competizione della forza lavoro internamente

58

Page 59: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

ai paesi, così rendendo più difficile per i sindacati il reclutare membri e promuovere solidarietà tra

lavoratori internamente divisi» [Lee 2005, 73]. La crescente immigrazione, derivante dalla scarsità

di manodopera in molti paesi abbondanti di capitali, spiazzerebbe il sindacato a causa del conflitto

derivante tra una manodopera immigrata, con meno garanzie e disposta a lavorare per minori salari

e con minori protezioni, e i lavoratori nativi più protetti e meglio pagati, e a causa della crescente

differenziazione culturale e sociale dei lavoratori che porterebbe a una minore coesione e unità di

azione della forza lavoro. Anche Mancur Olson già notava come «la dimensione dell’ingresso di

forza lavoro [immigrata] colpisce la forza dei gruppi di interessi dei lavoratori. Se una larga riserva

di manodopera straniera meno costosa può facilmente essere sfruttata, e i sindacati hanno innalzato

significativamente i costi del lavoro nelle imprese domestiche, sarà profittevole aprire nuove

imprese o stabilimenti impiegando la forza lavoro esterna […]. La cooptazione da parte dei

sindacati dei lavoratori esterni verrà per lo meno ritardata dalle differenze culturali e linguistiche o

dallo stato temporaneo di guest workers» [Olson 1982, 143]. Contrariamente alle misure classiche

associate alla globalizzazione, l’aumento dell’immigrazione risulta avere un’influenza negativa,

significativa e abbastanza intensa sulla crescita della densità sindacale. Questo pone dei problemi

sostanziali, vista l’apparente impossibilità (e indesiderabilità) di bloccare flussi di immigrazione

ormai globali. Questo ha portato diverse associazioni sindacali occidentali (come l’AFL-CIO

statunitense) a passare da una politica tesa a contenere l’immigrazione, a una più propensa a

migliorare i diritti dei lavoratori immigrati, in modo da non doverne subire la concorrenza e in

modo da conquistare nuovi bacini utili a contrastare una membership decrescente [Lee 2005]. Il

caso italiano costituisce un esempio di particolare rilievo: nel 2003 tra gli immigrati regolari

occupati in posizioni dipendenti, il tasso di sindacalizzazione calcolato sulle principali

confederazioni (CGIL-CISL-UIL) risulta prossimo al 45%, livello elevato e «frutto di un’assidua

azione, a dire il vero più assistenziale che rivendicativa, dei sindacati, che non hanno visto negli

immigrati dei pericolosi concorrenti dei propri associati tradizionali, contrariamente a quanto è

accaduto in altri paesi» [Reyneri 2005b, 224]. Lo stesso risultato si coniuga, controllando per le

diverse caratteristiche della posizione lavorativa, a una sostanziale parità di trattamento salariale

degli immigrati regolari rispetto alla loro controparte autoctona [Reyneri 2005b], dimostrando la

necessità e l’utilità per i sindacati di una copertura omogenea anche di una forza lavoro sempre più

variegata.

59

Page 60: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

2.2.3 Variabili istituzionali

I limiti nel fornire una spiegazione univoca posti dalle sole variabili cicliche e strutturali sono ormai

evidenti, «specie in una realtà, come quella delle relazioni industriali, così densa di istituzioni che

guidano i comportamenti individuali e ne condizionano gli esiti aggregati, e dove più cruciale che in

altri ambiti è il ruolo di attori collettivi organizzati capaci di agire strategico» [Bordogna 2007,

233]. Spiegazioni di tipo istituzionale, infatti, risultano in generale le più robuste e significative. I

modelli che tengano conto delle sole variabili configurazionali nell’esplorare i movimenti della

sindacalizzazione risultano avere una varianza spiegata molto elevata, in misura maggiore nel

rendere conto della densità effettiva, poco meno nello spiegarne l’aumento e la diminuzione

[Ebbinghaus e Visser 1999]. L’ipotesi alla base di questo approccio consiste nello stabilire i fattori

istituzionali come primi fattori causali rispetto le capacità di sindacalizzazione del mondo del

lavoro, e inoltre che i cambiamenti ciclici e strutturali dell’economia e della società agiscano

esclusivamente mediati dalle diverse istituzioni del mercato del lavoro e delle relazioni industriali

tipiche di ogni paese [Lange e Scruggs 1999]. Questo deriverebbe, tra l’altro, dal fatto che stimoli

esogeni comuni, più che strutturare in modo omogeneo i diversi sistemi economici, li spingerebbero

piuttosto a riorganizzarsi, ognuno secondo i propri caratteri, in modo da massimizzare la coerenza

interna di sistema, più che adattarsi a un ipotetico modello di convergenza: «le economie capitaliste

di mercato, cioè, possono ottenere risultati diversi e anche ottenere tutte un buon risultato, a

condizione che le loro istituzioni si adattino l’una all’altra» [Streeck 2006, 36].

Sistema Ghent

Come già anticipato (cfr. par. 2.2.1), una delle istituzioni che risulta avere una rilevanza

fondamentale nel render conto delle differenze nei livelli di sindacalizzazione risulta essere la

presenza o meno di un sistema di assicurazione volontario contro la disoccupazione (di norma ben

più generoso del sussidio di disoccupazione statale), i cui fondi siano gestiti dalle associazioni

sindacali (c.d. sistema Ghent, nome derivato dalla città belga in cui fu per la prima volta introdotto

nel 1901 [Clasen e Viebrock 2008]). Tale sistema risulta ad oggi pienamente presente in soli tre

paesi (Finlandia, Danimarca e Svezia), mentre in Belgio ne vige una versione “morbida”, in cui

l’assicurazione contro la disoccupazione è controllata dallo stato, ma i sindacati svolgono

comunque un ruolo rilevante nella sua amministrazione [Ebbinghaus e Visser 1999]. Tale sistema è

stato invece abbandonato dalla Norvegia e dall’Olanda già, rispettivamente, negli anni ’30 e ’50

[Calmfors et al. 2002]. Per quanto l’assicurazione volontaria contro la disoccupazione sia gestita da

agenzie ricollegabili alle principali confederazioni sindacali, non è in alcuna misura obbligatoria

60

Page 61: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

l’appartenenza al relativo sindacato per iscriversi al fondo. Inoltre le discriminazioni, in termini di

contributi più cari per i non membri, sono da lungo tempo state eliminate. Pertanto l’offerta di una

generosa assicurazione contro la disoccupazione non costituirebbe un incentivo selettivo

all’adesione al sindacato [Clasen e Viebrock 2008]. Ciò nonostante si rileva come l’iscrizione al

fondo e al sindacato ad esso preposto vengano solitamente considerate collegate, configurando de

facto tale sistema come un incentivo molto forte nell’attirare un maggior numero di iscritti alle

diverse associazioni sindacali di categoria [Calmfors et al. 2002]. Innanzitutto l’assicurazione

contro la disoccupazione viene solitamente fornita nel pacchetto di servizi sindacali al momento

dell’adesione, presentando le due cose come intimamente legate. Inoltre, ad esempio in Danimarca,

non è raro che funzionari sindacali lavorino part-time anche negli uffici di gestione del fondo,

solitamente collocati negli stessi edifici, rendendo la percezione delle due cose come associate

ancora più forte. Sempre in Danimarca, poi, i fondi assicurativi sono da sempre stati coinvolti in

funzioni di collocamento (anche se formalmente solo dagli anni ’80), con risultati superiori agli

uffici pubblici grazie ai loro forti e continuativi contatti con le associazioni sindacali e datoriali.

Pertanto dal lavoratore disoccupato può essere percepito come sia più facile trovare un nuovo

lavoro se, accanto al fondo, si sia iscritti anche al rispettivo sindacato. In Svezia, infine, appartenere

a un sindacato spesso permette di integrare il sussidio di disoccupazione con forme assicurative

individuali interamente offerte dall’organizzazione sindacale ai soli membri, rendendo possibile il

godere di un maggiore tasso di rimpiazzo [Clasen e Viebrock 2008].

Passando ai risultati di ricerca, una variabile dummy per i paesi Ghent risulta sempre significativa

nello spiegare la densità sindacale o l’aumento della stessa, con un’intensità solitamente molto

elevata [Egbbinghaus e Visser 1999; Lee 2005]. Ma laddove tale sistema di assicurazione contro la

disoccupazione esplica i risultati qualitativamente più rilevanti è, come già riferito (cfr. par. 2.2.1),

interagendo con la disoccupazione. L’aumento del tasso di disoccupazione risulta sempre correlato

positivamente e in modo significativo con l’aumento della densità sindacale nei paesi Ghent (nel

breve e nel lungo periodo) [Calmfors et al. 2002; Visser 2002; Checchi e Visser 2005; Lee 2005].

E’ quindi possibile che l’alta densità sindacale dei paesi socialdemocratici sia spiegata in misura

elevata dalle forme assunte nella gestione delle politiche per la disoccupazione. Vista la resistenza

di tale sistema, inoltre, è possibile non avvengano sostanziali cadute nella sindacalizzazione di tali

paesi nell’immediato futuro. Resta però il pericolo che successive politiche atte a ridurre la spesa

pubblica vadano a colpire il sistema di assicurazione volontaria contro la disoccupazione. Una delle

spiegazioni dell’improvvisa caduta nel tasso di sindacalizzazione in Svezia in anni recenti (-6,5

punti tra il 2004 e il 2007, di cui 4,3 punti solo tra il 2006 e il 2007, cfr. par.2.1) può essere trovata

nella nuova politica del recentemente insediatosi governo conservatore (in carica dal settembre

61

Page 62: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

2006, dopo un dominio pressoché totale del partito socialdemocratico per quasi tutto il ‘900), volta

a ridurre considerevolmente la quota dei fondi assicurativi finanziata dalla fiscalità generale e

aumentare quella costituita dai contributi (se nel 2004 i contributi dei membri coprivano circa il

9,4% delle spese, nel 2007 tale percentuale è salita a circa il 46% dei costi assicurativi), rendendo

l’intero sistema meno attrattivo per i lavoratori [Clasen e Viebrock 2008]. Tale dipendenza dei

sindacati nordici dai sistemi assicurativi contro la disoccupazione, per quanto utile a sostenere un

elevato livello di sindacalizzazione, può nel futuro divenire un cavallo di Troia, in caso politiche di

sostanziale riduzione della spesa pubblica si facciano sempre più frequenti anche nei paesi

socialdemocratici.

Corporativismo, centralizzazione e copertura

E’ possibile che i paesi con sistemi di relazioni industriali corporativi, basati cioè su «un modello di

regolazione politica dell’economia nel quale grandi organizzazioni di rappresentanza degli interessi

partecipano insieme alle autorità pubbliche, in forma concertata, al processo di decisione e

attuazione di importanti politiche economiche e sociali» [Trigilia 2002, 118], particolarmente in

auge in Europa tra gli anni ’60 e ’70, grazie al ruolo preminente concesso alle associazioni sindacali

presentino tassi di sindacalizzazione più elevati della media. Ebbinghaus e Visser [1999] trovano in

effetti come il livello di corporativismo sia positivamente correlato a una maggiore densità

sindacale in una semplice analisi bivariata, ma fatichi a mantenere una buona significatività quando

vengano inserite altre variabili istituzionali tra gli explanans. A causa quindi dell’ambigua e

incompiuta definizione teorica di “corporativismo” [Streeck 2006], nello studiarne gli effetti sulla

sindacalizzazione può risultare più utile testarne singolarmente alcuni aspetti qualificanti.

In particolare la centralizzazione della contrattazione collettiva (tratto fondamentale dei sistemi

neocorporativi), è solitamente considerata una buona variabile nello spiegare un elevata densità

sindacale. Questo accadrebbe in quanto la contrattazione esercitata a livelli superiori tende «a

indebolire la resistenza delle imprese al processo di sindacalizzazione, in parte perché il vantaggio

della sindacalizzazione, o il ricarico sui salari, saranno meno elevati che nel caso della

contrattazione a livello di singola impresa» [Calmfors et al. 2002, 48]. Inoltre, quando la

contrattazione è centralizzata i sindacati riescono a meglio affermarsi come rappresentanti dei

lavoratori in nuove imprese che aderiscano alle associazioni imprenditoriali firmatarie degli accordi.

Nella metà degli anni ’70 la correlazione semplice tra livello di centralizzazione e densità sindacale

era quasi perfetta (r = 0.835). A metà degli anni ’90, invece, la relazione sembra essersi deteriorata,

fornendo una spiegazione ora insoddisfacente (r = 0.379) [Calmfors et al. 2002]. Testando invece la

variabile in un’analisi multivariata che tenga conto di variabili istituzionali, cicliche e strutturali,

62

Page 63: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

l’intensità dell’effetto positivo della centralizzazione sulla densità sindacale risulta significativa ma

maggiore nel periodo 1950-1975 rispetto al 1975-1996 [Checchi e Visser]. Tale correlazione

positiva si mantiene comunque significativa, anche tenendo conto dell’intero periodo del secondo

dopoguerra [Visser 2002], ma resta da spiegare la causa di una correlazione sempre meno stretta. In

effetti, come sosteneva già Hugh Clegg [1986], il livello di estensione della contrattazione (cioè la

quantità di lavoratori interessati da un contratto collettivo, solitamente correlata strettamente al

livello a cui la contrattazione si svolge), se preso singolarmente, risulta un indice insufficiente nello

spiegare i diversi livelli di densità sindacale. Fornisce invece una spiegazione pertinente qualora

venga combinato con la profondità della contrattazione collettiva (intendendo il «grado di

coinvolgimento di responsabili sindacali di zona e dei delegati di fabbrica nella gestione degli

accordi» [Clegg 1986, 34]) e le prerogative sindacali concesse sul luogo di lavoro. Pertanto è

possibile che paesi nel tempo passati da un livello della contrattazione particolarmente centralizzato

a uno intermedio non abbiano subito grosse perdite di densità sindacale in quanto siano state

mantenute forti prerogative sindacali a livello d’impresa e una certa profondità di contrattazione

(come in Svezia). Al contrario, paesi con livelli intermedi o alti di centralizzazione possono aver

subito perdite a causa di una decentralizzazione in lieve crescita, ma accompagnata a minori

prerogative sindacali sul posto di lavoro (come la Germania o l’Olanda). Infine i paesi con

un’elevata decentralizzazione contrattuale (svolta principalmente a livello d’impresa), anche in

presenza di forti prerogative sul posto di lavoro (come gli Stati Uniti), o addirittura in assenza di

queste (come il Regno Unito degli anni ’80 e ’90) possono presentare tassi relativamente bassi di

sindacalizzazione, destinati a decrescere ulteriormente [Ebbinghaus e Visser 1999].

Riguardo agli sviluppi futuri, bisogna rilevare come un’interazione non ottimale delle dimensioni

della contrattazione collettiva individuate da Clegg (estensione, centralizzazione, profondità e

prerogative sindacali) possano portare a gravi perdite nella membership relativa dei sindacati.

Innanzitutto l’elevata centralizzazione contrattuale, laddove non supportata da una forte presenza

del sindacato in azienda, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Più centralizzazione ed estensione

della contrattazione sono elevate, più lavoratori risultano coperti da condizioni di lavoro contrattate

collettivamente, che appartengano a un sindacato o meno. In Europa l’estensione della copertura è

di norma molto elevata, andando dal 40% in Irlanda e Regno Unito, al 90% in Belgio, Austria,

Finlandia, Svezia, Francia e Italia, passando per valori intermedi tra il 70% e l’80% in Danimarca,

Spagna, Norvegia e Germania [Eiro 2005]. Questo si traduce in modo crescente, vista la robusta

diminuzione della densità sindacale, in un “eccesso di copertura” (inteso come la differenza tra

copertura contrattuale e tasso di sindacalizzazione) spesso molto elevato (a metà anni ’90 superiore

all’80% in Francia, più del 50% in Gemania, Italia e Olanda, intorno al 20% in Finlandia e

63

Page 64: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

Norvegia, solo il 5-10% in Canada, Regno Unito e Stati Uniti), rendendo sempre più frequenti

fenomeni di free-riding. I paesi che nel 1980 avevano già un eccesso di copertura considerevole

(almeno sopra il 30%), solitamente lo hanno visto crescere fino alla metà degli anni ’90, mentre

laddove già non superava il 10-20% si è tenuto costante o è addirittura decresciuto [Boeri e Checchi

2001]. Ed è effettivamente rilevante che l’eccesso di copertura sia più forte laddove a un’elevata

estensione della contrattazione non corrisponda una forte presenza del sindacato a livello d’impresa,

mettendo in luce l’importanza dell’interazione tra i due termini. Infine, nonostante la relativa

stabilità nella contrattazione in Europa dagli anni ’90, si intravvedono segnali tesi a un maggiore

decentramento, volto a proseguire quello degli anni ’80, il che non può non porre dei problemi

relativamente alla tenuta della membership sindacale attiva, vista la comunque significativa

correlazione tra i due fattori [Regini 1999; Eiro 2005].

Rappresentanza sui luoghi di lavoro

La possibilità di avere una rappresentanza propriamente sindacale direttamente sul luogo di lavoro è

uno dei fattori decisivi per quanto riguarda la possibilità di attrarre nuovi membri, grazie al contatto

continuativo e diretto coi lavoratori. Solitamente tale rappresentanza si configura in due sistemi:

quelli fondati sul “canale singolo”, ovvero dove i rapporti e la negoziazione con l’impresa avviene

esclusivamente per mezzo di delegati sindacali, eletti dai soli iscritti al sindacato (come solitamente

nel Regno Unito, ove la contrattazione è svolta dagli shop stewards) o da parte di tutti i lavoratori

(come negli Stati Uniti), e collegati con le sezioni locali del sindacato; e quelli basati sul canale

“duale” o “plurimo”, cioè dove esistano dei comitati d’impresa (work councils) non aventi natura

sindacale, eletti da tutti i lavoratori (di norma investiti di sole funzioni di controllo sull’applicazione

della normativa contrattuale), a cui sono affiancate le sezioni sindacali locali, solitamente dotate di

funzione contrattuale ed elette dai membri del sindacato o nominate dallo stesso. Il sistema a doppio

canale storicamente più noto è quello tedesco, formato dal betriebsrat (il consiglio d’azienda, senza

formale autorità contrattuale e pertanto impossibilitato a proclamare scioperi) e dai fiduciari

sindacali locali, ma sistemi analoghi si trovano per esempio in Francia e Svezia [Della Rocca 1998].

Il sistema “duale” può però risultare un arma a doppio taglio, in quanto il consiglio d’azienda

potrebbe porsi in concorrenza con sindacato locale nel cogliere le istanze dei lavoratori, rendendone

più difficile l’opera di reclutamento [Ebbinghaus e Visser 1999]. La presenza di rappresentanti

locali del sindacato, eletti tra i lavoratori stessi, risulta perciò di particolare utilità nel fare

proselitismo e creare un collegamento diretto tra i dipendenti e il sindacato, e in particolare la

proposta di aderire a un sindacato da parte dei delegati locali sembra essere uno dei primi motivi

all’iscrizione (cfr. par. 1.2). Una elevata istituzionalizzazione del ruolo del sindacato a livello

64

Page 65: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

d’impresa, però, è solitamente ottenibile solo in combinazione con un’adeguata legislazione

promozionale (o il relativo in termini di accordi collettivi) a tale presenza, in quanto «la

rappresentanza sul luogo di lavoro senza regole centralmente istituzionalizzate è vulnerabile agli

attacchi del datore di lavoro, mentre centralizzazione senza rappresentanza locale può portare a

disinteresse da parte dei lavoratori» [Checchi e Visser 2005, 6].

Tra le variabili istituzionali, in effetti un’elevata possibilità d’accesso da parte del sindacato sul

luogo di lavoro risulta uno dei fattori più robusti e significativi nello spiegare sia i livelli che le

variazioni nella densità sindacale [Ebbinghaus e Visser 1999]. Anche in analisi multivariate che

tengano conto di fattori ciclici e strutturali la variabile di rappresentanza risulta sistematicamente

significativa e di una certa intensità [Visser 2002]. Disaggregando per periodi invece perde di

significatività tra il 1975 e il 1996, rispetto agli anni precedenti, il che però potrebbe nascondere

semplicemente un effetto di composizione: «in un periodo di sindacalizzazione declinante e

decentralizzazione della contrattazione, la rappresentanza sul posto di lavoro potrebbe risultare più

importante, ma meno disponibile» [Checchi e Visser 2005, 12].

Dal momento i cui l’istituzionalizzazione della rappresentanza del sindacato sul luogo di lavoro nel

secondo dopoguerra risulta essere una variabile sostanzialmente stazionaria nella maggior parte dei

paesi, un ottimo caso nel testarne l’efficacia può essere il Regno Unito, nel passaggio dagli anni ’70

agli anni ’80. Dopo una fase di legislazione promozionale al riconoscimento del sindacato in

azienda messa in atto dal governo laburista a partire dalla metà degli anni ‘70, i governi

conservatori succedutisi a partire dal 1979 hanno invece implementato un complesso legislativo che

eliminava ogni obbligo da parte delle singole imprese nel riconoscere i sindacati locali, deregolando

nel contempo il mercato del lavoro, ponendo severi limiti al diritto di sciopero e rendendo le

clausole di closed shop di fatto inefficaci. In questo modo si sarebbe sostanzialmente eliminata una

concezione del rapporto di lavoro come dimensione collettiva, “confinando” i rapporti lavorativi

all’interno delle singole imprese in termini strettamente individualistici [Miller e Steele 1993].

Richard Freeman e Jeffrey Pelletier [1990] trovano come un indice che tenga conto del livello di

protezione legislativa dei sindacati in azienda (per quanto riguarda le immunità, i diritti di

contrattazione e riconoscimento, i diritti di associazione e la posizione di forza dei sindacati rispetto

le imprese) sia particolarmente significativo nello spiegare i livelli di densità sindacale, mostrando a

livelli di protezione più elevata una sindacalizzazione più alta. Tale effetto sarebbe più intenso sul

lungo periodo rispetto al breve, e la sola variabile legata ai cambiamenti legislativi risulterebbe

sufficiente nello spiegare la maggior parte del declino nella densità sindacale nel Regno Unito negli

anni ’80 [Freeman e Pelletier 1990]. Allo stesso modo, il sostanziale arresto del declino della

sindacalizzazione nel Regno Unito a partire dal 1999 può essere probabilmente spiegato con la

65

Page 66: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

nuova legislazione pro-union messa in essere dal nuovo governo laburista (a partire

dall’employment relations bill del 1999), grazie all’entrata in vigore di una nuova procedura

istituzionale e vincolante per il riconoscimento dei sindacati in azienda [Eiro 1999; 2002a].

Vista l’importanza di un sostegno legislativo o di accordi nazionali ben consolidati tra associazioni

imprenditoriali e sindacati nel mantenere una forte presenza della rappresentanza dei lavoratori a

livello aziendale (come in Svezia, ove l’altissima sindacalizzazione e presenza in azienda è ottenuta

tramite accordo collettivo [Della Rocca 1998]), per il futuro «nella maggior parte dei paesi europei i

sindacati hanno ancora da difendere una eredità di strutture collettive di rappresentanza, all’interno

dei settori industriali e in collegamento fra essi, nelle imprese e nelle qualifiche professionali. I

sindacati devono difendere particolarmente le istituzioni che operano ad un livello superiore a

quello delle singole imprese, quando esistono» [Visser 1994, 320]. In un contesto di crescente

decentralizzazione contrattuale, perciò, per continuare a esistere sarà sempre e comunque necessario

per il sindacato mantenere una forte rilevanza a livello nazionale, in modo da poter continuare a

garantire la propria presenza direttamente nelle imprese.

66

Page 67: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

2.3 Il caso italiano

Le fasi della sindacalizzazione in Italia

L’Italia rappresenta indubbiamente un caso particolare nel panorama europeo per quanto riguarda la

traiettoria percorsa dalla sindacalizzazione nel secondo dopoguerra. Spesso fatica a rientrare

all’interno di modelli comprensivi di un numero elevato di paesi, mostrando una dinamica reale ben

diversa da quella predetta dai modelli di regressione [Checchi e Visser 2005]. Qualora venga

considerata in comparazione con gli altri paesi europei con regimi di welfare conservatori (cfr. par.

2.1), assieme a cui è solitamente classificata [Esping-Andersen 2000], presenta un tasso di

sindacalizzazione netto sistematicamente più elevato della media, oltre a un andamento ciclico dello

stesso molto più accentuato rispetto a paesi affini. Come mostrato efficacemente dalla figura 2.5, si

alternano vere e proprie fasi della storia sindacale italiana a partire dal secondo dopoguerra.

Partendo da una sindacalizzazione elevata (sopra il 50%) dopo la fine della seconda guerra

mondiale, e a seguito della rottura della confederazione unitaria nel 1948, negli anni ’50 la

sindacalizzazione netta subisce un crollo vero e proprio, arrivando poco al di sotto del 30% e

rimanendo sostanzialmente stabile su questo livello per gli anni ’60. Durante e a seguito del ciclo di

lotte 1968-1972 [Pizzorno 1978], si ha invece una fortissima ripresa, che riporta la densità sindacale

poco sotto il 50% in pochissimi anni, stabilizzandosi su questi valori tra il 1975 e il 1980. Dal 1980,

parallelamente alla maggior parte dei paesi europei, comincia la fase di declino vero e proprio,

caratterizzata da una costante caduta della densità sindacale, che viene a stabilizzarsi solo dopo il

2000 su valori poco superiori al 30%. Anche per l’Italia perciò si presenta il trend generale nella

0,0

10,0

20,0

30,0

40,0

50,0

60,0

1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005

Den

sità

%

Fig. 2.5. Italia. Tasso di sindacalizzazione netto, 1950-2008Note: solo CGIL, CISL e UIL; interruzione della serie tra il 1985-1986Fonti: tab. 2.4

67

Page 68: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

Tab. 2.4. Iscritti totali (inattivi inclusi) e tasso di sindacalizzazione netto (lavoratori dipendenti)

TOTALE

Anno Iscritti Densità % Iscritti Densità % Iscritti Densità % Densità %

1950 4.640.528 - 1.189.882 - - - 50,81955 4.194.235 - 1.342.204 - - - 43,91960 2.583.170 - 1.324.398 - - - 28,51965 2.542.933 - 1.467.990 - - - 28,51970 2.942.517 17,7 1.807.586 11,8 780.000 - 38,51975 4.081.399 22,6 2.593.545 15,5 1.032.605 - 48,51980 4.599.050 22,5 3.059.845 16,8 1.346.900 - 48,71981 4.584.611 22,0 2.988.813 16,0 1.357.290 - 47,91982 4.570.252 21,2 2.976.880 15,5 1.358.004 - 46,51983 4.556.052 20,5 2.953.411 15,3 1.351.514 - 45,01984 4.546.335 19,8 3.097.231 15,7 1.344.460 - 43,41985 4.592.014 18,9 2.953.095 14,1 1.306.250 - 42,11986 4.647.038 19,2 2.975.482 13,4 1.305.682 7,1 39,71987 4.743.036 18,8 3.080.019 13,3 1.343.716 7,3 39,41988 4.867.406 18,4 3.288.279 13,6 1.397.983 7,4 39,41989 5.026.851 18,2 3.379.028 13,4 1.439.216 7,4 38,91990 5.150.376 17,7 3.508.391 13,2 1.485.758 7,3 38,21991 5.221.691 17,5 3.657.116 13,4 1.524.136 7,3 38,21992 5.231.325 17,2 3.796.986 13,7 1.571.844 7,5 38,41993 5.236.571 17,1 3.769.242 13,6 1.588.447 7,6 38,31994 5.247.231 17,0 3.752.412 13,2 1.594.105 7,8 37,91995 5.235.386 16,7 3.772.938 13,0 1.579.097 7,7 37,31996 5.211.568 16,2 3.837.104 12,8 1.593.615 7,6 36,71997 5.199.723 15,8 3.856.334 12,3 1.588.270 7,5 35,61998 5.231.360 15,8 3.909.796 11,9 1.603.940 7,4 35,11999 5.260.412 15,6 4.000.524 11,9 1.621.785 7,3 34,82000 5.310.747 15,4 4.083.996 11,7 1.628.643 7,2 34,32001 5.351.359 15,2 4.117.467 11,5 1.628.717 7,0 33,82002 5.409.588 15,2 4.153.145 11,3 1.651.749 6,9 33,42003 5.458.710 15,2 4.183.759 11,2 1.697.214 6,9 33,22004 5.522.557 15,3 4.260.937 11,4 1.740.925 6,9 33,52005 5.542.677 15,1 4.287.551 11,2 1.756.339 6,8 33,12006 5.566.609 14,9 4.346.952 11,1 1.766.541 6,7 32,82007 5.604.741 14,9 4.427.037 11,3 1.776.733 6,8 33,02008 5.634.657 14,8 4.507.349 11,5 1.811.617 6,8 33,0

Differenza (iscritti e punti percentuali)

1950-1960 -2.057.358 - 134.516 - - - -22,31960-1970 359.347 - 483.188 - - - 10,01970-1980 1.656.533 4,8 1.252.259 5,0 566.900 - 10,21980-1990 551.326 -4,8 448.546 -3,6 138.858 - -10,51990-2000 160.371 -2,4 575.605 -1,5 142.885 -0,1 -3,92000-2008 323.910 -0,6 423.353 -0,3 182.974 -0,4 -1,31960-1980 2.015.880 - 1.735.447 - 566.9001 - 20,21980-2000 711.697 -7,2 1.024.151 -5,1 281.743 -0,12 -14,4

CGIL CISL UIL

Fonti: 1950-1985 Della Rocca [1998], su dati Contabilità nazionale, ISTAT; 1986-2005 elaborazioni fornite da CISL suRTFL, ISTAT; 2006-2008 elaborazione su dati CIGL-CISL-UIL e RCFL, ISTAT; tasso di sindacalizzazione specificoper CGIL e CISL nel periodo 1970-1985 calcolato come rapporto tra membri attivi e occupati dipendenti, datifederazioni nazionali per i tesserati e Contabilità nazionale, ISTAT, per gli occupati

Note: iscritti al netto dei sindacati di seconda affiliazioni e del SILP per la CGIL; 1 1970-1980; 2 1986-2000

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Page 69: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

crescita della sindacalizzazione nel secondo dopoguerra che accomuna la media dei paesi europei,

per quanto, come riporta la tabella 2.4, con uno specifico crollo negli anni ’50 pari a 22,3 punti

percentuali, sconosciuto in quanto a intensità e rapidità agli altri paesi (cfr. tab. 2.1). Tra il 1960 e il

1980 la crescita è di ben 20,2 punti percentuali, mentre tra il 1980 e il 2000 la diminuzione risulta di

soli 14,4 punti, portando l’Italia nel 2008 ad avere una sindacalizzazione netta 4,5 punti percentuali

superiore al livello del 1960. Anche questo risulta un caso anomalo nel panorama europeo, in

quanto la densità media tra i paesi OCSE analizzati nel paragrafo 2.1, nel 2007 risulta (seppur di

poco) inferiore a quella del 1960. Inoltre, tra i paesi conservatori, l’Italia risulta essere l’unico

paese, oltre al Belgio, a presentare nel nuovo millennio un tasso di sindacalizzazione superiore a

quello del 1960.

La prima fase della storia della sindacalizzazione in Italia può essere compresa a partire dalla fine

della seconda guerra mondiale al 1967, ed è caratterizzata, dopo un breve inizio a forte

sindacalizzazione sotto l’egida della confederazione unitaria, da rilevanti difficoltà, non solo ad

espandere la propria influenza, ma nel trattenere i quasi sei milioni di iscritti dell’inizio degli anni

’50. E’ rilevante, però, come la quasi totalità della diminuzione di iscritti sia stata causata dal crollo

di aderenti alla CGIL, che tra il 1950 e il 1960 perde ben due milioni di membri, mentre la CISL

aumenta di più di centomila unità gli iscritti. La figura 2.6 mette in luce come, anche sul fronte

degli iscritti attivi (pensionati e disoccupati esclusi), nel primo periodo considerato il crollo della

densità sindacale netta sia da addebitare interamente alla CGIL, vista la relativa stabilità, tendente

alla crescita, della membership CISL. Tale crollo è da ricollegarsi sostanzialmente all’assenza di

meccanismi di protezione sindacale all’interno dell’impresa, unitamente a un’estrema

centralizzazione della contrattazione, combinazione che porta la CGIL, nella sua opera di

proselitismo, a fare un ricorso «pressoché esclusivo a incentivi di identità, fondati sul primato della

politica (del “dovere di classe”) rispetto agli “interessi di forza lavoro”» [Della Rocca 1998, 106-

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1951 1956 1961 1966 1971 1976 1981 1986 1991 1996 2001 2006

Iscr

itti a

ttiv

iFig. 2.6. Iscritti attivi, CGIL-CISL, 1951-2008Fonti: 1951-2004 Feltrin [2005]; 2005-2008 CGIL, CISL

CGIL

CISL

69

Page 70: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

108]. All’opposto, la CISL, anche grazie alla sua impostazione di base come “sindacato-

associazione”, riesce a fare più leva sugli incentivi particolaristici, specialmente nel pubblico

impiego, dove giunge a diventare presto egemone, riuscendo a contenere il calo degli iscritti

(comunque sostenuto) nei settori industriali e agricoli, aumentando invece il numero di tesserati nel

terziario privato e pubblico [Della Rocca 1998].

La seconda fase, 1968-1980, è caratterizzata da una crescita molto rapida e continua del numero di

iscritti (nei soli anni ’70 le tre principali confederazioni, dal 1972 unite in un patto federativo,

guadagnano circa tre milioni e mezzo di iscritti) e della densità sindacale (tra il 1968 e il 1980 in

crescita di circa 20 punti percentuali). Questa volta è soprattutto la CGIL ad avvantaggiarsene,

come messo in luce dal crescente distacco tra la quota di iscritti attivi tra le due confederazioni

principali (figura 2.6): la CGIL, dal mezzo milione di iscritti attivi di vantaggio rispetto alla CISL,

passa ad averne un milione. Il forte quanto improvviso aumento della sindacalizzazione è trainato

dal ciclo di lotta iniziato alla fine degli anni ’60, ciclo che ha portato il sindacato a conquistare il

diritto di essere pienamente riconosciuto in fabbrica, anche grazie alla promulgazione dello Statuto

dei lavoratori (Legge 300/1970) [Giugni 2006]. Allo stesso tempo, una volta attenuatosi il conflitto

e ripreso il controllo sulle spinte di base, la strategia sindacale si sposta sempre più verso obbiettivi

politici esterni al luogo di lavoro, uscendo «dalla fabbrica con una strategia di cambiamento sociale

e politico che, integrandosi con quello già avvenuto all’interno delle aziende, sanzioni

definitivamente il cambiamento dei rapporti di classe nella società italiana» [Pepe 1996, 227]. In tal

modo ne «nacque un’azione politica non volta alla conquista di specifici provvedimenti legislativi o

amministrativi, bensì volta piuttosto ad affermare la presenza del sindacato nel processo di

elaborazione delle riforme che in quel momento si ritenevano urgenti per la società italiana»

[Pizzorno 1978, 37], completando quella compenetrazione, ipotizzata da Clegg [1986], tra influenza

centralizzata del sindacato e sua articolazione nei posti di lavoro, necessaria nel sostenere buoni

livelli di sindacalizzazione (cfr. par. 2.2.3).

Il declino

La terza fase nell’andamento della sindacalizzazione in Italia nel secondo dopoguerra comincia nel

1980 e arriva fino a oggi. Dal 1981, dopo il precedente trend di crescita, la densità sindacale

comincerà a declinare inesorabilmente. La rapidità e l’entità del calo è del tutto analoga a quella

della maggior parte degli altri paesi europei, il che può far pensare all’impatto di comuni cause

cicliche e strutturali. Un’importante caratteristica dell’inversione di tendenza riguarda il fatto che,

mentre negli anni ’60 e ’70 la densità sindacale è cresciuta assieme al numero degli iscritti totali,

dagli anni ’80 in avanti il declino della sindacalizzazione avviene in una situazione di

70

Page 71: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

continuativa crescita della membership complessiva. Questo è dovuto alla particolarità delle

confederazioni italiane, composte da una quota di tesserati pensionati di gran lunga superiore a tutti

gli altri paesi europei [Visser 2006]. Nelle tre confederazioni principali il numero di iscritti ritirati

dal mercato del lavoro decolla a partire dal 1973, fino ad arrivare a rappresentare nel 2008 (tenendo

conto anche dei sindacati di seconda affiliazione), il 52,2% dei tesserati nella CGIL, il 48,8% nella

CISL e il 27% della UIL. In CGIL il sorpasso dei pensionati sugli iscritti attivi avviene già nel

1993, mentre in CISL un primo sorpasso si avrà solo nel 2000 [Feltrin 2005]. Come messo in luce

dalle figure 2.6 e 2.7, gli iscritti attivi delle due principali confederazioni cominciano a declinare già

dai primi anni ’80, accompagnati però da una sostenuta crescita dei membri complessivi (e quindi

degli inattivi). Inoltre, mentre a partire dagli anni ’50 la consistenza dei membri attivi di CGIL e

CISL risulta sufficientemente differenziata e rispondente in modo diverso a mutamenti sociali ed

economici comuni, a partire dalla seconda metà degli anni ’80 l’andamento della membership attiva

delle due confederazioni comincia ad assumere un andamento affine, arrivando a ridurre in modo

notevole la distanza tra le due confederazioni in termini di iscritti, risultato derivato, ancora una

volta, principalmente da un’ulteriore caduta del numero di tesserati attivi CGIL (che passa da circa

un milione di iscritti di vantaggio sulla CISL nel 1980 a soli 360 mila nel 2008). La CISL, invece,

già a partire dagli anni ’50 dimostra una certa stabilità, caratterizzata da oscillazioni meno ampie

della CGIL, per quanto da una membership complessivamente inferiore. Quest’ultima sembra

invece risentire in misura maggiore del ciclo politico ed economico, sia in positivo (con fortissimi

aumenti in periodi particolarmente favorevoli) che in negativo (con repentine cadute in circostanze

più avverse). Anche per quanto riguarda il tasso di sindacalizzazione, mentre per la CGIL risulta già

in forte e continuo declino a partire dai primi anni ’80, per la CISL, a un forte calo iniziale farà

seguito un periodo di discreta stabilità, riprendendo il trend discendente solo verso la metà del

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1980 1985 1990 1995 2000 2005

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Fig. 2.7a. Iscritti e sindacalizzazione CGIL, 1980-2008Note: iscritti in migliaia; interruzione nella serie della densità sindacale tra il 1985-1986

Totale Attivi Densità %

71

Page 72: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

decennio successivo. A partire dalla seconda metà degli anni ’90, invece, gli iscritti attivi

ricominciano a salire senza interruzioni per entrambe le confederazioni, fatto dovuto principalmente

alla ripresa della crescita del lavoro dipendente (che passa, secondo la Contabilità nazionale ISTAT,

dai 16 milioni di occupati del 1996 agli oltre 19 milioni del 2007, dopo un quindicennio di

sostanziale stagnazione). Pertanto «la dinamicità del mercato del lavoro ha rappresentato, nella

seconda metà degli anni Novanta, il fattore calmierante il calo di iscrizioni ai due principali

sindacati italiani» [Feltrin 2005, 39], fattore andato sostanzialmente a favore della CISL, che dagli

anni ’80 recupera gran parte dello svantaggio sulla principale concorrente, grazie a un’espansione

sistematica nelle aree di dominio storico della CGIL (come in Piemonte, Lombardia e Liguria, oltre,

cosa più importante, nelle zone “rosse”, Emilia Romagna, Toscana e Umbria) più che per un

rafforzamento nelle proprie aree di insediamento tradizionale (come il Veneto, la Puglia, la Calabria

e la Sicilia) [Feltrin 2005].

Passando alla composizione settoriale della sindacalizzazione, la tabella 2.5 mostra le differenze

principali tra i diversi settori economici. I settori a più alta sindacalizzazione in Italia nel 1980, anno

di culmine della densità sindacale complessiva, risultano l’agricoltura (probabilmente grazie al

sistema “quasi-Ghent” esistente di fatto nel settore [Ballarino 2005b]), il terziario pubblico e

l’industria, mentre su valori complessivamente più bassi si situa, come previsto, il terziario privato.

Nel corso degli anni ’80 e ’90 si assiste quindi a una sostanziale stabilità del settore agricolo e del

terziario pubblico, mentre una caduta sostanziale della densità sindacale si presenta nell’industria e

soprattutto nei servizi privati. Le fasi di ristrutturazione alternatesi negli anni ’80 e ’90 portano i

sindacati dell’industria a consistenti perdite di memebership attiva, perdita non compensata dai

sindacati operanti nel settore terziario in espansione, portando il tasso di sindacalizzazione totale a

perdere ben 10 punti in quindici anni [Della Rocca 1998].

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Fig. 2.7b. Iscritti e sindacalizzazione CISL, 1980-2008Note: iscritti in migliaia; interruzione nella serie della densità sindacale tra il 1985-1986

Totale Attivi Densità %

72

Page 73: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

Tab. 2.5. Tasso di sindacalizzazione nei principali settori economici e per categorie nel ventennio di "crisi"

Settori

Anno Agricoltura Industria Terziario privato Terziario pubblico Totale

1980 98,3 45,6 38,6 45,0 48,71985 96,9 44,0 22,2 50,7 42,11990 84,6 44,7 24,1 48,2 38,21997 86,7 40,4 20,3 44,8 36,7

Categorie

Anno Tessili Chimica ed energia Costruzioni Comunicazioni Agrindustria

1991 29,6 49,1 42,9 44,5 68,82001 29,1 40,8 39,8 34,3 60,1

Anno Pubblica amministrazione

Istruzione e ricerca Trasporti Commercio Credito

1991 41,1 22,9 57,0 14,2 29,32001 31,0 23,8 33,8 13,1 33,5

Note: per i settori CGIL, CISL e UIL; per le categorie solo CGIL e CISLFonte: per i settori Della Rocca [1998] e Annuario CESOS 1997-1998; per le categorie Fetrin [2005]

Per le categorie è più difficile avere dati comparabili su un lungo lasso di tempo, in quanto per

calcolare il numero di occupati dipendenti rapportabile alle unità produttive coperte dalle diverse

federazioni è necessario fare riferimento al Censimento dell’industria e dei servizi dell’ISTAT,

condotto con cadenza decennale, e che solo dal 1991 riporta il numero di addetti in posizioni

dipendenti. Pertanto un confronto comprendente l’intero ventennio di crisi è stato condotto solo per

il settore metalmeccanico (riportato in tabella 2.6), in quanto settore storico di elezione del

sindacato. Per poter ottenere una serie più completa di dati il tasso di sindacalizzazione è stato

calcolato come rapporto tra il numero di tesserati delle tre principali federazioni metalmeccaniche

(FIOM, FIM e UILM) e il numero totale di addetti alle unità produttive di riferimento,

sottostimando così il dato in media di 5 punti percentuali rispetto a un confronto più corretto coi soli

addetti in posizioni dipendenti. In tal modo è però possibile trarre qualche conclusione sul trend di

sindacalizzazione dell’intero ventennio. Negli anni ’90, per le due principali confederazioni, le

categorie che riescono a mantenere un tasso di sindacalizzazione sostanzialmente stabile sono

quelle dell’istruzione e del commercio (dove all’aumento occupazionale del periodo corrisponde un

proporzionale aumento di membri attivi), e quella dei tessili (dove, di converso, alla diminuzione

dell’occupazione corrisponde una proporzionale diminuzione di iscritti), uniche categorie la cui

membership attiva sia stata determinata in modo proporzionale dall’incremento o decremento

occupazionale. Nei trasporti, invece, accanto a un sostenuto aumento dell’occupazione corrisponde

una forte perdita in termini di iscritti, tale da far calare di ben 13,2 punti percentuali il tasso di

73

Page 74: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

Tab. 2.6. Iscritti e tasso di sindacalizzazione netto tra i metalmeccanici, 1981-2001

TOTALE

Anno Iscritti FIOM Densità % Iscritti FIM Densità % Iscritti UILM Densità % Densità %

1981 597.250 24,43 336.996 13,78 149.47016,11 44,33

1991 440.249 19,79 203.495 9,04 113.667 5,11 34,052001 367.938 16,54 191.730 8,52 98.570 4,38 29,26

Differenza (iscritti e punti percentuali)

1981-2001 -229.312 -7,89 -145.266 -5,26 -50.900 -1,73 -15,07

Note: densità sindacale calcolata sul totale addetti settore metalmeccanico; 11980

CGIL CISL UIL

Fonte: elaborazione su dati federazioni per gli iscritti, VIII Censimento dell'industria e dei servizi, ISTAT, per gli addettimetalmeccanici

sindacalizzazione in un solo decennio, mettendo in luce gli effetti di una riorganizzazione intra-

settoriale tesa verso una maggiore «frammentazione del tessuto d’impresa, che assume inoltre una

configurazione diversa: si riduce, al suo interno, la quota di occupati nel ferrotranviario, che passa

dalla gestione pubblica a quella privata, e si eleva il numero di occupati nella logistica e nelle

imprese del trasporto su gomma» [Feltrin 2005, 55]. Nel settore creditizio si assiste invece al

fenomeno opposto, cioè a un aumento del numero di iscritti attivi nonostante la lieve flessione

occupazionale (con un tasso di sindacalizzazione in crescita di 4,2 punti percentuali), dimostrando

la capacità di CGIL e CISL di intercettare la nuova domanda adattandosi alle caratteristiche della

stessa [Feltrin 2005], nel caso specifico grazie al coinvolgimento del sindacato nella gestione dei

processi di outsourcing sviluppatisi nel settore bancario a partire dagli anni ’90 [Paparella 2004].

Agrindustria, comunicazioni, chimici e costruzioni perdono più iscritti attivi di quanto

fisiologicamente concesso dal calo occupazionale, mentre la pubblica amministrazione (istruzione

esclusa) viene a trovarsi in una condizione di sindacalizzazione confederale calante, rispetto alle

due principali organizzazioni (CGIL e CISL), nonostante l’aumento dei dipendenti nel decennio,

soprattutto a causa della forte perdita di iscritti della CISL-FPS (Federazione lavoratori dei Pubblici

Servizi). Il settore metalmeccanico presenta invece pienamente i tratti della crisi degli assetti

fordisti e delle strutture sindacali su di essi fondatesi. Nei vent’anni seguenti il 1980, la densità

sindacale, calcolata sulle tre principali confederazioni, risulta in constante declino, con una perdita

di ben dieci punti percentuali negli anni ’80 e di altri cinque nel decennio successivo. Il declino è

pesante per tutte e tre le confederazioni, ma, per quanto riguarda il numero di iscritti, colpisce

maggiormente la CGIL, storicamente più presente di CISL e UIL nel settore. Secondo i dati del

Censimento dell’industria e dei servizi dell’ISTAT, complessivamente gli addetti nel settore calano

di sole 150.000 unità nel ventennio, a fronte di una perdita di quasi mezzo milione di tessere per

FIOM, FIM e UILM. Parallelamente, però, la dimensione media per unità locale (se si escludono

74

Page 75: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

dal computo le aziende artigiane), passa dai 46,9 addetti nel 1981, ai 23,6 nel 1991 e ai 22,5 addetti

nel 2001. Il calo di dieci punti percentuali nel tasso di sindacalizzazione avviene quindi

parallelamente a un dimezzamento netto delle dimensioni medie degli impianti, sottolineando come

la ristrutturazione del tessuto produttivo verso sistemi di specializzazione flessibile, fondati sulla

messa in rete di sistemi a piccola impresa, metta in crescente difficoltà le basi di reclutamento

storico del sindacato industriale anche in Italia.

Un declino resistibile

L’Italia, in quanto a traiettoria della sindacalizzazione, presenta un caso particolare nel contesto

europeo. Come già accennato è l’unico paese (sistemi Ghent a parte), che nel 2008 presenta un tasso

di sindacalizzazione maggiore rispetto agli anni ’60. Dispone, inoltre, di una delle densità sindacali

più elevate nel primo decennio del 2000 (sempre escludendo i paesi scandinavi). Infine, la fase di

declino vero è proprio può considerarsi compresa tra gli anni ’80 e la fine dei ’90 (con la caduta più

critica della sindacalizzazione netta del lavoro dipendente concentrata soprattutto nel periodo 1980-

1985), mentre dall’inizio del nuovo millennio le tre confederazioni principali sembrano godere di

una certa stabilità rappresentativa, contrariamente alla maggior parte degli altri paesi (questa volta

nordici inclusi).

Paolo Feltrin [2005] individua tre principali “motori” che dagli anni ’70 hanno contribuito a

sostenere la sindacalizzazione in Italia, sia nel senso di favorirne la crescita nei periodi di forte

espansione, che di contenerne il calo nella fase di crisi cominciata negli anni ’80. Innanzitutto, con

lo Statuto dei lavoratori del 1970, diventa garantito per legge, anche nelle aziende non coperte da

contratto collettivo, il sistema di trattenuta diretta sulla busta paga delle quote sindacali (c.d. check-

off), negli anni ’60 regolato esclusivamente su base contrattuale [Giugni 2006], rendendone meno

difficile la raccolta e incentivando il mantenimento dell’iscrizione. In secondo luogo, negli anni ’80

si sviluppa la parallela tendenza (del tutto originale in Europa) ad esercitare la trattenuta sindacale

automaticamente, tramite l’INPS, anche sui redditi da pensione, fattore che spingerà ulteriormente

le confederazioni a far leva sulle tessere delle federazioni dei pensionati per contenere l’emorragia

degli iscritti attivi. Infine, il fattore più recentemente introdotto per sostenere il tesseramento risulta

lo sviluppo e la messa a regime dei Centri autorizzati di assistenza fiscale (CAAF), gestiti in larga

misura dai sindacati e affiancati al Ministero delle finanze nella gestione delle pratiche relative alla

dichiarazione dei redditi (in particolare i modelli 730 per lavoratori dipendenti e pensionati).

Quest’ultimo servizio agisce in maniera duplice rispetto alla sindacalizzazione, in quanto fornisce

sia un incentivo selettivo per i membri (visto il minore costo per gli iscritti al sindacato), atto alla

fidelizzazione dei già sindacalizzati e alla maggiore attrattiva per i non, sia in quanto viene a

75

Page 76: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

costituire un canale fondamentale per le organizzazioni sindacali nell’entrare in contatto con

categorie di lavoratori solitamente lontane da ambienti sindacalizzati, creando un punto di contatto

utile nell’attirare membri difficilmente raggiungibili altrimenti. E’ possibile che a causa

dell’abrogazione della garanzia della trattenuta automatica in busta paga della quota sindacale

(tramite referendum nel 1995, che ne riporta l’applicabilità esclusivamente tramite contrattazione

collettiva [Giugni 2006]), e della saturazione del mercato dei moduli 730 gestiti dai CAAF

sindacali, in futuro sarà sempre meno possibile fare ricorso a tali strumenti nel sostenere la

sindacalizzazione, rendendo necessarie nuove aree di intervento [Feltrin 2005].

Il declino, in termini di iscritti attivi, non è però stato omogeneo all’interno delle principali

confederazioni. Come già mostrato in figura 2.6, la CISL è riuscita ad attraversare in modo meno

drammatico il ventennio di crisi, risultando la sindacalizzazione complessiva meno connotata in

senso ciclico rispetto alla CGIL. Anche la UIL dimostra una maggiore capacità di tenuta lungo gli

anni ’80 e ’90: mentre il tasso di sindacalizzazione della CGIL, tra il 1986 e il 2008, si riduce del

23% (passando dal 19,2% al 14,8%) e nella CISL del 14% (dal 13,4% al 11,5%), nella UIL la

diminuzione è solo del 4% (dal 7,1% al 6,8%). Le forti differenze tra il sindacato comunista rispetto

agli altri due, nella tenuta della sindacalizzazione durante il passaggio agli assetti produttivi post-

fordisti, possono forse essere ricondotte alla maggiore “razionalità organizzativa” di CISL e UIL.

Patrizio Di Nicola [1994], per tentarne una misurazione, propone la costituzione di un indice

alternativo al tasso di sindacalizzazione netto, in quanto «la rappresentatività di un sindacato, oltre a

dipendere dalla percentuale di forza-lavoro che si riesce ad organizzare, è legata anche alla coerenza

delle adesioni rispetto alla distribuzione settoriale dell’occupazione» [Di Nicola 1994, 62]. Tale

indice, denominato “indice di equilibrio della rappresentanza”1, assume un campo di variazione

compreso tra 0 e 1, indicando a valori più alti una maggiore coerenza organizzativa. Al valore

massimo è associata una distribuzione percentuale dei lavoratori dipendenti nelle diverse branche di

attività (agricoltura, industria e servizi) identica alla distribuzione delle tessere delle diverse

federazioni all’interno del tesseramento confederale del lavoro dipendente. Resta da tener presente,

comunque, come un valore maggiore sull’indice può derivare sia da un aumento del tesseramento in

un settore prima sottorappresentato (il che sottolineerebbe un maggiore sforzo organizzativo del

sindacato), sia dalla stagnazione delle iscrizioni in un settore in forte declino occupazionale e

precedentemente sovrarappresentato (il che invece metterebbe in luce una certa inerzia). Dalla

tabella 2.7 vediamo come, all’inizio del ventennio di crisi, le associazioni sindacali con una

struttura interna più coerente rispetto al tessuto produttivo risultino CISL e UIL, grazie alla già forte

                                                            1 IE = 1 – [ABS(Da – Ta) + ABS(Di – Ti) + ABS(Ds – Ts)], con Da, Di e Ds rispettivamente la proporzione di occupazione dipendente in agricoltura, industria e servizi, e con Ta, Ta e Ts la proporzione di tessere agricole, industriali e dei servizi rispetto al tesseramento totale tra i lavoratori dipendenti [Di Nicola 1994].

76

Page 77: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

Tab. 2.7. Indice di equilibrio della rappresentanza, 1981-2008

Anno

IE Densità sindacale %

IE Densità sindacale %

IE Densità sindacale %

IE Densità sindacale %

CGIL 0,71 22,0 0,60 17,7 0,52 15,4 0,67 14,8CISL 0,82 16,0 0,85 13,2 0,72 11,7 0,82 11,5UIL 0,92 7,9 0,85 7,3 - 7,2 0,79 6,8

Differenza percentuale

CGIL -16,1% -19,5% -13,5% -13,0% 30,8% -3,9%CISL 3,3% -17,5% -14,5% -11,4% 13,0% -1,7%UIL -7,6% -7,2% - -1,4% - -5,6%

Note: per le federazioni multisettoriali stime settoriali sulla base delle proporzioni dei tesserati per settore prima delle fusioni

Fonte: per il 1981 Di Nicola [1994]; altri anni elaborazioni su dati federazioni per gli iscritti e Contabilità nazionale, ISTAT,per gli occupati dipendenti

1981 1990 2000 2008

1981-1990 1990-2000 2000-2008

presenza, rispetto al totale degli iscritti dipendenti, nel settore terziario. Negli anni ’80, quindi, la

riduzione del tasso di sindacalizzazione sarà effettivamente più contenuta per la CISL e la UIL,

entrambe accomunate da un maggiore indice di equilibrio di partenza, rispetto alla CGIL. Negli

anni ’90 quest’ultima peggiora ulteriormente la propria razionalità organizzativa (a causa della

minore proporzione di tessere nel terziario e dell’ancora elevata presenza di tessere industriali sul

totale, rispetto a una struttura occupazionale dipendente sempre più terziarizzata), e tra il 1990 e il

2000 saranno ancora le confederazioni più aderenti alla struttura dell’occupazione a ridurre in modo

più contenuto il tasso di sindacalizzazione. Dopo il 2000, infine, la CGIL, grazie a un forte aumento

della proporzione di tessere nel terziario e a un’altrettanto forte riduzione nel settore industriale,

riesce a migliorare il proprio indice di equilibrio, arrivando a ottenere un calo percentuale nella

sindacalizzazione inferiore alla UIL, ma comunque di molto maggiore della CISL, che tra il 1981 e

il 2008 è riuscita a mantenere costantemente una certa coerenza nel tesseramento rispetto alla realtà

occupazionale, presentando così una minore volatilità nelle dimensioni della membership attiva. Tra

il 1986 e il 2002, inoltre, accanto all’andamento degli iscritti attivi sempre più simile per CISL e

CGIL, il tasso di dissimilarità relativo tra le due confederazioni (calcolato sulle differenze nella

composizione percentuale delle diverse federazioni sul totale) subisce una riduzione, confermando

l’esistenza di un avvicinamento della CGIL alla struttura del tesseramento della CISL, rispetto al

vecchio modello fortemente sbilanciato verso il settore industriale [Feltrin 2005]. Pertanto è

possibile concludere come quelle organizzazioni che negli anni ’80 hanno fondato la propria

struttura organizzativa in modo omogeneo rispetto alla struttura dell’occupazione (CISL e UIL),

sono riuscite a contenere in qualche misura l’erosione relativa degli iscritti, mentre quelle

organizzazioni, come la CGIL, con un tesseramento fortemente sperequato e fondato

77

Page 78: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

principalmente su una categoria occupazionale (il settore industriale e manifatturiero), sono risultate

più vulnerabili ai cambiamenti ciclici e strutturali dell’economia, mostrando le perdite più

consistenti, e riuscendo a interrompere il riflusso solo a patto di razionalizzare maggiormente la

propria struttura associativa. Pertanto il tasso di sindacalizzazione netto risulta una misura

incompleta della forza e della rappresentatività di un sindacato, in quanto, anche in presenza del

tasso più elevato tra le principali confederazioni, «la forte localizzazione degli iscritti in un unico

settore di attività o tra un delimitato gruppo sociale non è mai un indicatore di forza né tantomeno di

razionalità organizzativa. E’ spesso, al contrario, un segnale di abdicazione ai propri compiti» [Di

Nicola 1994, 73].

Il sindacalismo non confederale

Il sistema di relazioni industriali italiano del secondo dopoguerra, assieme alla relativa legislazione

promozionale e di sostegno, si è delineato fondandosi su una rappresentanza del lavoro

sostanzialmente di tipo confederale, costruita su un criterio della rappresentatività di tipo “storico”,

in quanto «basata sul dato storico dell’effettività dell’azione sindacale svolta dalle grandi

confederazioni: al momento dell’approvazione dello Statuto dei lavoratori, che in tale nozione

aveva uno dei suoi perni, vi erano pochi dubbi sul fatto che la storia e la realtà del sindacalismo

italiano fossero una storia e una realtà di confederazioni» [Giugni 2006, 64]. Pertanto, almeno fino

alla seconda metà degli anni ’80, la selezione dei sindacati atti a contrattare o destinatari dei diritti

sindacali, veniva effettuata senza eccessivi problemi secondo il criterio di “sindacato maggiormente

rappresentativo”, fondato sul concetto di rappresentatività presunta (criterio per sua natura lontano

da misurazioni oggettive di tipo quantitativo), e tale da privilegiare il ruolo delle confederazioni

esistenti, CGIL, CISL e UIL [Giugni 2006]. La realtà sindacale italiana, però, non è mai stata

composta esclusivamente dalle tre confederazioni principali, bensì a queste nel corso del tempo si

sono affiancate una serie di sigle sindacali extra-confederali, i c.d. sindacati “autonomi”,

aggettivazione atta a rimarcarne l’estraneità dalla politica sindacale confederale. Domenico Carrieri

[1998; 2000] distingue tre tipi di sindacalismo extraconfederale. Innanzitutto vi sono i sindacati

autonomi classici, solitamente tesi a comportamenti rivendicativi più tradizionali, e orientati su

posizioni moderate o di destra sul piano politico-culturale, ma esclusi dal novero dei “sindacati

maggiormente rappresentativi” (ad esempio la CISNAL, oggi UGL, fondata nel 1950, e punto di

riferimento per i movimenti monarchici, conservatori e neo-fascisti, o la CISAL, presente dal 1957

[Visser 2000]). In secondo luogo vi sono i nuovi sindacati di mestiere, od occupazionali, incardinati

in specifici gruppi o sottogruppi sociali unificati da posizioni professionali omogenee, «spesso con

una storia lunga, ma rinnovati o rifondati negli anni Ottanta, caratterizzati da una ricerca

78

Page 79: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

spregiudicata di benefici particolaristici per i loro membri» [Carrieri 2000, 768] (esempi ne sono la

CIDA, sindacato dei dirigenti, la Confedir, per le alte cariche del settore pubblico, o la FABI, per i

bancari). Infine vi è il variegato numero di esperienze definibili come “sindacalismo di base”,

materializzatosi più di recente (verso metà anni ’80), spesso su posizioni di sinistra o sinistra

estrema, «il cui radicalismo coincide con una vecchia storia, caratterizzata dalla pratica di classe e

dal valore finalistico del conflitto» [Carrieri 1998, 305] (ad esempio le varie esperienze dei

coordinamenti, dei Cobas, i Cub, le Rdb, etc…).

Complessivamente, ancora una volta, sono i fattori istituzionali ad avere maggiore rilievo nella

spiegazione dello sviluppo del sindacalismo autonomo in Italia, grazie alla loro capacità di

determinare gli esiti derivanti dalla ristrutturazione produttiva del paese [Cella 1991b]. Per quanto

molti dei sindacati extraconfederali abbiano lunga storia, solo verso la metà degli anni ’80 hanno

cominciato a venir messe in discussione le basi storiche della presunta maggiore rappresentatività

confederale, a causa dell’irruente ingresso di un gran numero di “nuovi attori” nelle relazioni

industriali italiane [Cella 1991a]. Tali nuovi soggetti vanno principalmente ricompresi nella seconda

e terza categoria del sindacalismo non confederale sopra citate, essendo solitamente fondati su

realtà occupazionali tanto omogenee quanto ristrette, e tesi a rivendicazioni occupazionali di tipo

particolaristico. Questi movimenti risultano accomunati da tre caratteristiche fondamentali: la loro

sostanziale concentrazione nei servizi pubblici e nel pubblico impiego, «il carattere anticonfederale

dei nuovi attori, nel duplice senso della opposizione alle confederazioni storiche e del rifiuto di una

logica di rappresentanza generale» [Cella 1991b, 23], e la loro disponibilità di un alto potere

vulnerante, tale da rendere la loro protesta molto efficace con costi relativamente contenuti. Il

“brodo di coltura” di tali movimenti di base o del sindacalismo occupazionale autonomo possono

essere ricondotti al processo di riorganizzazione delle relazioni sindacali nel settore pubblico a

cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Verso la metà degli anni ’70 le principali confederazioni si trovano al

culmine della propria forza, presentando la massima articolazione organizzativa possibile (nel 1977

la CGIL affilia 31 federazioni, la CISL 33 e la UIL 30, in confronto alle, rispettivamente, 16, 21 e

23 di vent’anni dopo [Visser 2000]). Nel gestire una situazione di rappresentanza tanto vasta e

variegata diviene così necessaria una strategia di razionalizzazione e coordinamento delle

rivendicazioni dei sindacati di prima affiliazione, linea poi formalizzata nella strategia dell’Eur

dell’inizio del 1978 (fondata su coordinamento confederale, unificazione dei contenuti rivendicativi

e contenimento responsabile delle rivendicazioni) [Bordogna 1991]. Tale strategia di

razionalizzazione e centralizzazione avviene a tappe forzate soprattutto nel settore pubblico,

registrandosi «tra la fine degli anni ’70 e primi ’80 il passaggio da una situazione di organismi

spesso ancora di qualifica alla costruzione accelerata di un sindacalismo industriale di massa, con

79

Page 80: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

accorpamenti categoriali in federazioni molto comprensive» [Bordogna 1991, 83]. Nel 1980, ad

esempio, nasce la federazione della funzione pubblica della CGIL, seguita nel 1983 da quella della

CISL, ricomprendente sindacati dei dipendenti statali, parastatali e degli enti locali (nel caso della

CGIL anche dei lavoratori della sanità), prima disaggregati in federazioni specifiche [Bordogna

1987]. Tale processo di riorganizzazione sindacale avviene anche parallelamente al processo di

“contrattualizzazione” delle relazioni di lavoro nel settore pubblico, nel 1983 definito sulla base di

soli otto comparti di contrattazione stabiliti per legge (rispetto all’estrema frammentazione del

periodo di contrattazione informale e alla graduale estensione della contrattazione a un elevato

numero di categorie negli anni ‘70), rendendo necessaria una maggiore razionalizzazione della

struttura confederale del sindacalismo del settore pubblico [Bordogna 1991; 1998]. Al di sotto di

questa opera di centralizzazione delle relazioni di lavoro intrapresa dalle amministrazioni pubbliche

e dalle principali confederazioni si coltiva, perciò, il malcontento di quelle figure professionali che

sentono minacciata la propria autonomia e indipendenza, o le proprie posizioni di rendita. La

centralizzazione rappresentativa, infatti, tende a basarsi su una logica maggiormente encompassing

(definita da Olson [1982] come una linea di rappresentanza comprensiva di un largo numero di

interessi eterogenei, tesa a internalizzare i costi della propria azione, contenendo cioè le

rivendicazioni particolaristiche a favore di obiettivi più generali e moderati di cui possa godere, per

quanto in misura minore, la totalità dei propri membri), riducendo le possibilità di azione autonoma

dei gruppi occupazionali più settari, meno disposti a sacrificare le proprie istanze particolariste,

grazie spesso alla posizione di forza derivante dal «“potere vulnerante” di cui dispongono le figure

lavorative in questione, la capacità che hanno, per la “posizione strategica” che occupano nella

organizzazione del lavoro di un certo servizio (in genere esso stesso di importanza strategica per

l’economia e la società), di produrre o minacciare danni enormi» [Bordogna 1987, 138].

I motivi per cui tale esplosione di movimenti sia avvenuta per la quasi totalità nel settore pubblico

può essere ricondotta a tre motivazioni principali. Innanzitutto la quasi assenza (per lo meno fino

alle recenti riforme tese alla promozione della c.d. contrattazione integrativa) di una contrattazione

decentrata formalmente riconosciuta nel settore pubblico. Questo non permette che accanto a una

ricentralizzazione della contrattazione, concentrata su risultati macroeconomici generali, faccia da

contrappeso una micro-definizione di interessi più specifici più vicina al posto di lavoro, rendendo

la dissidenza da tale sistema il modo più efficace nel sostenere le proprie richieste. Una seconda

ragione, strettamente collegata alla prima, riguarda, a causa dell’elevata burocratizzazione della

relazione di lavoro, la carenza di politiche attive di amministrazione del personale, in grado di

motivare i lavoratori a più alta professionalità, che preferiscono così rivolgersi alle associazioni

autonome di mestiere. Infine, lo sviluppo della grande quantità di sindacati occupazionali e

80

Page 81: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

autonomi, avviene grazie al loro operare in un settore protetto dalla concorrenza, azzerando così

quel grado di responsabilità derivante dalla necessità di mantenere competitiva l’impresa sul

mercato al fine di salvaguardare il proprio posto di lavoro [Bordogna 1991]. I piccoli gruppi

particolaristici, o addirittura single issue (destinati a nascere e sciogliersi in relazione a singoli

problemi), operanti nel settore pubblico, risultano perciò non soltanto deresponsabilizzati rispetto

alle performances macroeconomiche prodotte dal loro agire, ma addirittura indifferenti ai risultati

microeconomici causati dalle proprie rivendicazioni (situazione che invece non trova riscontro nel

settore privato) [Cella 1991b].

Più difficile risulta invece stimare la consistenza numerica dei sindacati autonomi, a causa della

poca trasparenza delle fonti sul tesseramento fornite dalle associazioni stesse, per la loro incredibile

numerosità e frammentarietà, le solitamente ridotte dimensioni, per la loro natura volubile e

l’elevata nati-mortalità. In relazione all’intera economia (settore pubblico e privato), si può stimare

che se si tenesse conto anche del sindacalismo autonomo e di base, il tasso di sindacalizzazione

netto sarebbe più elevato di circa il 10-20% rispetto a quanto stimato sulla sola base del

tesseramento di CGIL, CISL e UIL [Visser 2000; Calmfors et al. 2002]. Nel settore privato la stima

risulta particolarmente difficile, non esistendo sistemi pubblici di rilevazione del tesseramento, ma è

possibile stimare la consistenza del sindacalismo non confederale basandosi sulla proporzione di

voti ottenuti dalle diverse sigle alle elezioni aziendali delle Rappresentanze Sindacali Unitarie

(RSU, previste dall’accordo tripartito del 23 luglio 1993). Nel 1996, l’Osservatorio nazionale sulle

RSU promosso da CGIL, CISL e UIL stimava per l’industria uno 0,21% di voti ottenuti dalla

CISNAL, lo 0,07% dalle Rdb-Cub e lo 0,26% dalla CISAL. Per quanto la partecipazione alle

elezioni dei sindacali extra-confederali può risultare inferiore proprio a causa dell’opposizione degli

stessi agli strumenti di rappresentanza tipici dei sindacati confederali, tali stime indicano comunque

la scarsa rilevanza di tali sigle nel settore privato [Carrieri 1998]. Nel settore pubblico la situazione

risulta differente. Innanzitutto la stima della sindacalizzazione effettiva risulta più precisa e

completa, essendosi avviato, parallelamente al completamento della contrattualizzazione del

rapporto di lavoro pubblico negli anni ’90, un sistema di misurazione della rappresentanza effettiva,

misurata sia sulla base del numero di deleghe raccolte dalle diverse rappresentanze sindacali, sia

sulla proporzione di voti raccolti alle elezioni per le Rappresentanze Unitarie del Personale (RUP,

poi rinominate RSU in analogia col settore privato), accogliendo il c.d. criterio di maggiore

rappresentatività ponderata, come superamento della rappresentatività presunta [Giugni 2006]. Per

le ragioni sopra discusse, quindi, nelle pubbliche amministrazioni si trova, accanto a una

sindacalizzazione complessivamente più alta del settore privato, anche una più consistente quota di

sindacalizzazione proveniente da associazioni sindacali autonome e di base. Grazie ai dati raccolti

81

Page 82: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

dal Dipartimento della Funzione Pubblica, nel 1996 è possibile osservare come per una

sindacalizzazione complessiva dei comparti pubblici (ministeri, parastato, enti locali, aziende

autonome, sanità, scuola, università e ricerca) pari al 44,48%, la sindacalizzazione derivante da

CGIL, CISL e UIL si fermasse al 30,44%, essendo il rimanente 14,03% (cioè il 31,6% delle deleghe

sottoscritte) raccolto da sindacati extra-confederali [Bordogna 1999]. Dieci anni dopo, nel 2006, la

situazione sembra però essersi resa più favorevole a CGIL, CISL e UIL, che infatti riescono ora ad

aggregare mediamente l’80% delle deleghe e dei consensi nelle elezioni per le RSU del personale

dei comparti (in una situazione di dominio associativo della CISL, elettorale per la CGIL e di

costante crescita in entrambi per la UIL) [Bordogna e Carrieri 2008], nel contesto di un tasso di

sindacalizzazione complessivo nel settore pubblico stimato dall’Agenzia per la rappresentanza

negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) pari al 50,08% (dato comunque sovrastimato, a

causa del fenomeno delle tessere doppie, sottoscritte cioè dallo stesso dipendente in favore di più

federazioni sindacali). Anche nel settore pubblico esistono però rilevanti differenze intra-settoriali.

In particolare le figure dirigenziali risultano complessivamente le più sindacalizzate in assoluto, con

una forte predominanza dei sindacati occupazionali e autonomi (sempre secondo l’ARAN, per il

2006 nel comparto scuola più del 90% dei dirigenti risultavano sindacalizzati, intorno al 70% per il

comparto sanitario, quasi il 98% per gli enti pubblici non economici, mentre intorno al 50% nei

rimanenti comparti, dati sostanzialmente stabili dal 1996 [Bordogna 1999]). I diversi comparti

risultano poi differenti rispetto ai rapporti di forza tra sindacati confederali e autonomi. Nel

personale della scuola risulta particolarmente forte la SNALS-CONFSAL (col 21,37% delle

deleghe, ma con una comunque robusta rappresentanza, mediamente del 10%, negli altri comparti),

che viene a porsi come una vera e propria quarta confederazione accanto a CGIL, CISL e UIL

[Bordogna e Carrieri 2008], e la Gilda degli insegnanti (col 6,18%), nata nel 1988 dal movimento

dei Cobas della scuola [Bordogna 1991]. Di minore ma non trascurabile importanza risultano poi le

Rappredentanze di Base (Rdb), che raccolgono una proporzione di deleghe tra il 2 e il 7% a seconda

del comparto, mentre di scarsa rilevanza risulta l’Unione Generale del Lavoro (UGL, filiazione

della CISNAL), che di rado supera l’1-2% delle deleghe (ma con un certo radicamento, intorno al

7%, nel nuovo comparto che raggruppa i dipendenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri).

La situazione di estrema frammentazione nel pubblico impiego risulta però in diminuzione nel

decennio 1998-2008. Nel 1996 nel settore pubblico esistevano ben 714 associazioni sindacali di

prima affiliazione (di cui il 52% raccoglievano meno dello 0,1% delle deleghe, l’11,5% con una

sola delega sottoscritta, e con una dimensione media, escludendo CGIL, CISL e UIL, di appena 565

membri), e 412 di seconda, con una particolare concentrazione nei comparti più piccoli e soprattutto

per le qualifiche dirigenziali [Bordogna 1999]. Un’opera di grande semplificazione viene perciò

82

Page 83: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

operata dal Dlgs 396/1997, che fissa come soglia minima per la partecipazione alla contrattazione

nazionale di comparto una rappresentatività del 5% come media tra dato associativo e dato

elettorale. In questo modo «l’impianto legislativo, costruito in funzione della selezione dei soggetti

ammessi ai tavoli negoziali, ha operato una spinta culturale oltre che pratica verso meccanismi di

aggregazione del consenso. Le modifiche che ne sono derivate hanno spostato in molti casi la stessa

razionalità organizzativa in direzione della logica di intermediazione degli interessi e dei gruppi su

scala più larga che del passato. […] Questo incentiva le organizzazioni autonome a essere meno

specializzate e più trasversali nella loro logica di azione e di rappresentanza» [Bordogna e Carrieri

2008, 68]. Pertanto la principale evoluzione registrata nel decennio risulta una progressiva

“confederalizzazione” dell’azione sindacale nel settore pubblico (con la nascita della CGU,

Confederazione Gilda degli insegnanti-UNAMS, nel 2003, e un’azione dei principali sindacati

autonomi, UGL, CONFSAL e Rdb, sempre più affine a quella di CGIL, CISL e UIL), spinta anche

dall’azione dell’ARAN tesa a incentivare affiliazioni stabili tra i sindacati, riducendo i cartelli di

comodo nati al solo scopo di superare le soglie di rappresentatività minima [Bordogna e Carrieri

2008].

Le determinanti della sindacalizzazione

In conclusione, resta da chiarire se, sottoposta a un’analisi multivariata, l’Italia presenti delle cause

differenti rispetto al resto d’Europa per quanto riguarda i livelli o l’aumento e la diminuzione del

tasso di sindacalizzazione netto. Nonostante i pochi studi condotti sul caso italiano, si possono

comunque trarre delle conclusioni non del tutto differenti da quelle riferite nei modelli presentati nel

paragrafo 2.2.

Cominciando dalle variabili cicliche (cfr. par. 2.2.1), un primo studio di Daniele Checchi e

Giacomo Corneo [2000], riferito al periodo 1951-1994, testa le possibili variabili esplicative della

sindacalizzazione in un’ottica di lungo (in relazione al livello complessivo del tasso di

sindacalizzazione netto, calcolato solo sugli iscritti a CGIL e CISL), e breve periodo (in relazione

alle variazioni del tasso). Viene innanzitutto trovata, per quanto riguarda i fattori relativi al ciclo

economico, una relazione positiva tra la partecipazione dei lavoratori dipendenti ad attività di

sciopero, relative a questioni di lavoro, e sia la densità sindacale complessiva che la sua variazione.

Anche Davide La Valle [2001], analizzando il periodo 1960-1999, trova un impatto positivo e

statisticamente significativo dell’aumento del numero di giornate perse per sciopero e la crescita del

numero di iscritti attivi di CGIL e CISL nell’anno successivo, per quanto tale effetto risulti sempre

più di scarsa intensità, a causa della odierna minore attività conflittuale rispetto agli anni ’60-‘70. In

particolare l’effetto risulta, disaggregando, significativo per la sindacalizzazione del settore

83

Page 84: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

industriale, ma non per quella nei servizi. Una peculiarità riguarda, poi, il fatto che il numero di ore

perse in conflitti estranei dal rapporto di lavoro tenda a ridurre la sindacalizzazione della CISL,

probabilmente in quanto «la crescita dei conflitti estranei al rapporto di lavoro in genere è collegata

all’insediamento di un governo “non amico” [della CISL…], nella quale hanno maggiore peso gli

iscritti nel settore pubblico, ossia una categoria di lavoratori per i quali il rapporto fra sindacato e

governo ha particolare importanza» [La Valle 2001, 110-111]. Sempre da Checchi e Corneo [2000],

poi, viene trovato nel breve periodo un forte effetto della crescita dei salari reali (per la maggior

parte contrattati dai sindacati) sulla crescita della densità sindacale, per quanto è più probabile che

l’effetto causale funzioni all’inverso, risultando le due variabili determinate congiuntamente (una

maggiore forza sindacale determina salari reali più elevati, risultato che non costituisce un beneficio

selettivo utile ad attrarre nuovi membri, vista la sostanziale applicabilità erga omnes dei risultati

della contrattazione). Una congiuntura economica favorevole, inoltre, approssimata con la crescita

dell’indice della produzione industriale, determina un aumento degli iscritti attivi dei sindacati

confederali. Il ciclo economico positivo aumenta i costi per l’imprenditore nell’opporsi al sindacato

(potendo scaricare eventuali aumenti del costo del lavoro su un mercato in espansione), rendendo

più facile l’opera di proselitismo. In particolare risulta avvantaggiata la CISL, in quanto per la sua

natura di sindacato-associazione risulta più facilitata nel fornire ai potenziali membri incentivi

basati sull’aumento di risorse materiali disponibili agli iscritti, più che sull’unità di classe come per

la CGIL [La Valle 2001]. Anche la disponibilità di un crescente surplus (inteso come la quantità di

risorse disponibili per la contrattazione collettiva eccedenti il salario di riserva, calcolato come

salario medio dei settori non sindacalizzati), gioca un ruolo positivo sulla densità sindacale, in

quanto «i funzionari sindacali italiani sembrano comportarsi strategicamente, promuovendo più

attivamente campagne di reclutamento laddove più grande sia il surplus disponibile» [Checchi e

Corneo 2000, 172]. In analogia con la letteratura internazionale, poi, anche in Italia l’aumento della

disoccupazione risulta avere un effetto negativo sulla sindacalizzazione [Checchi e Visser 2005],

colpendo in particolare la CGIL, vista la sua presenza maggioritaria in settori più soggetti a

fluttuazioni occupazionali in caso di congiuntura negativa (come quello industriale), rispetto alla

CISL, più rappresentativa nei settori protetti (come la pubblica amministrazione) [La Valle 2001].

Per quanto riguarda il ciclo politico, infine, la percentuale di voti ottenuti dai partiti di sinistra alle

elezioni più vicine non risulta una variabile significativa nello spiegare i livelli e le variazioni della

sindacalizzazione in Italia [Checchi e Corneo 2000]. E’ comunque da rilevare come, tra gli iscritti ai

diversi sindacati in condizione di lavoro dipendente nel settore privato, risulti esservi una differente

propensione di voto: tra gli iscritti alla CGIL, nel 2006, il 70% ha votato per la coalizione di centro-

sinistra, mentre solo il 17% per il centro-destra. Nella CISL, fatto che sottolinea la maggiore

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Page 85: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

indipendenza della confederazione da logiche partitiche definite, gli iscritti si sono divisi

sostanzialmente a metà tra le due coalizioni (42% al centro-sinistra e 40% al centro-destra), mentre

la UIL risulta leggermente meno divisa e caratterizzata da una maggiore propensione verso il

centro-sinistra (per cui ha votato il 48% dei membri, contro il 37% di consensi per lo schieramento

avverso). Risulta, comunque, come la maggior parte dei lavoratori dipendenti del settore privato

iscritti ai sindacati confederali siano in misura non indifferente orientati politicamente verso i partiti

di centro-sinistra [Feltrin 2006].

Una prima variabile strutturale (cfr. par. 2.2.2) presa in considerazione per il caso italiano è la

proporzione della forza lavoro maschile sul totale del lavoro dipendente: un aumento di tale

proporzione risulta avere un effetto intenso e significativo sulla crescita della sindacalizzazione nel

breve periodo, per quanto tale risultato non tenga conto delle caratteristiche del posto di lavoro.

Anche una maggiore proporzione di dipendenti del settore pubblico rispetto al totale gioca un ruolo

positivo sui livelli di sindacalizzazione, per quanto non significativo, coerentemente con quanto

discusso nel paragrafo 2.2.2 [Checchi e Corneo 2000; Checchi e Visser 2005]. La proporzione di

lavoratori nell’industria, solitamente intensamente correlato con una maggiore densità sindacale

[Lee 2005], in Italia non risulta esercitare un effetto significativo [Checchi e Corneo 2000].

Addirittura, a un’analisi statica non basata su serie temporali, Gabriele Ballarino [2005b] trova

come l’effetto della dimensione dell’occupazione dipendente nel settore industriale risulti negativo,

per quanto non superando di poco il test di significatività, nei confronti della densità sindacale, a

causa della frammentarietà del tessuto produttivo industriale italiano. Un ruolo interessante nel

promuovere la sindacalizzazione, invece, risulta essere il tessuto associativo presente sul territorio.

Un maggiore livello di capitale sociale o senso civico, misurato come numero di associazioni ogni

10.000 abitanti, risulta essere correlato positivamente a un maggiore livello di sindacalizzazione

complessivo, ed esercitare un effetto positivo e significativo, a parità di altri fattori, sulla

membership della CGIL [Ballarino 2005b]. La correlazione ecologica tra voto e sindacato risulta

particolarmente forte e intensa per la CGIL, ma non per la CISL (che sembra sfuggire a una logica

di appartenenza guidata da fattori politico-culturali), per quanto, a partire dagli anni ’80, si assista a

un’ampia diminuzione nella forza di tale relazione, soprattutto tra il voto a partiti di sinistra e il

sindacato “rosso” [Feltrin 2006]. Paolo Feltrin rileva, però, come curiosamente la percentuale di

voti ottenuti dal PCI nel 1987 sia correlata positivamente e in modo robusto con la

sindacalizzazione della CGIL nel 2002, più di quanto non lo siano i voti per i partiti del centro-

sinistra nel 2001. Questo indicherebbe come, anche in passato, fosse «infatti la subcultura politico-

territoriale la variabile che spiegava bene l’adesione al sindacato “rosso”, e non, genericamente, il

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Page 86: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

voto a sinistra» [Feltrin 2005, 83], confermando l’importante ruolo di fattori legati al capitale

sociale e alla cultura associativa, per lo meno per il principale sindacato italiano, nell’adesione.

I fattori istituzionali (cfr. par. 2.2.3), infine, al pari della maggioranza dei paesi europei, risultano

essere di grande importanza per l’esperienza italiana. Checchi e Corneo [2000] trovano come

l’introduzione dello Statuto dei lavoratori, nel 1970, abbia giocato un ruolo di gran lunga superiore,

rispetto agli altri fattori ciclici e strutturali analizzati, sull’aumento della densità sindacale in Italia,

confermando il ruolo cruciale di una legislazione promozionale alla presenza del lavoro organizzato

sul posto di lavoro nell’incentivare la crescita delle associazioni sindacali. Tale variabile assume un

ruolo forte e significativo anche nel modello di Checchi e Visser [2005], qualora applicato alla sola

Italia. Un ultimo fattore, coerentemente con la teoria, utile nello spiegare la crescita della

sindacalizzazione, risulta la centralizzazione della contrattazione, in quanto utile nel ridurre

l’opposizione al sindacato in azienda da parte del management [Checchi e Corneo 2000].

In conclusione, l’Italia sembra presentare diversi tratti affini, per quanto riguarda il percorso della

sindacalizzazione, rispetto allo scenario europeo, pur con alcune peculiarità. Accanto a fattori

comuni (come il ruolo negativo della disoccupazione o quello positivo della crescita dei dipendenti

pubblici), vi sono delle differenze che tendono ad allontanarla da uno scenario condiviso,

primariamente la particolarità di un settore manifatturiero fondato sulla piccola impresa di difficile

sindacalizzazione, una discreta capacità nell’intercettare la nuova domanda in alcuni settori del

terziario privato (come il credito: contrariamente alla maggior parte dei paesi, la nuova occupazione

sembra avere un effetto positivo sulla densità sindacale, seppur non raggiungendo la significatività

[Checchi e Visser 2005]), e un buon rapporto del sindacato con la crescente immigrazione (cfr. par.

2.2.2). Inoltre, il relativamente tardo riconoscimento del sindacato sul luogo di lavoro, dopo una

strenua opposizione imprenditoriale durante gli anni ’50 [Pepe 1996], ha contribuito a creare una

cesura netta nel 1970, rendendo il trend di sindacalizzazione profondamente diverso dagli altri paesi

conservatori, e composto da due massimi (l’inizio degli anni ’50 e la fine dei ’70) e due minimi (gli

anni ’60 e gli anni dopo il 2000) molto distanziati tra loro (mediamente di venti punti percentuali),

invece che da un andamento più regolare, pur caratterizzato da oscillazioni (per quanto meno ampie,

cfr. par. 2.1). Anche la più elevata conflittualità (per quanto riguarda sia frequenza, partecipazione

che giornate di lavoro perse), esplosa negli anni ’60 e ’70 con non trascurabili strascichi negli anni

’80, rispetto agli altri paesi europei (anche particolarmente colpiti dall’ondata del ’68, come la

Francia), può aver contribuito a far assumere un andamento del tutto particolare alla

sindacalizzazione in Italia [Bordogna e Cella 2001].

86

Page 87: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

III.

IL FUTURO DELLA PRESENZA DEL SINDACATO

3.1 L’attore sindacale

Declino o ripiegamento?

Il declino della sindacalizzazione nella maggior parte delle economie occidentali è un dato ormai

costante da circa trent’anni, e, per quanto i tassi di sindacalizzazione dei diversi paesi non abbiano

ancora cominciato a convergere, sembra poco probabile una ripresa della crescita, generalizzata o

anche localizzata in quei paesi che storicamente hanno costituito un terreno fertile per la presenza

sindacale (cfr. par. 2.1). Per quanto le differenze istituzionali contribuiranno a mantenere una

pluralità di livelli di membership sindacale estremamente differenziata, le associazioni di

rappresentanza dei lavoratori si trovano ora più che mai di fronte a sfide comuni di larga scala, con

caratteristiche difficilmente affrontate in precedenza [Calmfors et al. 2002]. I sindacati europei si

trovano in particolare di fronte a due importanti sfide: il rapido cambiamento tecnologico e

l’integrazione economica europea (intesa sia come controllo centralizzato della politica monetaria

che come allargamento a est dell’Unione) [Boeri 2003; Visser 2005]. Il mercato del lavoro delle

società dei servizi è sempre più caratterizzato da un generale upskilling delle competenze

occupazionali (pur con possibili effetti di polarizzazione a causa dell’espansione dell’occupazione

nei servizi a bassa qualificazione) [Reyneri 2005b], mentre cresce a un ritmo incalzante la

proporzione dei lavoratori della conoscenza rispetto alle occupazioni manuali: i knowledge workers,

cioè sostanzialmente gli scienziati, gli artisti, i manager, i professional e i technician, sono passati,

nel 2005, a rappresentare tra il 40 e il 50% dell’occupazione, rispetto al 30-40% di un decennio

prima in Italia, Regno Unito, Francia, Stati Uniti e Germania, mentre in Spagna sono aumentati dal

20 al 30% [Butera 2008]. A ciò si accompagna un’espansione delle «opportunità di carriera

precedentemente sconosciute e maggiore responsabilità, potere e controllo sulla vita dell’impresa, a

quei lavoratori che sanno giostrarsi fra le diverse aree funzionali dell’impresa. Ma solo a loro»

[Boeri 2003, 118]. Se uno degli obbiettivi storici del sindacato è sempre stato quello di contenere i

divari retributivi, evitando la concorrenza tra i lavoratori e fornendo un’assicurazione ai dipendenti

anche di diversa qualificazione nel mantenimento del posto di lavoro e dei livelli retributivi, tale

evoluzione della società non può che rimettere in discussione tali obbiettivi. Laddove i sindacati

sono più deboli (ove, cioè, la sindacalizzazione è inferiore), i differenziali retributivi risultano più

elevati, e tale correlazione è diventata sempre più intensa nel passare dagli anni ’80 ai ’90 [Boeri e

Checchi 2001]. La crescita nella richiesta di professionalità elevate e la flessibilizzazione del

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mercato del lavoro, portano sempre più a una situazione in cui «l’assicurazione offerta dal sindacato

costa troppo, nel senso che comporta rinunce a salari molto più alti e conta di meno la stabilità

dell’impiego, che peraltro il sindacato è sempre meno in grado di garantire» [Boeri 2003, 119].

Risulta, infatti, come l’aumento dei divari retributivi sia sistematicamente correlato a un declino

della sindacalizzazione nel periodo immediatamente successivo: tale effetto si eserciterebbe

nell’allontanarsi sia delle retribuzioni più alte che di quelle più basse dalla retribuzione mediana.

Questo effetto si eserciterebbe in quanto «da un lato, le prime trovano “troppo elevato” il costo

della protezione sindacale, dall’altro le seconde (su cui è aumentato significativamente il rischio di

disoccupazione) trovano la stessa protezione sempre meno “efficace”» [Boeri e Checchi 2001, 103].

Allo stesso tempo, se il nuovo proletariato è destinato a crescere nei servizi a bassa qualificazione e

basso salario, lontani dalle aggregazioni lavorative e produttive di massa [Paci 1996], vi è la

possibilità che venga meno anche la base sociale storicamente associata all’attività sindacale, cioè la

grande massa di lavoro a medio-bassa qualificazione. Il processo di globalizzazione e l’integrazione

europea, infine, «stanno rendendo più difficile e costoso in termini di performance economica la

fornitura di assicurazione contro il rischio di mercato con vecchi strumenti, quali regimi di

protezione dell’impiego molto restrittivi» [Boeri 2003, 119]. Le politiche monetarie vengono poi

sottratte agli stati nazionali e centralizzate nella Banca Centrale Europea, in un’ottica di

contenimento dell’inflazione. In tal modo l’offerta di moderazione salariale offerta dai sindacati,

sempre meno credibile anche a causa del crollo degli iscritti [Visser 1994], diviene soltanto una

second best (contrariamente alle precedenti prassi corporative), risultando più efficace un controllo

di tipo monetarista dell’offerta, sottraendo così sempre più ambiti d’azione alle organizzazioni

sindacali [Visser 2005; Streeck 2006].

Tuttavia, accanto alle seppur evidenti difficoltà di azione del sindacato, amplificate dal declino della

sindacalizzazione del lavoro dipendente, è possibile parlare di un declino del sindacato tout court?

Secondo Guido Baglioni [2008], più che di un declino vero e proprio (di cui si potrebbe parlare solo

in caso di scomparsa delle funzioni e dei significati dell’esperienza sindacale), si starebbe

assistendo a un ripiegamento, manifestatosi in una riduzione della presenza e del peso sindacale e

della conseguente capacità di perseguimento degli obbiettivi, e determinato da una situazione di

“accerchiamento”. Ad oggi le condizioni del lavoro dipendente non sarebbero più la questione

sociale decisiva, subendo la concorrenza di numerosi altri fattori, divenuti “problemi sociali più

rilevanti del rapporto di lavoro”. L’invecchiamento della popolazione sposterebbe l’attenzione dai

rapporti di lavoro agli aspetti previdenziali degli stessi, mettendo al centro della scena nuovi

problemi sempre più rilevanti, come l’assistenza agli anziani e la tutela della salute, a cui sarebbero

dedicate sempre più risorse. Inoltre, il processo di integrazione economica e monetaria europea e la

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Page 89: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

collegata lunga fase di moderazione salariale, hanno riportato al centro dell’attenzione politica e

sociale il tema della difesa del consumatore, la cui superiorità di «impostazione sarebbe ravvisabile

nel fatto che i consumatori sono meno tutelati dei lavoratori; il soggetto di riferimento diventa il

nucleo familiare; i provvedimenti assunti riguardano tutti i cittadini […]. Il lavoratore vede svanire

la sua identità collettiva per diventare una parte, una quota indifferenziata, nell’universo dei

consumatori. In più, una tutela del lavoro con obiettivi rivendicativi potrebbe essere un ostacolo ai

vantaggi prodotti dalla concorrenza» [Baglioni 2008, 96]. Infine, a causa della maggiore flessibilità

occupazionale richiesta dal sistema produttivo e la maggiore eterogeneità dei rapporti di lavoro, la

tutela tende a spostarsi sempre più dal rapporto di lavoro al mercato del lavoro, accerchiando la

tutela sindacale nell’impresa e spingendola verso l’esterno. Della stessa opinione sembrano essere

Philippe Pochet e Giuseppe Fajertag, secondo cui gli anni ’90 hanno visto l’emergere, accanto alla

tradizionale contrattazione degli interessi funzionali dei lavoratori, della rilevanza di nuove

questioni sociali relative alla qualità della vita, come la non discriminazione delle minoranze, lo

stress, l’esclusione sociale, la mobilità e i costi abitativi, tali da spiazzare le coalizioni di interessi

tradizionali. Infatti, «se le ore di lavoro sono ridotte ma i tempi di spostamento per lavorare

crescono, e se la crescita dei salari è assorbita dai crescenti prezzi di proprietà della casa, il risultato

netto è effettivamente meno favorevole di quanto le cifre implicherebbero. In questi campi la

legittimità dei sindacati non può essere data per scontata, e altri gruppi di pressione o associazioni

di cittadini prendono il centro della scena» [Pochet e Fajertag 2000, 37].

Una prova ulteriore contro l’ipotesi del declino del sindacato in generale può essere portata dal

consenso di cui ancora gode la sua azione, nella società in generale e tra i lavoratori in particolare.

Secondo una rilevazione del 2002 dell’European Social Survey, condotta su un campione

rappresentativo di oltre 40.000 cittadini europei, il consenso sociale all’azione del sindacato nella

difesa delle condizioni di lavoro sarebbe ancora molto elevato. Alla domanda “Secondo Lei i

lavoratori hanno bisogno di sindacati forti per proteggere le condizioni di lavoro e i salari?” si sono

dichiarati “d’accordo” o “molto d’accordo” sistematicamente più del 70% degli intervistati. Vi sono

naturalmente delle differenze di opinione tra paesi, con percentuali di accordo minime in Germania,

Regno Unito e Belgio (con valori comunque elevati, tra il 65 e il 68%), e massime in Grecia,

Ungheria e Polonia (tra l’83 e il 90%), mentre valori intermedi, comunque sempre molto elevati, si

trovano nei restanti paesi (tutti compresi tra il 70 e l’80%). La percentuale di intervistati favorevoli

si dimostra sistematicamente più alta tra gli iscritti al sindacato, mentre tra i non iscritti (né

attualmente, né in passato) l’accordo non scende comunque in nessun caso al di sotto del 60%

(spesso arrivando addirittura a superare il 70 o l’80%) [Feltrin 2007]. Anche la legittimità del

sindacato all’interno dell’impresa non sembra essere contestata. A metà degli anni ’90, la

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Page 90: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

partecipazione dei lavoratori alle elezioni per le diverse forme di work council risultava ancora

molto elevata, coinvolgendo il 65-80% degli aventi diritto al voto nei principali paesi europei. E,

nonostante l’appartenenza al sindacato non sia un prerequisito per l’elettorato passivo in tale

particolare forma di rappresentanza, il tasso di sindacalizzazione degli eletti oscillava tra il 65-75%

in Olanda, Francia e Germania, e l’80-100% in Belgio, Austria, Spagna e Italia [Calmfors et al.

2002]. Questi dati non confermano perciò l’ipotesi del netto declino dei significati dell’azione

sindacale, e, anzi, ne forniscono un’immagine di forza e legittimazione ben diversa da quella

registrata dalla misurazione meramente quantitativa della sindacalizzazione del lavoro dipendente.

Si starebbe, piuttosto, allargando la forbice tra “presenza e influenza”, ponendo indubbiamente dei

problemi inediti sulle possibilità rivendicative del sindacato, ma non minando necessariamente, «in

non pochi casi, il grado di coinvolgimento, il ruolo condizionante del sindacato sulle principali

scelte di politica economica [che] non sembra avere minimamente risentito della tendenza al calo

degli iscritti» [Boeri e Checchi 2001, 89].

Reazioni adattive

Le profonde trasformazioni del tessuto produttivo e della struttura di classe delle società occidentali

negli ultimi vent’anni del ‘900 hanno, inevitabilmente, indotto le associazioni sindacali a profonde

trasformazioni, sia di struttura che nei metodi di tutela del mondo del lavoro. Uno dei problemi

principali a cui si trovano a far fronte i sindacati riguarda le ristrettezze finanziarie causate dal

profondo declino degli iscritti. In diversi paesi europei il declino delle entrate è stato parzialmente

compensato dall’aumento del numero di tesserati ritirati del mercato del lavoro (come in Italia, con

le federazioni dei pensionati) [Visser 2006], ma il problema non può considerarsi risolto, a causa

dei solitamente inferiori costi di tesseramento richiesti a queste categorie di iscritti [Streeck e Visser

1998]. Una delle strategie seguite dai sindacati nel contrastare una situazione di risorse disponibili

decrescenti è quella dei mergers tra federazioni, tesi a sfruttare nuove economie di scale fondate su

nuovi sindacati inter-settoriali con un maggiore numero di membri e minori costi amministrativi.

Tra il 1980 e il 1995-97, il numero di federazioni affiliate alla confederazione principale in ogni

paese si è ulteriormente ridotto, passando da 15 a 14 nella Österreichischer Gewerkschaftsbund

(OGB) austriaca, da 18 a 12 nella Deutscher Gewerkschaftsbund (DGB) tedesca, da 17 a 15 nella

Federatie Nederlandse Vakbeweging (FNV) olandese, nella Landsorganisationen (LO) danese da 35

a 24, da 35 a 28 in quella norvegese e da 24 a 21 in quella svedese, mentre da 108 a 73 nel Trade

Union Congress (TUC) inglese [Streeck e Visser 1998; Ebbinghaus e Visser 2000]. Una teoria

economica della riorganizzazione del sindacato è elaborata da Wolfgang Streeck e Jelle Visser

[1998]. La spinta principale nel razionalizzare la struttura organizzativa tramite fusioni tra

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Page 91: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

federazioni è data dalle declinanti economie di scala dei sindacati settoriali: dal momento in cui il

calo della membership nei settori storicamente più sindacalizzati non viene compensato dalla

crescita, trainata dall’aumento occupazionale nel terziario, degli iscritti nei settori meno

sindacalizzati, il costo unitario per membro nel fornire servizi e attività si alza notevolmente, a

causa delle minori entrate assicurate da una sempre più ridotta base associativa. Inoltre, la tendenza

verso l’outosurcing e l’economia dei servizi, che sposta il baricentro del sistema dalla grande

azienda alla rete di piccole imprese, rende più costoso il mantenere il contatto coi membri ormai

dispersi sul territorio. Pertanto, «la pressione verso le fusioni è, ovviamente, più impellente se la

crescita naturale delle iscrizioni sta stagnando o è diventata molto costosa. Questo può sicuramente

essere il caso anche di molti sindacati tradizionali, che possono in passato essersi appoggiati

sull’organizzazione dei lavoratori delle grandi imprese, ma ora si trovano di fronte alla sfida non

solo di organizzare, ma anche di servire la dispersa e mobile popolazione impiegata nelle piccole

imprese e in relazioni d’impiego instabili» [Streeck e Visser 1998, 37]. Un altro punto tocca i

problemi di “malattia da costi” che possono sorgere nei sindacati come in qualsiasi altra

organizzazione distributrice di servizi labour intensive. L’aumento degli stipendi dei funzionari

deve essere compensato da un parallelo aumento delle entrate raccolte col tesseramento, e, inoltre,

vista la natura sempre più complessa del mercato del lavoro, i sindacati saranno spinti ad acquisire

personale sempre più professionale, specializzato e costoso (per funzioni di ricerca o di pubbliche

relazioni). In tal modo si rende necessaria una compressione dei costi del personale, ad esempio

accentrando le funzioni più specializzate in federazioni sindacali più encompassing, costituite dalla

fusione di più federazioni. Inoltre, l’aumento dei costi associativi rende, tendenzialmente, i membri

molto più esigenti rispetto ai servizi forniti dal sindacato, aumentandone la domanda soprattutto nei

momenti di crisi. Il paradosso risiede nel fatto che «l’economia dell’organizzazione sindacale

richiede che la maggior parte dei membri, la maggior parte del tempo, non abbiano bisogno del

sindacato e non richiedano i suoi servizi se non per la protezione collettiva offerta» [Streeck e

Visser 1998, 41]. Pertanto, secondo i due autori, un sindacato potrà mantenersi in vita e autonomo

solo in caso superi una “dimensione assoluta”, determinata «soprattutto dalle condizioni

geografiche, specialmente le dimensioni del territorio servito, la densità spaziale degli stabilimenti

sul territorio, e la distribuzione dei membri tra le unità lavorative» [Streeck e Visser 1998, 46]. Le

conseguenze di tale situazione si esplicano fondamentalmente nell’assorbimento di piccoli

sindacati, al di sotto di una dimensione assoluta di sopravvivenza, da parte delle grandi federazioni,

interessate a espandere la propria area di influenza: sacrificando l’omogeneità interna per una

ripresa delle economie di scala, «i conglomerati sindacali rappresentano un nuovo equilibrio tra le

considerazioni economiche e politiche delle organizzazioni sindacali» [Streeck e Visser 1998, 47].

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Page 92: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

In particolare, le vecchie federazioni dell’industria, con una base sempre più ristretta ma con una

forte struttura organizzativa, possono risultare interessate nell’associarsi alle più recenti federazioni

dei servizi, con una membership potenziale in forte espansione ma ancora pochi mezzi ed

esperienza [Calmfors et al. 2002]. Il risultato sarebbe un processo verso le conglomerate unions,

sempre più simili ai sindacati generali anglosassoni, risultanti in una fornitura di servizi sempre più

centralizzata e una rappresentanza e partecipazione più decentralizzata allo stesso tempo (a causa

dell’elevato numero di settori, e relativi contratti collettivi, entrati nel dominio del nuovo

conglomerato sindacale).

Secondo Paolo Feltrin il sindacato, a seguito della crisi degli anni ’80, ha risposto al declino della

sindacalizzazione concentrandosi principalmente su due arene: «l’arena delle relazioni sindacali

(negoziazione), trainata dalla logica della membership (più iscritti); l’arena politico-istituzionale,

trainata dalla logica dell’influenza (più voti)» [Feltrin 2006, 37]. Negli ultimi 15-20 anni la seconda

strategia sembra, però, essere stata preferenziale e strumento privilegiato nel tentare di compensare

le difficoltà esperite sul terreno delle relazioni industriali a causa del calo della militanza

complessiva. Il risultato sarebbe stato lo scostamento dell’attività sindacale, nella maggior parte dei

paesi occidentali, dai modelli prevalenti nella fase del capitalismo fordista: il sindacalismo di tipo

unionista, fondato sulla negoziazione a favore degli iscritti (tipico del mondo anglosassone); il

sindacalismo di classe, basato sull’incentivo identitario di unità della classe lavoratrice; il

sindacalismo corporatista, tipico dei paesi centro-nord europei, e costruito sulla concertazione delle

politiche economiche. Il sindacato del nuovo millennio rientrerebbe invece in una logica di social

coalition, sarebbe cioè fondato sulla tutela di interessi sociali generali, fortemente sbilanciato verso

l’azione politica e di lobbying parlamentare (per quanto in modo meno sistematico e strutturale

rispetto al modello corporativo), e altrettanto fortemente indirizzato alla fornitura di servizi ai

membri, sempre più intesi in una logica di incentivo selettivo in modo da contrastare il calo delle

iscrizioni, o di sub-fornitura di servizi pubblici a favore dell’intera collettività, in una logica di

influenza sociale. In particolare, le organizzazioni dei lavoratori si sarebbero convertite nell’ultimo

baluardo di difesa del welfare, supplendo ai vuoti di rappresentanza politica in tale ambito per cui

esiste ancora una forte domanda [Feltrin 2006]. Rispetto all’impegno profuso principalmente nelle

relazioni industriali, il modello politico agisce in un’ottica più difensiva che adattiva (cfr. par. 2.1),

«preferendo una tutela contrattuale o legislativa che preservi la relativa omogeneità dei trattamenti

piuttosto che la loro articolazione» [Baglioni 2008, 195]. Tale modello potrebbe anche essere

destinato ad avere più chances grazie alla molteplicità dei suoi obbiettivi (c.d. issue linkage, cioè

l’idea che l’allargamento delle negoziazioni a un numero elevato di oggetti renda più facile il

raggiungimento di un accordo [Acocella et al. 2006]), e al suo minore risentire della modestia dei

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Page 93: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

risultati conseguiti, rispetto ai risultati percettibili e misurabili, riguardanti un numero inferiore di

obbiettivi, tipici dell’agone delle relazioni industriali [Baglioni 2008].

Un altro problema di sempre maggiore rilievo per i sindacati europei riguarda la crescente

proporzione di lavoratori assunti con contratti atipici o non-standard (comprendendo, sotto questa

definizione in negativo, tutti i tipi rapporto di lavoro differenti dal contratto full-time in posizione di

dipendenza e stipulato a tempo indeterminato: part-time, lavoro parasubordinato, autonomo di

seconda generazione, interinale, a tempo determinato, etc…) [Cella 2001; Ballarino 2002]. Lungi

dall’aver soppiantato il lavoro full-time a tempo indeterminato, i lavoratori atipici rappresentano

comunque una quota non trascurabile dell’occupazione, in ulteriore aumento negli anni ’90 e nel

primo decennio dopo il volgere del secolo: secondo Eurostat la percentuale di lavoratori dipendenti

con contratto a tempo determinato, tra i paesi aderenti all’Unione Europea, è passata dall’11,2% nel

1992 al 14,5% nel 2007, mentre i lavoratori part-time, nello stesso periodo, sono passati dal 14,2%

al 18,2% dell’occupazione complessiva. Il lavoro autonomo non agricolo, dal 1980 al 2000, ha

subito un certo incremento, pur non uniformemente distribuito, aumentando in media dell’1,68%

nell’Europa a 15 più la Norvegia, aumento però sostanzialmente concentrato nei soli anni ’80 (nel

decennio seguente si è anzi assistito a una lieve flessione) [Eiro 2002b]. Il lavoro parasubordinato,

invece, per quanto di più difficile stima, non presenta cifre significative (essendo compreso,

all’inizio del nuovo millennio, tra meno dell’1% dell’occupazione non agricola in Danimarca,

Grecia, Portogallo e sotto il 3% in Belgio, Germania, Olanda e Austria), per quanto in alcuni paesi

risulti in rapida crescita (soprattutto Austria, Germania, Grecia e Portogallo) [Eiro 2002b; Pernicka

2005]. Ciò nonostante, vista la solitamente minore protezione legislativa e il più forte rischio di

disoccupazione, il lavoro atipico può presentare un ulteriore bacino di espansione del sindacato,

utile a compensare la perdita di adesioni nei settori tradizionali e in quelli in espansione. Secondo

Gian Primo Cella [2001], la protezione del lavoro non-standard non può più fondarsi sui

presupposti del lavoro tipico della cui protezione si sono fatti portatori i sindacati negli anni d’oro

del fordismo. La forte mobilità e l’elevato turn over di questi lavoratori rende, infatti, impossibile

un sistema di rappresentanza fondato sull’appartenenza continuativa a reti di solidarietà locali

costruite a livello di stabilimento. Il metodo della rappresentanza, invece, potrebbe giovarsi di una

ripresa di tecniche sindacali ormai appartenenti al passato, superate dal moderno sindacalismo

industriale. Si riproporrebbe, a un secolo di distanza, l’opportunità «di rappresentare i lavoratori

mobili del XXI secolo, per i quali si sono erose le chiare e tradizionali linee di demarcazione fra

lavoro dipendente e autonomo, attraverso modelli organizzativi e contrattuali tipici di quel

sindacalismo “occupazionale” (intesa come variante più aperta di quello di mestiere) che sembrava

inesorabilmente sconfitto dai trionfi del sindacato industriale […]. In contesti di alta mobilità del

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Page 94: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

lavoro, quello che sindacalmente più conta non è tanto la difesa e la rappresentanza di quanto

“dipendente” vi è nel lavoro, bensì il rafforzamento del potere contrattuale di ciascun lavoratore (o

di ciascun gruppo)» [Cella 2001, 209-210]. Il riferimento storico per eccellenza è il sistema di

“indennità di migrazione” diffuso nelle craft unions inglesi tra il settecento e l’ottocento, indennità

pagate agli artigiani organizzati, durante la loro ricerca itinerante di lavoro sul territorio nazionale:

«la migrazione aumentava molto il potere contrattuale degli operai […]. Col sistema di trasferire i

disoccupati via dalle zone morte e di tenerli in circolazione, la migrazione permetteva di contenere

l’offerta sul mercato del lavoro» [Hobsbawm 1972, 50]. Pertanto, in analogia con tale sistema, la

rappresentanza dei lavoratori atipici, per risultare più efficace, dovrebbe riprendere alcuni elementi

risalenti alla nascita del sindacalismo, puntando verso un «rafforzamento che si ottiene impedendo

la caduta della capacità negoziale dei singoli (attraverso benefici, assistenza, reti solidaristiche) e

controllando la concorrenza operante in una determinata occupazione» [Cella 2001, 210].

Le risposte dei sindacati europei rispetto all’organizzazione dei lavoratori atipici sono state diverse.

Per quanto considerati meno “appetibili” [Calmfors et al. 2002], e dopo una fase iniziale di rifiuto,

l’organizzazione di lavoratori a tempo determinato o part-time ha preso piede nelle federazioni

industriali in modo non troppo differente dalle forme classiche, grazie anche alla parità di

trattamento solitamente assicurata da leggi o contrattazione collettiva per lavoratori, per quanto

non-standard, rientranti nell’alveo del lavoro dipendente [Ballarino 2002; Pernicka 2005]. Di più

difficile soluzione è risultata la rappresentanza dei lavoratori parasubordinati (gli economic

dependent self-employed workers). A causa della loro natura formalmente autonoma, solo di recente

le strategie sindacali si sono mosse in controtendenza rispetto all’iniziale rifiuto della loro

rappresentanza (derivante dal considerare una distorsione e un indebolimento degli interessi

omogenei del lavoro dipendente l’assunzione della loro tutela). Le direzioni di azione più recenti si

sono suddivise, accanto a una sostanziale indifferenza delle confederazioni francesi, belga,

portoghesi e la CNV olandese, tra un intervento di integrazione dei lavoratori subordinati nelle

esistenti federazioni e la creazione di strutture ad hoc per tali posizioni. Nel primo caso rientrano,

tra le altre, la HK danese (sindacato del commercio e dei lavoratori white-collar), con la nascita di

una sezione apposita per i lavoratori freelancer nel 2001, la GPA austriaca (lavoratori dei servizi),

con il lancio del progetto “work@flex”, nel 2001, per attirare i parasubordinati, e la tedesca VerDi,

col progetto “connexx” partito nel 1999, prima ancora della sua costituzione a seguito della fusione

di cinque sindacati dei servizi. Nella seconda area di intervento rientrano l’Italia (vedi infra), la

Spagna, con la costituzione per la sola Catalogna di un sindacato nuovo dedicato esclusivamente ai

lavoratori economicamente dipendenti ma formalmente autonomi nel 2000 (TRADE, affiliato alla

CCOO catalana), e l’olandese FNV, con la nascita dell’FNV-Zelfstandigen nel 1999, dedicato ai

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Page 95: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

lavoratori autonomi [Eiro 2002b]. Esistono in realtà esperienze precedenti, rispetto

all’organizzazione dei lavoratori parasubordinati, per quanto solitamente limitate ai sindacati legati

ai settori dell’informazione e delle comunicazioni dove, ad esempio nel settore del giornalismo,

sono molto diffusi i lavoratori freelance (è il caso del Regno Unito, della Svezia, dell’Austria e

della Germania) [Eiro 200b; Pernicka 2005]. Le strategie più diffuse nella tutela del lavoro

parasubordinato riguardano, principalmente, l’offerta di protezione sociale e assicurativa atta a

coprire i rischi derivanti dallo statuto formalmente non dipendente del lavoro, la messa a

disposizione di servizi e supporto al collocamento e la fornitura di nuovi servizi orientati verso la

consulenza e la formazione professionale, oltre alla più classica assistenza legale nelle dispute di

lavoro [Eiro 2002b]. Allo stesso tempo è presente una crescente attività di pressione politica tesa a

garantire una maggiore tutela legislativa a tali categorie di lavoro (per esempio tramite una

parificazione al lavoro dipendente relativamente all’assistenza sociale), e diversi tentativi di

contrattazione collettiva, per quanto di non particolare successo al di fuori dei settori delle

comunicazioni dove era già precedentemente diffusa [Pernicka 2005].

Un caso sostanzialmente unico nel panorama europeo è quello italiano dove, da ormai circa un

decennio, esistono tre sindacati specifici, affiliati alle tre principali confederazioni, dedicati ai

lavoratori atipici: il NIdiL-CGIL (Nuove Identità di Lavoro, nata nel 1998), l’ALAI-CISL

(Associazione Lavoratori Atipici e Interinali, 1998) e il CPO-UIL (Coordinamento Per

l’Occupazione, 1997). Mentre il NIdiL associa soprattutto lavoratori autonomi (occasionali,

coordinati e continuativi, con partita IVA, soci di cooperativa) e interinali, «ALAI e CPO, pur non

trascurando quest’area di intervento, si rivolgono anche a quelle tipologie di lavoratori derivate

dalla legislazione a sostegno dell’occupazione e, ma ciò vale unicamente per il CPO, ai

disoccupati» [Vettor 1999, 626]. Una rappresentanza specifica per queste tipologie di lavoratori è

emersa anche in alternativa all’atteggiamento delle categorie tradizionali nei confronti di tali forme

contrattuali. Le strategie classiche del sindacato italiano, infatti, si configurano innanzitutto nel

rifiuto dell’introduzione in azienda di tali rapporti, o, laddove impossibilitati a impedirne l’accesso,

in varie strategie di stabilizzazione degli stessi: vengono solitamente richieste garanzie

sull’assunzione dei lavoratori non dipendenti, o, nei settori solitamente caratterizzati da ampie

sacche di lavoro nero o grigio come l’edilizia, si tenta di contrattualizzare la posizione lavorativa,

prendendo atto del continuum regolativo disponibile e tentando di avvicinare quanto più possibile i

lavoratori al sistema delle garanzie [Ballarino 2002]. La rappresentanza dei tre nuovi sindacati

atipici si differenzia in modo sostanziale dai modi e dagli strumenti delle federazioni, e questo non

avviene in assenza di conflitti con i sindacati storici. In particolare, mentre ALAI e CPO riescono a

muoversi in un’ottica territoriale contattando i lavoratori singolarmente, il NIdiL è costretto ad agire

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Page 96: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

con strumenti di “copromozione” in stretto coordinamento con i sindacati di categoria operanti in

azienda (i cui dirigenti siedono nel comitato direttivo del NIdiL) [Ballarino 2002; 2005a]. L’azione

di tutela, poi, raccogliendo alcuni dei suggerimenti di Cella sopra esposti, si delinea lungo tre

direzioni principali. Innanzitutto l’asse portante dell’intervento diventa la dimensione territoriale

piuttosto che quella settoriale: questo crea non pochi problemi, in quanto l’incontro tra i membri,

sparsi tra le diverse aziende della provincia e spesso in contesti di assenza sindacale, risulta

particolarmente difficoltoso, e non tutte le strutture territoriali confederali sono disposte a investire

tempo e risorse in tal senso. L’azione, poi, è improntata a un certo pragmatismo, che tenga conto,

anche nel definire gli obbiettivi, dei vincoli e delle opportunità offerte dal contesto. Infine, «l’azione

ha luogo in base a strategie diversificate, che comprendono iniziativa contrattuale, assistenza

associativa su base individuale, intervento istituzionale, a livello nazionale e a livello locale»

[Ballarino 2002, 243]. L’assistenza individuale, con la fornitura, oltre ai servizi tipici delle

organizzazioni sindacali, di strumenti mirati per i lavoratori non-standard (come i corsi di diritto del

lavoro, sui colloqui di formazione o sulla gestione della partita IVA forniti dal NIdiL), è finalizzata

in particolare a fornire ai lavoratori strumenti per aumentare la propria forza di mercato [Ballarino

2002]. Più modesti appaiono invece i risultati derivanti dall’attività di contrattazione collettiva, in

quanto «la contrattazione ha avuto esito positivo solo quando il datore si è reso disponibile: in molti

altri casi, l’opposizione del datore ha vanificato gli sforzi di lavoratori e dirigenti sindacali»

[Ballarino 2005a, 186]. Questo può derivare dalla ancora scarsa diffusione del tesseramento

sindacale e dalla inferiore mobilitazione del lavoro atipico, in particolare in riferimento alle tre

neonate strutture confederali. Tra il 1998 e il 2008 le tessere di ALAI e NIdiL sono passate da 3.600

circa a più di 65.000, un’espansione notevole, ma del tutto insufficiente rispetto alla base di

lavoratori autonomi o non standard potenzialmente sindacalizzabili. Dal punto di vista istituzionale,

infine, le pressioni politiche dei sindacati degli atipici sono dirette verso una riforma dello stato

sociale più favorevole agli stessi e tale da creare una cittadinanza sociale non sfavorevole al lavoro

autonomo, «nel senso di estendere la rete delle protezioni sociali mediante l’utilizzo, in particolare,

della leva della fiscalità generale, allargare le tutele del lavoro e predisporre per tutti, a prescindere

dalla qualificazione del rapporto, diritti generali indisponibili» [Vettor 1999, 628-629].

96

Page 97: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

3.2 Il futuro dei sistemi di relazioni industriali

Posto l’ormai trentennale declino della membership sindacale nel mondo occidentale, pur

accompagnato, nella maggior parte dei casi, da una persistenza del ruolo politico degli interessi

organizzati all’interno della società, resta da chiedersi in che direzione si stiano evolvendo i sistemi

di relazioni industriali nazionali. Le posizioni non sono unanimi, e, ancora una volta, si dividono tra

le teorie che indicano come possibile evoluzione una crescente convergenza sistemica, e quelle che

prevedono una persistenza delle diversità istituzionali, o, eventualmente, un’ulteriore

differenziazione. Nella prima delle seguenti sezioni verranno perciò analizzate le direzioni

intraprese dai diversi sistemi di relazioni industriali a seguito del periodo di crisi del sindacalismo

degli ultimi trent’anni, mentre nella seconda verrà esplorata la particolare rinascita delle politiche di

concertazione nazionale negli anni ’90 tramite la prassi dei c.d. “patti sociali”.

Convergenza o divergenza?

A seguito della crescente liberalizzazione e integrazione dei mercati mondiali si assiste alla

possibilità che regimi, una volta protetti e differenziati tra loro, siano spinti ad assomigliarsi sempre

più, dovendo adattarsi, a causa della crescente competizione internazionale, a convergere verso un

unico modello economico e di relazioni industriali, potenzialmente più adatto nel rispondere alle

sempre più forti pressioni competitive. In quest’ottica, in analogia con quanto già ipotizzato da

Clark Kerr e colleghi negli anni ’60 rispetto a una necessaria convergenza istituzionale causata dalla

“logica dell’industrialismo” sempre più diffusa e omogeneizzante [Trigilia 2002], alcuni autori

ipotizzano per il futuro una crescente convergenza tra i regimi economici, «in cui il meccanismo

che genera l’omogeneità delle economie politiche nazionali non è più la tecnologia ma la

competizione economica in un mercato mondiale aperto» [Streeck 2006, 35]. Una versione più

“indiretta e sofisticata” [Regini 1999] di tale approccio è proposta da Colin Crouch e Wolfgang

Streeck [1997]. Secondo i due autori, l’accelerazione del mutamento tecnologico, la rinnovata

concorrenza sui prezzi e la globalizzazione dei mercati finanziari, sono una serie di elementi che,

combinati, tenderanno a favorire sempre più quelle economie dotate di una grande rapidità di

reazione, cioè «un veloce cambiamento dei prodotti e l’abilità di tagliare i costi nel breve periodo.

Ciò risulta vero al punto che tale situazione favorisce i decision-makers che possono agire senza

dover cercare l’accordo all’interno delle proprie organizzazioni» [Crouch e Streeck 1997, 10-11].

Una struttura istituzionale più “snella”, dove ogni cambiamento sostanziale di politica economica

non vada discusso preventivamente a livello nazionale con le associazioni dei lavoratori e dei datori

di lavoro, risulterebbero comparativamente sempre più avvantaggiate. A ciò si aggiunge la radicale

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“scoperta”, degli anni ’80, di come la sopravvivenza dei governi democraticamente eletti può essere

assicurata anche con livelli di disoccupazione molto elevati, facendo apparire sempre più costose, in

un’ottica di mantenimento del consenso, generose concessioni ai sindacati: lo stesso elevato livello

di disoccupati, anzi, costituisce una potente arma per moderarne le rivendicazioni. Una seconda

“scoperta” fu quindi la possibilità dell’utilizzare le banche centrali indipendenti, sotto auspici

monetaristi, come strumento per contenere l’inflazione, piuttosto che dispendiosi accordi di tipo

corporativo [Streeck 2006]. Questo, però, non è significato necessariamente lo smantellamento di

qualsiasi tipo di regolazione sociale dell’economia: anche i mercati più deregolati (come

solitamente sono considerati gli Stati Uniti), presentano una serie di rigidità ed esperienze di micro-

regolazione tali da favorire quel clima di fiducia e quelle risorse creative che hanno un ruolo

fondamentale nello strutturare un’economia dinamica e competitiva, e la cui esistenza non può in

alcun modo essere assicurata dal semplice funzionamento del mercato (ad esempio l’utilizzo di reti

etniche e comunitarie negli Stati Uniti per il reclutamento di manodopera sulla base di estesi

rapporti di fiducia, o la densa rete di relazioni che unisce le imprese finanziarie, pur in concorrenza

tra loro, nella “City di Londra”). Piuttosto, le istituzioni formali largamente encompassing (come gli

organi corporativi di concertazione), «hanno maggiori probabilità di essere caratterizzate da un forte

potenziale di beni collettivi di quanto non siano i sistemi di mercato, ma ne hanno minori se si

considera la capacità di adattamento» [Crouch e Streeck 1997, 12]. In un contesto sempre più

competitivo, la globalizzazione economica crea una forte pressione a favore di politiche nazionali di

deregolamentazione e privatizzazione, ratificando la perdita di controllo degli stati sull’economia,

producendo tre effetti principali: la distruzione, o l’indebolimento, dell’insieme dei meccanismi

istituzionali atti ad assicurare una buona performance macroeconomica tramite il sostegno dello

stato alle organizzazioni di interessi (sindacati fortemente rappresentativi in primis); il crescente

vantaggio di quelle economie storicamente basate su un intervento dello stato relativamente

limitato; la convergenza delle economie capitaliste verso una “monocultura istituzionale” fondata su

mercati deregolamentati, causando una potenziale perdita della capacità complessiva di

performance. Perciò, riprendendo quanto sopra accennato, più che un avvicinarsi a una

regolamentazione di mercato pura basata su transazioni condotte da soggetti atomistici, «la

distruzione o la svalutazione della capacità statale provocate dalla globalizzazione svantaggiano le

economie istituzionali socialmente governate dalla politica a livello nazionale rispetto a quelle che

derivano i propri vantaggi istituzionali da costruzioni sociali di livello subnazionale-regionale o di

impresa» [Crouch e Streeck 1997, 23]. E’ quindi probabile che il processo di convergenza porterà

verso un sempre minore ruolo persuasivo e regolativo dello stato in modo generalizzato, ma

rimarranno delle persistenti differenze, relative però sempre più a «regioni subnazionali, settori

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Page 99: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

internazionali ed imprese istituzionali attive a livello globale» [Crouch e Streeck 1997, 25]: ad

esempio le peculiari forme di comunità aziendale giapponesi o i distretti industriali del centro Italia

e del Nord-Est. E’ altresì possibile una crescente associazione tra queste comunità locali e le forze

di mercato, tesa a spiazzare le istituzioni nazionali della contrattazione collettiva e la regolazione

governativa della politica sociale (un esempio di tale tendenza è fornita dal caso italiano, con

l’elezione di Antonio D’Amato alla presidenza di Confindustria nel 2000 a seguito di una stagione

di rinascita della concertazione, e «supportato da una larga coalizione di piccolo-medio imprenditori

delle regioni del nord-est, centrali e del sud, con un programma apertamente critico rispetto al

metodo della concertazione, considerato troppo rigido, istituzionalizzato e troppo spesso sottomesso

ai veti sindacali» [Pochet e Fajertag 2000, 33]).

L’internazionalizzazione dei mercati, con la conseguente convergenza delle politiche economiche e

del ruolo delle istituzioni, non significa però necessariamente de-nazionalizzazione. Riguardo al

processo di integrazione economica europea, sempre secondo Streeck, continuerà a esistere una

certa varietà di arrangiamenti istituzionali nella regolazione del mercato, dipendenti dalle specificità

nazionali. Piuttosto, una «accelerata convergenza funzionale sotto la pressione della competizione

tra regimi – cioè una crescente equivalenza funzionale – coincide con una lenta, o nulla,

convergenza strutturale, a causa della persistenza delle istituzioni nazionali e la limitata capacità di

intervento della governance sovranazionale» [Streeck 1998, 17]. Questo deriverebbe

fondamentalmente da un paradosso: il processo di integrazione europea si baserebbe sulla creazione

di istituzioni sovranazionali di mero coordinamento tra paesi, ma atte alla liberalizzazione dei

mercati, lasciando agli stati nazionali la responsabilità delle politiche sociali. In questo modo si

creerebbe uno spazio economico sempre più competitivo, ma, a causa della gelosia dei singoli stati

rispetto alle proprie prerogative politiche, verrebbe preclusa la costituzione di organismi di ri-

regolazione dell’economia a livello europeo realmente efficaci. Perciò, «in assenza di alternative

sovranazionali, le politiche nazionali e le relazioni industriali rimangono il luogo privilegiato per le

risposte ri-regolative all’espansione dei mercati. Questo a prescindere del fatto che i sistemi

nazionali dell’Europa odierna debbano operare contemporaneamente sotto le restrizioni istituzionali

di un regime di competizione sovranazionale e le restrizioni economiche della competizione

internazionale tra regimi» [Streeck 1998, 18]. L’interzia dei sistemi di relazioni industriali europei,

storicamente tesi ad assicurare sia l’espansione del mercato che la correzione delle sue inefficienze,

farebbe in modo che le stesse istituzioni si spostassero sempre più verso l’obiettivo di costruire

mercati competitivi, abdicando però alla funzione della loro correzione (un esempio ne sono i “patti

sociali” degli anni ’90 atti a rendere più competitive le economie nazionali senza pretendere le

contropartite caratteristiche dei patti corporativi dei decenni precedenti). Pertanto, un’inversione di

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tendenza rispetto alla convergenza funzionale delle istituzioni di regolazione del mercato potrebbe

avvenire esclusivamente se, a fianco delle forti istituzioni di integrazione del mercato, si

affiancassero istituzioni di ri-regolazione dello stesso dotate di sufficiente forza. Un’evoluzione in

senso corporativo dell’Unione europea (ben oltre il semplice Dialogo sociale) risulta però

estremamente improbabile, secondo Philippe Schmitter e Jürgen Grote [1997], fondamentalmente a

causa della mancanza da parte dell’Europa istituzionale di una capacità redistributiva autonoma e di

un equilibrio relativo delle forze di classe, per non parlare della possibilità di un’ulteriore crescita di

poteri analoghi a quelli degli stati nazionali. Tali sviluppi sembrano oltretutto essere costantemente

frenati in quanto «la maggior parte delle organizzazioni degli interessi nazionali non sono

disponibili a “sopranazionalizzarsi” ed a spostare la propria attenzione e la propria lealtà

esclusivamente a Bruxelles. I costi sono troppo elevati e l’incertezza di dipendere dalla

cooperazione di altri è troppo grande – specialmente quando ulteriori ampliamenti significano un

numero crescente di altri meno conosciuti e più variegati» [Schmitter e Grote 1997, 211].

Autori meno pessimisti, come Marino Regini o Franz Traxler, ritengono che, pur mutandosi e

riadattandosi alle nuove condizioni economiche, i sistemi di governo del mercato e le relazioni

industriali di tipo corporativo, lungi dal perdere le loro funzioni, stiano giocando e continueranno a

giocare in futuro un ruolo di primo piano, per quanto evolvendosi in direzioni differenti rispetto al

passato. Contrariamente a quanto sostenuto dalla “tesi della disorganizzazione” (cioè la previsione

del declino dei sistemi corporativi a causa della dannosità per la loro sopravvivenza delle imperanti

forze di mercato), Traxler [2003] rileva come tra il 1970 e il 1996 sia avvenuto uno spostamento

solo limitato, nella maggior parte dei paesi occidentali, dai sistemi di coordinamento volontario dei

salari nel rispetto dei requisiti macroeconomici (ragion d’essere del corporativismo) ai sistemi

pluralisti (ovvero del tutto non coordinati). Mentre tra il 1970-73 poco più del 10% dei 20 paesi

OCSE analizzati da Traxler assumevano forme non coordinate di politica salariale, nel 1994-96 tale

percentuale sarebbe salita al 30%. Contrariamente a quanto ipotizzato da Streeck, secondo Traxler

le funzioni corporative di coordinamento rimarrebbero maggioritarie (per quanto distribuite in modo

sempre più variegato tra diverse modalità possibili), mentre ne cambierebbero sempre più le forme:

si avrebbe in particolare un passaggio dal corporativismo classico di tipo scandinavo, alle forme di

coordinamento sostenute o imposte dallo stato, sempre più diffuse a partire dagli shock petroliferi

dei primi anni ’70, o a forme di pattern bargaining (in cui contratti di settore o d’azienda chiave

servirebbero a coordinare le rivendicazioni negli altri settori-aziende). In particolare l’autore

sostiene la non coincidenza tra funzioni e strutture del corporativismo: le funzioni di coordinamento

permarrebbero, mentre le strutture (identificate principalmente nel livello di contrattazione della

politica salariale e nel grado di governabilità del sistema, cioè il riconoscimento legislativo degli

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Page 101: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

effetti salariali della contrattazione collettiva e l’obbligo di pace durante la vigenza di un contratto)

subirebbero una generalizzata evoluzione verso il decentramento contrattuale. La crescente

disoccupazione degli anni ’70 e ’80 avrebbe infatti spinto sempre più verso un maggiore ruolo della

contrattazione aziendale: ma «il fatto che un livello di contrattazione cresce in importanza, non

significa necessariamente che prenda spazio a spese degli altri livelli […]. Questo segue dalla

complessa interazione delle multiformi questioni di contrattazione, dei sistemi di contrattazione

multi-livello e dall’interdipendenza degli agenti contrattuali, che aprono molteplici opzioni nel

distribuire gli obiettivi contrattuali tra i differenti livelli e attori» [Traxler 1995, 9]. Pertanto, più che

muoversi in un’ottica di decentralizzazione disorganizzata, i sistemi di relazioni industriali europei

starebbero subendo un processo di organized decentralization: vista la forza e il ruolo dei sindacati

ben oltre i confini delle singole imprese nella maggior parte dei paesi europei all’inizio degli anni

’80, un processo di decentramento tendente a eliminare completamente le precedenti forme di

contrattazione centralizzata sarebbe risultato addirittura controproducente rispetto alla performance

economica complessiva [Traxler 1995]. In particolare, negli anni ’80 il decentramento organizzato

si sarebbe volto alla devoluzione di un maggior numero di questioni ai livelli di contrattazione

settoriale, pur in un quadro di coordinamento centralizzato, mentre negli anni ’90 sarebbe cresciuto

il ruolo della contrattazione aziendale all’interno di una struttura di norma fissata a livello di settore

[Traxler 2003]. Il risultato sarebbe quindi il passaggio da forme di corporativismo classico a forme

di corporativismo “snello”: la crescente pressione competitiva internazionale e il concomitante

passaggio all’ortodossia economica, hanno alleggerito il “fardello” portato dai sistemi di

concertazione di interessi inclusivi e centralizzati nell’imporre la disciplina macroeconomica ai

gruppi di interesse, rendendo possibile un equipaggiamento meno pesante, fondato su una rete di

soggetti e livelli contrattuali differenti e più articolati. In questo modo «le forze di mercato vengono

deliberatamente utilizzate come veicolo per far corrispondere le politiche salariali coordinate

(incorporate nella contrattazione pluriaziendale e nella partecipazione associativa alle politiche

pubbliche) alle esigenze macroeconomiche» [Traxler 2003, 466].

Anche secondo Marino Regini [1999] i sistemi economici europei si starebbero muovendo in

maniera ambigua tra esigenze di mercato ed esigenze di coordinamento, non privilegiando una

direzione univoca, e facendo emergere, accanto ad aree effettivamente sottoposte a una crescente

deregolazione, un’alternativa concertativa, caratterizzata dalla «ricerca di un maggiore

coordinamento salariale per controbilanciare gli effetti del decentramento, di un maggiore controllo

per garantire il carattere selettivo e sperimentale dei processi di flessibilizzazione, e di un

coinvolgimento delle parti sociali per rendere il welfare compatibile con le esigenze di competitività

senza pregiudicarne la fondamentale funzione di consenso» [Regini 1999, 19]. La direzione

101

Page 102: Il recente declino della sindacalizzazione e il caso italiano

intrapresa dai diversi sistemi nazionali risulterebbe condizionata, ma non determinata, dai vincoli e

dagli incentivi offerti dal contesto istituzionale. Infatti, lungi dall’agire in perfetta coerenza con tale

contesto, «gli attori nazionali possono essere indotti a dare priorità a quella condizione che nel

proprio sistema è meno presente, [ad esempio decentralizzando laddove la contrattazione è molto

centralizzata], anche a costo di mettere a rischio i tradizionali vantaggi competitivi di cui godono

[…]. E’ altrettanto possibile che gli attori imprenditoriali siano determinati a sfruttare i vantaggi

competitivi di cui già godono, quanto invece che siano preoccupati di colmare le debolezze di cui

soffre il sistema in cui operano» [Regini 1999, 24]. Mentre in alcuni contesti la direzione del

mutamento può essere stabilita più facilmente e, spesso, consensualmente (a causa di un eccessivo

sbilanciamento di partenza verso il polo della coordinazione o del decentramento), nei sistemi già

vicini, o vicini in misura crescente, a una situazione intermedia tra i due poli (come nel caso

tedesco), tenderebbero a crescere le situazioni di incertezza, le ambiguità e le difficoltà degli attori a

concordare al proprio interno le priorità collettive. Pertanto, le diverse risposte tenderanno ad essere

in misura maggiore determinate dall’assenza o dalla presenza di vincoli e incentivi atti a mantenere

una situazione di equilibrio tra le esigenze di deregolazione e concertazione: «ciascuno degli attori

trova minori incentivi a rimettere in discussione i punti di convergenza già raggiunti se anche gli

altri continuano a sostenerli con convinzione» [Regini 1999, 28]. In situazioni di incertezza, la

cooperazione degli attori può rompersi molto più facilmente «in assenza di vincoli esterni, o di

regole del gioco modificabili solo con costi molto elevati ed effetti sistemici» [Regini 1999, 29], e i

mutamenti derivati tenderebbero a dipendere sempre meno dalle istituzioni preesistenti, e sempre

più dall’interazione strategica degli attori, determinando una varietà di risposte possibili sempre più

difficili da determinare a priori (in particolare dividendosi tra spinte di deregolazione o

decentralizzazione come principio generale o in un contesto di coordinamento centralizzato).

Un’evoluzione sempre più frequente delle vecchie strutture corporative centralizzate potrebbe

consistere nel crescente sviluppo di un corporativismo decentrato, basato su concertazione a livello

meso o micro [Streeck 2006]. Secondo Marino Regini [2003] i sistemi corporativi si starebbero

muovendo, in un’ottica di decentramento organizzato, in due direzioni principali: dalla

contrattazione collettiva centralizzata tra imprese e lavoratori come principio generale alla

contrattazione individuale (spinta dalla crescita dei lavoratori ad alta qualificazione e dalla

frammentazione del lavoro), e dalla contrattazione collettiva alla concertazione istituzionale tramite

patti sociali. Questo, come già messo in luce da Crouch e Streeck [1997], aprirebbe spazi per forme

concertative a livello inferiore, regionale o di impresa. Pertanto, se c’è un futuro «per il

collettivismo politico istituzionalizzato dopo la sterzata neo-liberale, molti credono sia nella

disposizione di beni collettivi richiesti per la competitività delle comunità locali, nel tentativo di

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realizzare una visione negoziata di vantaggi competitivi nazionali o regionali» [Streeck 2006, 30].

Se gli accordi a livello nazionale sono sempre più caratterizzati da un coordinamento senza

contropartite sostanziali per le associazioni dei lavoratori e una crescente devoluzione della

decisione degli standard a livelli inferiori, «una diffusione della concertazione a livello territoriale

può favorire lo sviluppo locale e contribuire a plasmare le istituzioni sociali necessarie perché si

sviluppino forme di “solidarietà competitiva”» [Regini 2003, 103]. Uno degli strumenti a sostegno

di una “localizzazione” della concertazione previsti dalla contrattazione collettiva in misura

crescente negli anni ’90 è la prassi delle c.d. opening clauses. Queste sono clausole di apertura,

solitamente contenute nei contratti collettivi negoziati a livello di settore, che permettono di

derogare in pejus, solitamente a livello di singola impresa o di area territoriale e sotto determinate

condizioni, ai minimi contrattuali negoziati ai livelli superiori. Possono essere distinte in clausole

d’uscita di emergenza, che permettono deroghe solo in determinate e temporanee condizioni di

particolare difficoltà economica, e clausole di deroga specifiche per particolari tipologie di imprese,

solitamente medio-piccole, che non riuscirebbero a rimanere sul mercato senza condizioni salariali

più favorevoli [Visser 2005]. Tale strumento normativo rientra pienamente nelle forme di organized

decentralization ipotizzate da Traxler, in quanto le modalità della deroga in pejus sono stabilite

categoricamente nei contratti di settore o nazionali, evitando così una deregolamentazione

incontrollata. Esperimenti di questo tipo si sono sviluppati con grande forza in Germania negli anni

’90, al fine di fronteggiare situazioni contingenti di crisi e assicurare la conservazione dei livelli

occupazionali. Sempre più contratti di categoria demandano la possibilità di derogare ai minimi

salariali, o alla contrattazione collettiva aziendale svolta dai sindacati, o al contratto d’azienda

stipulato dal betriebsrat; in casi “patologici” la flessibilità salariale o di orario è ottenuta tramite un

accordo informale tra il consiglio d’azienda e l’imprenditore, senza che vi siano disposizioni in

merito nel contratto di settore [Santagata 2005]. Attualmente, circa il 40% delle imprese tedesche

sotto la giurisdizione dell’IG-Metall presentano accordi di deroga al contratto di settore. Clausole

simili sono comparse anche in Danimarca, mentre in Olanda, Belgio e Austria, per venire incontro

alla richiesta di flessibilità delle le imprese, i contratti di settore hanno stabilito la possibilità di

scelta da parte dei lavoratori di diverse strutture salariali e di orario à la carte [Visser 2005]. In

Francia, già dagli anni ’80 sono state previste possibilità di deroga, contrattate collettivamente, a

norme di legge in ambito lavorativo, mentre con la legge Fillon nel 2004 si è arrivati a un maggiore

livello di flessibilità: sono aumentate le possibilità per cui un contratto d’impresa può derogare a

norme di legge, mentre, pur non potendo derogare ai minimi salariali disposti ai livelli superiori,

viene abolita la gerarchia normativa tra contratti di diversi livelli, rendendo valida per il lavoratore,

tranne nei casi in cui sia esplicitamente impedito dalla contrattazione collettiva condotta a livelli

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superiori, la norma negoziata al livello più vicino [Supiot 2005]. Infine, in Italia, clausole di

apertura soft sono state recentemente negoziate nel CCNL del settore chimico nel 2006, per quanto

solo in relazione agli aspetti normativi e fatti salvi i minimi salariali e i diritti individuali

irrinunciabili [Cella e Treu 2009], mentre nella direzione dell’introduzione di opening clauses alla

tedesca va il recente accordo interconfederale (firmato dalle sole CISL e UIL da parte sindacale il

15 aprile 2009), attuativo dell’Accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio

2009, laddove viene prevista (art. 5.1) la possibilità che «il contratto aziendale – se stipulato dalla

coalizione sindacale maggioritaria – deroghi al contratto nazionale, sia in materia retributiva, sia in

materia “normativa”; e questo sia in situazioni di difficoltà economica, dove è necessaria una

riduzione dello standard retributivo, sia, al contrario, nelle situazioni in cui la deroga è necessaria

per introdurre un’innovazione nell’organizzazione del lavoro non compatibile con il modello fissato

dal contratto nazionale» [Ichino 2009].

Patti sociali

Una delle particolarità del periodo di crisi del sindacato è stato, dopo il disorientamento portato

dagli anni ’80, la riscoperta delle pratiche corporative a partire dagli anni ’90 in quasi tutti i paesi

europei [Schmitter e Grote 1997]. In particolare, hanno guadagnato terreno quelle forme di

coordinamento e concertazione tra le parti definiti “patti sociali”, fondati su accordi tripartiti

(associazioni sindacali, imprenditoriali e stato), e tendenti sempre più a soppiantare le forme

corporative fondate sull’autonomia interassociativa di capitale e lavoro, con l’attore statale in

posizione di mediazione o di semplice supporto [Acocella et al. 2006]. I patti sociali possono venire

definiti analiticamente come «contratti formali tra il governo e le parti sociali, pubblicamente

annunciati, sulle linee di intervento riguardanti il reddito, il mercato del lavoro o le politiche di

welfare, che identifichino esplicitamente questioni e obiettivi di intervento, i mezzi nel conseguirli e

i compiti e le responsabilità dei firmatari» [Visser 2008, 6]. Tale definizione esclude, pertanto, gli

accordi taciti non pubblicizzati, le intese bilaterali senza un ruolo del governo e le dichiarazioni

d’intento generiche che non pongano particolari compiti o responsabilità (per quanto includa,

invece, anche gli accordi bipartiti in cui il governo abbia un ruolo determinante, per quanto

indiretto, per esempio tramite la minaccia di agire per via legislativa in caso di mancato accordo).

Per quanto i patti sociali facciano parte da tempo delle prassi corporative, pur con una distribuzione

irregolare e una diversa incidenza nel tempo, è possibile distinguerne due tipologie: i patti di prima

e di seconda generazione [Acocella et al. 2006]. La prima generazione, tipica degli anni ’60 e ’70,

era ispirata a principi keynesiani, cioè fondata su politiche monetarie accomodanti, espansione del

welfare state e redistribuzione del reddito, in un quadro di moderazione salariale assicurata dalla

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social partnership, di piena occupazione e maggiore regolazione del mercato del lavoro. Dagli anni

’90 (pur con qualche anticipazione negli ’80), la situazione risulta profondamente cambiata, e la

concertazione risulta sempre più mirata alla restrizione delle politiche sociali, a una moderazione

salariale atta a sostenere la competitività delle imprese e alla flessibilizzazione del mercato del

lavoro, in condizioni di crescente globalizzazione, alta disoccupazione e politiche monetarie

restrittive [Pochet e Fajertag 2000]. In pratica, «i patti nazionali degli anni novanta, a differenza

dello scambio politico degli anni settanta, hanno operato sotto gli auspici monetaristi piuttosto che

quelli keynesiani ed erano finalizzati, se non vincolati, a conformarsi ai mercati piuttosto che a

correggerli» [Streeck 2006, 25]. In una forma intermedia tra centralizzazione e

decentralizzazione\deregolamentazione (contrariamente alla solitamente elevata centralizzazione

degli accordi precedenti), i nuovi accordi tripartiti sarebbero tesi a mantenere quella “soglia sociale”

minima tra le esigenze di flessibilità e solidarietà, equità ed efficienza, inscrivendosi nel solco delle

tradizioni neo-corporative della maggior parte dei paesi europei [Negrelli 2000]. In contrasto con le

precedenti forme di coordinamento, le nuove prassi concertative possono essere ridefinite come

“corporativismo competitivo”: tratti caratterizzanti ne sarebbero la minore routinizzazione, la

relativa instabilità dovuta ai minori costi di uscita dall’accordo e il ruolo sempre più presente dello

stato direttamente nelle negoziazioni (rispetto alla consultazione periodica, gli elevati svantaggi

derivanti dalla defezione e il ruolo dello stato come mediatore esterno, tipici del corporativismo

classico scandinavo). Nella sostanza, invece, i nuovi patti sociali sarebbero tesi a perseguire due

classi principali di obiettivi: obiettivi distributivi, cioè relativi alle politiche dei redditi, alla riforma

dei sistemi di sicurezza sociale e al riavvicinamento, a un livello intermedio, delle protezioni tra

lavoratori centrali e marginali; obiettivi di produttività, cioè tesi a costruire un clima cooperativo

all’interno delle imprese, implementando la flessibilità funzionale del lavoro, contrattandone la

gestione il più vicino possibile al luogo di produzione [Rhodes 2001].

Tra il periodo ’70-’80 e il successivo ’90-’07, il numero di negoziazioni tentate nel concludere un

patto sociale, in un campione di 26 paesi OCSE, è aumentato, passando da 62 tentativi nel primo

periodo a 80 nel secondo. Anche la probabilità che i negoziati si concludessero positivamente con

un accordo è aumentata, passando dal 56% al 64%. Inoltre, col passaggio al ventennio ’90-’07, la

probabilità che fossero aperti dei negoziati è aumentata solo leggermente in aggregato, ma di molto

in alcuni singoli paesi (come l’Irlanda, la Finlandia e l’Olanda) [Visser 2008]. Anche i contenuti

sono variati notevolmente: i patti di seconda generazione tendono, una volta raggiunto l’obiettivo

della moneta unica, a riguardare sempre meno le politiche salariali, mentre entrano a far parte

dell’agenda della concertazione soprattutto la riforma del mercato del lavoro, dei sistemi di

sicurezza sociale e del loro finanziamento, anche spostando l’attenzione sui costi complessivi del

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lavoro, in buona parte derivanti dai contributi per le assicurazioni sociali [Pochet e Fajertag 2000;

Regini 2007]. In particolare, accordi tripartiti sui livelli salariali si sono diffusi nei primi anni ’90 in

un’ottica di contenimento dell’inflazione in vista dell’introduzione dell’Euro, per poi dedicarsi

principalmente ad altri temi negli anni successivi [Visser 2008]. La crescita dei patti sociali negli

anni ’90 ha, per molti paesi (soprattutto mediterranei), costituito un’importante possibilità

nell’istituzionalizzare una prassi concertativa tra le parti sociali e lo stato, partendo da una

situazione di sua sostanziale assenza (come in Spagna, Portogallo, Italia, Grecia e Irlanda). La

contemporanea assenza, l’instabilità o la sporadicità di tale prassi in Austria, Germania e Belgio (in

cui sono falliti diversi tentativi di patto sociale), pone invece dei problemi di de-

istituzionalizzazione di una prassi concertativa precedentemente presente, mentre in Olanda la

riscoperta della concertazione ha riportato a una re-istituzionalizzazione della stessa, già a partire

dall’accordo di Wassenaar del 1982, che anticipava i contenuti poi diventati tipici dei patti di

seconda generazione (riforma del welfare e rigore di bilancio, moderazione salariale, convergenza

delle tutele tra lavoratori centrali e marginali, decentramento della contrattazione) [Schmitter e

Grote 1997; Rhodes 2001]. Nei paesi scandinavi, con l’eccezione della Finlandia, non si è invece

assistito a una crescita della contrattazione tripartita, rimanendo i sistemi fondamentalmente basati

in modo volontaristico sulla concertazione tra associazioni dei lavoratori e delle imprese, per quanto

sempre più caratterizzata da una crescente articolazione dei livelli contrattuali, a favore di quelli

inferiori [Visser 2008].

Le motivazioni alle spalle della rinascita delle prassi concertative in Europa risiedono

sostanzialmente nella necessità, percepita dagli stati nazionali e spesso dalle associazioni dei

lavoratori e delle imprese, del rilanciare la competitività complessiva del sistema economico. In un

contesto di crescente globalizzazione, i mercati nazionali diventano meno appetibili in caso di

elevata inflazione o eccessiva tassazione delle rendite, il che spinge verso l’austerità monetaria e al

riaggiustamento della spesa sociale. L’evoluzione delle strutture socio-economiche verso la

specializzazione flessibile e l’economia dei servizi, inoltre, spinge verso una ristrutturazione dei

sistemi di lavoro, rendendo necessario una correzione dei presupposti del sistema fordista. Infine,

«sia la competizione da costi che la stabilità richiede un mezzo per prevenire lo slittamento salariale

e le pressioni inflazionistiche» [Rhodes 2001, 174]. In modo particolare, la crescente

disoccupazione e la scarsa crescita e produttività, hanno spinto innanzitutto i governi (da cui il loro

accresciuto ruolo di parte negoziale), nel cercare delle soluzioni negoziate con le parti sociali. La

possibilità di accordi tripartiti deriva principalmente dall’emergenza di «un’analisi consensuale tra

le parti delle implicazioni del cambiamento del sistema di produzione e la formulazione di

preferenze comuni per un basso livello di inflazione e un sistema di tassi di cambio stabili» [Pochet

106

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e Fajertag 2000, 18]. In particolare, l’interesse a partecipare dei sindacati può essere ascritto al

tentativo di mantenere (o creare ex novo) una certa influenza sul policy making e assicurare la

propria sopravvivenza come attori collettivi (ad esempio rafforzando il riconoscimento reciproco tra

le parti) [Regini 2003], mentre, in diversi casi, la condivisione degli obbiettivi dell’unificazione

monetaria hanno spinto le organizzazioni del lavoro ad accettarne i sacrifici necessari (in termini di

riduzione del deficit e del tasso di inflazione). Allo stesso modo, da parte delle associazioni degli

imprenditori, in una situazione di crescente incertezza può aver giocato a favore di una prassi

concertativa la ricerca di accordi con un ampio consenso, utili a stabilire un clima di fiducia e

cooperazione, piuttosto che puntare a un incerto e rischioso processo di decentramento sul modello

inglese [Pochet e Fajertag 2000], soprattutto in paesi in cui il sindacato è ancora un attore

particolarmente forte sia dentro che al di sopra delle singole imprese [Traxler 1995]. La crescente

integrazione economica, a livello europeo e globale, può poi portare a una «ridefinizione

“nazionalistica” degli interessi all’interno di un mercato internazionale, [e] può aprire opportunità

politiche, per quanto strettamente circoscritte possano essere, per i sindacati e i governi nel

negoziare patti sociali che sfruttino la dialettica dell’efficienza e dell’equità nella zona grigia tra

l’ampliamento e la distorsione del mercato» [Streeck 1998, 19]. In questo contesto, la necessità di

rispettare i criteri stabiliti per la partecipazione al sistema monetario europeo (bassi livelli di deficit,

debito pubblico e inflazione), è risultato, in paesi come Italia, Belgio, Grecia, Spagna e Portogallo,

uno stimolo particolarmente forte nello stabilire o nel riscoprire le prassi concertative [Rhodes

2001; Acocella et al. 2006], mentre specularmente l’assenza di patti sociali tripartiti negli anni ’90

nei paesi scandinavi è in parte riconducibile alla loro decisione di non aderire all’UME (oltre alla

disponibilità di un sistema di relazioni industriali ben collaudato) [Visser 2008]. La comunanza di

vedute su una situazione di forte crisi produttiva e occupazionale, invece, è stato un potente

incentivo nello stimolare l’inizio di una lunga stagione di patti sociali e concertazione in Olanda e

Irlanda già negli anni ’80 (a partire dal 1982 e dal 1987, rispettivamente), quindi ben prima che il

rispetto dei criteri di Maastricht si facesse pressante [Rhodes 2001]. Di contro, uno stato incapace di

sottrarsi al veto delle parti sociali (anche a causa di una struttura statale di tipo federalista), e meno

efficace nel suo ruolo di contrattazione con gli interessi sociali, può essere stato uno dei motivi dei

fallimenti dei tentativi di concertazione tripartita in Austria e Germania [Streeck 2004]: infatti

«l’implementazione, la continuazione e la reiterazione dei patti sociali può dipendere da un

intervento dello stato che “premi” la cooperazione e renda le strategie alternative costose per gli

attori. Questo presuppone che lo stato sia sufficientemente potente e abbia la capacità di minacciare

in modo credibile gli altri attori nei loro domini di pertinenza» [Visser 2008, 17].

La prassi dei patti sociali, in conclusione, non può essere considerata la “fine della storia” delle

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relazioni industriali europee. Nati in situazioni di emergenza, o in previsione del raggiungimento di

obiettivi contingenti (la partecipazione all’UME), i patti sociali «diventano sempre più difficili via

via che l’emergenza si allontana, a meno che tutti gli attori coinvolti abbiano nel frattempo

sviluppato capacità di apprendimento strategico. In assenza di nuovi e forti vincoli esterni […], la

capacità degli attori delle relazioni industriali di perseguire beni collettivi, o semplicemente i loro

interessi di lungo periodo, non si può affatto dare per scontata» [Regini 2007, 121]. Come nota Jelle

Visser, per quanto in un’ottica più ottimistica sulla persistenza di sistemi istituzionalizzati di

cooperazione tra le parti sociali, «tali investimenti in interdipendenza tendono ad avere effetti

cognitivi su come gli attori definiscono i loro interessi […]. Essi imparano a capire cosa non

chiedere [… Però] i risultati necessitano non solo di essere percepiti come un successo, in

qualunque modo, ma necessitano anche di essere visti come equi e giusti sul piano distributivo»

[Visser 2008, 20]. Quindi, mentre una prolungata (ormai lunga un ventennio) interazione strategica

tra i tre attori delle relazioni industriali spinge certamente verso una persistenza nella cooperazione,

«se nell’agenda della concertazione rimangono solo la deregolazione del mercato del lavoro e la

riforma del welfare, appare chiaro che acquisire influenza non porta più risultati apprezzabili, e i

sindacati sono tentati di passare dalla partecipazione a rapporti più antagonistici» [Regini 2003,

102-103]. Questo potrebbe portare a una impasse definitiva, in quanto, una volta persa la forza

associativa basata sul numero degli iscritti, perdere anche le capacità di influenza istituzionale sulla

regolazione dell’economia e del mercato del lavoro potrebbe rivelarsi il colpo di grazia per il

movimento sindacale. Molto del suo futuro, pertanto, dipenderà da come sarà capace di intercettare

le nuove domande di tutela provenienti da un mercato del lavoro in rapido cambiamento, in

particolare rendendosi appetibile per la crescente proporzione di lavoratori qualificati. Questo non

può avvenire in assenza di cambiamenti delle strategie sindacali. In particolare, non può avvenire se

la tutela rimarrà centrata esclusivamente su una base sociale che viene sempre più a mancare (il

lavoro full-time a tempo indeterminato nella grande impresa), e non si estenderà invece verso la

crescente proporzione di outsiders (i lavoratori marginali, flessibili e meno tutelati, localizzati in

piccole unità produttive), allontanandosi dalla tutela del posto e ampliandosi verso la tutela del

potere di mercato del lavoratore (cfr. par. 3.1). Allo stesso modo, una presenza più capillare a

livello di impresa, in grado, oltre che di fornire una protezione più vicina alle esigenze del

lavoratore, di giocare un ruolo positivo nella performance aziendale in un’ottica di condivisione dei

risultati della maggiore produttività, aiuterebbe a coinvolgere un maggior numero di lavoratori,

riportando a salire il numero di iscritti, e fornendo più garanzie di quelle che, con sempre maggiore

difficoltà, vengono fornite dai welfare states nazionali [Regini 2003; Ichino 2006]. Probabilmente

un sindacato “post-moderno” non assomiglierà al sindacalismo industriale affermatosi nel secondo

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dopoguerra. E’ però possibile, paradossalmente, che il sindacato torni a riscoprire le proprie radici,

recuperando vecchi strumenti ormai dismessi «del suo ricco patrimonio passato, proprio nel

momento nel quale a esso si rivolgeranno richieste pressanti di accettazione delle esigenze più

innovative dell’economia globalizzata e della produzione ad alta tecnologia. Anche da questi motivi

contrastanti nasceranno i suoi caratteri di post-modernità. Se il sindacato saprà interpretare questi

caratteri con coraggio e saggezza, con lungimiranza e passione, la speranza di continuare a giocare

ruoli di protagonista non sarà del tutto infondata. E il pericolo di perdere con il sindacato molti dei

tratti fondativi della democrazia pluralista potrà essere evitato» [Cella 2004, 130-131].

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