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1 Il nuovo apprendistato italiano: regolazione, diffusione e distanza dal modello tedesco First very draft version Autore: Ruggero Cefalo, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Dipartimento di Economia, Società, Diritto, PhD student (tutor: Professor Yuri Kazepov), junior researcher nel progetto Europeo INSPIRES (Innovative Social Policies for Inclusive and Resilient Labour Markets in Europe) - via Saffi 42 61029 Urbino, Italy. e-mail: [email protected], [email protected] Abstract Il contratto di apprendistato in Italia è stato recentemente oggetto di importanti modifiche, culminate nell’adozione del Testo Unico dell’Apprendistato (2011) e nella successiva strategia di promozione del “nuovo apprendistato” come principale canale di i ngresso per i giovani nel mercato del lavoro. Tuttavia, la diffusione di tale contratto nel contesto italiano risulta ancora limitata specialmente per le due forme di apprendistato che maggiormente insistono sull’alternanza scuola - lavoro. Nel presente articolo, saranno ripercorsi i principali mutamenti del quadro normativo che hanno portato alla definizione del nuovo apprendistato con l’approvazione del Testo Unico e i successivi sviluppi fino al decreto legislativo 81/2015. Sarà inoltre analizzata la diffusione del contratto di apprendistato in Italia, sottolineandone le rilevanti criticità e le forti disomogeneità territoriali. Nella terza parte dell’articolo, il sistema di apprendistato italiano sarà posto a confronto con il modello di apprendistato vigente in Germania, all’interno del sistema duale di formazione professionale. Dalla comparazione si trarranno indicazioni riguardo alle particolarità di carattere contestuale e alle criticità del caso italiano.

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Il nuovo apprendistato italiano: regolazione, diffusione e distanza dal

modello tedesco

First very draft version

Autore: Ruggero Cefalo, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Dipartimento di Economia,

Società, Diritto, PhD student (tutor: Professor Yuri Kazepov), junior researcher nel progetto

Europeo INSPIRES (Innovative Social Policies for Inclusive and Resilient Labour Markets in

Europe) - via Saffi 42 – 61029 Urbino, Italy.

e-mail: [email protected], [email protected]

Abstract

Il contratto di apprendistato in Italia è stato recentemente oggetto di importanti modifiche,

culminate nell’adozione del Testo Unico dell’Apprendistato (2011) e nella successiva strategia di

promozione del “nuovo apprendistato” come principale canale di ingresso per i giovani nel mercato

del lavoro. Tuttavia, la diffusione di tale contratto nel contesto italiano risulta ancora limitata

specialmente per le due forme di apprendistato che maggiormente insistono sull’alternanza scuola-

lavoro. Nel presente articolo, saranno ripercorsi i principali mutamenti del quadro normativo che

hanno portato alla definizione del nuovo apprendistato con l’approvazione del Testo Unico e i

successivi sviluppi fino al decreto legislativo 81/2015. Sarà inoltre analizzata la diffusione del

contratto di apprendistato in Italia, sottolineandone le rilevanti criticità e le forti disomogeneità

territoriali. Nella terza parte dell’articolo, il sistema di apprendistato italiano sarà posto a confronto

con il modello di apprendistato vigente in Germania, all’interno del sistema duale di formazione

professionale. Dalla comparazione si trarranno indicazioni riguardo alle particolarità di carattere

contestuale e alle criticità del caso italiano.

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1. Introduzione

Come contratto a causa mista che coniuga esigenze di formazione e inserimento lavorativo,

l’apprendistato mira a favorire l’integrazione dei giovani nel mercato del lavoro fornendo loro

abilità e competenze necessarie a svolgere occupazioni qualificate. Questo obiettivo è perseguito

mediante un legame variamente declinabile con il sistema dell’educazione e della formazione

professionale (iniziale o continua), che comporta un’alternanza tra formazione esterna e più

specifica formazione interna all’impresa (Commissione Europea, 2012).

Le ampie potenzialità in termini occupazionali e di sviluppo del capitale umano si riflettono tuttavia

anche nella complessità che caratterizza tale istituto. La configurazione specifica dell’apprendistato

e il suo impatto sulle fasce più giovani della forza-lavoro variano infatti fortemente a seconda del

paese considerato, in quanto influenzata da condizioni strutturali di contesto che rimandano alla

relazione tra sistema educativo, mercato del lavoro e sistema di welfare (Kazepov & Ranci, 2015).

A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, l’apprendistato ha progressivamente occupato una

posizione centrale nel campo delle politiche del lavoro italiane, in risposta agli alti livelli di

disoccupazione giovanile e dispersione scolastica (Anastasia, 2013). L’apprendistato tradizionale è

stato estensivamente riformato, traendo ispirazione dai modelli dei paesi dell’Europa Centrale e, in

particolare negli ultimi anni, dal sistema duale tedesco, ricevendo una compiuta configurazione

sistemica dopo l’intervento con intento di sintesi, regolazione e rilancio effettuato dal Testo Unico

dell’Apprendistato (decreto legislativo 167/2011). Il recente Decreto legislativo 81/2015, quarto

atto legislativo che compone il Jobs Act, costituisce l’ultima delle ripetute modifiche strutturali che

hanno interessato quest’istituto contrattuale con l’obiettivo di rilanciarne la diffusione. Nonostante

le importanti aspettative che hanno accompagnato infatti questa misura di policy, considerata lo

strumento fondamentale per la gestione dell’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, la

dinamica espansiva innescatasi dalla fine degli anni ’90 si è interrotta tra il 2008 e il 2009, sostituita

da una perdurante contrazione del numero di apprendisti.

Nel presente articolo, saranno ripercorsi i principali mutamenti del quadro normativo che hanno

portato alla definizione del nuovo apprendistato con l’approvazione del Testo Unico e i successivi

sviluppi fino al decreto legislativo 81/2015. Sarà inoltre analizzata la diffusione del contratto di

apprendistato in Italia, sottolineandone le criticità e le forti disomogeneità territoriali ma anche

cercando di tracciare un quadro di quelle che sono le caratteristiche attuali del sistema di

apprendistato diffuso oggi in Italia. Nella terza parte dell’articolo, il sistema di apprendistato

italiano così delineato sarà posto a confronto con il sistema duale di formazione professionale della

Germania. In particolare, a partire dalla letteratura scientifica sul tema, ci si concentrerà su alcune

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condizioni strutturali necessarie al funzionamento di tale sistema e ci si chiederà quindi se il

contesto italiano e il modello di apprendistato attualmente diffuso presentino presupposti favorevoli

alla costituzione di un sistema duale di formazione e lavoro.

Oltre ai dati provenienti dai periodici rapporti di monitoraggio dell’Isfol e dal Sistema delle

Comunicazioni Obbligatorie, le riflessioni sviluppate nel presente articolo si basano sulle interviste

a stakeholders ed esperti del mercato del lavoro italiano realizzate per il progetto di ricerca Inspires

- Innovative Social Policies for Inclusive and Resilient Labour Markets in Europe, co-finanziato

dalla Commissione Europea nell’ambito del Settimo Programma Quadro.

2. Costituzione e riforma del sistema italiano di apprendistato

In Italia l’istituto dell’apprendistato ha una lunga storia, essendo stato introdotto nell’ordinamento

italiano dalla legge 25/55, come speciale rapporto di lavoro per il quale all’apprendista assunto

dovevano essere impartiti, da parte dell’imprenditore, gli insegnamenti necessari per divenire

lavoratore qualificato all’interno dell’azienda. Con la progressiva deindustrializzazione del sistema

economico l’istituto ha conosciuto un lungo e progressivo declino, passando da 831.613 apprendisti

occupati nel 1969 a 393.138 nel 1997 (Isfol, 2013).

Nella seconda metà degli anni ’90 tuttavia, gli alti tassi di disoccupazione giovanile (oltre il 30%)

così come le difficoltà strutturali caratterizzanti la transizione dal sistema educativo al mercato del

lavoro, hanno condotto ad una rinascita dell’interesse verso tale tipologia contrattuale (Kazepov &

Ranci, 2015). Nel 1997 la legge Treu ha elevato il limite di età per l’assunzione da 20 a 24 o 26

anni abolendo inoltre i vincoli settoriali al suo utilizzo. La conseguente espansione del numero di

apprendisti fece emergere l’esigenza di regolamentare differenti percorsi per gruppi di potenziali

utenti, ad esempio i minori d’età. In quest’ottica, la legge 30/2003 e il decreto 276/03 modificarono

profondamente l’istituto: da un lato, la platea è stata ampliata ulteriormente essendo ammessi i

giovani fino a 29 anni; dall’altro, si è verificata un’importante espansione qualitativa

dell’apprendistato verso le fasce più qualificate, i laureati. In particolare, la riforma Biagi ha

previsto la differenziazione in tre livelli dell’apprendistato (accanto ad essi sopravvivrà ancora

l’apprendistato tradizionale regolato dalla legge Treu), introducendo una caratteristica strutturale

del sistema italiano destinata a durare tutt’oggi: contratto di apprendistato per l’espletamento del

diritto-dovere di istruzione e formazione (qualificante), contratto di apprendistato finalizzato al

conseguimento di una qualifica professionale (professionalizzante), contratto di apprendistato per

l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione (specializzante).

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La riforma dell’apprendistato è parte di un più ampio intervento sulle transizioni tra educazione e

formazione, da un lato, e mercato del lavoro dall’altro, finalizzato a innalzare l’inclusività del

mondo del lavoro rispetto ai nuovi entranti facilitandone l’ingresso e l’inserimento (Ministero del

Lavoro e delle Politiche Sociali, 2001). In quest’ottica, l’apprendistato viene considerato uno

strumento cruciale in quanto principale contratto di formazione e lavoro, atto al raggiungimento di

un titolo di studio e di una qualifica professionale al contempo. Piuttosto che strumento di

placement marcatamente aziendale del lavoratore nella specifica impresa, l’obiettivo (condiviso

negli anni seguenti dalle successive riforme, almeno dal punto di vista della retorica di principio) è

quello di assegnare all’apprendistato un respiro ben più ampio, come strumento di formazione

finalizzato all’integrazione nel mercato del lavoro nel suo complesso. Rispetto alla possibilità di

ottenere tramite il contratto di apprendistato anche titoli di studio più elevati (diploma di scuola

superiore e laurea universitaria), ambiziosa fonte di ispirazione è costituita innanzitutto dalle

sperimentazioni di quel periodo in Francia in materia di alto apprendistato.

Occorre sottolineare, tuttavia, come nella differenziazione introdotta dalla Legge Biagi convivano

tipologie contrattuali strutturate in modo differente dal punto di vista dell’integrazione tra

componente formativa ed esperienza lavorativa: l’apprendistato di secondo livello, finalizzato a una

qualifica contrattuale e maggiormente distaccato dal sistema di istruzione e formazione (quindi con

caratteristiche più tradizionali); l’apprendistato scolastico di primo e terzo livello, mirati al

conseguimento di un titolo di studio per mezzo di un’alternanza scuola-lavoro (Garofalo, 2014).

La riforma Biagi si inscrive all’interno di una dinamica espansiva dell’istituto, tuttavia la complessa

architettura istituzionale che prefigura si scontra con forti difficoltà di implementazione. Questi

elementi di criticità sono stati inoltre acuiti dall’impatto della crisi economica, che tra 2008 e 2009

ha contribuito in modo determinante all’inversione della tendenza espansiva perdurante da oltre un

decennio. In seguito il decreto legislativo 167 del 2011, risultato di mesi di lunghe negoziazioni tra

Governo, regioni e parti sociali, ha riformato la disciplina dell'apprendistato, abrogando la

normativa preesistente e riunendo in un Testo Unico tutte le precedenti norme che erano intervenute

nella regolazione dell’istituto. L’intento della riforma sistemica apportata dal Testo Unico era di

rilanciare l’apprendistato attraverso la costituzione di un sistema di “nuovo apprendistato” italiano

coerente e comprensivo. Il TU ribadisce la centralità dell’apprendistato nelle strategie di

inserimento lavorativo, definendolo un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato al

duplice obiettivo (causa mista) della formazione e occupazione dei giovani. Occorre notare,

tuttavia, che al termine del periodo di formazione il datore di lavoro può recedere dal contratto

senza ulteriori implicazioni. La strategia di promozione dell’istituto è connessa innanzitutto a

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incentivi di carattere economico (riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro, possibilità di

sotto-inquadramento dell’apprendista nella determinazione del salario).

Il decreto mantiene la struttura tripartita introdotta dalla legge Biagi, pur procedendo a una parziale

riorganizzazione delle tipologie (Treellle, 2013):

Apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, finalizzato al conseguimento della

qualifica o del diploma professionale di competenza regionale durante lo sviluppo di

un’esperienza lavorativa in un’azienda. È destinato a giovani dai 15 ai 25 anni per una

durata di 3 o 4 anni, a seconda della specifica area professionale considerate e delle

competenze richieste. Il monte ore di formazione esterna, pur variando a seconda delle

regioni, si attesta generalmente sulle 400 ore annue.

Apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere destinato a giovani dai 18 ai 29

anni e finalizzato al conseguimento di una qualifica contrattuale definita dalla contrattazione

collettiva, per una durata dai 3 ai 5 anni. L’elemento centrale è in questo caso la formazione

on-the-job, che dovrebbe fornire all’apprendista competenze tecniche specifiche, integrate

da una formazione esterna per l’acquisizione di competenze di base e trasversali. La

formazione esterna dovrebbe essere fornita dalle regioni per un monte ore complessivo pari

a 120 ore annue (sarà ridotto a 120 ore in tre anni da successivi provvedimenti), le parti

sociali dovrebbero inoltre avere un ruolo rilevante nella definizione delle modalità e

nell’effettiva gestione dell’attività formativa.

Apprendistato di alta formazione e di ricerca, destinato ai giovani tra i 18 ed i 29 anni di età

e finalizzato al conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore, di titoli di

studio universitari e dell’alta formazione (compresi i dottorati di ricerca), della

specializzazione degli Istituti tecnici superiori, nonché al praticantato per l’accesso alle

professioni ordinistiche o per esperienze professionali di ricerca. Il monte ore di formazione

esterna è definito a livello regionale oppure, in assenza della regolamentazione regionale,

dalle convenzioni stipulate dai datori di lavoro con le diverse istituzioni formative.

Viene inoltre introdotta una quarta categoria, di carattere residuale, che consente l’uso del contratto

di apprendistato anche per la riqualificazione di lavoratori in mobilità.

L’elemento più rilevante del TU risiede probabilmente nella introduzione di un sistema di

governance multilivello dell’apprendistato attraverso la costituzione di un network di cooperazione

tra Governo centrale, regioni e parti sociali (Teoldi e Garibaldi, 2012; Pastore, 2014).

Il sistema del “nuovo apprendistato” introdotto dal TU ha rivestito un ruolo centrale anche nella

successiva riforma del mercato del lavoro a seguito della legge 92/2012, in quanto “canale

privilegiato di accesso dei giovani al mondo del lavoro”. La legge stabilisce la durata minima del

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contratto di apprendistato, include gli apprendisti come potenziali beneficiari della nuova

Assicurazione Sociale per l’Impiego, fissa il rispetto di alcuni vincoli per l’assunzione di nuovi

apprendisti da parte dei datori di lavoro (rispetto di determinati rapporti tra apprendisti e lavoratori

qualificati, stabilizzazione di quote di apprendisti). Specialmente questi ultimi vincoli di

stabilizzazione incontrarono significative opposizioni dal lato delle imprese. La componente

formativa fu anch’essa modificata: gli obblighi formativi sono fortemente ridotti per l’apprendistato

di secondo livello (da 120 ore l’anno a 120 ore durante i tre anni di durata del periodo formativo) e

la formazione esterna è limitata alla formazione generale e trasversale, escludendo le competenze

tecniche e professionali.

Le modifiche della 92/2012 non esauriscono gli interventi in materia di apprendistato progettati dal

Ministro Fornero. Tra il 2012 e il 2013, sulle basi di una collaborazione con l’allora Ministro del

Lavoro tedesco Ursula Von der Leyen, di ripetuti incontri e missioni di studio in Germania, il

Ministero del Lavoro ha elaborato infatti un programma di interventi specifici e commisurati alle tre

tipologie di apprendistato al fine di: promuovere l’apprendistato come strumento privilegiato per la

creazione di impiego in lavori qualificati per le fasce più giovani della popolazione; accrescere la

convenienza del contratto di apprendistato per le imprese attraverso incentivi economici; rafforzare

la rete di attori e servizi coinvolti nella governance del sistema. L’obiettivo del governo era inoltre

quello di esercitare un ruolo centrale di coordinamento rispetto alla varietà delle procedure

amministrative caratterizzanti le regolazioni regionali in materia di apprendistato (per

l’implementazione della normativa, il TU rimandava infatti alla legislazione regionale). La

caratterizzazione socio-culturale dell’apprendistato in Italia rispetto a quella diffusa in altri paesi e

le problematiche connesse all’implementazione erano considerate i principali ostacoli alla

diffusione e al rilancio dell’istituto. Ciò che preme sottolineare in questa sede è la continuità rispetto

alla logica sistemica introdotta dal TU, che caratterizzava tale strategia, per la verità di breve durata,

che non si è poi ripetuto nei periodi successive. Dopo il governo Monti infatti, l’apprendistato non è

più stato al centro di un insieme coordinato di interventi e la via scelta è stata invece piuttosto quella

dei continui interventi normativi di modifica e ritorno, minando fortemente la stabilità dell’istituto

(Tiraboschi, 2015).

Negli anni successivi alla Riforma Fornero, visto il trend ancora calante delle assunzioni in

apprendistato e l’assenza dell’auspicata ripresa dell’istituto, si sono succeduti numerosi interventi e

modifiche legislative, intrecciandosi con la sempre maggiore attenzione attribuita a livello europeo

all’apprendistato come strumento di politica attiva e investimento sociale in grado di combattere la

disoccupazione giovanile e la dispersione scolastica attraverso un percorso di sviluppo del capitale

umano (Commissione Europea, 2012, 2013). Agendo su un sistema ancora lontano dall’essersi

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consolidato soprattutto dal punto di vista della regolamentazione regionale e della cooperazione tra

regioni e attori della contrattazione collettiva, gli interventi legislativi hanno mirato innanzitutto alla

semplificazione delle procedure e al progressivo alleggerimento degli obblighi formativi in capo

all’impresa, nonché alla riduzione dei vincoli di stabilizzazione. In questa direzione si sono mossi i

decreti legge 76/2013 (decreto Giovannini-Letta) e la legge 78/2014, conversione del decreto

34/2014 noto come decreto Poletti. La volontà di incentivare le assunzioni in apprendistato agendo

essenzialmente sulle leve della convenienza economica, delle semplificazioni e riduzione della

componente formativa (tendenza quest’ultima rintracciabile già dalla legge Fornero per quanto

riguarda l’apprendistato professionalizzante) sembra potersi leggere come un passo indietro rispetto

all’ambiziosa concezione dell’apprendistato come strumento di formazione finalizzato alla

preparazione a lavori altamente qualificati, nonché dall’obiettivo dell’occupabilità a medio e lungo

termine dell’individuo. Ad essere privilegiato è invece l’interesse specifico dell’impresa, in un

perdurante clima di diffusa diffidenza verso l’introduzione di una stabile componente formativa

all’interno del processo produttivo. Come vedremo nei paragrafi successivi, questa connotazione

marcatamente aziendale dell’apprendistato all’italiana è perfettamente espresso dal dominio

dell’apprendistato professionalizzante rispetto alle forme di apprendistato scolastico,

sostanzialmente introdotte dal 2003 ma ancora ferme, ad eccezione di alcune buone pratiche locali,

allo stadio di sperimentazioni (Di Monaco & Pilutti, 2012; Isfol, 2015).

Questo è dunque il contesto in cui interviene il decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81, recante la

disciplina organica dei contratti di lavoro al fine del riordino e revisione delle tipologie contrattuali

flessibili, che intacca nuovamente la logica sistemica del Testo Unico e introduce rilevanti

modifiche atte soprattutto alla riorganizzazione e promozione dell’apprendistato di I e III livello

(Tiraboschi, 2015). Il decreto comporta l’abrogazione del TU del 2011, fatta salva la disciplina

transitoria, e modifica l’articolazione interna delle tre tipologie di apprendistato, concentrandosi in

particolare su quelli che vengono ora denominati apprendistato per la qualifica e il diploma

professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione

tecnica superiore, apprendistato di alta formazione e ricerca. L’ampliamento delle finalità del I

livello si estende al conseguimento, oltre ai titoli triennali e quadriennali del sistema IeFP, ai titoli

di scuola secondaria superiore e a percorsi i IFTS. Il terzo livello conosce una corrispondente

riduzione, divenendo finalizzato al conseguimento di titoli dell’istruzione universitaria, ITS, attività

di ricerca e accesso a professioni ordinistiche. Elemento comune è la riduzione dei costi (riduzione

delle retribuzioni degli apprendisti, dal cui calcolo vengono escluse le ore di formazione).

L’obiettivo esplicito è quello della costituzione di un sistema duale integrato di formazione e

lavoro, incentivando il ricorso all’apprendistato di I e III livello (attraverso la riduzione delle

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retribuzioni e gli incentivi) rispetto a quello professionalizzante. Colpisce, tuttavia, come tale

intervento concentrato sull’apprendistato scolastico avvenga in un perdurante regime di separazione

tra scuola e lavoro, mancando l’occasione di integrazione sistemica tra le due aree. La riforma de

“La Buona Scuola” (legge 107/2015), nella sua versione definitiva, vede stralciato il riferimento

all’apprendistato e punta invece all’istituzione di un regime di alternanza scuola-lavoro, rinunciando

a quello che poteva essere un importante passo di integrazione dell’unico contratto a causa mista

formazione-lavoro nel sistema educativo italiano. Inizialmente inserito come strumento contrattuale

per mettere in pratica la metodologia dell’alternanza scuola-lavoro l’apprendistato (anche quello

c.d. “scolastico”) è ora infatti interamente regolato nell’appunto già citato decreto 81/2015, testo di

riforma delle tipologie contrattuali (Massagli, 2015).

Il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 rappresenta solo l’ultimo dei numerosi interventi

legislativi che, dopo il Testo Unico del 2011, sono intervenuti sulla cornice legale che regola

l’istituto, compromettendo la costituzione di un quadro normativo e istituzionale stabile e, di

conseguenza, rischiando di paralizzare l’azione di operatori economici e delle parti sociali chiamate

a trasporre le regole generali nella contrattazione collettiva di settore. Tali riforme sono state

accusate di mancanza di progettualità di ampio respiro, laddove le dimensioni dell’incentivo

economico/contributivo e la funzione sociale di disoccupazione giovanile sono state continuamente

privilegiate rispetto alla dimensione culturale che coinvolge l’importanza e la qualità della

formazione e della costruzione di competenze necessarie ad un mercato del lavoro sempre più

globalizzato e tecnologicamente avanzato (Massagli & Tiraboschi, 2015). I continui cambiamenti

normativi si sono così intrecciati alle criticità più profonde e di matrice anche culturale che

caratterizzano la nostra società, ostacolando lo sviluppo di un sistema di apprendistato stabile e

diffuso, in cui tale contratto rappresenti un effettivo strumento di investimento sociale per la

valorizzazione e sviluppo del capitale umano.

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3. La diffusione del “nuovo apprendistato” in Italia

Come detto, in risposta alla crisi dell’apprendistato negli anni ‘80 e ’90 ha inizio a partire dal 1997

una traiettoria di riforma e conseguente espansione dell’istituto fino al picco fatto registrare nel

2008 dal numero medio di contratti in apprendistato (644.592)1. La crisi economica ha poi

contribuito all’innesco di una pesante dinamica di contrazione: nonostante le importanti aspettative

degli attori politici e le continue riforme il declino di tale tipologia contrattuale è proseguito almeno

fino al 2014 (Isfol, 2015).

In questo senso, il XV rapporto Isfol (riferito agli anni 2013-2014) non evidenzia stabili inversioni

di tendenza: con qualche eccezione (ripresa del numero avviamenti di contratti in apprendistato nel

secondo semestre del 2014 rispetto al 2013) la cui tenuta andrà però valutata nel tempo, i numeri

continuano ad essere scoraggianti. Il rapporto fotografa ovviamente una situazione antecedente

all’entrata in vigore del decreto 81, e può quindi inizialmente apparire fuori sincrono rispetto ai

rapidi sviluppi normativi. In realtà, le modifiche apportate dal decreto e l’abrogazione del Testo

Unico, oltre a riguardare solo marginalmente il ben più diffuso apprendistato di secondo livello,

prevedono l’emanazione di un successivo decreto governativo per la definitiva configurazione degli

apprendistati “scolastici” (cui dovranno seguire gli adeguamenti normativi regionali). Fino ad

allora, durante il regime transitorio, varranno ancora le disposizioni del Testo Unico (Tiraboschi,

2015). Il rapporto Isfol risulta allora particolarmente utile nel contestualizzare l’attuale situazione

dell’apprendistato, discutendone mancanze e debolezze, al fine di comprendere se i cambiamenti

introdotti configurano, per il momento solo sul piano normativo, una risposta a tali lacune.

Lo stock medio dei lavoratori occupati in apprendistato risulta ancora in contrazione, seguendo un

trend che ha avuto inizio nel 2009. Nonostante le forti differenziazioni regionali, questo trend

accomuna sia le regioni del Centro-Nord, dove l’apprendistato è maggiormente diffuso, sia le

regioni del Sud del paese (Isfol, 2015).

1 Come sottolineato da Di Monaco & Pilutti (2012), I dati relative al numero di apprendisti non dovrebbero essere usati

come proxy per l’occupazione in apprendistato, poiché rappresentano un dato di flusso (persone che sono passate

attraverso tale condizione, sia pure per un breve periodo di tempo). Per questo motivo, Isfol (2012) propone un

indicatore maggiormente dettagliato, ovvero il numero medio di contratti di apprendistato (ottenuto dalla divisione per

12 del numero di contratti di apprendistato registrati mese per mese).

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Grafico 1: andamento dell’occupazione in apprendistato (numero medio di contratti), macro area di contribuzione,

1998-2013

Fonte: nostra elaborazione su dati Isfol, varie pubblicazioni

Il peso dell’apprendistato sul totale dei rapporti di lavoro avviati continua ad essere molto bassa

(intorno al 2-3%, si veda in proposito: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2014), e il

tasso di copertura della formazione pubblica resta fermo al 32% degli apprendisti occupati. Anche

in questo caso, i dati complessivi a livello nazionale nascondono tuttavia una forte segmentazione

su base territoriale, dal momento che il tasso di copertura delle attività formative si attesta intorno al

40% nel nord del paese, mentre cala bruscamente nel Centro e soprattutto nelle regioni meridionali.

Inoltre, i dati relativi alla durata effettiva dei contratti di apprendistato evidenziano la volatilità che

contraddistingue questo strumento contrattuale: solo il 16,5% delle cessazioni avviene al termine

del periodo formativo, una quota rilevante si verifica già entro il terzo mese (8,5% nella media dei

trimestri 2013), generalmente coincidente con il periodo di prova, ma soprattutto solo il 49,3% dei

contratti supera l’anno di durata (49,3%).

Guardando alle tipologie contrattuali coinvolte e alle caratteristiche degli apprendisti è possibile

trarre ulteriori indicazioni rispetto alla configurazione dell’apprendistato all’italiana. Innanzitutto,

nel 2014 si è finalmente concluso il lungo processo di recepimento e adeguamento delle normative

regionali anche per l’apprendistato di I e III livello (Italia Lavoro, 2015). Ciò è avvenuto tuttavia

con importanti differenziazioni territoriali sia nei tempi sia nei contenuti, mentre una quota rilevante

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100.000

200.000

300.000

400.000

500.000

600.000

700.000

1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012

Apprendistato in Italia (numero medio di contratti)

Nord Italia

Centro Italia

Sud Italia

Italia

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di amministrazioni regionali non ha comunque dato attuazione alle proprie discipline attraverso

l’emanazione di Avvisi, bandi, Linee guida volti alla definizione di una offerta formativa pubblica

per gli apprendisti e all’individuazione dei soggetti attuatori (Isfol, 2015). Tutto questo riflette il già

citato quadro di forte frammentazione territoriale nell’utilizzo dell’apprendistato, la cui diffusione si

concentra nell’Italia settentrionale (soprattutto nel Nord-Ovest) e in misura minore al Centro,

mentre appare molto più limitata nel Mezzogiorno.

Il sistema tripartito (apprendistato per la qualifica o il diploma professionale, apprendistato

professionalizzante o di mestiere, apprendistato di alta formazione e ricerca) soffre di un estremo

squilibrio laddove la tipologia di contratto professionalizzante copre oltre il 90% dei contratti di

apprendistato, mentre nel restante 10% confluiscono i contratti ancora in essere regolati dalla legge

Treu, e le altre due tipologie di apprendistato. Nel 2013, l’apprendistato per la qualifica e il diploma

professionale contava 3.405 iscritti, di cui 3.000 solo nella provincia di Bolzano, che ha sviluppato

una propria struttura in larga autonomia seguendo sostanzialmente l’organizzazione del sistema

duale tedesco. L’apprendistato di Alta formazione e ricerca, sempre nel 2013 ha fatto invece

registrare 503 iscritti.

La diffusione marginale del I e III livello è connessa anche alla concorrenza con l’apprendistato

professionalizzante che, a parità di esenzioni contributive e vantaggi fiscali, rappresenta uno

strumento maggiormente flessibile per le imprese, soprattutto visti i minori obblighi formativi

(Treellle, 2013). In questo senso, è significativo che tale contratto mostri dopo il 2008 una

diminuzione molto contenuta rispetto alle altre tipologie di apprendistato, ed anzi un leggero

aumento del numero medio di contratti a partire dal 2012. Ciò è probabilmente dovuto anche ai vari

interventi normativi che hanno perseguito l’obiettivo di sostenere tale forma contrattuale attraverso

la riduzione della componente formativa e la semplificazione delle procedure, principalmente dal

lato dell’impresa. Dal punto di vista degli equilibri reciproci tra le differenti tipologie di

apprendistato, come sottolineato nei paragrafi precedenti, la riforma apportata dal decreto 81/2015

introduce importanti cambiamenti, individuando nella diminuzione delle retribuzioni e negli

incentivi economici alle imprese la leva per aumentare la competitività e la diffusione degli

apprendistati scolastici rispetto a quello professionalizzante.

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Grafico 2: andamento dell’occupazione in apprendistato professionalizzante e altre forme di apprendistato (numero

medio di contratti), 2007-2013

Fonte: nostra elaborazione su dati Isfol, varie pubblicazioni

Per quanto riguarda la composizione per età della popolazione lavorativa in apprendistato, ad una

persistente prevalenza di apprendisti assunti tra i 20 e i 24 anni si affianca una crescita della

componente di 25-29 anni e una diminuzione di quella di 15-19 anni. La scarsa capacità di questo

istituto di fungere da effettivo canale di ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani e per

coloro che non hanno compiuto un percorso scolastico di livello secondario-superiore (considerato

il livello minimo per un accesso soddisfacente e consapevole non solo al mondo del lavoro, ma

anche alla società intesa in senso più ampio, come inclusione e partecipazione, si veda in proposito

OECD, 2014) è evidenziata anche dal bassissimo e per giunta calante numero di apprendisti

minorenni, in drastica diminuzione negli ultimi anni (da 7.568 nel 2010 a 2.592 nel 2013). In merito

all’incidenza degli apprendisti minori sul totale apprendisti, i giovani minori rappresentano nel 2013

una quota marginale pari allo 0,6% del totale degli apprendisti (Isfol, 2015).

Il quadro complessivo restituito dai dati è dunque quello di un sistema fortemente squilibrato,

laddove il “nuovo apprendistato” così come era stato regolato dal TU risulta dominato

dall’apprendistato di II livello mentre, al di là delle previsioni e degli auspici normativi, ad oggi le

due forme di apprendistato scolastico risultano avere una diffusione marginale, spesso ancora legata

a sperimentazioni e buone pratiche locali che stentano tuttavia a istituzionalizzarsi. Le

caratteristiche attuali del sistema di apprendistato italiano sono dunque sostanzialmente riferibili

all’apprendistato professionalizzante: esso si connota per una dimensione marcatamente

0

50.000

100.000

150.000

200.000

250.000

300.000

350.000

400.000

450.000

2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

Apprendistato professionalizzante

Nord Italia Centro Italia

Sud Italia Italia

0

50.000

100.000

150.000

200.000

250.000

300.000

350.000

400.000

450.000

2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

Altre forme di apprendistato

Nord Italia Centro Italia

Sud Italia Italia

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aziendalistica più che occupazionale (Di Monaco & Pilutti, 2012), per l’assenza di una compiuta

integrazione con il sistema educativo, per un’utenza sempre più composta da giovani adulti, per una

tendenza alla semplificazione degli obblighi formativi dell’impresa e all’indebolimento della

componente formativa come evidenziato dai recenti sviluppi di riforma di tale tipologia

contrattuale.

Le riforme succedutesi negli ultimi anni hanno condiviso il comune obiettivo di fare

dell’apprendistato il principale canale di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, nonché un

mezzo per combattere gli alti tassi di dispersione scolastica e disoccupazione giovanile che

caratterizzano il contesto italiano. Dal punto di vista dell’impatto occupazionale, i dati dimostrano

tuttavia come il sistema di apprendistato italiano non sia risultato uno strumento di policy efficace

nell’aumentare la resilienza del mercato del lavoro riducendo l’esposizione al rischio dei gruppi più

vulnerabili (nello specifico i giovani). Se ci riferiamo infatti alla definizione di resilienza come

capacità di reagire ad una situazione negativa proveniente dall’esterno, tornando autonomamente

alla situazione precedente l’evento (Giovannini, 2015; Bigos et al., 2013), possiamo concludere

come l’apprendistato non abbia rappresentato una misura di policy resiliente nel contrastare le

difficoltà incontrate dai giovani nel mercato del lavoro italiano: il suddetto movimento di reazione e

ripristino delle condizioni antecedenti lo shock (la crisi economica) non traspare dai dati a nostra

disposizione. Infatti, dopo il 2008 il declino dell’istituto si accompagna alle dinamiche di aumento

della disoccupazione giovanile, della quota dei NEET e di diminuzione del tasso di occupazione

giovanile.

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Grafico 3: confronto tra serie temporali riferite a tasso di occupazione, NEET, numero medio di contratti di

apprendistato (numeri indice, 2005 = 100), 1998-2014

Fonte: nostra elaborazione su dati Isfol e dati Istat

La misura appare scarsamente incisiva nell’agevolare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro,

né sembra costituire uno strumento di innalzamento delle competenze possedute degli apprendisti in

un contesto complessivo di miglioramento dello stock di capitale umano. Ciò è particolarmente

evidente vista la debolezza dei due apprendistati “scolastici”, ovvero che comportano un’effettiva

integrazione tra sistema educativo e mercato del lavoro attraverso una composizione di un percorso

formativo ampio e strutturato alternato a esperienze di lavoro e formazione in azienda.

4. La lunga rincorsa al modello tedesco

Complice anche lo stato di salute dell’economia tedesca e gli alti tassi di occupazione negli strati

più giovani della popolazione in età lavorativa, il modello tedesco di apprendistato (il sistema duale

di formazione e lavoro, filiera del più ampio sistema di istruzione e formazione professionale)

riceve una sempre maggior attenzione a livello internazionale ed è indicato come principale

50,0

60,0

70,0

80,0

90,0

100,0

110,0

120,0

130,0

1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014

Tasso di occupazione (15-24) Tasso di NEET (15-29)

Apprendistato (tutte le tipologie)

Legge Treu

Testo Unico

Legge Biagi

Decreto Giov.

Legge Fornero

Decreto Poletti

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esempio di buona pratica da esportare e a cui ispirarsi nell’istituzione di efficaci sistemi nazionali di

apprendistato (Wieland, 2015).

Nel 2013 il sistema duale in Germania coinvolgeva un totale di 1.430.000 apprendisti, con 530.000

nuovi contratti stipulati ed un’età media, all’inizio del percorso di apprendistato, di 19,5 anni

(Bundesministerium für Bildung und Forschung, 2014).

Tabella 1: confronto tra la tipologia di apprendistato maggiormente diffusa in Italia (professionalizzante) e

l’apprendistato in Germania (sistema duale), anni 2012-2013

Italia

Apprendistato professionalizzante

Germania

Apprendistato per la qualifica

Numero di apprendisti 470.000 1.430.000

Nuovi contratti ogni

anno 270.000 (stima) 530.000

Età di riferimento 18-29 16-29

Durata del contratto 3-5 anni Mediamente 3 anni

Livello della qualifica EQF 3-4 EQF 3-4

Retribuzione Inquadramento 1-2 livelli inferiori rispetto

alla mansione professionale/ 80-90% della

retribuzione di lavoratori qualificati di pari

livello

25-33% della retribuzione di un operaio

qualificato

Profili formativi Definiti dagli accordi di categoria Definiti dall’ordinamento nazionale

Qualifiche rilasciate Qualifiche contrattuali previste dal CCNL Definite 344 qualifiche professionali a

livello nazionale

Ore di formazione

esterna

120 in tre anni, regolamentate a livello

regionale

400 all’anno (in media), regolamentate a

livello nazionale e regionale

Formazione interna Definita dagli accordi di categoria Durata e contenuti disciplinati

dall’ordinamento nazionale

Partecipazione parti

sociali

Forte ruolo delle imprese e delle parti

sociali, soprattutto a livello contrattuale

Forte coinvolgimento nell’organizzazione

del sistema, nella definizione degli standard

di qualifica, nel controllo dei risultati

Responsabilità esami

finali

Piena responsabilità dell’impresa per

l’attribuzione della qualifica contrattuale

Camera di Commercio (prove teoriche e

pratiche fissate a livello nazionale)

Finanziamento

pubblico alle imprese

Rilevanti sgravi contributivi e fiscali,

incentivi all’assunzione

Nessuno sgravio contributivo o fiscale,

incentivi per imprese che assumono giovani

a rischio

Fonte: nostra elaborazione su Treellle, 2013

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Il richiamo al modello tedesco rappresenta una costante della retorica cha accompagna il dibattito

sull’apprendistato in Italia, nonché il principale punto di riferimento delle più recenti disposizioni

normative in materia: il decreto 81 esplicita in proposito di voler costituire una via italiana al

modello duale che caratterizza il sistema VET della Germania. Non sempre il dibattito sviluppatosi

ha tuttavia espresso consapevolezza del profondo radicamento di tale modello nel contesto

economico e socio-culturale della Germania e delle conseguenti difficoltà di esportazione in

situazioni e contesti differenti (Treellle, 2013; Weiss, 2014). Nel presente paragrafo non

scenderemo nei dettagli del sistema duale di istruzione e formazione professionale ma, basandoci

sulla letteratura scientifica in materia (si vedano, tra i numerosi contributi disponibili: Bosch, 2010;

Ballarino e Checchi, 2013; Solga et al., 2014), ci soffermeremo su alcune condizioni strutturali del

sistema duale e, attraverso il confronto con il “nuovo apprendistato” italiano, ci chiederemo se

l’esportazione o comunque la costituzione di un modello duale all’italiana rappresenti un obiettivo

effettivamente raggiungibile. Seguiremo dunque una metodologia di confronto per contrasto, che

caratterizza la sociologia storica comparativa (Skocpol, 1984), per cercare di comprendere se gli

elementi che stanno alla base del successo del sistema duale in termini di livelli di occupazione

giovanile e accesso a professioni qualificate, siano o meno presenti nel contesto italiano

caratterizzato, come detto, dalla prevalente diffusione dell’apprendistato professionalizzante . Si

ritiene infatti che tali aspetti, riguardanti il contesto socio-culturale di riferimento e il

coordinamento tra sistema educativo, mercato del lavoro e sistema di welfare (Kazepov & Ranci,

2015), rappresentino condizioni strutturali rilevanti per la costituzione effettiva di una via italiana al

modello duale, obiettivo espresso esplicitamente dal decreto legislativo 81/2015.

4.1. Dualità e dualismo

Il primo elemento da considerare riguarda la dualità, intesa come radicamento della formazione

degli apprendisti sia nelle aziende sia nel sistema scolastico statale di educazione e formazione

professionale (Lohmar & Eckhardt, 2013). Gli apprendisti generalmente trascorrono due giorni a

settimana negli istituti professionali (dove ricevono insegnamenti di carattere generale e basi

teoriche relative alle occupazioni di riferimento), questo periodo di tempo rappresenta una recente

estensione della formazione esterna dovuta ad un aumento del livello di conoscenze teoriche

richieste agli apprendisti (Bosch, 2010). Per quanto riguarda la formazione interna, le grande

aziende sono solitamente dotate di appositi centri di formazione, mentre per le aziende medio-

piccole acquisisce maggiore importanza la formazione direttamente on the job. È anche diffusa la

pratica di costituire centri di formazione esterni grazie alla collaborazione tra imprese.

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La compiuta integrazione tra sistema educativo e apprendistato rappresenta la spina dorsale del

modello tedesco ed è invece un elemento sostanzialmente mancante nel caso italiano: le difficoltà

dell’istituto si riflettono anche nell’incapacità di penetrazione nel sistema scolastico secondario

superiore e nell’istruzione superiore (università e ITS). Questa articolazione verso l’alto e verso il

basso, verso i più giovani e verso i dottorandi e i ricercatori rappresentava l’ambizione già della

riforma Biagi, dopo il periodo espansivo inaugurato dalla riforma Treu. In quell’ottica,

l’apprendistato era concepito sia come strumento per la lotta agli abbandoni scolastici prematuri,

secondo quella che è la vulgata del modello tedesco (che in realtà presenta molte più sfaccettature);

sia come strumento per gettare ponti duraturi tra istruzione e lavoro per mestieri di alta qualità e

formazione, secondo i tratti innovativi dell’apprendistato francese all’inizio degli anni Duemila (ma

non solo, visti i recenti sviluppi della formazione duale in Germania). Le esigenze che hanno

portato alla differenziazione dei livelli di apprendistato non sono stati però sufficienti a trainare lo

sviluppo dei contratti di primo e terzo livello. In questo senso, il recente decreto spinge verso la

promozione di queste forme scolastiche di apprendistato utilizzando tuttavia una leva

esclusivamente economica, la cui efficacia potrà essere valutata solo in futuro. Ciò che è certo,

tuttavia, è che il nuovo apprendistato non rappresenta ancora un elemento integrato nel sistema di

istruzione, come dimostrato anche dall’assenza di riferimenti nel testo definitivo della legge

107/2015, “La Buona Scuola”, per la riforma e riorganizzazione del sistema di istruzione e

formazione (Tiraboschi, 2015).

4.2. Attori coinvolti e valore dell’apprendistato

Il secondo elemento da considerare riguarda la complessa architettura relazionale di attori che

intervengono nel sistema duale, a partire dal ruolo delle parti sociali e delle camere di commercio,

dell’industria e dell’artigianato nel controllo e gestione della formazione. Nella governance di tale

sistema di alternanza rientrano poi ovviamente il governo federale, i governi statali, gli istituti

professionali, i centri per l’impiego. In particolare risulta spesso poco tematizzato il ruolo delle

camere di commercio, cui spetta la responsabilità delle supervisione del processo di formazione, la

conduzione degli esami intermedi e finali.

In Germania il sistema duale poggia su una complessa infrastruttura di collaborazione consensuale

tra attori profondamente radicata nella cultura e nel sistema socio-economico del paese. Si tratta di

una struttura consolidata e sedimentatasi negli anni, che è stata anche criticata per lentezza e

burocratizzazione, su cui riposa tuttavia la garanzia di qualità della formazione e conseguentemente

di opportunità positive sul mercato del lavoro (Commissione Europea, 2013). Il coordinamento del

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settore economico e dell’educazione richiede un’architettura complessa e altamente formalizzata

che non deriva semplicemente dalle norme, ma da più ampie tradizioni culturali e dialogo che

interessano, ad esempio, imprese e sindacati. Il sistema duale è stato istituito nel 1969 e da allora ha

mantenuto un impianto coerente, pur attraverso modifiche (l’ultima principale riforma risale al

2004-2005) finalizzate a mantenere il passo con gli sviluppi dell’economia e delle società moderne.

Non è certo la semplificazione la sua qualità distintiva (basti pensare agli attori coinvolti: sistema

educativo, imprese, sindacati, camere di commercio, centri per l’impiego, Länder e stato federale)

quanto piuttosto la paziente stabilizzazione nel tempo di un meccanismo oliato e consolidato,

rispetto al quale gli interventi legislativi recenti hanno agito in ottica di supporto e promozione,

senza intaccarne tuttavia la delicata e complessa logica sistemica. Non necessariamente quindi la

tendenza alla semplificazione che ha caratterizzato gli ultimi sviluppi normativi in Italia rappresenta

una garanzia di successo: l’alleggerimento degli obblighi procedurali e formativi potrebbe andare

anche a discapito dei controlli e delle garanzie di qualità in materia di formazione. Inoltre, la

debolezza del sistema italiano è anche inevitabilmente connesso e all’assenza di necessari e

sedimentati presupposti culturali. In Germania, nonostante le relazioni tra sindacati e associazioni

datoriali siano divenute più conflittuali, il tradizionale e radicato principio del consenso continua a

mantenersi saldo nell’ambito del sistema duale poiché gli interessi di entrambe le parti convergono

nell’attribuire valore a un sistema formativo in grado di formare lavoratori altamente qualificati con

forti vantaggi competitivi sul lungo periodo per le imprese; di garantire l’accesso a professioni

qualificate e ben retribuite per gli individui membri dei sindacati.

Nel sistema italiano, la valorizzazione innanzitutto culturale dell’apprendistato continua a mancare.

L’individuazione di questo gap culturale dell’apprendistato ha caratterizzato la strategia di

promozione dell’istituto progettata dal Ministero Fornero, finalizzata a contrastare la concezione

dell’apprendistato come contratto scarsamente appetibile e diretto soprattutto a lavori low-skilled,

necessitanti un basso livello di competenza. La concezione prevalente nel mondo delle imprese e in

generale nella nostra società italiana si riferisce infatti ad una versione informale di tale contratto,

secondo cui la formazione esterna all’impresa e la necessità di documentazione della stessa

vengono considerate tendenzialmente come impedimenti burocratici o addirittura ostacoli al

processo produttivo. Come sottolineato in precedenza, le ripetute modifiche degli ultimi anni hanno

condotto al depotenziamento, e non allo sviluppo, della logica sistemica introdotta dal Testo Unico

del 2011: i continui interventi legislativi impediscono la costituzione di un quadro normativo

istituzionale stabile che possa fungere da riferimento per gli adeguamenti normativi regionali, per le

azioni di operatori economici e del sistema di relazioni industriali chiamati a trasporre le regole

generali nella contrattazione collettiva di settore, per gli operatori del sistema educativo nel caso

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dell’apprendistato di primo e secondo livello (Massagli & Tiraboschi, 2015). L’irrisolto gap

culturale dell’apprendistato all’italiana è perfettamente espresso dalla supremazia del secondo

livello dell’apprendistato professionalizzante, dal continuo depotenziamento della dimensione

formativa, dall’espulsione dell’istituto dal testo de “La Buona Scuola”. Si tratta dell’idea per cui

l’apprendistato rappresenti principalmente un canale di inserimento nel mondo del lavoro per chi ha

avuto difficoltà nel suo percorso scolastico (i cosiddetti low achievers o gli early school leavers) e

che di conseguenza riguarda occupazioni o mestieri a basso livello di qualificazione, i cui contenuti

fondamentali si possano apprendere semplicemente tramite l’affiancamento e osservazione del

collega con più esperienza. La radice di questo gap sta anche nella profonda separazione tra

educazione e lavoro nel nostro paese, di cui il fallimento dell’alternanza scuola-lavoro e

dell’apprendistato scolastico rappresenta una logica conseguenza. Si tratta di un problema radicato

nel nostro sistema culturale e sociale, che ritroviamo ad esempio nella tendenze a lungo dominanti

della liceizzazione dell’istruzione secondaria, con marginalizzazione della formazione

professionale, specialmente di competenza regionale; e della conformazione unitaria dell’istruzione

superiore, con la sostanziale assenza di istituti non universitari (Trivellato & Triventi, 2015). Alla

separazione italiana si contrappone la già citata dualità del modello tedesco, dove la formazione

appare fortemente radicata sia nel sistema scolastico statale (gli apprendisti trascorrono due giorni a

settimana negli istituti professionali), sia nelle imprese (formazione sul posto di lavoro derivante da

una combinazione di esperienza lavorativa e in centri di formazione gestiti dalle imprese).

4.3. Occupazione e capitalizzazione delle competenze

Un terzo elemento riguarda il concetto di occupazione e di “occupational labour market”:

l’obiettivo della formazione nel sistema duale è infatti fornire all’individuo le abilità necessarie per

lavorare e agire in modo competente in ambiente di lavoro (Lohmar & Eckhardt, 2013). Le

certificazioni ottenute attestano il possesso di abilità che non sono specifiche rispetto all’azienda

formativa, ma si riferiscono alla più ampia occupazione per cui si è svolta la formazione. Questa

precondizione attribuisce al lavoratore importanti prospettive di capitalizzazione delle competenze

ottenute e di mobilità tra aziende differenti, all’interno della stessa occupazione o filone

occupazionale (Bosch, 2010). La certificazione qualitativa della competenze acquisite è mirato a

favorire il riconoscimento delle stesse da parte di altri attori economici e la possibilità di mobilità

del lavoratore tra differenti aziende, innescando una carriera fatta di progressi all’interno della

professione per la quale si è ricevuta la formazione. Requisito necessario è l’esistenza di un

repertorio di circa 350 professioni riconosciute come necessitanti formazione formale (e

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conseguenti standard formativi e professionali) a livello nazionale, in continuo aggiornamento per

via dell’azione congiunta delle parti sociali e del governo federale. Ancora una volta, si tratta di un

elemento altamente formalizzato basato su procedure consensuali, laddove il ruolo dello stato è per

lo più quello di riconoscere e realizzare il compromesso raggiunto tra lavoratori e datori di lavoro

(Solga et al., 2014).

In Italia, questo nodo fondamentale di congiunzione tra formazione e lavoro continua a mancare. La

strada era stata intrapresa dal Testo Unico e dal decreto 13/2013, che ha istituito il Repertorio

nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali. A tale repertorio,

che non è tuttavia ancora operativo, dovrà essere incluso il Repertorio delle qualificazioni

conseguite in apprendistato, il cui processo di costruzione da parte di un organismo tecnico è in

corso a partire dai profili professionali dell’apprendistato definiti nei contratti collettivi nazionali di

lavoro (Isfol, 2015). La frammentarietà di tali profili (Di Monaco & Pilutti, 2012) e l’inadeguatezza

delle metodologie adottate rispetto alle previsioni del Testo Unico rischiano di minare in partenza

tale percorso, rendendo il repertorio nazionale un elemento ritualistico di scarsa efficacia effettiva

(Pastore, 2014; Tiraboschi, 2015).

La costituzione di un quadro istituzionale coerente di riconoscimento e certificazione delle

competenze acquisite durante l’esperienza di formazione-lavoro costituisce una condizione

necessaria al funzionamento del sistema di apprendistato, in quanto prerequisito della possibilità di

mobilità tra aziende e progressione all’interno dell’occupazione per la quale si è stati formati. In

caso contrario, l’apprendistato rischia di diventare soltanto un mezzo per abbassare il costo del

lavoro dal lato dell’impresa mentre dal lato dell’offerta di lavoro il contratto perde di attrattività per

i giovani e il suo potenziale positivo per la competitività economica risulta irrealizzato.

Dobbiamo dunque registrare la perdurante assenza di un repertorio nazionale delle competenze,

capace di collegare figure professionali a corrispondenti standard formativi e criteri di valutazione.

Da quanto detto deriva la descrizione di un apprendistato spiccatamente aziendale finalizzato al

conseguimento di qualifiche contrattuali e competenze fortemente firm-specific che ostacola

processi più ampi di capitalizzazione delle competenze acquisite (Casano, 2015).

5. Conclusioni

Nel presente contributo abbiamo delineato le principali caratteristiche dell’attuale sistema italiano

del “nuovo apprendistato”. Tale obiettivo è stato perseguito attraverso: la ricostruzione del processo

di riforma che ha interessato l’istituto dalla fine degli anni Novanta fino ad arrivare al recente

decreto legislativo 81/2015; l’analisi dei dati relativi alla diffusione del contratto di apprendistato

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(differenti tipologie contrattuali, caratteristiche dell’utenza) in Italia. In seguito, considerando

l’ambizione del suddetto decreto di costituire una via italiana al modello duale di formazione e

lavoro, abbiamo proposto un confronto con il sistema duale tedesco. In particolare, ci siamo chiesti

se nel contesto italiano e nell’attuale configurazione del nostro modello di apprendistato

(caratterizzata dalla prevalenza dell’apprendistato professionalizzante) sussistano alcune condizioni

strutturali considerate come prerequisiti fondamentali al funzionamento del sistema di apprendistato

vigente in Germania.

Il confronto ha evidenziato l’importante distanza tra i due paesi rispetto ai seguenti punti:

L’integrazione dell’apprendistato nel sistema di istruzione e formazione professionale.

L’esistenza di una cornice istituzionale consolidata e radicata, e di una forte valorizzazione

culturale dell’apprendistato.

L’esistenza di un sistema di certificazione delle competenze che consenta di riconoscere e

capitalizzare la formazione ricevuta dall’apprendista all’interno di un mercato del lavoro

occupazionale.

Gli elementi segnalati fanno crescere il dubbio che l’importazione “sulla carta” di una buona pratica

culturalmente e socialmente radicata in un particolare contesto, attraverso il ricorso a continui

richiami di principio e modifiche legislative possa davvero risultare una soluzione percorribile. I

dati periodici del monitoraggio Isfol gettano infatti ombre sui possibili sviluppi di riforme

finalizzate al repentino passaggio da un istituto costruito attorno al risparmio

economico/contributivo e alla funzione sociale di contrasto alla disoccupazione giovanile, ad uno

strumento di investimento in competenze e abilità professionali finalizzato ad un’occupazione di

qualità.

Se anche la recente normativa mostra una chiara volontà di promozione dell’apprendistato

scolastico, ciò non avviene sulla base di una coerente ristrutturazione del rapporto tra sistema

educativo e mondo del lavoro, ma piuttosto parallelamente ad essa. Resta inoltre aperto il problema

della struttura di implementazione, rimandato a un successivo decreto, questione rispetto alla quale

il Testo Unico aveva introdotto rilevanti innovazioni, ma che è stata poi ampiamente tralasciata dai

successivi interventi legislativi (Massagli & Tiraboschi, 2015). In un contesto in cui appare

particolarmente complesso realizzare investimenti efficaci nel sociale a causa della mancanza di

necessarie precondizioni strutturali (Kazepov & Ranci, 2015) e in cui anche il time-frame (Bonoli,

2007) caratterizzato dalla depressione economica e dai vincoli dell’austerità risulta particolarmente

sfavorevole, si è proceduto attraverso continue modifiche togliendo certezze agli operatori, invece

di implementare una normativa largamente condivisa e la logica sistemica del “nuovo

apprendistato” introdotta dal Testo Unico. Questo ha impedito la costruzione di una stabile

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architettura istituzionale (Commissione Europea, 2013), da innestare necessariamente sulle

caratteristiche del nostro contesto economico, sociale e culturale, nell’ambito della quale

implementare un sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro incentrato sulle competenze e

la formazione dei giovani.

References

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Ballarino, G., & Checchi, D. (2013). La Germania può essere un termine di paragone per l’Italia? Istruzione

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Bonoli, G. (2007). Time Matters: Postindustrialization, New Social Risks, and Welfare State Adaptation in

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