il granello di senape 170 n.2/2016 - aprile 2015
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Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015TRANSCRIPT
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REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE – Str. S. Martino, 144 – 12022 BUSCA (CN) – tel. 0171 943407 – e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo – Editore: Associazione La Cascina – Direttore Responsabile: Gianluigi Martini – Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN).
L’enciclica Laudato si’ Uno sguardo d’insieme ai punti salienti
La Laudato si' (LS) di papa Francesco è un’enciclica davvero sorprendente nella sua attualità, aspettata e accolta con grande favore sia all’interno che all’esterno della Chiesa, nonostante quelle inevitabili critiche da parte di alcune frange legate a quel sistema economico e ideologico che l’enciclica fortemente denuncia.
PASSAGGIO EPOCALE. Non ci sono dubbi che questa enciclica ha segnato un approfondimento nella riflessione del magistero sociale della Chiesa cattolica. Normalmente si stabilisce che il primo documento importante di riflessione sociale sia stata la Rerum novarum (1891) di Leone XIII, in cui la questione sociale era la questione operaia, con la richiesta di giustizia sul lavoro. Negli anni ’60 con l’enciclica Populorum Progressio (1967) di Paolo VI, la questione sociale si era trasformata in critica a un modello di sviluppo che stava provocando una contrapposizione feroce tra nord e sud del mondo, tra chi era impoverito perché sfruttato dall’occupazione e dal neocolonialismo e chi invece stava benissimo perché aveva sfruttato i territori coloniali. Oggi la Laudato si’ pone una domanda radicale a tutti gli uomini e tutte le donne: saremo in grado di garantire un futuro al nostro pianeta e quindi a quell’umanità che lo abita? Ma soprattutto l’enciclica opera, a detta di molti, una ‘rivoluzione copernicana’ a motivo del rovesciamento della prospettiva antropocen-trica, promuovendo un’idea di uomo in armonia col creato, fuori da una pretesa di dominio tra le creature e dentro una logica di cura e di servizio alla “casa comune”. Lo stile sinodale che guida questa enciclica - grazie alle tante citazioni di conferenze episcopali nazionali - , e il respiro ecumenico e interreli-gioso – novità assoluta in un documento pontificio - , sono grandi segni di speranza attesi da tempo da una buona parte di cristiani e fanno sperare per un rinnovato lavoro comune delle religioni per la giustizia e la pace nel mondo: “La maggior parte degli abitanti della terra si dichiarano credenti, e questo dovrebbe spingere le religioni ad entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità” (n. 201).
CASA COMUNE. Quindi la Laudato sì’ chiarisce la concezione di papa Francesco sul rapporto tra Chiesa e mondo. La Chiesa è concepita come parte di un mondo più ampio, che l’enciclica chiama ‘casa comune’, di cui fa parte e con cui entra in relazione. Da questo scambio la Chiesa è
Notiziario di comunità e gruppi – aprile 2016
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arricchita (n. 7) e al mondo essa offre il proprio contributo (n. 216) a un’impresa che sta a cuore a tutti: la cura della casa comune (n. 14). Si tratta di un contributo prezioso, anzi indispensabile, al pari di quello di tutti i saperi e tutte le forme di saggezza che l’umanità ha elaborato (nn. 63 e 110), ma non è certo il solo a essere risolutivo. Anzi, è l’idea stessa che la soluzione possa venire da un unico punto di vista a costituire una parte del problema: «i problemi più complessi del mondo attuale, soprattutto quelli dell’ambiente e dei poveri, [...] non si possono affrontare a partire da un solo punto di vista o da un solo tipo di interessi» (n. 110). Se l’enciclica è chiara nell’af-fermare che scienza e tecnologia non possono ritenere di essere detentrici della chiave unica e ultima di accesso alla realtà, non lo fa certo per rivendicare quel ruolo alla teologia o alla Chiesa; infatti – aveva già affermato Evangelii Gaudium (EG) – «né il Papa né la Chiesa posseggono il mono-polio dell’interpretazione della realtà sociale o della proposta di soluzioni per i problemi contem-poranei» (EG, n. 184). Se la realtà è un poliedro, la Chiesa non può concepirsi se non come una delle facce che lo costituiscono. “Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro” aveva espresso papa Francesco nell’Evangelii Gaudium (n. 49). L’attenzione con cui la Laudato si’ si mette in ascolto della scienza e l’apprezzamento verso il lavoro svolto dai movimenti ambientalisti (n. 13) per tanti studiosi sono segni di una volontà di riconciliazione che fa sperare molto per il futuro. SGUARDO E ASCOLTO DEI POVERI. La Laudato si’ prende le mosse dallo sguardo sulla bellezza della creazione (n. 1) e dall’ascolto di un drammatico grido: la terra, nostra madre e nostra sorella, «protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei» (n. 2). L’intera enciclica può essere considerata un approfondimento, sotto una molteplicità di prospettive, delle radici e delle implicazioni di questo sguardo pieno di affetto che abbraccia ogni creatura e di questo ascolto, con l’obiettivo di convincere l’umanità intera ad assu-mere un atteggiamento contemplativo nei confron-ti della creazione e contemporaneamente a passa-re a una più decisa azione in risposta «tanto [al] grido della terra quanto [al] grido dei poveri» (n. 49). In fin dei conti si tratta dello stesso grido: da un parte, infatti, è sui poveri che si abbattono le conseguenze più catastrofiche del degrado ambien-tale (n. 25), dall’altra «fra i poveri più abbando-nati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e deva-stata terra» (n. 3). Francesco, quindi, ci rimanda a un’etica del volto, all’invito che il vangelo ci fa a correre il rischio dell’incontro responsabile (che dà risposta!) col volto dell’altro, perché è proprio nella dissolvenza dei volti che dobbiamo ricercare la causa di tutte le guerre e dei conflitti tra persone. L’etica del volto è vista come antidoto e
proposta per umanizzare questo mondo. Etica del volto, che è imparare a rileggere l’insieme delle cose muovendo dallo sguardo dei poveri, degli emarginati, di coloro che la società e l’economia “scartano” ritenendoli inutili. Questa è l’opzione preferenziale per i poveri (n. 158) che deve diventare prassi quotidiana di una Chiesa fedele al suo maestro. CURA E BELLEZZA. Per capire la profonda riflessione proposta dall’enciclica occorre quindi un salto di qualità: lasciare la prospettiva dell’ ‘usa e getta’ per imparare la bellezza della ‘gratuità’. Papa Francesco in più passaggi fa intendere che il grande miracolo della creazione consiste nel fatto che Dio ha creato qualcuno capace di esclamare “che bello”: l’uomo. C’è speranza che le cose cambino, perché questo uomo è capace di ricono-scere la bellezza, è capace di manualità per costruirla e di progettualità per sognarla! Ma soprattutto è capace di fraternità, che a ben guardare è già esperienza condivisa di bellezza. Il prendersi cura della creazione è allora la risposta gioiosa a questo mistero di bellezza in cui siamo inseriti. Una cura che non ha niente a vedere con l’antropocentrismo dispotico che promuove una umanità mediocre, capace solo di accaparrare, sfruttare e calpestare. Cura che si fa quindi denuncia decisa - senza se e senza ma - di quel sistema economico e tecnocratico che promuove la cultura dello scarto ambientale e di persone, che si alimenta del pensiero unico della finanziarizzazione e si affida a poteri estranei e lontani dalla realtà del popolo, che favoriscono un’economia non inclusiva ma esclusiva. BENE COMUNE, BENI COMUNI E POLITICA. La Chiesa non pretende di sostituirsi alla politica, ma il Papa invita ad un dibattito onesto e trasparente, perché le necessità particolari o le ideologie non ledano il bene comune. Il giudizio sul passato è severo: “I Vertici mondiali sull’ambiente degli ultimi anni non hanno risposto alle aspettative perché, per mancanza di decisione politica, non hanno raggiunto accordi ambientali globali realmente significativi ed efficaci” (n. 166). Il Papa si chiede perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo. Serve una governance mondiale: “abbiamo bisogno di un accordo sui regimi di governance per tutta la gamma dei cosiddetti beni comuni globali”, visto che “la protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente” (n. 174), scrive riprendendo le parole del Compendio della dottrina sociale della Chiesa. Papa Francesco insiste sullo sviluppo di processi decisionali onesti e trasparenti, per poter
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discernere quali politiche e iniziative impren-ditoriali potranno portare ad un vero sviluppo integrale. In particolare, lo studio dell’impatto ambientale di un nuovo progetto “richiede processi politici trasparenti e sottoposti al dialogo, mentre la corruzione, che nasconde il vero impatto ambientale di un progetto in cambio di favori, spesso porta ad accordi ambigui che sfuggono al dovere di informare e ad un dibattito appro-fondito” (n. 182). Particolarmente incisivo è l’appello rivolto a chi ricopre incarichi politici, affinché si sottragga “alla logica efficientista e “immediatista” oggi dominante: “se avrà il coraggio di farlo, potrà nuovamente riconoscere la dignità che Dio gli ha dato come persona e lascerà, dopo il suo passaggio in questa storia, una testimonianza di generosa responsabilità” (n. 181). CONSAPEVOLEZZA, EDUCAZIONE E NUOVI STILI DI VITA. C’è una costatazione fonte di forte preoccu-pazione: la gravità della situazione è sotto gli occhi di tutti, ma molti – forse la maggioranza – non sono disponibili a prenderne consapevolezza (n. 59)! La ricerca di soluzioni è ostacolata da atteggiamenti che «vanno dalla negazione del problema all’indif-ferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche» (n. 14). È un problema che riguarda anche i cristiani e vale la pena leggere queste parole così forti e chiare: “alcuni cristiani impegnati e dediti alla preghiera, con il pretesto del realismo e della pragmaticità, spesso si fanno beffe delle preoccupazioni per
l’ambiente. Altri sono passivi, non si decidono a cambiare le proprie abitudini e diventano incoe-renti. Manca loro dunque una conversione ecolo-gica, che comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo che li circonda. Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana …”. Siamo chiamati quin-di ad una conversione ecologica personale ed ec-clesiale. Nell’ottica di fede significa “lasciar emer-gere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni col mondo che ci circonda” (n. 217), per arrivare alla “amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda comunione universale” (n. 220). Queste conseguenze sono chiamate nuovi stili di vita, nuovi comportamenti, nuove pratiche, stili di vita alternativi, piccole azioni quotidiane; nascono dal basso e dal di dentro, cioè sono un frutto di una educazione che tira fuori da ogni persona il meglio di sé. IL QUOTIDIANO, LA SOBRIETA’ E LA TENEREZZA. Per poter avviare questo cambiamento degli stili di vita non bisogna pensare di fare cose straordinarie, fuori dalla nostra portata, ma occorre partire dalla nostra vita quotidiana, cercando di cambiare le nostre scelte quotidiane, da quando ci alziamo a quando andiamo a dormire. Fondamentale diventa scoprire il valore della sobrietà, che è metterci nella strada della liberazione e non della priva-zione. Liberarci da tutto quello che è superfluo e dai vari bisogni indotti, che ci ostacolano a vivere bene e a gustare le cose semplici della vita. Vivendo nella tenerezza, che è l’opposto della violenza, della prevaricazione, ma ci porta nel cuore di Dio Padre, perché “ogni creatura è oggetto della tenerezza del padre, che le assegna un posto nel mondo” (n. 77). Il tutto vissuto nella speranza: “Camminiamo cantando! Che le nostre lotte e la nostra preoccu-pazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza” (n. 245).
Flavio Luciano [Questi miei brevi appunti tengono conto di tutto ciò che sull’enciclica già è stato scritto nel bell’articolo di Gigi Garelli sul Granello n. 169, pagg. 5-6.]
La vignetta di questa pagina ci è stata disegnata per l’occa-
sione da Paco, che ringraziamo affettuosamente. Tutte le
altre vignette, tratte dal web (www.irancartoon.ir , in parti-
colare) hanno per tema le migrazioni, i rifugiati, i morti in
mare, i respingimenti. Parecchie di esse fanno parte
dell’album “The Exibition of Cartoon about Drowned
Refugee Syrian Kids”. Le fonti da cui le abbiamo tratte ci
fanno ritenere che il loro uso sia non soltanto libero, ma
addirittura raccomandato. Da parte nostra non abbiamo
nessun intento commerciale, ma ci sentiamo uniti e solidali
con tutti quelli che difendono i diritti dei più deboli.
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SOMMARIO
FLAVIO LUCIANO, Laudato si’. Uno sguardo d’insieme ai punti salienti La scelta redazionale è stata di costruire questo numero attorno ai temi dell’enciclica e quindi ad essi fanno riferimento molti degli altri contributi. I drammatici fatti degli ultimi tempi ci hanno poi spinti ancora una volta a dare spazio al tema delle migrazioni, e in qualche articolo le due tematiche si sono anche incontrate.
GIGI GARELLI, Hai voluto il riconoscimento? Adesso pedala! La paradossale situazione dei richiedenti asilo. Hanno più probabilità di trovare una sistemazione finché sono in attesa di essere ascoltati dalla Commissione di valutazione. Dopodiché, specie se la loro domanda viene accolta, cominciano le difficoltà.
FRANCO CHITTOLINA, Migrazioni, tra memoria debole e futuro incerto Il dramma di migranti e profughi in questa difficile sta-gione dell’UE richiama alla mente le parole di Gianbatti-sta Vico: “Parean traversie ed erano opportunità”. E non solo perché l’Europa di domani ha bisogno di nuovi e più giovani cittadini, ma più ancora perché deve reinventare il suo progetto unificatore con il contributo di tutti.
ADRIANA LONGONI, Un addio e un ricordo per Berta Caceres. All’inizio di marzo questa donna honduregna è stata assassinata, a causa della lotta a tutela dell’ambiente in cui vive la sua comunità indigena. L’importanza di ricordare e onorare le tante umili ed eroiche vittime dell’impegno nella cura della casa comune, dovere richiamato con forza dall’enciclica di papa Francesco
EVA, E questo sarebbe lavoro?
L’esempio di generosità di un imprenditore ci aiuta a riflettere su come dovrebbe essere il lavoro ‘vero’, le cui modalità appaiono così diverse da quelle di un modello caratterizzato da occasionalità, precarietà, scarso rispetto per la dignità del lavoratore.
MICHELE BRONDINO E YVONNE FRACASSETTI, Il nostro male viene da più lontano
Capire e pensare: questi i due pilastri che ci propone l’interpretazione del mondo di oggi da parte di Alain Ba-diou e di Tiziano Terzani. In sintonia con il messaggio del-la Laudato si’ un forte invito all’impegno per un mondo pacificato e rispettoso della vita in tutte le sue forme.
ANGELO FRACCHIA, La preghiera A partire dalle indicazioni di Gesù sulla fede nella preghiera: Dio ascolta chiunque lo preghi con fede, o i miracoli sono un’illusione? L’invito ad accogliere diverse sensibilità, diverse impostazioni più o meno razionali, di fronte ad una domanda (sul comportamento di Dio) che rimane senza risposta piena.
COSTANZA, Ciao, suor Rosa Un saluto a suor Rosa Porello, nostra amica, collaboratrice del Granello da tanti anni, tragicamente scomparsa in un incidente stradale, nella convinzione, come sostiene Isabel Allende, che “non esiste separa-zione definitiva finché esiste il ricordo, perché il ricordo è sempre un luogo di incontro”.
EVA, Così sia... Così possa avvenire, forse (V) Una poesia ‘a puntate’, per rinnovare di volta in volta il desiderio e l’augurio di un cambiamento salutare, affidato alla fragile forza di una schiva speranza.
ANGELO FRACCHIA, Il viaggio del primo. Racconto
Per una volta, un piccolo gioco, senza alcun fonda-mento nella Bibbia (se non al limite argomentando a partire dal silenzio... ma è sempre argomentazione perico-losa). Un personaggio importante del Nuovo Testamento alle prese con una partenza: le cose andranno come aveva immaginato?
CARLO MASOERO, Grecia ma anche Italia Dibattito contro neoliberismo, guerre e razzismi, a fianco del popolo greco a Cuneo il 23 marzo: si struttura il gemellaggio con il Centro di Solidarity4all del Pireo. Dalla discussione una amara riflessione sulla situazione in Italia, ma anche la volontà di andare avanti continuando il dialogo tra diversi.
ALBERTO BOSI, Appunti sulla vita e il pensiero di Mohandas Karamchand Gandhi (II) Dopo avere in qualche modo tracciato (sul n. precedente del Granello) l’evoluzione del pensiero-azione di Gandhi, cerchiamo ora di affrontare il punto centrale, la sua concezione matura della nonviolenza. Essa non è e non vuole essere un sistema, ma una pratica in continua evoluzione anche se guidata da alcuni punti di riferimento ideali, sintetizzabili nel riferimento alla tradizione religiosa induista e cristiana, e nella critica della moderna società industriale. Quello di Gandhi è niente di-meno che uno dei principali tentativi moderni di rispondere alla domanda sul senso complessivo del vivere umano, mettendo in comunicazione tra loro etica, politica, economia e religione; quattro elementi che nella nostra modernità spesso non si parlano. L’art., come già quello della precedente puntata, viene pubblicato come inserto centrale, in modo tale da poter essere estratto e conservato a parte.
ALBERTO BOSI, C’è chi dice no alla violenza del potere Cosa spinge una persona di fronte ad una situazione di violenza ad opporsi, rischiando di persona, ed un’altra, al contrario, a girare la testa dall’altra parte? Nel libro di Amedeo Cottino la questione del riconoscimento dell’Altro come ‘altro se stesso’, e pertanto degno di compassione e solidarietà.
MST, C’è una situazione grave in Brasile Il comunicato della direzione nazionale del MST (Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra) in merito ai recenti fatti del Brasile, con il coinvolgimento dell’ex-presidente Lula, letti come un vero e proprio golpe della borghesia neoliberista.
CLAUDIA FILIPPI, Viaggio in Senegal, per ritrovare l'umanità. L'Africa così lontana da un' Europa senz'anima. Il resoconto del recente viaggio in Senegal per un progetto di formazione ed animazione della Caritas ci trasmette segnali positivi da un Paese che, dopo anni di dittatura, cerca il riscatto sociale. L’impegno a favore di migranti, in partenza e di ritorno: una bella lezione per noi europei.
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Per qualsiasi problema di invio di questo nostro periodico,
vi preghiamo gentilmente di rivolgervi ad uno dei due
seguenti recapiti: Comunità di Mambre (tel. 0171 943407,
strada S. Martino 144 - 12022 Busca; e-mail:
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intestato a Il granello di senape, oppure da consegnare a
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Mambre, della Coop. Colibrì, ecc.).
Ci sono graditi e utili suggerimenti, critiche, proposte (e
magari anche apprezzamenti!).
“Il Granello di senape” è un notiziario di comunità e di
gruppi. In particolare vi collaborano stabilmente: Comunità di
Mambre, Ass. Ariaperta, La Cascina, Cooperativa Colibrì,
Gruppo Oltre di Vernante, Libera, Orizzonti di pace,
Tavolo delle Associazioni. A questo numero hanno contribuito
anche: “i Cascinotteri”, Alberto Bosi, Michele Brondino,
Anna Cattaneo, Franco Chittolina, Gianfranco Conforti,
Sergio Dalmasso, Oreste Delfino, Cecilia Dematteis, Renzo
Dutto, Gianni Fabris, Claudia Filippi, Yvonne Fracassetti,
Angelo Fracchia, Gigi Garelli, Alessio Giaccone, Costanza
Lerda, Adriana Longoni, Flavio Luciano, Leonardo
Lucarini, Eva Maio, Carlo Masoero, Sergio Parola, Piera
Peano, Grazia Quagliaroli, Andrea Selleri.
Questo numero è stato chiuso in redazione il 7/4/2016.
SERGIO DALMASSO Notizie in breve sul mondo
dal Tavolo delle Associazioni del Cuneese
LEONARDO LUCARINI, Quale digiuno per il Signore? Dilatare il nostro presente, temperare ansietà e aspetta-tive, sapersi mettere in gioco, quando necessario, an-che in assenza delle condizioni ideali: una riflessione sull’op-portunità di esercitarci in alcune pratiche di “digiuno” che possano rivelarsi utili nel nostro cammino quotidiano.
Per noi è importante informarsi e partecipare. Referendum del 17 aprile per fermare le trivelle Il documento qui pubblicato, preparato dal Comitato referendario per il Sì, risponde in 18 punti alle questioni che vengono di solito buttate in faccia ai promotori del referen-dum. Riposte pacate, ricche di dati, senza insulti e senza retorica.
SERGIO DALMASSO, Un referendum tradito Alcuni recenti provvedimenti legislativi vanno in direzione opposta rispetto alla volontà espressa dai cittadini attraverso il referendum del 2011 e stravolgono il senso della Legge d’Iniziativa Popolare del 2007. Investimenti dei gestori delle reti idriche in provincia di Cuneo quasi sempre insufficienti e, a volte, discutibili.
ORESTE DELFINO, Responsabilità e cura Il Movimento dell’Acqua Bene Comune si sente in buona compagnia: l’invito di papa Francesco a prendersi cura di Madre Terra sostiene e incoraggia quanti hanno a cuore l’acqua e i Beni Comuni. A Trinità domenica 15 maggio si terrà la VI edizione della ‘Primavera dell’acqua’.
CECILIA DEMATTEIS, Divenendo L’invito ad aderire con consapevolezza al fluire della vita, che si manifesta in noi e nelle cose attorno a noi, accogliendo e non ostacolando le trasformazioni continue come occasioni, opportunità di essere in modo autentico.
ALESSIO GIACCONE, Buona Costituzione a tutti Buon avvio a Cuneo il 21 marzo della campagna referendaria per la difesa della costituzione e dei diritti ecologici e sociali. Di referendum in referendum: il per-corso della campagna che si protrarrà fino al 2017 e interesserà ambiente, lavoro, scuola, istituzioni.
CARLO MASOERO, Puf: non ci siamo ancora Si radicalizza la vicenda del Puf. Il sindaco Borgna cambia passo, anzi fa retromarcia. Il consigliere Nello Fierro occupa la sala del Consiglio Comunale e lo Sportello Casa mette le tende in piazza. In programma incontro con il Demanio a Torino e, al prossimo Consiglio Comunale, mozione sulla requisizione
ANDREA SELLERI, Giocare col clima Comprendere le sfide planetarie tramite un gioco di ruolo: le complesse dinamiche, regolate da interessi spesso contrapposti, che determinano il riscaldamento globale simulate in un campo estivo con 500 partecipanti.
CARLO MASOERO, Una Rosa che non appassisce Il 5 marzo a Cuneo, con una conferenza su Rosa Luxemburg, inaugurato con il botto il circolo Arci a lei intitolato. Sorpresa delle sorprese: nella tranquillissima Cuneo tanta gente, tanti giovani per ascoltare ed appas-sionarsi ad una visione anticapitalistica di ieri e di domani.
GIANFRANCO CONFORTI, I primi passi del Comi-tato per la salute mentale in Piemonte Continua la riflessione su significato e prospettive del
movimento nato sull’onda dell’opposizione al progetto regionale di riorganizzazione delle strutture territoriali psichiatriche. La volontà di andare oltre questa ‘verten-za’ e di proporsi come punto di riferimento per chiunque in Piemonte abbia a cuore la qualità della Psichiatria.
A CURA DELLA COOP. COLIBRÌ, Progetto Quid: moda etica e sostenibile Un gruppo di giovani, tessuti di recupero, donne in difficoltà: questi gli ingredienti di un successo. La Cooperativa QUID ospite della Cooperativa Colibrì a Cuneo e Mondovì racconta una premiata startup che unisce sostenibilità ambientale, mercato e integrazione lavorativa di donne in difficoltà. Un modello di business che guarda al futuro partendo dallo scarto per restituire dignità e speranza.
A CURA DELLA COOP. COLIBRÌ, Lavoro, donne e Bosnia A vent'anni dal conflitto nei Balcani la Cooperativa Colibrì ha incontrato a Fossano il fotoreporter Mario Boccia, inviato de "il manifesto" a Sarajevo, Belgrado, Pristina e Skopje, e Radmila Zarkovic, attivista per i diritti delle donne e presidente della Cooperativa agricola "Insieme" che nella Bosnia del dopoguerra ha offerto opportunità di lavoro e futuro alle vedove di guerra di diverse etnie, unite nella produzione di piccoli frutti per la produzione di marmellate e succhi venduti nel circuito del commercio equo.
I CASCINOTTERI, Le pagine della Cascina Cronache delle attività quotidiane, delle feste, degli appuntamenti, a cura dei protagonisti.
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Hai voluto il riconoscimento? Adesso pedala! La paradossale situazione dei richiedenti asilo
Sono in Italia da mesi. Hanno raggiunto il nostro Paese in mille modi, fuggendo perlopiù da situazioni di guerra e di persecuzioni, e, una volta rinfrancati in uno dei tanti centri di accoglienza allestiti nei pressi dei luoghi degli sbarchi, hanno chiesto una delle tre forme di protezione previste dal Diritto internazionale, l’asilo politico in senso stretto, la protezione sussidiaria o la protezione umanitaria. In attesa di essere ascoltati per sottoporre la loro situazione a una delle 40 Commissioni Territoriali dislocate sul territorio nazionale, costituite proprio per passare al vaglio racconti, documenti e testimonianze di profughi e richiedenti asilo, possono contare su una rete ormai collaudata di sostegno e accoglienza fatta di strutture di accoglienza, di nodi di smistamento, di destinazioni intermedie e finali che – al di là di ogni allarmismo messo in piedi da chi di allarmismo vive – complessivamente funziona. Il ministero dell’Interno, tramite le prefetture e con la collaborazione di enti locali e di centinaia di associazioni e comunità che da anni si occupano di immigrazione, ha avviato procedure pressoché standardizzate per accompagnare passo passo il percorso di chi arriva in Italia in cerca di protezione. Dopo un primo periodo-tampone di risposta alle emergenze e di assestamento, sono nate forme di accoglienza più strutturate e articolate, come la rete SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, gestito direttamente dai Comuni) che offre non solo vitto e alloggio, ma anche un contorno di attività che vanno dall’insegnamento della lingua alla frequenza di corsi di integrazione. Le stesse strutture di accoglienza hanno maturato col tempo forme di collaborazione capaci di rispondere in modo più adeguato alle esigenze di una situazione che va ormai oltre l’emergenza, come è accaduto in provincia di Cuneo, dove nel settembre scorso si è costituita “Rifugiati in rete”, una rete di cooperative sociali che si occupano di migranti, rifugiati, richiedenti asilo. Ne fanno parte le cooperative Fiordaliso e Momo di Cuneo, Insieme a Voi di Busca, Armonia di Revello, il Consorzio CIS di cui fanno parte le cooperative Alice e Orso di Alba, Cascina Martello di Mondovì, tutte aderenti a Confcooperative – Federsolidarietà Cuneo. Alla base dell’iniziativa è la condivisione di un cammino di anni, iniziato da alcune di queste realtà già da tempo con il Comune di Cuneo e con la Prefettura, per dare risposte più efficaci a un fenomeno sociale ormai di notevole impatto, ma anche per alimentare il dibattito sulle politiche dell’accoglienza. L’obiettivo è quello di lavorare, ognuno con le proprie peculiarità e specificità, in modo condiviso per una accoglienza digni-tosa e di qualità, per sensibilizzare il territorio e pensare e progettare l’integrazione secondo un
modello di accoglienza innovativo di piccoli nuclei, che metta in contratto la professionalità delle cooperative con il mondo del volontariato, con le parrocchie, con il privato, con le famiglie.
Il tempo dell’attesa
La prima accoglienza, quella di coloro che sono in attesa dell’esame in Commissione, può contare sul sostegno di competenze consolidate e sul supporto significativo di risorse economiche che hanno permesso di far nascere un po’ ovunque in Italia esperienze-pilota, alcune delle quali con risultati straordinari. È il caso di Rieti, dove è stato avviato il progetto “Terrae, un orto per l’inclusione sociale” promosso da SPRAR territoriale, Comunità Emmauel, Caritas diocesana, con il sostegno di un’azienda agricola locale per rivitalizzare l’economia reatina attraverso percorsi di inserimento lavorativo dei rifugiati e richiedenti asilo ospiti dello SPRAR. Su un terreno di circa un ettaro si è offerta ai richiedenti asilo la possibilità di sperimentare tecniche di agricoltura biologica, contribuendo al rilancio dei prodotti orticoli locali e al miglioramento delle tecniche colturali. L’attività, partita da un anno, è destinata a crescere e ad accogliere altri ragazzi, e il supporto dell’azienda agricola privata, per quanto prezioso, ha carattere transitorio, con l’obbiettivo finale di creare una cooperativa agricola del tutto autonoma. A due passi da casa nostra ha suscitato grande interesse un’esperienza analoga, predisposta dalla
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cooperativa CrescereInsieme Onlus di Acqui Terme, operante nel Sud Astigiano e in particolare nel Canellese. La cooperativa è ideatrice in questa parte della provincia di una serie di progetti volti all’integrazione dei propri ospiti ma anche alla formazione professionale. Da una parte ha attivato un corso di teatro aperto ai rifugiati e ai canellesi, per mettere in contatto le due realtà. Dall’altro, ha messo in piedi il progetto “Maramao” in un’azienda agricola in cui sei rifugiati, quasi tutti Africani, hanno appreso tecniche di coltivazione dell’agricoltura biologica vendendo poi i propri prodotti (farina e gallette di farro, verdura e frutta di stagione, marmellate, cugnà) al mercato. I sei ragazzi coinvolti hanno provveduto a lavorare la vigna, a coltivare l’orto e a preparare marmellate e conserve, con l’obiettivo di imparare un mestiere e costruirsi un futuro in Italia, magari facendo di “Maramao” una vera start up agricola, in cui gli ospiti possano formare a loro volta altri rifugiati provenienti da oltremare.
Poi arriva il riconoscimento
Se tuttavia le cose vanno bene per coloro che sono in attesa di essere ascoltati dalla Commissione Territo-riale, paradossalmente la situazione si complica per coloro che al vaglio della Commissione già ci sono passati. Lasciando da parte la spinosissima questione di coloro che hanno ricevuto il temutissimo “diniego”, ovvero il mancato riconoscimento di una qualche forma di protezione internazionale, per i quali si apre - dopo qualche tentativo di ricorso - la prospettiva del rimpatrio o della permanenza clandestina in Italia, anche la situazione di quelli che la protezione l’hanno ottenuta si complica non poco, perché devono lasciare le strutture di accoglienza che li hanno ospitati durante il periodo dell’attesa e perdono il diritto ad usufruire del sostegno economico previsto per chi li accoglie. Viene meno quindi il loro appeal come fonte di reddito per chi ha fatto dell’accoglienza profughi un business, ma anche coloro che l’accoglienza la operano con spirito di solidarietà e con coscienza si vedono costretti a chiuder loro le porte, incalzati dalle prefetture che chiedono continuamente disponibilità di posti per i nuovi arrivi. I richiedenti asilo si trovano quindi ad assumere lo scomodo ruolo di rifugiati, che se da una parte offre loro la possibilità di soggiornare legalmente con un regolare permesso di soggiorno, dall’altra li priva di quella che era stato fino al giorno prima la loro copertura economica. Alcuni hanno la fortuna di poter usufruire di una rete informale di sostegno da parte di famigliari o di amici già presenti in Italia, qualcuno trova accoglienza in comunità che si occupano specificamente di queste situazioni, qualcun altro emigra verso il nord Europa. Chi è stato ospite in strutture gestite da associazioni o realtà che hanno dimensioni nazionali, come la Papa Giovanni XXIII o la Comunità Emmaus, può sperare di trovar posto in qualcuna delle loro sedi e continuare a risiedervi. Ancora, chi ha avuto la fortuna di essere accolto da
Cooperative che hanno provveduto non solo a vitto e alloggio ma anche a preparare l’uscita, può sperare in un accompagnamento nella fase di inserimento. Ma chi esce da strutture ricettive messe in piedi senza troppi scrupoli e senza alcun interesse per le prospettive degli ospiti si trova quasi sempre a finire nel gorgo dell’assistenzialismo di bassa soglia, fatto di notti nei dormitori e di pasti in mensa senza prospettive di inserimento sociale.
È necessario intervenire al più presto
Purtroppo, e paradossalmente, queste situazioni hanno cominciato a moltiplicarsi proprio perché le commis-sioni territoriali hanno iniziato a lavorare in modo più efficiente, riducendo progressivamente i tempi di atte-sa. Cosa fare, visto il disinteresse delle istituzioni che di questi casi non si occupano più, proprio perché sfor-niti del “tesoretto” che fino al giorno prima li garantiva economicamente e li tutelava? Proprio nei loro con-fronti, e a pieno titolo, vale l’appello di Papa Fran-cesco alle comunità cristiane perché si muovano come apripista e mettano in atto iniziative di accoglienza, facendosi carico di queste situazioni di disagio. Anche in questo caso non mancano esperienze-pilota, anche a casa nostra. Esemplare il caso di Verzuolo, dove sono stati accolti nella casa parrocchiale di San Filippo e Giacomo di Verzuolo, tre ragazzi africani cui è stato riconosciuto il diritto di asilo per motivi umanitari, che, avendo finito il percorso di ricono-scimento in Italia, non avrebbero più ricevuto alcuna forma di aiuto. La comunità locale si è fatta carico in modo autonomo della loro accoglienza, nata da un progetto condiviso nel Consiglio Pastorale e coordinato da un gruppo di volontari con il parroco, per andare nella direzione indicata da Papa Francesco a tutti i cristiani, quella di aprire ai poveri le case parrocchiali e le strutture poco utilizzate. Alcune famiglie, su mandato dei Parroci, si sono incontrate settimanalmente per valutare la possibilità di accogliere alcuni rifugiati contattando i rappresentanti di diversi enti e associazioni territoriali (Comune, Caritas, Comunità Papa Giovanni…) al fine di determinare la soluzione più idonea rispetto alle risorse a disposizione. Si è giunti, quindi, alla decisione di accogliere i tre giovani africani in possesso di permesso di soggiorno per motivi umanitari, che sono arrivati a Verzuolo il 22 febbraio scorso. Il progetto di accoglienza è stato messo a punto con la Comunità Papa Giovanni XXIII, da tempo impegnata anche a Saluzzo nell’ambito del campo solidale dei migranti stagionali al Foro Boario, che si farà carico dei tre giovani garantendo il proprio supporto. Il progetto è esemplare: accoglienza di un piccolo gruppo di rifugiati, sostegno economico da parte di una rete di famiglie che garantiscono anche la propria vicinanza in termini di relazioni positive, ospitalità in una struttura messa a disposizione della Chiesa locale, supporto e accompagnamento da parte di un’associa-zione esperta. Questo dovrebbe essere il modello da
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adottare, e il numero crescente di persone in uscita dalle prime accoglienze rende viepiù urgente la necessità di fare in fretta per realizzarlo anche altrove. L’appello di Papa Francesco è stato lanciato, famiglie generose ce ne sono tante, comunità parrocchiali coraggiose anche. Occorre solo che la voce venga fatta
circolare, e che al più presto si mettano in piedi cabine di regia coordinate dagli enti locali per mettere in moto iniziative che possano sperare di essere efficaci anche sul lungo periodo.
Gigi Garelli [email protected]
Per saperne di più
Chiunque giunga sul territorio nazionale italiano proveniente da paesi in cui rischia persecuzioni di tipo religioso, politico o etnico ha diritto a richiedere una delle forme di protezione previste dalle leggi internazionali. Può essere una persona entrata in Italia illegalmente, come tramite gli sbarchi, oppure legalmente con un visto turistico. Una volta registrate le generalità presso le autorità competenti, può presentare richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato, ottenendo così un permesso di sei mesi di soggiorno in attesa della definizione del proprio status. Nei primi 60 giorni il richiedente è soggetto ad alcune restrizioni ed obblighi, come il fatto di non poter lavorare, poi è tenuto a presentarsi a una Commissione territoriale che verifica la sua storia e i suoi requisiti. 1) Se emerge una situazione di persecuzione personale gli viene rilasciato lo status di rifugiato, con il relativo permesso di soggiorno per asilo politico che risponde a rigidi requisiti: è necessario dimostrare che il ritorno in patria comporti un rischio per la propria vita, mentre generici motivi economici non sono contemplati. 2) Chi non ottiene lo status di rifugiato può sperare di ottenere un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, nel caso in cui il Paese di origine sia politicamente instabile o insicuro a causa di un conflitto. 3) Ci sono infine i casi dove viene concesso un permesso di soggiorno per protezione umanitaria: il richiedente non ha i requisiti per ottenere lo status di rifugiato ma la sua situazione presenta condizioni di tale eccezionalità che necessita della protezione internazionale. Nel caso in cui il richiedente si veda negato il riconoscimento di una di queste tre casistiche, può fare ricorso. Se al termine dei tre gradi di giudizio non vedrà riconosciuta la condizione per l’emissione di un permesso di soggiorno dovrà lasciare il nostro Paese. I tempi di attesa sono molto lunghi. La procedura standard per la richiesta del riconoscimento dello status di rifugiato è nell’ordine di sei mesi. In alcuni casi però, il responso non arriva prima di un anno e mezzo.
Tipologie di permesso di soggiorno e relativi benefici
Permesso di soggiorno per asilo politico
Permesso di soggiorno per protezione sussidiaria
Permesso di soggiorno per protezione umanitaria
Durata 5 anni, rinnovabile, consente accesso allo studio e al lavoro, convertibile in permesso di soggiorno per lavoro.
Diritto al ricongiungimento dei famigliari.
Mantenimento dell’unità del nucleo famigliare.
Rilascio del titolo di viaggio equiparato al passaporto, di validità quinquennale, rinnovabile.
Accesso all’occupazione alle mede-sime condizioni del cittadino italiano.
Diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale, sanitaria e di accesso all’edilizia pubblica.
Durata 5 anni, rinnovabile, consente accesso allo studio e al lavoro, convertibile in permesso di soggiorno per lavoro.
Diritto al ricongiungimento dei famigliari.
Mantenimento dell’unità del nucleo famigliare.
Rilascio del titolo di viaggio per stra-nieri, in caso di impossibilità di otte-nere il passaporto dagli uffici consolari.
Accesso all’occupazione alle mede-sime condizioni del cittadino italiano.
Diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale, sanitaria e di accesso all’edilizia pubblica.
Durata 2 anni, rinnovabile, consente accesso allo studio e al lavoro, convertibile in permesso di soggiorno per lavoro.
Diritto al ricongiungimento dei famigliari in presenza dei requisiti di alloggio e reddito previsti dal D.lgs. 286/98.
Mantenimento dell’unità del nucleo famigliare.
Diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale, sanitaria e di accesso all’edilizia pubblica.
Fonte: Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia, a cura del Gruppo di studio del Ministero dell’interno, Roma, ott. 2015, p. 12.
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Migrazioni tra memoria debole e futuro incerto
Nella confusione di questi giorni, in cui si intrecciano le
notizie di guerre ai confini d’Europa e di attentati terroristici all’interno dell’Unione Europea, sta perdendo visibilità il dramma irrisolto dei flussi migratori che
mettono paura all’Europa, dove politici irresponsabili non esitano a produrre un amalgama tra migranti e terroristi.
In un simile contesto è opportuno tentare di fissare alcuni
punti chiari seguendo il filo della storia per non
dimenticare il passato e ricordando qualche numero.
Memoria del passato
La storia delle migrazioni è realtà antica, come antica è
l’inquietudine e la volontà di ricerca degli uomini che da sempre si muovono per trovare migliori condizioni di
vita, generando flussi imponenti di migrazioni che hanno
ridisegnato man mano la mappa del pianeta. Senza andare
troppo indietro nel tempo basterebbe ricordare le
“invasioni barbariche” a cui dobbiamo grandi rimesco-
lamenti etnici e nuovi contributi culturali che la civiltà
occidentale di allora – e quella romana in particolare –
seppe integrare, non senza importanti difficoltà ma anche
con geniali invenzioni politiche e culturali. Sarebbe
almeno altrettanto interessante rileggere la cultura
dell’antica Grecia, un’eredità da non dimenticare, con la
sua concezione dello straniero e dell’ospite, generatrice di una cultura dell’accoglienza di cui l’Europa di oggi sembra non avere grande memoria.
Come sembra aver perso memoria del suo non lontano
passato anche molta parte della popolazione italiana,
magari ancora nipote di generazioni che non molto più di
un secolo fa lasciarono le nostre terre per cercare lavoro
in Paesi spesso inospitali, accolte da cartelli “vietato agli stranieri” affissi su case dove cercavano provvisoria dimora. Purtroppo dimenticare il passato non aiuta a
capire il presente e a prepararsi per il futuro.
La realtà oggi
Oltre alla memoria, possono aiutare a capire meglio il
presente anche i numeri delle migrazioni. L’ONU stima a poco meno di 250 milioni gli immigrati nel mondo,
nell’Unione Europea ne risiedono appena una trentina di milioni, una presenza molto più importante è ospitata in
una delle regioni più povere del mondo, nell’Africa subsahariana. Se si limitano i numeri ai profughi dell’area mediterranea, spiccano la massa di profughi in Turchia,
con circa 2 milioni e mezzo di persone, e il piccolo
Libano, con un milione e duecentomila profughi.
Nell’UE ne sono stati contati, a fine 2014, circa un milione e mezzo.
A fronte di questi numeri viene da chiedersi che senso
abbia la “gigantografia” che dipingono i “media” del
fenomeno migratorio in Europa, la regione più ricca del
mondo e, tra tutte, la più impaurita per percentuali di
profughi che non raggiungono le due cifre. Il sospetto
fondato è che la dilatazione mediatica alla quale assi-
stiamo riguardi un fenomeno ordinario della storia, oggi
con dimensioni straordinarie rispetto al recente passato,
ma ingigantito all’inverosimile: da una parte, ad opera di politici che cercano consenso approfittando delle paure
degli elettori e, dall’altra, da una popolazione installata in condizioni di relativo benessere, che si sente minacciata
da “barbari”, accusati di attentare alla sicurezza e a un lavoro spesso precario.
Questa falsa rappresentazione del fenomeno migratorio si
intreccia con l’ipocrisia e l’irresponsabilità delle politiche attivate su questo versante dai Paesi di un’Unione Europea, giudicata incapace di un’azione coordinata e di una strategia di lungo periodo.
Delle politiche nazionali nell’UE in materia di
immigrazione è presto detto. In questi ultimi tempi
assistiamo a un crescendo di chiusure con frontiere che si
cerca di sigillare con effetto domino, ciascun Paese
credendo così di proteggersi più efficacemente dalle
chiusure realizzate o minacciate dal Paese vicino. Si tratta
di una dinamica che si espande a pelle di leopardo, come
testimoniano le deroghe, solo apparentemente provviso-
rie, al Trattato di Schengen sulla libera circolazione alle
frontiere interne dell’UE. Hanno cominciato i Paesi dell’Europa centrale, come Ungheria e Polonia, dimostrando una memoria corta sulle
costrizioni subite ai loro confini di nemmeno una ventina
di anni fa. A questi si sono aggiunti Paesi di lunga tradi-
zione democratica, come Svezia e Finlandia e, a tratti, la
Francia, mentre hanno meritevolmente resistito alla
tentazione di chiudere le frontiere Paesi particolarmente
esposti, come l’Italia e la Grecia. Analogamente a questi due Paesi ha mantenuto una disponibilità alla politica di
accoglienza dei rifugiati la Cancelliera tedesca, Angela
Merkel, non senza difficoltà a fronte del malumore
crescente nel suo partito e dopo i recenti insuccessi nelle
recenti elezioni in tre Laender tedeschi.
E qui si chiariscono i motivi delle ipocrisie e dell’irre-
sponsabilità di molti governanti europei, vittime di una
diffusa paura per le pressioni ai “sacri confini” della patria e di politiche socio-economiche responsabili di una
crescita debole e di progressive rotture di coesione
sociale, in particolare nello spazio fragile del welfare.
Basti pensare alle posizioni rivendicate dalla Gran
Bretagna, alla vigilia di un azzardato referendum sulla
permanenza o meno nell’UE, a proposito della libera circolazione non solo degli stranieri, ma anche di cittadini
comunitari per i quali si prospettano pesanti riduzioni di
accesso alle protezioni sociali nazionali e nuove
precarietà nel mercato del lavoro.
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Di questi ingredienti è fatta la miscela esplosiva, la cui
miccia accesa negli Stati cosiddetti “sovrani” dell’UE rischia di esplodere nel cuore delle Istituzioni
comunitarie, accusate di non farsi carico dei problemi
provocati dalle migrazioni e di non trovare soluzioni
efficaci e darne rapida esecuzione, fingendo tutti di
dimenticare che tale responsabilità non le è stata affidata
dai Paesi membri nei Trattati UE.
Le sfide future
E’ probabilmente questo il punto centrale da chiarire, il “male oscuro” da diagnosticare, se si vuole veramente attivare una terapia efficace. Con almeno due premesse: il
fenomeno migratorio non è una vicenda congiunturale,
ma una realtà strutturale di lungo periodo, per almeno
un’altra ventina d’anni, e cresce l’indebolimento demografico dell’Europa, rispetto al resto del mondo - a
causa dei differenti tassi di natalità - che esigerà per il
nostro continente un “supplemento” di popolazione per sostenere economia e welfare.
Partendo da queste due premesse bisognerà provare a
disegnare la futura politica comune europea delle
migrazioni, cominciando col ricordare che oggi questa
non esiste e che costruirne una è impresa complessa,
contrastata da pretese “sovranità” politiche nazionali e da miopi interessi egoistici anche da parte di importanti
attori economici, “globali” per gli affari e “nazionali” – se
non addirittura “aziendali” – per i diritti.
Non c’è dubbio infatti che il “mito della sovranità” –
come lo chiamava Luigi Einaudi – pesi come un macigno
sull’elaborazione di una politica comune europea delle migrazioni.
Resiste, nonostante le esperienze tragiche delle guerre
europee, l’immaginario di quelle “sacre frontiere” che non ci protessero allora e ancor meno ci proteggeranno
nel mondo globale di oggi. Un mito usato anche per
politiche regressive del mercato del lavoro che adattano i
flussi migratori agli immediati fabbisogni di manodopera,
grazie a un “esercito di riserva” dei migranti da far entrare e uscire a piacere dallo spazio nazionale, com-
pensando con queste “flessibilità umane” le “rigidità monetarie” e i vincoli della competizione internazionale. La complessità della materia esige che contempora-
neamente si mettano in moto altre fondamentali politiche
comuni che aspettano da tempo di essere avviate: la
politica economica, la politica estera e di sicurezza,
integrata dalla cooperazione internazionale, e una politica
fiscale, in attesa che prenda forma anche uno strutturato
welfare europeo, progressivamente europeo.
L’Unione Europea che verrà
Come si vede si tratta di scelte impegnative che im-
pongono agli Stati membri, impegnati nella costru-
zione di un’Europa politica, di delegare pezzi impor-tanti di sovranità ad un’Autorità federale, così come in parte è già avvenuto per altre politiche, in particolare
con la moneta unica e la Banca centrale
europea.
Tutto questo però non potrà avvenire senza un
contestuale riposizionamento culturale che aiuti a
chiarire la visione degli europei sul loro futuro e le
loro relazioni con gli “altri”, gli stranieri presenti o in arrivo tra noi. Indispensabile è credere al futuro
dell’Europa, ancor prima di individuarne il profilo. Lo diceva già, il secolo scorso, Antoine de Saint-Exupéry:
“Quanto al futuro, ciò che conta non è prevederlo, ma assicurarsi che ci sia”. Troppi europei oggi hanno paura che il futuro non ci sia o che, per lo meno, non ci
sia per l’Unione Europea, vista la sua attuale debolezza. Dimenticano la lunga e ricca storia
dell’Europa, il suo patrimonio culturale, la sua forza economica e commerciale, le recenti lezioni che le
hanno impartito i due ultimi conflitti mondiali e la sua
provvidenziale mancanza di alternative: o aggregarsi o
declinare fino a morire.
Una volta alimentata questa fiducia nel futuro si può
mettere mano ad una visione equilibrata di orientamenti
nell’attuale labirinto di posizioni culturali e politiche, proprio a partire dal nostro atteggiamento verso i
migranti, sul quale fare leva per disegnare la nuova
Europa, trasformando il dramma delle migrazioni da
un’occasione per la costruzione di nuovi muri in una “levatrice” della nuova Unione Europea. Di queste diverse posizioni culturali in materia di
migrazioni in Europa è possibile disegnare una mappa
costruita su un quadrante ricco di stimoli diversificati.
Nella parte alta del quadrante, quello della solidarietà, le
proposte vanno dall’ospitalità senza condizioni e dall’accoglienza in nome del diritto europeo all’apertura delle frontiere e alla considerazione della nazionalità
come un residuo di diritto feudale. Nella parte bassa del
quadrante, quello della difesa dell’identità, gli orientamenti muovono dalla necessità di proteggere gli
autoctoni contro gli stranieri e dalla salvaguardia di
un’Europa cristiana al diritto di selezionare i migranti fino alla proposta di aiutarli a distanza, controllandone
più severamente l’ingresso tra di noi. Siamo probabilmente a una svolta della storia
dell’Europa e del mondo, non alla vigilia della fine
dell’Europa e del mondo, ma alla fine di un’Europa e di un mondo certamente sì. E’ l’occasione per i cittadini europei di riappropriarsi di un progetto di integrazione
europea inventato da una generazione di politici
coraggiosi all’inizio degli anni ’50, troppo poco partecipato negli anni successivi dalla popolazione
europea e ancor meno negli anni recenti, dopo il grande
allargamento del 2004. Da una partecipazione di
cittadini informati e responsabili e da un’iniezione di fiducia in Istituzioni comunitarie profondamente
rinnovate, guidate da una nuova generazione di politici
coraggiosi – e perché no, anche visionari come quelli di
settant’anni fa – potrà nascere un’altra Unione Europea della quale “noi” e “gli altri”, meglio se “noialtri” insieme, saremo i protagonisti.
Franco Chittolina [email protected]
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E questo sarebbe lavoro? Riflessioni sul lavoro oggi di una
cittadina non addetta ai lavori
Tra i tanti luccichii dell’ultimo Natale, avevamo subìto anche quello della propaganda sfacciata sui dati relativi al lavoro, come se il job act fosse stato il tocco magico che tutti può rasserenare. Se accettiamo che il lavoro sia un misto di occasionalità, precarietà e “usa e getta” del lavoratore, allora sì, qualche numerino in più c’è. Se accettiamo che le statistiche sulla disoccupazione trattino i dati col metro per cui bastano due o tre ore di lavoro settimanali per non entrare nella lista dei disoccupati, allora sì, qualche numerino in più c’è. Il problema sta proprio nel “se accettiamo”. Accettare i dati del lavoro occasionale e non di quello vero significa portare sempre più acqua al mulino del liberismo più sfrenato. E purtroppo sembra che tutti siano rassegnati ad accettare. Molto brutalmente ciò vuol dire che i cittadini stanno accettando di essere come schiavi stretti nella morsa tra la precarietà e il ricatto di essere peren-nemente disoccupati. Un esempio di lavoro vero, indirettamente ci è dato dal caso di quell’imprenditore varesino che ha destinato una parte della sua eredità ai dipendenti della sua fabbrica. Tutti i giornali hanno letto il fatto sottolineando giustamente l’etica, anzi la generosità imprenditoriale del signor Macchi. Questo fatto può anche essere letto come un buon esempio del tipo di lavoro che si vuole affossare: quello continuativo, che crea esperienza, professionalità, buone relazioni, collaborazione e quindi profitto. Profitto per tutti. Ed il vero profitto per tutti è quello che innanzi tutto sal-va la dignità di entrambe le parti: di chi “crea” lavoro e di chi al lavoro si dedica con mani, cervello, fantasia, impegno. L’Enoplastic di Bodio Lomnago avrebbe avuto lo stesso successo con l’ottica attuale dei lavoratori “usa e getta”?
Un addio e un ricordo per Berta Caceres
Era una giovane donna honduregna, appartenente alla
Comunità indigena dei Lenca. Aveva 44 anni, di cui
più della metà trascorsi a lottare per il rispetto dei
diritti dei popoli amerindi e, in particolare, per la
difesa dell’ambiente in cui vive la sua Comunità. Per questo suo tenace impegno, Berta aveva ricevuto nel
2015, insieme ad altri attivisti, il Premio Goldman per
l’ambiente, il riconoscimento mondiale più importante in campo ambientale.
Il 3 marzo scorso, Berta, mentre rientrava a casa nella
sua città di “La Esperanza”, veniva barbaramente uccisa con 3 colpi di pistola alla testa. Veniva così
ridotta al silenzio una delle donne più determinate
nella lotta contro la depredazione sistematica del
territorio della sua comunità, una autentica
“luchadora” e una leader amata e incontestata. L’Honduras è un piccolo Stato dell’America centrale, ricchissimo di risorse naturali. Fin dagli inizi del 1900,
il Paese ha attirato gli interessi economici delle grandi
multinazionali per lo sfruttamento di tali risorse, in
particolare minerarie, idriche e fossili. Da sempre
questo sfruttamento genera conflitti con le popolazioni
indigene, le cui proteste sono spesso represse con la
forza e la violenza e, non raramente, anche nel sangue.
Berta è stata uccisa infatti nel bel mezzo della sua
ultima battaglia: sostenuta da tutta la sua Comunità, si
opponeva alla costruzione di una diga sul fiume
Gualcarque da parte di un’importante industria idroelettrica cinese. Berta difendeva in prima persona
gli interessi di almeno 600 famiglie, situate nella
foresta pluviale e alle quali la realizzazione del
progetto avrebbe impedito l’approvvigionamento di acqua potabile. Berta era diventata quindi un bersaglio
per i poteri politici ed economici e, paradossalmente, è
stata vittima di una politica di sviluppo che purtroppo,
in America centrale, in America Latina in particolare,
continua ad imporsi attraverso la violenza politica.
Berta spiegava che “(…) il popolo Lenca ha un concetto proprio di sviluppo. Si tratta di un progetto
basato sulla dignità umana, sul rispetto della Madre
Terra, sul benessere delle Comunità, sul delicato
equilibrio fra gli esseri umani e i beni comuni,
partendo da una visione di giustizia sociale ed
economica. Ciò che non accettiamo è la logica di
privatizzazione e depredazione delle nostre risorse per
ottenere maggior profitto. Ciò che non accettiamo è la
logica estrattivista del capitalismo (…)”. Spiegava
inoltre che la difesa del territorio – della terra, del
grano e dell’acqua – è la difesa dell’identità, cioè è la difesa del corpo e del pensiero, è la difesa dello spazio
per l’umanità. Berta Caceres è solo l’ultima di una lunga catena di vittime ambientali. Secondo un rapporto del Global
Witness, sono state 116 gli omicidi ambientali fra il
2002 e il 2014; il 40% delle vittime sono indigeni, con
il numero più alto in Honduras e in Brasile.
Sono vittime ed eroi che non possiamo dimenticare,
soprattutto dopo il forte richiamo di Papa Francesco
nella sua “Laudato si’ ” sulla cura della casa comune.
Un richiamo che porta una luce ancora più intensa sul
coraggio e la lotta di molti uomini e donne che hanno
dato la vita per difendere la Terra, a partire dal vivido
ricordo di quel Chico Mendes ucciso in Brasile 25 anni
fa fino ad oggi, fino a Berta Caceres, la “luchadora” senza paura.
Adriana Longoni [email protected]
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Il nostro male viene da più lontano
In questo momento in cui il terrorismo islamista ha
colpito il cuore dell’Europa a Bruxelles, e in cui l’esplosione delle migrazioni nel Mediterraneo diventa incontrollabile e viene finalmente letta come un feno-
meno mondiale e non locale che sta destabilizzando
l’Europa, ci è parso interessante fare dialogare il teori-co marxista inveterato Alain Badiou con un giornalista
sul campo, il più spirituale dei liberi pensatori, Tiziano
Terzani, le cui Lettere contro la guerra (Milano,
Longanesi, 2002), scritte subito dopo l’11 settembre 2001, continuano a rivelarsi non solo attualissime
come analisi ma pure inascoltate e profetiche, viste le
sabbie mobili in cui sprofonda il mondo di oggi. Due
voci che sono espressione di visioni del mondo molto
diverse, ma che convergono verso il messaggio
dell’enciclica Laudato si’, la quale richiama gli uomini
di ogni fede al bene comune.
Ambedue, il teorico e il giornalista, ci mettono in
guardia contro alcuni errori che, dopo anni di lotta al
terrorismo e di derive della geopolitica, non hanno
fatto che peggiorare la situazione, e ci invitano a
capire e a pensare che Notre mal vient de plus loin
(titolo del saggio di Badiou, Paris, 2016). Capire e
pensare sono i due pilastri della loro interpretazione:
capire, non nel senso di giustificare ma in quello di
individuare e comprendere i meccanismi che ci hanno
portati ai crimini di massa perpetrati dal terrorismo, e
pensare, nel senso di un vero e proprio ripensamento
del nostro modo di gestire il mondo globale e i rapporti
tra l’Occidente e il resto del pianeta. Dai loro rispettivi discorsi, molto articolati e circostanziati, possiamo
enucleare quattro punti focali molto pertinenti per
inquadrare l’impasse in cui ci troviamo: 1) la necessità di fare una lettura globale dei mali del mondo invece
di continuare a guardarli da una ristretta angolatura
nazionale o identitaria; 2) la consapevolezza del
funzionamento del sistema-mondo come mercato
globalizzato con le sue derive e le sue ricadute sui
popoli; 3) l’immensa frustrazione di tutti gli esclusi che assistono allo spettacolo dell’agiatezza e dell’ar-roganza occidentale; 4) il fallimento della guerra come
risposta al terrorismo e l’invito a fermarci, a riflettere, a cercare soluzioni alternative che non si limitino a
rispondere alla violenza con altra violenza in una
spirale senza fine, ma realizzino un futuro di giustizia
e di pace.
Guardare il mondo come un tutt’uno
Continuare a percepire e a interpretare quanto avviene
attorno a noi e nel mondo, positivo o drammatico che
sia, dal nostro angolino regionale o nazionale, comun-
que da uno spazio ristretto, mentre le sorti dei popoli
sono gestite da scelte e decisioni prese a livello
mondiale, è sicuramente fuorviante. Fuorviante da un
punto di vista umano in quanto “la sofferenza va colta a livello dell’umanità intera” - scrive Badiou -, in
quanto il rinvio a “pulsioni identitarie” per piangere morti francesi o italiani è certo comprensibile, ma non
può ignorare che ciò succede ogni giorno in ogni parte
del mondo (Nigeria, Mali, Siria, Libia …) senza che ci si commuova più di tanto, come se ci fossero parti
dell’umanità più umane di altre. E’ indubbio che l’Oc-
cidente ha tendenza a percepirsi come rappresentante
dell’umanità intera. “Per favore - aggiunge Terzani -
vuole spiegarmi qualcuno esperto in definizioni che
differenza c’è tra l’innocenza di un bambino morto a World Trade Center e quello di uno morto sotto le
nostre bombe a Kabul?”. Ma c’è di più. Oltre ad un limite sul piano umano, questa visuale ristretta è pure un handicap a livello del
pensiero critico: che senso ha pensare a livello
nazionale, restringere la visuale a un’identità regionale mentre tutto il mondo gira con regole mondializzate?
Occorre, raccomanda Badiou, “essere capaci di avere
una rappresentazione mondializzata dei problemi” per capire i nessi tra le varie realtà, per non fare come la
rana del proverbio cinese - ci racconta Terzani - che
guarda un quadrato di cielo dal fondo del pozzo
pensando che si tratti di tutto il cielo.
Il sistema-mondo: uno spietato mercato
globale dominato dalla tecno-scienza
La caduta del muro di Berlino e il fallimento del
comunismo hanno dato via libera al trionfo del neo-
liberalismo che si espande senza più limiti e di cui la
mondializzazione del mercato è l’espressione più evidente. Purtroppo, ciò che doveva garantire il
progresso infinito dell’umanità, e addirittura, secondo i
teorici del liberalismo, la fine della storia (Francis
Fukuyama), si sta rivelando un processo aggressivo e
difficilmente controllabile che, avendo come unico
scopo il profitto, riduce il mondo a mercato globale.
Sono soltanto un ricordo i tentativi del secolo scorso di
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 13
arginare gli eccessi del capitalismo, anzi di costruire
un capitalismo dal volto umano che fece la fortuna del
modello europeo. Stiamo assistendo, scrive Badiou,
alla distruzione sistematica di questi argini che
avevano come obiettivo di difendere la posizione
dell’uomo e del benessere delle società al centro del
sistema: dai diritti sociali alle leggi antitrust, dai
controlli statali alle nazionalizzazioni, ogni tentativo di
introdurre logiche diverse dal profitto viene spazzato
via per dare spazio al mercato senza confini, dalle
delocalizzazioni alle multinazionali: “il liberalismo è
liberato”. Mentre assistiamo ogni giorno, ognuno nel
proprio paese, allo sgretolamento dello stato sociale, a
livello mondiale le disuguaglianze crescono in modo
impressionante e ci sono dati fondamentali, conferma
Badiou, che tutti devono conoscere prima di parlare di
democrazia: l’1% della popolazione mondiale possiede il 46% delle risorse mondiali disponibili; il 10% della
popolazione mondiale possiede l’86% delle risorse; il 50% della popolazione mondiale non possiede nulla.
Resta circa il 40% della popolazione mondiale, la
classe media, che si batte per non lasciarsi sfuggire le
briciole, il 14% delle risorse disponibili. Lasciamo da
parte le oligarchie quasi invisibili e guardiamo agli
altri due gruppi: il 50% che non possiede nulla, di cui
due miliardi di persone che non contano nulla per il
mercato (non essendo né consumatori né salariati) e
che il sistema-mercato non è in grado di assorbire, e il
14% della classe media, cioè noi, cittadini dei paesi
sviluppati e democratici, impauriti all’idea di vedere ancora ridursi il nostro modesto patrimonio e impauriti
dai due miliardi di nullatenenti che errano e talora
premono alle frontiere dei nostri Stati indeboliti.
Questa è la situazione del mondo contemporaneo e di
lì bisogna partire per capire le dinamiche che muovono
guerre e migrazioni (vedi il cap. V Iniquità planetaria
in Laudato si’) Come si fa a tener in piedi un sistema così squilibrato?
Il filosofo francese e il giornalista italiano rispondono
concordi a questa domanda elementare: queste disu-
guaglianze esplosive sono non solo prodotte dalla
struttura del nostro mondo contemporaneo ma gli sono
funzionali. Non è cambiato quasi nulla da quando
l’Occidente si assicurava la padronanza delle ricchezze del mondo attraverso la colonizzazione diretta delle
regioni ricche in materie prime. Dopo la decoloniz-
zazione, sono solo cambiate le modalità di dominio e
alla colonizzazione diretta dei territori è succeduta
“un’attività incessante degli Stati occidentali per continuare a controllare i circuiti delle materie prime e
delle fonti di energie”. Per assicurarsi questa padro-
nanza occorre indebolire o distruggere gli Stati che
potrebbero ostacolare gli interessi occidentali,
sostituirli con “accordi fragili tra minoranze, religioni, ecc.”, cioè creare zone geografiche deboli e instabili
dove dormono queste risorse e dove operare facendo
affari tra poteri locali complici e bande armate di ogni
tipo. E’ un’accusa grave, ma guardiamo agli esempi più vicini a noi: la Libia destabilizzata dall’intervento
prepotente di Francia e Gran Bretagna per aprirsi un
varco verso l’Africa, ridotta oggi a striscia di passag-
gio per ogni delinquenza ma dove gli affari conti-
nuano, e la Siria abbandonata alle violenze perché
contesa tra Stati Uniti, Russia e le potenze regionali,
tanto che occorre aspettare l’accordo tra Obama e Putin per sperare nella fine della guerra e nel frattempo
la Russia sta pianificando una Siria divisa in tre,
secondo linee di confini etnico-religiose.
Terzani, che è uomo concreto e accorto, ce lo dice con
le parole di un vecchio accademico della Berkeley
University, certo non sospetto di anti-americanismo,
Christopher Johnson, il quale, dopo aver fatto l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di stato, perse-
cuzioni, assassini, … interventi a favore dei regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli USA sono stati
coinvolti in America Latina, in Africa ... e nel Medio
Oriente dalla fine della seconda guerra mondiale ad
oggi, conclude con queste parole: “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America, ma
la politica estera americana … ed è questa politica a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico
che gli USA sono un implacabile nemico”. Non c’è quindi da stupirsi se prima Bin Laden con Al Qaeda
poi Al Baghdadi con l’ISIS fanno appello a tutti i
musulmani del mondo per ridisegnare la mappa del
Medio Oriente, non più secondo le frontiere coloniali
di Sykes Picot, ma secondo linee di antica tradizione
che corrispondono al Califfato. L’Europa, divenuta cinghia di trasmissione della politica economica
mondiale, ha seguito e affiancato gli USA in questo
progetto di dominio del mondo, dimentica della sua
storia e del fatto che i suoi dirimpettai mediterranei
aspettavano da lei il sostegno di una potenza civile,
modello di sviluppo e di democrazia per i popoli della
riva sud. Ora, con l’impatto del terrorismo e ondate migratorie epocali provocate da questa destabilizza-
zione del Medio Oriente e delle zone nevralgiche, è
l’Europa stessa ad essere fragilizzata e quindi vulnerabile sullo scacchiere mondiale.
La frustrazione degli esclusi e la crescita dell’odio
Gli esclusi, i due miliardi che per il sistema neo-libe-
rale non contano nulla, cercano di emigrare ad ogni
costo avendo intuito che non c’è futuro nei loro paesi o trovano rifugio nell’irrigidimento della tradizione,
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 14
nell’Islam che, a questo punto, rimane l’unica ideolo-
gia a proporre un’alternativa “al progetto ‘diabolico’ dell’Occidente di incorporare l’intera umanità in un uni-co sistema globale il quale, grazie alla tecnologia, dà
all’Occidente il controllo di tutte le risorse del mondo”. Terzani, ci ha scritto da Peshawar, da Kabul, da Delhi,
dove ha trascorso lunghi periodi della sua vita per stare
con la gente, per capire come percepiscono l’Occi-dente laggiù e come intravedono il loro futuro. Cosa
aspettarsi da queste popolazioni? “Dal 1983, gli USA hanno bombardato nel Medio Oriente paesi come il
Libano, la Libia, l’Iran, l’Iraq. Dal 1991 l’embargo imposto dagli USA all’Iraq di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane,
circa mezzo milione di morti… E cinquantamila morti all’anno sono uno stillicidio che certo genera in Iraq… una rabbia simile a quella che l’ecatombe di New York ha generato nell’America. Importante è capire che fra queste due rabbie esiste un legame”. Non c’è da stupir-si se l’istruttore della scuola coranica, in un villaggio di fango del Pakistan ripetutamente colpito, gli confer-
ma, con lo sguardo invasato, che “Se non smettono di bombardare, costituiremo piccole squadre di uomini
che andranno a mettere bombe e a piantare la bandiera
dell’Islam in America. Se verranno presi dal FBI, si suicideranno”. Se si tiene conto che questa frustrazione, dovuta al
senso di impotenza di fronte alle bombe occidentali
che da anni mietono morti fra le popolazioni civili nel
Medio Oriente (per 10 persone prese di mira, un drone
colpisce 90 innocenti), si aggiunge ad una frustrazione
di fondo che ha le sue radici nelle difficoltà del mondo
arabo ad entrare nella modernità, si coglie la misura
dell’abisso che separa Oriente e Occidente, abisso in
cui non possono crescere che odio e fanatismo. Su
queste colonne, abbiamo già dedicato molto spazio a
La malattia dell’Islam (Granello n. 5, 2015), come la
definiscono gli intellettuali arabi che si battono per
uscire dalla paralisi culturale in cui stagnano le società
arabo-musulmane, dove il fanatismo religioso e non la
ragione o il senso critico fanno da riferimento. Fa bene
Terzani a ricordare che i piccoli alunni delle scuole
coraniche imparano a memoria il Corano, spesso senza
nemmeno capirne la lingua, convinti di guadagnarsi
così il paradiso per sette generazioni e fa bene a
sottolineare che “è appunto questa accecante mistura di ignoranza e di fede ad essere esplosiva e a creare,
attraverso la più semplicistica e fondamentalista
versione dell’Islam, quella devozione alla guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse un po’ troppo avventatamente, di venirci a confrontare”. Allora, noi Occidentali, convinti di appartenere ad una
civiltà superiore basata sulla ragione e la scienza oltre
che sui valori universali e i diritti umani, come mai
non abbiamo imboccato la via della pace e della
chiaroveggenza? Perché gli interessi del mercato
hanno sempre la meglio su qualsiasi altro principio e
perché “oggi, il paradigma tecnocratico è diventato
così dominante che è molto difficile prescindere dalle
sue risorse, e ancora più difficile è utilizzare le sue
risorse senza essere dominati dalla sua logica” (Laudato si’, p. 108)
La guerra, risposta sbagliata
Con queste analisi, lo ripetono a vicenda sia Badiou,
sia Terzani (che fanno eco allo spirito dell’enciclica di Papa Francesco), non si tratta di giustificare, ma di
capire che il problema del terrorismo come risposta ad
una situazione asimmetrica, “non si risolve uccidendo i
terroristi ma eliminando le ragioni che lo rendono
tale”. Il nostro male viene da più lontano ripete il filo-
sofo, da oltre l’Islam, da oltre l’emigrazione, dall’in-
capacità dell’economia globalizzata di creare un mon-
do per tutti, da una visione binaria (bene/male, noi/lo-
ro...) che semplifica, mutila e impedisce di pensare.
Non saranno le guerre ad avere il sopravvento sul
terrorismo, ma un’idea nuova per gestire il mondo in modo alternativo al liberalismo globalizzato della tecno-
scienza, “il ritorno a una politica di emancipazione che si scosti dall’attuale struttura del mondo contemporaneo”. Terzani chiude citando il preambolo della costituzione
dell’Unesco: “le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente degli uomini che bisogna
costruire la difesa della pace”. Capire e poi pensare,
osare pensare che questa è la strada sbagliata e che
dobbiamo inventarci un altro modo di gestire il mondo
“sulla base di più moralità e meno interesse. Facendo
più quello che è giusto, invece di quello che ci
conviene. Educando i figli ad essere onesti, non
furbi… Facciamolo. A volte ognuno per conto suo, a
volte tutti assieme. Questa è la buona occasione”, invocava Terzani all’indomani dell’11 settembre. Ascoltiamolo, ora che si è ripetuta la tragedia e che la
guerra ha dimostrato di essere inutile. E Laudato si’ si
rifà alla Carta della Terra (dichiarazione di principi
etici fondamentali per il XXI secolo ad opera di
istituzioni e singoli cittadini) che auspica: “possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una
nuova riverenza per la vita, per la risolutezza per
raggiungere la sostenibilità, per l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, e per la gioiosa
celebrazione della vita”. Michele Brondino e Yvonne Fracassetti
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bibblando
La preghiera
Chi legge ha diritto ad almeno due premesse, oggi. La
prima è che il Bibblando di questo mese sarà ben più
ampio del solito, anche se già lo vede a occhio:
diciamo che ne sono consapevole fin dall'inizio. La
seconda è che alcuni particolari di vicende reali che
narro sono leggermente cambiati, per non infastidire
chi preferirebbe non essere troppo facilmente
identificabile. D'altronde, molti potrebbero testimo-
niare esperienze simili.
Le fonti della mia riflessione sono due. Da una parte,
come di consueto, il testo evangelico. Al capitolo 21
del vangelo di Matteo, Gesù passa accanto a un fico
cercando (peraltro fuori stagione) dei frutti e, non
trovandone, maledice quella pianta, che il mattino
dopo risulta secca. A importare, nel passo in questione,
è un giudizio simbolico sul tempio, ma intanto in quel
contesto Gesù istruisce i discepoli sulla preghiera, con
le seguenti parole:
«In verità io vi dico: se avrete fede e non dubiterete,
non solo potrete fare ciò che ho fatto a quest'albero,
ma, anche se direte a questo monte:
Lèvati e gèttati el are , ciò avverrà.
E tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo
otterrete». (Mt 21,21-22)
«Tutto quello che chiederete» è un'affermazione
pesante, sia pure con tutte le precisazioni che si
possono fare sul contesto antico, sulle formulazioni
pensate in "modo semita"... D'altronde, almeno un
altro paio di passi del vangelo di Marco sono
altrettanto decisi:
Rispose loro Gesù:
«Abbiate fede in Dio!
In verità io vi dico:
se uno dicesse a questo monte:
Lèvati e gèttati el are , senza dubitare in cuor suo,
ma credendo che quanto dice avviene,
ciò gli avverrà.
Per questo vi dico:
tutto quello che chiederete nella preghiera,
abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà.
Quando vi mettete a pregare,
se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate,
perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a
voi le vostre colpe». (Mc 11,22-25)
In modo simile, più come promessa e sia pure in una
conclusione del vangelo che non è originaria, Gesù
risorto promette di essere presente tra i suoi in modo
estremamente tangibile:
«Andate in tutto il mondo
e proclamate il Vangelo a ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato,
ma chi non crederà sarà condannato.
Questi saranno i segni che accompagneranno
quelli che credono:
nel mio nome scacceranno demòni,
parleranno lingue nuove,
prenderanno in mano serpenti
e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno;
imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
(Mc 16,15-18)
Sono brani che solitamente si relativizzano, sostenendo
che si tratta di promesse e presentazioni estremizzate e
che di certo non possono essere lette da sole. Senza
affrontare nella sua completezza la questione, basta
ricordare che Luca, in un contesto simile, in cui invita
a confidare nella preghiera, perché il Padre è buono e
darà cose buone a chi gliele chiede, concentra poi le
cose buone nello Spirito Santo, che non comporta
necessariamente la guarigione (Lc 11,13). D'altronde,
Gesù nel Getsemani prega con forza il Padre di essere
liberato dal calice che deve bere, eppure non sarà
liberato dalla morte.
Nel commentare la preghiera di Gesù nell'orto degli
ulivi si fa spesso giustamente notare che Gesù non
prega propriamente di essere liberato dalla morte, ma
dal "calice", che nell'Antico Testamento indica sempre
una punizione che il castigato deve collaborare ad
assumere (mentre chi viene bastonato può anche non
far niente, un calice amaro deve essere bevuto...) e che
il calice a cui Gesù si riferisce potrebbe essere meglio
inteso come la fatica di decidere (se restare,
testimoniando fino in fondo l'amore del Padre, o
scappare, come peraltro aveva già fatto nella sua
esistenza senza che, in quelle altre situazioni, ciò
significasse tradire la propria vocazione). Insomma, il
calice che Gesù sente come pesante e amaro sarebbe
soprattutto la fatica della scelta, esattamente come
nell'esperienza di ogni essere umano. E il fatto che
Gesù si alzi da quella sua angosciante preghiera sereno
e sicuro è il segno che il Padre gli ha risposto,
donandogli la forza di vivere la croce. La risposta del
Padre, concentrata nell'intimo della persona (appunto,
nella forza di affrontare la croce) e oltre la storia (nella
risurrezione) sarebbe esattamente il segno del tipo di
intervento di Dio, che non si impone in modo
coercitivo nella storia ma chiede di essere visto, colto,
sempre con la possibilità di non vederlo, di attribuire
ad altro il cambiamento. In questo modo, ciò che il
credente in Gesù potrebbe chiedere sarebbe soltanto la
forza di vivere la fatica e l'esito buono quando tutto il
mondo avrà finito di parlare, nella risurrezione.
Questo, in fondo, sarebbe con più concretezza la
richiesta di avere lo Spirito Santo.
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Tutto ciò continua per me a essere vero ed è ciò che
continuo a spiegare e a vivere.
Ma non ci si può nascondere che a volte c'è altro.
C'è l'esperienza di un caro amico, cristiano credente,
che, con fraterna e delicata insistenza, si è offerto di
pregare Dio in nome di Gesù Cristo imponendo le
mani per la guarigione di una persona che mi è cara e
che vive in una situazione di salute faticosa, e mi ha
anche di recente incoraggiato, confidando nella mia
fede, a pregare io stesso in questo modo per questa
persona. Mi ha raccontato, con grande entusiasmo, la
sua esperienza di preghiera, attualmente ancora in
corso, con imposizione delle mani a una signora,
bloccata a letto da metastasi ormai diffuse, che in
meno di un mese si rimette in piedi, senza più dolori e
con ogni probabilità ora guarita. C'è poi la diversa
esperienza di una famiglia, che io so, per conoscenza,
essere logorata dalla cattiveria di un fratello, i cui
genitori si presentano da un noto sensitivo cuneese e si
sentono chiamare e dire che il figlio più piccolo sta
rovinando famiglia, lavoro e tutto, e che la smetta. E
tutto ciò solo nel giro di poche ore. E ci sono tutte le
esperienze di miracolo che nella storia della Chiesa
sono tanto ricordate.
Da una parte, percepisco in questa seconda
impostazione qualcosa di pericoloso, a rischio di
diventare una religione esteriore, superstiziosa, in cui
Dio interviene a liberare dagli affanni storici, un po'
come un talismano. Dall'altra, quando il bisogno è di
salute, non si può negare che la preghiera sia sensata,
sia fondata. Peraltro, nei vangeli Gesù è ricordato
soprattutto come guaritore. Ma, per proseguire in
questo gioco di ping-pong del pensiero, sostenere che
Dio ascolta chi lo prega con fede non significherebbe
dire anche che, laddove la guarigione non c'è, manca
anche una fede sufficiente? Altrimenti dovremmo dire
che Dio di certe sofferenze decide di non accorgersi, e
sappiamo quanto siano lancinanti le sofferenze di
genitori che vedono appassire dei bambini in lunghe e
dolorose malattie, per non fermarci che ad un caso
solo, in qualche modo più estremo.
Per una volta almeno, svesto gli abiti del professore,
che non vuole essere ma forse molto spesso sembra
presuntuoso e saccente, per ammettere di non trovare
delle vie d'uscita piene.
Intuisco soltanto una strada non per risolvere la
questione, ma forse per renderla (quanto?) sostenibile.
Si danno, anche tra credenti, sensibilità diverse. Chi mi
parlava dei successi della preghiera a Dio con
l'imposizione delle mani mi citava anche una sua certa
distanza e cautela nei confronti di certi movimenti
carismatici e pentecostali che sembrano confondere
quello che è e deve rimanere una preghiera a Dio con
una sorta di auto-convincimento, invece, di "possesso"
di Dio e del suo Spirito, con tutta una serie di frequenti
e spiacevoli conseguenze, come la perdita di umiltà e
l'acquisizione di un senso di infallibilità personale.
Non c'è dubbio, io sono soprattutto teologo, con studi
biblici sostenuti da un'analisi storico-critica che ritengo
ineliminabile, perché ciò che è accaduto nella storia
umana va affrontato e letto in modo pienamente
umano, perché il Dio che diventa uomo non sopporta
di impostare il suo rapporto con l'uomo in modo non
umano. Perché, diciamocela tutta, la normalità del
rapporto con Dio nella preghiera non si dà in modo
straordinario. La Chiesa della prima generazione,
quella narrata dagli Atti degli Apostoli, faceva ancora
gesti di guarigione straordinari, ma sempre meno, e
una colonna come l'apostolo Paolo si mostrava molto
duro nei confronti dei doni straordinari dello Spirito (1
Corinzi 12-14).
Però ritenere discutibile o censurabile la guarigione di
una persona buona e "meritevole" (per ciò che
riusciamo a giudicare noi...) sarebbe un'offesa
all'umanità altrettanto grande.
Forse il cammino ecumenico, come intuiva Paolo VI,
inizia da qui. Non inizia dal mettere insieme le grandi
chiese, la cattolica, l'ortodossa e le varie protestanti,
perché viene richiesto un cammino insieme, accettando
le differenze, anche all'interno delle diverse chiese, e
anzi nelle singole, piccole, comunità, dove le
sensibilità umane sono diverse. Camminare insieme
accettando le differenze significa proprio ammettere
che si è diversi e non vivere questa diversità come un
ostacolo alla comunione. Siamo diversi, ma
camminiamo insieme, sia pure zoppicando ognuno in
un modo peculiare. La mia impostazione più "razio-
nale", più storico-critica anche nel leggere la Bibbia (il
testo non ci dice immediatamente ciò che leggiamo,
ma ciò che voleva dire per gli uomini che lo hanno
scritto e letto all'inizio... e noi dobbiamo fare la fatica
di risituarlo nel contesto d'oggi), non considererà in-
fantile o ingenua la fede di chi si attende una risposta
nella storia, percepibile, concreta, da parte di Dio. E
questi fratelli e sorelle non riterranno segno di poca
fede o poco amore il mio astenermi dall'imporre le mani
o dal cercare una guarigione miracolosa alle infermità.
Il rischio di considerarsi reciprocamente di poca fede o
ingenui comporterebbe il non trattarsi più da fratelli,
che in tutto il Nuovo Testamento pare essere la vera
tentazione per la Chiesa.
In tutto ciò, ci sarà anche da mantenere libero il
comportamento di Dio, che troppo spesso sembra non
rispondere, non intervenire; e che se intervenisse
regolarmente, efficacemente, ad ogni nostra richiesta
tornerebbe ad essere un amuleto di cui mi servo per i
miei problemi più spiccioli, un Signore che impone
con la forza la propria presenza, non mantenendoci
liberi di fidarci o meno di lui.
Almeno in questo, può darsi che la mia impostazione
più "razionale", che può essere più facilmente accusata
di "poca fede", salvi comunque meglio la libertà di
Dio. Il quale rimane altrettanto libero di intervenire
nella storia.
Angelo Fracchia [email protected]
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 17
“... Tu hai già visto dall’alto del tuo volo
la luce che torna ogni mattina”.
da una poesia - intitolata Gioia - di
don Gianni Beraudo, 25.2.1994.
Ciao, suor Rosa...
Il 15 marzo 2016, al mattino, è
mancata suor Rosa Porello, della
Congregazione delle Suore Giu-
seppine di Cuneo, da anni amica
ed affezionata collaboratrice del
Granello, amica nostra...
Un tragico incidente - investita da
un’auto - ha concluso il suo
percorso con noi, trovandoci
prima increduli e lasciandoci
tristissimi ed indifesi di fronte al
tanto dolore.
Il Consiglio della sua
Congregazione - di cui era
componente - ha così intitolato
l’annuncio sul sito: Rimane
l’amore che ha donato, cogliendo
l’essenziale del suo cammino di 65 anni, spesi in Italia ed in
missione, in Argentina, esperienza
forte che certamente l’ha toccata nel profondo determinandone
scelte e prese di posizione chiare a
favore delle persone più deboli ed
impoverite.
Scorrendo i numeri del Granello si
possono incrociare i reportage che
arrivavano dalla comunità del-
l’Argentina, prima a nord e poi vicino alla capitale, impegnata
con le sue compagne a tutela dei
diritti del popolo che era diventato
il “suo popolo”, di fianco alle
comunità attive nella salvaguardia
delle terre, delle coltivazioni, sostentamento per quelle
popolazioni, lontane dai centri del potere ma “preda” di chi persegue solo il profitto.
E proprio questa era la caratteristica di Rosa,
un’accoglienza incondizionata dell’altro, che sapeva mettere a proprio agio qualunque fosse la sua
posizione nella società, nella comunità ecclesiale,
nell’occasione dell’incontro. Aveva però idee salde, certe, su “dove stare” e da che parte, le sapeva comunicare in modo chiaro, con fermezza, ma sempre
rispettosa delle persone e delle opinioni altrui, non
negandosi al confronto. Mi sembra di poter dire quanto
fosse “adeguata” ad ogni persona, che si sentiva accolta, capìta ed in relazione. E’ passata volendo bene a coloro che incontrava... ha percorso la sua strada
coinvolgendosi, mettendosi al fianco, stando vicino....
“... Percorrendo un vasto territorio dell’Argentina nel mio viaggio da Buenos Aires a Misiones, ho
contemplato a lungo queste terre sconfinate, la vera
ricchezza della nazione. E’ forse uno dei veri problemi che sono causa di
povertà e potrebbero trasformarsi in
soluzione. Si è sempre data ampia
libertà alle imprese, nazionali e
soprattutto internazionali, di com-
prare grandi estensioni di terra in
tutte le latitudini. La soia ha invaso
e distrutto zone intere dell’Ar-
gentina. Comunità intere “vendute”, costrette a emigrare, nutrendo così
il fenomeno dell’urbanizzazione disordinata e degli insediamenti
precari. In alcune province, abitate
da secoli da popoli originari, c’è la persecuzione e la morte degli indios
che resistono alle invasioni. Ho
conosciuto da vicino questi popoli
che solo chiedono di essere rispettati
nel loro diritto di possedere la terra
per coltivarla con rispetto, per
abitarla e goderla, popoli che hanno
molto da insegnarci: loro si sentono
figli della terra, non proprietari, ma
gli interessi e il denaro usano altri
criteri che distruggono e uccidono
la terra e i suoi abitanti.
Tornando in Italia in questo
momento di grave crisi economica,
ho pensato più volte che tutti
abbiamo bisogno di fermarci e
riflettere sui veri valori della vita, su
nuovi stili di vita che ci permettano
di vivere in un modo più umano e
giusto.
Desidero mantenere vivo in me ciò che ho imparato in
questi anni dal popolo: la grande capacità di
condividere, di accogliere, di fare posto a tavola a chi
arriva… e la capacità di godere delle piccole cose
senza crearsi dei problemi inutili, delle esigenze
superflue...” scriveva così per Il Granello nel 2012.
“Nulla va perduto” è la frase che voglio ricordare del suo partecipato funerale ... niente va perduto
dell’affetto che ci ha legati, della condivisione di valori ed ideali, della vicinanza ...
Il Granello ringrazia Madre Maria Nives che ci
permette di pubblicare (nella pagina seguente) la
lettera delle consorelle Giuseppine dell’Argentina, letta in chiesa al funerale, scritto che ripercorre e
tratteggia in modo chiaro e significativo il cammino di
Rosa in quella missione, il suo amore per quel popolo
e l’impegno profuso nella causa dei più poveri.
Costanza
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 18
Cara Maria Nives e sorelle tutte, in questo momento siamo attraversate dal dolore della partenza della nostra cara sorella Rosa, che ha camminato con noi in Argentina per 29 anni. La sua presenza tra noi ci ha permesso di conoscerla e amarla, farla parte della nostra vita e della vita del nostro popolo; è divenuta una di noi, ha fatto propria la nostra cultura, il nostro modo di vedere la vita, la nostra religiosità; ci ha contagiate con la sua passione per il Piccolo Disegno, da lei abbiamo imparato ad amarlo e incarnarlo. Non comprendiamo la sua partenza, sentiamo che ci è stato strappato un pezzo della nostra vita, della nostra storia personale e di Delegazione… però accettiamo la sua morte nella certezza che è promessa di Vita Nuova. Abbiamo da poco celebrato con lei la gioia dei 50 anni di presenza della Congregazione in Argentina. Nel suo passaggio nella nostra patria ha potuto vederci, abbracciarci, ascoltarci; ci ha consolate, ha conosciuto le nostre necessità, i nostri sogni, le nostre stanchezze e difficoltà; ha portato con sé l’intensità delle nostre vite e gli aneliti delle nostre ricerche. La sua presenza continuerà facendo strada con noi, la vedremo e sentiremo con gli occhi del cuore e della fede. Oggi pur nella distanza, ci sentiamo in comunione con tutte le persone che Rosa amava, specialmente con la sua famiglia: Giovanni, Carmen, Andrea, Valeria e i suoi figli; con molte persone del nostro popolo vorremmo essere lì; però siamo certe che lei è qui con noi e con la nostra gente. Sentiremo molto la sua mancanza, ma sappiamo che ci accompagnerà sempre e sarà complice dei nostri sogni. Per questo le diciamo: Rosa ti amiamo molto e finché non torneremo ad incontrarci Dio ti custodisca nel palmo della sua mano.
Le tue sorelle dell’Argentina: Ladi, Renza, Pascui, Mari,
Paulina, Viviana, Isabel.
Così sia
Così possa avvenire… forse (5)
Così possa avvenire
forse
che sappiamo di nuovo scrivere
su fogli e sabbia con mani e dita
senza vergogna :
le nostre esistenze sono piccole
ed in prossimità assoluta
con la polvere e il vento.
Così possa avvenire
forse
che i ciabattini siano poeti
e i danzatori sui crinali del tempo
spalmino unguenti
sui piedi avvezzi alle salite
e i tagliatori di pietre
disegnino lampi nei templi del cuore.
Così possa avvenire
forse
che ogni passaggio e transito
dalle pieghe di animi stanchi
fino alla stagione del volo
sia riconosciuto nominato cantato
dipinto messo in circolo e a disposizione
come pane e vino ad un banchetto.
Così possa avvenire
forse
che piccoli fuochi e poca luce
siano cibo nel combattimento audace
contro ogni effimera apparenza
e il rotolare vorticoso di parole.
Torni caldo il desiderio
del contatto con l’anima del mondo.
Così possa avvenire
forse
che l’intelaiatura dei nostri orecchi travasi visioni agli occhi
e l’intelaiatura dei nostri occhi stilli rugiada sulla pelle del mondo
e chi ha fame di bellezza
ne raccolga gratis.
eva
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 19
Il viaggio del primo racconto
Per entrare dovetti farmi largo tra bauli e varie
cianfrusaglie accumulate in ogni dove:
«Maestro! Mi fate pensare che non vogliate più
fare ritorno a Gerusalemme!»
«Shimshon, quante volte ti devo ricordare che
non sono il tuo maestro? Il Signore non gradirebbe
certo che tu mi chiami così»
«Come volete, ma siete voi ad avermi insegnato
tanto. Mi hanno detto che partivate, ma non
sapevano per dove, e nessuno, credo, pensava a un
viaggio del genere. Quanto pensate di restare fuori?»
«Shimshon, non so se tornerò mai a Geru-
salemme»
«Come? E perché? Avete paura del sommo
sacerdote? C'è un governatore romano, adesso, non
oserà farci niente!»
«No, non è paura della morte. In fondo, comin-
cio ad essere già vecchio e di sicuro non verrebbero a
disturbare noi. Io vado al tempio tutti i giorni, è
chiaro a tutti che sono un buon giudeo. Non faranno
mai del male a chi va ogni giorno nel tempio»
«Non ditemi che avete visto la missione che è
stata organizzata ad Antiochia e volete anche voi
andare in viaggio ad annunciare la bella notizia!»
«Lo ammetto, mi è parsa un'idea interessante e
nuova, che sicuramente sarebbe piaciuta al Signore.
Ma sono troppo vecchio per prendermi i fastidi e i
rischi che si sono presi Shaul e Barnaba»
«Ma allora? Maestro mio, che intenzioni avete?»
Sospirò, prima di sedersi su uno sgabello, fare
posto a me perché mi sedessi accanto a lui, e
guardarmi stanco e forse irritato dalla mia scarsa
comprensione.
«Shimshon, tu… entrato nella via tra i primi»
«Il giorno della Pentecoste, voi avevate iniziato a
predicare di mattina, e dicevate di non essere
ubriaco»
«Sì. Dunque ricordi bene come eravamo organiz-
zati in quei primi giorni»
«Tutti venivano, anzi venivamo, a voi per avere
nuove informazioni, per scoprire altro. Eravate
sempre insieme, voi undici e poi dodici, e tutti
chiedevano consigli a voi»
«Già. Poi la comunità è cresciuta, non tutti
riuscivano a venire da noi, iniziammo a incontrarci
tutti i primi giorni della settimana per ricordare il
Signore, ma non riuscivamo a trovare un ambiente
che ci raccogliesse tutti, e iniziammo a spezzare il
pane in case private, in diverse case private»
«Ricordo bene! Tutti volevamo avervi al nostro
incontro, e voi iniziaste a dividervi, per raggiungere
più comunità possibili»
«Vero. E quando c'erano decisioni da prendere, ci
trovavamo noi undici più Mattia, e cercavamo di
trovare la strada ideale per tutti. Poi però diverse
comunità iniziarono ad avere sempre la stessa guida
per la frazione del pane, quasi sempre un fratello che
era stato con Gesù fin dal principio o che era entrato
molto presto nella via. E questi fratelli iniziarono a
incontrarsi per prendere decisioni, e tra loro iniziò a
crescere sempre più il nome del fratello del Signore»
«Da diverso tempo, ormai, è lui a guidarci e a
parlare a nome della comunità»
«E non noi dodici»
«Per questo ve ne andate? Vi sentite defraudato?»
«Al contrario, ho insistito perché accadesse così. I
primi tempi pensavo che Gesù sarebbe tornato
presto, poi mi è stato sempre più chiaro che i tempi
si allungheranno. E non sono capace di essere sempre
una guida, uno che decide a nome degli altri e per gli
altri. Il fratello del Signore ha queste doti, io no. Ma
un paio di mesi fa in una comunità si è iniziato a
lamentarsi della gestione di Giacomo, si è iniziato a
dire che ha preteso il suo ruolo per via della sua
parentela con il Signore (benché io sappia con
certezza che non è così), a chiedere che sia di nuovo
io a guidare la comunità. Io, non i dodici.
Ebbene, io non voglio entrare in queste lotte che
sembrano fare di noi dei commercianti o dei soldati.
Ho guidato i dodici perché Gesù me lo aveva chiesto
e perché sembrava che, nel poco tempo che aveva-
mo a disposizione, non fosse necessario cambiare
organizzazione.
Ora ci sono comunità varie e ben organizzate, c'è
un capo capace di guidare... e non voglio che si usi il
mio nome per agevolare gelosie e antipatie. Non
voglio essere un capo, e ancor meno voglio esserlo
contro un altro capo»
«Quindi? Tornate a Cafarnao?»
«No. Sarebbe peggio. Di certo i seguaci della via
di quel paese mi vorrebbero alla loro guida, e
approfitterebbero probabilmente per porsi contro
Gerusalemme. Io non voglio essere guida da nessuna
parte. Non voglio esserlo qui né a Cafarnao.
Ho pensato di trovare una città in cui io possa
serenamente nascondermi, una città in cui io possa
parlare del Signore ma senza dover prendere nessuna
decisione per gli altri, in cui possa vivere serena-
mente fuori da ogni sospetto di intrighi o gerarchie.
Voglio essere un discepolo tra tanti, senza
privilegi, senza che si guardi a me come a un
simbolo. I dodici sono stati importanti per un tempo,
ma oggi lo Spirito chiede alla via un'organizzazione
nuova. Io non sono capace di pensarla né di
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 20
Grecia, ma anche Italia Dibattito sulla Grecia e sui profughi, a Cuneo, mercoledì 23 marzo, alla saletta della Guida in via Bono. A partire dal gemellaggio con il centro di Solidarity 4all del Pireo, suggellato a fine gennaio dal viaggio ad Atene di una quindicina di compagni di Cuneo, Torino e Ivrea, parte una proposta ambiziosa di solidarietà dal basso. La tavola rotonda, incentrata sul tema “Contro guerre, xenofobia, neoliberismo, solidarietà dal basso per un'Europa dei popoli", ha visto la partecipazione di Argyris Panagopoulus, Carlo Masoero di Italia-Grecia e Claudio Mezzavilla della Caritas. Con occhio attento alle condizioni del popolo greco sotto la scure impietosa del memorandum e in piena crisi profughi, con la consapevolezza che la Grecia è, nonostante la sconfitta subita, il punto di maggiore contrasto delle politiche neoliberiste e xenofobe che stanno portando l'Europa al suicidio morale e politico, dalla discussione è emersa la necessità di cambiare le cose, e le persone, anche in Italia. Gli interventi hanno presentato le proposte operative che il gemellaggio con il Pireo sta mettendo in campo (la dimensione regionale, la raccolta di medicine, il viaggio politico-turistico di quest'estate, la proposta di gemellaggio di città, la partecipazione a un bando europeo), tenendo conto nello specifico delle diverse caratteristiche delle associazioni di volontariato cui i relatori fanno riferimento: Caritas in Italia (di matrice ecclesiale) e Solidarity4all in Grecia (laica e apolitica, anche se i volontari sono nella loro quasi totalità legatissimi a Syriza), che questo tipo di situazioni cercano, spesso con successo, di alleviare. Ma soprattutto sono state sottolineate le condizioni delle popolazioni, schiacciate dalle politiche di austerità, e quelle dei profughi, presi in mezzo tra guerre ed egoismo dell'Europa. Grande rispetto ed ammirazione merita il popolo greco su cui oggi grava gran parte del flusso dei profughi, che si riversano in Europa, e che reagisce con atteggiamenti di solidarietà e accoglienza senza cedere a xenofobia e razzismo. Un dato significativo va evidenziato: il deperimento dei consensi dei razzisti di ‘Alba dorata’ in piena emergenza profughi. Con amarezza invece si è riflettuto sulla situazione italiana nella quale, mentre alcuni si spendono con generosità, una parte significativa della popolazione cede alla paura e al ricatto dei potenti e scarica la sua rabbia ed impotenza contro migranti e rifugiati. Ed è stata ribadita la necessità di aiutare la Grecia, ma di farlo a partire principalmente da noi stessi, dalla creazione in Italia di una cultura, di un'azione sociale, di una politica in grado di interloquire con quanti in Europa si battono "contro neoliberismo, guerre, razzismi".
Carlo Masoero
condurla avanti. Altri comanderanno, io sarò
uno dei molti»
«Perdonate, maestro, ma dove potreste
trovare una comunità del genere? Ovunque voi
andiate, sarete sempre guardato come alla
roccia, a colui che il Signore aveva posto a capo
della sua comunità di discepoli»
«Ovunque, sì, o quasi. Dovrei trovare una
comunità abbastanza grande, fondata da
abbastanza tempo da avere ormai le proprie
guide, e credo di doverla trovare composta
principalmente da ebrei. Altrimenti troppi
continuerebbero a guardare a me come si
guarda ad un dio»
«Quindi ad Alessandria?»
«No, sono ancora troppo pochi i seguaci
della via ad Alessandria. Ho trovato di meglio,
una comunità che mi accoglierà e nella quale
potrò nascondermi, perdermi, perché grande,
già solida, composta quasi solo da ebrei, e in
grado di ospitarmi senza chiedermi nulla, senza
vedere in me nulla più di uno dei tanti discepoli.
Non una guida come Giacomo, non un
capopopolo come Shaul. Ma un semplice
seguace della via come tutti gli altri. Andrò a
Roma, Shimshon, per essere semplicemente un
credente nel Signore»
Angelo Fracchia
. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 21
Appunti sulla vita ed il pensiero di
Mohandas Karamchand Gandhi (II) (1869-1948)
La nonviolenza gandhiana, sintesi di
pensiero e di azione
Dopo avere in qualche modo tracciato (sul n.
precedente del Granello) l’evoluzione del pensiero-
azione di Gandhi, a cominciare dalla sua formazione
famigliare nell’India di fine Ottocento sotto la dominazione inglese, proseguendo con i suoi studi da
avvocato a Londra per finire con il suo ventennale
soggiorno in Sud Africa e con le prime lotte non
violente, fino al ritorno in India nel 1915, cerchiamo
ora di affrontare il punto centrale, la sua concezione
matura della nonviolenza.
Ricordiamo che con la fine della guerra si accentua lo
scontro tra l’Impero britannico e il movimento indipendentista; Gandhi mette alla prova la sua
metodologia di lotta nel Champaran, in difesa dei
coltivatori di indaco vergognosamente sfruttati dai
proprietari terrieri; nel 1919 primo sciopero generale
e reazione violentissima dell’impero (massacro di Amritsarnel Punjab). Gandhi perde definitivamente la
propria fiducia nell’Impero britannico: l’Impero (non gli uomini che lo servono, sostanzialmente non miglio-
ri né peggiori degli indiani) è ora il nemico, una realtà
negativa che va distrutta.
D’ora in poi abbandoneremo in parte l’approccio
storico per uno più filosofico, rimandando al film di
Attenborough per alcuni passaggi storici principali.
Dicevamo all’inizio che quello di Gandhi è nientedi-meno che uno dei principali tentativi moderni di
rispondere alla domanda sul senso complessivo del
vivere umano, mettendo in comunicazione tra loro
etica, politica, economia e religione; quattro elementi
che nella nostra modernità spesso non si parlano.
Abbiamo anche detto che la nonviolenza gandhiana
non è e non vuole essere un sistema, ma una pratica in
continua evoluzione (non per nulla “esperimenti con la verità” è il titolo dato da Gandhi alla propria autobiografia) anche se guidata da alcuni punti di
riferimento ideali, sintetizzabili nel riferimento alla
tradizione religiosa induista e cristiana, e nella critica
della moderna società industriale.
Etica e politica: il fine giustifica i mezzi?
Ora prendiamo per così dire il toro per le corna,
soffermandoci su quello che per Gandhi, e non solo
per lui, è il problema dei problemi: il rapporto tra fine
e mezzi, in particolare a proposito del rapporto tra
etica e politica. Qui i nomi che ci vengono per primi in
mente sono quelli di Machiavelli e di Max Weber.
Sappiamo che si suole riassumere il pensiero di
Machiavelli con una frase che Machiavelli non ha mai
scritto, “il fine giustifica i mezzi”. Più precisamente, il governante, il “principe” cui è dedicata la sua opera più nota, non deve esitare, se la salvezza dello Stato lo
richiede, a “entrare nel male se necessitato” cioè a compiere delle azioni che giudicate dal punto di vista
dell’etica individuale sono considerate non solo immorali, ma dei veri e propri delitti, come mentire
spudoratamente, uccidere degli innocenti eccetera.
Max Weber all’inizio del Novecento si limita a constatare un insuperabile contrasto tra quella che
chiama “etica dell’intenzione” o dei princìpi (quella che dice: fai ciò che è giusto, avvenga che può) e
l’”etica della responsabilità”, che mette in conto le conseguenze delle azioni e si regola su di esse, in base
al principio della massima utilità e del male minore. Si
noti che qui non si parla di azioni compiute per un
tornaconto personale ma nell’interesse pubblico dello Stato e dei cittadini verso i quali il politico è
responsabile (anche se è molto difficile tracciare una
linea netta di divisione tra i due campi, e questo pone
già un grosso punto interrogativo sull’intera questione). Non a caso abbiamo citato i casi più
clamorosi ed emergenti, quelli della menzogna e della
violenza (la volpe e il leone, nel linguaggio del
Principe), del resto strettamente legati tra di loro. Si
pensi in particolare alla guerra, ai servizi segreti
eccetera; osserva acutamente Freud che lo Stato non ha
mai cercato di eliminare questi aspetti, ma piuttosto di
farsene un monopolio, come ha fatto per il sale e i
tabacchi. In particolare lo Stato ha sempre avocato a sé
il diritto di coazione, particolarmente lo jus vitae et
necis, il diritto di decidere sulla vita dei propri sudditi,
escludendone i sudditi stessi (onde il divieto di farsi
giustizia da sé, tuttavia “carsicamente” presente in diverse civiltà giuridiche). A questo punto ci si può
porre un problema radicale, se cioè il potere - in
particolare il potere politico - non sia inscindibile dalla
violenza e dalla menzogna, se non abbia in sé un
elemento ineliminabile di male morale. In questo senso
il detto comune “il potere corrompe” è suscettibile di una lettura molto più inquietante di quella corrente:
Grandi esperienze spirituali (6)
. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 22
non si tratta solo di un onesto che viene corrotto dalle
seduzioni del potere diventando un mascalzone (cosa
che indubbiamente può succedere) ma di chi pur
restando personalmente onesto è costretto a compiere
(per “ragion di Stato” o di partito) azioni che dal punto di vista etico non possono essere considerate che
delitti. La cosa vale sia per il difensore dell’assetto presente che per il rivoluzionario che vuole cambiarlo:
entrambi ricorrono al principio del male minore per
giustificare la violenza della propria parte. Certo,
l’esecutore di un ordine criminale può, in certi casi, rifiutarsi; ma questo, se gli salva la coscienza, non
risolve il problema, perché sarà probabilmente
sostituito. Ciò che conta non sono tanti i singoli,
quanto la forza della macchina del quale essi
costituiscono gli ingranaggi (non a caso Giovanni
Paolo II aveva parlato di “strutture di peccato”, di strutture che producono e riproducono il male al di là
della volontà dei singoli).
Da questo angoscioso vicolo cieco non si può forse
uscire veramente senza il “colpo d’ala” di una scommessa di fede, religiosa o laica. Ma questo non
può costituire un alibi: in pratica un’alternativa alla violenza è quasi sempre possibile (il caso estremo di
una guerra nella quale il torto è tutto da una parte è
altrettanto raro di quello del pazzo che spara ai
passanti, e che non si può fermare che uccidendolo).
Se non viene percorsa l’alternativa nonviolenta di solito le ragioni sono altre: a) l’alternativa violenta è più “facile”, più immediata, anche perché non si tengono in conto le conseguenze a lungo termine, ma
solo quelle a breve o brevissimo termine. A questo
riguardo Gandhi negli anni 20 aveva previsto che il
potere bolscevico, fondato sulla violenza, nonostante
le sue spettacolari vittorie nell’immediato, non sarebbe potuto durare a lungo; b) la soluzione violenta è per
così dire inscritta nel DNA delle civiltà “evolute”, che storicamente hanno messo la violenza al servizio delle
istituzioni e hanno identificato il coraggio con la
capacità di affrontare la lotta per la vita e per la morte;
c) infine, la soluzione violenta offre a chi la pratica
(l’aspirante Principe) una scorciatoia verso il potere (in molti casi il Nemico, esterno o interno, viene inventato
di sana pianta oppure “coltivato” per consolidare il potere, per deviare l’attenzione dell’opinione pubbli-ca); d) la decisione di ricorrere alla violenza viene
solitamente “forzata” con due considerazioni: in primo luogo, che non c’è alternativa, in secondo luogo, che bisogna fare presto, al limite anticipando le mosse
dell’avversario (guerra preventiva). Sul rapporto tra mezzi e fini Gandhi ha detto una delle
sue parole più incisive: “E’ perfettamente vero che gli inglesi usano la forza bruta e che per noi è possibile
fare altrettanto, ma usando i loro stessi mezzi,
otterremo solo ciò che hanno ottenuto gli inglesi (…). I mezzi possono essere paragonati al seme, e il fine
all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero. Non è possibile che io raggiunga il fine ispiratomi dalla
venerazione di Dio prostrandomi davanti a Satana” (Pontara, p. 45). Il mezzo non è neutrale rispetto al
fine, ma lo precondiziona o predetermina.
Si può fare a meno del potere?
Il dilemma etico-politico del potere si può descrivere
come un circolo vizioso tra guardie e ladri, tra potere e
crimine. Da un primo punto di vista si può infatti
sostenere che il potere è indispensabile per una
convivenza minimamente ordinata; esso si giustifica
appunto perché non tutti gli uomini obbediscono alle
regole; in molti, forse in tutti, c’è una certa tendenza
alla trasgressione, a non rispettare le regole, anche le
più ovvie e neutrali, come quelle di circolazione
stradale (del resto spesso le regole sono variamente
interpretabili, talora chiaramente ingiuste). Se il potere
non reprimesse la trasgressione, tanto varrebbe abolire
le leggi: ma questo significherebbe accettare la legge
della giungla, il debole non avrebbe difesa nei
confronti del più forte: un rimedio peggiore del male.
Ma esiste anche un punto di vista opposto: si può
sostenere – è questa la posizione anarchica nelle sue
varie declinazioni – che bisogna rovesciare il rapporto
causa-effetto: la trasgressione delle leggi, anche
violenta, non è che una risposta alla violenza del
potere statale. In altri termini, non è vero che le
guardie esistono perché ci sono i ladri: l’anarchico rovescia il rapporto causale, sostenendo (semplifico
brutalmente) che al contrario i ladri esistono perché ci
sono le guardie. Una posizione paradossale ma non del
. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 23
tutto insostenibile: ad esempio, non è vero che le
guardie difendono una distribuzione dei beni che
spesso è fortemente ingiusta? E se al limite non
esistesse una proprietà da custodire, cosa ci starebbero
a fare le guardie? Un celebre passo di Rousseau (nel
Discorso sull’origine della diseguaglianza) sembra
dire proprio questo: “Il primo che recinse un terreno e dichiarò questo è mio, e trovò persone tanto semplici
da prestargli fede, fu il vero fondatore della società
civile”. In questa prospettiva, la “violenza diretta” del criminale sarebbe una risposta alla “violenza strutturale” dello Stato. Che dire di questa discussione tra anarchici e difensori
dell’ordine? Mi pare un tipico circolo vizioso, in cui ciascuna delle due parti legittima l’altra con la sua unilateralità. Da un lato è vero che l’uomo è “peccatore”, per usare un’espressione religiosa, dall’altra è vero, come dice san Paolo, che la legge è in un certo senso “causa di peccato”: non solo lo reprime ma reprimendolo lo riproduce. La violenza della legge
insieme limita e alimenta il crimine: pensiamo
all’America, luogo dello scatenamento massimo delle pulsioni trasgressive e di quelle repressive (purtroppo
non solo nei films). Un elemento fondamentale di
complicazione del problema è che, per usare un
celebre detto di Kant, “l’uomo ha bisogno di un padrone, ma questo padrone non può essere altri che
un uomo”. Ha bisogno di qualcuno che lo controlli e disciplini, ma quest’ultimo è egli stesso un essere pieno di limiti e difetti e che quindi può confondere il
proprio tornaconto con il bene di chi gli è affidato. Un
vicolo cieco, al quale non si vede altro rimedio fuori di
quello di evitare un’eccessiva concentrazione del potere limitando un potere con un altro potere: una
soluzione a sua volta tutt’altro che priva di rischi come dimostra l’attuale crisi delle democrazie. E’ troppo ardito ipotizzare nella nonviolenza gandhiana il
“supplemento d’anima” capace di sollevare le democrazie al di sopra dell’attuale palude?
Etica, politica e religione
La situazione si complica ancora se facciamo
intervenire la religione, un altro dei quattro elementi
sopra ricordati. In particolare, se prendiamo i Vangeli,
sembra che qui ci troviamo davanti all’assoluta proibizione della violenza (non solo i detti paradossali
sul porgere l’altra guancia, ma anche il comportamento
di Gesù davanti al potere al momento dell’arresto: “riponi la tua spada nel fodero”). Sappiamo che le prime generazioni cristiane erano fortemente impron-
tate dalla nonviolenza, fino al rifiuto di prestare
servizio militare, mentre col tempo e con il crescente
intreccio col potere politico le posizioni ufficiali delle
chiese si sono spostate sempre più, soprattutto dopo
Costantino, verso la funzione di sostegno o di legitti-
mazione del potere, quale che fosse questo potere: in
particolare san Paolo aveva posto delle premesse in
questa direzione. Più di millecinquecento anni di
cristianità hanno visto uno stretto intreccio tra potere
politico e religioso, certo con una oscillazione tra
cesaropapismo e teocrazia, il primo più forte nel-
l’oriente europeo (chiesa ortodossa), la seconda più
attiva in occidente (cattolicesimo, ma anche alcune
chiese protestanti). La religione più fortemente conno-
tata in senso nonviolento, il buddhismo, è stata
anch’essa coinvolta nelle dinamiche del potere nella misura in cui non è riuscita ad evitare l’intreccio di religione e politica. Nei nostri anni la fusione dei due
elementi nella forma del fondamentalismo è una delle
maggiori minacce per la pace mondiale. Se il pensiero
corre in primo luogo al fondamentalismo islamico, non
dimentichiamo – ad esempio - la presenza di forti
componenti fondamentaliste nel cristianesimo degli
USA, e nell’induismo che nelle ultime elezioni ha portato al potere l’inquietante nazionalismo del BJP. Se Gandhi è contro il fondamentalismo, non è affatto
per la separazione di religione e politica: “La mia
devozione alla Verità mi ha condotto alla politica, e
posso dire senza alcuna esitazione, anche se con
assoluta umiltà, che coloro che affermano che la
religione non ha nulla a che fare con la politica non
sanno che cosa significa religione” (Pontara p. 44). Il problema sarà allora quello di reinterpretare
radicalmente il significato di entrambi i termini: un
compito più che mai urgente anche per noi, che
nell’attuale situazione di pluralismo oscilliamo tra lo
Scilla del fondamentalismo religioso (che vuole
imporre a tutti le norme della propria religione) e il
Cariddi del fondamentalismo laico (che vuole
escludere del tutto la religione e i suoi simboli dallo
spazio pubblico, rischiando con ciò di atrofizzare le
radici stesse dell’etica pubblica). Un compito che implica anche un radicale ripensamento dell’idea di Dio, cui Gandhi ha contribuito dichiarando di preferire
alla formula “Dio è la verità” l’altra formula “La verità è Dio”: la prima infatti identifica implicitamente Dio
con l’idea che ne ha la mia religione, nella seconda invece “Dio è quella verità che sta più avanti di tutte le nostre limitate concezioni” (E. Peyretti, op. cit., p. 60).
L’anarchismo nonviolento cristiano: dagli anabattisti a Tolstoj
Si direbbe che i filoni del mondo cristiano più fedeli
alla nonviolenza evangelica siano quei movimenti
minoritari che, come gli anabattisti del Cinquecento, si
sono rifiutati a qualunque complicità con il potere
politico, in quanto irrimediabilmente compromesso
con il male. Gli anabattisti non chiedono nulla allo
Stato se non di essere lasciati in pace a vivere la
propria vita secondo i dettami delle Scritture. Questo
però è precisamente quello che lo Stato difficilmente
può concedere, visto il principio di sovranità che
rivendica, specie dopo la costituzione delle monarchie
nazionali europee; e infatti la storia degli anabattisti è
una storia di persecuzioni da parte sia dei cattolici che
dei protestanti, salvo poi trovare – come è avvenuto
. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 24
anche agli Ebrei – rifugio e protezione nell’Europa orientale e in particolare in Russia attraverso accordi
diretti con i sovrani. Ma le persecuzioni ricomince-
ranno quando anche la Russia tra Sette e Ottocento si
metterà sulla strada di una costruzione statale di tipo
europeo; a questo punto però si aprirà la prospettiva
delle Americhe, dove attualmente vive la maggior
parte di queste pacifiche comunità (la più nota è quella
degli Amish della Pennsylvania). E a questo punto
ritorniamo a Tolstoj, perché la sua posizione, molto
vicina a quella degli anabattisti, è definibile come un
radicalismo cristiano anarchico, slegato dalle Chiese e
critico nei loro confronti (e infatti la chiesa russa lo
scomunica). Al di là di tutti i discutibili dogmi e
superstizioni che nel corso della storia sono state iden-
tificate con il cristianesimo, egli riconosce il nucleo
vivo del messaggio cristiano nella legge dell’amore, dalla quale deriva come esigenza immediata ed
assoluta il comandamento della nonviolenza (implicito
nel “non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto
a te”). Il cristianesimo quindi proibisce in particolare di partecipare alle organizzazioni che legittimano e
organizzano la violenza, a cominciare dall’esercito (si noti che Tolstoj è stato militare ed ha combattuto,
quindi sa bene di cosa parla) nei confronti del quale
l’obiezione di coscienza degli anabattisti Duchobory è
pienamente legittimata (non a caso egli si impegna con
ingenti risorse finanziarie per permettere a questi
pacifici settari vittime delle persecuzioni zariste di
emigrare in Canada, dove attualmente ancora vivono i
loro discendenti). Ma non basta: anche ad esempio
partecipare come giurato ad un processo criminale
(come fa il protagonista di Resurrezione, Nechljudov)
è qualcosa che va contro la legge dell’amore, che impone di non collaborare in nessun modo all’orga-
nizzazione della violenza: lo stesso diritto di punire
non è un diritto che si possa riconoscere ad uomini
rispetto ad altri uomini. In sostanza, Tolstoj sostiene
che in nessun caso è lecito rispondere al male col male
(“non resistere al male” significa appunto non
rispondere al male col male, non significa affatto
starsene passivi senza far nulla per evitare che il male
trionfi: un equivoco che Gandhi non si stancherà di
segnalare), neppure per evitare un male preteso
maggiore (questa è appunto la consueta ricorrente
motivazione della violenza “giusta” da parte del potere). Un radicalismo che non può non suscitare forti
interrogativi: ad esempio nel caso classico del pazzo o
del delinquente che sta uccidendo dei passanti,
neppure in questo caso sarebbe secondo Tolstoj lecito
ucciderlo, se non c’è altro modo per fermarlo. Su questo punto, sappiamo che tutte le morali sia religiose
che laiche elaborate nel corso dei secoli prevedono il
diritto-dovere di difendersi e di difendere anche
uccidendo. Non sarebbero d’accordo neppure dei dichiarati nonviolenti come Bonhoeffer, o come lo
stesso Gandhi: sulla base del “minor male” Bonhoeffer legittima la sua partecipazione al complotto contro
Hitler, Gandhi a diverse campagne militari dell’impero
britannico (sia pure non come combattente). Da questo
punto di vista, Gandhi e Tolstoj vanno in direzioni
diverse, pur attingendo alle stesse fonti: parados-
salmente, saremmo tentati di dire molto più
“orientale”, cioè contemplativo, assoluto, mistico, proprio Tolstoj, mentre Gandhi sembrerebbe più
“occidentale”, più pragmatico e orientato all’azione e alla trasformazione del mondo.
Il paradosso dell’obbedienza
In realtà, è vero che Gandhi dà gambe e incidenza
pratica e politica al principio della nonviolenza, che in
Tolstoj rischia di rimanere qualcosa di astratto e di
impraticabile. Ma prima di ritornare a Gandhi, vorrei
sottolineare un elemento che si trova chiaramente
espresso nella Lettera a un Indù di Tolstoj, alla quale
abbiamo già fatto riferimento, e che è centrale anche in
Gandhi. Per illustrarlo conviene citare un nome non
molto noto al di fuori degli addetti ai lavori, quello di
Etienne de la Boethie, un intimo amico di Montaigne
morto molto giovane, il quale in uno scritto di poche
paginette generalmente noto col titolo “De la servitude
volontaire” si sofferma su quello che in seguito è stato chiamato “il paradosso dell’obbedienza”. E’ uno di quei pensieri che, come l’uovo di Colombo, sembrano
ovvi dopo che qualcuno li ha enunciati, ma la difficoltà
sta proprio nel vederli quando nessuno li nota, pur
essendo sotto gli occhi di tutti. La Boethie si chiede in
sostanza come sia possibile che una singola persona
possa esercitare un potere tirannico, un potere di vita e
di morte, su una enorme maggioranza: basterebbe che
anche pochi si unissero contro di lui per sopprimerlo
fisicamente. In sostanza si vuole dimostrare un fatto
ovvio ma fondamentale e poco approfondito: mentre
spesso si vede il potere come una proprietà intrinseca
“posseduta” o propria di certe persone, in realtà esso è relazione: nessun potere esiste se coloro sui quali il
potere si esercita non sono disposti ad obbedire.
Naturalmente la questione nei dettagli è complessa,
perché chi comanda cerca sempre di legare a sé,
attraverso carisma, promesse o minacce, una serie di
persone che già possiedono potere per farsene una
base; e questi ultimi a loro volta legano a sé nello
stesso modo una cerchia più o meno ampia (in realtà i
teorici dell’elitismo del 900, come Gaetano Mosca e
Vilfredo Pareto, non hanno avuto torto a sostenere che
il potere più determinante non è mai di uno solo e
neppure della maggioranza, ma in genere di un’élite, di una minoranza organizzata appunto per conquistare e
conservare il potere). Che il potere si basi sull’ob-
bedienza esplicita o implicita lo si tocca con mano in
certi momenti storici in cui il potere perde legittimità
di fronte ai propri sudditi: si parla allora di vuoto di
potere (ed è questo un crinale sottilissimo, in cui basta
un niente per determinare una svolta in un senso o
nell’altro: verso il rafforzamento come nel fascismo nel 1924-25 dopo il delitto Matteotti, o verso la
rivoluzione come nel governo russo della rivoluzione
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di febbraio 1917, destinato ad essere spazzato via dalla
rivoluzione d’ottobre). Ora, una cosa è analizzare queste cose da un punto di
vista teorico come stiamo facendo noi, un’altra è avercele nel sangue come può averle un politico di
razza, quale appunto era Gandhi. Egli aveva una
percezione acutissima dei legami spesso invisibili che
reggevano una struttura di potere come l’Impero britannico, nel quale un’infima minoranza di colonialisti, molti dei quali non particolarmente
brillanti per cultura e capacità, dominava un’immensa
maggioranza di indiani: cosa talmente paradossale da
richiedere una spiegazione approfondita. Gandhi
sapeva come questo potere in apparenza invincibile
poggiasse su basi in realtà assai incerte, su una infinita
sommatoria di piccole paure, piccole viltà, piccoli
compromessi, e come il tempo lavorasse ad erodere le
basi del consenso dell’impero, quindi in favore dell’indipendenza. Ma il suo scopo supremo - a
differenza di molti suoi collaboratori - non era
l’indipendenza politica, ma una riforma morale della
società, addirittura la costruzione di una nuova civiltà
su nuove basi spirituali, alternative rispetto al
materialismo occidentale. Non bastava sostituirsi agli
inglesi al vertice del potere per poi comportarsi come
loro: molto più importante era preparare un nuovo
mondo di rapporti sociali e politici, un nuovo modo di
produrre, di distribuire beni e servizi, un nuovo
rapporto democratico con il potere.
Alcune parole chiave: ahimsa, satyagraha
Cercherò di condensare in alcune parole chiave il
senso del discorso di Gandhi. La prima parola è anche
la più nota, ahimsa, il cui significato letterale è anche
il più vicino all’espressione italiana “nonviolenza”. In effetti questo è vero alla lettera: himsa significa
violenza, la iniziale è un alfa privativo come in greco.
Già sappiamo che è un mantra del jainismo e del
buddhismo, le religioni della rinuncia fiorite sul ceppo
dell’induismo (ma anche contro di esso), e che in seguito l’hanno a loro volta profondamente influen-
zato. Si noti però che non è facile mettersi d’accordo con ciò che s’intende per violenza, a seconda che si metta in rilievo l’aspetto fisico, materiale, oppure quello morale, a seconda che prenda in considerazione
il livello personale oppure quello istituzionale. Ad
esempio, spesso si confonde la violenza vera e propria
con la rozzezza o la brutalità, che dipendono da fattori
caratteriali e culturali e non da una scelta etica. I
teorici contemporanei come Johann Galtung
distinguono tra violenza fisica diretta (criminalità,
terrorismo, guerra), violenza strutturale (pensiamo ai
disastri dell’attuale sistema economico) e violenza culturale (pensiamo all’espropriazione di lingua e costumi di molte società primitive, di molte
minoranze). Un primo abbozzo molto generico di
definizione potrebbe essere: tutto ciò che spegne,
coarta, umilia la vita, non solo la vita umana, ma in
generale qualsiasi forma di vita. Una definizione del
genere rischia però di portarci fuori strada. Si pensi ai
monaci jaina, che vanno in giro con una garza sulla
bocca per evitare d’ingoiare qualche moscerino: un’immagine che denuncia l’impraticabilità e diciamo pure la futilità dell’ahimsa intesa in questo senso
ingenuamente letterale: non solo noi viviamo della
distruzione della vita (almeno di quella vegetale) ma
continuamente conviviamo con un’infinità di esseri viventi dei quali neppure ci accorgiamo, sia che li
alimentiamo sia che li sterminiamo, perché sono
invisibili ad occhio nudo. Ricordiamo Albert
Schweitzer, il medico alsaziano missionario in Africa
che ha coniato la formula del “rispetto per la vita” per definire il principio fondamentale di ogni etica, un
principio senza dubbio altissimo ma non privo di punti
interrogativi (Eugenio Montale in una sua poesia ha
voluto coglierlo in contraddizione osservando che il
suo pellicano, da lui amorevolmente curato, era nutrito
di pesci vivi). In sostanza, se vogliamo essere seri,
dobbiamo puntare allo spirito più che alla lettera; per
ora limitiamoci a sottolineare questo spirito fonda-
mentale del rispetto per le forme anche più basse di
vita: ogni vita ha in sé qualcosa di meraviglioso, di
sacro.
Non si tratta però di un principio assoluto, ma di un
principio che va continuamente composto con altri non
meno importanti. Mi pare interessante il tentativo di
Giuliano Pontara, di ridurre (nell’Introduzione
all’antologia gandhiana da lui curata) il principio della nonviolenza gandhiana non all’esclusione aprioristica di qualsiasi forma di violenza, ma alla massima
riduzione possibile della violenza. E Pontara propone
una definizione di violenza è molto più precisa e
ristretta di quella data sopra: con la parola egli intende
“l’intenzionale e coatta uccisione o inflizione di sofferenze ad una o più persone (e più in generale a
uno o più esseri senzienti” (Introduz. cit., p. XLI).
Ricordiamo una polemica di Gandhi a proposito di
certi cani randagi che egli aveva autorizzato a
sopprimere: accusato di non essere fedele alla
nonviolenza (ricordiamo il contesto induista legato alla
lettera dell’ahimsa) aveva risposto che era meglio
sopprimerli che mantenerli in un’esistenza miserabile, specialmente poi in quanto rappresentavano un grave
. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 26
pericolo per la popolazione (la rabbia). A questo
proposito, pochi sanno che Gandhi era dichiaratamente
a favore dell’eutanasia anche per le persone, nel caso
di malati inguaribili afflitti da gravi sofferenze.
Ashram: la comunità intenzionale
Ashram è un termine indiano che potremmo tradurre
con comunità spirituale, comunità intenzionale (oggi si
direbbe anche ecovillaggio). Ricordiamo la grande
esperienza comunitaria dei kibbutz israeliani, piuttosto
annacquata negli ultimi decenni. Ashram è una parola
che nel pensiero di Gandhi va molto d’accordo con l’ahimsa. Non è infatti facile praticare l’ahimsa in un
normale contesto “mondano”, caratterizzato da un
tasso più o meno alto di violenza. Si capisce a questo
riguardo come il monachesimo abbia giocato un ruolo
di primo piano in molte religioni, tra le quali il
buddhismo e l’induismo, ma anche il cristianesimo. La pratica della religione sarà molto più possibile, si
ritiene, nel contesto di una comunità che pone a
fondamento appunto quel messaggio, traducendolo in
regole pratiche di comportamento, o, come si dice
oggi, in uno “stile di vita”. Gandhi stesso, dalle
esperienze comunitarie sudafricane in poi, ha sempre
vissuto sia pure con molta libertà in un contesto
comunitario, certo sempre con la moglie al fianco (ma
ormai aveva fatto voto di castità). Povertà e castità
come nei monaci cristiani, obbedienza meno – si
potrebbe insinuare – perché comunque, per quanto
umile e nonviolento, era pur sempre lui il capo
(l’obbedienza è notoriamente la prova più dura dei monaci). Ricordiamo una graziosa scena del film di
Attenborough: una lezione di umiltà che i coniugi
Gandhi si sono data a vicenda, ma che era per così dire
imposta dal contesto comunitario (l’impegno di pulire a turno le latrine non andava a genio alla moglie di
Gandhi, anche perché era considerato un lavoro
proprio degli intoccabili). Lanza del Vasto nelle sue
comunità riservava a sé questo incarico, seguendo
appunto l’esempio di Gandhi; per quest’ultimo c’era anche il concreto motivo di sorvegliare il livello di
igiene, notoriamente assai basso in India. Ma l’ashram
aveva anche un altro aspetto (e con questo accenniamo
all’importantissimo rapporto tra etica, politica ed
economia): essendo una comunità in larga misura
autosufficiente, garantiva un basso impatto ambientale,
quella che oggi chiamiamo impronta ecologica.
Produrre i beni che si consumano, a partire dal cibo,
proseguendo con il vestito e l’abitazione (non dimentichiamo che il clima indiano è ben diverso da
quello europeo) significava autoproduzione e autocon-
sumo, indipendenza economica, (swadeshi), necessario
fondamento e completamento dell’indipendenza politi-ca (swaraj). Una cosa che faremmo bene a ricordare in
un momento in cui una globalizzazione selvaggia,
coprendoci di beni per lo più superflui, ci rende in
realtà vulnerabili in ciò che più conta, nel controllo
sulle risorse essenziali della vita, sui beni comuni
primari quali la terra, l’acqua e l’aria (si veda il discorso sulla sovranità alimentare svolto da varie parti
lo scorso anno in margine all’esperienza per molti versi ambigua dell’Expo milanese).
Askesis, ascesi, esercizio
Askesis (esercizio) non è un termine indiano ma greco;
ma non ne conosco un altro che esprima con altrettanta
precisione il “lavoro su se stessi” necessario per superare l’egocentrismo e quindi per accedere non solo alla lettera ma anche allo spirito dell’ahimsa (posso
rispettare le bestioline e intanto essere sfacciatamente
egocentrico, come posso esibire la mia nonviolenza
come elemento di superiorità). Studiando la vita e il
pensiero di Simone Weil, abbiamo scoperto una
tentazione ancora più sottile: un suo amico notava
ch’era distaccata da ogni interesse egoistico, ma non
dal proprio stesso distacco. Per progredire su questo
sentiero la millenaria pratica spirituale delle varie
religioni e filosofie ha tracciato un cammino
abbastanza ampiamente condiviso, una serie appunto
di “esercizi” di purificazione volti alla liberazione
dalla schiavitù delle passioni egoistiche, specie in
quanto queste si tramutano in vere e proprie
dipendenze (si pensi all’elenco dei vizi capitali). Naturalmente si tratta di un sentiero scivoloso e pieno
di trappole, in quanto facilmente lo sforzo ascetico si
trasforma esso stesso in schiavitù, ad esempio con
l’esibizionismo che alimenta la vanità (si pensi agli stiliti, ai fachiri indiani eccetera) o con varie forme che
rientrano nella storia delle patologie psichiche
piuttosto che in quella della spiritualità (in passato
l’anoressia si appoggiava alla religione, oggi alla moda). Ciò detto, l’abuso non squalifica l’uso corretto della rinuncia e della disciplina: certo il digiuno può
diventare esibizionismo (o peggio una vera e propria
patologia), ma sta di fatto che ad esempio chi pensa
solo al mangiare e al bere difficilmente potrà fare
molta strada sul cammino spirituale: questo non perché
mangiare e bere non siano sani e necessari, ma perché
abbiamo un solo sistema nervoso, perché il giorno è
sempre di ventiquattro ore, e se pensiamo solo a quello
non ci rimane più molto spazio per altro. In sostanza,
l’ascetismo rettamente inteso è volto a liberare l’uomo e non a farlo schiavo: liberarlo dall’attaccamento agli interessi egoistici per permettergli di dedicarsi alle
dimensioni più alte dell’umano. Ma in Gandhi non c’è solo l’ascesi del “lavoro su se stessi”; c’è un forte e ripetuto accento sulla necessità
del sacrificio, della sofferenza come metodo sia di
purificazione personale che di lotta politica: non si
può essere nonviolenti senza essere disposti a grandi
sacrifici per gli obiettivi essenziali. Parole dure agli
orecchi di una cultura che detesta il sacrificio non
immediatamente finalizzato a un risultato (reagendo,
anche giustamente, ad una tradizionale tendenza
all’autoflagellazione) e che accusa di masochismo o di complesso sacrificale chi faccia discorsi del genere. E
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anche Peyretti ammette che si tratta di idee non prive
di rischi: “Un’enfasi sul proprio sacrificio, che non sia
solo un trepidante coraggio per amore della vita,
rischia di condurre il soggetto a richiedere facilmente o
ad esigere da altri i massimi sacrifici (…) L’idea di sacrificio va analizzata, distinguendone il senso auto-
distruttivo e eterodistruttivo dal senso di donazione di
sé, anche a rischio totale, per soccorrere altri: classico
esempio la persona che annega nel tentativo generoso
di salvare altri. Qui sentiamo bene che non c’è volontà distruttiva, ma salvifica, e in quell’azione “sacrificio” ha il senso di “azione sacra”, grande, superiore, per amore e non per odio della vita” (E. Peyretti, op. cit.,
p.63). E considerazioni analoghe si possono fare a
proposito dell’ “arte di morire” e del “sopportare i più alti sacrifici allo scopo di liberarsi dalla paura” (op.
cit., p. 64). Per Gandhi la libertà più alta, in fondo
l’unica veramente importante, è la libertà dalla paura, sulla quale continuamente insisteva anche nel corso
delle azioni di massa (Peyretti a p. 64-65 accosta
questi pensieri di Gandhi a una splendida pagina di
Etty Hillesum sul superamento della paura della morte
come condizione della libertà).
Satyagraha: la forza della verità
Altra parola chiave, tra tutte la più vicina al nucleo più
profondo della nonviolenza gandhiana, è non a caso
quella ch’egli stesso scelse per indicare il proprio movimento: satyagraha, traducibile con “forza della verità”. In realtà la parola consta dell’intima fusione di due idee apparentemente abbastanza lontane, satya
(verità, ma anche amore, secondo la proposta di
Gandhi: equivalenza per noi paradossale che ci
dovrebbe mettere sull’avviso rispetto al significato di tutto il discorso) e agraha (forza).
Cominciamo con la prima.
Anzitutto satya non coincide affatto con ciò che noi
occidentali per lo più intendiamo con la parola
“verità”. Significati abbastanza variegati, i nostri, ma che in sostanza
gravitano attorno al concetto di verità
scientifica, oggettiva: dire le cose come
stanno nella loro indipendente realtà. A
questa visione “scientifica” corrisponde
in teologia e in filosofia un’idea ingenuamente dogmatica della verità,
che pretende di rinchiudere il mistero in
formule fisse, chiaramente definite,
sulla base delle quali – vista l’assoluta importanza di conservare la verità nella
sua purezza – si può anche uccidere o
farsi uccidere, come è avvenuto
innumerevoli volte nel corso delle
guerre di religione sia cristiane che
islamiche. Non che Gandhi ignori il
valore dell’aderenza ai fatti, al contrario: ad esempio, la sua campagna
a favore dei coltivatori del Champaran
(1917) era basata su un’ampia inchiesta mirante ad accertare i fatti da un punto di vista rigorosamente
neutrale. Ma in una prospettiva più ampia, che sembra
cogliere un atteggiamento di fondo della cultura
indiana, invece, non solo il punto di partenza ma anche
il punto d’arrivo è il “sapere di non sapere”; il mistero
rimane mistero, in sé la verità è inaccessibile in
termini di oggettività scientifica. Eppure, con questo
siamo ben lontani dallo scetticismo (altro polo
dell’oscillazione del pensiero occidentale, opposto al
dogmatismo). Piuttosto, della verità non si può parlare
se non in termini umani, dal punto di vista dell’uomo, e soprattutto con un forte e diretto riferimento
all’esperienza vissuta. Colpisce qui l’analogia con la fisica moderna, che col principio di indeterminazione
include l’osservatore nel fenomeno osservato. La verità si rivela a ciascuno in modo diverso: è il singolo
individuo l’organo della verità, la sua misura. Nessun relativismo; la verità non è condizionata, ma è
condizionato il nostro modo di cercarla e di scoprirla.
A questo punto si capisce meglio l’importanza del discorso precedentemente svolto sull’ahimsa e
sull’askesis: solo attraverso una purificazione interiore,
solo attraverso il distacco, il superamento del nostro
iniziale ristretto punto di vista egoistico ed
egocentrico, solo coltivando un’autentica purezza dello sguardo (cosa che è molto più facile in una
dimensione comunitaria, in cui la mia visione si
confronta continuamente con quella altrui) possiamo
andare al di là dell’auto-inganno, delle storie che noi
stessi ci raccontiamo, sotto l’influsso della paura e del desiderio. A forza di mentire, non ci rendiamo neppure
più conto che stiamo mentendo, come avviene quando
ci arrampichiamo sui vetri per sostenere privilegi
ingiustificabili con argomenti ideologici, o dividiamo
il mondo in buoni e cattivi ponendoci ovviamente dalla
parte dei buoni. Non per nulla uno dei vertici della
filosofia occidentale, Kant, nella sua vertiginosa
esplorazione sulla natura del “male radicale”, lo ha
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definito in termini di menzogna piuttosto che di
violenza come siamo in genere tentati di fare. Qui
infatti si tratta di cogliere non la pianta del male nel
suo pieno sviluppo e fioritura, ma la sua radice etica
nella volontà dell’uomo: quella che chiamiamo violenza infatti spesso non è che rozzezza e
irresponsabile brutalità, certo deleteria ma poco o nulla
colpevole sotto il profilo morale; mentre la
considerazione etica entra appunto dove compare la
volontà, e precisamente la volontà di appannare la
purezza dello sguardo per tentare di legittimare
(raccontandoci delle storie) ciò che nella piena
trasparenza dello sguardo non sarebbe sostenibile.
Agraha: la verità può diventare forza?
Siamo all’ultima parola chiave. Come può la verità
diventare forza? Noi siamo abituati a riconoscere la
forza all’apparenza piuttosto che alla verità. Una verità che non si manifesta, non s’impone, non fa colpo, non ha forza e non serve a nulla. In effetti, la pubblicità sia
commerciale che politica (in fondo la stessa cosa, si
tratta di vendere un prodotto, sia un’automobile che una scatola di biscotti che un gruppo dirigente) si basa
sulle più raffinate strategie della retorica (cioè appunto
dell’arte dell’apparenza) per muovere la paura e il desiderio delle masse. Qui la verità non c’entra, è per così dire ininfluente: ciò che importa è presentare
un’immagine che smuova le passioni e orienti la gente nella direzione desiderata. Nel regno della menzogna
la verità fa la figura di un marziano; ma proprio per
questo talora può anche destare un salutare choc, e con
questo intravediamo anche una prima risposta alla
domanda di come la verità possa diventare forza. Chi
dice la verità in un mondo di bugiardi spariglia il gioco
delle bugie, causa per forza uno choc, esattamente
come avviene nella favola di Andersen “I vestiti
dell’imperatore”. Il bambino esclama “L’imperatore è nudo” in mezzo alla folla nella quale per conformismo tutti continuano a lodare gli splendidi vestiti del-
l’imperatore (secondo quello che avevano raccontato
gli astuti sedicenti sarti, i vestiti dell’imperatore erano invisibili agli stupidi, per cui tutti facevano finta di
vederli per evitare una brutta figura).
Ricordiamo la scena del film di Attenborough, di
Gandhi che dialoga con i notabili indiani all’inizio della lotta per l’indipendenza: il gesto di Gandhi, di togliere il vassoio al cameriere prendendo il suo posto,
è una tipica “predica coi fatti”: come a dire, di che stiamo parlando? Ci ribelliamo agli inglesi perché non
vogliamo essere servi di nessuno, e poi? Gesti simili li
troviamo nei Vangeli - l’episodio dell’adultera, la lavanda dei piedi - o nella vita di san Francesco. Anche
in politica il meccanismo di base è sostanzialmente lo
stesso. Anche qui si tratta di fare emergere in modo
choccante e paradossale quella verità di fondo della
politica della quale parlavamo a proposito di La
Boethie, e che si può esprimere in questa semplice
proposizione: “Tu comandi se noi obbediamo”. Qui, in
sede politica, lo choc deriva dalla sorpresa, dallo
spiazzamento dell’antagonista, cui viene imposta una lotta asimmetrica (egli si aspettava una risposta
violenta da spezzare mediante una superiore violenza,
mentre ora si trova di fronte a una non resistenza e può
facilmente sbilanciarsi come nella lotta giapponese,
che usa appunto la forza dell’avversario per vincere). In sostanza, si tratta di riprendersi il potere
inizialmente delegato ad un governo, invitandolo a
portare all’estremo e infine all’assurdo la logica della repressione; in ultima istanza evidenziandone non solo
l’ingiustizia, ma la stessa inutilità.
Alcune forme della lotta non violenta
Giuliano Pontara, nella sua Introduzione all’antologia gandhiana più volte citata (p. XCIII e segg.), riconduce
a sei regole fondamentali (rinuncia all’uso e alla minaccia di violenza, attenersi alla verità, disponibilità
al sacrificio in vista degli obiettivi essenziali,
flessibilità su quelli non essenziali, costruttività del
programma, gradualità nelle forme di lotta) i caratteri
dell’azione nonviolenta.
A questo punto è forse però meglio, piuttosto che
analizzare in profondità questi caratteri come fa
Pontara, fare degli esempi concreti per illustrare senza
pretesa di completezza alcune delle molte forme nelle
quali si può articolare la lotta non violenta di Gandhi o
degli altri che hanno seguito il suo esempio. Gene
Sharp, uno studioso americano, autore di una poderosa
opera sulla Politica dell’azione nonviolenta (ed. Abele,
1985 e segg.) ha analizzato molte di queste forme con
grande acume analitico (il fatto che le sue formule
siano state applicate nell’Est europeo per ampliare la zona d’influenza americana dovrebbe indurre a qualche riflessione sul pericolo di staccare le tecniche
della nonviolenza dallo spirito che le sottende).
Una prima forma è la disobbedienza civile. Nella
nostra tradizione occidentale la disobbedienza civile ha
un antico, altissimo esempio nella figura di Socrate.
Socrate è un buon cittadino, obbediente e rispettoso
delle leggi della sua città (tra l’altro, è stato un
valoroso combattente); che Socrate mantenga il suo
rispetto per le leggi ateniesi lo dimostra il fatto che,
condannato, si rifiuti di fuggire nonostante l’ampia possibilità di farlo. Ma, quando i giudici vogliono
impedirgli di fare quello che ritiene il suo dovere, in
obbedienza ad un comando divino (di continuare a
filosofare in pubblico), egli dichiara: “Preferisco
obbedire al dio che a voi”. La disobbedienza civile è stata messa a punto e largamente usata da Gandhi nella
sua esperienza sudafricana nella lotta per i diritti civili
e politici degli indiani (ad esempio bruciando le carte
d’identità, rifiutandosi di rilasciare le proprie impronte digitali ecc.). Essenziale è qui la violazione deliberata
e pubblica di un particolare provvedimento ritenuto
ingiusto (da parte di persone che dichiarano il proprio
rispetto per la legge come tale), dichiaratamente
accettando anzi invocando la punizione (spesso
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Gandhi invocava il massimo della pena, anche in
questo spiazzando i giudici, come vediamo nel film
nelle due scene di processo da lui subito in India).
Diversissima dalla posizione del criminale (che viola
la legge per i suoi interessi e cercando di non farsi
scoprire) la posizione di Gandhi è anche lontana da
quella dell’anarchico, che contesta il potere e la legge
in quanto tali, per quanto l’obiettivo ideale della democrazia radicale gandhiana (che uno studioso
italiano di Gandhi, Capitini, ha chiamato onnicrazia)
sia anche molto vicina all’ideale anarchico (ma lo stesso si può dire della maggioranza dei pensatori
utopisti).
Da questo si vede anche come mai Gandhi rifiutasse
fin dalle esperienze del Sudafrica la definizione di
“resistenza passiva”: in realtà la sua è una resistenza quanto mai attiva, anche se asimmetrica (e proprio in
questo consiste, come si è detto, l’elemento di sorpresa e di spiazzamento).
Un elemento centrale di disobbedienza civile è
presente nella” marcia del sale” di Gandhi nel 1930 per protestare contro una tassa quanto mai impopolare,
(che impediva agli indiani l’autoproduzione del sale) e
che anche per questo ha mobilitato grandi folle ed ha
segnato un vero punto di svolta nella storia dell’India. Ma il significato della marcia era molto più complesso,
perché – a parte l’aspetto di violazione di una legge –
diceva in sostanza la stessa cosa della celebre
campagna del khadi (tessuto di cotone grezzo) e del
charka (arcolaio) nonché dei roghi di abiti occidentali
(roghi contestati anche da molti seguaci di Gandhi).
Cosa diceva? Riprendiamoci le nostre risorse naturali
e culturali; l’indipendenza politica non significa nulla
se non è accompagnata dall’indipendenza economica, e per raggiungere questa dobbiamo non solo
riappropriarci delle nostre risorse, ma anche
reimparare il modo di utilizzarle e lavorarle (ad
esempio appunto la lavorazione artigianale del cotone).
Siamo qui vicini ad ulteriori modalità di lotta
nonviolenta che si possono riunire sotto l’etichetta di “non collaborazione e boicottaggio”. Mentre c’era una legge che vietava di estrarre il sale, non c’erano leggi contro l’uso dell’arcolaio e la filatura a mano; inoltre non c’era nulla di illegale nel fatto che avvocati e funzionari indiani dessero le dimissioni, rifiutando di
collaborare con la macchina amministrativa
dell’impero britannico (caso mai, questo imponeva a molti pesanti sacrifici personali). Così, in sé non era
illegale bruciare tessuti occidentali e mettere dei
picchetti pacifici davanti agli spacci di liquori (altro
elemento della corruzione occidentale che stava molto
a cuore a Gandhi). L’obiezione fiscale (praticata talora
con successo) e l’obiezione di coscienza rientrano invece piuttosto nella disobbedienza civile della quale
si è parlato.
La forma più diffusa di lotta non violenta storicamente
ben conosciuta e praticata in Occidente come punta di
diamante delle lotte operaie, fino alla mitizzazione
operatane da Sorel, è ovviamente lo sciopero,
l’astensione dal lavoro nelle sue varie forme
(compreso lo sciopero bianco). Gandhi l’ha largamente usato già in Sudafrica, ma, da come emerge anche in
una scena del film di Attenborugh, lo hartal da lui
promosso in India nel 1919 non corrisponde
esattamente alla concezione occidentale di sciopero,
consistendo in “una giornata di preghiera e di digiuno” connessa ovviamente con l’astensione dal lavoro, ma con una radice religiosa bene in vista (una radice
religiosa che inoltre poteva unire induisti e musulmani,
con un’importante valenza di pace sia politica che religiosa). Ripetiamo qui che le forme della lotta non
violenta, se sganciate dalla loro radice etico-politica,
possono facilmente essere rivolte contro gli ideali
stessi di Gandhi. Un esempio tra i tanti: lo sciopero dei
camionisti cileni del 1973 è stato solo formalmente
un’azione nonviolenta perché in sostanza è stato la premessa indispensabile di un violentissimo colpo di
Stato che ha posto fine alla democrazia di Allende e ha
portato al potere il sanguinario dittatore Pinochet.
Rimane la forma di lotta più famosa, cui è
inscindibilmente legato il nome di Gandhi: il digiuno.
Bisogna subito dire che è un’arma molto particolare,
legata alla tradizione religiosa, anch’essa facilmente soggetta a banalizzazioni e distorsioni, (come sappia-
mo bene in Italia, dove, in certi casi, il digiuno è stato
percepito come un tentativo di ricatto opportunistico,
slegato da motivazioni profonde). Bisogna dire che il
significato e la garanzia di serietà del digiuno di
Gandhi stava nella personalità di Gandhi, nel suo
carisma capace di suscitare nelle folle indiane - nella
sostanza non molto diverse dalle altre - le emozioni più
nobili, al di là della paura e del desiderio di rivalsa. Il
momento più alto toccato dai suoi numerosi digiuni (e
forse la sua vittoria più limpida) lo troviamo pochi
mesi prima della morte, nel corso del conflitto
sanguinoso tra indù e musulmani. L’indipendenza,
finalmente raggiunta nell’agosto del 1947, diede luogo non ad un’India unita nella convivenza pacifica di indù e musulmani, ma a due paesi divisi e nemici, ciascuno
segnato da furiosi contrasti interni. Eppure, in questa
catastrofe generale di tutte le speranze del movimento
di Gandhi, sembra quasi una favola che i fautori delle
due fazioni, pronti a scontrarsi a Calcutta in una
sanguinosa guerra civile (l’anno precedente c’erano già stati in quella città tumulti con migliaia di morti),
abbiano rinunciato alla violenza perché preoccupati
della salute di un fragile vecchietto che minacciava di
lasciarsi morire se non la smettevano. Cogliamo qui
forse il nucleo più profondo della nonviolenza, che è
però implicito in tutte le altre forme di lotta: la lotta
nonviolenta ribalta le regole del gioco perché è una
lotta anzitutto con se stessi, prima che con l’antago-
nista; una lotta contro la propria violenza. In sostanza
Gandhi voleva espiare simbolicamente la propria parte
di responsabilità nel disastro generale, conformemente
ad un leitmotiv tipicamente orientale, secondo il quale
tutto è connesso a tutto, e nessuno è del tutto innocente
di ciò che avviene; con questo è riuscito a sollecitare
. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 30
un esame di coscienza, una presa di distanza e
un’assunzione di responsabilità da parte di coloro che
erano più o meno direttamente responsabili delle
violenze, e che comunque sono stati in grado di
bloccarle. Due sono secondo Gandhi le condizioni
perché il digiuno abbia effetto: anzitutto deve essere
usato in senso costruttivo, per indurre un individuo a
rivedere la propria posizione, evocando la sua parte
migliore, facendo appello alla sua coscienza, così
come la vendetta invece evocherebbe la sua parte
peggiore. Una seconda condizione è che il digiuno
dev’essere fatto “contro chi ti vuol bene” ossia contro chi condivide con te magari a livello inconscio una
solidarietà di fondo, una stima di fondo per i tuoi
scopi. Non potrebbe funzionare ad esempio contro un
tiranno. Parte essenziale dello spiazzamento di cui si
parlava deve essere, da parte dell’antagonista, la percezione di trovarsi di fronte ad una superiorità
morale: il comportamento del nonviolento deve venir
percepito come vero coraggio, frutto di una lucida
scelta morale e non di pura passività, testardaggine o
fanatismo.
A questo proposito Gandhi traccia una celebre
distinzione tra la nonviolenza del codardo (che di
fronte all’ingiustizia si defila e batte in ritirata, senza tentare una resistenza), e la nonviolenza del coraggio-
so (che accetta la sfida, e combatte l’ingiustizia senza ricorrere alla violenza ma facendo leva - come si è
detto - sulla parte migliore presente nell’animo dell’an-
tagonista). Tra i due, si situa chi reagisce all’ingiustizia con la violenza, scelta che -come sappiamo - hanno
fatto molti patrioti indiani in lotta contro l’impero. Gandhi afferma ripetutamente che se non si riesce a
praticare coerentemente la nonviolenza, la violenza è
pur sempre infinitamente migliore della codardia. “La non-violenza non è una giustificazione per il codardo,
ma la suprema virtù del coraggioso. La pratica della
non-violenza richiede molto più coraggio della pratica
delle armi. La codardia è assolutamente incompatibile
con la non-violenza.” (Pontara, op. cit., p. 23).
La nonviolenza vera e propria presuppone dunque
intima persuasione, maturità e addestramento: come
può dunque muovere le masse? Di fatto lo può fare
attraverso il “contagio” di una minoranza veramente nonviolenta, capace di trascinare una maggioranza
sensibile soprattutto ai risultati pratici (in questo senso
Gandhi contrappone alla nonviolenza autentica o “del forte” la opportunistica “nonviolenza del debole”). Riassumendo, in ordine di valore crescente: nonviolen-
za del codardo, violenza, nonviolenza del debole,
nonviolenza del forte o del coraggioso.
Le reazioni della controparte
E’ interessante vedere quali potevano essere le reazioni della controparte davanti alla strategia paradossale di
Gandhi. Dennis Dalton, nel suo libro su Gandhi, il
Mahatma : Il potere della nonviolenza (ECIG 1998),
analizza in profondità le discussioni che si svolsero in
seno al gruppo dirigente imperiale britannico al tempo
della marcia del sale (annunciata in anticipo da Gandhi
stesso al viceré Irwin; nel film troviamo una scena che
sintetizza tali discussioni). In sostanza il viceré e i suoi
collaboratori non sapevano che pesci pigliare: se
arrestavano Gandhi, rischiavano di scatenare l’indigna-
zione delle masse (e anche di molti indiani moderati);
se lo lasciavano libero, davano l’impressione di averne paura e di perdere la faccia di fronte ad un’aperta sfida al loro potere. Tutto sommato, i britannici si trovavano
meglio sul terreno a loro famigliare dello scontro
violento con i “terroristi”, mentre erano in difficoltà di fronte ad un potere disarmato che faceva appello alla
coscienza individuale. In particolare il viceré Irwin, un
fervente cristiano conservatore, esitava davanti all’ar-resto di un uomo che molti consideravano – e forse
egli stesso sospettava fosse – un autentico uomo di
Dio.
Non meno interessanti sono le memorie di un
funzionario della polizia inglese impegnato nella
repressione delle dimostrazioni all’epoca della marcia del sale del 1930:
“Fin dall’inizio avevo provato una forte avversione per l’ordine di disperdere quelle folle nonviolente… era
molto diverso usare la forza contro uomini come
quelli, rispetto ad adoperarla giustamente contro i
rivoltosi violenti… man mano che il tempo passava,
scoprivo con sgomento che la mia intensa avversione
per l’intera procedura era aumentata a tal punto che ogniqualvolta il Congresso organizzava una grossa
manifestazione, provavo un forte senso di nausea che
mi impediva di assumere cibo fino a quando la crisi
non fosse passata” (p. 175-176).
Alcune pagine di Dalton documentano la posizione di
Gandhi sulla questione della persecuzione nazista nei
confronti degli ebrei. In un articolo del 1939 Gandhi
sostenne che il satyagraha “può funzionare e funziona di fronte alla più feroce opposizione… è risaputo che
le sofferenze dei nonviolenti riescono a sciogliere i
cuori più duri...”(p.178). Alcuni intellettuali ebrei tra cui il filosofo Martin Buber gli scrissero facendogli
rispettosamente notare che le situazioni erano troppo
diverse, sia quanto al carattere tirannico e violento del
nazismo, sia riguardo alla debolezza degli ebrei, una
piccola minoranza circondata dall’odio dei più. Certo, per quanto l’impero britannico fosse tutt’altro che tenero con gli indiani che non collaboravano, non c’era paragone tra lo spazio di manovra goduto da Gandhi e
collaboratori, rispetto a quello degli ebrei tedeschi,
specie riguardo alla possibilità di far leva sull’opinione pubblica, totalmente asservita nella Germania nazista
come del resto in tutti i paesi a regime totalitario.
Eppure, anche di fronte allo spietato totalitarismo
nazista, alcune forme di resistenza nonviolenta hanno
avuto effettivamente successo, come documenta il
saggio di Jacques Semelin, Senz’armi di fronte a Hitler, Sonda 1993.
Alberto Bosi [email protected]
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 31
AMEDEO COTTINO,
C’è chi dice no.
Cittadini comuni che hanno rifiutato la violenza del potere, Zambon Editore, 2015, pp. 191, € 12,00
C’è chi dice no alla violenza del potere
Claude C. Eatherly, uno dei piloti del
bombardiere che ha sganciato la bomba
atomica su Hiroshima (agosto 1945),
tornato in patria, viene accolto ed
esaltato come un eroe, mentre la sua
coscienza lo opprime con profondi sensi
di colpa. Egli si sente un criminale e
non ha remore ad dichiararlo pubbli-
camente: cosa che gli costerà anni
d’internamento in un ospedale psichiatrico. Nel suo carteggio con il filosofo tedesco Gunther Anders,
Eatherly mette il dito sulla piaga quando osserva: “La
verità è che la società non può accettare il fatto della
mia colpa senza riconoscere al tempo stesso la sua
colpa ben più profonda”. Eatherly è uno dei protagonisti del libro di Amedeo
Cottino, che allinea una serie di casi umani sia
personali che collettivi interrogandosi sui fattori che
conducono una persona o un gruppo testimone di una
situazione di violenza a “dire di no”, cioè a solidarizzare con le vittime, ed eventualmente a darsi
da fare per aiutarle, spesso rischiando di persona, o
viceversa – secondo i casi – a “non vedere” oppure a girare la testa dall’altra parte, pur avendo visto. C’è qui qualcosa di non ancora sufficientemente indagato da
nessuna psicologia: le ragioni per cui persone comuni,
non particolarmente politicizzate o colte, si trovano
quasi senza pensarci a compiere gesti di grande
coraggio affrontando rischi mortali per aiutare uno
sconosciuto (è la famosa “banalità del bene” di
personaggi come il nostro Perlasca) mentre altri,
apparentemente molto simili, non fanno nulla o
addirittura si uniscono ai persecutori. Il punto più
delicato e anche più misterioso di questo processo è il
punto iniziale, quello che Cottino chiama del
riconoscimento: quello cioè per il quale il soggetto
riconosce l’Altro come un “altro se stesso”, come un essere umano con suoi propositi, sentimenti, dignità;
diventa consapevole della sua sofferenza, e – talora
attraverso un’improvvisa illuminazione, talora invece attraverso un processo lento e tormentato – lascia
entrare in sé la compassione (che in fondo è tutt’uno con il riconoscimento) e si muove per venirgli
incontro.
Tra i casi più insigni di questa capacità di venire
incontro all’Altro sfidando le minacce del potere,
Cottino analizza due casi relativi agli ebrei perseguitati
durante la seconda guerra mondiale. Il primo riguarda
Le Chambon, un piccolo villaggio francese ai piedi dei
Pirenei, dove la comunità, formata di protestanti, certo
memori delle persecuzioni subite in passato, si adopera
per accogliere e nascondere ebrei e rifugiati politici.
Un altro caso, molto noto, è quello della Danimarca
occupata dalle truppe naziste, dove la popolazione, a
cominciare dalle autorità, si adopera per far fallire il
piano di deportazione degli ebrei messo
in atto dai comandi tedeschi. Il fatto
che oggi proprio la Danimarca sia tra i
paesi che cercano di erigere muri
contro l’ “invasione” dei profughi fa ri-flettere su come sia facile perdere la
memoria storica, su come sia comodo
volgere la testa dall’altra parte di fronte all’attuale emergenza umanitaria,
nonostante lo shock dei tanti bambini e adulti rigettati
dalle onde sulle rive del nostro Mediterraneo (e
nonostante l’impegno di tante persone di buona volontà testimoniato dal recente film di Rosi su
Lampedusa).
Il libro di Cottino (non per nulla sociologo del diritto)
riguarda anche la “miseria” del diritto, il principale strumento col quale l’uomo pretende di individuare e punire i presunti colpevoli dei mali del mondo. In larga
misura si tratta di un’illusione, perché il diritto cerca responsabilità puntuali e personali (chi ha rubato
quell’auto, chi ha ferito o ucciso quella persona ecc.). La violenza diretta (della criminalità e della guerra)
non è l’unica e neppure forse la più grave forma di violenza: giustamente si dà oggi importanza ancora
maggiore alla violenza strutturale (quella di un sistema
economico che, speculando sui prezzi delle materie
prime più indispensabili, uccide migliaia di persone
dall’altra parte del mondo) e alla violenza culturale (quella che delegittima i valori di una cultura,
determinando crisi d’identità in un popolo, per spingerlo a comportamenti e consumi estranei). La
maggior parte dei mali di cui soffre attualmente il
mondo dipende da meccanismi complessi, da reti o
circoli causali, da responsabilità collettive che il diritto
ha solo di rado gli strumenti per individuare e colpire
(si pensi all’amianto di Casale, alle conseguenze mortali per migliaia di persone nei tempi lunghi, alla
difficoltà di un processo che pure rappresenta una
punta avanzatissima nel campo del diritto ambientale).
Alberto Bosi
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 32
C'è una situazione grave in Brasile
Tramite Antonio Lupo, del Comitato Amigos del MST Italia, abbiamo ricevuto e pubblichiamo il comunicato della Direzione Nazionale del MST (Movimen-
to dos Trabalhadores Rurais Sem Terra, noto da noi come Movimento dei Senza Terra), che parlano di un golpe in atto da parte dei media brasiliani, quelli stessi
che hanno favorito il golpe del 1964, la feroce dittatura in Brasile durata 20 anni, più lunga ma meno conosciuta in Italia di quella in Argentina.
Cari compagni/e
1. Certamente tutti/e state seguendo con attenzione gli svolgimenti della crisi politica nel paese. C'è un clima di tensione, di scontri e di grande manipolazione dell'informazione da parte delle reti sociali e di incitamento sociale.
2. In nome della Direzione Nazionale del nostro movimento, vogliamo arrivare a ciascuno di voi, per condividere alcuni elementi di riflessione su questo momento e alcuni orientamenti politici.
3. Il Brasile vive una grave crisi economica, sociale, politica e ambientale, che colpisce tutta la società e che è collegata al contesto della crisi mondiale del capitalismo, alla situazione di dipendenza del nostro paese, agli errori del governo in politica economica e all'avidità dei capitalisti che vogliono solo lucro facile, senza preoccuparsi dei destini del paese e della soluzione dei problemi del popolo.
4. Di fronte alla crisi c'è una disputa permanente di progetti per uscirne. I settori della borghesia, che dominano l'economia e sono allineati con il capitale straniero, vogliono il ritorno del neoliberismo. Tuttavia non possono dire esplicitamente al popolo che vogliono privatizzare la Petrobras, diminuire le risorse pubbliche per la soluzione dei problemi del popolo stesso. E non hanno ottenuto di poterlo fare attraverso il voto nelle ultime presidenziali.
5. Così, un pezzo della società, la cosiddetta piccola borghesia è andata in strada, a gridare il suo odio per spingere la popolazione a manifestare contro il governo, predicando chiaramente il golpe. Travolgere Dilma è una loro necessità per tornare al progetto del neoliberismo, per tornare ad avere il controllo anche dell'esecutivo, delle leggi.
6. Dall'altra parte si è formata una triplice alleanza tra settori del Pubblico Ministero Federale, con l'appoggio esplicito della Rete Globo, per creare eventi politici manipolati e condannare in anticipo l'ex-presidente Lula, creando una situazione di illegalità e persecuzione politica. Selezionano, manipolano e diffondono le informazioni che riguardano unicamente le persone di sinistra. Vogliono alla fine, travolgere il governo Dilma, rendere impossibile la candidatura di Lula e sconfiggere politicamente le idee di sinistra nel paese.
7. La Globo è stata il principale strumento golpista, che manipola e agita l'opinione pubblica, distorcendo i fatti e creando un clima di odio. E' il DNA golpista della Globo che si manifesta ancora una volta.
8. Per le forze popolari, per la sinistra in generale, c'è solo una possibilità: scendere in strada. Lottare per difendere la
democrazia, per difendere i diritti dei lavoratori, per esigere cambiamenti nella politica economica, per difendere la Petrobras e dimostrare al popolo quali sono i veri nemici del paese.
9. Il MST partecipa attivamente al Frente Brasil Popular, che ha deciso un calendario di mobilitazioni in tutto il paese. […]
10. Il 31 marzo, giorno che ci ricorda la triste data del golpe militare, dobbiamo fare assemblee plenarie, mobilitazioni in tutti i comuni dell'interno, per portare questa discussione al maggior numero possibile di persone, alla popolazione in genere. Dobbiamo approfittarne per discutere sulla natura della crisi e su quelle che sarebbero le vere vie d'uscita, combattendo contro il golpe e sostenendo i cambiamenti per migliorare le condizioni di vita del popolo. Difenderemo la democrazia e il mandato della Presidente Dilma, ma vogliamo cambiamenti nella politica economica.
11. Il Nostro Movimento, in particolare, insieme con altri movimenti delle campagne, si mobiliterà durante tutto il mese di aprile per ricollocare nel dibattito politico la riforma agraria. Vogliamo che si riprendano le politiche pubbliche per l'agricoltura familiare e gli insediamenti.
12. Invitiamo ognuno a riunirsi nei gruppi di base, […] per ricordare il massacro dei 21 compagni assassinati. Ancora, a distanza di 20 anni, regna l'impunità.
13. Il nostro futuro è la lotta. Vince solo chi lotta. Per questo non è il momento di restare fermi, nonostante le incertezze di una congiuntura che muta continuamente.
14. Raccomandiamo anche che, con l'aumento della tensione, restiamo in allerta, non cadiamo nelle provocazioni della destra, dobbiamo sempre agire collettivamente. Dobbiamo avere una speciale attenzione nel salvaguardare la sicurezza delle persone, dei militanti e delle nostre strutture collettive.
15. Questo è il momento di stare in allerta, riunendoci con il popolo, portando le nostre analisi, provocando la discussione sulle vie d'uscita dalla crisi, organizzando mobilitazioni nei nostri comuni e partecipando alle attività nelle capitali.
Andiamo alla Lotta! Un forte abbraccio a tutti e tutte
Coletivo da Direção Nacional - São Paulo, 17 marzo 2016
Per ulteriori informazioni raccomandiamo il sito
amico di Quarrata (Pistoia)
www.comitatomst.it/
Questo Comitato fa parte della Rete Radié Resch
(fondata da Ettore Massina – v. www.reterr.it)
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 33
Viaggio in Senegal, per ritrovare l'umanità L'Africa così lontana da un' Europa senz'anima
Il sole africano e l’aria di Dakar ci accolgono: un
sole potente, mitigato da un’aria insolitamente fresca, che spesso diventa vento tagliente. Mi sono ammalata
di tosse e gola. Qui i tassisti non concepiscono
finestrini chiusi… quelli che li hanno … Il viaggio è stato faticoso. Per risparmiare abbiamo
scelto un volo della Compagnia di bandiera turca,
abbiamo volato di notte, per molte ore, con scalo a
Istanbul e a Nouakchott, capitale della Mauritania;
scoperto il nome e la città quando, rimbambite dal-
l’interminabile volo notturno, stavamo per scendere, pensando che fosse Dakar! Occhiata di benevola
irrisione da parte delle hostess - che parlano turco o un
inglese incomprensibile, e capiscono poco l’inglese “normale”- mentre ci riaccompagnano ai nostri posti,
come bambine dell’asilo sfuggite al controllo. Meno male che la maggior parte dei passeggeri dormiva! Ma
l’assistenza a bordo è super. Colazione, pranzo, cena,
abbondanti e gradevoli, che si scelgono su un menù
come al ristorante; bevande, the e caffè quando si
vuole. Tutti a dire che era una pazzia scegliere Turkish
AirLines, con ancora scalo a Istanbul! In effetti, al
ritorno, siamo transitate all’aeroporto la domenica
dell’attentato ad Ankara. E siamo arrivate a casa qualche giorno prima di quello di Bruxelles, scalo del
volo belga, scartato per ragioni economiche, rotta
finora ritenuta la più sicura per l’Africa Occidentale! E’ volare ai tempi del terrorismo, bellezza! Controlli
su controlli, foto di biglietto e passaporto a ogni
ingresso, impronte digitali, domande ripetute,
perquisizioni, poliziotti, militari in armi ovunque, fin
all’ingresso dei bagni! La sensazione è ambivalente: da una parte ti senti più sicuro, protetto, ma insieme senti
l’ansia e l’angoscia dell’ineluttabile, del caso, del destino, del disegno di Dio, come si vuole. Paura no,
piuttosto il pensiero recondito dell’inutilità del tutto, in un misto di rabbia e ribellione per chi cerca di limitare
la mia libertà, la mia gioiosa e orgogliosa indipendenza
di cittadina del mondo, con il terrore da una parte e
con la repressione dall’altra. Prima tappa: Thies, la terza città più grande in
Senegal. Città sul mare, clima delizioso, caldo e
ventilato. Qui è già estate, a casa nevica. Appena
arrivata, sentivo già la malinconia della partenza …
Siamo qui per il nostro progetto di formazione e
animazione, “Migrazione e Sviluppo”, progetto regio-
nale sostenuto da Caritas Italiana, con una delegazione
di tre componenti del Gruppo Regionale di Educazione
alla Mondialità, provenienti da tre Caritas piemontesi:
Cuneo, Fossano, Mondovì. E siamo tre donne!
L’accoglienza senegalese è leggendaria, ma supera
sempre l’esperienza e le aspettative. Ci si sente “a casa” come a volte non capita quando lo si è davvero. Il programma che ci è stato preparato è molto intenso,
affollato d’incontri e visite; ma per prima cosa ci portano a pranzo, in un ristorante di cucina locale,
dove dopo quasi due giorni di cibo buono ma precotto,
i piatti che ci vengono serviti sono la risposta ai nostri
desideri, nella consolazione del corpo e dello spirito.
Comincia il tour e subito capisco che questo sarà un viaggio sorprendente e memorabile. Le prime avvisaglie le avevamo avute nella trasferta
dall’aeroporto di Dakar a Thies, con passaggio obbligato sulla superstrada che passa dalla capitale.
Due di noi erano già state in Senegal, pochi anni fa.
Erano i tempi duri di Abdoulaye Wade, “eletto” nel
2000 e rimasto al potere, con indegne manovre
golpiste e pugno di ferro, fino al 26 febbraio 2012,
dopo una sollevazione di popolo e sanguinosi disordini
in tutto il Paese, contro l’ottantaseienne dittatore. Io ho visto Wade, nel 2011, quando già il Senegal era in
fermento e si respirava aria di rivolta: un uomo tetro,
sguardo sfuggente ma feroce, gesti ieratici, circondato
da altissime e palestrate guardie del corpo, vistosa-
mente armate, e soldati in assetto di guerra, arrivato sul
luogo del Convegno, al quale partecipavo, con una
lunga colonna di enormi fuoristrada neri e corazzati.
L’impressione era stata sinistra e inquietante, anche per l’avversione tangibile che si respirava intorno a lui nella sala e fuori. Ora, il nuovo Presidente è Macky
Sall, 55 anni, progressista e supportato dalla società
civile, alleata preziosa per la sua vittoria alle elezioni,
finalmente libere e molto partecipate, del 2012.
Ripercorrendo lo stesso percorso delle volte prece-
denti, ai lati di quella che in Senegal può essere
ritenuta a buon titolo un’autostrada, scorrono chilo-
metri di cantieri, nuove costruzioni, gru ovunque,
mucchi di mattoni, cataste di legno, tubi di ferro, cubi
di cemento. E un brulicare di operai al lavoro. E poi
uomini, con giacche catarifrangenti, che riparano e
ripuliscono il bordo della carreggiata. Cose mai viste,
né immaginate!
Un’altra città, un altro Paese, in tre anni, soltanto tre anni di “buon governo”! Certo di strada ne resta ancora tanta da fare, mentre i
poteri forti e gli interessi multinazionali cercano una
riscossa, con i soliti mezzi di sempre. Ma intanto le
persone stanno rialzando la testa, si muovono, si
uniscono, cercano il loro riscatto, immaginano un
futuro diverso.
E’ come se un respiro profondo e collettivo si stesse
non perdiamoci di vista…
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 34
levando da mille gole e mille cuori, diventando un’aria tagliente che ripulisce e risana, un vento vigoroso di
rinnovamento.
E’ dalla società civile che arrivano le novità più interessanti. Novità per noi, che ci ostiniamo a
guardare all’Africa, come a tanti altri luoghi del mondo, che consideriamo periferie invisibili e senza
futuro, con lo sguardo pigro e supponente della nostra
civiltà superiore, del nostro modello di vita sacro e non
negoziabile.
Abbiamo incontrato tante realtà, gruppi, associazioni,
organizzazioni, di varia identità, appartenenza, riferi-
mento politico o religioso, ma tutte che si muovono sul
terreno comune del riscatto sociale e del recupero di
una dignità negata.
Abbiamo incontrato uomini e donne di una cultura
che ci ha incantato, capaci di aggregazione, di
coinvolgimento, di condivisione. Ci siamo immerse in
un’umanità generosa, che non odia, non coltiva rabbia, rancore o desiderio di vendetta, che vuole rispetto e
giustizia; non li chiede ma non li pretende, lavora e
lotta per affermarli con le sue risorse, le sue forze, per
la quale la solidarietà è un valore primario.
Questo è il Senegal, oggi. Se continuerà a esserlo do-
mani, ci riguarda da vicino, dipende anche da noi. Per
parafrasare un famoso slogan sulla mafia: se noi sare-
mo abbastanza vivi da permettere agli altri di vivere.
Di questo processo fa parte integrante la migrazione, enorme fraintendimento riconducibile
sempre al nostro atteggiamento di cui sopra, oltre che
funzionale agli stessi interessi.
Ci sarebbe tanto da raccontare di questo fenomeno
visto dall’altra parte del mare, per scoprire quanto sia diversa la narrazione vista con gli occhi dei
“protagonisti”. Perché l’Africa non è il bacino inerme di esseri umani alla deriva, nei nostri mari e sulle
nostre rotte di terra. L’Africa sta combattendo una
durissima lotta contro l’abbandono dei suoi figli, la maggior parte giovani. Lo sta facendo con determi-
nazione, come con la stessa determinazione si prende
cura dei migranti cosiddetti di ritorno, dei profughi
interni che migrano da Paesi invivibili. In Senegal
come in tanti altri Paesi africani, il primo obiettivo è
creare occupazione e lavoro, condizione fondamentale
per disincentivare la fuga verso “i paradisi” occi-
dentali, in primis l’Europa. Se c’è possibilità di futuro a casa, molti scelgono di
rimanere, e volentieri.
Siamo state ospiti per una mattinata di lavoro ordinario
presso un’associazione che si occupa di accoglienza. I locali sono modestissimi ma accoglienti, con piccoli
uffici/scatola indipendenti per ogni operatore, corredati
di tutto il necessario. Le persone sono ricevute e
ascoltate per il tempo che serve, calma e pazienza,
anche se sono tante. I colloqui più impegnativi si
svolgono sotto un grande albero nel cortile, dove
l’ombra e il verde creano un luogo di quiete e
riservatezza, dove è forse meno difficile raccontare la
propria storia di sofferenza, di tragedia, spesso di
orrore. La dimensione umana di chi chiede aiuto, è al
primo posto, poi verrà tutto il resto. Non ci sono
“utenti”, ci sono solo fratelli in difficoltà ai quali
offrire solidarietà e restituire dignità.
Come il ragazzo che arriva dal Gambia, universitario e
con buone prospettive di vita e di lavoro. Ma con un
“ma”. E’ omosessuale, e viveva la sua condizione in assoluto segreto, finché una soffiata anonima l’ha sma-
scherato. E ha dovuto fuggire da un’ora all’altra, senza il tempo per portarsi via niente, con i poliziotti quasi
alla porta di casa, per salvare se stesso e proteggere la
sua famiglia e i suoi amici da ritorsioni e violenza.
Perché in Gambia l’omosessualità è un reato capitale, cioè è punito con la condanna a morte, solitamente
dopo un processo sommario, o anche senza.
Molto del lavoro si svolge con i migranti di ritorno, i
senegalesi che sono emigrati all’estero, ci sono stati a lungo ma, complici la devastante crisi europea e la no-
stalgia per il loro Paese, decidono di tornare a casa.
Come l’uomo di mezza età che sta cercando di com-
prarsi un taxi qui a Dakar, dopo 30 anni di lavoro fra
Italia e Germania, ed è venuto qui perché possono aiu-
tarlo a trovare un prestito e per le pratiche per la
licenza.
Uno degli ultimi incontri è cruciale. Andiamo a
Pikine, l'immensa e incontrollata città alle porte di
Dakar, talmente priva di servizi da risultare la sua
naturale periferia, che si sviluppa in fasce sempre più
degradate spostandosi verso il centro. Centinaia di
migliaia di persone ammassate in una “città” di
macerie abitate, baracche, ricoveri di fortuna, prati
aridi punteggiati da pecore macilente e affamate,
stagni maleodoranti, strade di sabbia, che si allaga
rovinosamente tutti gli anni nella stagione delle
piogge. C’è un progetto per abbandonare quest’area irrecuperabile, per costruire nuovi quartieri lontano
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 35
Beneficenza tanta, ma guastata
La Fondazione Bill e Melinda Gates (Bmgf), con un patrimonio di 43,5 miliardi di dollari, è la più grande fondazione di beneficenza del mondo. Attualmente distribuisce più aiuti per la salute globale rispetto a qualsiasi governo. Un rapporto di Global Justice Now intitolato “Gated development”, che potrebbe tradursi “Sviluppo guastato” pone molti dubbi sull'operato dell'or-ganizzazione creata dall'uomo più ricco del mondo e da sua moglie. Secondo l'Ong britannica, la strategia della Fon-dazione mira a rafforzare il ruolo delle imprese multinazionali, anche se queste imprese sono in gran parte responsabili della povertà e delle ingiustizie che affliggono il sud del mondo. Bmgf promuove l'agricoltura industriale in tutta l'Africa, spingendo per l'adozione di Ogm, di sistemi di semi brevettati e fertilizzanti chimici. Incoraggia un sistema in cui poche grandi imprese control-lano la ricerca e lo sviluppo, la produzione e la distribuzione di sementi; minando, così, l'agri-coltura di sussistenza contadina esistente, che assicura la maggior parte della sicurezza alimentare del continente. I suoi finanziamenti spingono in direzione della privatizzazione di sanità e istruzione, una scelta che rende ancora più difficile la copertura universale dei bisogni fondamentali. I ricercatori ricordano che nel 2012 una relazione del Senato ha scoperto che il ricorso di Microsoft a società off-shore gli ha permesso di evadere le tasse per 4,5 miliardi di dollari, una somma superiore alla somma annuale di sovvenzioni erogate dalla Bmgf (3,6 milliardi di dollari nel 2014).
S. D.
Il Servizio Civile nei Corpi Civili di Pace
“Agirà portando messaggi da una comunità all’altra. Faciliterà il dialogo all’interno della comunità al fine di far diminuire la densità della disputa. Proverà a rimuovere l’incomprensione, a promuovere i contatti nella locale società civile. Negozierà con le autorità locali e le per-sonalità di spicco. Faciliterà il ritorno dei rifugiati, cercherà di evitare con il dialogo la distruzione delle case, il saccheggio e la persecuzione delle persone. Promuoverà l’educazione e la comuni-cazione tra le comunità. Combatterà contro i pregiudizi e l’odio. Incoraggerà il mutuo rispetto fra gli individui. Cercherà di restaurare la cultura dell’ascolto reciproco. E la cosa più importante: sfrutterà al massimo le capacità di coloro che nella comunità non sono implicati nel conflitto (gli anziani, le donne, i bambini)”. Questo sareb-be stato il corpo civile di pace europeo secondo il documento elaborato dal Parlamentare Euro-peo Alex Langer, nel 1995, nel pieno della tragedia jugoslava. Anche in Italia, dopo la Germania, i giovani potranno scegliere di svolgere il Servizio civile nei Corpi Civili di Pace. Il governo ha pubblicato il bando aperto agli enti per presentare progetti per attività di pacificazione in aree di conflitto. A giugno, ci sarà il bando per selezionare i primi duecento volontari e avviare un percorso di formazione. L’importo finanziario, 3 milioni all’anno, è esiguo se paragonato ai 17 miliardi che lo stato spende per le forze armate, ma può rappresentare l’inizio di un capovolgimento nel modo di intendere la risoluzione dei conflitti.
Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni - Cuneo
dalle alluvioni, su terreni sani e sicuri. I lavori sono già
cominciati. Ce la farà l’amministrazione pubblica a sostenere un impegno economico enorme come quello
richiesto? Qui vive una splendida signora da Premio
Nobel. Ha fondato un’associazione per le donne che hanno perso i loro figli e fratelli nel tentativo di
migrare. Ha aperto per loro un centro per l’educazione e il lavoro, dove possano studiare e imparare un
mestiere, per uscire dalla disperazione, aiutare le loro
famiglie e soprattutto prevenire e impedire la
migrazione, che avviene con i terribili viaggi in piroga.
Sono imbarcazioni lunghe e strette, caratteristiche del
Senegal. Pescano pochissimo in acqua e si
capovolgono con estrema facilità, in mare aperto
durano poco. Ci hanno detto che su sette che
s’imbarcano, ne sopravvive uno. Un’ecatombe annunciata, perché tutti lo sanno. Un’ecatombe che queste donne s’impegnano a fermare, ogni giorno, dopo che il mare si è portato via qualcuno che
amavano e ameranno per sempre.
Dopo la visita al suo Centro, ci chiede di accom-
pagnarla sulla spiaggia vicina. Ci fa vedere quelli che
stanno aspettando di partire, accoccolati sulla sabbia
con uno zaino o un borsone accanto, lo sguardo
lontano.
Sono di meno, ma ce ne sono sempre, ci dice. Poi va
sulla riva, s’inginocchia e si lava il viso con l’acqua di mare. E’ il saluto a suo figlio, morto partendo da quel-
la spiaggia; un gesto che ripete ogni volta che viene lì.
Guardo verso il mare. Vedo poco, perché sto
piangendo. Oltre quel mare c’è il mio Paese, c’è l’Europa, una tetra fortezza che sta deportando i figli di questa e altre terre in Turchia, consegnandoli a un
destino senza speranza. E’ un marchio d’infamia che segnerà nella storia il nostro tempo, il nostro
continente, e la mia generazione.
Claudia Filippi [email protected]
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 36
Quale digiuno per il Signore?
E’ appena trascorsa la Quaresima: una delle pratiche tradizionali proposte abitualmente in questo momento
liturgico è quella del digiuno. Nella maggior parte di
noi i ritmi e gli usi del tempo in cui viviamo hanno
fatto cadere nel disuso questa consuetudine che nella
nostra giovinezza abitava le nostre famiglie. Al di là
del momento rituale resta il fatto che concederci dei
momenti di pausa o quanto meno di un cambio di
marcia era e sarebbe tuttora una pratica utile. Vorrei
con questo breve scritto proporre una riflessione su
alcune opportunità di vivere comunque nella nostra
vita di tutti i giorni la possibilità di esercitarci nella
pratica di un “digiuno” che possa rivelarsi utile al
nostro cammino quotidiano.
• Il digiuno delle ansietà e delle aspettative...
Ho già avuto occasione di riferire uno dei “guadagni" che ho riportato dal mettermi a fianco delle
popolazioni africane: nel condividere con tante
persone di una cultura così diversa i loro momenti
difficili ho potuto apprezzare a fondo la loro capacità
di dilatare il presente e riuscire a viverlo intensamente
come unico spazio sicuramente disponibile.
Immersi come siamo nella nostra tensione verso ciò
che sarà, noi siamo portati a cogliere in questo loro
atteggiamento assenza di progettualità e fatalismo.
Conoscendoli più a fondo si arriva a comprendere quan-
to avremmo invece da imparare per acquistare in sere-
nità nell’unico momento che ci appartiene palpabil-
mente e cogliere il meglio di ciò che stiamo vivendo.
Non è facile e non è detto che si possa concretamente
riuscire a farlo quotidianamente nel presente compres-
so che il nostro tipo di civiltà ci concede, ma credo che
può tornare utile pensarci di quando in quando e
tentare di esercitarsi in tal senso: è una sorta di
“training autogeno” che non può che giovarci ben più di qualunque ansiolitico.
Per questo, anche se può sembrare un controsenso,
ogni volta che ci scambiamo un augurio per qualcosa
che aspettiamo è proprio un presente ampio ciò che
dovremmo augurarci come migliore futuro possibile.
• Il digiuno dei “diritti acquisiti”
Siamo abituati nel nostro mondo occidentale ad agire
solo in presenza di garanzie ritenute indispensabili ed
irrinunciabili: occorre avere tutto il necessario e
mettersi nelle condizioni più opportune per assicurare
un buon esito alle nostre azioni. Questo atteggiamento
talvolta può arrivare a costituire l’alibi per la nostra astensione dall’agire persino di fronte ad una necessità
razionalmente incontrovertibile. Nel cosiddetto buon
senso comune ed anche rispetto alla legge un
comportamento diverso può di fatto correre il rischio
di essere valutato a seconda delle circostanze e,
soprattutto dell’esito del nostro agire, alternativamente
o come un temerario atto di “altruismo” o come un gesto incosciente.
La capacità di mettersi in gioco anche in assenza delle
condizioni ideali, il “digiuno di ciò che ormai
riteniamo un diritto-dovere acquisito, è l’unico stato d’animo che, in alcune occasioni non preordinate, ci
può mettere in grado di riconoscere l’ “altro” nella veste di prossimo in stato di necessità e determinarci
nella scelta di rinunciare alle pur possibili
giustificazioni a sostegno di un’astensione. Tra queste per i meno giovani spesso quella dell’età appare la più solida anche quando potrebbe non esserlo, tanto che,
nei fatti, la dimentichiamo volentieri se si tratta di
concederci attività ed azioni comunque gradite.
In queste disposizioni d’animo, pensando all’ineso-
rabile trascorrere degli anni, mi diverte dire di me
stesso, come un amico più anziano di me una volta mi
disse: “non sono vecchio… sono solo giovane da più
tempo… da tanto tempo”; è un’espressione più profonda di quanto il suo intento ilare non lascerebbe
trasparire. Lo è se la si usa non per millantare una
qualche forma di giovanilismo o per rifiutare o
nascondere la propria età, ma per darle invece il suo
vero valore: quello di un presente aggiunto a tanti
presenti trascorsi che fanno di me il mio presente di
questo momento. In analogia con questo modo di
pensare io credo che vivere, costruire, ricavare il
meglio di/da me stesso nel mio presente sia il miglior
modo di prepararmi ad un’eventuale aldilà: inteso in tal senso, se ci sarà, potrebbe essere un’altra occasione di “presente” da cogliere e vivere intensamente. Perché
allora non essere al meglio per affrontarla? Si può ri-
leggere così l’invito all' “Estote parati” del messaggio evangelico: essere pronti… al presente!
Leonardo Lucarini [email protected]
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Referendum del 17 aprile per fermare le trivelle
Per noi è importante informarsi e partecipare … e poi votare Sì! Avremmo desiderato offrire un contributo originale, sul Granello, rispetto alle tematiche sollevate dal referendum; ma l’informazione di cui disponevamo fino a pochi giorni fa per prepararlo ci sembrava scarsa e spesso superficiale. In questi ultimi giorni l’informazione comincia ad ampliarsi, ma noi non abbiamo più tempo di esaminarla, perché il Granello deve essere stampato e spedito entra la data del referendum. Ci accontentiamo dunque di riproporre un documento, elaborato dal Comitato per il Sì, che a noi sembra serio, ricco di informazioni, non retorico.
Invitiamo chi volesse approfondire le questioni a leggere documenti sui siti ufficiali dei promotori del referendum: www.fermaletrivelle.it e www.notriv.com. Articoli importanti si trovano nei siti (facilmente rintracciabili) di Legambiente, Greenpeace Italia, Sbilanciamoci!, WWF, il Manifesto… A chi vuole approfondire la questione anche sul versante del mondo cattolico, ovviamente innanzitutto raccomandiamo la lettura dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, ma anche dell’appello di padre Alex Zanotelli per il Sì al referendum sulle trivelle.
Ci sembra poi opportuno segnalare l’interessante articolo di Chiara Tintori sul n. 4 (aprile 2016) della rivista dei gesuiti “Aggiornamenti sociali”: l’articolo è liberamente accessibile anche ai non abbonati sul sito del periodico. Infine non vogliamo dimenticare il documento dell’Ufficio Piemontese Pastorale Sociale e del Lavoro, del 21 marzo scorso, che termina con un invito nient’affatto diplomatico, anche se scherzoso: “Se amate il mare, domenica 17 aprile non andate al mare, andate a votare!”. Invito accettato! Noi a nostra volta lo giriamo a tutti i nostri lettori.
1 - Il referendum è inutile? Il referendum serve a cancellare l’ennesimo regalo fatto alle compagnie petrolifere con l’approvazione della Legge di Stabilità 2016, che permette loro di estrarre petrolio e gas entro le dodici miglia nei nostri mari, senza alcun limite di tempo, ripristinando quanto prevedeva la norma per ogni altra concessione di ricerca ed estrazione, ovvero una sca-denza temporale (6 e 30 anni a seconda delle concessioni). Il referendum del 17 aprile è stato ritenuto necessario dalle Corti di Cassazione e Costituzionale per entrare nel merito della durata delle concessioni entro le dodici miglia. Nessuna concessione di un bene dello stato infatti, può essere affidata a un privato senza limiti di tempo, fino a che convenga a quest’ultimo. 2 - Il referendum è ideologico? Il movimento referendario ha già costretto il Governo a importanti passi indietro nella sua politica pro trivelle. Il percorso referendario si è già contraddistinto per aver portato a casa risultati concreti molto importanti. In particolare con la legge di Stabilità 2016 il Governo è stato costretto a fare dietrofront su tre aspetti molto rilevanti: le attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio nel nostro Paese non sono più strategiche (lo erano diventate con l’approvazione dello Sblocca Italia a fine 2014); ha ridato voce ai territori, riportando le decisioni per le attività a terra in capo alle Regioni e agli enti locali (sempre lo Sblocca Italia aveva avocato tutte le decisioni allo Stato centrale) e infine ha reso operativo il divieto al rilascio di nuovi titoli abilitativi entro le dodici miglia nel mare italiano. Un divieto previsto già dal Dlgs 128/2010 ma che i Governi che si sono
succeduti negli ultimi anni hanno sempre provveduto a smontare. 3 - Il referendum è inutile perché non ci saranno più nuove trivelle entro le dodici miglia Attualmente, la legge non consente che entro le 12 miglia marine siano rilasciate nuove concessioni, ma non impedisce, invece, che nell’ambito delle concessioni già rilasciate, dove il programma di sfruttamento lo preveda, siano installate nuove piattaforme e perforati nuovi pozzi, come nel caso della piattaforma Vega B nel canale di Sicilia. Se vince il Si il titolo andrà a scadenza nel 2022 e la piattaforma sarà fermata, se vince il No molto probabilmente sarà realizzato anche questo secondo impianto nell’ambito della concessione esistente. La stessa situazione vale per la concessione Rospo mare di fronte le coste abruzzesi, dove nel programma di sfruttamento sono previsti nuovi pozzi. Nel caso vinca il Sì verrebbe ripristinata la scadenza del marzo 2018 e quindi non ci sarebbero ulteriori ampliamenti. Rimane infine in sospeso il caso di Ombrina mare, il progetto di una nuova piattaforma petrolifera a sole 3 miglia dalla costa che in questo momento è tenuto in sospeso fino a fine 2016. Inoltre è bene ricordare che con l’attuale formulazione della norma sono fatti salvi sine die anche alcuni titoli di ricerca che un domani potrebbero trasformarsi in nuove attività (questa ad esempio è una delle contraddizioni della durata illimitata dei titoli abilitativi già rilasciati). 4 - Se l’Italia non trivella, trivellerà qualcun altro, ad esempio la Croazia? In Adriatico l’Italia è l’unico paese ad avere decine di
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concessioni e piattaforme in mare anche a ridosso della costa. La Croazia, l’altro Paese ad avere piattaforme instal-late nel mar Adriatico, ha solo 19 piattaforme per l’estrazione di gas localizzate al centro dell’Adriatico, a ridosso del confi-ne delle acque di sua competenza. Inoltre il Governo croato ha di recente firmato una moratoria contro le nuove trivel-lazioni. La moratoria segue di qualche mese la rinuncia da parte di due compagnie petrolifere a proseguire le attività di ricerca di giacimenti in acque croate su 7 delle 10 aree che il Governo aveva dato in concessione. Non è l’unica rinuncia, visto che qualche settimana fa la Petroceltic ha fatto dietro-front rispetto a un permesso di ricerca a largo delle isole Tre-miti e la Shell per le sue attività nello Ionio. In conclusione, sono le stesse compagnie petrolifere a non ritenere conve-niente puntare su nuove attività estrattive nel mare italiano. 5 - Se vince il Sì, si perderanno molti posti di lavoro? Nessun posto di lavoro è a rischio per colpa del referendum. A mettere in pericolo quei posti di lavoro, semmai, sono la crisi del settore, la riduzione dei consumi nazionali di gas (-21,6%) e petrolio ( -33%) e la mancanza di una seria politica energetica nazionale. Inoltre se vince il Sì, le piattaforme non chiuderanno il 18 aprile ma saranno ripristinate le scadenze delle concessioni rilasciate, esattamente come previsto prima della Legge di Stabilità 2016. Si ripristinerà quindi la durata della concessione sottoscritte da Governo e compagnie petrolifere. Inoltre, lo smantellamento delle piattaforme potrà creare nuova occupazione. Assomineraria parla di 13mila occupati nel settore estrattivo in tutta Italia (tra attività a terra e a mare, dentro e fuori le dodici miglia) e 5mila posti di lavoro a rischio con il referendum. Il ministro Galletti fa riferimento alla cifra di 10mila posti di lavoro in meno e la Filctem Cgil sostiene che i lavoratori che rimarrebbero a casa sono 10mila solo a Ravenna e in Sicilia. Le stime ufficiali riguardanti l’intero settore di estrazione di petrolio e gas in Italia (fonte Isfol – Ente pubblico di ricerca sui temi della formazione, delle politiche sociali e del lavoro) parlano invece di 9mila impiegati in tutta Italia e di un settore già in crisi da tempo. Elemento quest’ultimo molto importante. A dimostrarlo i rapporti del settore degli ultimi anni a livello nazionale e internazionale o il tavolo di crisi aperto presso la regione Emilia Romagna, già prima dell’istituzione del referendum. Ad esempio secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza Deloitte, il 35% delle compagnie petrolifere a causa del crollo del prezzo del petrolio è ad alto rischio di fallimento nel 2016, con un debito accumulato comples-sivamente di 150 miliardi di dollari. Al contrario, il settore delle rinnovabili e dell’efficienza sono in forte crescita e con norme e politiche adeguate potrebbero generare almeno 600mila posti di lavoro: 100mila al 2030 nel solo settore delle energie rinnovabili – circa il triplo di quanto occupa oggi Fiat Auto in Italia – mentre, al contrario, nel 2015 se ne sono persi circa 4 mila nel solo settore dell’eolico e 10mila in tutto il settore. 6 - Se vince il Sì, il nostro paese aumenterà l’importazione di petrolio e gas e il traffico marittimo?
Difficilmente chiudendo queste attività, che comunque arriverebbero al termine previsto dalla concessione come prevedeva la normativa fino a fine 2015, ci sarà un incremento di traffico di navi per il trasporto di idrocarburi. Il totale del petrolio oggi estratto da queste piattaforme corrisponde al carico di tre navi petroliere in un anno. Il gas viene trasportato (importato o esportato) prevalentemente attraverso i tubi dei gasdotti e non via mare. Infine già oggi il petrolio estratto dalle piattaforme (presenti prevalentemente entro le dodici miglia marine) viene trasportato a terra tramite oleodotti e da qui, il più delle volte, caricato sulle petroliere per essere trasportato agli impianti di raffinazione e trattamento. Tutto questo traffico sarebbe, al contrario, eliminato grazie al Si al referendum. 7 - Le piattaforme sono sicure e non ci espongono a rischi ambientali? Nessuno può garantire che non si verifichino incidenti, come è successo ultimamente in Tunisia, nel Mar Caspio e nel Golfo del Messico, con un danno ambientale incalcolabile e irreversibile. Senza considerare che i mari italiani sono mari “chiusi” e un eventuale incidente – nei pozzi petroliferi offshore e/o durante il trasporto di petrolio – sarebbe fonte di danni smisurati. In particolare, è importante sottolineare come secondo il “Piano di pronto intervento nazionale per la difesa da inquinamenti di idrocarburi o di altre sostanze nocive causati da incidenti marini” di Ispra, le tecniche di rimozione delle sostanze sversate consentirebbero di recuperare, al massimo, il 30% del totale. 8 - Le piattaforme oggetto del referendum non inquinano e non hanno impatto sull’ambiente? Le piattaforme sono delle attività industriali a tutti gli effetti con tutti gli impatti e i rischi connessi. Le attività di ricerca e di estrazione di idrocarburi possono avere un impatto rilevante sull’ecosistema marino e costiero. A prescindere che siano di gas o petrolio, possono rilasciare sostanze chimiche inquinanti e pericolose nell’ecosistema, come oli, greggio, metalli pesanti o altre sostanze contaminanti, con gravi conseguenze sull’ambiente circostante. Anche la ricerca del gas e del petrolio che utilizza la tecnica dell’airgun (esplosioni di aria compressa) incide sulla fauna marina e su attività produttive come la pesca, che potrebbe registrare una diminuzione del pescato fino al 50%. Infine, non bisogna sottovalutare anche il fenomeno della subsidenza. L’estrazione di gas sotto costa non è l’unica causa ma resta il principale fenomeno antropico che causa la perdita di volume del sedimento nel sottosuolo generando un abbassamento della superficie topografica. La subsidenza aumenta inoltre l’impatto delle mareggiate e delle piene fluviali, favorendo l’erosione costiera, con perdita di spiaggia ed effetto negativo sulle attività turistiche rivierasche. Una conferma arriva dall’ordine del giorno appena approvato dal Comune di Ravenna che chiede all’Eni di fermare prima del tempo l’attività della piattaforma Angela Angelina, molto vicina alla costa di Lido
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di Dante, proprio a causa dell’elevata subsidenza riscontrata nella zona. 9 - Le piattaforme oggetto del referendum non estraggono petrolio? Le piattaforme soggette a referendum oggi producono il 27% del totale del gas e il 9% di greggio estratti in Italia. In particolare il petrolio viene estratto nell’ambito di 5 concessioni che comprendono 11 piattaforme dislocate tra Adriatico centrale – di fronte a Marche e Abruzzo – e nel Canale di Sicilia. Il 72% del petrolio estratto in mare nel 2015 deriva dalle aree marine più vicine alla costa. 10 - Se vince il SI, non si potranno più sfruttare giacimenti di petrolio e gas ancora attivi? Gli impianti non saranno dismessi il 18 aprile ma arriveranno alla loro scadenza, cosi come previsto dal loro contratto di concessione (30 anni). Si tratta comunque di attività già di per sé in forte calo dopo il picco raggiunto negli anni ‘80-‘90. La produzione del gas è diminuita del 43% negli ultimi 10 anni e anche il petrolio è in fase discendente come produzione, con un picco raggiunto nel 1988, e oggi stabilizzata a livelli 4 volte inferiori a tale valore. a produzione delle piattaforme attive entro le 12 miglia nel 2015 è stata di 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di Smc (Standardmetri cubi) di gas; i consumi di petrolio in Italia nel 2014 sono stati di circa 57,3 milioni di tep (ovvero milioni di tonnellate) e quindi l’incidenza della produzione delle piattaforme a mare entro le 12 miglia è stata di meno dell’1% rispetto al fabbisogno nazionale (0,95%). Per il gas i consumi nel 2014 sono stati di 50,7 milioni di tep corrispondenti a 62 miliardi di Smc; l’incidenza della produzione di gas dalle piattaforme entro le 12 miglia è stata del 3% del fabbisogno nazionale. I consumi di gas negli ultimi dieci anni sono diminuiti del 21,6%, passando dai 86.171 milioni di metri cubi del 2005 ai 67.523 del 2015 mentre il petrolio ha subito una riduzione del 33% passando da 85,2 a 57,3 Mtep ed è previsto un ulteriore abbattimento dei consumi nei prossimi anni. Infine, è utile rimarcare la totale insensatezza di puntare sull’estrazione di gas e petrolio e su questi giacimenti per garantire la nostra indipendenza energetica. I dati forniti dall’Unmig, l’ufficio minerario per gli idrocarburi e le georisorse del MISE, e da Assomineraria, stimano infatti riserve certe sotto i fondali italiani che sarebbero sufficienti (nel caso dovessimo far leva solo su di esse) a soddisfare il fabbisogno di petrolio per sole 7 settimane e quello di gas per appena 6 mesi. 11 - Il nostro paese può contare sulle sole energie rinnovabili? Il 40% di energia prodotta da fonti rinnovabili ha fatto crollare il prezzo come mai al mercato dell’energia e dovremmo ringraziarle per questo. Oggi il solare potrebbe andare avanti anche senza incentivi (che in Germania ci saranno fino al 2024) basterebbe aprire all’autoproduzione e alla
distribuzione locale da FER, che però in Italia sono, rispettivamente, penalizzata e vietate. Inoltre, le rinnovabili oggi sono sempre più efficienti, mature e rappresentano la prima voce di investimento nel mondo. Non solo il solare ha ridotto il costo ad un decimo di dieci anni fa, ma nei prossimi anni è previsto che si ridurrà ancora, insieme al costo delle batterie per l’accumulo di elettricità. E se non fosse matura e affidabile, sarebbe difficile comprendere perché Enel sta investendo sul solare in tutto il mondo. Negli ultimi dieci anni infatti, le fonti rinnovabili hanno contribuito a cambiare il sistema energetico italiano. Complessivamente coprono il 40% dei consumi elettrici complessivi (nel 2005 si era al 15,4) e il16% dei consumi energetici finali (quando nel 2005 eravamo al 5,3%). Oggi l’Italia è il primo Paese al mondo per incidenza del solare rispetto ai consumi elettrici (ad aprile 2015 oltre l’11%), e si è sfatata così la convinzione che queste fonti avrebbero sempre e comunque avuto un ruolo marginale nel sistema energetico italiano e che un loro eccessivo sviluppo avrebbe creato rilevantissimi problemi di gestione della rete. A impressionare sono da un lato i numeri della produzione da fonti rinnovabili passata in tre anni da 84,8 a 118 TWh, e dall’altro quelli di distribuzione degli impianti da fonti rinnovabili: circa 800mila, tra elettrici e termici, distribuiti nel territorio e nelle città. Attraverso il contributo di questi impianti e il calo dei consumi energetici, l’Italia ha ridotto le importazioni dall’estero di fonti fossili, la produzione dagli impianti più inquinanti e dannosi per il clima (nel termoelettrico -34,2% dal 2005) e si è ridotto anche il costo dell’energia elettrica. 12 - Le attività di estrazione di petrolio e gas ostacolano il turismo? Si stima che le presenze complessive nelle destinazioni marine italiane siano state circa 253 milioni nel corso del 2013, con un impatto economico stimato inoltre 19 miliardi e 149 milioni di euro. Secondo il rapporto “Impresa Turismo 2013” (Unioncamere) il patrimonio naturalistico delle nostre destinazioni balneari è la prima motivazione di visita per i turisti stranieri (il 30% dei turisti), ed è il secondo motivo di scelta, invece, (24,9%) dei turisti italiani. Un patrimonio importantissimo per l’economia italiana e degli altri Paesi adriatici, il cui motore principale sono le bellezze naturali dei luoghi. Categoria in cui di certo non rientrano le piattaforme. 13 - Il referendum farà chiudere le piattaforme e i pozzi,che resteranno in mezzo al mare, anche se inattive? Le compagnie che estraggono petrolio e gas hanno l’obbligo di legge di provvedere al decomissioning e quindi allo smantellamento delle piattaforme, dei pozzi e delle infrastrutture connesse con la loro attività. Se vince il Sì abbiamo molte più garanzie che ciò avvenga, perché le compagnie allo scadere delle concessioni sono obbligate al ripristino dei luoghi. Se vince il No invece, visto che le attività andranno avanti fino a quando di fatto lo vorranno loro (fino a vita utile del giacimento), rischiamo di trovarci le strutture
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in mare ancora per tantissimi anni, perché a quel punto potrebbero sempre dire che non hanno ancora finito di sfruttare il giacimento e lasciarle lì. Il Sì serve anche ad avere garanzia e controllo su questo aspetto. 14 - Le entrate derivanti dalle royalties sono in calo per colpa del referendum? La normativa italiana prevede l’esenzione dal pagamento di aliquote per l’estrazione, per ogni concessione, delle prime 20mila tonnellate di petrolio estratte in terraferma e le prime 50mila tonnellate estratte in mare, così come per i primi 25milioni di Smc di gas estratti in terra e i primi 80milioni estratti in mare. Addirittura sono gratis le produzioni in regime di permesso di ricerca. A questo si aggiungono le detrazioni fiscali che le compagnie hanno sulle royalties versate alle Regioni. Delle 26 concessioni oggetto del referendum che sono state produttive nel 2015, solo 5 concessioni di gas e 4 di petrolio hanno pagato le royalties. Tutte le altre hanno estratto un quantitativo minore della franchigia prevista dalla legge e quindi non hanno versato nulla. 15 - I soldi degli idrocarburi servono per sviluppo, ricerca e rinnovabili? Oggi il settore degli idrocarburi riceve sussidi diretti e indiretti dallo Stato per circa 2,1 miliardi di euro all’anno e gode di privilegi che non sono dati ad altri comparti industriali (esenzioni, agevolazioni fiscali, canoni irrisori, royalties molto vantaggiose). Oltre all’esenzione dal pagamento (vedi sopra) ci sono le irrisorie royalties previste per trivellare, che sono pari al 10%per il gas e del 7% per il petrolio in mare. Tanto vantaggiose da attirare appunto le compagnie straniere che vengono a svolgere la loro attività in Italia. Al contrario, in questi anni, nulla è stato fatto per promuovere le fonti rinnovabili che – ribadiamo - sono state ostacolate nel loro sviluppo, portando alla perdita di almeno 10mila posti di lavoro nell’ultimo anno. Basti pensare che tra il 2011 e 2014 le installazioni di solare fotovoltaico e eolico, sono passate da 10.663 MW a 733 MW. Per il solare fotovoltaico le barriere sono cominciate nel 2013, con il Governo Letta, che ha cancellato gli incentivi in conto energia (che in Germania invece sono ancora in vigore) togliendoli perfino per le famiglie e per la sostituzione dei tetti in amianto. Per le altre fonti rinnovabili i tagli sono cominciati nel 2012 (Governo Monti) e allora non vi è stato un solo provvedimento da parte dei vari Governi italiani che ne abbia aiutato lo sviluppo. Il Governo Renzi addirittura ha prodotto il decreto “Spalma incentivi” intervenendo in maniera retroattiva sugli incentivi, con nuove tasse per l’autoproduzione da fonti rinnovabili, regole penalizzanti per gli oneri di dispacciamento giustificate con la non programmabilità delle energie pulite: un nuovo decreto di incentivi alle rinnovabili non fotovoltaiche che, ancora prima di entrare in vigore, ha già determinato uno stop degli investimenti, grazie alle scelte che prevede. 16 - Le rinnovabili sono belle ma aumentano troppo il costo dell’energia?
Le rinnovabili non sono belle e gli incentivi alle rinnovabili pesano per lo 0,3% nel bilancio di una famiglia media italiana contro il 5,2% di incidenza della spesa per il riscaldamento. Inoltre il 40% di energia elettrica e il 17% di energia primaria prodotta da fonti rinnovabili sta contribuendo a cambiare modello energico, dove le fonti fossili entrano in sofferenza, con una contrazione dei prezzi del 67% per il petrolio e una forte riduzione degli investimenti. Metà della nuova potenza elettrica mondiale è venuta da eolico e fotovoltaico. Nel 2015 gli investimenti in fonti rinnovabili sono stati 6 volte quelli del 2004 e la crescita è continuata nonostante 4 fattori che l’hanno frenata: il crollo dei prezzi delle energie fossili, la riduzione dei costi del fotovoltaico, che fa scendere gli investimenti a parità di installato, la ripresa del dollaro e il rallentamento dell’economia europea. 17 - La costruzione entro le 12 miglia è vietata per legge dal 2006? Non è vero che le nuove attività sono vietate dal 2006. La Legge 152/2006 è stata modificata nel dicembre 2015. Ed il divieto entro le dodici miglia è stato posto per la prima volta da un decreto del 2010 (Dlgs 128/2010) e non nel 2006, poi rimosso dal decreto sviluppo (cosiddetto decreto Passera) nel giugno 2012 (in particolare a rivedere il vincolo è l’articolo 35), quindi reso vigente e attuato (per le nuove attività e le richieste in corso) solo con la modifica alla legge di stabilità 2016. Il divieto è quindi vigente dal 1 gennaio 2016 a tutti gli effetti e solo grazie alla pressione del movimento referendario. 18 -Abbiamo veramente bisogno di quel gas? Sarebbe uno spreco lasciarlo lì (serve un periodo di transizione)? Nelle piattaforme oggetto del referendum viene estratto gas e petrolio pari al 3 e all’1% del nostro fabbisogno nazionale. Una quantità irrisoria ai nostri fino energetici, considerando il calo dei consumi di gas del 21,6% e di petrolio del 33% negli ultimi anni. Non solo. Già oggi in Italia si produce elettricità con impianti a biogas che garantiscono il 7% dei consumi, e il potenziale per il biometano, ottenuto come upgrading del biogas e che può essere immesso nella rete Snam per sostituire nei diversi usi il gas tradizionale, è di oltre 8miliardi di metri cubi. Ossia il 13% del fabbisogno nazionale e oltre quattro volte la quantità di gas estratta nelle piattaforme entro le 12 miglia oggetto del referendum. Gli investimenti in questo settore però sono bloccati da barriere assurde di cui la più incredibile riguarda il fatto che il biometano non può essere immesso nella rete Snam. Da anni, infatti, si attende l’approvazione di un decreto che dovrebbe permettere qualcosa di assolutamente scontato e nell’interesse generale. Uno stop che ha come unica motivazione quella di non aprire alla concorrenza nei confronti di quei gruppi che distribuiscono gas, come Eni, che sono proprio coloro che possiedono larga parte delle concessioni di gas nei nostri mari.
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Il referendum tradito
C'è un chiaro colpevole nel tradimento del referendum
che si sta consumando in Parlamento: il Partito
Democratico. E questo nonostante il fatto che molti
esponenti e militanti di quel partito abbiano condiviso
l'impegno nella campagna referendaria. Nel 2007 il
Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua raccolse
406mila firme per una Legge di Iniziativa Popolare, un
numero mai raggiunto. Il provvedimento ora
ripresentato da un gruppo interparlamentare avrebbe
attuato la volontà espressa dai cittadini nella
consultazione del 2011: estromettere i privati ed
eliminare i profitti dalla gestione del servizio idrico.
Nel corso della discussione della legge in
Commissione Ambiente il Pd ha presentato una serie
di emendamenti che ne hanno stravolto il testo e il
significato eliminando ogni riferimento alla
ripubblicizzazione del servizio idrico integrato.
Il tradimento è completato da due dei decreti attuativi
della legge Madia sulla Pubblica Amministrazione.
Uno di questi ha riscritto totalmente la normativa sulla
gestione dei Servizi Pubblici Locali. proponendosi a
breve periodo di “ridurre la gestione pubblica dei servizi ai soli casi di stretta necessità” e con obiettivo
finale quello di “valorizzare il principio della concorrenza... in un'ottica di rafforzamento del ruolo
dei soggetti privati”. Inoltre ripropone “l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito” proprio la dicitura abrogata dal secondo quesito, ma aggiunge
pure che essa deve essere “coerente con le prevalenti condizioni di mercato”. Il secondo decreto impone
norme sulle società partecipate che incentivano i
comuni a vendere sul mercato importanti quote di
proprietà pubblica.
Sempre che ce ne sia ancora bisogno, il nostro
comitato ha raccolto altri elementi sulle conseguenze
negative che può portare una gestione in mano a
soggetti che hanno come obiettivo il profitto e su
quanto risulti inefficace il controllo pubblico. Esso
dovrebbe essere esercitato dall'Ente di Governo
dell'Ambito Idrico n.4 del Cuneese (Egato4), ma
dall'esame del bilancio emerge in modo evidente la sua
impotenza. Sulle bollette dell'acqua si paga un
supplemento dell'1,5% destinato al funzionamento
dell'Egato e un altro dell'8% destinato all'attività di
protezione idrogeo-logica dei territori montani,
sull'entità di queste cifre esistono rilevanti discordanze
tra le cifre indicate nel bilancio dell'Egato e quelle
fornite dai gestori. Pesantissimi i debiti accumulati da
questi ultimi negli anni, nonostante la convenzione
imponga precisi tempi per i versamenti, mentre in
questi anni l'Egato si è sempre lamentato di non avere
sufficienti risorse per ben funzionare. Fatto ancora più
grave, dalla relazione allegata al bilancio di Egato4 si
evidenzia che gli investimenti previsti eseguiti dai
gestori sono stati nel 2013 per meno del 60%, nel 2014
per circa il 70% e nel 2015 per meno del 30%; la
relazione non fornisce il dettaglio per ogni singolo
gestore. Grazie ad un approfondito esame dei bilanci
dei gestori siamo riusciti a scoprire che Alpi Acque
(che agisce nel Fossanese, Saviglianese e Saluzzese),
Tecnoedil (Albese e Braidese), Acque Potabili
(Racconigi) e Mondoacqua (Monregalese) sono
fortemente sotto il 60%, mentre Acda (Cuneese) ne
eseguirebbe addirittura più del 100%. Alcuni gestori,
oltre a non adempiere agli impegni programmati nel
Piano d'Ambito, realizzano investimenti piuttosto
discutibili. E' il caso di due società del Gruppo Egea:
Alpi Acque e Tecnoedil. Nel caso della prima risulta
un investimento nel capitale sociale della controllata
Alpi Ambiente che ha come unica attività la gestione
di un impianto di depurazione a smaltimento di reflui
solidi e liquidi. L'azienda ha anche acceso a favore di
Alpi Ambiente un leasing di cui il bilancio non riporta
l'ammontare. Ancora più sorprendente è quanto
emerge dall'esame del bilancio di Tecnoedil che ha
investito in Roero Park Hotel, che gestisce una
struttura alberghiera nel comune di Sommariva Perno,
più di 1 milione di € nel capitale sociale e quasi 1,5 milioni in prestiti, ricavandone perdite per oltre 2
milioni di €. Gli investimenti nel settore idrico sono
interamente coperti dalle bollette pagate dagli utenti,
quindi quanto incassato dai gestori andrebbe speso
esclusivamente nel settore idrico e non altrove. Tra
l'altro il Decreto Madia prevede che le funzioni svolte
dall'Egato ritornino all'Ente di Area Vasta (ex
provincia) riducendo così ulteriormente le possibilità
di controllo, gli spazi di democrazia e partecipazione.
Tutto conferma che l'acqua necessita di una gestione
pubblica e partecipata, ma chi ha il potere di decidere
agisce in direzione opposta. Perché?
Sergio Dalmasso,
per il Comitato Cuneese Acqua Bene Comune
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 42
Divenendo
Nulla si crea, ma si trasforma. Le cose sono, prima e dopo, perché se ne colga il loro mutamento, lento o non lento, continuo per tutto il tempo in cui noi siamo. Ogni attimo è rinascita di opportunità, seppur inesorabile sia la dissolvenza, lenta o non lenta, del suo riflesso in noi che attendiamo a ostacolarne lo sgretolamento illusi di poterlo contrastare. Cecilia Dematteis
Responsabilità e cura
Ho accolto con molto piacere l'invito a confrontarsi
con la Laudato si’ per questo numero del Granello e l'ho portato all'interno del nostro Comitato. Luisa
giustamente mi ha fatto notare che sarebbe errato
attribuire a papa Francesco la paternità sui temi
climatici. Da molti anni studiosi e semplici persone
stanno sollevando il tema in tutto il mondo, molto
prima che il papa pensasse ad affrontarlo.
Perfettamente vero! Nel testo non ho però trovato
alcun accenno a volersi attribuire la paternità. Piuttosto
un accorato invito a responsabilizzarsi per cercarne
soluzioni non più rimandabili. Eravamo abituati negli
anni passati ad encicliche che si rivolgevano ai
cattolici, ai cristiani o al più agli uomini di “buona volontà”: papa Francesco si rivolge a “tutti gli uomini che egli ama”. Cioè proprio a tutti, compresi i migranti, i carcerati, i poveri e gli impoveriti, i
governanti e gli operatori finanziari, ma non perché li
ritenga tutti complici alla pari dei disastri in corso.
No, solo perché li ritiene tutti ugualmente attori
primari nella costruzione della partecipazione che vede
come strada maestra per uscire dal giogo del profitto
che sta accecando l'intera umanità.
Questo a mio avviso è il messaggio nuovo: non ci sarà
alcun passo in avanti se non saranno le persone che lo
imporranno con la loro partecipazione collettiva alla
costruzione della cura di Madre Terra.
Mi fermo qui perché le mie capacità di esegesi sono
davvero limitate e correrei il rischio di dire castronerie.
Ma dal mio
punto di vista
vorrei proprio
comunicarvi che
anche di que-
sto messaggio
sentivo di aver
bisogno, oggi
in un momen-
to in cui il Mo-
vimento dell'
acqua si trova
a combattere
con forze così preponderanti da scoraggiare anche i più
forti tra noi. La più cieca volontà di soggiogare l'acqua
alle regole mercantilistiche, imposta dalla finanziariz-
zazione della politica, ci ha posti in una condizione di
impotenza tangibile e contemporaneamente fatti
bersaglio dell’accusa di essere polemizzatori incalliti, non disposti a cercare una via “percorribile” all'interno di una legislazione europea e nazionale che qualifica
l'acqua come “servizio di interesse economico”. Ma è proprio contro quella concezione che la Laudato si’ ci
invita ad agire. Se non altro ci sentiremo ora in buona
compagnia nel nostro cammino! Cammino che intanto
stiamo alacremente proseguendo sia a livello locale
che nazionale.
Lo scorso 13 marzo ci siamo convintamente
riconosciuti in un percorso di condivisione con altri
movimenti che ha portato al lancio di una nuova
campagna referendaria sociale che vedrà la raccolta
firme per diversi quesiti: dalla buona scuola, al no a
nuovi inceneritori; dall'opzione “trivelle zero” ad una nostra petizione popolare al parlamento contro
l'applicazione del decreto Madia che ha reintrodotto il
tema della privatizzazione dei servizi pubblici locali,
compresa l'acqua.
Questa sarà la tematica che inseriremo all'interno della
nostra consueta giornata dedicata alla PRIMAVERA
DELL'ACQUA che è giunta alla sua VI^ edizione.
L'evento si svolgerà a Trinità, nelle vicinanze di
Fossano, domenica 15 maggio 2016 a partire dalle ore
9,30, con conclusione prevista verso le 18. Ci sarà una
bella camminata alla scoperta del territorio trinitese, un
pranzo insieme con le specialità della cucina di Rosa
ed amiche, un convegno al pomeriggio incentrato
proprio su “COME PRENDERSI CURA DI MADRE TERRA”. Invitiamo tutti a partecipare, in seguito comu-
nicheremo il programma dettagliato. Informazioni
potranno comunque essere chieste ai numeri
3893455739, 3495372854, 3201425545.
Oreste Delfino,
per il Comitato Cuneese Acqua Bene Comune
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 43
Buona Costituzione a tutti
Lunedì 21 marzo si è svolta, presso la sala comunale
Barbero in via Schiaparelli a Cuneo, una serata di
approfondimento sulla riforma del Senato e sulla legge
elettorale Italicum.
Relatore della serata l’avvocato ed ex-difensore civico
regionale Antonio Caputo, coordinatore e
vicepresidente del Comitato piemontese e valdostano a
difesa della Costituzione, che ha spiegato le
incongruenze e le possibili conseguenze del combinato
disposto tra la riforma costituzionale targata
Renzi/Boschi e la nuova legge elettorale Italicum.
La prima andrà a intervenire prevalentemente su quel
che riguarda il Senato, che non sarà più votato dai
cittadini e perderà molte delle sue funzioni. La seconda
darebbe al partito che ottiene anche solo un voto in più
del secondo (ad esempio il 21% contro il 20%) un
premio di maggioranza del 54%.
Caputo ha ricordato che un’analoga legge in Italia c’è già stata: la legge Acerbo, voluta da Mussolini. Infine,
la modifica della Carta fondamentale è opera di una
maggioranza che siede in un Parlamento eletto con una
legge, il c.d. Porcellum, dichiarata incostituzionale
dalla Corte costituzionale.
Durante la serata è intervenuta anche Mirella
Ramonda, autrice dell’originale e interessante volume a fumetti “Buona Costituzione a tutti”, che ha sottolineato quanto sia preziosa e indispensabile la
nostra Carta Costituzionale e quanto troppo spesso sia
poco conosciuta.
Si sono ricordati infine i prossimi impegni del
Comitato, tra i quali la raccolta, da aprile a giugno,
delle 500.000 firme necessarie per depositare i due
quesiti referendari abrogativi dei passi più negativi e
meno democratici della legge elettorale – capilista
bloccati e abnorme premio di maggioranza. Al
comitato nazionale hanno aderito diverse realtà
associative, prima tra tutte l’ANPI che, con un’adesione pressoché unanime dei suoi delegati nazionali, si è costituita supporto indispensabile, pur
nella sua indipendenza, per l’attività di informazione e diffusione delle ragioni che condivide con il comitato
referendario.
Anche a livello locale un folto gruppo di cittadini –
con Arci, Comunità di Mambre, Fiom CGIL Cuneo,
Filctem CGIL Cuneo, Forum Acqua Pubblica, Prima
Le Persone, Comitato NoTriv tra le altre, e il supporto
di SEL, Possibile e Rifondazione Comunista – prevede
una capillare organizzazione per l’allestimento dei banchetti di informazione/raccolta firme e per la
campagna per il NO al referendum confermativo sulla
riforma costituzionale previsto per il prossimo
autunno.
I prossimi mesi saranno molto impegnativi per quanto
riguarda il fronte referendario. Il primo impegno sarà
domenica 17 aprile, quando si svolgerà il referendum
sulle trivellazioni. A rafforzare la campagna
referendaria si aggiungono il movimento per la scuola
pubblica, la campagna Stop devastazioni, il comitato
Blocca Inceneritori. Il 17 marzo hanno rispettivamente
depositato i quesiti referendari contro alcune parti della
legge 107/2015 (meglio conosciuta col nome di
“Buona scuola”), a favore dell’opzione Trivelle zero in terraferma e oltre le 12 miglia in mare, contro
l’articolo 35 del decreto Sblocca Italia che eleva gli inceneritori a “interesse strategico”, promuovendone la realizzazione in diverse regioni. A questi si è aggiunta
nei giorni scorsi la CGIL, che ha presentato 3 quesiti
contro il Jobs Act, che avranno come oggetto i
voucher, gli appalti e i licenziamenti. La campagna di
raccolta firme partirà il 9 e il 10 aprile e si chiuderà il 9
luglio.
Una campagna referendaria a tutto tondo, che
riguarderà lavoro, ambiente, scuola, istituzioni e che si
protrarrà fino al 2017, quando si voterà per i
referendum di cui si saranno raccolte le 500.000 firme
necessarie.
Alessio Giaccone
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Puf: non ci siamo ancora
Il sindaco fa il gambero. Lo sportello casa indurisce la
lotta. La requisizione della palazzina degli Uffici
Finanziari (Puf) si fa sempre più indispensabile se si
vuole davvero risolvere la vicenda e togliere 18
famiglie (tra le tante che a Cuneo sono senza casa) da
ricoveri di fortuna e talora persino da forzate divisioni
del nucleo famigliare. Questa la sintesi della vicenda
che si è sviluppata tra lunedì e martedì 21 e 22 marzo
nella città di Cuneo.
Il sindaco gambero. Hanno aperto le danze lo
Sportello casa e il gruppo consigliare dei Beni Comuni
con una conferenza stampa e una interrogazione in
consiglio sui tempi della sbandierata azione del
sindaco (peraltro assai distratto dalle nomine dei
consiglieri della Fondazione della CRC) per portare a
casa la “liberazione del Puf”. Borgna, dichiaratosi in precedenza assai prossimo all'acquisizione della
palazzina (non pochi in città quelli ci chiedevano come
fare ad avere un appartamento), in una comunicazione
tanto retorica quanto priva di contenuti riproponeva
ritardi e inciampi che si ritenevano superati da tempo.
Fierro occupa. Pronta la replica dei consiglieri di
minoranza; in particolare Nello Fierro, brandendo il
suo sacco a pelo, dichiarava subito di voler occupare la
sala del consiglio comunale. In via Roma intanto,
proprio sotto il palazzo comunale, i militanti dello
Sportello Casa cominciavano a montare le tende in cui
avrebbero passato la notte a sostegno della vertenza
del Puf. Al di là del consenso manifestato da cittadini e
media, una battuta d'arresto per lo Sportello Casa
(attivissimo) e soprattutto per la liberazione dei 18
alloggi, e il porsi come ormai indifferibile la
requisizione del Puf.
Necessaria la requisizione. La rendono indispensabile
l'intrico dei problemi burocratici, veri o rappresentati
come tali, e la manifesta inerzia dell'amministrazione
cittadina, per non parlare della totale latitanza nella
vicenda dei parlamentari cittadini anni fa tanto attivi
invece… sui giornali. La rendono indifferibile la fame
di case e il numero degli sfratti in città. La
requisizione, se lo si vuole, non è impossibile, tenuto
conto tra l'altro al vincolo sociale cui la Costituzione
lega la proprietà privata. La procedura, in questo caso,
prevede che il sindaco motivi la richiesta con i gravi
elementi sociali (riconosciuti tali da tutti) che la
rendono necessaria e li rappresenti al Prefetto cui è
demandato il potere di farla.
Rovesciare le priorità. Non se ne fa una questione
ideologica di requisizione per la requisizione - sapendo
tra l'altro quanto la sola parola sia ostica per una giunta
moderata come quella cuneese - ma si vuole anche
andare al di là di essa. Lo dimostra il fatto che, per
ottenere l'unanimità del consiglio comunale sulla
mozione a riguardo degli alloggi inutilizzati del Puf, lo
Sportello Casa accettò di stralciare dalla mozione
stessa la richiesta della requisizione, anche se questa
era stata centrale nella petizione firmata da 1200
cittadini. La requisizione è necessaria e la richiediamo
con forza perché è l'unico provvedimento in grado di
rovesciare l'attuale ordine delle priorità che non sta
riuscendo a sbloccare la situazione. Non più prima la
risoluzione dei problemi tecnici che ci vengono addotti
uno dopo l'altro e, solo dopo, l'assegnazione delle case
a chi ne ha bisogno. Al contrario prima si sistemino le
famiglie e poi burocrazia e politica si diano una mossa
a risolvere i problemi da loro stessi creati.
Le prossime mosse. Comunque, per provarle proprio
tutte, martedì 5 aprile incontro con il Demanio a
Torino, nella vulgata corrente il luogo incriminato,
quello dove sembrano annidarsi i principali ostacoli
alla liberazione del Puf. Al prossimo consiglio
comunale verrà presentata la mozione sulla
requisizione e si vedrà fino in fondo chi vuole liberare
il Puf e chi fa solo propaganda. Nel prossimo numero
vi aggiorneremo su queste due iniziative e, comunque,
sugli ulteriori sviluppi.
Carlo Masoero [email protected]
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Giocare col clima
Il tema doveva essere la legalità. Gianni Bianco,
giornalista, e Giuseppe Gatti, magistrato antimafia, da
tempo girano l'Italia per raccontare il libro scritto a due
mani: “La legalità del noi – le mafie si sconfiggono
solo insieme”, e a me avevano chiesto di preparare un
Gioco di Ruolo (GdR) sul tema, da effettuarsi in
occasione dei loro laboratori. Invece nel giugno scorso
mi avvertono che ad un campo estivo, in cui avrebbero
svolto il loro tema, a me era
richiesto di organizzare un GdR a
tema ambientale: la Laudato si di
Papa Francesco era appena uscita, e
la Mariapoli del Movimento dei
Focolari che si sarebbe svolta il
mese successivo sulle pendici del
Gran Sasso era l'occasione giusta
per rilanciare ai 500 partecipanti le
provocazioni dell'Enciclica.
Così insieme ad Andrea, un
giovane papà di Pescara attivo sui
temi ambientali, ci siamo buttati a
creare da zero un GdR incentrato
sul riscaldamento globale, che si-
mulasse, anche se in maniera
schematica, i meccanismi econo-
mici e geopolitici che lo provocano,
su scala planetaria.
Per le modalità di svolgimento si
sono riprese quelle già utilizzate in
GdR precedenti: ciascuno dei
partecipanti riceve all’inizio un documento che spiega in dettaglio
il proprio ruolo, ovvero la parte che
dovrà recitare, il proprio obiettivo
ed alcuni suggerimenti. La vicenda
che ne segue è tutta in mano ai
partecipanti, che interagiscono tra
loro seguendo la traccia indicata,
ma anche usando la fantasia,
orientando le proprie azioni in
modo da raggiungere gli obiettivi
assegnati. Non si chiede agli
organizzatori se una cosa si può
fare... se non è contraria allo spirito
del gioco, allora si può fare. La
realtà che è oggetto del gioco viene
così simulata, e insieme si indaga sui meccanismi nel
mondo reale. Siamo a metà tra un gioco e una rap-
presentazione scenica. Il segreto è l'immedesimazione
nel proprio ruolo, lasciandosi coinvolgere.
Dato che il gioco ha anche lo scopo di sperimentare
situazioni nuove e diverse, si chiede a ciascuno di farsi
guidare dal proprio ruolo e non da logiche
forzatamente “ottimistiche” o “catastrofiste” (solo per
fare degli esempi).
Quella che segue è la descrizione della struttura che è
stata data al GdR sul riscaldamento globale.
I partecipanti fanno parte di un continente (una sorta di
macro-nazione): il comportamento è pertanto guidato
dall'appartenenza al proprio luogo, ma questo non
esclude, in un mondo globalizzato, i rapporti con gli
altri continenti.
Ad ogni partecipante è assegnato un
ruolo. In ogni continente ci sono
ruoli di governo (presidente e
ministri, politici dell'opposizione),
manager d'azienda (proprietari, indu-
striali, petrolieri e produttori di
energia rinnovabile), operai, consu-
matori, ecologisti. A livello
internazionale sono invece presenti:
commissari ONU, giornalisti, trader
del mercato globale.
Ogni continente ha, in proporzione
diversa, miniere e fabbriche. Le
prime producono materie prime
(MP) ed energia da fonte fossile
(EF), le seconde prodotti finiti (PF).
Entrambe consumano energia, che
acquistano dai trader, e se questa
energia è EF producono CO2. Le
fabbriche devono comprare dal
mercato internazionale anche le MP;
in compenso sono le sole ad avere le
tecnologie. Per produrre entrambe
assumono lavoratori. Sia le MP che i
PF sono venduti ai consumatori di
ogni continente. Alcuni PF sono
energivori, pertanto producono CO2.
Alternative alle EF sono le energie
rinnovabili (ER), che non producono
CO2, però: 1) consumano risorse
naturali (RN) del continente 2)
costano di più, anche se il governo
può contribuire al costo con propri
incentivi. I consumatori pagano le
tasse al governo per ripianare il
debito pubblico. Ogni continente ha
una dotazione iniziale di CO2 e di
RN, che rappresentano la CO2 non
emessa e le risorse naturali ancora intatte, le cui
quantità durante il gioco inevitabilmente diminuiranno:
ogni continente deve cercare di conservare quanta più
possibile CO2 se vuole rispettare gli obblighi fissati
dall'ONU in fase iniziale, e RN per evitare scontri con
gli ecologisti e soprattutto giudizi negativi dalla
stampa (che avrà il compito di mettere a confronto i
dati dei diversi continenti), e conseguente perdita
Che cosa sono i GdR
Giocare è un'attività essenziale per l'uomo. Da quando è bam-bino, ma anche fino alla terza età e oltre. Con modalità e obiettivi differenti, tutti noi ne abbiamo bisogno. Il bambino apprende con il gioco, l'anziano lo pratica per socializzare, l'adulto ci trova un'occasione di distensione. Ma vi è una categoria di giochi, quella dei Giochi di Ruolo, praticata in modo trasversale da persone di ogni età, che ha uno scopo particolare, cioè quello di riflet-tere su una determinata realtà: il GdR ha un'efficacia formida-bile, perché fa entrare le perso-ne in quel contesto, provando su di sé tutte le tensioni, le problematiche e i contrasti che lo caratterizzano. Inoltre l'effet-to complessivo consente di comprendere le dinamiche che regolano i vari fenomeni; in genere ciò avviene in un mo-mento di riflessione, collettivo o a gruppi, immediatamente suc-cessivo al gioco. Questa tecnica di gioco è stata sperimentata con successo su tematiche molto diverse fra loro quali il divario economico nord-sud, il tema del lavoro, l'ambiente, la legalità e la mafia, la politica.
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Una Rosa che non appassisce
Neanch'io, che ero tra i promotori del Conferenza su Rosa Luxemburg, potevo sperare in un successo così. Non tanto per la partecipazione, numericamente straordinaria e attentissima, e per la grossa presenza giovanile a quello che era pur sempre un appuntamento culturale (e anche assai impegnativo); nemmeno per la capacità organizza-tiva e di interlocuzione con le istituzioni che si è saputa sviluppare. Forse neppure per lo straordinario valore delle relazioni, in fondo prevedibile visto la caratura dei prota-gonisti (Sergio Dalmasso, Lidia Menapace e Maria Lucia Villani). Quello che mi ha impressionato e, diciamolo pure, inor-goglito, è stata una discussione che, senza raccontarsi frottole sul presente o pietose bugie sul passato, ha tenuto dritta la barra su un indirizzo di analisi e di ricer-ca, per passato, presente e futuro, schiettamente anti-capitalistico, diciamola senza giri di parole, schiettamente comunista. Direi di più: era palpabile la percezione che proprio per questo la gran parte del pubblico era venuta e che anche di questo fosse permeata la tanto gioiosa e partecipata festa che in serata ha fatto seguito alla conferenza. Certo questo vuol dire che i promotori hanno segnato un punto, grosso, in città e che il lavoro del Centro sociale e di Rifondazione - che lo appoggia ventre a terra - non è stato invano. Ma più in generale la conferenza su Rosa Luxemburg è un grosso, grosso segnale di speranza. Lo interpretano a fondo le parole di Olga Bertaina, la compagna del diret-tivo del Circolo che tanto si è spesa per la riuscita della manifestazione: in un post su Facebook, interpretando un po' il pensiero di tutti, ha scritto “dopo un successo di questo tipo oggi posso solo sorridere e continuare a credere che tutto, faticando, si possa ancora cambiare.…”
Carlo Masoero
Alcune citazioni di politica, morale e non solo
di Rosa Luxemburg
Socialismo o barbarie.
Chi non si muove, non può rendersi conto delle proprie catene.
La libertà è sempre la libertà di dissentire.
La storia è la sola vera insegnante, la rivoluzione la miglior
scuola per il proletariato.
Il Marxismo è un punto di vista mondiale rivoluzionario che
deve sempre lottare per le nuove verità.
Solo estirpando alla radice la consuetudine all'obbedienza e
al servilismo, la classe lavoratrice acquisterà la compren-
sione di una nuova forma di disciplina, l'autodisciplina,
originata dal libero consenso.
Qualche volta ho la sensazione di non essere un vero e
proprio essere umano, ma appunto qualche uccello o un
altro animale in forma di uomo; nel mio intimo mi sento
molto più a casa mia in un pezzetto di giardino, oppure in un
a po tra i ala ro i e l'er a, he o … a un congresso di
partito.
di consenso col rischio di perdere le
elezioni.
Come è andata? Dalla descrizione si
comprende che il gioco non era “facile”, pertanto all'inizio si è creata una situazione
di stallo, perché i partecipanti non capivano
bene come muoversi.
A poco a poco, anche grazie alla
suddivisione in ruoli (che assegna ad ogni
partecipante un compito semplice e preciso)
il gioco ha cominciato a svilupparsi. Ne
sono risultate dinamiche complessissime,
che non è possibile riassumere in poche
righe. Si può dire che ogni partecipante
abbia avuto una propria esperienza di gioco,
diversa per ciascuno. A livello globale si è
assistito ad una sorta di “rappresentazione” dei contrasti che determinano l'attuale crisi
ambientale: interesse economico/tutela am-
bientale; benessere individuale/beni comuni
(collettivi); sviluppo/decrescita felice;
interesse politico/interesse dei cittadini;
diminuzione tasse/diminuzione CO2; fonti
rinnovabili/tutela risorse naturali.
Al termine del gioco si è svolta una discus-
sione/riflessione a gruppi sui meccanismi
che si sono autogenerati nel GdR:
ripartendo da quanto successo i partecipanti
hanno cercato di capire meglio e insieme le
dinamiche che hanno portato alla situazione
attuale del pianeta. Poi si è passati a tentare
di definire alcune buone pratiche da
adottare per migliorare la situazione.
Per tutti, alla fine, una maggiore consape-
volezza di cosa abbiamo nelle nostre mani.
Andrea Selleri
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 47
I primi passi del Comitato per la Salute Mentale in Piemonte
Ho già parlato del Comitato per la Salute Mentale in
Piemonte (http://www.csmpiemonte.it/). Ora vorrei
fare alcune riflessioni sulla base degli incontri
succedutisi dal mese di gennaio ad oggi e sul dibattito
che ha animato i vari componenti per mezzo di
facebook o via mail.
Prima considerazione: il Comitato si è formato
sull’onda della mobilitazione che ha coinvolto associazioni di familiari di utenti psichiatrici, operatori
della psichiatria, utenti e volontari contro la
riorganizzazione delle strutture territoriali psichiatriche
prevista dalla Delibera della Giunta Regionale n. 30
del 3 giugno 2015. Malgrado ciò, sta cercando di
affrontare, giustamente, non solo la “vertenza” nei confronti della Regione Piemonte ma, anche e
soprattutto, la situazione della salute mentale,
perlomeno per quanto riguarda l’ambito regionale.
Seconda considerazione: in tempi di decisionismo,
d’insofferenza verso l’inconcludente verbosità della
politica mi urtarono inizialmente l’eccessivo numero di mail che arrivavano e che mi sembravano più un
voler “marcare il territorio”, affermando esagerata-
mente la propria esistenza e la propria voglia di esserci
e di esporre le proprie opinioni. Eppure, proprio grazie
alla pazienza di leggere le varie opinioni, mi sono
convinto di quanto sia utile confrontarsi, fra operatori,
utenti, familiari e volontari di associazioni o
rappresentanti di organizzazioni. Ad esempio già solo
per decidere il logo, che è nato gradualmente e
collegialmente. A proposito, la discussione si svolge
utilizzando sia il metodo tradizionale delle riunioni che
quello tecnologico delle e-mail e dei social forum,
essendoci una specifica pagina facebook.
Terza considerazione: il coinvolgimento degli utenti.
Un rischio, apparso subito chiaro ai promotori del
Comitato, è che categorie professionali o singoli
dirigenti possano voler utilizzare questo nuovo
organismo per poter contare di più nei confronti della
Regione Piemonte, malgrado ci siano già organismi
preposti ai rapporti con essa (vedi ordini professionali,
sindacati, federazioni, ecc.). La partecipazione degli
utenti (e ovviamente anche dei familiari, anche se
spesso le sensibilità non sono le stesse, anzi) richiede,
come spesso sottolineato da parecchi membri del
Comitato, l’ascolto dei loro vissuti, delle loro esigenze accettando la loro modalità espressiva ed i loro tempi.
Come ha giustamente sottolineato, con una domanda
provocatoria, uno degli organizzatori della pagina face
book: gli utenti sono comparse o attori protagonisti?
Penso che ora gli utenti, almeno in molte realtà, siano
comparse. Certo è che il motivo per cui è nato il
Comitato è di renderli protagonisti.
Qui vado alla quarta considerazione: quale
psichiatria vuole il Comitato? O esiste solo una
psichiatria degna di questo nome e cioè quella
disciplina scientifica, facente parte della medicina e
che studia il comportamento del cervello e le sue
anomalie che determinano la patologia psichiatrica? Il
pensiero basagliano, pur avendo tolto la psichiatria dal
prevalente ambito dell’ordine pubblico e della decenza per inserirla a pieno titolo nell’ambito medico, ha sempre privilegiato l’ottica socio-familiare (ed in
ultima analisi politica) per comprendere la malattia
mentale. Non mi dilungo, ma un’ottica riduzionistica mirata solo alla diagnosi ed alla farmacoterapia, seppur
legittima, pare a chi fa parte del Comitato, e parimenti
a me ovviamente, non affrontare le premesse
ambientali (ambiente, lavoro, famiglia, ecc.) che hanno
determinato la malattia. Ciò nasce dalla convinzione
che tutti noi siamo fragili; dipende da molti fattori che
tali fragilità si possano trasformare in sofferenza
mentale. Inoltre stessi comportamenti in contesti
diversi assumono spesso valenze opposte. Per questo
nelle varie discussioni si è sottolineata la necessità di
uscire all’esterno, di coinvolgere la comunità anche (ma non solo) per contrastare i pregiudizi nei confronti
della malattia psichiatrica (e anche l’autostigma che
condiziona l’autostima di chi fa parte del mondo psichiatrico, come operatore o come utente/familiare),
per fare aggiornamento e quindi cultura.
La quinta ed ultima considerazione riguarda il peso
del Comitato (inteso come capacità di incidere).
Intanto occorre chiarire nei confronti di chi vuole
misurare il proprio peso. Nei confronti degli attori
della psichiatria (operatori, utenti e familiari) il peso
della sua influenza dipenderà da quanto sarà in grado
di percepire le loro esigenze, di affrontare ed eliminare
le conflittualità, di essere uno strumento utile per supe-
rare schemi mentali e favorire l’autorealizzazione. Nei confronti dei decisori politici dipenderà dalla capacità
di cercare la sintesi nelle proposte (e già ne hanno dato
ottima prova coloro che hanno contribuito a stilare le
proposte da avanzare alla IV Commissione regionale)
ma anche dalla rappresentanza, affinché questa non si
limiti solo all’area di Torino ma cerchi di allargarsi il più possibile, coinvolgendo le varie realtà della
regione.
L’importante è che il Comitato sappia reggere nel
tempo, sappia superare l’iniziale entusiasmo, sappia organizzarsi in modo tale da far convivere la
spontaneità con la funzionalità. Chi ha a cuore la
qualità dell’assistenza psichiatrica guarda ad esso con
fiducia, seppur disincantata. Una prima apparizione
pubblica il Comitato l’ha avuta in occasione del
Seminario organizzato dalla CGIL Piemonte sulla
psichiatria, svoltosi il 23 marzo scorso a Torino.
Gianfranco Conforti ([email protected])
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 48
COLIBRÌ
società cooperativa sociale ONLUS
Via Monsignor Peano, 8 - 12100 CUNEO
tel. e fax : 0171/64589
www.coopcolibri.it
Le botteghe della Colibrì si trovano a :
CUNEO Corso Dante 33
BORGO SAN DALMAZZO Via Garibaldi 19
FOSSANO Via Garibaldi 8
MONDOVI’ Via S. Arnolfo 4
SALUZZO Via A. Volta 10
Progetto Quid: moda etica e sostenibile
“Siamo partiti dagli scarti per creare qualcosa che potesse diventare il nostro lavoro, ma anche aiutare qualcuno” così Marco Penazzi, ospite dell’evento “Questione di gusti” che la Cooperativa Colibrì ha organizzato nel weekend del 18 e 19 aprile a Cuneo e Mondovì. Moda,
etica, sostenibilità: questo il filo conduttore dell’iniziativa con la presentazione della nuova collezione di
abbigliamento equosolidale “Auteurs du monde” di Altromercato e la preziosa presenza di un ospite
proveniente dalla Cooperativa sociale QUID di Verona.
Una storia singolare quella di Marco, 27enne lughese che
dopo esperienze di lavoro negli Stati Uniti e in Cina ha
mollato tutto per seguire un esperimento ardito ma
vincente, ideato da Anna Fiscale, 25 anni e una laurea in
economia e marketing. QUID è una cooperativa sociale,
una realtà giovane (perché nata nel 2012 e fondata da
cinque under 40), già premiata in Europa come miglior
start-up italiana per l’innovazione sociale. “Se ci avessero detto che ci saremmo occupati di moda probabilmente
nessuno di noi lo avrebbe
immaginato e invece eccoci qui” racconta Marco a proposito di una
realtà nata un po’ per scommessa (unire rispetto per l’ambiente, moda e business), un po’ per necessità di lavoro (per chi l’ha fondata e per le donne che
cuciono i capi con il logo di una
molletta), un po’ per sfida nei confronti di un Paese avvolto
nella depressione della crisi di cui
pochi sanno cogliere le
opportunità.
“C’è un sistema che ci vuole tutti uguali, etichettati, messi dentro categorie che in fondo non ci appartengono – dice
Marco agli studenti dell’Istituto “Grandis” e del “Bonelli” che ha incontrato a Cuneo - un sistema che ci fa vedere
solo una realtà, dove dobbiamo comprare e comportarci
in un certo modo per essere accettati dagli altri altrimenti
siamo ‘fuori’. Ma le nostre comodità, il nostro girare per negozi dove sono in vendita magliette a 5 euro ha un
costo elevatissimo che va oltre lo scontino… sono le morti in Bangladesh dove crollano le fabbriche tessili,
sono le vite a 24 centesimi l’ora delle operaie cinesi che cuciono i nostri jeans …”. E da questo paradosso nasce questa Cooperativa che oggi collabora con grandi brand
come Carrera e Calzedonia ma anche con una linea
dedicata al commercio equo per Altromercato.
“Quid – spiega Marco Penazzi - significa ‘qualcosa in più’, ciò in cui crediamo, quella molla che ci permette di dare un valore aggiunto al nostro prodotto. Il nostro logo,
la molletta, è il simbolo dell'unione di aspetti
sociali/ambientali e di mercato. Nel nostro intento, ci
avvaliamo della solidarietà e dell’esperienza di aziende di abbigliamento, istituti professionali di moda e
cooperative sociali che si occupano di inserimento
lavorativo. Tramite diverse cooperative sociali (per
esempio Vita, Santa Maddalena di Canossa e Comunità
dei Giovani) impieghiamo a tempo pieno una trentina di
ragazze e donne socialmente svantaggiate per la
realizzazione dei capi”. Anche l’aspetto ambientale non è secondario: Marco infatti si occupa del contatto con grandi aziende del
“made in Italy” che attraverso un accordo con QUID offrono tessuti scartati che altrimenti andrebbero al
macero. Da queste stoffe
recuperate nascono magliette,
pantaloni, cardigans e pochette
unici e irripetibili. Così come le
etichette dei capi, tutte scritte a
mano, dalle detenute del secondo
laboratorio sartoriale che la
Cooperativa QUID ha aperto nel
carcere femminile di Verona.
Un progetto che per la sua
validità sociale e di sostenibilità
anche il commercio equo, con
Altromercato, ha voluto so-
stenere, nell’ottica di aprirsi sempre di più anche a quelle realtà italiane che ne
rispecchiano i canoni. E la moda di QUID è certamente la
dimostrazione che il mondo della moda può cogliere la
sfida di una rivoluzione ormai necessaria perché sempre
più consumatori chiedono capi belli per chi li indossa, ma
anche capaci di rispettare l’ambiente e generare lavoro dignitoso. Una sfida che sarà ulteriormente richiesta e
ribadita anche dal 18 al 24 aprile durante la settimana
internazionale del movimento “Fashion Revolution” che in 70 Paesi ripropone attività di informazione e
sensibilizzazione sugli altissimi costi umani e ambientali
dietro la cosiddetta “fast fashion”. (Per informazioni: www.fashionrevolution.org, www.auteursdumonde.it)
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 49
Lavoro, donne e Bosnia
Sabato 19 marzo, in collaborazione con il Circolo
“Arci” Valletti e la Consulta per le Pari Opportunità del Comune, la Cooperativa Colibrì con la sua Bottega
di Fossano hanno organizzato al Castello degli Acaja
un incontro su donne, lavoro e il conflitto nei Balcani
con Radmila Zarkovic della Cooperativa agricola
“Insieme“ e Mario Boccia, fotoreporter. La Cooperativa “Insieme”, nata a giugno del 2003 per iniziativa di dieci soci fondatori, in maggioranza
donne, rappresenta un progetto innovativo per il
commercio equo già a partire dalla regione in cui ha
preso vita, quella di Bratunac e Srebrenica (Bosnia),
all’indomani della guerra nei Balcani. Lo scopo di questo progetto è stato fin dall’inizio quello di sostenere e facilitare il ritorno dei rifugiati e la
riappacificazione fra le popolazioni attraverso la
riattivazione di un sistema microeconomico basato
sulla coltivazione di piccoli frutti in fattorie di famiglia
unite in cooperativa.
Il comune di Bratunac si trova infatti sulla riva
occidentale del fiume Drina, al confine tra la Bosnia
Erzegovina e Serbia, a pochi chilometri da Srebrenica.
Come quest’ultima, fa parte della Republika Srpska, una delle entità che costituiscono la Bosnia Erzegovina
di oggi. Dal 1992 l’area è stata teatro di scontri durissimi e stragi di dimensioni inaudite, ben
documentate dal lavoro giornalistico di Mario Boccia
che per il quotidiano “Il Manifesto” attraversò i principali teatri degli scontri che lacerarono questo
pezzo di Europa.
Nell’area della Bosnia il ritorno di chi è stato costretto a fuggire durante la guerra è stato più agevole che
nelle zone circostanti. Si stima infatti che il 30% della
popolazione bosniaca presente prima della guerra sia
rientrata nel Comune. I nuclei familiari sono spesso
formati da donne come capofamiglia, insieme ad
anziani e giovani di cui hanno dovuto farsi carico dopo
la vedovanza causata dal conflitto. Per questo motivo
creare nuove opportunità di lavoro, soprattutto per le
donne, si è rivelata la chiave vincente del progetto nato
attorno alla Cooperativa “Insieme”. In una situazione
economicamente depressa è difficile ricostruire
relazioni tra i differenti gruppi umani che la guerra ha
artificialmente contrapposto. Al contrario, lavorando
uniti per poter restare nella propria terra, è stato
possibile per queste donne ricominciare a vivere
insieme e rappresentare un esempio per l’intera Bosnia Erzegovina. A guidare questo riuscito esperimento è
Radmila Zarkovic, storica femminista e pacifista
jugoslava con il movimento delle “Donne in nero”, intervenuta in videoconferenza. «Prima della guerra
non avevo amicizie multietniche - ha raccontato -
avevo amicizie e basta. Ora ci chiedono quante sono le
serbe e quante le musulmane e dobbiamo piegarci a
specificare, ma noi siamo sempre le stesse».
Quattro le idee-forza alla base della Cooperativa
“Insieme”: centralità del lavoro, rifiuto del vittimismo, rispetto dei diritti e dell’ambiente, crescita economica. «Bisognava rimettere la realtà in piedi, dopo che la
guerra etno-nazionalista l’aveva capovolta – interviene
Radmila -. Riunire chi la guerra aveva diviso,
riportandoli a vivere non uno accanto all’altro, ma insieme – dice Rada – e questo non si può fare con
convegni sulla multietnicità, perché in questo modo
tutto è falso. In una situazione di crisi economica, è
facile scaricare le responsabilità sugli “altri” (i diversi, le minoranze) e la propaganda etno-nazionalista
riparte». E insiste: «Dobbiamo ripartire dal lavoro,
questa è la chiave».
E così ha fatto la Cooperativa “Insieme” che riesce a sostenere i suoi contadini (più di 500 famiglie) dalla
fase di produzione e raccolta dei piccoli frutti (mirtilli
e lamponi) fino alla loro trasformazione in marmellate
e succhi di frutti che vengono poi rivenduti, anche
attraverso la rete del commercio equo e solidale grazie
al supporto di Altromercato e del suo circuito di
Botteghe. La scelta dei piccoli frutti è anche un
indirizzo coerente con la storia dell’agricoltura tradizionale dell’area di Bratunac e Srebrenica, favorita da buone condizioni climatiche e dalla scelta
della Cooperativa di utilizzare un metodo biologico per
preservare la biodiversità e la fertilità del suolo.
I prodotti della Cooperativa “Insieme”, marmellate e
succhi, si posso trovare anche nelle Botteghe Colibrì.
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 50
Domenica 14 Giugno
Ore 13.00 : Pranzo
Ore 15.00 : Animazione con i clown di Côni Vip
Ore 7.3 : The e poi… a casa
Prenotarsi in cartoleria al numero 0171492441
il 25 e il 26 maggio
In occasione della denuncia dei redditi è nuovamente
possibile devolvere il 5 ‰ ad associazioni ed enti di volontariato o no profit.
Chi desidera destinarlo alla Cascina deve
semplicemente scrivere il nostro numero di Codice
Fiscale che è: 02289480044
Grazie a chi lo farà e a quelli che l’hanno fatto gli anni scorsi.
La Cooperativa Sociale “La Cascina” onlus, con sede a San Rocco Castagnaretta in via San Maurizio n. 72, gestisce un Centro Diurno con persone diversamente abili, cercando di valorizzarne al massimo le capacità offrendo loro la possibilità di lavorare (lavori agricoli - raccolta e divisione della carta da macero – gestione di un piccolo negozio di cartolibreria – laboratorio di ricamo e stampa articoli promozionali).
Un bel gruppo di volontari/e fornisce un prezioso aiuto, anche solo per qualche ora la settimana, e permette attività sempre più diversificate oltre ad una bellissima ed indispensabile integrazione sociale.
Noi ci impegniamo:
a rendere pubblico il contributo che arriverà
ad non utilizzarlo per l’ordinaria amministrazione del Centro (la gestione corrente de “La Cascina” deve funzionare con il proprio lavoro e con le convenzioni in essere con il C.S.A.C. ) ma per interventi di carattere straordinario o per creare nuove opportunità di lavoro e di inserimento.
Il 5 ‰ degli anni scorsi In tutti questi ultimi anni il Vostro contributo del 5 per mille (€ 73.697,00) è stato destinato alla costruzione di un capannone per il ricovero dei mezzi agricoli e della carta, costato € 96.211,91 e, lo scorso anno, a lavori di manutenzione straordinaria della struttura (sostituzione piastrelle rotte nel capannone dove lavoriamo la carta, tre rampe di
accesso al capannone stesso, due scivoli per eliminare le barriere architettoniche
agli altri locali e sistemazione di alcune spaccature e distacchi di intonaco, per un totale di € 5.739,00.
Il contributo di quest’anno sarà invece utilizzato per l’acquisto di una ricamatrice in modo da poter offrire più possibilità di lavoro ai ragazzi.
La Cascina
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Il nuoto è il mio sport preferito,
quando nuoto mi sento bene.
In piscina vado due giorni a
settimana, il venerdì e il sabato.
Il mio stile preferito è nuotare a
dorso.
E’ uno sport che consiglio a tante persone in quanto fa star
bene e
divertire!
Claudio
Il 21 febbraio è nato Francesco il bimbo della nostra collega
Enrica siamo stati tutti molto felici, anche se purtroppo non è
potuta venire subito a farcelo conoscere perché dopo un
inverno caldo e senza neve in questi giorni ha nevicato e
piovuto tantissimo e con un bimbo cosi piccolo non è il caso
che lo porti fuori.
Speriamo che la settimana prossima venga a farci visita e ci
porti a conoscere Francesco.
Ai miei colleghi ho dato io la notizia perché Enrica la
domenica mi ha mandato un messaggio, il lunedì io ho messo
al corrente i nostri colleghi.
Tanti auguri Enrica e benvenuto Francesco.
Enrico
Io e Martina prima di pasqua abbiamo iniziato l’uovo di Pasqua. Abbiamo usato: un palloncino,la carta di giornale, la vinavil e
i colori a tempera. Per la prima cosa abbiamo gonfiato il palloncino, poi io con la cola vinavil ho incollato vari strati di giornale. Dopo due settimane abbiamo colorato con i pastelli a tempera, usando il rosso, verde, giallo,viola.
Mi sono divertito molto anche con Nadia,Elisa,Paolo,Claudio. Luciano
Mercoledì 19 febbraio siamo andati in gita nelle Langhe.
In particolare sono stato colpito dalla panchina gigante quando siamo
stati
a Piozzo.
Ci siamo divertiti molto e sono andato a fare una piccola ricerca su
internet per saperne di più.
La prima grande panchina fu realizzata nel 2010 da Chris Bangle a
Clavesana.
Sono state costruite in totale 11 panchine nella zona delle langhe tutte
in punti panoramici.
“Sedersi su queste panchine ci fa sentire come un bambino capace di meravigliarsi della bellezza del paesaggio con uno sguardo nuovo”.
Matteo
n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 52
Mercoledì 2 marzo siamo andati a piedi dalla
Cascina fino a Cuneo. Volevamo vedere la
nuova piazza del Foro Boario dove una volta
c’era il mercato del bestiame. Siamo partiti alle 9 e 30 e siamo tornati in Cascina all’una a mangiare.
Ci siamo divertiti molto e vicino al Foro Boario
abbiamo preso il caffè.
Saluti da Paolo C.
IL GIORNO DI PASQUA Il giorno di Pasqua sono andato a messa con mio papà. Mia mamma e’ rimasta a casa per preparare pranzo: abbiamo mangiato gli gnocchi e l’agnello con le patate. Era
veramente buono.
Abbiamo pranzato con i parenti e nel pomeriggio abbiamo fatto una passeggiata per
Borgo. Ero un po’ triste perché non mi e’ arrivato niente per Pasqua, ma e’ stata comunque una bella giornata.
Samuele
Lunedì mattina con Serena e Samuele siamo
andati a fare la spesa alla Coop, di solito non
tocca mai a me perché il lunedì mattina sono
sempre in negozio, però questa volta ho
cambiato il turno e cosi sono andato a fare la
spesa, abbiamo presso un carrello e siamo
entrati.
Per prima cosa ci siamo recati al reparto di
frutta e verdura dove abbiamo presso cavolfiori,
finocchi, insalata e banane, mozzarelle,
formaggi vari e pesce fresco quindi ci siamo
messi in coda per pagare.
Usciti abbiamo preso il caffè e poi abbiamo
caricato la spesa sul pulmino, rimesso il carrello
al suo posto e abbiamo fatto ritorno in Cascina.
A me è piaciuta come esperienza visto che non
vado mai a fare la spesa perché a casa ci pensa
la mia mamma.
Enrico