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II. VIABILITÀ E OSPEDALI NELLA VALLE DEL SERCHIO 1. La viabilità appenninica 1.1 INTRODUZIONE L’Appennino e le Alpi Apuane, visti dalla Val di Magra, evidenziano, in una linea costantemente alta, una serie di grandi depressioni che furono poi i reali punti di valico utilizzati per lunghissimi periodi. La Cisa, il Cirone, Linari, l’Ospedalaccio, sono passi evidenti che chiunque può individuare ponendosi di fronte alla massiccia figura dell’Appennino. Così dovette accadere per gli animali e per chi li attendeva nei punti di passo dalle origini dell’insediamento umano in questa terra. Così accadde per chiunque dovette attraversarlo, in ogni età (fig. 30). Tuttavia nessuno di questi passi porta – dal nord – a Lucca. Dando pertanto come punti di riferimento non discussi – e si dimostrerà in seguito – il Passo della Cisa (la clavis et ianua della Tuscia) e la città di Lucca, la domanda è: "quale è stato, nel divenire del tempo, l’itinerario che ha unito i due punti?". A Lucca, passando dalla Cisa, si giunge o dal Passo di Tea, cioè quel sistema montano che unisce (nell’unico punto in cui ciò accade) la dorsale appenninica a quella sorta di digressione naturale che sono le Apuane, oppure lungo il fondovalle del Magra e poi per la Versilia. La ricerca – anche questa – sta evidenziando come l’itinerario per la Val di Serchio e la Garfagnana non fosse un itinerario né decentrato né più difficile e questo sia dal punto di vista ambientale (essendo comunque un itinerario sostanzialmente in discesa) sia dal punto di vista dei problemi che le vicende storiche hanno sempre posto ai viaggiatori. Tuttavia, poiché non dovunque, nella montagna, c’è stata nel medioevo viabilità o ospitalità stradale e poiché non tutte le terre appenniniche sono state "aree di strada", si cercherà di evidenziare per quali motivi geografici, politici, economici questa parte di Appennino in rapporto con la marina – ed individuata in particolare nella Garfagnana e Lunigiana, ma anche in porzioni emiliane – è stata un’area di strada e quali caratteri dell’economia hanno determinato un tipo di struttura di ospitalità di montagna come l’ospitale di Tea. Infatti, il senso della storia, dell’economia, della politica del tratto di Appennino che qui si indaga sta tutto nel suo rapporto "naturale" – e nella sua funzione di cerniera fisica – fra sé, la Lombardia e il mar Tirreno. Gran [71] parte della sua storia, dalla più antica fino alla recente, trova ragione nelle necessità, al plurale, di collegamento fra le terre interne, di montagna e di pianura, e il mare. Ben più – per la storia di questa terra e dello stesso ospitale di Tea – del collegamento con Roma o con Santiago de Compostela, fari di attrazione di un flusso di popolo sporadico e limitato a momenti eccezionali. Ma una vocazione stradale del territorio non basta a creare una viabilità, meno che mai una viabilità attrezzata. Perciò l’individuazione della "connessione fra strade e potere", nel medioevo, come “elemento qualificante di uno studio sulle istituzioni in zona alpina” (SERGI 1981) appare fondamentale anche per il sistema appenninico, come già si è detto. Le ragioni di una feudalità diffusa e litigiosa, ma duratura e insediata nei castelli della Lunigiana e della Garfagnana e poi una rete di vivaci comunità senza centro cittadino, sono state spiegate, più volte e in più modi, ma mai si è affrontata la questione legandola alle ragioni della politica economica – soprattutto commerciale – e sociale del territorio. Tuttavia, se è vero che le ragioni che producono viabilità nella montagna nel medioevo sono legate alla politica dei poteri locali, tale politica "locale" delle strade non avrebbe potuto essere se non fosse esistita una mobilità esterna importante e flussi

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II. VIABILITÀ E OSPEDALI NELLA VALLE DEL SERCHIO

1. La viabilità appenninica

1.1 INTRODUZIONE

L’Appennino e le Alpi Apuane, visti dalla Val di Magra, evidenziano, in una linea costantemente alta, una serie di grandi depressioni che furono poi i reali punti di valico utilizzati per lunghissimi periodi. La Cisa, il Cirone, Linari, l’Ospedalaccio, sono passi evidenti che chiunque può individuare ponendosi di fronte alla massiccia figura dell’Appennino. Così dovette accadere per gli animali e per chi li attendeva nei punti di passo dalle origini dell’insediamento umano in questa terra. Così accadde per chiunque dovette attraversarlo, in ogni età (fig. 30). Tuttavia nessuno di questi passi porta – dal nord – a Lucca. Dando pertanto come punti di riferimento non discussi – e si dimostrerà in seguito – il Passo della Cisa (la clavis et ianua della Tuscia) e la città di Lucca, la domanda è: "quale è stato, nel divenire del tempo, l’itinerario che ha unito i due punti?". A Lucca, passando dalla Cisa, si giunge o dal Passo di Tea, cioè quel sistema montano che unisce (nell’unico punto in cui ciò accade) la dorsale appenninica a quella sorta di digressione naturale che sono le Apuane, oppure lungo il fondovalle del Magra e poi per la Versilia. La ricerca – anche questa – sta evidenziando come l’itinerario per la Val di Serchio e la Garfagnana non fosse un itinerario né decentrato né più difficile e questo sia dal punto di vista ambientale (essendo comunque un itinerario sostanzialmente in discesa) sia dal punto di vista dei problemi che le vicende storiche hanno sempre posto ai viaggiatori.

Tuttavia, poiché non dovunque, nella montagna, c’è stata nel medioevo viabilità o ospitalità stradale e poiché non tutte le terre appenniniche sono state "aree di strada", si cercherà di evidenziare per quali motivi geografici, politici, economici questa parte di Appennino in rapporto con la marina – ed individuata in particolare nella Garfagnana e Lunigiana, ma anche in porzioni emiliane – è stata un’area di strada e quali caratteri dell’economia hanno determinato un tipo di struttura di ospitalità di montagna come l’ospitale di Tea. Infatti, il senso della storia, dell’economia, della politica del tratto di Appennino che qui si indaga sta tutto nel suo rapporto "naturale" – e nella sua funzione di cerniera fisica – fra sé, la Lombardia e il mar Tirreno. Gran [71] parte della sua storia, dalla più antica fino alla recente, trova ragione nelle necessità, al plurale, di collegamento fra le terre interne, di montagna e di pianura, e il mare. Ben più – per la storia di questa terra e dello stesso ospitale di Tea – del collegamento con Roma o con Santiago de Compostela, fari di attrazione di un flusso di popolo sporadico e limitato a momenti eccezionali. Ma una vocazione stradale del territorio non basta a creare una viabilità, meno che mai una viabilità attrezzata. Perciò l’individuazione della "connessione fra strade e potere", nel medioevo, come “elemento qualificante di uno studio sulle istituzioni in zona alpina” (SERGI 1981) appare fondamentale anche per il sistema appenninico, come già si è detto. Le ragioni di una feudalità diffusa e litigiosa, ma duratura e insediata nei castelli della Lunigiana e della Garfagnana e poi una rete di vivaci comunità senza centro cittadino, sono state spiegate, più volte e in più modi, ma mai si è affrontata la questione legandola alle ragioni della politica economica – soprattutto commerciale – e sociale del territorio.

Tuttavia, se è vero che le ragioni che producono viabilità nella montagna nel medioevo sono legate alla politica dei poteri locali, tale politica "locale" delle strade non avrebbe potuto essere se non fosse esistita una mobilità esterna importante e flussi

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di persone capaci di creare un’economia indotta. Le "volte" lunigianesi e la relativa economia non sarebbero nate se non ci fosse stato un flusso mercanti che necessitava di quelle strutture (fig. 31). La politica stradale del potere perciò si concretizzò nella gestione dell’ospitalità per i mercanti provenienti dall’esterno e nel controllo di attività e spazi (pascoli) [73] economici che richiedevano mobilità e viabilità e, di conseguenza, attraverso interventi e norme che favorissero tali traffici e l’economia che determinavano.

In conclusione, perciò, Appennino come area naturale di transito e di traffico, anche di grande traffico, dal mare al monte alla pianura e viceversa. Ma non solo. Anche terra di importanti capacità produttive. Una capacita produttiva certo nell’agricoltura, nella pastorizia, nella silvicoltura ma, come si vedrà, anche nelle industrie, diverse e in diversi tempi. Una capacità poi di creare la rete del commercio, la rivendita delle produzioni locali determinanti al commercio stesso. Insomma una vitalità economica data dall’incontro di flussi commerciali legati ai porti e un’economia locale influenzata dagli stessi flussi di commercio ma capace di adattarsi a nuove situazioni. Arte importante, questa, in una situazione di grande mutevolezza specialmente dei luoghi di sviluppo, temporanei, limitati, provvisori, come vedremo spesso, in queste montagne. Ai porti le navi scaricavano i prodotti esterni che attraversavano la montagna ma caricavano anche i prodotti dell’economia della montagna, sia alimentari che manufatti e materie prime. C’era poi una rete di mercati interni al sistema appenninico che poteva somigliare, anche nelle età medievali, a quanto avvenne, ne1’700-’800, col sistema complementare degli empori di Castelnuovo Garfagnana, Fivizzano, Castelnuovo ne’ Monti.

1.2 ETÀ ROMANA

Poco sappiamo della politica stradale in età romana nell’Appennino. Tuttavia, assieme ai dati di una cartografia di età romana, costituiscono indizi importanti per la storia della viabilità più elementi che mostrano una vitalità economica e collegamenti strutturali con altre aree contermini o lontane. Innanzitutto l’unità agricola e l’organizzazione fondiaria che offrono una ragione importante di collegamento anche viario fra l’area dell’alta Lunigiana, della Garfagnana e della Lucchesia. Già il Formentini aveva individuato che il «Municipio di Lucca, per la Valle del Serchio e l’alta Val di Magra, giungeva ai confini di Veleia e di Parma, nelle valli del Ceno e del Taro; e similmente Parma si spingeva ai confini lucchesi per il territorio (poi reggiano) dell’alta Secchia»; una situazione che lo storico legava alle esigenze della transumanza fra l’Appennino e la Maremma fin da età più antiche. L’aspetto dell’espansione, dell’Agro lucense fino all’Agro veleiate è assolutamente fondamentale a cogliere appieno una comunità economica e degli interessi comuni che giustificano l’esistenza e la necessità di collegamenti viari montani, e di conseguenza una struttura di ospitalità montana, sia nell’età romana che in quella medievale quando quella comunità, in forme nuove ma significative, continuò a manifestarsi.

Ma il motivo che fece l’agricoltura elemento, non solo di unità, ma anche di mobilità, fu che le vaste praterie alte dell’Appennino, nei due versanti [74], rappresentavano una sorta di area di produzione, agricola e pastorale nonché un mercato per il fondovalle, e ciò già prima dei romani. Ci aiutano la nota citazione di Marziale sui grandi formaggi che da Luni partivano che può essere bene riferita, come qualcuno vuole, alle forme del "parmigiano" prodotto alla montagna e portato alle navi in porto e l’esistenza di un mercato locale (un forum), capace di attirare a sé le

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produzioni ed i clienti del territorio, come ci viene suggerito dall’unico toponimo interno della Tabula Peutingeriana, il Forum Clodi. Così pure già importante doveva essere il commercio del sale, prodotto insostituibile dell’alimentazione umana e proveniente dal mare verso il nord in un’area di strada obbligata. Non è da sottovalutare anche il trasporto del marmo dall’area lunense e apuana alle città padane che, per i blocchi "someggiabili", avrebbe potuto essere trasportato per vie montane, anziché con lunghissimi spostamenti via mare.

Perciò, l’area di Tea – da cui provengono numerosi segni archeologici – come area di passaggio e di contatto appare importante, in più direzioni. La prima – individuata cartograficamente nella Tabula Peutingeriana – conduceva da Luni a Luca attraverso l’interno passando per il Forum Clodi. Di questo itinerario (che doveva passare da Luni, alla Val del Bardine, del Lucido, dell’alta Aulella e per il Passo di Tea giungere alla Garfagnana e Lucca) danno testimonianza diverse fonti. Siti e reperti archeologici sono stati individuati in diverse località, fra cui le più importanti sono Codiponte e Regnano, nonché nelle praterie di Tea (fig. 32); tracce di strada lastricata a grandi pietre (di diametro che giunge fino a 70 cm per una larghezza stradale, in alcuni punti, di circa 4 metri) sono presenti a monte di Regnano verso le praterie di Tea; tracce toponomastiche viarie sono a Pulica (top. Pulica), Lorano (top. Terzo), a Codiponte (topp. Quarto, Strada, Tria), a Regnano (topp. Taverna, Tavernaccia), presso Pugliano (top. Corubbia da Quadruvium), a Tea (topp. Corso, Via Salaria). Nell’area di Regnano questa via doveva congiungersi con l’altra direttrice che da Velleia per Sorano e Venelia (Monti) passando per Codroiòn (Quadruvium, possibile incrocio verso Cuscugnano, fondo prediale dei Cosconii, famiglia lunense presente anche a Regnano, dove si colloca il Rubra dell’Itinerario bizantino dell’anonimo Ravennate) giungeva alla Valle Aulella. Siti e reperti archeologici si hanno, oltre a Sorano, a Monti, a Soliera, a Debicò; indizi toponomastici a Soliera (top. Madonna del Corso, da cursus publicus), a Soliera verso Fivizzano (top. Corso), a Offiano (top. Via maiora) (fig. 33). C’è poi la straordinaria coincidenza di toponimi prediali fra l’area lunense e l’alta Carfagnana.

Le tendenze stradali sembrano inoltre indicare un congiungimento della Val di Magra, nell’area fra il passo di Tea e il Castelvecchio (probabilmente Piazza al Serchio), con la Via Clodia (come è comunemente detta la documentata via da Lucca lungo il Serchio). Qui la Via Clodia si diramava verso Parma, verosimilmente attraverso il passo di Pradarena; verso Piacenza e Velleia (ma anche verso Parma) attraverso il passo di Tea, Offiano e Sorano [75] (Filattiera), verso Luni attraverso il giogo e il Castellaro di Renzano e Codiponte. Questa viabilità pare dar senso all’espansione dell’agro Lucense in Lunigiana e nell’appennino Piacentino e Parmense e in questa supposta nervatura stradale trova ragione il sistema economico individuato e documentato dalla Tabula alimentaria di Velleia.

1.3 ALTOMEDIOEVO

Poco sappiamo della politica delle strade, nel territorio, anche per l’età altomedievale, quando tuttavia viene formandosi una viabilità nuova, in parte ricalcata sulla preesistente e in parte determinata dai nuovi equilibri politici ed ancora dalle ragioni fondamentali dell’economia e della sopravvivenza. La pastorizia di transumanza – portatrice di straordinarie conseguenze e valenze culturali e sociali – fu certamente l’attività economica che più di ogni altra ebbe bisogno della viabilità. Anzi la transumanza stessa fu costruttrice di strade e permise, certamente più di ogni norma statutaria o disposizione magistrale, il mantenimento e la manutenzione materiale

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degli itinerari e delle strade. Inoltre, non si può immaginare – almeno per le terre alte di Lunigiana e Garfagnana (Valli dell’Aulella, del Lucido, del Mommio, dell’Alto Serchio, dell’Edron) – una pastorizia che non fosse transumante, atteso che il freddo e la neve erano – e sono – connaturati agli alpeggi e che potevano avere una funzione di pascolo e di ricovero per notevoli quantità di pastori e greggi solo nella stagione buona. [76]

Nell’alto medioevo esiste una notevole attività agro-pastorale e un popolamento nell’area della Garfagnana e della Lunigiana orientale ed appare con sufficiente chiarezza la prevalenza della pastorizia ovina (ma anche un’attività di tessitura di sacchi) nella Garfagnana rispetto alla piana di Lucca, che si va specializzando nelle produzioni agricole (ANDREOLLI 1993). Se quindi esisteva un’importante attività pastorale (addirittura un sistema produttivo basato quasi esclusivamente su pastorizia e cerealicoltura) in Garfagnana e se questa basava la sua economia su quelle attività rispetto alla collegata città di Lucca, e sua piana e collina, che si specializzavano invece in settori non pastorali, si può ipotizzare che, per motivi climatici, dovesse esistere un sistema di spostamento stagionale delle greggi, di carattere transumante, già nei secoli altomedievali. Parrebbe ragionevole affermare che non ci possa essere stato gregge a Careggine, Vagli, Gorfigliano, Sillano, Cascio o, più genericamente, in Garfagnana che non fosse anche transumante. D’altronde i dati [77] archeologici, fin dalla fine dell’età neolitica, indicano sull’Appennino ed in rapporto anche con la Piana di Luni, un naturale movimento di pastorizia d’altura transumante che non si interruppe neppure nelle fasi di abbandono o di forte crisi dell’alto medioevo. Non va poi sottovalutato il fatto che i canoni in natura pagati dalla Garfagnana comprendevano ampiamente i prodotti cerealicoli in quanto la montagna tendeva a divenire un’area di vasta produzione di cereali che venivano probabilmente posti sul mercato (compaiono non a caso più toponimi derivati da quelle coltivazioni quali Graniolum, Granaiolai?). Anche il commercio del sale compare, nell’area di Lucca, come attività importante nell’alto medioevo e fu certamente – come non smise mai di essere – motivo di vasti traffici dal mare verso la montagna e la pianura padana.

La viabilità romana risentì fortemente delle mutate condizioni politiche ed insediative, specialmente in età longobarda. Infatti, la strada – o le strade – che da Luni salivano verso l’appennino furono interrotte drasticamente quando questo divenne terreno di scorreria e di dominio gotico e barbarico mentre il mare restava nelle mani della flotta romana d’Oriente. Questo accidente storico può dare un senso all’assurdità di percorso dell’itinerario dell’anonimo Ravennate in età bizantina. Se è vero, ma molti dubbi restano, che tale itinerario collegava Luni con Pulica (Pullion) lungo l’angolo L u n i-Pullion-Bibola-Rubra-Cornelium (Luni-Pulica-Bibola-Terrarossa-Corneda) per poi raggiungere la riviera ligure, ciò può essere spiegato solo con la continuità d’uso di un pezzo di strada facente parte di un più vasto precedente collegamento verso l’Appennino di cui restavano praticabili per i bizantini solo i due rami che – dal centro di un incrocio che avrebbe potuto esser stato il Codroion, Quandruvium, già ricordato – andavano verso Luni e l’occidente ligure, restando interrotti per loro quelli verso il nord e l’oriente appenninico longobardo. Peraltro il senso di un incrocio era già dato dall’angolo verso est della strada Lune-Luca disegnata nella Tabula Peutingeriana.

L’impossibilità di raggiungere l’Appennino da parte dei bizantini – e di contro – l’impossibilità di transitare per la costa tirrenica da parte dei Longobardi, fino alla metà del VII secolo (ma c’è chi pensa che i bizantini abbiano tenuto Luni fino al tempo di Liutprando) è una delle chiavi di lettura basilari per ricostruire una verosimile struttura viaria. L’area della Maritima, attorno a Luni, rimase bizantina

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fino al 640 (ma forse, come si è detto, anche oltre quella data) quando si dice fosse devastata da Rotari. Successivamente a questo fatto, Luni non appare in grado di riprendere subito una funzione centrale: venne anzi devastata di nuovo, aveva una grave situazione di impaludamento, era sotto il pericolo costante di saccheggio da parte dei pirati che insidiavano la costa. Peraltro, l’area di Luni non appare necessaria per il transito dall’Appennino a Lucca, come non lo era mai stata in età romana. Nella valle interna del Magra, forse già quando venne in mano longobarda, ma certamente in età carolingia, Sorano riprese naturalmente la funzione avuta [78] in età romana di "centro", anche per la viabilità. Questa centralità altomedievale di Sorano – a fronte di una lunga marginalità di Luni – trova un indizio nell’organizzazione tripartita del territorio della Val di Magra in fines lunenses, surianenses e garfanienses che compare nell’atto di fondazione di Aulla da parte di Adalberto di Toscana nell’884. Benché relativi ad un’organizzazione successiva all’età longobarda sembrano manifestare una situazione di fatto ereditata. I fines Lunenses indicano l’area di immediata pertinenza della città di Luni limitata alla bassa Val di Magra, allo sbocco nel mare. I fines Garfanienses indicano una terra orientale che sconfinava oltre il giogo dalla Val di Serchio in Val d’Aulella. I fines Surianenses indicano proprio i confini dell’attuale Lunigiana in una vasta fascia che da Caprigliola alla Cisa teneva in comunicazione Val di Taro, di Magra, d’Aulella e di Serchio, come era stato in età romana. In questo quadro non compare una centralità di Luni, per la Lunigiana, ma di Sorano. Infatti l’estensione dei fines Lunenses, estremamente limitati in rapporto ai fines Surianenses e Garfanienses, indica la crisi della centralità di Luni. Per contro, la presenza dei Longobardi sull’Appennino fu così capillare e forte, e così caratterizzante, che quella catena assunse il nome di Mons Langobardorum (Monte Bardone). Un termine, questo, che probabilmente indicava complessivamente la catena appenninica e non solamente, come molti hanno interpretato, il solo punto di passo che fu poi la Cisa (Passo di Monte Bardone). Questo passo, invece, ebbe la funzione – riconosciuta – di punto obbligato di attraversamento dell’appennino dalla Piana Padana alla Tuscia. Dalle palizzate del recinto fortificato di Sorano gli avamposti bizantini guardavano verso la montagna, la terra dei barbari, dei "lombardi", un mondo che aveva due punti di riferimento, Pavia e Lucca, che stava divenendo la città centrale della Tuscia.

C’era certamente una via che le univa: quale? Poiché si sa che il percorso utilizzò il passo di Monte Bardone, la nuova via, segnata in un’area di strada che univa da sempre l’alta Valle del Taro, l’alta Lunigiana, la Garfagnana e Lucca e che verosimilmente doveva restare in terre longobarde, probabilmente deviava, prima di Sorano, andando ad incontrare l’antica Luca Placentiam, verso la Garfagnana, il passo di Tea e Lucca. Pertanto la Via di Monte Bardone (cioè la Via del Monte dei Longobardi) che univa la Padania alla Tuscia e a Lucca era un tracciato politico che probabilmente – in un primo momento – valicato l’appennino rimaneva alta nella Val di Magra e "scendeva" al Passo di Tea e da lì, per Castelvecchio seguendo il Serchio raggiungeva Lucca, toccando terre in cui l’archeologia e la toponomastica hanno dimostrato una presenza longobarda (Offiano, Piazza al Serchio). Dopo la conquista longobarda dell’alta Val di Magra, probabilmente, Sorano riassunse la funzione stradale di svincolo avuta in età romana per cui passò da lì il tracciato che dopo aver toccato Offiano portava al Passo di Tea, poi, sfruttando il ponte di Ponteccio, calava a S. Anastasio fino a Pieve di Castello. Questa ipotesi viaria non è, e non è mai stata, isolata: ultimamente è stata [79] ripresa da E PIRILLO (1994) ma già U. Mazzini e F. Schneider la ipotizzavano (BARONI 1998). Su quella via confluiva il collegamento, probabilmente transumante, dal mare che metteva in relazione più luoghi insediati

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nell’VIII secolo da S. Terenzio e S. Michele di Vico coloniense, alla corte e sala di S. Cipriano (Codiponte), a Sermezzana, Gorfigliano, Capoli.

In quell’età l’area a cavallo fra la Lunigiana e la Garfagnana, l’area del valico di Tea, terre controllate dal Ducato e dal Vescovo di Lucca, appare frequentata ed insediata. L’ampia documentazione conservata nell’archivio Arcivescovile di Lucca testimonia una importante attività agricolo-pastorale ed un insediamento stabile, civile e religioso e sembra indicare una direzione di penetrazione che correva da Lucca lungo il Serchio per biforcarsi verso Monte Bardone e la marina. Verso Monte Bardone era una via, innanzitutto politica, ma anche di scambio economico che metteva in comunicazione le due grandi aree della Padania e della Tuscia, Pavia e Lucca, ponendo in relazione tutto ciò che esisteva sulla strada e mantenendo i contatti economici. Verso la marina era invece una viabilità determinata dalle necessità economiche del rapporto fra la montagna e il mare, sia per il commercio del sale, sia per la transumanza, sia per il collegamento ai porti. Per cui, il legame economico con l’area di Luni, aldilà della situazione della città maledetta, non venne meno. Ancora, nell’area a cavallo fra le valli del Serchio e dell’Aulella, appaiono vivaci contatti anche con le aree emiliane. L’interesse lucchese per terre nel territorio parmense è mantenuto costante, in quest’area, dall’antico collegamento Lucca-Parma che appare correre attraverso l’area di Sillano lungo la Valle del Secchia, rimanendo nel versante nord dell’appennino. Questo collegamento avrà nell’XI sec. un punto mediano di notevole importanza nell’Abbazia di S. Salvatore di Linari.

Tuttavia, non si nasconde che la mancanza di precisi riferimenti archeologici e documentari a strade, in questi secoli, rende molte affermazioni ipotetiche e basate su considerazioni in attesa di conferma. Vi sono riferimenti archeologici (i ritrovamenti di Sorano, Codiponte, Luscignano, Offiano e Piazza al Serchio, di qua e di là da Tea), documentari (importante la menzione di una via publica presso Castello, forse l’attuale Piazza al Serchio, nel 857, di Pulica nel 859, del Ponte Colsi, Pontecosi, nel 954, nonché la menzione dei molti luoghi insediati) e toponomastici; alcuni rimandano anche alla romana Via Clodia (il top. Occlutio, in alta Garfagnana, nel X secolo). Nel X sec. un indicatore di viabilità può essere dato dalla prima linea delle Pievi dipendenti da Luni che erano, nel 998, Urceola (Saliceto di Pontremoli), Castevoli, Monti e Soliera, lungo l’itinerario verso Lucca che si collegava al tratto di fondovalle nell’area di Sorano. Gli insediamenti di Codiponte e Luscignano (uno su un guado e l’altro su una foce) paiono collocati anche rispetto a una strada trasversale, detta la via di Reggio (una "via regia" ?) che collegava i territori emiliani con l’area di Luni attraverso il Passo dell’Ospedalaccio. [80]

Tuttavia il secolo IX, benché assai tribolato per le numerose incursioni, seppur in una condizione di cronica debolezza testimoniata dall’allivellamento di terre lunensi al Vescovo di Luni da parte di quello di Lucca nel 816 e dalla documentazione dell’amplissima penetrazione dei possedimenti del Vescovo lucchese fino a Pulica e al rio Pesciola (al monte Cernitore), appare come il secolo in cui, almeno nella seconda parte, inizia la ripresa della Diocesi lunense. È con Carlo il Grosso che l’Episcopato di Luni riceve il primo documento che sancisce un suo effettivo dominio temporale. Ed il X secolo appare davvero quello della ripresa che si legge anche nel recupero delle pievi. Alla base del rinnovato protagonismo e della nuova ricchezza sta probabilmente anche lo sviluppo della strada da nord verso Roma, la via Francigena, divenuta dopo l’VIII secolo praticabile, e passante per la Cisa e Luni lungo il fondovalle, che il vescovo, di fatto, controllò per tutto il medioevo pieno. Una via che, alla fine del X secolo, l’arcivescovo di Canterbury, Sigerico, andando a Roma, descrisse per la prima

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volta. La Via di Monte Bardone aveva ormai lasciato il primato stradale di carattere politico, diplomatico e militare alla velocissima arteria di fondovalle.

1.4 MEDIOEVO

Per il medioevo, almeno fino all’avvento degli Stati regionali, lo schema interpretativo di T. SZABÒ (1991) trova riscontro anche nel nostro sistema appenninico, dove i protagonisti furono, per specifiche condizioni locali e con le dovute differenze, il Comune di Lucca, il Vescovo di Luni assieme alla feudalità ed ai comuni più o meno grandi, ad essi legati. Come si è detto, l’esistenza di un’area di strada composta di un sistema di passi appenninici e apuani (e di approdi marini) che vedevano in Tea un punto di svincolo nelle quattro direzioni, dove sorse non a caso una fondamentale struttura di ospitalità di montagna, è l’elemento da cui partire per comprendere formazione, insediamento ed attività politiche ed economiche, non solo degli enti maggiori, ma anche di quel diffuso potere locale fatto di molte famiglie feudali in Lunigiana e Garfagnana. Su questa feudalità minore operò la forza di famiglie maggiori, i Canossani, gli Obertenghi, ma anche dei Vescovi di Luni e dei Comuni più grandi, fortemente interessati alla strada e all’economia di strada del sistema appenninico di passaggio, così come del mare e dei suoi approdi. Un insediamento legato all’economia di strada (ben evidenziata nell’economia delle volte in Lunigiana) e all’area di strada montana ma non necessariamente sviluppato solo "sulla" strada per l’ampia articolazione delle motivazioni economiche, politiche, militari, religiose per la fondazione di un castello, di un monastero, di una pieve, di un villaggio.

Nell’età di Matilde, la Lunigiana e la Garfagnana appaiono, per molti motivi – economici e politici ma anche artistici e culturali – legate al versante emiliano, padano e alle sue città. La contesa fra i Canossani e gli Obertenghi [81] fu per il controllo dei passi appenninici verso il mare, ad indicare la loro fondamentale importanza strategica nonché la loro forte utilizzazione nei secoli XI-XII, testimoniata, peraltro, dalla fondazione o rivitalizzazione degli ospitali di valico. Nello scontro per il controllo dei valichi appare una prevalenza degli obertenghi sui passi alti in Val di Magra (che corrispose al dominio sull’alta valle) mentre i canossani appaiono controllare il passo del Cerreto, forse Linari, ma anche Pradarena, Tea, passi garfagnini e Monte dei

Bianchi verso Luni. Ed è provato che Matilde e i suoi vassalli operarono una rivitalizzazione della rete stradale. La stessa leggenda vuole Matilde fondatrice di ponti ed ospitali, fra cui Tea (che sorge al suo tempo e forse su terre di suoi fedeli), Pradarena, Isola Santa, strategici nel collegamento fra la Padania e il mare. Evidente è per quella famiglia che aveva fortissimi interessi economici e politici di qua e di là dell’Appennino, l’interessamento ed il controllo della viabilità fra i due versanti anche attraverso le strutture religiose, alcune anche con probabile funzione ospitaliera, legate all’Abbazia di Canossa (il Monastero di S. Michele di Monte dei Bianchi (Fig. 34), le chiese di S. Prospero di Monzone, di S. Maurizio di Aiola, di S. Pietro di Cortila, di S. Biagio di Viano, di S. Giulia di Noceto) (SCALETTI 1999). L’azione dei fedeli canossani, Rodolfo da Casola e Bosone, favorì una nuova fase di insediamento con la fondazione (o rifondazione) del monastero di Monte dei Bianchi, dei castelli di Soliera, Monzone, forse Verrucola, cui si aggiunsero i castelli edificati dai signori di Fosdinovo, parenti dei Bianchi di Erberia, e i figli di Guido, fra cui non è impossibile annoverare anche quel Guinterno di Guido del castello di Regnano, che aveva nel 1066 il possesso delle terre di Teura. Nei secoli XII-XIII, nel versante

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lunigianese il Vescovo di Luni assunse e mantenne un ruolo da protagonista nella politica di difesa, di garanzia, di controllo delle strade, delle strutture stradali e dell’economia di strada. Un ruolo che gli contesero, nelle terre interne, i Malaspina che abbiamo veduto vivere anch’essi della strada e della gestione di strutture stradali e poi, nel XIII secolo, la città di Sarzana. Tuttavia l’iniziativa del Vescovo lunense si sviluppò anche nell’alta Garfagnana e lungo tutta l’area di strada che dalla marina la raggiungeva. In quest’area operò, tuttavia, come in tutta la Valle del Serchio, Lucca, e specialmente dal XIII secolo, fase in cui i suoi commerci crebbero e si volsero ad investire di un traffico molto superiore a quello fino ad allora verificatosi, la via della Garfagnana anche per l’interruzione, per motivi contingenti, di vie di comunicazione fino ad allora utilizzate (l’ampliamento dell’ospitale di Tea si lega a queste cresciute necessità di ospitalità laica). Un’espansione commerciale lucchese che coincise, peraltro, con l’inizio della decadenza del Vescovo di Luni. Le strategie politiche messe in atto da questi attori manifestano come l’economia di strada fosse primaria.

Con il medioevo assistiamo perciò ad una crescita quantitativa e qualitativa delle strutture viarie. Le strade, la via Francigena, ma anche le altre vie romee. I ponti, fra cui si trovano citati per la prima volta il "Pons Tremulus", [82] Pontremoli (Fig. 35), borgo che cresce proprio in funzione stradale, fra le tappe di Sigerico alla fine del X secolo e il "Capite pontis", Codiponte (Fig. 36), come località di una grande pieve romanica, citato nel 1148, ma naturalmente preesistente. Vengono costruiti in questa fase il Ponte della Maddalena di Borgo a Mozzano e probabilmente il "Pontebosio", che, nel nome, evidenzia il nuovo impegno stradale di una delle maggiori famiglie canossane della Lunigiana orientale, i Bosi della Verrucola (Fig. 37). Infine, le strutture di ospitalità (fra cui l’ospitale di Tea) che ebbero funzioni, gestioni e caratteri diversi e si modificarono nel tempo: di ricovero per poveri od infermi, di ospitalità gratuita per pellegrini, di ospitalità a pagamento per viandanti, mercanti e loro merci, gestite da enti pubblici o da privati, laici o religiosi. C’è insomma una nuova attenzione alle strade e al loro controllo. Nel versante lunigianese è il Vescovo di Luni ad assumere il compito di imporre, alla feudalità locale premalaspiniana e malaspiniana, la cura e la difesa delle strade facendosene garante. Un compito concretizzato nel 1197 e nel 1206 quando il vescovo venne a patti prima con gli Erberia, locali feudatari, per la "strata" [83] che per Fosdinovo conduceva al passo di Tea, poi, con i Comuni di Lucca e di Pontremoli e con Guglielmo Malaspina per la via Francigena. Nel versante della Garfagnana, fu il Comune di Lucca ad operare per mantenere, in accordo con la feudalità garfagnina, la libertà di passaggio verso l’appennino. Tuttavia non compare ancora nella legislazione statutaria una attenzione specifica – come nei secoli successivi – alla cura delle strade. Non appare negli statuti della feudalità premalaspiniana lunigianese, negli statuti di Garfagnana del 1287, benché vi sia un riferimento ai pedaggi agli stranieri e [85] quindi ad una viabilità; non appare in quella dei Marchesi Malaspina del 1304. Tuttavia, nello Statuto dei Gherardinghi del 1272 in Garfagnana si impone al podestà loro rappresentante di difendere la via de Guaitule. Appare invece nella legge statutaria di un Comune che proprio su una strada stava divenendo una grande città, in quegli anni, sulle macerie dell’abbandonata Luni: Sarzana. I suoi Statuti del 1269 (CONTI 1974) pongono anzi forte attenzione alle necessità di transito definendo appositi ufficiali alle strade e regolando l’uso ed i caratteri delle vie in ogni particolare, fra cui il passaggio a barca del Magra, uno strumento diffuso per i trasporti commerciali che avveniva su muli ed asini: sul Magra c’era un traghetto simile, oltre a Sarzana, anche a San Leonardo al Frigido ed a Caprigliola; sul Serchio è documentato nel 1567 alla località la Barca su un ramo che si staccava dalla "strata Romea" e passava il fiume verso Barga.

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In campo economico, la nuova politica stradale fu determinata e determinò una forte attività. Continuano i traffici commerciali e gli spostamenti tradizionali (il sale, la transumanza); altri sono determinati da nuove forme di produzione locale, specialmente artigianale; altri ancora da dinamiche nuove nell’agricoltura e nel commercio agricolo. Gli scontri e le lotte in Lunigiana per il controllo delle dogane del sale e del suo commercio, indicano fra gli impegni maggiori del Vescovo di Luni e dei signori feudali il rifornimento della montagna, attività che aveva forti conseguenze. Per il controllo della dogana del sale – che nel XII secolo era in mano vescovile, all’Avenza – nella seconda metà del XIII secolo, si giocò una grande battaglia fra il vescovo e la comunità di Sarzana che alla fine prevalse. Appare in questa fase – anche dagli statuti di Sarzana del 1269 – un notevole movimento e scambi commerciali legati al sale dal porto di San Maurizio verso la montagna interna. Enrico da Fucecchio, ultimo restauratore di un potere episcopale a Sarzana, cercò di riorganizzare il traffico di sale, come ogni altro aspetto della diocesi, recuperando e fissando i pedaggi dopo che era riuscito a togliere al Comune di Sarzana la metà della dogana che esso rivendicava e ad espellere il Comune di Lucca dagli affari del sale in terra lunense.

La transumanza, non documentata prima, appare evidente nel XII secolo. Impegnati nel controllo dei pascoli e del movimento delle bestie transumanti diversi poteri locali si scontrarono o si accordarono fra loro. Nel 1180, il Vescovo di Luni aveva direttamente la curatura (un pedaggio) di Avenza e non smise, come per il traffico del sale, di interessarsi alla questione. Nel 1185, Federico I Barbarossa e nel 1191 Enrico VII confermarono i diritti di herbatico per Carrara, Sarzana, Ceparana, Ameglia e le gabelle relative. Nel 1188, dopo la lite, il vescovo giunse a patti con gli Erberia, consorteria feudale che controllava la Lunigiana orientale al confine con la Garfagnana, per il pascolo transumante nella piana di Luni, a Viano e a Monte e nel 1197 con i Vezzano per il pascatico di Bolano utilizzato dai pastori della Carfagnana che non erano tuttavia i soli a usare quei pascoli invernali. Questo [86] movimento di bestiame appare in crescita nel XIII secolo. Ancora nella seconda metà del secolo, in piena crisi dell’Episcopio, Enrico da Fucecchio recuperò, seppur in modo effimero, i molti diritti che gli erano stati messi in discussione. Nel 1277 ridefinì i pedaggi delle bestie transumanti così come si scontrò coi Vezzano per i diritti di pedaggio presso l’ospitale di Scognavarano del 1279 ma ormai era evidente la decadenza del vescovo anche nel contrasto con la feudalità locale, interessata a strappargli il controllo della viabilità. Con la decadenza del vescovo, la sua funzione di controllore del traffico delle greggi in Lunigiana fu assunta, nel XIV secolo dal Comune di Sarzana che lo regolò in maniera esemplare nei suoi Statuti del 1330.

Anche in agricoltura si ebbero modificazioni legate ai commerci. È noto che il frumento divenne, in una fase del medioevo, bene di scambio con cui si pagavano i canoni di affitto ai proprietari terrieri; anche in Lunigiana, in linea con questa diffusa tendenza economica, il monastero di Monte dei Bianchi ed il Vescovo di Luni (a Soliera ove aveva una caneva, magazzino di derrate alimentari, e molte terre) imposero, dalla seconda metà del XIII secolo, ai loro contadini canoni in frumento e non più in denaro (SCALETTI 1999). Ora, poiché questa trasformazione dei canoni era vantaggiosa per i proprietari solo se esisteva un mercato su cui poter piazzare le scorte di frumento accumulate, si evidenzia che i mercati di Gragnola, Soliera, Verrucola, ove confluiva il frumento dovevano essere mercati comprensoriali con proprie unità di misura e con molti notai, segno di molti "negozi", che non potevano servire solo una clientela locale. Mercati frequentati cui affluivano mercanti e

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compratori, probabilmente anche da lontano. Perciò anche i trasporti di cereali, verso l’esterno o per i mercati interni, determinarono incremento di mobilità.

Ad una struttura produttiva e commerciale legata alla sopravvivenza (sale, pastorizia, agricoltura) che ebbe il segno della mobilità si deve collegare la documentata esistenza in tutta l’area di attività produttive dirette ed indotte (metallurgiche, tessili, della concia) ed attività commerciali che presupponevano mobilità. Che nel medioevo, l’Appennino fosse area di incontro e di commercio lo scrisse l’abate islandese Nikulas di Munkathvera nel 1154. Egli, descrivendo il passaggio del Monte Bardone, intendendo così l’Appennino, notò che su quella montagna era, fra l’altro, il "Mercato della Croce" (dal quale non pare sia passato) che indica una località di incontro commerciale certamente affermata e nota, se ne venne a conoscenza un viaggiatore islandese. Un punto che potrebbe anche essere individuato o in uno dei passi delle Cento Croci (i Due Santi o l’Ospedalaccio)o in quell’Acruce, notato fra le terre di Guinterno di Guido da Regnano nel 1066 nelle praterie di Tea e successivamente scomparso e di cui resta tuttavia ancora il toponimo Croce.

La storia della ripresa politica della Diocesi di Luni, basata sul protagonismo e sulla proprietà diretta del vescovo, è anche la storia della sua crescente [87] iniziativi verso oriente in Garfagnana. Parallela è la storia dei tentativi di Lucca di dominare la feudalità della Garfagnana, che si concretizzò nel ‘200, al fine prioritario di assicurare e garantire il controllo e l’agibilità delle strade per i suoi traffici commerciali, lungo l’area di strada appenninica che si può definire "via del Volto Santo" per la diffusione di quella devozione. Fra questi estremi, Lucca, Passo di Monte Bardone e Luni-Sarzana, agì un mondo la cui funzione fu legata alla strada ed ai traffici commerciali. Tra questi estremi, dal punto di vista economico, appare un’area sostanzialmente forte con isole agricole, commerciali e produttive particolarmente sviluppate. Come già si è detto, in questo sistema Gragnola (forum Gragnolae), Verrucola (forum Verrucolae), Fosdinovo (Montegianni), Soliera, Sala e Castello appaiono come nuovi borghi agricoli e mercantili, autentici centri commerciali territoriali a cui accedono le produzioni agricole, pastorali, artigianali del circondario e dove erano intensi i traffici e gli scambi. Luoghi posti sulle vie principali e controllati dal potere locale che vi fissò le sedi centrali o distaccate: il Vescovo di Luni a Soliera, la Podesteria dei Bianchi di Erberia a Gragnola, i Bosi alla Verrucola Bosi, i signori di Fosdinovo in quel castello. E non sfugge che l’area in questione rappresenta lo spazio di passaggio del collegamento Luni-Lucca e Val di Magra-Lucca coincidente con la linea delle Pievi di Luni del X-XII secolo. E pertanto, per essere stata anche area di transito dei grandi itinerari spirituali del medioevo si può spiegare la costruzione di quella linea di chiese "bianche", come le cattedrali di quel tempo, perché costruite in filari di bozze squadrate di sasso colombino (pietra da calce) che dota sia la direttrice dalla Pieve di Sorano a Lucca che quella da Luni a Lucca (la stessa tecnica costruttiva e materiale con cui venne edificato anche il Ponte del Diavolo a Borgo a Mozzano).

Con la crescita della viabilità, appare anche un’espansione dell’insediamento, favorito naturalmente dalla crescita demografica ed economica. Che tale espansione sia sicuramente legata alla politica del potere locale di protezione delle strade non è possibile dire, tuttavia la nascita e crescita di Fosdinovo, in rapporto alla "foce nuova", lo spostamento dell’abitato di San Cipriano in fondo al ponte (in "Co’ del Ponte"), a Codiponte, lo sviluppo di Pontremoli sono indizi in questa direzione. Per altro, l’analisi delle carte del monastero di Monte dei Bianchi (dal 1094 al 1339) e gli atti del notaio Benetto da Fosdinovo (1340-41), evidenziano come le terre coltivate ed i casali fossero, in numero notevole, posti a confine, prospicienti, ad una "via publica", quasi che questa abbia determinato una crescita della messa a coltura e

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dell’insediamento agricolo. La fase di maggiore espansione della Diocesi lunense si può dire conclusa nel momento in cui Eugenio III confermò ad essa il controllo su 35 pievi nel 1148, mostrando un insediamento religioso notevolmente cresciuto nei secoli XI e XII. Anche lo sviluppo dei castelli (benché non si possa legare direttamente alla viabilità) poiché voluto da un potere locale fortemente legato alle strade, indica una direzione di insediamento [88] utile alla storia della viabilità. Anche la fondazione (o l’opposizione alla fondazione) di alcune ville si può mettere in relazione alla volontà del potere locale, nella fattispecie il vescovo, di favorire o impedire nuova viabilità. In conclusione, la politica del potere locale nell’area fu quella di incentivare, regolare e garantire l’ospitalità ai flussi commerciali esterni, mantenere i collegamenti politici, economici e commerciali con le proprie terre, gestire il flusso che costantemente si muoveva dall’Appennino verso il mare e da questo alla montagna per le ragioni della transumanza e del commercio del sale ed anche di controllare i flussi pellegrinali verso i grandi santuari. In quest’ottica vanno letti gli accordi fra le diverse forze del 1197 e del 1206 che manifestano l’impegno a mantenere liberi i traffici dei mercanti ed i transiti dei chierici e pellegrini sulle strade e gli atti e patti – già veduti – che regolamentano la transumanza (1188, 1197, 1226) e lo scambio del sale (1180, XIII sec.).

Per ricostruire la rete viaria medievale, si mettono in ordine i molti indizi sparsi che possono, assieme, fornire un quadro utile. Un primo indizio è nella menzione, nel 1148, della pieve di S. Cipriano, già "transmontem", ed ora indicata come de capite pontis, ove il toponimo indica un manufatto stradale assai raro nel medioevo e posto sulla romana Luca-Forum Clodi-Lunam e sull’altomedievale Via di Reggio come collegamento fra Lucca, l’Appennino emiliano e la marina di Luni. Ancora, il toponimo Fauce nova, da cui "Fosdinovo", indica l’apertura di un nuovo passaggio, probabilmente più comodo di quello che usava la Foce di Pulica fin da età romana, per raggiungere sia Soliera che le terre del piviere di Viano. Nel 1151 si menzionano l’hospitale di Monte Forca che testimonia la viabilità da Carrara verso la Valle Aulella per la Gabellaccia e Pontevecchio. Nel 1178, in un contrasto dei tanti con Fosdinovo per un bosco, viene ricordato come fino a quella data il Vescovo Filippo avesse messo a pascolare in quel bosco dei maiali pontremolesi che ospitava in suoi edifici. Ci pare una consuetudine, se tale era, o comunque un episodio, che può indicare uno spostamento di maiali da Pontremoli (non credo si volesse indicare una razza di maiali) lungo una strada che potrebbe essere quella "via di Pontremoli" menzionata nelle carte riguardanti S. Leonardo al Frigido, nel 1333, parallela o perpendicolare (non è chiaro) alla Romea che è detta via di Pontremoli. Questa, distinta dalla Francigena, pare un collegamento con la testata della Val di Magra passante da un altro itinerario che poteva benissimo transitare dalle parti di Fosdinovo. Nel 1181 e nel 1184 in liti di confine fra il vescovo e i signori di Fosdinovo si indica la nuova linea che individua il termine, significativo per la viabilità, di Stancacaballo (noto qui che presso il passo di Tea esiste un toponimo simile di Straccalasino) che si trovava venendo per la via pubblica o strada verso la foce di Montorbolo. Per la prima volta, quindi si conosce l’esistenza di una strata, cioè una via lastricata, indicata con lo stesso termine solitamente riservato alla strata romea. Nel 1184 Montanino e Gaforio di Fosdinovo pattuiscono [89] con il vescovo che entra nel loro consorzio di lasciare ad esso tutto ciò che hanno dal "giogo" sopra Pieve San Lorenzo fino ad Aulla e fino al mare. Il giogo citato fra le valli d’Aulella e di Serchio è un valico ben noto al vescovo e a chiunque altro in Lunigiana, ed è l’area di Tea (Fig. 38). Da esso veniva probabilmente la via prubica citata nel 1391 accanto alla chiesa di Sanzeno, di cui rimane solo il toponimo, presso la Pieve di S. Lorenzo.

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Fra il giogo e la strata verso la foce di Montorbolo (la foce che biforca su Sarzana e su Soliera), nel 1179, compare citata negli atti del Monastero di [90] Monte dei Bianchi, una via publica che spesso si cita quale confine terriero. Ed oltre Soliera il Vescovo Gualtiero allivella nel 1197 a Tebaldino di Debicò e a Gerardino de Via la tenuta vescovile de Plano e de Via (forse il Pian di Là, presso Gassano, dove sono ancora due ponti antichi). Nello stesso anno, si è detto, Bernardino di Guido di Erberia si impegna a non violare la strata che è la nostra (BARONI 1998).

Oltre ai già ricordati problemi di garanzia dei traffici per tutti, il Vescovo di Luni era anche direttamente interessato a mantenere il collegamento con Soliera, ove aveva molte proprietà terriere, e con le sue terre e pievi da Luni e dalla Val di Magra al fiume Edron in Garfagnana. Nello stesso 1197 infatti, egli impone a suoi contadini di Soliera di dare ospitalità sia a lui che ai suoi nunzi quando passavano da quelle parti indicando così l’esistenza di una strada di collegamento fra Luni e Soliera.

Fra Sarzana e Fosdinovo, nel 1231, c’era un castello di cui non conosciamo più la locazione, detto Montegianni. Da come è trattato sembrerebbe esser stato un centro commerciale di una qualche importanza, sorto in relazione e lungo una strada di mercato, citata come ruga, cioè la strada "in cui i mercanti stranieri avevano, nelle città del Levante, i fondachi". La ruga portava, da una parte verso il fiume Isolone e, dall’altra alla strada romea. Con tutta probabilità si tratta sempre della stessa strada dalla montagna verso il piano lunense; quella via publica che nel 1272 è indicata da Fosdinovo scendere in piano. Su quella via, in Garfagnana, oltre l’ospitale di Tea, operava l’ospitale de Castro, il primo in Val di Serchio, da collocarsi ancora genericamente nell’area di Piazza al Serchio, documentato nel 1296.

Infine, poiché la politica dell’insediamento, fino alla prima metà del XIII secolo fu utilizzata a scopo di protezione della viabilità specialmente nelle aree spopolate della montagna, la collocazione spaziale delle pievi e dei castelli possono darci qualche indicazione viaria (ad esempio dovevano corrispondere agli itinerari delle visite pastorali o dei collegamenti politici). Nel 1154 le pievi seguivano una linea che da S. Pietro di Luni per S. Martino di Viano, S. Cornelio e Cipriano di Codiponte e S. Lorenzo (Fig. 39) portava a S. Pietro di Castello dove incrociava la linea che da S. Pancrazio di Vignola, per S. Cassiano di Urceola, S. Stefano di Sorano, S. Ippolito e Cassiano di Bagnone, S. Maria di Venelia a Monti di Licciana, S. Maria di Soliera, S. Pietro di Offiano in Garfagnana portava alla Pieve di Castello da dove la linea di chiese continuava per S. Giorgio di Sala, S. Cristoforo di Camporgiano, S. Maria di Vitoio, S. Stefano di Roccalberti sulla riva destra del Serchio. Anche l’elenco dei castelli confermati dal Barbarossa e da Enrico VI al Vescovo di Luni rafforzano tali ipotetici itinerari indicando, nel 1185 e nel 1191, la linea da Marciaso, villa di S. Terenzo, Soliera, Montefiore, Regnano, Magliano, Sogresio/Sagnasio (che potrebbe essere sia Soraggio che S. Anastasio), Cogna.

Pare davvero che l’insediamento sia collegato ad una precisa e reale "area di strada" su cui confluivano, in Garfagnana e Lunigiana, le vie che [91] impegnavano i passi, tutti attrezzati con ospitali, dalla Cisa a S. Pellegrino in Alpe. In questa situazione, con una strada dalla Lunigiana alla Garfagnana attraverso il giogo sopra Pieve S. Lorenzo, operò l’ospitale di S. Nicolao di Tea. Nel XIII secolo esso ebbe una grande crescita ed assunse una funzione determinante, che in forme più modeste aveva sempre svolto, di svincolo montano della viabilità nelle quattro direzioni, dal mare all’Appennino e da Lucca alla Lunigiana. È di questa fase la prima probabile menzione di questa via lucana. Nel 1271, la via Francigena, che nel 1199 era stata deviata verso il Passo del Borgallo, ripreso il predominio parmense, fu riportata alla Cisa e si decise di procurare che la strada pisana, lucana, et parmense passasse per

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Pontremoli e la Cisa. Quella via lucana parrebbe il primo riferimento scritto ad una specifica via medievale di montagna dalla Val di Magra verso Lucca, una via che certamente c’era, allora.

L’ampliamento duecentesco dell’ospitale di Tea, dunque, è la migliore prova della sua strategica funzione commerciale ed economica che portò, nel XV sec. i Lucchesi a coniare l’espressione “Chi governa Pontremoli e Regnana è signor di Lunigiana” e cioè di quel sistema di svincolo fondamentale di tutte le strade occidentali del sud europeo.

In questa sua battaglia per conquistare Regnana, Lucca si trovò di fronte i Malaspina ed il più forte di essi, il marchese della Verrucola Bosi. Tuttavia, alla fine del XIII secolo Lucca era signora di tutta la Garfagnana e di parte della Lunigiana orientale. Nel corso del XIV secolo, nell’area a cavallo [92] fra Garfagnana e Lunigiana si combattè quasi ininterrottamente con continue penetrazioni da una parte e dall’altra. Vincere qui significava immediatamente divenire signori di più di una cinquantina di castelli, nelle vicarie lucchesi di Camporgiano e Minucciano. L’espressione ultra jugum, che indicava le terre nel versante a mare del piviere di S. Lorenzo divenne termine comune indicando una comunicazione naturale fra i versanti che gli sconfinamenti degli armati nello scontro fra Malaspina, Lucchesi, Pisani e feudalità variamente alleata con alcuni di essi resero rovente. Nel 1308, gli Statuti di Lucca imponevano il cero per S. Croce a numerosi castelli della Valle Aulella; nel 1312 queste terre tornarono nuovamente malaspiniane; nel 1319 Castruccio Castracani, che passò per la via di Garfagnana, all’andata o al ritorno, le riprese ma la sua morte improvvisa, pochi anni dopo, le riportò a Spinetta Malaspina il Grande che sconfinò ancora per quella via, in tutta l’alta Garfagnana conquistando decine e decine di castelli. Nel 1373, tuttavia Lucca aveva nuovamente tutte le terre di oltregiogo (Casola fu riconquistata in quell’anno) che tenne fino alla prima metà del ‘400. In tutta questa fase l’ospitale di Tea fu attivo.

1.5 FINE DEL MEDIOEVO ED ETÀ POSTMEDIEVALE

Una diversa e più esplicita attenzione alle strade appare chiaramente con le dominazioni degli stati regionali, seppure con diverse accentuazioni. Infatti, dal XV secolo, in una fase di espansione economica notevole, si nota un’attenzione maggiore per le strade (come per i mercati) da parte dei Fiorentini e degli Estensi rispetto ai Lucchesi. Tuttavia sia Lucca che Ferrara e Firenze emanano e concedono statuti che hanno specifici capitoli dedicati alle strade, alla loro cura, dimensione, struttura; capitoli che definiscono le strade a carico del magistrato (podestà, notaio, consolo) e della comunità che deve intervenire con prestazioni gratuite; capitoli che eleggono uffici (boni viri, suprastantes) per il controllo delle strade, delle liti per cause di strada, dei pedaggi, delle strutture ricettive stradali (osterie, ospizi, taberne, alberghi) che sono ormai strutture esclusivamente commerciali, e della loro gestione. A Regnano nel 1478 un capitolo dello statuto regolava i tavernieri e gli albergatori. A Castelnuovo, nel 1497, lo statuto prescriveva le condanne per i "malandrini et assassini da strade" e per chi li aiutava. Nel corso del ‘400, tutte le comunità lucchesi, fiorentine, estensi della Garfagnana e Lunigiana, seppur con diverse sfumature, vengono dotate di statuti che regolano le strade. Tuttavia Firenze, in primo luogo, e Ferrara manifestano anche una nuova attenzione ai mercati, ai traffici commerciali ed all’insediamento di artigiani esterni, anche stranieri, mostrando così la qualità, dinamismo e ampiezza della produzione, del relativo commercio e della viabilità commerciale. Telai, folli, gualchiere, tintorie furono attivi, in Garfagnana e Lunigiana

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fin dal medioevo ma specialmente dal XIV al XVI secolo: lo confermano [93] gli statuti di Castelnuovo del 1497 e di Fivizzano del 1478. Alla tessitura si affiancano, o sono solo più documentate, le attività di trasformazione della vena di ferro, importato dall’isola d’Elba o estratto nelle miniere locali assieme al rame, e il commercio del pellame ovino e bovino conciato e non (dal 1417 al 1424 in Fivizzano operavano dodici conciatori/calzolai e un pellicciaio). Le "fabbriche" del ferro si diffusero, anche nella toponomastica, con le attività di conciatore e calzolaio (attività sovente coincidenti) e di pellicciaio. Queste due industrie diedero impulso alla silvicoltura, già attiva, con effetti ecologici anche gravi cui Lucca dovette metter rimedio (PELÙ 1998, p. 151), per dar carbone alle fabbriche e per fare calce usata anche per la concia del pellame oltre che per lo sviluppo edilizio di molti borghi. Le articolazioni e le connessioni nella produzione locale sono interessanti: il commercio del sale era probabilmente utile anche alla pastorizia, la quale a sua volta forniva materiale per le concie ed i pellai, richiedendo però la produzione di calce che aumentava la domanda di legname per cuocerla incentivando la silvicoltura. Così anche l’agricoltura e la pastorizia fornivano materiali per la tessitura ed i filati mentre la silvicoltura e l’abbondanza di legname favorivano l’attività del rame e del ferro, che era importato ma di cui erano ricchi sia l’Appennino che le Apuane. La ricchezza locale favoriva poi la disponibilità di denaro a prestito (dai "Lombardi") per chi voleva intraprendere un’attività. Insomma esisteva un sistema produttivo equilibrato, articolato ed organizzato ed una ricchezza di materie prime locali che lo favorì e a cui la viabilità fu funzionale. Ma, come si può notare, le attività non solo presupponevano uno sbocco commerciale, sia sui mercati locali che su quelli esterni, ma la stessa produzione necessitava dello spostamento di materiali e merci. Il trasporto della vena di ferro alla montagna ove il legname e il carbone abbondavano assieme all’energia idrica, lo spostamento dalle "fabbriche", di nuovo a valle, del metallo lavorato, il trasporto del cuoio e del pellame ai porti e alle città di fondovalle, assieme ai tessuti di lana e canapa, al carbone ed al legname lavorato davano corpo a un traffico stradale necessario alle produzioni che doveva essere intenso tanto verso la "Lombardia" quanto verso il mare e i porti. Ma importante dovette essere anche la fornitura dei mercati locali, a Castelnuovo, Castiglione, Sala, Casola, Gragnola, Fivizzano dove la crescita dei borghi e la costituzione di un ceto economico più facoltoso articolava, a volte anche verso prodotti di qualità, la domanda. A Fivizzano, ad esempio, nel 1423 operavano un orafo ed un costruttore di corazze e nel 1470 vi si aprì una delle prime stamperie d’Italia.

L’importanza della strada per il potere locale si manifesta anche nei divieti alla viabilità attuati al fine di danneggiare i nemici politici ed economici, specialmente in tempo di guerra. La strada era fonte di ricchezza, diretta ed indotta, ed uno strumento di potere degli stati. Tuttavia cresceva l’interesse economico per la gestione delle strade e dell’ospitalità da parte di un nuovo ceto borghese grazie al quale l’ospitalità si articolò ancor più che in [94] passato. La strada era ormai uno strumento dei ceti dirigenti della società: ceti diversi, formatisi per vie diverse, per nobiltà e ricchezza di famiglia, per attività economica, per motivi politici, bellici, ecc. che avevano comunque un interesse coincidente col potere signorile nella difesa delle strade, dei passi, delle strutture di ospitalità e che diedero vita ad una rivoluzione urbanistica di alcuni borghi (Cragnola, Pontremoli, Fivizzano, Casola) ove proliferarono le "volte" e le botteghe ancora oggi visibili (Figg. 40 e 41).

Il ‘400 fu il secolo di Firenze e di Ferrara e della crisi dei Malaspina e di Lucca. Firenze si insinuò da sud, in Val d’Aulella e nella bassa Val di Magra, attraverso le quali poteva controllare la grande viabilità dell’area verso l’Appennino, la Padana e il

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mare. Il processo si concluse con il controllo, in più fasi, di Fivizzano, di Castiglion del Terziere e di Pontremoli lungo una linea che si collegava, attraverso Casola alla Garfagnana, e, attraverso Codiponte e Vinca, con l’area di Pietrasanta, enclave fiorentina, da cui Firenze organizzava tutto il commercio del sale e degli altri prodotti con le valli interne e l’Appennino. La seconda, Ferrara, crebbe nel controllo dell’appennino da nord valicando poi in Garfagnana, a Castiglione e Castelnuovo, e in Lunigiana, a Varano e in Val del Taverone. Lucca non era più in grado di contrastare, anche nella montagna, l’espansione di Firenze e degli Estensi

In questa fase, l’Ospitale di Tea ebbe una funzione particolarmente importante per i commerci e gli scambi nell’area lungo la via de Garphignana [95] che i frati di S. Agostino di Pontremoli facevano per raggiungere i fratelli di Lucca. Questa via, che era quella "strata Romea" e "Via Romana" disegnate dai cartografi nel 1567 e nel 1714, andava per Fivizzano e la Garfagnana a Lucca attraverso l’ospitale di S. Nicolao di Tea.

Fabio Baroni

2. L’organizzazione territoriale e la viabilità nella Garfagnana medievale

2.1 PREMESSA

In un volume che, come questo, si propone di presentare i risultati delle indagini archeologiche di un manufatto stradale – l’ospedale di S. Nicolao di Tea – nell’ambito di una globale riflessione sulla viabilità storica nella Valle del Serchio e nell’Appennino, le pagine che seguono si inseriscono come tentativo di analisi della situazione stradale interna che, durante il Medioevo, caratterizzò l’estremità settentrionale di questo territorio, corrispondente al corso superiore del Serchio: la Garfagnana.Questa l’estremo lembo montuoso della Valle del Serchio, racchiusa ad occidente dall’impervia catena delle Alpi Apuane e ad oriente dall’Appennino Tosco-Emiliano, mentre delimitata a sud da confini storici più che geografici [96] (coincidenti con il corso dei torrenti Turrite Cava e Corsonna, rispettivamente affluenti di destra e sinistra del Serchio) che, muovendo da Lucca, si deve interamente attraversare prima di raggiungere quel tratto appenninico, luogo di valico naturale per accedere in Lunigiana, su cui l’ospitale di Tea sorse.

Ma il passo di Tea non fu, durante il medioevo e le precedenti fasi storiche, l’unico punto di connessione fra la Garfagnana e i territori limitrofi: diversi altri passi, apuani ma soprattutto appenninici, in relazione ai quali nacquero altri ospedali, posero questa regione montuosa, oggi decentrata rispetto alle grandi vie di comunicazione, in relazione con l’esterno meglio di quanto si possa, ad un primo sguardo, immaginare: la particolare "vocazione stradale" di questo angolo di Appennino – area di strada a tutti gli effetti – è già stata ampiamente discussa.

Accanto alle vie di lunga percorrenza e agli ospedali che qui sorsero, senz’altro da richiamare in funzione di un confronto con quello di San Nicolao di Tea, rimane, quindi, in parte da trattare la viabilità locale della Garfagnana medievale in relazione all’organizzazione insediativa, economica e alla distribuzione dei castelli sul territorio.

Se al momento attuale le fonti storiche, cartografiche e i dati archeologici utilizzabili per una ricostruzione d’insieme dell’organizzazione territoriale della Garfagnana precedente l’età moderna non sono certo pochi, tuttavia, come vedremo, rimangono ancora aperti diversi e importanti interrogativi: alla risoluzione di questi dovranno orientarsi le ricerche future.

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2.2 IL TERRITORIO NEL MEDIOEVO: UNO SGUARDO D’INSIEME

Per poter tracciare il quadro della viabilità della Garfagnana durante il medioevo è fondamentale una preliminare considerazione, sia pure sintetica, sull’organizzazione globale di questo territorio a livello insediativo, ecclesiastico ed economico relativamente a tale periodo. La ricostruzione storica del reticolo stradale viene pertanto effettuata in modo indiretto, sulla base della distribuzione delle sedi abitative, delle pievi, dei castelli e, in ultima analisi, dello sfruttamento delle risorse economiche: sia le fonti scritte che quelle archeologiche sono i mezzi di questa ricerca.

La documentazione scritta di VIII secolo (cioè la più antica disponibile per questo territorio), permette di ricostruire, ma a grandi linee e senza molti dettagli, la geografia politica della Garfagnana altomedievale: nell’organizzazione amministrativa e militare del territorio, verosimilmente originatasi in Età Bizantina (VI secolo) e proseguita durante la successiva dominazione longobarda (fine VI-VIII secolo), dovettero avere grande rilevanza tre castelli, di cui sfugge completamente l’originario aspetto materiale: Castilione, castello de Carfaniana, Castrum Novum, a capo dei due distretti politici denominati appunto fines Carfanienses (da cui deriverà il nome Carfagnana) e [97] fines Castri Novi, (Fig. 42). Mentre Castrum Novum e Castilione sono rispettivamente identificabili con gli odierni Castelnuovo e Castiglione (n. 1 e 2 nella cartina); il castello de Carfaniana (n. 3) rimane, tutt’oggi, di controversa localizzazione. La tradizione storiografica più seguita, sicuramente da verificare con futuri saggi di scavo, è quella che lo vuole nei pressi di Piazza al Serchio, forse sull’altura sovrastante il Borgo di Sala poi occupata, nel più tardo X secolo, dal Castelvecchio; diversamente L. Angelini ne ha proposto l’ubicazione dello stesso nei pressi di Camporgiano sulla base di diversi indizi documentari.

Il territorio compreso entro i fines Carfanienses, sottoposto a Lucca dal punto di vista giuridico, dipese, invece, ecclesiasticamente, dalla diocesi di Luni; diversamente i fines Castri Novi rientravano nella diocesi di Lucca. Il confine fra le due circoscrizioni ecclesiastiche, coincidendo con quello separante i distretti politici, correva lungo gli affluenti del Serchio: Edron e Covezza di San Romano (ANGELINI 1985).

All’interno dei due fines, destinati a svuotarsi del loro significato politico intorno alla metà del X secolo, se non prima, pare organizzarsi, come deducibile dalla documentazione scritta, un tipo di insediamento caratterizzato in forma generalmente accentrata, con qualche eccezione di case sparse solo dove i terreni erano più fertili e pianeggianti: per esempio nell’area di Pieve Fosciana o di Castiglione (WICKHAM 1997). Le fonti scritte menzionano infatti tanti vici e loci, disseminati nel territorio della Garfagnana, molti dei quali continuati fino ad oggi (ad esempio: vico Viturio, cioè Vitoio, oppure loco Silano, cioè Sillano) per i quali non è qualificabile, né quantificabile, l’entità fisica ed eventualmente giuridica; questi termini potrebbero essere tradotti in "villaggio" e probabilmente sottintendere semplici unità insediative aggregate che, per quanto piccole o disperse, o dotate di incerti confini, riuscivano a mantenere un qualche tipo di separazione rispetto a quelle vicine (WICKHAM 1995).

Il problema – e l’aspetto più interessante della questione – è capire fino a che punto tale caratteristica insediativa accentrata, ancora oggi ben evidente, derivi dalle fasi storiche precedenti l’alto medioevo.

A livello generale si può pensare che, in un’area montuosa quale la Garfagnana, la disposizione delle sedi umane risulti, in gran parte, obbligata dalla distribuzione dei

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pochi spazi favorevoli all’agricoltura e all’esposizione solare, quindi tendenzialmente fissa nel tempo: sarebbero semplicemente le caratteristiche ambientali a favorire la persistenza delle strutture territoriali (CASTAGNETTI 1982). Volendo invece supportare tale supposta continuità insediativa con prove materiali, allora sorgono diversi ostacoli: mentre l’insediamento, o meglio, la tipologia dell’insediamento ligure-apuano distribuito in sedi di altura costituite di capanne lignee, abbandonate intorno al II sec. a.C., cioè al momento della conquista romana di questo territorio, è assai nota archeologicamente, per l’età romana si registra, al contrario, un vasto [99] vuoto archeologico. L’unico insediamento tardo romano conosciuto è infatti il villaggio di capanne individuato nei pressi di Volcascio, a sud di Castelnuovo, posto ad una quota di poco superiore ai 300 m, sulla sponda sinistra del Serchio e databile, sulla base dei reperti ceramici affiorati dallo scavo, al IV-V secolo d.C. (CIAMPOLTRINI et alii 1991).

L’assenza di altri siti romani al pari di Volcascio è stata considerata una prova di continuità insediativa, in Garfagnana, fra «mondo romano e mondo medievale segnalata ad abundantiam dalla toponomastica»: i villaggi romani, contraddistinti dai toponimi in -ano, in altre parole, sarebbero sostanzialmente proseguiti fino ad oggi e questo fenomeno costituirebbe, di riflesso, «la vera causa della singolare sfortuna dei tentativi fatti per individuare gli insediamenti d’età romana». Tutto ciò è possibile ma non certo, e, al momento, appare più un’ipotesi di lavoro che non la conclusione del problema: sia perché mancano estese prove archeologiche condotte nei centri abitati della Garfagnana che attestino tale ininterrotta sequenza insediativa dall’Età Romana ad oggi, sia per lo scarso valore probante contenuto dalla toponomastica latina, non più considerabile, alla luce di recenti studi linguistici (ex. Inf: G. Arcamone), una fonte sicura da cui estrapolare le dinamiche insediative di un territorio per le fasi precedenti il medioevo.

Traducendo il problema in termini concreti, così come recenti scoperte hanno messo in luce, anche per la Garfagnana, il fenomeno dei villaggi abbandonati durante il basso medioevo – è il caso di Meschiana, presso San Romano e del villaggio in località Bivio, presso la chiesa di Sant’Agostino di Vagli di Sotto – non pare azzardato pensare, in modo analogo, a diversi villaggi romani cessati nel periodo di transizione fra il tardo antico e l’alto medioevo, quando, in molte zone d’Italia (e non solo), si registrano notevoli cambiamenti di sedi motivati da nuove forme di organizzazione politica e sfruttamento economico del territorio. Un nuovo studio sull’Appennino Toscano, condotto sulla scorta delle fonti scritte, i dati archeologici e archeobotanici (QUIROS CASTILLO 1998), ha infatti chiaramente dimostrato, grazie a tale uso intrecciato di fonti, un cambio generale avvenuto in questo paesaggio, molto simile alla Garfagnana, fra la tarda antichità e l’alto medioevo (e non già dal XII secolo come deducibile dalle sole fonti scritte) a seguito dell’introduzione della coltivazione del castagneto domestico e il conseguente decollo dell’economia silvo-pastorale. Il sistema produttivo, proprio dell’Età Romana, legato alla coltivazione agricola dei pochi terrazzi fluviali, avrebbe quindi, già dal V secolo, ceduto il passo a nuovi orientamenti produttivi per i quali la montagna sarebbe, in breve, diventata "centrale", fungendo così da calamita per nuove sedi umane.

In sintesi, è lo schema insediativo altomedioevale della Garfagnana, verosimilmente fatto di piccoli agglomerati intervallati da aree coltivate, che, con più probabilità rispetto a quello romano (ancora sconosciuto), sembra sostanzialmente continuare fino a noi. Ciò pare dimostrare il documento del [100] 793 (fig. 43), qui schematizzato, dal quale emergono, significativamente, molti dei villaggi dell’alta

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Garfagnana ancora oggi vitali, dalla cui quota altimetrica traspare, di fatto, un forte legame con la montagna.

Località documentate nel 793 Centri moderni corrispondenti Altitudine Nagio Naggio (Com. di San Romano) 475 m Convalli - -Magliano Magliano (Com. di Giuncugnano) 830 m. Ceriliano Cerigliana (Com. di Sillano) 740 m. Sillano Sillano (Com. di Sillano) 740 m. Curfiliano Gorfigliano (Com. di Minucciano) 783 m. Ponticio Ponteccio (Com. di Giuncignano) 730 m. Cabili Capoli (Com. di Giuncugnano) 978 m. Biturio Vitoio (Com. di Camporgiano) 773 m. Rufiliano - -

Fig. 43 - Località attestate in Garfagnana da un documento dell'8 gennaio 793.

Le pievi (dal latino plebs = "popolo, comunità dei battezzati"; costituenti le comunità dei fedeli facenti capo all’edificio ecclesiastico (pieve) avente diritto di battesimo e di sepoltura, quest’ultimo almeno dal X secolo) stabilitesi nella Garfagnana altomedievale sono sette (fig. 42; la numerazione in pianta rispetta l’ordine con cui sono qui di seguito elencate con, tra parentesi, la loro prima data di attestazione): San Cassiano di Fosciana (764), S. Maria di Loppia (845), S. Terenzo di Rogiana, od. S. Biagio del Poggio (923), S. Cassiano di Gallicano (997), S. Pietro di Careggine (XI sec.), S. Pietro di Castello (presso Piazza al Serchio) (1148), S. Lorenzo di Vinacciara (1148).

Solo due delle pievi del territorio studiato sono state oggetto di limitati sondaggi stratigrafici: la pieve di San Pietro di Piazza al Serchio e quella di San Cassiano di Fosciana. I resti dell’edificio della pieve di Piazza al Serchio, abbandonato per l’attuale nel tardo Cinquecento, emersero, nel 1984, a seguito di lavori urbani: le caratteristiche murarie (a blocchi parallelepipedi disposti a filari) e certi particolari stilistici tardoromanici, nonché i reperti raccolti nell’adiacente area sepolcrale, permisero di circoscrivere la datazione per la struttura alla fine del XII-inizi del XIII secolo (CIAMPOLTRINI 1984). La pieve si costituiva di un’aula a pianta rettangolare, solo parzialmente conservata, dotata di un fonte esagonale monolitico ed era circondata da un sepolcreto, caratterizzato da tombe a cassa, adibite ad alloggiare bare lignee realizzate in bozzette di arenaria, oppure da semplici fosse terragne: due diverse tipologie di sepoltura, queste, chiaramente riflettenti lo status sociale rivestito in vita dai defunti.

Il recente saggio effettuato nell’area della canonica adiacente la parete meridionale della pieve di Fosciana (CIAMPOLTRINI et alii 1998) non ha permesso di comprendere se l’attuale edificio della pieve – molto trasformato [101] nel Cinquecento, con pochi tratti romanici superstiti nella parte absidale (fig. 44) – insista sull’originaria chiesa altomedievale: al contrario, da questo scavo, è affiorato un cospicuo contesto di materiali (ceramici, vitrei, metallici e numismatici di varia provenienza) ascrivibile al XII-XIII secolo e attestante la ricca e privilegiata cultura materiale legata al complesso religioso per tale periodo. Gli edifici delle altre pievi, benché parzialmente ricostruiti nel corso dei secoli (la Garfagnana è zona fortemente sismica), si presentano in caratteri romanici, più o meno ben conservati (fig. 45) e

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sopravvissuti ai rifacimenti post-medievali e, pertanto, non databili anteriormente al XII secolo. [102]

Rimane quindi ancora da chiarire la localizzazione precisa degli originari edifici plebani altomedievali attraverso più estese indagini archeologiche; solo così si potrà verificare se le chiese matrici siano effettivamente sorte in luoghi originariamente disabitati e scelti in modo da risultare centrali e funzionali a più insediamenti circostanti secondo la generale tendenza riscontrata per altri territori italiani (SETTIA 1982).

Il fenomeno della comparsa dei castelli sul territorio a partire dal X secolo, si è rivelato evidente, come per molte altre parti d’Italia, anche in Garfagnana, ma qui più dal punto di vista archeologico che storico. Infatti, mentre le fonti scritte dei secoli X-XIII che danno menzione dei castelli nella Valle sono piuttosto scarse e lacunose, al contrario, i resti materiali loro pertinenti sono abbondanti e assai uniformemente distribuiti sull’intero comprensorio geografico caratterizzato da quote inferiori ai 1100 m.

Una ricerca territoriale condotta su un campione di territorio dell’alta Garfagnana (dalle sorgenti del Serchio fino alla sua confluenza con i Torrenti Sillico e Turrite Secca; grosso modo fino all’altezza di Castelnuovo) (GIOVANNETTI 1995-1996), ha permesso di individuare sul terreno, aggiungendo ai casi già noti, un elevato numero di siti fortificati (fig. 46) e di elaborare una tipologia di castello per questa zona.

I castelli sorgono a quote piuttosto elevate (ben 15 superano infatti i 700 m di altitudine e molti si situano lungo la fascia altimetrica compresa fra [103] gli 800 e i 900 m) e si caratterizzano, generalmente, per un periodo relativamente breve di vita, durato circa due-tre secoli: dal X o XI secolo al XIV secolo.

I castelli curtensi (cioè originatisi dalla fortificazione di curtes) non costituiscono il tipo prevalente in Garfagnana, al pari, ad esempio, del resto della Toscana o dell’Italia padana: solamente la curtis di Sala, infatti, giusta l’identificazione topografica nell’area dell’attuale Borgo di Sala (Piazza al Serchio) [104], si evolverà nel Castelvecchio, uno dei più importanti centri di potere relativi alla signoria dei Cunimondinghi. La maggior parte dei castelli di X secolo risulta, dunque, sorgere ex-novo, su alture dominanti visivamente ampie porzioni di territorio (fig. 47) e ad una certa distanza spaziale dai villaggi (fig. 48). La maggior parte dei castelli occupa la superficie sommitale dei rilievi (fig. 49), regolarizzata artificialmente per l’impianto della fortificazione; il perimetro murario corre generalmente lungo i fianchi del pendio a "fasciare" il colle (fig. 50) oppure, più raramente, ai limiti della spianata sommitale prima che il terreno inizi a declinare. Il muro di cinta assume infine un andamento poligonale prediligendo un diretto "ancoraggio" alla roccia affiorante e le superfici così definite, in genere indotte dallo spazio utile disponibile, sono decisamente modeste, inferiori, anche di molto, ai 1000 mq. Il tipo di insediamento interno che sembra prevalere, relativamente ai secoli X-XII, è organizzato su terrazzamenti con modeste abitazioni monocellulari realizzate prevalentemente, quando non totalmente, in legno.

La tipologia del castello con torre a pianta quadrata (originariamente con alzato ligneo) interna e grosso modo posta nel punto più elevato e in posizione centrale rispetto al recinto (fig. 51), sicuramente la meno complessa e la più antica (MANNONI 1984), è risultata, in Garfagnana, quella più diffusa.

I signori che dettero vita a questa articolata rete di centri fortificati, vale a dire i domini di Dalli e Soraggio, di Gragnana, i Gherardinghi di Verrucole, i Filii Guidi de Villa (o Cunimondinghi), i da Bacciano e da Careggine i da Cellabaroti e, per la

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media e bassa valle, i Rolandinghi e i Porcaresi, emersero prima economicamente, poi politicamente, a partire dalla metà del X secolo grazie ai "livelli di pievi" e alle curtes loro concessi dal vescovo di Lucca ed espletarono il loro dominio territoriale tramite diverse prerogative prime fra tutte quelle giurisdizionali, di pedaggio, di riscossione di imposte e monopolio dei centri di produzione, come, ad esempio, i mulini.

Il castello, lungi dall’essere un luogo di valenza essenzialmente militari come erroneamente siamo stati abituati a pensare, diviene il centro materiale e, al contempo simbolico, di un potere dai connotati spiccatamente economici. Il breve periodo di durata di queste piccole signorie, spesso fra loro legate da vincoli di parentela, dal X secolo (periodo della formazione e dell’ascesa) alla seconda metà del XIII secolo, quando decadono, causa l’affermazione dei comuni rurali e la raggiunta supremazia politica di Lucca sul proprio contado, coincide, sostanzialmente, con l’arco di vita della maggior parte dei castelli della Valle.

L’incastellamento in Garfagnana fu dunque un fenomeno diffuso ma di scarsa forza in termini di durata insediativa. L’impiantarsi dei castelli non pare inoltre aver avuto, almeno nell’apparenza che oggi ci è data di percepire, pesanti riflessi sull’organizzazione delle sedi umane stabilitesi anteriormente a questi: una volta che le signorie della Garfagnana furono svuotate [105] dei loro poteri, la maggior parte dei castelli, con i modesti abitati posti al loro interno, in breve, decaddero.

L’economia della Garfagnana medievale, in quanto territorio in prevalenza montuoso, in stretta vicinanza con la catena apuana e appenninica, appare legata, in tutte le fasi storiche (e preistoriche), come bene si è visto, allo sfruttamento della montagna: il fenomeno dell’allevamento ovino (di necessità transumante) è certo l’elemento più caratterizzante accanto al quale si pone, nell’integrazione propria di un sistema economico finalizzato all’autosufficienza, almeno fino alla fine dell’alto Medioevo, un’agricoltura ristretta, e basata sulla coltivazione dei cereali più robusti: l’orzo, la segale e la spelta (farro). Dalla documentazione scritta alto-medievale si rileva una numericamente scarsa menzione delle castagne e dei prodotti da queste derivati. Ciò colpisce non poco se pensiamo che questi, a partire dal Basso Medioevo fino ai tempi moderni, costituiranno la base dell’alimentazione garfagnina: non è da escludere, pertanto, che future analisi paleobotaniche, possano di fatto contraddire, come è avvenuto per certe aree dell’Appennino Pistoiese, tale evidenza, del resto esclusivamente filtrata, finora, dalla documentazione scritta.

2.3 LA VIABILITÀ

Stabiliti gli elementi caratterizzanti il paesaggio medievale della Garfagnana: le sedi umane (i villaggi e le aree di sfruttamento economico), i centri di potere (i castelli) e quelli religiosi (le pievi), prende forma, con sufficiente chiarezza, il reticolo viario funzionale al loro raccordo (Fig. 52).

In Età Longobarda la Garfagnana, sbocco naturale verso Lucca muovendo dai territori della Padania occidentale, verrà a svolgere, per motivi politici e militari, un importante "ruolo stradale" in quanto unico corridoio in potere dei longobardi, circondato da territori ancora in mano ai Bizantini: in conseguenza di ciò non pare certo casuale, bensì dettata da necessità strategiche, la dislocazione dei tre castelli altomedievali (fig. 42), posti proprio nei punti di confluenza, obbligata dall’orografia, delle strade provenienti dai passi appenninici.

Tuttavia anche nelle epoche successive, senza particolari motivazioni storiche come la suddetta, la Garfagnana rimarrà un’importante area di strada.

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Soffermandoci qui ad analizzare, in generale, la viabilità "interna" di questo territorio, cioè il reticolo delle vie vicinales funzionali a collegare tra loro le varie sedi umane – i tanti vici e loci menzionati nelle fonti scritte a partire dall’VIII secolo – e queste, a loro volta, alle aree di sfruttamento agricolo e silvopastorale (in altre parole le strade degli scambi sociali fra le comunità vicine e del lavoro quotidiano), risulta ben evidente una viabilità di mezza-costa, correlante i nuclei dislocati lungo la fascia altimetrica che va dai 400 ai 600-700 metri di altezza, sia lungo la sponda destra che sinistra del [108] Serchio. In un certo modo, questa risulta parallela rispetto alla viabilità fondovalliva e forse ad essa preferita, durante l’autunno e la primavera, periodi di piena del fiume. Le sedi umane fisse sono collegate alle aree montane di pascolo e a quelle boschive attorno a cui gravitava l’attività di sfruttamento delle risorse economiche della montagna.

Dalla prima edizione delle carte dell’Istituto Geografico Militare in scala 1:25.000, redatte alla metà del secolo scorso e quindi illustranti una situazione paesaggistica diretto risultato dell’organizzazione insediativa ed economica del Medioevo, in quanto anteriore agli interventi antropici moderni, si coglie una situazione stradale molto più complessa e capillare di quella odierna: aree del tutto marginali rispetto ai percorsi attuali appaiono, soprattutto in prossimità dei passi apuani e appenninici, solcate da una quantità infinita di tracciati, oggi non più praticabili per la crescita incontrollata della vegetazione. Le pendici montane risultano, inoltre, contrassegnate da un’abbondante microtoponomastica riferibile a case, o, meglio, a capanne sparse, attorno a cui si svolgeva l’attività di sfruttamento dei boschi, primo fra tutti il castagneto. Ciò sottintende sia l’importanza dello sfruttamento della montagna per le trascorse economie, sia, conseguentemente, la "percorribilità" di questa.

Per quanto riguarda la dislocazione spaziale degli edifici plebani, è interessante notare, infine, come la funzione di chiese battesimali a servizio di diverse comunità abitanti vaste porzioni di territorio, si rifletta, chiaramente, anche nella posizione geografica da esse occupata: centrale rispetto alle poche aree pianeggianti di fondovalle e nel punto di confluenza dei principali assi viari per cui, anche in questo caso, è ben evidente quel fenomeno di "allineamento" di chiese plebane precedentemente rilevato nel territorio lunigianese.

2.4 CASTELLI E STRADE

La necessità di trattare in un paragrafo a sé la particolare relazione intercorrente fra i castelli, simbolo materiale delle signorie che, dal X secolo alla metà circa del XIII, ebbero potere organizzativo (politico ed economico) sul territorio e, probabilmente, sul sistema stradale della Garfagnana, risiede, principalmente, nella complessità dell’argomento, peraltro ancora da conoscere nei suoi dettagli.

Quanto detto sulle problematiche storiografiche legate alle "signorie stradali" spiega come la piena egemonia su un sistema stradale (e dunque territoriale) non si possa esaurire nella semplice operazione di riscossione dei pedaggi in luoghi di attraversamento obbligati (come i ponti) bensì si completi e si rafforzi, di necessità, tramite un più ampio e correlato controllo dei luoghi di sosta (ospedali), delle infrastrutture commerciali e, talvolta, per le aree di montagna, dei punti di accesso ai pascoli montani. [110]

Se per la Lunigiana emerge bene, dal lato documentario, questo diretto e attivo coinvolgimento dei vari signori, primi fra tutti i Malaspina, nel controllo delle varie infrastrutture stradali (p. 6), la stessa cosa non si può dire nel caso della Garfagnana:

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forse a causa della debolezza intrinseca di queste signorie, su cui molto hanno insistito gli storici, forse, più semplicemente, a causa della grave lacuna documentaria che riguarda i secoli X-XIII, periodo della loro nascita, affermazione e decadenza.

Solo dallo Statuto dei Gherardinghi del 1272, costituente un insieme di norme di chiara impronta signorile regolanti la vita pubblica dell’ampio distretto territoriale facente capo al castello di Verrucole (Fig. 53), si percepisce un certo coinvolgimento dei detentori del castello nei confronti di un percorso stradale, nemmeno espresso in termini espliciti di pedaggio ma di controllo da eventuali espansioni di privati. Era compito del podestà, rappresentante dei Gherardinghi, nonché garante dei loro diritti, infatti, far remondari et guiffare, cioè rispettivamente pulire (dalla vegetazione) e segnare (wiffa, da cui il verbo wiffare, è voce longobarda che significa "segno di possesso"), probabilmente mediante cippi di confine in pietra, per tutto il mese di maggio e giugno, quando salivano le greggi all’alpe, i sentieri pubblici di Aqualibet e Bonvino, specificatamente destinati al passaggio degli animali transumanti (per quam vadant pecudes). La pena per chi infrangeva tale delimitazione, se non accidentalmente, (si qua persona fregerit dictam deffensam nisi viandando sine fraude) era fissata a 20 soldi oppure a due montoni per ciascun gregge di pecore e per ciascuna volta. Questo compito di salvaguardia delle strade pubbliche nella curia dei Gherardinghi richiama esplicitamente le figure dei Terminatores, cioè gli addetti a garantire il rispetto del suolo stradale pubblico da parte dei privati, degli statuti toscani quasi coevi di Chianciano (1287) e Rocca Tintinnano (1297) (SZABÒ 1999). La via seguita dalle greggi di pecore e capre raggiungenti, nella tarda primavera, i prati delle alpi della curia di Verrucole (alpes curie Verrucole) è verosimilmente identificabile con la mulattiera che, costeggiando e risalendo la sponda sinistra del torrente Covezza di Verrucole, portava a quella vasta area di pascolo localizzata a sud-ovest della Pania di Corfino, ancora oggi punteggiata dai resti post-medievali delle capanne di Caprignana, di Vibbiana, Ciana e San Romano.

Non abbiamo altri dati scritti da cui estrapolare le modalità di connessione fra signorie e sistema stradale, tuttavia altri castelli della Garfagnana, posti nel fondovalle in strettissima vicinanza di ponti come il castello di Bacciano, il castello presso S. Michele (pp. 114-119), il castello presso la loc. Il Podere e nelle immediate vicinanze dei passi appenninici: (castello di Verrucchio, castello presso Dalli Sotto, castello di Dalli Sopra), sembrano, per la loro evidente relazione con manufatti stradali (ponti) e luoghi di passaggio obbligati (passi), giocare un qualche ruolo nell’organizzazione della viabilità medievale della Garfagnana. [111]

Il castello di Verrucchio, di fondazione vescovile e salvaguardato da alienazioni a privati mediante la bolla di Alessandro II, papa e vescovo di Lucca, dell’anno 1072 circa, proprio per il notevole valore strategico che rivestiva nel quadro dei beni episcopali distribuiti nel territorio diocesano (ANGELI 1986), raggiungibile secondo la direttrice principale: Pieve Fosciana Campori (dove è l’altro castello di origine vescovile), Chiozza, nel 1227 risulta dotato, fra l’altro, di un ospedale interno, verosimilmente privato, dedicato, come la relativa chiesa, a S. Iacopo. Questa presenza certamente rafforza la connotazione di castello stradale per Verrucchio, collegato, tramite un percorso di crinale, con il passo delle Forbici, mediante cui si accedeva nell’alta Valle del Dolo posta in asse con Reggio Emilia.

Il castello di Dalli Sopra, distrutto dall’esercito lucchese allo scorcio del Trecento ma poi proseguito come centro abitato e quello presso Dalli Sotto, al contrario abbandonato spontaneamente nel corso del Medioevo, costituirono le basi territoriali da cui gli omonimi signori, consorti dei Malaspina di Lunigiana, sembra avessero esercitato una politica di controllo sui passi di Cavorsella e Pradarena

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(NOTINI 1980) oltrepassati i quali era, in territorio reggiano, la curtis di Naseta ripetutamente contrasta, dai domini di Dalli, al monastero di S. Prospero di Reggio. Una donazione da parte dell’Imperatore Ottone I, del 964, a favore di questa curtis, contiene la significativa citazione di una strada che, da 1ì, muoveva verso la Tuscia (cioè il territorio toscano). La possibilità di riconoscere, nella confinazione citata dal documento, i torrenti Ozola e Rialbero, oltre alla Secchia, ha permesso di identificare questo tracciato viario, sicuramente risalente all’Età Romana per essere contraddistinto dal toponimo strata, con la via che si immetteva in Garfagnana tramite il passo di Pradarena (BARICCHI 1990, BORRAZZI 1996). [112]

[113]Non è però da escludere che la stessa strada possa invece aver interessato il vicinopasso di Cavorsella, (cui oggi converge, a differenza di quello di Pradarena, solo una

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fitta rete di mulattiere) sulla base della maggiore vicinanza geografica con i due citati castelli.

Un’ulteriore prova, questa volta di natura archeologica, della particolare, stretta relazione intercorrente fra questi castelli e la viabilità dei passi appenninici di Cavorsella e Le Forbici, entrambi conducenti in territorio emiliano, è data dai ritrovamenti ceramici a seguito della ricognizione dei castelli presso Dalli Sotto e Verrucchio. Si tratta di pentole da fuoco in ceramica grezza ad inclusi calcitici di forma emisferica con foro da sospensione impostato sotto il bordo e dotati di ansa nel caso di Verrucchio (Figg. 54-55), significativamente rientranti nella sfera di produzione emiliana (e più in generale padana). Databili, sulla base di puntuali confronti con i materiali di un sito presso Coloreto (Parma), al X-XI secolo (CONVERSI 1993-1992), mancavano, finora, nel coevo panorama ceramico della Garfagnana, quasi essenzialmente costituito da olle di corpo globoso, a fondo piano e orlo estroflesso. Sulla base di osservazioni di logica geografica, ma senza prove decisive al pari di quelle esposte, potrebbero aver svolto funzioni di controllo di accesso ai pascoli il castello presso Sassorosso e la Rocca di Soraggio.

[114] In generale, la vicinanza ai passi appenninici e apuani e il fenomeno dello

sfruttamento silvo-pastorale della montagna sono gli elementi che meglio sembrano giustificare l’elevata altitudine di molti dei castelli della Garfagnana e il loro diretto contatto con la montagna.

2.5 COMUNI E STRADE

Nel XII secolo cominciano a formarsi le istituzioni comunali che generalmente nacquero nel contesto della signoria (non "contro" di essa, come di frequente è stato detto) ma con cronologia e contenuti assai diversi di zona in zona (WICKHAM 1995).

Nel caso della Garfagnana, la morfologia prevalentemente montuosa del territorio, favorendo, da sempre, un tipo di insediamento accentrato, avrebbe costituito la base più idonea alla nascita di forme di organizzazione sociale di tipo collettivo, forse già alle soglie dell’XI secolo.

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Dalla documentazione disponibile, peraltro non molto abbondante, si coglie un’iniziale convivenza, sostanzialmente pacifica, tra comuni e signori. Nell’atto del 1170 la comunità di Gragno (vicino Gallicano) risulta infatti spartita tra l’autorità dei propri consules e quella dei Gherardinghi di Verrucole e nel diploma imperiale del 1185, Federico I accordava i suoi privilegi tanto ai domini che ai comuni (hominibus) de Garfagnana. Lo sviluppo dei comuni, ormai conclusosi allo scorcio del XIII secolo, si attuò di pari passo con la piena affermazione dell’economia silvo-pastorale nella Valle: le regole comunali, garantendo, fra l’altro, l’uso collettivo di determinate aree boschive e di pascolo, costituirono, indubbiamente, la base istituzionale più favorevole alla maturazione di quella che è stata definita la "civiltà della montagna", culturalmente sempre più lontana dalla città e insofferente ai gravosi oneri finanziari a questa dovuti.

In tema di viabilità, abbiamo visto (pp. 38 ss.) che molti comuni italiani, al momento della loro affermazione, arrogandosi tutti quei diritti e doveri che prima spettavano ai signori, vennero ad assumere un ruolo attivo nella difesa del suolo pubblico stradale, nella sua manutenzione e nel garantirne la sicurezza ai viandanti forestieri e ai commercianti con merci a seguito.

Solamente dai tardi statuti delle comunità di Castelnuovo (1492), Gragnanella (1585) e di Massa e Sassorosso (1624), emergono l’importanza della manutenzione collettiva delle strade e, di riflesso, il grande lavoro che doveva comportare tale operazione. II primo di questi statuti obbligava la comunità residente a "rifare et racconciare i ponti"e a "ridurre in buona forma le vie pubbliche" ogni volta e in qualunque luogo ve ne fosse stato bisogno e gli altri due, rispettivamente, costringevano ogni capo-famiglia ad "acconciare" le strade (cioè sistemare) pena un carlino pro capite e a "rivedere" e "accomodare" le strade comunali e maestre (termini che chiaramente traducono i più antichi: vie vicinales e strate maestre o principales), ogni [115] anno, da parte di capo o figlio di famiglia dai 15 ai 60 anni, (e se in famiglia mancavano gli uomini, ciò spettava alla donne), tenuti a farlo sotto pena di 20 bolognini per ciascuno. Un sistema analogo di manutenzione del suolo stradale dovremo immaginarlo anche per i secoli precedenti pur non essendo documentato, in Garfagnana come in Lunigiana, dalle fonti scritte.

La cura fisica delle strade (e dei relativi ponti) a carico dei residenti dei vari comuni, fu sicuramente il modo più efficace per garantire, in ogni stagione, la percorribilità, anche con un grande seguito di animali (ovvio fattore di dissesto per il suolo stradale), di un fitto reticolo di mulattiere probabilmente da immaginare lastricate (figg. 56-57), mediante un acciottolato disordinato non diverso da quello rimasto oggi per alcuni tracciati montani, [116] solo in prossimità dei centri abitati: per il resto dovevano presentarsi come semplici piste in terra battuta.

II seguito pubblico che ebbero l’aggressione e la rapina capitate, nel 1241, a quattro sventurati toscani che trasportavano ferro a dorso d’asino, poco oltre il passo delle Forbici, in territorio reggiano, è una delle tante dimostrazioni che i comuni avevano a cuore la tutela dei traffici commerciali, di frequente insidiati, soprattutto nei territori montani e isolati come questo, da azioni di brigantaggio (SZABÒ 1991). La risoluzione giudiziaria di quel misfatto ebbe luogo a Reggio: il podestà condannò le comunità residenti nei nove villaggi prossimi al passo delle Forbici al risarcimento collettivo del [117] danno inferto ai Toscani. La responsabilità delle singole comunità per la sicurezza delle proprie strade, trovava il suo corrispondente nell’analogo dovere che i comuni assumevano, per tutto il loro territorio, nell’atto di firmare trattati intercittadini. Ad esempio, nel 1306, Modena e Lucca stipularono un accordo scritto

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impegnandosi a sorvegliare, ciascuna nel proprio territorio, anche a mezzo di uomini armati, la strada di San Pellegrino, di certo la più importante che le univa.

2.6 VERSO I PASSI APPENNINICI E APUANI: LE STRUTTURE OSPITALIERE

Nelle pagine iniziali del volume sono stati citati gli ospedali di San Pellegrino e di San Iacopo di Ponte del Popolo come esempi di ospedale di passo il primo, mentre di fondovalle il secondo, posto in stretta connessione con un ponte sul Serchio di cui curava la manutenzione ed entrambi probabilmente legati alla politica di gestione stradale portata avanti dalle signorie della Valle.

Gli altri ospedali della Garfagnana (fig. 52) riconducibili alla categoria degli ospedali di passo sono San Nicolao di Tea (pp. 145 e ss.), San Sisto di Sillano che sorgeva a 1274 m in prossimità del nucleo di Capanne di Sillano, dove rimane il toponimo Ospedaletto, a pochi chilometri dal passo di Pradarena; Santa Maria di Buita, a 1562 m di quota, sopra l’odierno Casone di Profecchia, sulla mulattiera che conduceva al passo delle Forbici e, da qui, nel Reggiano, e San Bartolomeo di Ceserana a 1681 m nei pressi del passo del Saltello attraverso il quale si accedeva nel Frignano. Anche l’ospedale di San Regolo di Monteperpoli (491 m), infine, si può considerare un ospedale di passo pur posizionandosi ad una quota non troppo elevata, a sud di Castelnuovo, sul valico naturale dividente l’alta Valle del Serchio dalla bassa.

A servizio della viabilità di fondovalle sono da ricondurre, invece, oltre al suddetto San Iacopo di Ponte del Popolo, l’ospedale di San Leonardo di Calavorno, l’ospedale di San Concordio de Collacinario da porre presso l’odierna località di Turritecava (ANGELINI 1979), in vicinanza del punto in cui questo fiume si getta nel Serchio, l’ospedale dei SS. Marco e Leonardo di Gragliana, situato sulla mulattiera che, risalita l’incassata vallata della Turrite Cava, attraversava il Callare di Matanna e conduceva nell’alta Versilia e l’ospedale di San Iacopo dell’Isola Santa posto sulla strada apuana congiungente, tramite la foce di Mosceta, la Garfagnana all’alta Versilia. Infine ospedale di fondovalle può essere considerato anche l’Hospitale de Castro non localizzabile, a differenza dei suddetti, benché ormai tradizionalmente ritenuto sorgere nell’area di Piazza al Serchio, visti i criteri geografici secondo cui sono state redatte le liste delle decime che, alla fine del Duecento, lo ricordano: la particolare denominazione chiaramente allude ad una sua relazione, forse non solo spaziale, con un castello, dentro o in vicinanza del quale, avrebbe potuto trovarsi. [118]

Nella Garfagnana di XII secolo, tutte queste strutture sono attive nel garantire assistenza ai viandanti. Nel corso del secolo successivo, dalla scarsa documentazione superstite che li riguarda, si coglie una loro evoluzione, in primo luogo motivata dallo stabilirsi di correnti di traffico preferenziali su determinate direttrici stradali a scapito di altre: così, mentre nella seconda metà del secolo decadono S. Maria di Buita e S. Bartolomeo del Saltello e S. Iacopo di Ponte del Populo appare in rovina nel 1292 (ANGELINI 1996), al contrario si ampliano San Pellegrino (pp. 137-140) e S. Nicolao di Tea. Anche l’ospedale di San Iacopo dell’Isola Santa doveva trovarsi nel pieno del [119] suo vigore se, nel 1236, risultava servito da ben 19 conversi guidati da un rettore (ROMITI 1985).

Nel corso del Trecento non si registra la nascita di nuovi ospedali fatta eccezione per quello di Santa Maria di Piazza sorto, nel 1387, fuori le mura di Castiglione ma con lo specifico ruolo di cura degli ammalati: un ospedale nel significato moderno del termine.

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La nascita di nuove strutture ricettive a pagamento sulle strade della Garfagnana, nei luoghi dei vecchi ospedali, non è documentata se non dal solo toponimo Osteria del Sordo, presente sulla carta al 25000, nel punto in cui doveva sorgere l’ospedale di San Concordio di Collacinaro e dalla cartografia post-medievale riguardante il nucleo di San Pellegrino (p. 140).

È difficile ricostruire l’aspetto originario degli ospedali di questo territorio, ora perché andati completamente distrutti, ora perché pesantemente ristrutturati nel corso dei secoli; in questo quadro, la possibilità di conoscere, nei dettagli archeologici, l’evoluzione strutturale di almeno uno di questi – San Nicolao di Tea – acquista, comprensibilmente, un grande valore.

Ciò che sembra trasparire dell’organizzazione di queste strutture ricettive, sia pure da fonti molto tarde, è la ricorrente associazione con l’edificio di una chiesa e la presenza di ambienti per il ricovero degli animali: in un documento del 1580 (ROMITI 1985) si apprende che l’ospedale dell’Isola Santa sorgeva adiacente la fabbrica della chiesa e all’interno del castello (del quale oggi rimangono tratti del recinto e una casa-torre interna, pesantemente ristrutturata in tempi moderni) e contava tre "stanze", distribuite su due piani: “una delle quali che si chiama la loggia attachata all’oratorio con stalle sotto, dove si poteva alloggiare i viandanti e tenervi le loro bestie (...) un’altra dove sta ora l’ospidaliere e altra comoda”. L’ospedale di San Sisto di Sillano, descritto dal Bertacchi nel 1629, ormai in rovina, era ridotto, in quei tempi, “ad una casa in volta (...) contigua alla chiesa di San Sisto (...) con una campana, la quale in tempo dell’Ave Maria suona un ora a benefitio di chi passa l’Alpe; et in quella casa sta una persona, la quale è obbligata a fare l’ospitalità”.

L’ultimo simbolico resto dell’ospedale di Santa Maria di Buita è, infine, una lastra di arenaria, a forma di trapezio allungato, recante una croce in bassorilievo con terminazione appuntita (Fig. 55) inserita nella parete esterna di un rustico restaurato in tempi recenti, collocato nel punto contrassegnato sulla carta dal toponimo Ospedaletto Rovine.

2.7 MERCI IN TRANSITO

A differenza di quanto avveniva nell’alto medioevo, le strade della Garfagnana bassomedievale risultano transitate da un più ampio genere di merci e ciò sostanzialmente per due motivi: il fiorire delle attività commerciali proprio di questo periodo rispetto al precedente, al contrario contraddistinto da [120] una prevalente economia di autosufficienza e la disponibilità di una documentazione scritta più abbondante, vivace ed eterogenea al riguardo.

Il tema del commercio, in quanto operazione economica, per le varie implicazioni che comporta e per le molte sfaccettature sotto cui può e deve, giustamente, essere trattato, è vasto e complesso. Limitiamoci qui, a guardare il fenomeno macroscopicamente, sicuramente in modo riduttivo e veloce, ma cercando di unire, dove possibile, le evidenze archeologiche a quelle storiche e comparando, via via, le informazioni desumibili da questi due diversi registri documentari.

L’episodio di rapina avvenuto, nel 1241, a scapito dei quattro commercianti toscani che trasportavano ferro in Emilia avvalendosi del passo delle Forbici (p. 104), lascia intravedere una pratica di commercio (non però quantificabile) di tale minerale fra le due regioni e presupporre che il metallo fosse estratto dalle ferriere apuane il cui sfruttamento, documentato nel corso del Trecento e nei secoli successivi, motivò il sorgere dei villaggi "minerari" di Fornovolasco, Fabbriche di Careggine e, in alta Versilia, Forno, citando quelli dal toponimo più trasparente: originatosi, cioè, dalla

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presenza di officine metallurgiche. Manca, per il momento, la conoscenza archeologica del fenomeno estrattivo del ferro apuano nel Medioevo e, di conseguenza, la possibilità di datare l’inizio di tale pratica. Numerose scorie ferrose, indicatrici della riduzione di materiale di questo tipo mediante fornaci metallurgiche (MANNONI, GIANNICHEDDA 1996) sono state di recente raccolte (NOTINI et alii. 1996) sulla sponda sinistra del lago di Vagli, a poco più di 1 Km di distanza dal nucleo di Fabbriche di Careggine, sommerso dalle acque di questo bacino nel 1946 e messe in relazione ad un villaggio abbandonato entro il Medioevo come attesterebbero i numerosi resti murari e le relative evidenze ceramiche che spaziano dall’XI al XIII secolo. L’estensione in profondità delle ricerche in questo sito avrebbe un duplice significato: nel campo della cultura materiale, la conoscenza delle fornaci e delle probabili relative officine di lavorazione del metallo e dunque dell’organizzazione "industriale", oltreché insediativa di questo villaggio; dal lato storico, la possibile dimostrazione della connotazione "mineraria", della signoria dei Da Careggine. Non è infatti da escludere che questi signori, del cui dominio territoriale sono rimaste diffuse testimonianze archeologiche nell’area in questione, detenessero qui, durante i secoli centrali del Medioevo, il monopolio dell’estrazione e della lavorazione del ferro.

L’uscita di legname da costruzione e per uso navale, ricavato dal taglio dei boschi appenninici, dalla Garfagnana, nonché l’utilizzo di vie d’acqua per la sua fluitazione verso Lucca e, da qui, ad altre città, è ampiamente attestato, ma logicamente solo per via documentaria, a partire dagli anni ‘40 del Trecento (PUCCINELLI 1996). Nel 1340 transitavano infatti "alberi da nave" lungo il Serchio e, nel più tardo 1375, ancora tramite questa via d’acqua, perveniva il legname necessario alla riparazione del ponte di San Quirico vicino [121] Lucca. L’unico riflesso di questa pratica è individuabile nella toponomastica per cui non c’è da stupirsi se incontriamo vie dette dei remi nell’Appennino Barghigiano, lungo i crinali del Monte Giovo e la Cima dell’Omo a oltre 1000 m di altitudine.

Al contrario è attestata solo per via archeologica la massiccia affluenza che, in questo territorio montano, ebbe la ceramica rivestita da mensa ("maiolica arcaica") prodotta da botteghe pisane nei secoli XIII-XIV, grazie alla quale si può dire che la Garfagnana, relativamente a tale periodo, fosse ben inserita nella rete distributiva delle merci di produzione urbana. Ugualmente risulta capillarmente diffusa l’economia monetaria, a partire dal X secolo, ma soprattutto dal successivo, come attestano i numerosi rinvenimenti, soprattutto nei siti fortificati, di monete di scarso valore liberatorio e quindi adatte al piccolo commercio quotidiano. Fra queste prevale il numerario battuto dalla zecca di Lucca seguito, in modo significativo, da quello afferente alle zecche padane e, in particolare, emiliane (RossI 1998).

Contatti economici fra la Garfagnana e l’Emilia e, più in generale, la regione padana, sono archeologicamente ben evidenti a partire dalla metà del XV secolo, sebbene plausibilmente da retrodatare vista la situazione di vicinanza geografica fra le due aree e le prove ceramiche, riconducibili ai secoli X-XI, raccolte nei castelli appenninici di Dalli e Verrucchio (pp. 100-101). È ancora una classe ceramica rivestita, la "graffita padana", la spia di questi scambi commerciali e, al contempo, del subentrare del dominio politico estense sulla Garfagnana a partire dalla prima metà del XV secolo.

Da questo periodo in avanti si instaurano, infatti, privilegiati rapporti commerciali con l’Emilia, come già notato (pp. 42-43) più che con Lucca e il resto della Toscana, in quanto tutelati nella forma di libero commercio. A questo proposito è significativo ricordare che tra i capitoli chiesti (e ottenuti) dalle comunità di Sillico e

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Bargecchia prime, in senso cronologico, a sottomettersi al marchese Nicolò d’Este nel 1429, era proprio la possibilità – basilare per un’economia non più di autosussistenza – di esportare, come anche di importare, “dalle parti di Lombardia per tutte le Terre del predetto Sig. Marchese (...) ogni biada e vettovaglia e bestiame (...) senza alcun pagamento di dati o gabella”.

2.8 CONCLUSIONI

Dalla documentazione scritta altomedievale emerge, con forza, uno stretto legame, politico ed economico, fra Lucca e la Garfagnana: la città e il proprio territorio montuoso. Ne consegue che il sistema stradale che, in quel periodo le collegava, doveva essere efficiente e molto transitato.

Se la maturazione dei particolarismi signorili a partire dalla fine del X secolo e la loro radicalizzazione territoriale fino verso la seconda metà del XIII secolo, da una parte provocò un certo distacco politico fra la Garfagnana e Lucca, dall’altra non pare aver avuto conseguenze "a livello stradale". [122] Abbiamo infatti visto come questa città, proprio fra il 1030 e il 1150, dette vita ad un vasto numero di infrastrutture stradali (ponti e ospedali) a sostegno di itinerari di lunga percorrenza (pp. 34 ss.) dai quali la Garfagnana certamente non restava esclusa. Dei circa 20 ospedali dislocati in Lucchesia, quelli della Garfagnana, significativamente in buona parte rientranti nella categoria degli "ospedali di passo", permettono di conoscere le direttrici stradali che, durante il Medioevo, mettevano in collegamento Lucca con la Lunigiana, Reggio, Modena e viceversa.

I materiali archeologici finora emersi dagli scavi condotti in Garfagnana, dal canto loro, attestano, per tutto il Basso Medioevo, la ricettività di questo territorio nei confronti di manufatti allogeni e dunque costituiscono la spia indiretta di un sistema stradale ben collegato con l’esterno.

Molti dati sono ancora da acquisire riguardo il cambiamento del sistema insediativo (e dunque di quello stradale) nel periodo di transizione fra Tardo-Antico e Alto Medioevo come anche sulle strategie di sfruttamento delle risorse territoriali e controllo stradale messe in atto dalle signorie locali incentrate sui castelli: tutto questo sarà da approfondire con studi futuri.

Ciò che finora emerge, con sufficiente chiarezza, della viabilità locale della Garfagnana medievale è, accanto ad una necessaria viabilità di fondovalle che garantiva punti di attraversamento sul Serchio (quelli storicamente e archeologicamente noti sono, muovendo da sud: Pontis Populis, Pontecosi, e il ponte di Bacciano), una viabilità di mezza-costa funzionale al raccordo dei vari abitati (quasi tutti documentati dall’VIII al X secolo), per lo più "allineati" lungo la fascia altimetrica che va dai 400 agli 800 metri e, infine una viabilità "alta", connessa allo sfruttamento delle risorse della montagna (transumanza, frutti e legname dei boschi).

Dall’evoluzione e decadenza del sistema ospedaliero della Garfagnana, si coglie, in nuce, il processo di "semplificazione stradale" poi proseguito in tempi a noi relativamente vicini. Solo i tracciati stradali relativi ai passi di San Pellegrino e Pradarena resistono sostanzialmente invariati dal Medioevo; gli altri, o decadono del tutto (è il caso dei percorsi interessanti il passo delle Forbici e del Saltello), o subiscono variazioni indotte dalle esigenze dei nuovi mezzi di trasporto e dalle raggiunte possibilità di modificazione dell’ambiente naturale proprie dell’età moderna (è il caso della strada del passo dei Carpinelli che subentra a quella dell’altopiano di Tea e la strada d’Arni che si sostituisce a quella della Foce di Mosceta).

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Il collegamento fra Modena a Massa sfruttando il passo appenninico di San Pellegrino (1627 m) e poi quello apuano della Tambura (1620), attuato, intorno alla metà del Settecento, su progetto dell'ingegnere-abate Vandelli, comportando il superamento dell’ardita catena apuana, riproponeva una logica stradale antica, costante in questo territorio dalla Preistoria al Medioevo: "diretta" e poco curante dei dislivelli, certo destinata, di lì a poco, a decadere. [123]

Lucia Giovannetti

3. Manufatti stradali significativi

In quest’ultimo paragrafo si presentano sinteticamente alcuni esempi di manufatti stradali e di percorsi tipici dell’appennino toscano occidentale, che riguardano in modo particolare la valle del Serchio e la Lunigiana. Come si vedrà, sia il tipo di manufatti che gli approcci dei diversi autori sono molto diversi, in parte dovuti allo stato delle conoscenze e ai criteri impiegati dai singoli ricercatori. Tuttavia, si è ritenuto opportuno presentare queste brevi schede quale esempio di come l’archeologia e la storia del territorio affrontano lo studio dei manufatti stradali. Non si tratta quindi di un catalogo sistematico, e tanto meno di una ricerca di sintesi, ma soltanto risultati di studi, in gran parte ancora in corso, sulle strade di questi territori appenninici. Sono stati scelti in primo luogo degli itinerari, all’interno dei quali è stata evidenziata l’articolazione spaziale e la distribuzione dei singoli manufatti stradali presenti. L’obiettivo è quello di capire in modo concreto come erano organizzati e articolati tutti i servizi e le opere per garantire la continuità dei tracciati.

Sono stati presi in considerazioni alcuni ponti, giacché rappresentano le opere stradali riconoscibili con maggior facilità, e in grado di essere sottoposte in modo più sistematico ad analisi archeologica. Massicciate stradali, muri di sostegno e altre opere sono ancora individuabili con una certa frequenza sia in Lunigiana che nella Valle del Serchio, in modo particolare nel caso di strade locali. Tuttavia, le loro caratteristiche materiali rendono complessa la loro collocazione cronologica ed il loro studio.

Sono stati scelti anche dei luoghi di sosta con caratteristiche differenti, con lo scopo di mettere a luce le forme di utilizzo della strada e la diversità di servizi che offrivano i vari luoghi di sosta. Risulta così molto utile confrontare la morfologia di ospedali come quello di Groppofosco con i magazzini stradali di Gragnola. Infine, San Pellegrino dell’Alpe è un ospedale di passo che presenta delle evidenti analogie ma anche differenze importanti con San Nicolao di Tea, trattato nel terzo capitolo di questo volume.

Juan Antonio Quirós Castillo

3.1 DA GRAGNOLA A CODIPONTE VERSO L’OSPITALE DI TEA

Un ponte antico immetteva la strada proveniente dalla marina e dalla Pieve di S. Martino di Viano nell’abitato del borgo di Gragnola in cui appaiono ancora diverse volte mercantili e botteghe del mercato, mentre in alto, davanti, stava il Castel dell’aquila, sede medievale della podesteria consortile dei Bianchi di Erberia. Usciti dal borgo in piano la strada iniziava a salire verso il castello, probabilmente aggirando la collina su cui è situato e proseguendo a mezzacosta lungo l’Aulella (Fig. 59). Superato il Canale dei Cavallari (cavalieri) giungeva a Tria, a due passi da Strada dove un ramo seguiva verso [124] Codiponte. Codiponte deve, come si è esposto, la

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sua storia al fatto di trovarsi in un punto del fiume Aulella in cui l’alveo si allarga e il corso d’acqua è facilmente guadabile. Perciò, qui, fin dall’età preromana esistette un insediamento, ripreso in età romana quando iniziò a passarvi la strada da Luni a Lucca indicata nella Tabula Peurigeriana. Codiponte in quel sistema rappresentò un luogo di sosta (una mansio). Questa funzione è certamente riconfermata nel medioevo (XI-XII secolo) quando fu edificato il ponte (p. 129). Contemporaneamente fu riedificata anche la pieve dei SS. Cornelio e Cipriano e vi operò una canonica che dovette avere una funzione ospitaliera. A Codiponte infatti convergevano gli itinerari provenienti dal passo dell’Ospedalaccio (l’attuale Cerreto) – chiamato Via di Reggio, forse per la città che raggiungeva ma il nome potrebbe essere anche la deformazione di "via regia" – e quello proveniente da Tea, che deviava probabilmente da Luscignano verso Codiponte. Il ponte perciò rappresentava il punto obbligato di passaggio verso la marina. Il primo tracciato saliva, dopo il ponte, al Quarto – importante toponimo viario romano – quindi raggiungeva Luscignano, abitato sorto su una focetta facile da superare. Qui esistette, in località Gronda, un abitato di età bizantina e poi, nel X secolo, un sepolcreto. [125]

La strada seguiva poi verso Verrucola Bosi e da 1ì saliva alla Pieve di S. Paolo di Vendaso e all’ospitale di S. Lorenzo (l’ospedalaccio). Superato Luscignano la via di Reggio incontrava la via che andava dalla Val di Magra e dal passo di Monte Bardone al passo di Tea. Deviava pertanto verso oriente giungendo, a mezza costa, alla Pieve di Offiano, ove esistette un insediamento dall’altomedioevo. Nell’XI-XII secolo fu edificata la pieve romanica che dovette avere anche una funzione ospitaliera, prima religiosa (un frammento marmoreo mostra la figurina di un pellegrino), poi laica e gestita, nel XIII-XIV secolo, dai Malaspina, come attesta lo stemma dello spino di quella famiglia. Qui il top. Via maiora, vicinissimo alla pieve, conferma il passaggio di un’importante viabilità. Dalla pieve ben tre castelli sembrano essere legati alla strada, Castiglioncello, Montefiore, Regnano. Oltre la pieve la strada passava a fianco del castello di Montefiore (fig. 60), luogo abitato nel XI secolo e menzionato come castello nel XII secolo, e salendo lungo una bella e grande strada selciata nel castagneto, raggiungeva la Villa di Regnano, sito abitato in età romana, attorno al quale sono toponimi stradali evidenti quali taerna (Taverna) e tavernaccia. Dalla Villa provengono tegoloni e una lapide romana. La Villa è dominata dal vicino castello di Regnano, che appartenne nel 1066 a Guinterno di Guido da Regnano signore di una vasta tenuta diffusa di qua e di là dal passo di Tea. [126]

Da Regnano la strada, che in alcuni tratti è lastricata a grandi pietre e raggiunge fino a 4 metri di larghezza, fors’anche di età romana, sale verso le praterie di Tea. Nelle praterie sono venute alla luce reperti archeologici di età romana.

La strada passava nelle vicinanze del toponimo Croce da cui sono venuti alla luce casualmente reperti ceramici tardomedievali. Prima di Croce, la via si biforcava, il ramo di destra deviava verso sud, superando il canale delle Rovine, antico confine fra Lucca e Firenze (alcuni termini e croci di confine scolpiti nella roccia sono ancora visibili lungo la strada) e giungeva alla foce in cui oggi è una Maestà.

Qui la strada si diramava in ogni direzione. Prendendo un ramo verso destra, in pochi passi la strada giungeva all’ospitale di Tea.

Fabio Baroni

3.2 DA SAN MICHELE ALLE PRATERIE DI TEA (fig. 61)

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Il borgo di origine medievale di San Michele (514 m), posto poco meno di 1 Km a ovest di Piazza al Serchio, sulla sponda destra del Serchio di Gramolazzo, si sviluppa ai piedi di una modesta altura su cui si conservano i resti murari di un castello; racchiude, una casa torre in posizione sopraelevata rispetto alle altre abitazioni e si collega con la sponda sinistra del fiume mediante un ponte ad unica arcata.

Questi elementi, visti nel loro insieme, denotano l’importanza rivestita, durante il Medioevo, da questo insediamento: l’iniziativa di costruire – nel X o, al più tardi, nell’XI secolo – il castello (rientrante nel modello "recinto con torre interna in posizione centrale" assai diffuso in Garfagnana), è verosimilmente attribuibile ai Cunimondinghi che di San Michele, Piazza al Serchio e Villa Collemandina fecero i principali centri del loro potere. È ancora da chiarire in che rapporto si ponga la casa-torre con la vicina fortificazione mediante saggi di scavo estesi su quest’ultima; per ora, si può solo ipotizzare che tale importante edificio fosse diventato la sede abitativa dei discendenti dei Cunimondinghi una volta decaduto il castello, probabilmente già durante il Trecento o il secolo successivo. A questo arco cronologico pare infatti databile, grazie alla tipologia delle sue aperture. L’impianto originario della casa-torre, molto modificata durante i secoli, è a pianta quadrangolare di 5x8 m e presenta un paramento murario a filari di bozzette di arenaria ancora osservabile, per circa 6 m in elevato, sul lato settentrionale, direttamente fondato sullo scoglio roccioso affiorante (fig. 62).

Il ponte, infine, si presenta "a schiena d’asino" benché di non accentuata pendenza, con stretta carreggiata e parapetti costituiti, nella parte sommitale, da lastre di arenaria disposte di piatto (fig. 63). L’origine medievale di questo manufatto si deduce, oltreché dalle caratteristiche dell’impianto anche dalla tecnica muraria "a filari", ancora percepibile in prossimità della [127] base dei due piloni saldamente ancorati agli scogli affioranti lungo le sponde del fiume.

A San Michele convergeva la mulattiera, ancora oggi conservatasi lastricata nella sua parte finale, proveniente da Piazza al Serchio (centro nei cui paraggi doveva sorgere l’Hospitale de Castro, non ancora localizzato sul terreno), lungo la quale si trovava la pieve di San Pietro e quella che giungieva dal Poggio, raccordando gli insediamenti di mezza-costa di Roccalberti (535 m), Vitoio (667 m), Casatico (727 m) Casciana-Cascianella (620 m): circa a metà del tratto Cascianella-San Michele si conserva, significativamente, il toponimo Romito, probabilmente da associare ad un’antica struttura viaria avente funzioni di alloggio. Da San Michele, il tracciato proseguiva verso Nicciano-Cortia-Castagnola-Agliano-Gramolazzo e, da qui, per il comprensorio dell’alta Valle Aulella toccando in sequenza i castelli di Minuccia [128] no, Bergiola e la pieve di San Lorenzo. Un’altra diramazione, sempre muovendo da San Michele, interessava, invece, la sponda destra del Fosso di Cragnana, incontrando, in successione, il nucleo di Gragnana, il vicino castello sull’altura di Santa Margherita, Magliano, fino ad arrivare all’ospedale di Tea (995 m).

Su quest’ultima importante direttrice ci soffermeremo descrivendo le emergenze medievali che, risalendola, via via si incontrano. II primo castello che troviamo dopo San Michele è quello posto sull’altura di 567 m, alla confluenza del fosso di Gragnana con il fosso della Prignolaia, poco a nord-est di un agglomerato di rustici denominato Il Podere: di questo castello, abbandonato entro il Medioevo, rimangono i resti del circuito murario dislocati lungo il fianco occidentale del colle. Anche se non documentata, si può ipotizzare l’appartenenza del castello ai signori Da Gragnana, data la vicinanza spaziale con questo centro, loro principale base territoriale. Ai piedi del castello si localizzano i resti di un ponte medievale permettente di attraversare il

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fosso di Gragnana che suggerisce lo stretto legame esistente fra i detentori di quella fortificazione e l’organizzazione della viabilità locale: questo manufatto (fig. 64), ad unico arco, ormai in procinto di crollare definitivamente, presenta la base dei piloni costituita da bozze di arenaria recanti tracce di lavorazione "alla martellina"; la ghiera dell’arco, in cunei di arenaria di uguale misura e il restante paramento murario a filari regolari di ciottoli. Tutte caratteristiche, queste, presupponenti, per la messa in opera, l’apporto tecnico di maestranze specializzate.

Grazie a tale presenza, l’itinerario medievale verso Gragnana acquista certezza: attraversando una campagna ancora in parte coltivata, si sale in breve a questo nucleo la cui origine non si esclude che possa essere legata all’abbandono del vicino castello che sorgeva sull’altura di Santa Margherita. Di questo restano avanzi del circuito murario e, al suo interno, l’edificio della chiesa romanica di Santa Margherita, una cisterna per l’acqua (parzialmente interrata, di Pianta rettangolare di 3x2,6 m e ricoperta da volta a botte), nonché sparsi residui murari riferibili ad unità abitative, concentrate anche esternamente alle mura, sui fianchi terrazzati meridionali del colle. L’imbocco della mulattiera per l’altopiano di Tea è ancora evidente ai piedi settentrionali dell’altura occupata dal castello: il tracciato da 1ì proseguiva ancora risalendo lungo la sponda destra del fosso, alla volta di Magliano e, infine, dell’ospedale di S. Nicolao.

In sintesi, questa strada, muovendo dal fondovalle (San Michele), permetteva di raggiungere la linea di crinale dividente la Garfagnana dall’alta Valle Aulella in circa 11 Km, affrontando un dislivello di 388 m, sostanzialmente tramite la risalita del letto del torrente per il quale non si esclude un utilizzo come sentiero durante la stagione secca. [129]

Lucia Giovannetti

3.3 PONTE DI CHIFENTI O DELLA MADDALENA (BORGO A MOZZANO)

Come per le strade, anche nel caso dei ponti è possibile parlare di una notevole diversità tra quelli collegati ai tracciati principali e quelli minori, vincolati alla viabilità locale. Dei principali ponti che nel medioevo si trovavano nella Valle del Serchio, l’unico che è sopravvissuto in buone condizioni fino ai nostri giorni è il Ponte "del Diavolo", costruzione monumentale situata nei pressi di Borgo a Mozzano, importante centro mercantile (fig. 65).

Questo centro è noto dal XII secolo, ed è sorto nei pressi di un castello (Rocca Mozzano) e di una Pieve (quella di Cerreto), intorno alla quale si disponeva l’Insediamento altomedievale. La formazione di borghi lungo le principali direttrici stradali è un fatto molto frequente in Toscana nei secoli XI-XII, sorgendo talvolta ad una certa distanza dei castelli e delle strutture territoriali precedenti, come per esempio a Borgo a Buggiano. La struttura urbanistica dell’abitato del borgo a Mozzano è tipica dei borghi di strada, poiché è formata da due allineamenti di case che si affacciano alla strada, tranne nel punto dove si trova l’attuale piazza del mercato. In questo modo, la crescita del centro si è sviluppata longitudinalmente, seguendo il tracciato della strada, che può essere definita perfettamente come l’asse generatore di questo abitato. Può essere significativo indicare come alla metà nel XVII secolo c’erano settantaquattro botteghe su un totale di centoventidue strutture edilizie.

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Il Ponte di Chifenti – noto come Ponte della Maddalena a seguito della costruzione dell’omonimo oratorio nel XVI secolo, e conosciuto comunemente come "Ponte del Diavolo" – sorge ad un chilometro a nord del Borgo a Mozzano, nei pressi della confluenza del fiume Serchio con il fiume Lima. All’incrocio tra i due fiumi sorgeva già nell’altomedioevo una località nota come Chifenti, toponimo che si riferisce proprio alla confluenza dei due corsi d’acqua. Il fiume Lima è il principale affluente del Serchio, e costituiva una delle vie naturali d’accesso verso i passi appenninici che conducevano verso Modena e Bologna. Il ponte, quindi, assicurava il collegamento della via che risaliva la Lima con la riva destra del Serchio, dove correva la viabilità principale e si trovava l’importante mercato e punto di sosta di Borgo.

Come altri ponti della Lucchesia, anche questo aveva nelle sue vicinanze una struttura religiosa che poteva eventualmente svolgere funzioni assistenziali nei confronti dei viandanti che utilizzavano il ponte. Spesso si trattava di ospedali, come presso il Ponte del Popolo o di Moriano. Nel nostro caso, dalla metà del XIII secolo è documentata l’esistenza del Romitorio di San Francesco del Ponte di Chifenti, posto nel Monteventoso, che si trova sopra il ponte. Inoltre, nel XVI secolo fu fondato il già ricordato oratorio della Maddalena. Probabilmente queste strutture non erano adatte al ricovero dei viandanti, in quanto il vicino centro di Borgo a Mozzano disponeva di numerose strutture che svolgevano questa funzione. [132]

Mancano notizie riguardanti opere o istituzioni dedite alla manutenzione del ponte. Nel XVII secolo la manutenzione fu affidata dalla Repubblica lucchese alle vicarie di Borgo a Mozzano e di Corsena, situata nella valle del fiume Lima, ma che aveva nel ponte la via preferenziale per la comunicazione con Lucca e con la media Valle del Serchio.

Si tratta di un ponte di oltre 90 metri di lunghezza, che presenta un tracciato leggermente diagonale rispetto all’andamento del letto fluviale. È costituito da quattro arcate, delle quali la centrale raggiunge attualmente i 18,5 m di altezza, anche se lo specchio d’acqua è stato rialzato cinquanta anni fa con la costruzione di una diga per la produzione di energia elettrica.

Benché la carreggiata stradale sia ampia (2,8 m), la forte pendenza del ponte a schiena d’asino non permetteva l’uso dei carri. Tuttavia, il ponte era usato anche per il passaggio di merci ingombranti se nell’anno 1670 fu necessario per la vicaria del Borgo proibire il passaggio con ceppi o macine da molino, che indubbiamente potevano recare danni ai parapetti e alla struttura del ponte.

Una tradizione risalente al Quattrocento attribuisce la sua fondazione alla contessa Matilde di Canossa (1074-1115). Anche se sono numerose le costruzioni di edifici di diversa natura attribuiti alla leggendaria contessa in tutto l’Appennino, questa notizia trova conferma in una lapide datata nell’anno 1101, forse non coeva alla costruzione attuale, e murata ancora nel secolo scorso nell’ultimo pilastro del ponte. È inoltre ricorrente la notizia che Castruccio Castracani, signore di Lucca, restaurò il vecchio ponte matildino, oltre a diversi ponti nella Valle del Serchio.

La lettura stratigrafica della struttura (fig. 66) ha permesso di evidenziare l’esistenza di otto fasi diverse, delle quali soltanto quella iniziale si può datare in base alla tecnica costruttiva nel periodo medievale. A questa fase appartengono le quattro arcate ancora oggi presenti, realizzate con grandi cunei di calcare bianco e arenaria, e probabilmente una quinta distrutta nel secolo scorso (fase 8) dalla costruzione della ferrovia. La muratura è stata realizzata con conci e bozze di calcare bianco, che sono esclusive di questa fase costruttiva. Purtroppo non si dispone di elementi cronologici che permettano di datare con precisione questa attività, anche se la tecnica di

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lavorazione della pietra non esclude la sua attribuzione ai secoli XII-XIII, in fase con la lapide già menzionata.

Se la struttura portante è rimasta in sostanza inalterata dal medioevo fino ai nostri giorni, le spallette e la parte superiore del ponte hanno invece dovuto subire diversi interventi restaurativi nel corso dei secoli, a seguito dei danni causati dalle piene, in modo particolare negli archi minori. L’arco maggiore, con la sua notevole altezza, non rappresenta, infatti, un ostacolo ai detriti e ai materiali che trascina il fiume nelle piene, e che colpiscono invece le strutture più basse, causando notevoli danni. Sono documentate almeno quattro fasi di restauro databili nei secoli XVI-XIX. Probabilmente una di [133] queste fasi di restauro si deve far risalire alla piena dell’anno 1836, quando fu neccssario intervenire pesantemente sulla struttura, anche se non venne modificato l’assetto del ponte. Altri accorgimenti importanti sono stati la costruzione e i frequenti restauri degli antibecchi presenti su tutti i piloni a monte, e su di uno a valle, destinati a proteggerli dal contatto diretto del flusso dell’acqua.

Juan Antonio Quirós Castillo

3.4 IL PONTE SUL FIUME CORFINO (LOCALITÀ MOLINO DI VILLA)

I resti di un ponte medievale in Località Molino di Villa (501 m), in vicinanza di Villa Collemandina, affiorano "ad intermittenza", durante l’anno, quando si abbassa il livello del piccolo lago artificiale che, in quel punto, convogliando le acque del Fiume di Corfino per sfruttarle a fini idroelettrici, ha modificato non poco l’originario ambiente naturale.

Di questo manufatto stradale non si conservano la carreggiata né i relativi parapetti, ma solo parte dell’arcata a tutto sesto caratterizzata da conci di arenaria parallelepipedi e di uguale altezza formanti la ghiera e da un paramento murario a ciottoli fluviali disposti su filari orizzontali, legati da malta oggi in gran parte dilavata (fig. 67): si tratta di materiale costruttivo facilmente reperibile in loco, verosimilmente prelevato dallo stesso letto del fiume. Lo spesso deposito di limo che ingombra buona parte dell’antico letto del fiume, sembra ricoprire e, allo stesso tempo, proteggere dall’azione dilavante dell’acqua, i resti del corpo centrale del manufatto che dobbiamo dunque immaginare, in origine, di dimensioni molto maggiori di quanto non appaia oggi. Sono inoltre ancora visibili alcuni lacerti murari pertinenti all’elevato del ponte, scomposti e dislocati presso questo, lungo la sponda sinistra del lago. Forse si caratterizzava di tre arcate al pari del ponte di Bacciano sul Serchio, posto nei pressi del viadotto ferroviario di Villetta e di quello di Pontecosi che il Micotti, ancora nel 1671, descriveva sommariamente come “ponte di pietra di tre grand’archi sopra il Serchio”.

Durante il Medioevo e probabilmente fino a tutto l’Ottocento, il ponte di Villa era funzionale a raccordare i villaggi separati dal corso del Fiume di Corfino: vale a dire, citando quelli più vicini, Corfino, Canigiano e Pianacci (sulla sponda destra) e Sassorosso, Massa, Magnano e la stessa Villa (sulla sponda sinistra). Sicuramente era un punto centrale della viabilità locale cui verosimilmente convergevano molte mulattiere; importante anche per trovarsi nelle immediate vicinanze di un mulino, ancora oggi esistente in vesti post-medievali.

Grazie alla presenza di altre emergenze archeologiche dello stesso periodo, siamo in grado, a partire dal ponte di Villa, di esaminare un itinerario, oggi non più in uso, con una certa sicurezza ricostruttiva, almeno fino al passo delle Forbici (fig. 68),

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descrivendo, in questo modo, le caratteristiche “tecniche di un tracciato appenninico della Garfagnana medievale. [135]

Dal ponte appena descritto, la mulattiera muoveva, pressoché in falsopiano, alla volta di Villa, uno dei più importanti castelli della signoria dei Cunimondinghi da cui deriva, di fatto, l’appellativo di Collemandina. Da qui la strada si inerpicava (il tratto iniziale della salita si presenta ancora lastricato) alla volta di Massa, prima costeggiando le pendici occidentali della modesta altura (località Collettone) su cui sorgeva un piccolo castello, non documentato storicamente, ma di cui oggi sono ancora visibili parte del perimetro murario e degli ambienti interni, ridotti al livello delle fondamenta. Da Massa (821 m) la strada proseguiva in salita per il castello di Sassorosso (1101 m) (fig. 69) e da 1ì continuava, ancora guadagnando quota, fino alla Foce di Terrarossa (1l41 m). Costeggiando le pendici orientali del Monte Aquilaro e del Monte Alto, giungeva all’ospedale di Santa Maria di Buita (1449 m) e, dopo questo, al passo delle Forbici (1574 m), attraversato il quale si immetteva nel territorio di Reggio Emilia.

Una variante di questo tracciato verso l’ospedale di San Pellegrino e, quindi, il territorio di Modena, sembra individuabile, dal primo rilievo del1’Istituto Geografico Militare in scala 1: 25000, all’altezza della sella che divide le due alture prima citate.

Qui si staccava infatti un sentiero che piegava verso sud in direzione del castello di Verrucchio (880 m) e, da questa località, proseguiva nuovamente verso nord alla volta di Valbona, nucleo posto sul Fiume di Castiglione. Superato questo corso d’acqua il tracciato si articolava in senso trasversale al pendio e, in poco più di 2 Km, raggiungeva San Pellegrino (1524 m). [136]

Riassumendo i caratteri tecnici del primo tracciato: Ponte di Villa-Passo delle Forbici, vediamo che, articolandosi in gran parte lungo (o poco sotto) la linea di crinale, presentava una lunghezza approssimativa di 13 Km entro i quali permetteva di affrontare un dislivello di ben 1073 m: fattibile in una giornata di cammino da un infaticabile viandante, privo però di pesante carico a seguito, che volesse lasciare il territorio della Garfagnana alla volta di quello di Reggio Emilia.

Lucia Giovannetti

3.5 IL PONTE DI PONTEBOSIO (LICCIANA NARDI, MASSA)

Pochi sono i ponti che hanno resistito alla furia dei fiumi (a regime torrentizio) della Lunigiana e quasi nessuno è rimasto intatto nelle forme in cui fu costruito nel medioevo avendo subito ricostruzioni e rifacimenti. Famoso è il ponte di Caprigliola, posto alla Bettola, che campeggia distrutto ma evidente nell’alveo del Magra, o il Ponterotto, oggi località a poca distanza da Pontebosio e Monti, già ricordato così in una carta secentesca dell’Archivio di Stato di Massa. [137]

Tuttavia ci soccorre la toponomastica medievale che indica diverse località che trassero nome dai ponti in Lunigiana e Garfagnana (Pontremoli, Codiponte, Ponteccio, Pontecosi, Ponte Populi, Ponte a Moriano, ecc.). Pontebosio è una di queste (fig. 70).

Nel l254, alla morte di Opizzino Malaspina, creatore della linea dello Spino fiorito di quei marchesi che controllavano le terre alla sinistra del Magra, i suoi tre figli si divisero il feudo. Dei tre, Bernabò ottenne i castelli di Varano, Groppo S. Pietro, Olivola e Pontebosio.

Viene così citato per la prima volta il castello e una terra che assunse il suo nome dal manufatto stradale che ancora oggi vi appare, il ponte. Anzi, proprio come "Ponte" è ricordato il castello che diede origine, in successive divisioni dei Malaspina,

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ai marchesi del Ponte, nel XVII secolo (fig. 71). Tuttavia il toponimo non rileva solo l’esistenza di un manufatto fondamentale per la viabilità ma anche, con tutta probabilità, i suoi fondatori e protettori antichi: i Bosi, famiglia canossana signora del castello della Verrucola, imparentata con un altro importante vassallo matildino, Rodolfo da Casola con cui condivise il monastero di famiglia di Monte dei Bianchi e che, con lui, diede vita alla più forte famiglia premalaspiniana della Lunigiana orientale, i Bianchi di Erberia. [138]

Se, come pare verosimile, il Pontebosio fu un ponte fondato dalla famiglia dei Bosi della Verrucola, ciò documenterebbe in maniera chiara l’attenzione ed interesse della famiglie del potere laico, dal medioevo pieno, a fianco all’impegno dei Comuni, delle Chiese e dei monasteri, nella costruzione, manutenzione e cura della viabilità.

Ed anche l’interesse economico e politico di Matilde e dei Canossani per il collegamento con la Lunigiana e il mare attraverso Linari, l’Ospedalaccio e Tea.

Naturalmente ciò confermerebbe anche che esisteva un’economia viaria, nell’area di strada della via Francigena, sia sul fondovalle della Lunigiana che verso l’appennino e il fondovalle della Garfagnana e Lucca, cui le famiglie del potere locale erano interessate e partecipi dirette.

Il titolo della chiesa parrocchiale di Pontebosio, S. Jacopo Apostolo, potrebbe rimandare ad una fondazione operata da un ordine ospitaliero importante che ebbe fama di ordine "pontiere", i Frati del Tau di Altopascio, la cui presenza è documentata nell’area di Licciana, da cui dipende oggi Pontebosio, ove, sia nelle titolazioni delle chiese che in altri segni, appare la presenza del culto jacopeo, unito in maniera estremamente interessante al culto lucchese del Volto Santo.

L’ordine – legato a Lucca ed a Matilde (che la voce comune, già nel XII secolo, vuole fondatrice dell’Altopascio) – poteva avere rapporti anche con i Bosi della Verrucola, poiché il titolo della chiesa di Fivizzano, realtà ospitaliera, fu, ab antiquo, S. Jacopo Apostolo.

Tuttavia non si ha documentazione diretta e probante della fondazione del ponte da parte dei Bosi.

Il ponte, tuttavia, dovette sorgere nell’epoca, fra XI e XII secolo, in cui probabilmente venne edificato anche il ponte di Codiponte e si sviluppò fortemente Pontremoli anche grazie ai suoi ponti sulla Francigena. La stessa fase in cui i passi si attrezzano, chi di nuovo, chi per la prima volta, con ospitali di cui molti non sono legati agli ordini ospitalieri più famosi e pertanto non sembrano funzionali, almeno principalmente, alla viabilità religiosa, come è il caso di Tea.

Si vuol dire che appare una fase in cui il territorio della Lunigiana e della Garfagnana, dell’appennino e delle Apuane è investito da una forte iniziativa di attrezzatura viaria fatta di apertura o riutilizzo di strade, costruzione di ponti, fondazione o rifondazione di ospitali e monasteri. Un’opera in cui sono impegnati fortemente tutti i protagonisti, laici e religiosi, fra cui appare certamente verosimile l’opera dei Bosi della Verrucola. Il Ponte di Pontebosio appare utile alla viabilità di fondovalle (superando uno dei maggiori affluenti del Magra, il Taverone), alla viabilità verso l’Abbazia di Linari e l’Appennino, alla viabilità verso le pievi di Soliera, Offiano e Tea in direzione Lucca e il suo territorio.

Il Ponte Bosio, nel 1355 venne in dominio dei Malaspina di Villafranca. [140] Successivamente, col titolo di "Marchesi del Ponte" si fregiò uno dei tanti rami

dei Malaspina. Resta ancora un termine di confine fra i territori dei marchesi di Bastia e quelli di Pontebosio, datato 1574, collocato davanti al portone del castello di Bastia.

II Ponte antico appare ancora, situato in basso sotto l’attuale ponte carrozzabile. Si tratta di un manufatto a quattro archi, di diversa dimensione, lungo circa 40 metri e

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largo circa 3,5 metri, compreso lo spazio delle murelle laterali oggi abbattute, per cui la parte transitabile doveva essere larga circa 2,5 metri.

Il piano del ponte si alza leggermente a schiena d’asino sul secondo arco dalla sponda sinistra per discendere subito e tornare in piano. Stranamente la sua altezza sull’acqua del fiume è molto breve, non raggiungendo i 4 metri e mezzo nel punto più alto, forse, ma non del tutto, per effetto dell’innalzamento dell’alveo. È strano considerando che il Taverone è un corso d’acqua che ha sovente comportamenti torrentizi con piene improvvise e capaci di ingrossare enormemente il suo corso. Tuttavia non pare che il ponte, nella sua struttura attuale, abbia subito ricostruzioni, perciò il manufatto pare originario. Benché più basso e corto, somiglia molto al ponte di Codi ponte come appare da un disegno del 1874, che precede le forti trasformazioni di fine ‘800-inizi’900. Porta anch’esso, come Codiponte, una maestà marmorea con evidente funzione protettiva. E in posizione leggermente obliqua rispetto al corso del fiume e termina, verso la sponda sinistra, in un breve portico, anche in questo come a Codiponte. Superato il portico la strada si biforca: un ramo conduce all’abitato ed al castello di Pontebosio e poi continua lungo il Taverone (doveva essere questo che anticamente correva verso la Pieve di Soliera e la Garfagnana). Il secondo ramo della strada continua verso Aulla. Dal lato destro la strada gira subito dopo il ponte, da una parte, verso la Pieve di Venelia a Monti e, dall’altra, verso Licciana e Linari. Appare così come un ponte di svincolo cui affluiscono le principali vie antiche dell’area.

3.6 IL PONTE DI CODIPONTE (CASOLA IN LUNIGIANA)

Questo luogo dovette essere punto di guado dell’Aulella fin dalla protostoria quando i pastori transumanti si volgevano verso il mare per svernare il bestiame (Fig. 72). Vi era allora un insediamento ligure che doveva avere già funzione di luogo di scambio e produzione di cui sarebbero indizio un frammento di bucchero, segnale di contatti con i commercianti etruschi, e lo scarto di fusione di ferro che potrebbe parlarci di un’attività di metallurgia. In età romana la viabilità interessò certamente il luogo – che fu ancora insediato – come appare dai due toponimi di Strada e Quarto posti di qua e di là dal fiume. Tuttavia per tutta l’età antica non si ha documentazione di un ponte. Forse vi fu allora solo un guado. Nel 793 a Sancto Cipriano [141] transmontem Walprando di Prandulo fece negozi per suoi beni. Nel 1050 circa tal Gotulo de Sancto Cipriano appare fra i testimonl all’atto in cui Rodolfo da Casola si impegnava ad incastellare il poggio dov’era la Pieve di Santa Maria di Soliera. San Cipriano era il nucleo di case posto attorno a quella che fu la Pieve di San Cornelio e Cipriano, nel luogo che assunse, successivamente, il nome di Codiponte. Tuttavia il toponimo appare solo quando fu fondato un abitato in fondo ad un ponte citato per la prima volta nel 1148 come Capite pontis. Si trattava dell’atto in cui Eugenio III confermava al Vescovo di Luni le molte pievi della diocesi. Il toponimo appare indicativo di due elementi. Il primo è che, fra XI e XII secolo, in quel luogo venne edificato un ponte sulla via che conduceva dall’Appennino e da Tea alla marina, un ponte così importante da dare il nome alla località (com’era successo a Pontremoli, a Pontebosio, a Ponteccio, ecc.). I1 secondo è che quel ponte venne immediatamente collegato ad un nuovo abitato – che assunse il nome di Codiponte dalla sua ubicazione – il quale appare fondato in funzione di protezione del ponte e della strada da parte di chi controllava il ponte stesso. Costoro erano probabilmente i signori noti come i Nobili di Codiponte, famiglia legata ai Bianchi di Erberia. Suo fu probabilmente il castello (la Rocca) che ancora oggi appare sul poggio da cui diparte il ponte e che dà

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il nome al borgo murato che lo circonda. Ad esso giungeva un ramo della strada [142] appena superato il ponte, mentre un altro andava verso "Strada", Cragnola e la Val di Lucido. Dalla parte opposta la strada, con il nome di "Via di Reggio" valicava a Luscignano verso Fivizzano oppure si dirigeva verso Casola.

Fu questo manufatto stradale a dare importanza e ricchezza al luogo come appare dalla pieve che vi fu edificata nelle forme delle chiese dette "bianche" per il materiale calcareo con cui vennero costruiti molti edifici in garfagnana e Lunigiana. La presenza del ponte, unico punto di passaggio dell’Aulella verso il mare, nella parte alta della sua valle, dovette essere giustificato e, conseguentemente, favorire una vivacità di traffici economici, politici e religiosi. Il castello fu in possesso dei Malaspina nel XIII-XIV secolo e per brevissimi periodi anche dei Lucchesi. Ma furono i fiorentini a utilizzare al meglio la funzione commerciale del ponte di Codiponte. Dal 1419 qui sorse la prima Podesteria fiorentina in Lunigiana collegata direttamente con Pietrasanta, terra fiorentina, attraverso Vinca e i suoi passi sulle Apuane. Nel ‘400 e’500, con Firenze, Codiponte vede crescere attività produttive e commerciali importanti come documentano le insegne di botteghe artigiane di conciatori/calzolai, di tessitori, di sartori. Nel 1562 un censimento sugli "artieri" evidenzia, nella Podesteria, fra le molte attività, una notevole presenza di tessitrici che lascia intendere l’esistenza nel territorio di imprenditori che occupavano manodopera femminile, scelta perché pagata molto meno degli uomini. La presenza di un ospitale, forse religioso, nel 1494 e di un’osteria della comunità manifesta anche una struttura di ospitalità nel borgo, anche a pagamento.

Per quanto riguarda il manufatto, dal 1566 si inizia la documentazione sistematica relativa ad esso ed alle spese occorse (fig. 73). Non appaiono spese per ricostruzioni totali (salvo il rifacimento di un arco alla fine del 700) o per allungamento del ponte stesso per cui si può affermare che dalla seconda metà del XVI secolo almeno il ponte era come appare nei disegni della fine dell’800. Un disegno è molto interessante: mostra un ponte a tre archi con il piano di calpestio molto più ribassato rispetto all’attuale e con andamento non piano ma seguente leggermente le curvature degli archi a formare due schiene d’asino poco accentuate. In questo aspetto è simile al ponte di Pontebosio. Il ponte parte in piano, alto, dalla parte sinistra ed è collegato alla roccia da cui iniziava la "Terra" di Codiponte, come è indicata in documenti post medievali, e degradava dalla parte opposta nel greto del fiume, senza tuttavia attraversare tutto l’alveo dello stesso, che è molto largo in quel punto. Peraltro in quel disegno il fiume appare correre sotto il primo arco a sinistra, mentre oggi quell’arco è in gran parte interrato e non interessato dal fiume che utilizza, dividendosi in due rami, gli altri archi. Ciò è probabilmente dovuto alla funzione dei pennelli posti a monte del fiume. Il fatto che il ponte non collegasse sponda a sponda (l’alveo è molto largo) ma degradasse nell’alveo permise al fiume di uscire più volte, nel corso della [143] storia, dagli archi costringendo la comunità a spese continue per riportare il fiume sotto al ponte (sovente dovette essere costruito un "pedagno" o "pedagio" o "ponte di travi" o "scalone" per superare il fiume quando questo non passava più sotto il ponte. Per quel motivo venne costruito un argine trasversale che collega il ponte alla sponda destra del fiume su cui è il piano stradale.

Nel ‘500 il ponte appare come luogo pubblico centrale tanto che vi vengono fatte le riunioni della Comunità di Codiponte per mettere all’incanto i beni comunali. Nel 1672 si rifecero le murelle e il lastricato sul ponte. Nel 1703 vi venne costruita a protezione una maestà fra il secondo e il terzo arco. Si nota che su quella maestà è murata una formella in marmo che mostra una croce che somiglia molto allo stemma della Città di Pisa. L’immagine attualmente esposta è modernissima: del 1936, anno

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di una piena straordinaria, ma è inserita nell’antica cornice settecentesca e porta due mensole in marmo con santi: forse Cornelio e Cipriano o fors’anche, ma è molto dubbio, il Volto Santo. Lavori vennero fatti anche nel 1706 quando fu ricostruita una murella laterale.

Tra il 1772 e il 1779, invece, accadde qualcosa di ben più grave perché risulta che il ponte fosse, a quell’epoca, mancante di un arco. Benché probabilmente fosse stato ricostruito l’arco, nel 1821, una relazione, lo descriveva come pericolante. Dall’analisi della struttura muraria appaiono con evidenza [144] due crolli. Il più antico è relativo al primo arco costruito con una prima fase di pietre squadrate di arenaria di notevoli dimensioni, su cui si innestava una muratura a filaretto evidentemente spezzata a circa 2,80 m di altezza. La rottura è evidente sulle due pile. La tipologia di muratura della ricostruzione può ben datarsi a1’700-’800. Le murelle appaiono ulteriormente successive. Evidente è anche la differenza della finitura a scalpello delle pietre d’arco più antiche ed erose rispetto alla parte ricostruita. Pericolante era invece il terzo arco da cui la strada digradava perché la sua testa veniva a trovarsi isolata e senza appoggio al centro dell’alveo del fiume e colpita direttamente dall’acqua e pietre durante le piene. Non a caso quella pila crollò col terzo arco alla fine dell’800 e, fra quel secolo e il successivo, fu ricostruito in mattoni. Venne anche creato l’argine fino alla sponda opposta già ricordato e rialzato il piano del ponte al fine di rendere pianeggiante la strada che vi transitava sopra. L’arco fu costruito non seguendo la linea del vecchio manufatto creando così, all’altezza della Maestà, un angolo. Pertanto, forse solo l’arco centrale non ha subito crolli nella lunga storia del ponte. Oggi il Ponte di Codiponte è un manufatto stradale lungo 35,50 m, largo 3.25 m (con le murelle, per cui la strada misura 2,40 m) ed alto sul livello del fiume 6.90 m. La Maestà è posta a circa 21 m dalla sponda sinistra del ponte.

Fabio Baroni

3.7 LE "VOLTE" DI GRAGNOLA

Gragnola è un centro di formazione medievale ubicato in Lunigiana presso la confluenza del torrente Lucido con l’Aulella. Si trova in posizione favorevole, all’ingresso della Valle del Lucido, lungo la viabilità maggiore che nel medioevo doveva passare per l’attuale via del Borgo e attraversare il fiume per il ponte ancora esistente, che collega il centro con Cortila.

Una delle prime attestazioni di Gragnola è del 1162, in un atto in cui sono donate delle terre poste in questa località al monastero di San Michele Arcangelo di Monte dei Bianchi. Negli anni ottanta del XII secolo diventa sede podestarile dei Bianchi d’Herberia, signori di questo territorio, che avevano il loro centro nel castello di Monzone. Emerge già in questo periodo il forte ruolo commerciale che Gragnola svolge all’interno della valle e nei rapporti con i territori circostanti. Nei documenti compare sempre il "foro" dove viene redatta la maggior parte degli atti notarili tra il XII e il XIV secolo e ricorre spesso il riferimento ad un’unità di misura locale.

Gli studi condotti nella Lunigiana orientale negli ultimi decenni hanno dimostrato come in ogni valle era presente un centro a carattere mercantile che svolgeva la funzione di accentrare e ridistribuire le risorse economiche locali e i prodotti d’importazione. Nell’alta Valle Aulella per esempio questo ruolo è svolto da Casola di Lunigiana, dove l’analisi architettonica ha evidenziato la presenza di numerose botteghe, databili dalla fine del medioevo. Un [145] altro esempio è Fivizzano nella Valle del Rosaro, che è posto lungo la via che dal litorale conduceva, attraverso il passo del Cerreto, a Reggio.

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Il centro di Gragnola presenta, come Casola, un’edilizia storica molto interessante che conferma i dati offerti dalle fonti scritte, soprattutto riguardo all’aspetto commerciale.

Il nucleo antico si articola intorno alla via di Borgo, lungo la quale sono presenti numerose botteghe, databili tra il XV al XIX secolo, mentre altre si trovano nelle vie parallele (fig. 74). Si osserva quindi una continuità dell’aspetto commerciale di questo abitato con la presenza di botteghe anche nella parte più recente verso la ferrovia databili al XVII-XIX secolo. Questa area, che coincide con il settore nordorientale di Gragnola, doveva comunque trovarsi sulla via di accesso al borgo già in età medievale, in quanto è stato individuato almeno un edificio medievale, databile al XV secolo.

Significativa è la presenza nel centro di alcune strutture identificabili con le "volte" medievali, che sono documentate in numerosi centri dell’Appennino sia Ligure che Lunigianese.

Si tratta di strutture che svolgevano la funzione di caravanserragli per i mercanti, individuabili, rispetto agli alberghi per semplici viaggiatori, dalla presenza di magazzini e stalle. Si sviluppavano solitamente su due piani di cui il superiore era destinato all’alloggio dei mercanti, mentre quello inferiore era adibito al ricovero delle bestie da soma e per il deposito delle merci (MANNONI 1994-95). Questi edifici erano presenti sia nei centri urbani che isolati lungo le strade, spesso collocati presso i passi appenninici. In quest’ultimo caso, svolgevano la funzione, non solo di appoggio ai mercanti in viaggio, ma anche quella di dogana e di esazione del pedaggio. Sono particolarmente note le "saliere" dell’appennino ligure, veri depositi di questa merce che era monopolio della Repubblica di Genova. Queste strutture erano decisamente più grandi di quelle urbane, dovendo accogliere un numero elevato di mercanti e merci, che in città era diviso tra più edifici.

Gli edifici individuati come volte stradali sono al momento tre, ma solo uno conserva, nonostante gli interventi recenti, le forme caratteristiche di questa tipologia edilizia.

L’accesso è costituito da un ampio corridoio voltato (fig. 75), che conduce in un piccolo cortile interno, dove sono le scale che portano ai piani superiori (fig. 76). È probabile che in origine l’edificio fosse di solo due piani, e sia stato rialzato successivamente di un ulteriore piano. Sia sul corridoio che sul cortile si aprono diversi ambienti, per lo più privi di finestre e sempre voltati. Particolarmente interessante è un vano con pavimento lastricato presente sul lato opposto all’ingresso, dotato di un passaggio verso la zona ad orto retrostante, che costituisce il limite del centro medievale. La presenza di due accessi alla zona dei magazzini è, infatti, una caratteristica ricorrente nelle volte stradali, in quanto rendeva più agevole l’ingresso e l’uscita delle bestie dei mercanti (fig. 77).[146]

L’edificio è completamente intonacato, impedendo quindi l’individuazione di eventuali fasi medievali. Gli elementi visibili sono i portali e le finestre, che si possono dividere in due tipi, per la loro morfologia e rifinitura, databili entrambi nel XVII secolo.

Questo tipo di struttura, così articolata, è progettata e realizzata appositamente per questa funzione ricettiva, con ampi spazi e accessi agevoli per merci e animali. Ciononostante è molto probabile che anche gli altri edifici del borgo, che non presentano simili caratteristiche, offrissero questo tipo d’ospitalità, affittando le proprie stalle e le stanze a piani superiori. Questa attività, meglio documentata nel caso di Lucca, costituiva sicuramente una importante risorsa economica per gli abitanti del centro.

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Sonia Gobbato

3.8 SAN PELLEGRINO DELL’ALPE (CASTIGLIONE GARFAGNANA)

Lo studio archeologico e architettonico degli ospedali medievali risulta molto difficile poiché gran parte di essi furono abbandonati nei secoli XIV-XVI, quando si posero nuove forme di assistenza e si diffuse l’ospitalità a pagamento. È, quindi, difficile attualmente riconoscere le strutture adibite al ricovero dei viaggiatori, rimanendo in elevato soltanto gli edifici di culto collegati agli ospedali (fig. 78). [149]

Non tutte queste strutture sono scomparse. Gli ospedali situati presso i passi di montagna, che potevano contare su situazioni politiche o economiche favorevoli, sono sopravvissuti fino ai nostri giorni. I complessi di Roncisvalle (Navarra, Spagna) o del Gran San Bernardo (Vallais, Svizzera), sono alcuni degli esempi più importanti.

In Lucchesia una delle evidenze più notevoli è costituita dall’ospedale di San Pellegrino in Alpe, situato a 1525 m s.l.m. nei pressi dello spartiacque appenninico che separa Modena da Lucca. L’ospedale è documentato dall’anno 1110, ed è possibile che sia stato fondato agli inizi del XII secolo, nel periodo in cui si formò un’organica struttura stradale nel territorio di Lucca, che comportò la costruzione di un notevole numero di ospedali e strutture viarie. Vicino a San Pellegrino fu anche costruito l’ospedale di Santa Maria Buita, nei pressi del passo delle Forbici, e quello di San Gemignano sul versante modenese (ANGELINI 1996).

Il passo di San Pellegrino ebbe una notevole importanza commerciale durante i secoli XII-XIV, quando furono stabiliti alcuni patti tra Lucca e Modena destinati a garantire la fruibilità del percorso e la sicurezza dei mulattieri che utilizzavano il passo. Quello dell’anno 1306 stabiliva l’istituzione di un servizio di rimozione della neve (SZABÒ 1991).

I cambiamenti nelle forme di assistenza viaria comportarono nel bassomedioevo l’abbandono di buona parte degli ospedali, e soltanto quelli legati a una viabilità regionale, come quello di San Pellegrino, sono riusciti a sopravvivere. San Pellegrino è quindi uno dei pochi ospedali conservati in elevato e in uso, in pratica, fino alla metà del XIX secolo, quando fu realizzata la strada del passo delle Forbici. Recentemente è stato ripreso e ricostruito, diventando la sede del Museo Etnografico Provinciale "Don Luigi Pellegrini". Le ragioni di questa continuità della vita della struttura vanno cercate, in modo particolare, nel ruolo svolto nei rapporti viari tra Modena e la Garfagnana una volta che la Valle del Serchio passò, dal 1430, sotto il dominio Estense. Anche alla fine del XVIII, quando si ammodernò la rete viaria per opera di Domenico Vandelli, la nuova via fu fatta passare da San Pellegrino.

In questo caso la sopravvivenza di San Pellegrino, dopo la ristrutturazione nei secoli XIV-XVI delle reti mercantili lucchesi, ha una base di tipo politico, poiché c’era la necessità di mantenere attiva una rete assistenziale vincolata ai frequenti spostamenti sui due versanti appenninici. La costruzione nel periodo rinascimentale di un’osteria nei pressi dell’ospedale, quando si affermarono le strutture assistenziali a pagamento, non comportò in nessun modo la crisi della struttura. Le due strutture hanno convissuto, ed entrambe hanno registrato in modo parallelo periodi di espansione e crescita nei secoli XVII-XVIII.

È anche importante rilevare come questa continuità dell’ospedale nei secoli XV-XIX sia indissolubilmente legata alla sua soggezione ad una delle più potenti famiglie lucchesi del momento: i Nobili. La loro presenza come [150] patroni e rettori dell’ospedale è documentata dalla metà del XV secolo almeno fino al nostro secolo.

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Le principali riforme e ampliamenti dell’ospedale sono legati ad interventi realizzati dai rettori appartenenti a questa famiglia. La sua posizione sul confine tra lo Stato Estense e quello lucchese, è stata causa di contrasto tra le comunità vicine, frutto del quale è la conservazione presso gli archivi di Lucca e di Modena di una ricca documentazione cartografica riguardante i secoli XVI-XVIII, che si occupano anche nei particolari delle caratteristiche dell’ospedale.

La struttura si presenta attualmente come un edificio massiccio, quasi fortificato, al quale si accedeva soltanto attraverso due porte che danno accesso ad una strada coperta che attraversa all’interno la costruzione, e che costituisce il tratto della strada Ducale o Imperiale che comunicava il territorio di Modena con quello di Lucca. Nelle carte storiche compare da entrambe le parti dell’ospedale uno steccato ed altre murature che obbligavano tutti i viandanti e le bestie a passare all’interno della struttura. All’ingresso era presente un corpo di guardia, mentre poco distante e indipendente dall’ospedale era l’osteria.

Il complesso architettonico attuale è frutto di numerose fasi costruttive distribuite nel corso dei secoli XII-XX (fig. 79). Le costruzioni più antiche sono state la chiesa e un ospedale a sala disposto su due piani. Mentre le fasi più antiche della chiesa si possono far risalire al XII secolo, l’ospedale si presenta attualmente molto trasformato, e non risulta agevole il suo studio. Una prima fase di ampliamento è avvenuta sicuramente nel XIII secolo, quando si fa riferimento a una nuova casa dell’ospedale. Un’altra importante fase va fatta risalire al XV secolo, e in modo particolare al 1461 circa, quando la struttura passò nelle mani della suddetta famiglia dei Nobili. Probabilmente già in questa occasione il tracciato della strada fu inglobato all’interno dell’impianto, costruendo una prima arcata di delimitazione dell’accesso all’ospedale, ancora conservato. Altri ampliamenti significativi si possono far risalire al XVII secolo, sempre per iniziativa dei Nobili, che fecero ricostruire parte della chiesa e alcuni nuovi ambienti. Infine, si possono attribuire ai secoli XVIII-XIX nuove trasformazioni di minor entità. In questo secolo è stata realizzata la canonica e profondamente modificato l’assetto della chiesa. L’osteria, esistente già dal XVII secolo, fu notevolmente ampliata negli anni 1730 circa, e nuovamente negli ultimi secoli, dando luogo a un complesso di edifici ben differenziato dall’ospedale.

Grazie alle carte storiche già menzionate è possibile conoscere la distribuzione funzionale degli ambienti dell’ospedale, fatto particolarmente rilevante per la comprensione di queste strutture. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, soltanto l’area dell’antico ospedale era destinata all’accoglienza dei viaggiatori: nei secoli XVI-XVII c’erano otto letti disposti su quattro camere a diversi piani, con una stanza comune e cucina. C’era anche un altro ambiente occupato dal rettore dell’ospedale e spazi funzionali dove era presente [151] un pozzo. Forse uno degli aspetti più rilevanti della distribuzione degli ambienti è che circa un terzo di questi era destinato alle stalle per i muli. Era inoltre presente una corte che poteva servire per l’immagazzinamento delle merci in circolazione attraverso San Pellegrino. Infine, la chiesa si trovava in posizione centrale rispetto alle stalle, contrapposta all’area residenziale. Questi dati confermano le limitate dimensioni dell’ospedale, e il suo carattere politico e commerciale, legato alla circolazione dei mulattieri. I signori locali approfittarono, quindi, dell’occasione che offriva il potere centrale interessato in mantenere impianti assistenziali alla viabilità stabili per esercitare il loro controllo sulle rendite e sui surplus che generavano lo sfruttamento di un impianto di queste caratteristiche.

Juan Antonio Quirós Castillo

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3.9 LA CHIESACCIA (VILLAFRANCA IN LUNIGIANA, MASSA)

Il termine, dispregiativo, è di quelli che accomunano molte strutture ospitaliere medievali (ospedalaccio, malpasso, osteriaccia, ecc.) a segnare, forse, una cattiva fama o, più semplicemente, ad indicarne da un certo momento in poi la decadenza e la fatiscenza. La chiesaccia fu, probabilmente fin dalle origini, collegata all’ospitale di Groppofosco (fig. 80). [153]

Tale chiesa fu oggetto di una disputa in sede storica in quanto Ubaldo Formentini individuò in essa la chiesa di S. Maria "a Baritulo" indicata nell’atto di fondazione di quella che sarà poi l’Abbazia di S. Caprasio di Aulla da parte del marchese di Tuscia, Adalberto, nell’884 (FORMENTINI 1953). Giulivo Ricci ha successivamente dimostrato, invece, che quella chiesa altomedievale era in realtà ubicata ad Albareto in Val di Taro e non in Val di Magra (RICCI 1973). Per cui non si parla di una fondazione altomedievale della Chiesaccia. Quel punto, che forse fu sempre area di guado del Magra, venne attrezzato con un ospitale e una chiesa nel momento in cui, fra XI e XII secolo, il potere locale (in questo caso i Canonici della Cattedrale di Luni) assunse la gestione della viabilità come compito pubblico in quanto fondamentale fonte di reddito. L’economia delle volte, più volte citata nel volume, indicata da Obizzo Malaspina al Barbarossa.

Forse – o forse no – è questo il luogo in cui conviveva una comunità religiosa (il "Convivium Mariae") cui giunse, nel 1154 circa, Nikulas di Munkathvera, abate islandese durante il suo viaggio verso Roma. Dalla descrizione del suo viaggio si può ipotizzare che l’abate stesse percorrendo, probabilmente, non la via Francigena di fondovalle passante per Pontremoli, ma l’alta "Via regia" per Monte Fiorito, dopo aver valicato l’Appennino al Passo del Borgallo, anziché quello della Cisa (Monte Bardone), incontrando la Francigena proprio al guado della Chiesaccia.

Nel 1164 un diploma di Federico I Barbarossa confermava al marchese Obizzo Malaspina il castello di Groppofosco. Pochi anni dopo, nel 1187, un privilegio di papa Gregorio VIII confermava ai Canonici della Cattedrale di Sarzana l’ospitale di Groppofosco.

Due strutture, una militare ed una ospitaliera, poste sulla via Francigena in un punto – o nelle immediate vicinanze – di un guado del fiume Magra verso occidente. Un punto dove la strada si diramava, o forse meglio, si incrociava con una via trasversale che toccando le pievi di Soliera e Monti conduceva al territorio della sponda destra del Magra verso il genovesato, la "via regia" e il piacentino. Un guado splendidamente indicato in un documento del XVIII secolo da parte del Governatore fiorentino che dichiarò di avere il controllo delle terre fino al “guado di Lusolo” che altro non è che quello della cosiddetta "Chiesaccia"

Dopo il 1187 l’ospitale di Groppofosco appare ricordato nelle decime bonifaciane del 1296 e del 1299, in una Bolla pontificia di Niccolò V del 1443 e negli Estimi del 1470-71. Non si fa tuttavia mai riferimento, nei documenti ricordati, ad una chiesa e ciò può far pensare ad una struttura di ospitalità controllata dal potere religioso ma con funzione laica.

Si ha invece riferimento ad una chiesa in due documenti del 1464 e del 1465 (RICCI 1973) relativi all’elezione del rettore di Santa Maria di Groppofosco e ad altri affari. [154]

L’ospitale continua a vivere fino al XVII secolo. Nel 1665 un inventario dei beni della Chiesaccia indica un luogo detto "Campo grande ossia Hospitale di Groppofosco" confinante con il Magra e la "via romana" posto a fianco della chiesa di Santa Maria semidistrutta. Il documento, che manifesta la distruzione o forse, meglio,

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la trasformazione e il cambio di funzione dell’ospitale, ridotto, in quanto "ospitale", ormai a toponimo e la quasi distruzione della chiesa, descrive e localizza bene la struttura, come ancora bene si può vedere oggi: una casa colonica con resti di strutture antiche, una strada e la "chiesaccia" (fig. 81).

La chiesa è romanica (è tuttavia, nell’ambito del romanico lunigianase e garfagnino, un caso unico o quasi) con rifacimenti (d’altro canto il citato documento del 1665 la indica come “quasi distrutta” o, peggio ancora, vi si parla di “vestiggi della chiesa rovinata” benché paiano esagerate). Doveva essere ad una sola aula con un’abside che porta più aperture a fornice, cui fu aggiunto un altro corpo sul fianco sinistro; la facciata termina con una campana a vela. La Chiesaccia doveva essere comunque posta su una deviazione dalla via Francigena che è l’inizio del braccio trasversale verso occidente di un incrocio, prima del guado del Magra.

La struttura dell’ospitale appare oggi trasformata in una casa colonica, trasformazione recente se si dà fede ad una pietra incisa, posta nell’aia antistante, datata 1904. Tuttavia il corpo complessivo della struttura lascia intendere la sua forma antica. Si tratta di una grande costruzione rettangolare con una dimensione quasi doppia dell’altra (8,70 m per 16 m circa, considerando un corpo antico oggi diruto) posta su due piani, costruita in piccole bozze di arenaria più o meno squadrate e poste a filari regolari (così almeno nelle parti basse, essendo in alto evidenti le ricostruzioni).

Poteva trattarsi di una struttura "a sala", di cui si parla altrove nel volume, diffusa nel medioevo e che accomunerebbe Groppofosco alla stessa Tea. Di fronte ha uno spiazzo, utilizzato ad aia, che presenta pietre di piccola pezzatura, come ben si vede da una foto degli anni ‘50-’60, che per la delimitazione rettilinea della selciatura, avrebbe potuto appartenere anche all’antica strada ivi passante, divenendo, attorno all’ospitale, uno spiazzo pubblico (le aie contadine di età moderna erano sempre formate da piastre più grandi, per più motivi).

Doveva trattarsi di una struttura per ospitalità economica, per mercanti, posta in un luogo obbligato di passaggio.

Nelle vicinanze di Groppofosco esiste un borgo, Fornoli, la cui struttura allungata e ampiamente "voltata" lo configura come un borgo di strada, sorto e cresciuto per le ragioni e le necessità della strada (o meglio delle strade perché pare qui confluire la via che per le pievi di Soliera e Monti conduceva, ad est verso il passo di Tea e la Garfagnana e, ad ovest, verso il guado, il genovesato e la "via regia". Si presuppone quindi, in un momento [155] della storia, lo spostamento dell’asse viario, dalla piana alluvionale del Magra, certamente insicura, ad un tracciato della via Francigena più alto passante all’interno di Fornoli ove si incrocia ancora la strada che da Cortonuovo conduce al castello di Monti e al ponte di Pontebosio. Lo stesso toponimo di "Fornoli" induce a pensare ad una qualche attività (ferriera, calce) che necessitava di un forno così importante da dare nome al villaggio. [156]

Fabio Baroni