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GIANNI KAUFMAN SE’/NON SE’. INTRECCI TRA BUDDISMO E PSICOANALISI SEMINARIO CIPA. MILANO 12 OTTOBRE 2013. 1. Oggetto del mio intervento è l’incontro - che risale almeno alla metà degli anni ’90 - fra buddhismo, psicoanalisi e psicologia analitica e le ricadute o gli ulteriori sviluppi di questo incontro riferibili essenzialmente a due temi: 1) sul piano teorico la natura o le caratteristiche proprie del sé, 2) sul piano pratico la qualità della consapevolezza o dell’attenzione in psicoterapia e il ruolo che in questo ambito può riconoscersi alla pratica meditativa. Se si accantonano, ma solo momentaneamente, i contributi propriamente junghiani - la teoria dei complessi e la metapsicologia del Sé - l’incontro fra psicologia dinamica e l’impresa di decostruzione del sé della tradizione buddista si prepara anzitutto con le proposte, al tempo assai innovative, della psicoanalisi relazionale. 1 Già in un lavoro del ’93 Stephen Mitchell (un autore non espressamente interessato al buddismo) notava il succedersi nella tradizione psicoanalitica di due metafore per la rappresentazione del sé: una metafora di tipo spaziale - quella di Freud - “il sé come stratificato, singolo e continuo (...) la mente come un posto in cui le cose accadono, il sé come qualcosa in quel posto, composto di parti o strutture costitutive”. E una metafora di tipo temporale, inclusa dapprima nella teoria delle relazioni oggettuali e sostenuta, dopo di essa, dai vari approcci di tipo relazionale. Qui il sé coincide con esperienze differenziate secondo l’ambito e la qualità dei rapporti, e quindi è inteso come molteplice e discontinuo. “Poiché apprendiamo a divenire persone mediante l’interazione con differenti altri e attraverso interazioni differenti col medesimo altro la nostra esperienza del sé è discontinua, composta di differenti configurazioni, differenti sé con differenti altri. (...) il risultato è un’organizzazione plurale e multiforme del sé, modellata su differenti immagini o rappresentazioni del sé e dell’oggetto, derivate da differenti contesti relazionali.” Così “i sé cambiano e si trasformano continuamente nel tempo, e una singola vita è composta di più sé. Un’esperienza del sé ha luogo necessariamente in un momento del tempo; essa riempie lo spazio psichico e un’altra versione alternativa del sé sfuma sullo sfondo”. 2 Ancora: se applichiamo la prima metafora, - il sé come entità singola e stratificata - “ha senso approcciarlo come (...) una cipolla, tentare di situarne il ‘centro’ o il ‘cuore’, delinenarne gli strati, differenziarne le parti autentiche da quelle false, la struttura protettiva e così via”. 3 Se tuttavia “il sé si muove nel tempo piuttosto che esistere nello spazio non ha un nucleo fisso”. La ricerca di un nucleo invariante o di un ‘vero’ sé, colto ai suoi inizi, nella sua essenza presociale, al di sotto degli adattamenti e delle negoziazioni con altri, “implica rimuovere il sé dal tempo, uno sforzo male indirizzato per rendere statiche le organizzazioni mutevoli dell’esperienza del sé.” Può accadere che io mi senta più autentico (o meno autentico, meno spontaneo o più stereotipato) in certi modi di agire o di esprimermi, in certe occasioni o in certe situazioni: ma ciò non implica rinviare ad un ‘nucleo’, a un ‘vero’ o ‘un ‘autentico’ me. “Facciamo esperienza di noi stessi nel tempo. 1 Per una critica stringente, sul piano filosofico, dei presupposti e delle implicazioni dell’approccio relazionale vedi il recente lavoro di J. Mills, Conundrums. A Critique of Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York 2012. 2 S. A. Mitchell, Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York 1993: 101-104. 3 Ibidem: 101.

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GIANNI KAUFMAN

SE’/NON SE’. INTRECCI TRA BUDDISMO E PSICOANALISI

SEMINARIO CIPA. MILANO 12 OTTOBRE 2013.

1. Oggetto del mio intervento è l’incontro - che risale almeno alla metà degli anni ’90 - fra

buddhismo, psicoanalisi e psicologia analitica e le ricadute o gli ulteriori sviluppi di questo

incontro riferibili essenzialmente a due temi: 1) sul piano teorico la natura o le

caratteristiche proprie del sé, 2) sul piano pratico la qualità della consapevolezza o

dell’attenzione in psicoterapia e il ruolo che in questo ambito può riconoscersi alla pratica

meditativa. Se si accantonano, ma solo momentaneamente, i contributi propriamente

junghiani - la teoria dei complessi e la metapsicologia del Sé - l’incontro fra psicologia

dinamica e l’impresa di decostruzione del sé della tradizione buddista si prepara anzitutto

con le proposte, al tempo assai innovative, della psicoanalisi relazionale.1 Già in un lavoro

del ’93 Stephen Mitchell (un autore non espressamente interessato al buddismo) notava il

succedersi nella tradizione psicoanalitica di due metafore per la rappresentazione del sé:

una metafora di tipo spaziale - quella di Freud - “il sé come stratificato, singolo e continuo

(...) la mente come un posto in cui le cose accadono, il sé come qualcosa in quel posto,

composto di parti o strutture costitutive”. E una metafora di tipo temporale, inclusa

dapprima nella teoria delle relazioni oggettuali e sostenuta, dopo di essa, dai vari approcci

di tipo relazionale. Qui il sé coincide con esperienze differenziate secondo l’ambito e la

qualità dei rapporti, e quindi è inteso come molteplice e discontinuo. “Poiché apprendiamo

a divenire persone mediante l’interazione con differenti altri e attraverso interazioni

differenti col medesimo altro la nostra esperienza del sé è discontinua, composta di

differenti configurazioni, differenti sé con differenti altri. (...) il risultato è un’organizzazione

plurale e multiforme del sé, modellata su differenti immagini o rappresentazioni del sé e

dell’oggetto, derivate da differenti contesti relazionali.” Così “i sé cambiano e si

trasformano continuamente nel tempo, e una singola vita è composta di più sé.

Un’esperienza del sé ha luogo necessariamente in un momento del tempo; essa riempie

lo spazio psichico e un’altra versione alternativa del sé sfuma sullo sfondo”.2 Ancora: se

applichiamo la prima metafora, - il sé come entità singola e stratificata - “ha senso

approcciarlo come (...) una cipolla, tentare di situarne il ‘centro’ o il ‘cuore’, delinenarne gli

strati, differenziarne le parti autentiche da quelle false, la struttura protettiva e così via”.3

Se tuttavia “il sé si muove nel tempo piuttosto che esistere nello spazio non ha un nucleo

fisso”. La ricerca di un nucleo invariante o di un ‘vero’ sé, colto ai suoi inizi, nella sua

essenza presociale, al di sotto degli adattamenti e delle negoziazioni con altri, “implica

rimuovere il sé dal tempo, uno sforzo male indirizzato per rendere statiche le

organizzazioni mutevoli dell’esperienza del sé.” Può accadere che io mi senta più

autentico (o meno autentico, meno spontaneo o più stereotipato) in certi modi di agire o di

esprimermi, in certe occasioni o in certe situazioni: ma ciò non implica rinviare ad un

‘nucleo’, a un ‘vero’ o ‘un ‘autentico’ me. “Facciamo esperienza di noi stessi nel tempo.

1 Per una critica stringente, sul piano filosofico, dei presupposti e delle implicazioni dell’approccio relazionale

vedi il recente lavoro di J. Mills, Conundrums. A Critique of Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York 2012. 2 S. A. Mitchell, Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York 1993: 101-104.

3 Ibidem: 101.

2

Possiamo valutare una nuova esperienza in termini di continuità o discontinuità col

passato e il presente; una nuova esperienza può rappresentare ed esprimere la propria

storia e la situazione presente oppure negare e tradire la propria storia e condizione

presente o ancora riformulare la propria storia e condizione presente in un modo nuovo e

arricchente. Il senso di autenticità è sempre una costruzione, e come costruzione è

sempre relativa ad altre possibili costruzioni del sé in ogni tempo particolare.”4

Con tutto questo - chiariva Mitchell - non può negarsi anche l’esistenza di un senso o di un

vissuto di continuità nell’esperienza del sé, indipendente dai cambiamenti nel tempo, in

forza del quale mi rappresento, ad ogni istante, come un Io identico, a cui rimandano i miei

ricordi in passato e che proietto nel mio futuro. Questo sentire è anche condizione di un

senso di agency, di continuità e responsabilità nell’agire, e ancora della possibilità di

imporre un’ordine di priorità a scopi impulsi e motivazioni, il non sentirsi trascinati qua e là.

Ciò è vero anche se non è semplice, all’atto pratico, stabilire quanto vi sia in tutto questo

di soggettivo o propriamente oggettivo. “Può essere che io faccia tutto ciò che faccio, ma

può anche essere che io faccia certe cose in contesti esperienziali del tutto diversi da

quelli in cui faccio altre cose. L’Io che fa cose diverse è un Io diverso in tempi diversi”.5 E

In ogni caso questa maniera di rappresentarsi del sé come agente autonomo e separato

non pare rispondere - Mitchell cita qui Clfford Geertz - a un’istanza evolutiva di tipo

universale quanto, piuttosto, a un dato culturale:

La concezione occidentale della persona come un universo motivazionale e cognitivo

delimitato, unico, più o meno integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emozione,

giudizio e azione organizzati in un insieme distinto e contrapposto sia ad altre entità simili

sia al contesto sociale e naturale è, per quanto incorreggibile ci sembri, un’idea

abbastanza peculiare nell’insieme delle culture mondiali.6

Può a questo punto suonare discordante, dopo tanti argomenti a favore di un sé

relazionale e molteplice, che le conclusioni di Mitchell siano da ultimo caute. “Potrebbe

ritenersi” - leggiamo infine - “che il senso di continuità nell’esperienza del sé sia totalmente

illusorio. Esso però assolve, almeno nella nostra cultura, a un’importante funzione

adattiva” E d’altra parte i due modi di rappresentare il sé - come molteplice e discontinuo,

e come integro, continuo e separabile, non sono reciprocamente esclusivi. “Le persone

4 Ibidem: 130-131. Anche le nozioni di Winnicott di ‘vero‘ e ‘falso’ sé riferite al rapporto del bambino col seno,

secondo Mitchell, “sono un importante punto di partenza ma si tratta di una situazione troppo semplificata quando si considera l’esperienza adulta. Tutte le motivazioni personali hanno una lunga storia relazionale, il sé è sempre immerso in contesti relazionali, attuali o interni, perciò tutte le motivazioni importanti sono apparse e hanno preso vita e forma in presenza e attraverso le reazioni di altri significativi.” (Ibidem: 134) 5 Ibidem: 109.

6 C. Geertz, “From the Native’s Point of View: On the Nature of Anthropological Understanding” in Local

Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York 1979: 59, citato da S. Mitchell, op. cit.: 110. Vedi anche quanto scrive J. Engler, “Being Somebody and Being Nobody: A Reexamination of the Understanding of Self in Psychoanalysis and Buddhism” in J. D. Safran (a cura di), Psychoanalysis and Buddhism. Un Unfolding Dialogue, Wisdom Publications, Boston: 51: “Nelle culture da cui il Buddismo è emigrato verso occidente, preminentemente in India e Giappone, il senso del sé è molto più mescolato con gli altri in un ‘senso del noi’ che è profondamente differente dall’’Io-sé’ separato ed autonomo dell’esperienza occidentale. Il sé è esperito come incorporato in una matrice di relazioni e come definito da tali relazioni, non solo la matrice delle relazioni umane e sociali ma la matrice più comprensiva delle relazioni all’interno del mondo della natura, e da ultimo il cosmo nel suo insieme”.

3

agiscono sia in modo discontinuo che in modo continuo. (...) In ogni momento dato una

persona opera a partire da un determinato contesto relazionale (...); al contempo quella

specifica versione del sé contribuisce a dar forma a una sequenza continuativa di

esperienza che ha le sue caratteristiche distintive. (...) Pensiamo al sé come alla sequenza

dei fotogrammi di un film. In ambedue i casi l’esperienza del movimento e della continuità

è un’illusione. Ma “l’illusione” “crea un’esperienza che ha una grande ricchezza soggettiva

in proprio, producendo un’immagine più ampia e ‘in movimento’ molto diversa (e molto

maggiore) della semplice somma delle immagini singole”. Similmente nel percorso

analitico “quanto più l’analizzando può tollerare di esperire versioni molteplici di se stesso,

tanto più si vivrà come forte, duraturo e capace di resilienza. E reciprocamente quanto più

l’analizzando ritrova dei tratti di continuità nel passaggio tra le sue varie esperienze, tanto

più può reggere la diffusione di identità implicita nel far convivere molteplici versioni del

sé”.7

Resta comunque, del discorso di Mitchell - e, se si vuole, anche in virtù delle sue

conclusioni - il punto forse più innovativo. Che si privilegi l’aspetto della discontinuità e

molteplicità o invece quello della continuità, il sé viene a perdere in ogni caso qualsiasi

carattere sostanziale per riproporsi come mera rappresentazione: capace, proprio per

questo, di più versioni e modi di esperienza possibili, nessuna eguagliabile a un ‘vero sé’.

Un corollario di questa innovazione è un diverso approccio ai temi dello sviluppo. Così

l’idea di un sé preesistente alla nascita il cui realizzarsi può solamente essere facilitato o

impedito lascia spazio all’ipotesi di più percorsi possibili grazie al convergere tra

potenzialità del bambino e influsso prevalente dell’uno o l’altro caregiver.8 Inoltre - si fa

ancora osservare - già negli scritti di Winnicott, l’opposizione tra sé ‘vero’ e ‘falso’ viene

formulata anche come antitesi fra non-integrazione - la possibilità per l’infante di rilassarsi

e abbandonarsi all’esperienza del gioco alla presenza rassicurante della madre - e

necessità di reagire, in modo prevalente, a stimoli o intrusioni esterne. In quest’ultimo caso

- ma solo in questo (ad esempio quando debba far fronte ad una madre angosciata o

depressa) - il bambino isola un proprio mondo privato (il suo ‘vero sé’) fino a nasconderlo

perfino a se stesso e si concentra sulla gestione del mondo esterno.9 Un ultimo modo,

infine, di ripensare quell’opposizione è prender atto della tensione costante, nel corso

della vita di ognuno, fra spontaneità e esigenza di conservare relazioni sicure10 (perciò

tener conto del proprio impatto sugli altri) o ancora fra agentività e relazionalità11 o fra

7 S. Mitchell, op. cit.: 115-116.

8 Ibidem: 129.

9 Scriveva Winnicott : “Soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la

propria vita personale. L’alternativa patologica è una vita falsa costruita su reazioni agli stimoli esterni. Quando è solo, nel senso suddetto, e solamente quando è solo, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, e cioè è in grado di diventare non-integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un po’ senza essere né qualcosa che reagisce ad un urto dall’esterno, né una persona attiva con una direzione d’interesse o di movimento. (...) Solamente in queste condizioni il bambino può avere un’esperienza e sentirla come reale. Un gran numero di tali esperienze formano la base di una vita reale e non futile.” (D. W. Winnicott (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando, Roma 1974: 36.). In età adulta situazioni analoghe di ‘non-integrazione’ in presenza d’altri (o relazionalità non reattiva) saranno condizioni per una crescita di creatività. (Cfr. M. Masud R. Khan, “On Lying Fallow” in Hidden Selves, Hogart Press, London 1983: 183-188.) 10

S. Mitchell, op. cit.: 133. 11

J. D. Safran e J. C. Muran, op.cit.: 39.

4

efficacia e esigenze di sicurezza.12 Il contrasto non è analizzabile in termini di contenuti

(come nella vecchia teoria freudiana delle pulsioni dove l’Es è tenuto a bada da Io e

Superio) e neanche in termini di priorità precostituite (come nell’ipotesi del ‘vero’ sé), ma

nella maggiore o minore capacità di un negoziato flessibile fra le due istanze. Questa

formulazione è già compatibile con un quadro teorico che all’antitesi ‘sé’ vero o falso’

sostituisca l’assunto di “numerosi stati del sé che lottano per dominare nello stato di

coscienza in un determinato momento”.13

E appunto questo - di una pluralità originaria di stati del sé - è l’assunto che ispira, in modo

forse anche più radicale del lavoro di Mitchell, il secondo contributo importante che va qui

ricordato - gli scritti sulla dissociazione di Philip Bromberg. L’esperienza di unità e

continuità del sé, per Bromberg, è senz’altro illusoria e “è generata dalla capacità

evoluzionistica della mente di radicare la coscienza in una delle configurazioni di stati del

sé che risultano più adattive in quel momento”.14 Di fatto “l’esperienza di sé si origina da

stati del sé relativamente isolati fra loro, ognuno con una propria coerenza interna” ma

“quando (...) tutto procede bene una persona è solo vagamente e momentaneamente

consapevole dell’esistenza di stati del sé individuali e delle loro rispettive realtà: questo

perché ognuno funziona come parte di una salutare illusione di identità personale unitaria

- uno stato cognitivo ed esperienziale sovraordinato sentito come ‘me’.” In questi termini

“la dissociazione (...) è una funzione sana e adattiva della mente umana. E’ un processo di

base che consente agli stati individuali del sé di funzionare in modo ottimale (e non in

modo semplicemente difensivo) quando ciò di cui abbiamo veramente bisogno o

desideriamo è una totale immersione in una singola realtà, in un singolo affetto forte, e

una sospensione della capacità autoriflessiva.”15

L’illusione di unità e di continuità così resa possibile - da questo genere di dissociazione

non difensiva - si caratterizza per il fatto di lasciar spazio alla capacità riflessiva e quindi

alla comunicazione anche con stati momentaneamente non in primo piano nell’esperienza

del sé. Bromberg usa l’espressione “restare negli spazi” per descrivere “la relativa

capacità della persona di ospitare in un dato momento una realtà soggettiva che non può

essere facilmente contenuta dal sé che in quel momento sente come ‘me’”. Questa

capacità di comunicare, momento per momento, con esperienze del sé discrepanti è

anche condizione della comunicazione intersoggettiva, ossia della capacità che le persone

hanno - ancora una volta: se tutto procede bene - di aprirsi all’esperienza che altri fanno

di loro.

Ma a volte - anzi, piuttosto spesso - non tutto procede bene. L’immagine del sé rimandata

dall’altro (o - che è lo stesso - da altri stati del sé) “può essere sentita troppo discrepante

dall'esperienza di sé che si sta facendo in quel momento per far sì che entrambe possano

essere conservate in mente simultaneamente”. In questo caso la dissociazione si piega

alla funzione - solo difensiva - di conservare “le esperienze di sé eccessivamente

discrepanti in stati del Sé separati che non comunicano tra loro, per lo meno per un certo

12

J. Greenberg, Oedipus and beyond, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1991: 129 sgg. 13

J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 115-116. 14

P. M. Bromberg (2011), L’ombra dello tsunami, Cortina, Milano 2012: 100. 15

P. M. Bromberg (1998/2001), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano 2007: 211.

5

periodo”; e può trattarsi di un periodo breve, per affrontare una situazione momentanea di

stress, ovvero più lungo o dell’intera esistenza. L’illusione di unità e continuità del sé ha

allora come condizione proprio il persistere della struttura dissociativa:

La mente/cervello organizza i suoi stati come un sistema protettivo che tenta,

proattivamente, di zittire l'accesso esperienziale a stati del Sé discrepanti con la gamma di

stati, limitati dissociativamente, di cui si fa esperienza in un dato momento come "me".

Questo rigido sequestro di stati del Sé per mezzo di una struttura mentale dissociativa è

talmente centrale per la personalità di alcuni individui che, virtualmente, modella tutto il

funzionamento mentale, mentre per altri il suo range è più limitato. Ma, a prescindere dalla

misura o dal range, la sua funzione evoluzionistica è di assicurare la sopravvivenza della

continuità del Sé relegando il funzionamento riflessivo a un ruolo minore, o a nessun

ruolo.16

Ciò è quanto accade, tipicamente, in occasione di traumi - sia traumi gravi (abusi sessuali

o fisici) sia, soprattutto, di traumi evolutivi: in questo caso, agendo ancora una volta al

servizio della continuità del sé e perciò conformandosi ai primi modelli di attaccamento,

saranno dissociati gli stati del sé ignorati o disconfermati dai genitori. Questi stati saranno

esclusi in permanenza dalla comunicazione in quanto non mentalizzati all’origine - non

confrontati col loro modo di apparire nella mente dell’altro - pertanto tendenzialmente non

simbolizzati sul piano cognitivo e quindi non recuperabili a un’unità del sé garantita

dall’autoriflessione (il mancato operare della comunicazione intersoggettiva sarà in questo

caso non conseguenza ma proprio l’origine della frattura dissociativa). Ne seguirà un

sentimento inguaribile di inautenticità imputabile, come visto sopra, non al tradimento del

‘vero sé’, ma all’eslcusione di un qualsiasi stato o aspetto del sé dall’esperienza

interpersonale.

Il Sé vissuto come vero è sentito essere sempre quello che sta bussando alla porta - la

voce interna antagonista, udita ma non "pensata" (Bollas, 1987). Questa voce viene

sentita inevitabilmente come più vera sul piano soggettivo semplicemente perché essa

contiene una "verità" diversa ma non formulata - una visione alternativa della realtà che

viene negata al sé che sta intrattenendo rapporti con il mondo, rendendolo così limitato sul

piano relazionale e compromesso nella possibilità di sentirsi autentico. Come ha detto

Mitchell (1993), "ciò che può sembrare autentico nel contesto di una versione del sé può

essere completamente inautentico rispetto ad altre versioni".17

2. Dopo questo richiamo, indispensabile per inquadrare il discorso, ai contributi della

psicoanalisi relazionale - ci si è limitati, a fronte di una produzione ormai molto ampia, a

due autori particolarmente influenti e significativi - si può dar spazio agli interventi

propriamente ispirati alla tradizione buddista. Qui la natura illusoria o piuttosto ingannevole

dell’unità e continuità del sé non è più solo ricondotta all’onnipresenza delle dinamiche

dissociative - così efficacemente illustrate da Bromberg - o all’intreccio relazionale delle

16

P.M. Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 14-15. 17

Ibidem: 128.

6

identità. In primo piano è invece il contrasto fra la preoccupazione costante e pervasiva

che più o meno tutti ci caratterizza - ma che è alla base, secondo il Buddha, di ogni

sofferenza - di preservare, proteggere, espandere il sé, e il dato radicale della sua

impermanenza, non autonomia e non separatezza, al pari di ogni essere e di ogni cosa

esistente. E’ un fatto che se poniamo attenzione, momento dopo momento, al flusso della

coscienza a monte degli automatismi con cui di solito selezioniamo, organizziamo e

interpretiamo i dati percettivi, concettuali e affettivi non incontriamo alcuna entità duratura,

nessun soggetto o oggetto costante ma solo operazioni con cui, momento dopo momento,

a partire da quei dati elementari di continuo e sempre di nuovo strutturiamo in modo

dualistico la nostra esperienza opponendo insiemi di oggetti distinti l’uno dall’altro e dal sé.

Come osserva Jack Engler

Il costrutto-sé ... è incorporato nella caratteristica più profondamente radicata del pensiero

e della percezione umana: la tendenza a considerare ogni oggetto dell’esperienza o della

percezione come un’entità separata o una ‘cosa’ dotata della sua esistenza e identità

concreta e separata e solo in un secondo momento in relazione con altre ‘cose’. (...) Ma la

‘cosalità’ o la ‘esistenza inerente’ è in realtà un’imputazione o un’attribuzione, non una

caratteristica delle ‘cose. (...) Come scrive la studiosa buddista Anne Klein “Le cose

semplicemente sembrano odorano e si fanno gustare come più solide individuabili e

intrisecamente disponibili di quanto in realtà non siano.” (...) Questa “attribuzione non

pensata di inerenza” a sé e agli altri è la “ontologia vissuta che sottosta ad ogni altra

esperienza di seità, inclusi i moderni sé psicologici” e specialmente la rappresentazione in

parte conscia in parte inconscia del sé come entità singola, unica e separata “collocata nel

profondo di noi stessi”.18

Detto in altri termini:

Il sé dell’uomo è un’azione: è qualcosa che facciamo per unificare la nostra soggettività

nello spazio e nel tempo, separandola dal flusso dell’esperienza e creandole un confine

intorno. Qualche volta facciamo questo consapevolmente, ma la maggior parte delle volte

lo facciamo senza avere consapevolezza del sé attraverso micromovimenti nelle nostre

percezioni che creano l’impressione di essere “qui dentro”, mentre qualcos’altro è “là

fuori”.19

La riduzione o decostruzione del sé che in questo modo si avanza è dunque più radicale

della innovazioni della psicoanalisi relazionale: il sé non soltanto è plurale e molteplice,

diversamente declinato per situazioni e rapporti; non solamente è rappresentazione, ma si

dà solo come relazione, come momento subordinato di questa - non c’è alcun ‘dentro’ se

non opposto a un ‘fuori’, non c’è alcun ‘io’ se non diretto a un ‘tu’20 - coinvolto,

18

J. Engler, op. cit.: 88. 19

P. Young-Eisendrath, “Il ruolo del non-sé nella creatività” in A. Molino e R. Carnevali (a cura di), Tra sogni di Budda e risvegli di Freud. Esplorazioni in psicoanalisi e buddismo, ARPANet, Milano 2010: 91. 20

Per una sintesi della formulazione più radicale di questo approccio, dovuta a Nagarjuna, si può vedere il lavoro non più recente ma ancora di grande interesse di F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991, cap. V. Vedi anche G. Kopf, “Di fronte all’altro. L’intrico psichico in Dogen e Jung” in A. Molino (a cura di) (1998), Psicoanalisi e buddismo, Raffaello Cortina, Milano 2001: 190-191.

7

inevitabilmente, sempre di nuovo ricostruito e dissolto nel dinamismo di un continuo fluire.

La stessa idea di qualche genere di costanza o ‘esistenza inerente’ attribuibile al sé non è

originaria ma è già prodotto del ciclo del karma - della causazione21 - dove prevalgono i

due opposti moventi dell’attaccamento e dell’avversione; e a sua volta è causa di

sofferenza, come già detto, perché sempre smentita dall’impermanenza, non separatezza

e finitezza del tutto. Si tratta allora, mediante la pratica meditativa, di mirare al risveglio,

alla consapevolezza non solo cognitiva ma esperienzale22 di queste verità, e le

implicazioni propriamente psicologiche di tale pratica sono già rilevanti: perché

presuppongono un definitivo ridimensionamento del sé non più quale soggetto, ma come

oggetto di consapevolezza - l’opposizione, quindi, almeno potenziale, tra modi della

soggettività e funzioni dell’Io. Se quelli sono da porre in problema queste, proprio nella

pratica meditativa, sono il più possibile potenziate: primo, per decostruire i processi (più

che altro inconsci) di costituzione, autoaffermazione e difesa dell’identità di soggetti;

secondo per accertarne funzionalità o interferenze in vista del crescere della

consapevolezza.23

Su questo punto si è già fatto cenno agli automatismi che reggono, d’abitudine, il nostro

rapportarci ai dati di esperienza. La meditazione di consapevolezza24 ci rende consci del

loro carattere prevalentemente difensivo-reattivo; ossia della nostra propensione a

distanziarci dalle esperienze e ad attutirne e filtrarne l’impatto mediante un flusso

praticamente incessante di fantasie e di pensieri - la cosiddetta proliferazione mentale -

che ne rielaborano ovvero ne anticipano le implicazioni sotto il profilo dell’attaccamento o

dell’avversione (rimuginazioni intorno al passato, speranze e attese circa il futuro); e ne

riducono la novità e la ricchezza reinterpretandola secondo termini e coordinate già note.

L’intento, almeno a prima vista, è pararne il carattere sorprendente o frustrante ampliando

per quanto possibile il controllo dell’Io. Ma ciò cui spesso veramente si mira è

salvaguardare per quanto possibile la certezza e la continuità della rappresentazione del

sé; e ciò anche a spese, se necessario, di un confronto paziente e puntuale col dato

concreto e di un pieno incontro con le emozioni che davvero assicurerebbero, anche nelle

situazioni più complicate o frustranti, non una reazione semiautomatica ma una risposta

mirata, più pertinente e più efficace dell’Io. Scrive in proposito un autore buddista:

L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale

è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e

definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente. 21

Un’utile sintesi ancora in F. J. Varela et al., op. cit.: 110 passim. 22

Come osserva J. Engler (op. cit.: 93) una consapevolezza solo cognitiva comporta ancora il punto di vista di un sé separato. 23

Su tutto questo M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 86 sgg. e 117. 24

Si distinguono, più precisamente, pratiche di meditazione formale (attenzione al respiro, alle sensazioni del corpo, alle percezioni, ai pensieri) da svolgersi in posizione seduta oppure sdraiata o anche camminando; e pratiche di meditazione informale consistenti ad esempio, nell’apprezzare intensamente e a lungo, in tutte le sue sfumature il sapore di un cibo, la bellezza e i colori di un giardino, i dettagli di un percorso abituale, i singoli momenti e le sensazioni di qualsiasi attività come farsi la doccia o lavare i piatti. Soprattutto le pratiche formali, come quella descritta sopra relativa al respiro, intendono non tanto far crescere direttamente l’accettazione quanto renderci attenti al nostro resistere all’accettazione, al nostro continuo ‘sganciarci’ dall’adesione al presente. Su questo vedi C. Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994 : 157-158. Vedi anche più in generale Thich Nhat Hanh (1987), Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma 1992.

8

... Invece che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo

di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per

aver luogo ben di rado. ... Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza

ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che

essa ci appaia così come ce la raccontiamo. E dunque l’indugiare frequentemente in

pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare

‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto,

all’ignoto.. E così pure quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli

avremmo voluto dire, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura

e simili. ... Noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia ... noi vogliamo

parlare nella rabbia, pensare e immaginare nella rabbia anche se tutto ciò che diciamo è

prevedibile, anzi è importante proprio perché è prevedibile, noto, abituale. In questa

maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia ... ne rimaniamo separati da quella

barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.25

La libertà da che viene perseguita - su un piano, peraltro, solo immaginativo-ideativo -

come difesa ad oltranza di una rappresentazione costante e rassicurante del sé, mediante

gli automatismi della proliferazione mentale, è a spese, assai spesso, della libertà di - di

un esercizio competente e efficace delle funzioni dell’Io.26 Grazie alla pratica meditativa

possiamo apprendere tuttavia ad osservare i nostri pensieri e le nostre reazioni

automatiche, ma senza agirli e identificarci con essi. Così facendo sarà possibile,

progressivamente, evitare l’irrigidirsi e il consolidarsi (sempre a livello immaginativo-

ideativo) degli aggregati percettivo-affettivi del sé e degli oggetti, mentre al contempo

accoglieremo e lasceremo operare le nostre emozioni, ci apriremo all’emergere di spunti

diversi, amplieremo lo spazio di ideazione e di azione. L’unità o continuità del sé così

realizzabile, come osserva Mark Epstein, sarà assimilabile sempre meno a un’entità fissa

e sempre più a “un flusso di consapevolezza ... sempre in evoluzione ... un processo mai

del tutto concluso di autoscoperta e autocreazione” e l’io dovrà subordinare, per quanto

possibile, a questa fluidità processuale ogni pretesa alla stabilità.

L"Io' è il veicolo individuale per attuare questi incontri, ma anch'esso non ha un'identità

intrinseca. Un lo sano inizia, si avvicina, stabilisce un contatto e si dissolve, per poi iniziare

il ciclo di nuovo. Un lo disturbato frappone ostacoli e interferisce con il contatto sano,

perpetuando la propria realtà a spese dell'interazione. (...) L'Io che è di ostacolo non

giunge mai alla trasparenza; il risultato sarà una persona contratta per la propria

sensazione di inadeguatezza. Un senso positivo del sé emerge solo quando l'Io permette

a se stesso di dissolversi.27

Di fatto facciamo già tutti quotidianamente esperienza - chi più chi meno - di questo

genere di fluidità o consapevolezza adualistica o priva di sé (più precisamente:

consapevolezza senza coscienza riflessiva del sé). Guidiamo l’automobile o qualche altro

25

C. Pensa, L’intelligenza spirituale, Ubaldini, Roma 2002: 30-32. 26

Spesso ma, ovviamente non sempre: gli automatismi della mente includono infatti primariamente, le attività di categorizzazione e astrazione che sono indispensabili all’apprendimento, alla previsione e alla sopravvivenza adattiva. 27

M. Epstein (2001), La continuità d’essere, Ubaldini, Roma 2002: 28-29.

9

veicolo adattando l’andatura alla situazione ed evitando possibili ostacoli senza necessità

di riflettere; ‘ci perdiamo’ nella contemplazione di uno spettacolo naturale, di una persona,

di un’opera d’arte o nel rapporto sessuale. Se sappiamo suonare uno strumento

muoviamo spontaneamente le mani nel modo giusto; similmente se siamo veramente

esperti in un arte marziale rispondiamo senza riflettere ma in modo del tutto adeguato alla

mossa dell’avversario.28 In tutti questi casi non siamo consci di noi stessi ma siamo

consapevoli, sintonizzati alla realtà del momento. Pensieri, sentimenti azioni avvengono

ma non sono esperiti come originantisi in o da “me”. Avvengono semplicemente in risposta

alle esigenze del momento per conto loro, senza forza o intenzione cosciente.29

Ancora Epstein insiste a lungo sull’affinità fra questo genere di disponibilità e fluidità

esperienziale - resa possibile da un alto grado di flessibilità o ‘trasparenza’ dell’Io - ed il

recupero, in età adulta, di uno stato di inintegrazione affine alla continuità d’essere

dell’infante (di cui parla Winnicottt) che può abbandonarsi all’esperienza del gioco potendo

contare sull’attendibilità della madre. Si è già detto sopra che questo stato di non-

integrazione - che riesce possibile, in età adulta, solo come resa30 o piena adesione al

presente31 - è quanto di più simile possa pensarsi, in un’ottica relazionale, a un’esperienza

del ‘vero’ sé. Anche per una psicoanalisi del non-sé ispirata al buddismo non c’è

ovviamente alcun vero sé se non nel “processo mai del tutto concluso di autoscoperta e di

autocreazione” (di cui parla Epstein) reso possibile da questa adesione. O se si vuole -

come appena visto - il ‘vero sé’ è il venir meno dell’autocoscienza messa a guardia

dell’autocentramento del sé”32; o ancora, in termini kohutiani, “per il non-sé tutte le

esperienze sono esperienze mature di oggetti-sé.33

Che dire, infine, in una prospettiva junghiana? Il netto rifiuto degli autori buddisti di

riconoscere al sé qualunque genere di consistenza ‘ontologica’34, e l’insistenza nel non

vedervi di più che una rappresentazione (per giunta, in linea di massima fuorviante e

ingannevole) suona, a ragion veduta, in aperto contrasto con la nozione junghiana del Sé

quale ‘centro’ della totalità psichica e ancor di più, in quanto meta del processo di

invididuazione, quale portatore di un senso. Ma a fronte di ciò, e anche tralasciando le

affinità, rilevate da Jung,35 tra la propria psicologia e il cammino buddista, occorrerebbe

28

G. Kopf, op. cit.: 193. 29

J. Engler, op. cit: 60.61. 30

Sul tema della resa vedi l’ottimo studio di E. Ghent, “Masochism, Submission, Surrender: Masochism as a Perversion of Surrender” in S. A. Mitchell. L. Aron (a cura di) Relational Psychoanalysis. The Emergence of a Tradition, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 211-242. 31

L’insistenza sull’attenzione esclusiva al presente, implicita in questa concezione, è ben illustrata dal famoso koan Zen: “In questo preciso momento, non pensando né al bene né al male, mostrami il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori”. “Essendo andati oltre il dualismo, oltre ‘il pensare il bene ed il male’ c’è un vero sé essenziale? Budda ha insegnato che il sé è ‘vuoto’, che non ha assolutamente natura fissa o essenziale. Tutto quello che c’è è ciò che le stesse parole di apertura del koan ci dicono: essere proprio questo momento è il nostro vero sé. Il nostro volto originario non può essere altro che il volto di questo momento”. (B. Magid, “Your Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 265-266) 32

P. A. Ringstrom, “Psychoanalysis and Buddhism: Two Extraordinary Paths to An Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 288. Così, prendendo le distanze da Winnicott, anche M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 68-69. 33

B. Magid, op. cit.: 271. 34

Vedi in proposito di nuovo J. Engler, op. cit.: 52. 35

C.G. Jung (1939), “Prefazione a D.T. Suzuki, ‘La grande liberazione. Introduzione al buddismo zen’” in Opere, XII, Boringhieri, Torino 1979: 549-567.

10

ancora considerare tre aspetti. 1) Col segnalare la finalità difensiva (della continuità e della

sicurezza del sé) del pensare per segni - cioè del ridurre il vissuto al concetto, il nuovo, il

particolare e l’affettivamente pregnante all’astratto e al già noto) il pensiero buddista

mostra di privilegiare un’attenzione al concreto, al differente, al non riducibile che è

rispetto profondo (come ancora vedremo) di ogni alterità ma è anche del tutto affine, nel

contesto junghiano, all’esperienza simbolica - al modo proprio di manifestarsi dell’alterità

dell’inconscio. 2) L’idea di un sé solo processuale che non conosce un’identità

precostituita ma che si esplica e con ciò stesso si scopre, momento dopo momento, solo

nella pratica dell’accettazione, cioè nella piena adesione al presente, è molto simile

all’idea junghiana di individuazione come ricerca/accettazione del corpo, della propria

forma, e del proprio limite. 3) Infine Jung mette in relazione la sua nozione del sé con

l’idea buddhista di una ‘coscienza della coscienza’:

La possibilità che esistano vari stadi nello sviluppo della coscienza non ci viene nemmeno

in mente; il solo pensiero che esista una forte differenza psicologica fra la coscienza

dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto assomiglia

molto da vicino a un cavillo che appena merita risposta. (...) Furono lo yoga in India e il

buddhismo in Cina a dare l’avvio a questi tentativi di strapparsi alla cattività di un dato

stato di coscienza, sentito come imperfetto. Per quanto riguarda la mistica occidentale i

suoi testi sono pieni di istruzioni sul modo in cui l’uomo possa e debba liberarsi dell’essere

Io della sua coscienza, onde elevarsi, per mezzo della conoscenza della sua natura, al di

sopra di questa e raggiungere l’uomo interiore (divino). (...) Questo nuovo stato di

coscienza derivato dalla pratica religiosa si distingue per il fatto che le cose esteriori non

influiscono più su una coscienza fatta di Io ... ma che una coscienza vuota è aperta a

un’influenza diversa. Questa influenza “diversa” non è più sentita come attività propria, ma

come quella di un non-Io il cui oggetto è la coscienza. E’ come se il carattere soggettivo

dell’Io fosse stato sopraffatto o assunto da un altro soggetto che si fosse messo al posto

dell’Io.36

L’obiezione buddhista a a queste note di Jung sarebbe che una ‘coscienza della

coscienza’ che la ponesse a oggetto di un altro soggetto sarebbe appunto coscienza di un

oggetto (di quella stessa coscienza oggettivata) non della coscienza colta nel suo operare

come “carattere soggettivo dell’io” o soggettività conoscente; allo stesso modo in cui

l’occhio può vedere se stesso come oggetto riflesso in uno specchio ma non nell’atto del

suo vedere. Ne segue che se si vuole pensare il Sé come ‘coscienza della coscienza’37

non si può porlo come ‘altro soggetto’ cui si oppone un oggetto. Come chiarisce assai

bene Engler

non posso osservare direttamente il mio sé osservante. Se lo faccio ... muto soltanto l’atto

della consapevolezza in un altro oggetto di consapevolezza in una regressione all’infinito.

... (...) Il sé che io rappresento, il “sé” che io posso conoscere o afferrare non è mai “me”.

L’occhio che vede, dice lo Zen, non può vedere sé stesso. E infine è chiaro: non possiamo

staccare il nostro “sé” dalla consapevolezza perché siamo quella consapevolezza.

36

Ibidem: 555-556. 37

Ibidem: 553.

11

In questo senso la consapevolezza non è semplicemente una funzione dell’Io. (...) La

consapevolezza in quanto tale non può mai essere oggettivata, colta come un oggetto,

identificata coi contenuti della coscienza, rappresentata come “questo o “quello”. E’ di

natura fondamentalmente diversa: senza qualità, senza limiti, senza confini: (...) In

essenza Io non sono nulla che possa essere nominato o pensato, rappresentato o negato,

trovato o perso. “Chi sei” dice Sri Nisargatta Maharaj, “è indefinibile e indescrivibile. La

consapevolezza soggettiva è ciò che rende possibile l’esperienza, ma non è essa stessa

esperienza. (...) la piena realizzazione di ciò è la consapevolezza non dualistica come

proprio stato naturale. L’identificazione con ogni rappresentazione o attività di un sé

separato diviene impossibile”.38

E’ però interessante che altrove lo stesso Jung si avvicini molto a questa prospettiva:

Proprio come l’Io è una certa esperienza di me stesso, così il Sé è un’esperienza del mio

Io, vissuta però non più nella forma di un Io più vasto e più alto, ma in forma di un non-

Io.39

E ancora, più diffusamente:

Poiché il numero di possibilità è limitato si raggiunge ben presto una frontiera, o piuttosto

frontiere che arretrano una dopo l’altra presumibilmente fino al momento della morte.

L’esperienza di queste frontiere conduce gradualmente alla convinzione che quanto viene

esperito è un’interminabile approssimazione. Lo scopo di questa approssimazione sembra

essere anticipato da simboli archetipici che rappresentano qualcosa come la

circumabulazione di un centro. Al crescere dell’approssimazione al centro c’è un

corrispondente depotenziamento dell’Io a favore dell’influenza del centro “vuoto” che certo

non coincide con l’archetipo ma è ciò cui l’archetipo mira. Come direbbero i Cinesi,

l’archetipo è soltanto il nome del Tao, non il Tao in sé. Così come i Gesuiti traducevano

Tao come “Dio” così noi possiamo descrivere la “vuotezza” del centro come “Dio”.

Vuotezza in questo senso non significa “assenza” o “vacanza” ma qualcosa di

inconoscibile dotato della più elevata intensità. Se io chiamo questo inconoscibile “Sé”

tutto ciò che è accaduto è che gli effetti dell’inconoscibile hanno ricevuto un nome

aggregato, ma i suoi contenuti non ne sono affetti in alcun modo. Una parte

indeterminabilmente ampia del mio stesso essere è inclusa in esso, ma poiché questa

parte è l’inconscio non posso indicare i suoi limiti e la sua estensione. Il sé è pertanto una

concetto liminare, in alcun modo riempito coi processi psichici noti.40

3. Al terzo punto di questa esposizione sono le implicazioni di un pensiero analitico

ispirato al buddhismo per l’ascolto e la pratica psicoterapeutica. Anche in quest’ambito è

indiscutibile un nesso di continuità fra autori buddhisti e psicoanalisi relazionale (a sua

38

J. Engler, op. cit.: 66. 39

C. G. Jung, op. cit.: 553. 40

C. G. Jung, Letters, Routledge, London 1975, II: 258, traduzione mia.

12

volta vicina, per una serie di aspetti, alle posizioni originali di Jung41

). Sé del paziente e sé

del terapeuta sono intesi ambedue come relazionali e molteplici e ’normalmente o

patologicamente dissociativi’42 (nel senso già visto di Mitchell e Bromberg), e come tali si

esprimono e operano anche all’interno della relazione analitica. Il terapeuta, in particolare,

non si può ergere a ‘osservatore oggettivo’ - colui che ‘sa’ i contenuti dell’inconscio - né

l’attitudine del paziente verso di lui si può spiegare, in modo esauriente, come distorsione

dovuta al transfert. L’incontro analitico vive invece del gioco sempre irripetibile

dell’interazione fra quel paziente e quell’analista e della loro influenza reciproca (deve

restare, perciò, una questione aperta in qual misura questa interazione segua modelli

caratteristici di altre relazioni della vita del paziente); e il compito del terapeuta - che può

definirsi di osservatore partecipante - è 1) monitorare al meglio i propri sentimenti, le

proprie reazioni, anche le proprie sensazioni fisiche, 2) guidare, a partire di qui

un’osservazione congiunta di quanto accade volta per volta nel qui ed ora della relazione

per trarne ipotesi sui processi psichici del paziente. Da ripensare è anche il vecchio

concetto di ‘resistenza’, che non può più soltanto indicare una generica difficoltà del

paziente a divenir consapevole di certi sentimenti o emozioni ma deve includere anche il

contributo eventuale del terapeuta: ossia “esplorare che cosa il paziente teme che accada

se tali emozioni vengono espresse nel qui ed ora della relazione terapeutica”.43

La differenza essenziale tra questo approccio e quello della psicoanalisi tradizionale suole

riassumersi nel venir meno di ogni finzione o di ogni pretesa di ‘oggettività’ per il terapeuta

“relazionale. Ma ‘oggettività’ (o meglio: assenza di oggettività) si può ancora intendere in

una doppia accezione. Come mancanza di referenti o evidenze per il lavoro analitico il cui

significato sia indiscutibile, in quanto univoco e palese per tutti: non-oggettività, allora, col

significato di relatività, o impossibilità, intesa dal vertice dell’analista, di non trasferire

nell’interpretazione il carico della sua psicologia personale. O ancora, declinata invece dal

vertice del paziente, come portato dalla natura interpersonale del lavoro analitico che

come tale vuol rivolgersi all’altro nella sua differenza e nella sua unicità; nel suo sottrarsi,

pertanto, sempre e di continuo all’oggettivazione, a qualsiasi genere di omologazione

teorica e ad ogni riduzione a categorie ed a concetti con la conseguenza di destabilizzare

lo stesso analista: frustrandone le velleità di conoscenza e controllo, anche i bisogni di

distanziamento fra sé e il paziente, ed attraendolo a sua volta a coinvolgersi nella totalità e

quindi anche nell’assoluta specificità della propria persona.44 Lewis Aron, sulla scorta di

Winnicott e Jessica Benjamin,45 descrive proprio in questi termini l’andamento alternante -

fra oggettivazione e intersoggettività - della relazione analitica:

41

Sul punto vedi, da ultimo W. Colman, “Bringing it all back home: how I became a relational analyst”, The Journal of Analytical Psychology, 58, 4, Sept. 2013: 470-49. 42

Bromberg precisa, a questo proposito che il trauma evolutivo (o trauma relazionale) come egli lo intende “fa parte del processo di modellamento dei precoci pattern di attaccamento (incluso l'’attaccamento sicuro’), che a sua volta determina quelli che Bowlby (1969,1973,1980) chiama ‘modelli operativi interni’. (...) Vale a dire che il trauma connesso all'attaccamento è parte dell'esperienza passata di tutti e un fattore centrale in ogni trattamento; per alcuni pazienti però ha portato a una struttura mentale dissociativa che si è impossessata del funzionamento della personalità e della vita mentale, imponendo quindi la "Verità" su presente e futuro.” (P. M Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 71 e 103-104. 43

J.D. Safran. J. C. Muran, op. cit. : 100. 44

I riferimenti filosofici d’obbligo sono qui M. Buber (1984), “Io e tu” in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997 e E. Lévinas (1971), Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977. 45

Aron rimanda, in particolare, a D. W. Winnicott, “L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” in Gioco e realtà, Armando Armando, Roma 1974 e all’interpretazione di questo lavoro (come superamento dell’oggettivazione e come scoperta della soggettività della madre/altro) proposta da J.

13

Suggerisco che la relazione intersoggettiva sia continuamente interrotta tra le persone -

anche tra paziente e analista - scambiandola per una relazione soggetto-oggetto, e che

poi la relazione intersoggettiva sia ristabilita. Credo che l’intimità non coincida con

l’intersoggettività ma che, piuttosto, trascenda questa relazione dialettica. L’intimità implica

la sopravvivenza e il sostentamento di questa relazione tramite la continua creazione e

distruzione dell’intersoggettività.46

L’alternativa - o, più radicalmente, l’antidoto - al ‘pregiudizio’ dell’analista, in questa

prospettiva non è soltanto una comprensione più completa e migliore, resa possibile -

come propongono ad esempio Safran e Muran47 - in una sorta di dialogo ermeneutico; è

un coinvolgimento con la persona o l’esser soggetto dell’altro che ci mantiene in tensione

verso di lui, incessantemente in ascolto perché ci sollecita di continuo all’interpretazione

ma ci fa vivere via via come impropria e virtualmente insoddisfacente ogni comprensione o

qualsiasi giudizio. Questa visione - che riprende, incidentalmente, quasi alla lettera le

prescrizioni di Bion sulla capacità negativa e sulla necessità di astenersi (per l’analista) da

attività mentale, desiderio e memoria48 - è in sintonia con la dottrina buddhista, riferita

sopra, sui rischi della proliferazione mentale e sulle finalità difensive - per la stabilità della

rappresentazione del sé - della omologazione al già noto, a scapito delle capacità

percettive e dell’efficacia dell’Io. Qui infatti non si tratta già più - lo si è visto sopra -

soltanto di includere la soggettività conoscente (nel nostro caso quella dell’analista), come

nel primo approccio relazionale; quanto, piuttosto, di rendersene consapevoli e di

trascenderla, per quanto possibile, come momento a sua volta relativo nella dualità

continuamente ricreata di soggetto ed oggetto del processo di conoscenza, dunque da

subordinare alla qualità e all’efficacia di questo. L’esito un po’ paradossale, e

però),innegabile, come ancora vedremo è alla fine il recupero, nella prima accezione del

termine, non di una pretesa ma di una tensione all’oggettività.

Per la psicoanalisi (e la psicologia analitica) ispirate al buddhismo ciò si è tradotto, molto

concretamente, non nel semplice invito a una disciplina mentale - come già in Bion - ma

nell’acquisizione al lavoro analitico e soprattutto al training quotidiano dell’analista di

pratiche tratte dalla meditazione di consapevolezza. A tali pratiche - a questo punto anche

dissociabili e dissociate, di fatto da un credo buddhista - o, meglio ancora al tipo e alla

qualità di attenzione che con esse si mira a far crescere e sostenere va il nome generale

Benjamin, “Recognition and Destruction: An Outline of Intersubjectivity” in S. A. Mitchell, L. Aron (a cura di), Relational Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 183-210, traduzione italiana parziale in J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello Cortina, Milano 1996. 46

L. Aron, A meeting of minds, The Analytic Press , Hillsdale and London 1996: 152 (traduzione mia); citato da J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 68. 47

J. D. Safran, J. C. Muran, op. cit. : 44-45. 48

Vedi soprattutto W. R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Armando, Roma 1973 e W. R. Bion (1965) Trasformazioni, Armando Armando, Roma 1973. Ma sono anche da ricordare i contributi di Marion Milner e Karen Horney: M. Milner, “The concentration of the body” in The suppressed madnes of sane men, Tavistock Publications, London & New York 1987: 234-240 e K. Horney, Final Lectures, ed. by D. Ingram, Norton, New York 1987: 19.21 citato da M. E. Miller, “Zen and Psychotherapy” in P. Young Eisendrath and S. Muramoto (a cura di), Awakening and Insight. Zen Buddhism and Psychotherapy, Brunner-Routledge, New York 2002: 85.

14

di Mindfulness (variamente tradotto con ‘presenza mentale’, ‘consapevolezza’ o anche

‘pienezza della consapevolezza mentale’). Tale attenzione è stata definita:

Focalizzata, cioè orientata in modo esclusivo verso un determinato oggetto ... (il proprio

respiro, un’amica con la quale stiamo parlando ... una sensazione corporea). E’ importante

che, quando ci si rende conto che l’oggetto stabilito non è più al centro del focus attentivo,

si compia ... una intenzionale rifocalizzazione dell’attenzione verso quell’oggetto dal quale

ci si è allontanati.

Rivolta al momento presente, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto ci si riesce)

verso l’esperienza che si sta vivendo qui ed ora: ogni volta che si diviene consapevoli che

la mente ci ha trasportato ... nel passato o nel futuro ... è importante che si attivi ... un

riposizionamento dell’attenzione sul momento presente.

Non categorizzante, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto si riesce, all’esperienza

in cui ci si trova, senza usare le categorie, le classificazioni, e i giudizi abituali per

comprenderla: ogni volta che si diventa consapevoli che la mente sta operando una

sistematizzazione di quello che sta accadendo in base a schemi pregressi, e importante

che si metta in atto ... un riorientamento dell’attenzione sulla qualità di novità

dell’esperienza, che di fatto possiede.49

Trasferita nel contesto analitico (sempre gli autori di ispirazione buddhista50 insistono

molto sulla sua affinità con la attenzione ugualmente sospesa prescritta da Freud51)

l’attenzione mindful ha di mira anzitutto le autodifese dell’analista - messe in atto,

comunemente, col ritirarsi dalla relazione, con l’assimilarla a situazioni trascorse o

proiettandola nel futuro, col neutralizzarne l’impatto emotivo mediante astrazioni - ogni

qualvolta la relazione stessa sia troppo frustrante, dolorosa o allarmante o comunque

coinvolga aree di forte vulnerabilità, facendo prevalere su un’attitudine recettiva una

risposta reattiva. Può però trasmettersi - per ragioni del tutto analoghe - dall’analista al

paziente (Wallin definisce la psicoterapia, sotto questo profilo, come una specie di

meditazione a due52) in modo tacito o per inviti espliciti: ad esempio col chiedere

ripetutamente al paziente di soffermarsi su ciò che sente in un determinato momento, di

provarsi a descriverlo nei dettagli e anche indicare dove lo sente (in quale area del corpo).

Lo sfondo che potremmo chiamare ‘umanistico’ (in effetti ancora vicino al buddhismo) di

questa pratica dell’attenzione è l‘accettazione non giudicante (la meditazione di

consapevolezza ha qui la funzione di renderci consci, momento dopo momento, dei giudizi

e delle risposte di rifiuto che rivolgiamo innanzitutto a noi stessi); e la compassione per

noi medesimi “che emerge quando diventiamo capaci di aprirci [anche] alle esperienze

dolorose”.53 In particolare: col trattare noi stessi gentilmente e senza giudicarci con

severità; riconoscendo che errori, fallimenti e avversità fanno parte della comune

49

G. Amadei, Mindfulness. Essere consapevoli, Il Mulino, Bologna 2013. 50

In particolare M. D. Epstein, “Sulla negazione dell’attenzione ugualmente sospesa”, in A. Molino, R. Carnevali (a cura di), op. cit.: 160-175) e M. Epstein (2007), Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio, Roma 2008: 95. 51

S. Freud (1912) “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, Opere, VI, Bollati Boringhieri, Torino1989,: 532-533. 52

D. J Wallin (2007) Psicoterapia e teoria dell’attaccamento, Il Mulino, Bologna 2009: 264. Questo testo, ai capitoli IX e XVII contiene una sintesi eccellente dell’approccio mindfulness in psicoterapia. 53

Ibidem: 283.

15

esperienza umana; mantenendo un’equilibrata consapevolezza di pensieri e sentimenti

spiacevoli, invece di evitarli, cancellarli o identificarsi eccessivamente con essi.54 Sempre

per Wallin una tale apertura tenderà ad autoconsolidarsi in quanto la consapevolezza

anche dei sentimenti dolorosi ne farà comprendere sempre di più la qualità transitoria

rendendoli, con ciò stesso, assai meno temibili; legando, di conseguenza, sempre di più

alla consapevolezza, più che a figure protettive interiorizzate o a determinati stati mentali il

nostro senso di sicurezza; ed evitando il sovrappiù di sofferenza sempre legato allo sforzo

di evitare il dolore.55

In termini più formali l’attenzione mindful mirerà a sospendere per quanto possibile gli

automatismi categorizzanti o ‘dall’alto in basso’ (dei quali a lungo si è detto sopra)

finalizzati alla previsione e alla sopravvivenza adattiva per dare spazio alla modalità

senso-percettiva (‘dal basso verso l’alto’) vuoi verso l’esterno (nel setting analitico:

l’espressione facciale, il tono di voce, le sfumature emotive, la postura corporea del

paziente) vuoi verso l’interno (pensieri, sentimenti, emozioni, anche stati fisici dell’analista

- osservati, però, e anche utilizzati, ma in modo equanime e ad una certa distanza, alla

stregua di eventi o stati transitori e dunque senza identificarsi con essi56). Questa

attenzione accrescerà l’efficacia (ai fini del cambiamento) del dialogo terapeutico con

l’ancorarlo più saldamente all’esperienza vissuta, ossia al qui ed ora più che alla semplice

riflessione o ricostruzione retrospettiva e al vissuto emozionale-corporeo oltre che alla

comprensione concettuale. Notano in proposito Safran e Muran:

Diversamente da quanto accade per un pensiero più concettuale, che può essere staccato

dall'azione, la conoscenza a livello corporeo ha sempre implicazioni per il passo

successivo all'attuale. Quando un individuo ha una nuova sensazione, dà a se stesso

un'irrefutabile informazione su quanto l'intera configurazione relazionale significhi

realmente per lui come organismo intero, e tale significato ha risvolti impliciti per l'azione.

(...) L'insight emozionale, o consapevolezza, comporta così la rivalutazione di un evento o

di un'esperienza in un modo che conduce al «che cosa vuoi dire per me ora». (...) Ciò

riflette il fatto che l'individuo conosce qualcosa in maniera differente, come un organismo

concreto, in interazione con l'ambiente circostante.57

54

K. D. Neff, “Self-compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself” in Self and Identity, 2: 85-101, 2003 citato da R. a. Baer, “la compassione di sé” in R. A. Baer (2010) a cura di, Come funziona la mindfulness, Raffaello Cortina, Milano 2012: 130. 55

D. J. Wallin, op. cit.: 263. 56

Su questo punto, veramente essenziale, vedi quanto scrive D.J. Siegel (2007), Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009: 25-26: “Da questo modo di essere riflessivo, mindful, emerge un processo fondamentale chiamato ‘discernimento’, in cui diventa possibile essere consapevoli del fatto che le attività della propria mente non sono la totalità di ciò che si è. Il discernimento è una forma di disidentificazione dall’attività della propria mente: quando diventi consapevole delle sensazioni, dei sentimenti e dei pensieri ... arrivi a vedere queste attività come delle onde che si muovono sulla superficie del mare della mente. Da questo luogo più profondo della mente, da questo spazio interno della consapevolezza mindful, è possibile notare come le onde superficiali del cervello vadano e vengano. Questa capacità di liberarsi dal chiacchiericcio della mente, di capire che queste sono “solo attività della mente”, è un’esperienza liberatoria e per molti perfino rivoluzionaria”. Vedi anche, dello stesso autore, The Mindful Therapist, Norton, New York & London 2010. 57

J.D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 63.

16

In questa linea, per richiamare un esempio recente, può rilevarsi un alto grado di

congruenza fra attitudine mindful e i contributi di Daniel Stern e del Boston Change

Process Study Group sul cambiamento in psicoterapia e la conoscenza relazionale

implicita. Si tratta di cogliere e valorizzare anche in questo caso il momento presente - i

cosiddetti now moments - con la totale disponibilità da parte dell’analista a mettersi in

gioco personalmente nella situazione, esponendosi senza difese ai suoi elementi di novità

e al suo impatto emotivo e offrendo così una risposta che attesti, per ambe le parti, la

saldatura di di un nuovo piano di sintonizzazione emotiva.

I momenti più interessanti sorgono quando il paziente fa qualcosa che è difficile

catalogare, qualche cosa che richiede una reazione nuova e diversa, contraddistinta da

una firma personale che fa condividere al paziente lo stato soggettivo dell’analista (affetti,

fantasie, esperienze reali ecc.). (...) Il terapeuta deve usare un aspetto specifico della

propria individualità, un aspetto che porta una connotazione personale. I due soggetti si

incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai

loro rispettivi e ordinari ruoli in terapia. Inoltre le azioni che costituiscono il “momento di

incontro” non possono essere consuete, abituali o tecniche; devono essere nuove e

forgiate per soddisfare le particolarità del momento.58

Vi sono da ultimo, per concludere, linee assai rilevanti di convergenza del pensiero

mindful con l’impostazione junghiana. Già l’insistenza sul non sottrarsi al confronto con

temi dolorosi o allarmanti e soffermarsi, al contrario, in un contatto approfondito con essi

risuona affine alla basilare prescrizione di Jung sull’importanza di ‘stare nel conflitto’

perché si produca un cambiamento spontaneo e più autentico - la cosiddetta funzione

trascendente (ciò sia nel conflitto esclusivamente interiore, sia nel confronto

intersoggettivo). In aggiunta a questo ritengo assai significative alcune considerazioni

recenti (penso, in particolare, all’ultimo libro di Maria Ilena Marozza59) sulla questione - a

cui si è qui solamente accennato - della tensione all’oggettività nell’ascolto analitico. In

sintesi, ritiene Marozza, si può pensare ad una base di oggettività in psicoanalisi a

condizione di fare spazio (esattamente come propone l’approccio mindful) alla dimensione

sensoriale-affettiva, che in ogni caso accompagna sempre la comunicazione verbale, la

completa, la qualifica e la precisa radicandola nello spessore psico-corporeo; ma si

differenzia, contestualmente, da essa perché non confluisce nell’astrattezza dei segni e

quindi non si offre, al pari di questi, all’immediatezza della comprensione linguistica. Essa

piuttosto trattiene nel concreto, contagia e provoca alla ricerca di una comprensione che

non può contare su di un sapere generalizzabile (ma quindi non può nemmeno venir

tradita o fraintesa in forza di preferenze teoriche o categoriali) ma obbliga - proprio come il

simbolo60 - a soffermarsi nell’esperienza e a esporsi a lungo al coinvolgimento e alla

58

Cfr. The Boston Change Study Group (2010), Il cambiamento in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano 2012: 15-16. 59

M.I. Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo 2012. Ma vedi anche M.La Forgia e M. I. Marozza, Le radici del comprendere, Fioriti, Roma 2005 e M. La Forgia e M. I. Marozza (a cura di), La conoscenza sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo 2008. 60

Sull’affinità fra impegno in chiave di ‘capacità negativa’ e esperienza simbolica ho scritto in G. Kaufman, “Il silenzio del padre nella relazione analitica. Bion, Jung e una rilettura del simbolico” in Il Padre. Parola Silenzio Trasformazione”, Atti dell’XI Convegno Nazionale del Centro Italiano di Psicologia analitica,

17

condivisione: e appunto qui, in questo tratto non riducibile di autoreferenzialità o

intransitività è quanto rende “la realtà dell’affetto ... la manifestazione fenomenica e del

tutto oggettiva, di una supponibile realtà dell’inconscio: poiché, come scrive Matte Blanco,

nulla ci conduce ad una chiara distinzione psicologica fra l’emozione e l’inconscio”.61 In

particolare, nello specifico della costruzione junghiana il nesso mai del tutto scindibile fra

strato sensoriale-affettivo e dimensione rappresentativa-ideativa, su fino al piano verbale-

razionale si salda nell’unità dei complessi e nel loro operare a differenti livelli di coscienza

cui corrispondono modalità qualitativamente diverse (ma tali da confrontarsi e completarsi

l’una con l’altra) di registrazione delle esperienze. Ne segue “la possibilità ... di insediare

l’ordine linguistico e la capacità di significare nell’ordine dell’esperienza soggettiva vitale e

diretta”.62 E in primo luogo di riscontrare le rappresentazioni logico-razionali ma in potenza

del tutto astratte del complesso dell’io (inclusa la distinzione che solo qui si rappresenta

compiutamente fra il sé ed il mondo) con quanto si esprime dai complessi secondari in

modo più indistinto ma impegnativo e pregnante dell’esistenza emozionale e sensoriale di

base.

Vivarium 2002. Sul coincidere fra esperienza simbolica e incontro con la “cosa in sé” vedi M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986: 80-83. 61

Scrive ancora Marozza: “Solo in questo senso possiamo tenere insieme il significato più profondo del termine inconscio, come ciò che non è conosciuto, ritenerlo eternamente tale e connaturato all'esperienza umana e nello stesso tempo considerarlo assolutamente influente e talmente oggettivo da poter essere la vera fonte dell'attività psichica, manipolabile dalla soggettività cosciente solo nella direzione da esso stesso consentita.” (M.I. Marozza, op. cit.: 210-211). 62

Ibidem: 207.

GIANNI KAUFMAN

SE’/NON SE’. INTRECCI TRA BUDDISMO E PSICOANALISI

SEMINARIO CIPA. MILANO 12 OTTOBRE 2013.

1. Oggetto del mio intervento è l’incontro - che risale almeno alla metà degli anni ’90 - fra

buddhismo, psicoanalisi e psicologia analitica e le ricadute o gli ulteriori sviluppi di questo

incontro riferibili essenzialmente a due temi: 1) sul piano teorico la natura o le

caratteristiche proprie del sé, 2) sul piano pratico la qualità della consapevolezza o

dell’attenzione in psicoterapia e il ruolo che in questo ambito può riconoscersi alla pratica

meditativa. Se si accantonano, ma solo momentaneamente, i contributi propriamente

junghiani - la teoria dei complessi e la metapsicologia del Sé - l’incontro fra psicologia

dinamica e l’impresa di decostruzione del sé della tradizione buddista si prepara anzitutto

con le proposte, al tempo assai innovative, della psicoanalisi relazionale.1 Già in un lavoro

del ’93 Stephen Mitchell (un autore non espressamente interessato al buddismo) notava il

succedersi nella tradizione psicoanalitica di due metafore per la rappresentazione del sé:

una metafora di tipo spaziale - quella di Freud - “il sé come stratificato, singolo e continuo

(...) la mente come un posto in cui le cose accadono, il sé come qualcosa in quel posto,

composto di parti o strutture costitutive”. E una metafora di tipo temporale, inclusa

dapprima nella teoria delle relazioni oggettuali e sostenuta, dopo di essa, dai vari approcci

di tipo relazionale. Qui il sé coincide con esperienze differenziate secondo l’ambito e la

qualità dei rapporti, e quindi è inteso come molteplice e discontinuo. “Poiché apprendiamo

a divenire persone mediante l’interazione con differenti altri e attraverso interazioni

differenti col medesimo altro la nostra esperienza del sé è discontinua, composta di

differenti configurazioni, differenti sé con differenti altri. (...) il risultato è un’organizzazione

plurale e multiforme del sé, modellata su differenti immagini o rappresentazioni del sé e

dell’oggetto, derivate da differenti contesti relazionali.” Così “i sé cambiano e si

trasformano continuamente nel tempo, e una singola vita è composta di più sé.

Un’esperienza del sé ha luogo necessariamente in un momento del tempo; essa riempie

lo spazio psichico e un’altra versione alternativa del sé sfuma sullo sfondo”.2 Ancora: se

applichiamo la prima metafora, - il sé come entità singola e stratificata - “ha senso

approcciarlo come (...) una cipolla, tentare di situarne il ‘centro’ o il ‘cuore’, delinenarne gli

strati, differenziarne le parti autentiche da quelle false, la struttura protettiva e così via”.3

Se tuttavia “il sé si muove nel tempo piuttosto che esistere nello spazio non ha un nucleo

fisso”. La ricerca di un nucleo invariante o di un ‘vero’ sé, colto ai suoi inizi, nella sua

essenza presociale, al di sotto degli adattamenti e delle negoziazioni con altri, “implica

rimuovere il sé dal tempo, uno sforzo male indirizzato per rendere statiche le

organizzazioni mutevoli dell’esperienza del sé.” Può accadere che io mi senta più

autentico (o meno autentico, meno spontaneo o più stereotipato) in certi modi di agire o di

esprimermi, in certe occasioni o in certe situazioni: ma ciò non implica rinviare ad un

‘nucleo’, a un ‘vero’ o ‘un ‘autentico’ me. “Facciamo esperienza di noi stessi nel tempo.

1 Per una critica stringente, sul piano filosofico, dei presupposti e delle implicazioni dell’approccio relazionale

vedi il recente lavoro di J. Mills, Conundrums. A Critique of Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York 2012. 2 S. A. Mitchell, Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York 1993: 101-104.

3 Ibidem: 101.

2

Possiamo valutare una nuova esperienza in termini di continuità o discontinuità col

passato e il presente; una nuova esperienza può rappresentare ed esprimere la propria

storia e la situazione presente oppure negare e tradire la propria storia e condizione

presente o ancora riformulare la propria storia e condizione presente in un modo nuovo e

arricchente. Il senso di autenticità è sempre una costruzione, e come costruzione è

sempre relativa ad altre possibili costruzioni del sé in ogni tempo particolare.”4

Con tutto questo - chiariva Mitchell - non può negarsi anche l’esistenza di un senso o di un

vissuto di continuità nell’esperienza del sé, indipendente dai cambiamenti nel tempo, in

forza del quale mi rappresento, ad ogni istante, come un Io identico, a cui rimandano i miei

ricordi in passato e che proietto nel mio futuro. Questo sentire è anche condizione di un

senso di agency, di continuità e responsabilità nell’agire, e ancora della possibilità di

imporre un’ordine di priorità a scopi impulsi e motivazioni, il non sentirsi trascinati qua e là.

Ciò è vero anche se non è semplice, all’atto pratico, stabilire quanto vi sia in tutto questo

di soggettivo o propriamente oggettivo. “Può essere che io faccia tutto ciò che faccio, ma

può anche essere che io faccia certe cose in contesti esperienziali del tutto diversi da

quelli in cui faccio altre cose. L’Io che fa cose diverse è un Io diverso in tempi diversi”.5 E

In ogni caso questa maniera di rappresentarsi del sé come agente autonomo e separato

non pare rispondere - Mitchell cita qui Clfford Geertz - a un’istanza evolutiva di tipo

universale quanto, piuttosto, a un dato culturale:

La concezione occidentale della persona come un universo motivazionale e cognitivo

delimitato, unico, più o meno integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emozione,

giudizio e azione organizzati in un insieme distinto e contrapposto sia ad altre entità simili

sia al contesto sociale e naturale è, per quanto incorreggibile ci sembri, un’idea

abbastanza peculiare nell’insieme delle culture mondiali.6

Può a questo punto suonare discordante, dopo tanti argomenti a favore di un sé

relazionale e molteplice, che le conclusioni di Mitchell siano da ultimo caute. “Potrebbe

ritenersi” - leggiamo infine - “che il senso di continuità nell’esperienza del sé sia totalmente

illusorio. Esso però assolve, almeno nella nostra cultura, a un’importante funzione

adattiva” E d’altra parte i due modi di rappresentare il sé - come molteplice e discontinuo,

e come integro, continuo e separabile, non sono reciprocamente esclusivi. “Le persone

4 Ibidem: 130-131. Anche le nozioni di Winnicott di ‘vero‘ e ‘falso’ sé riferite al rapporto del bambino col seno,

secondo Mitchell, “sono un importante punto di partenza ma si tratta di una situazione troppo semplificata quando si considera l’esperienza adulta. Tutte le motivazioni personali hanno una lunga storia relazionale, il sé è sempre immerso in contesti relazionali, attuali o interni, perciò tutte le motivazioni importanti sono apparse e hanno preso vita e forma in presenza e attraverso le reazioni di altri significativi.” (Ibidem: 134) 5 Ibidem: 109.

6 C. Geertz, “From the Native’s Point of View: On the Nature of Anthropological Understanding” in Local

Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York 1979: 59, citato da S. Mitchell, op. cit.: 110. Vedi anche quanto scrive J. Engler, “Being Somebody and Being Nobody: A Reexamination of the Understanding of Self in Psychoanalysis and Buddhism” in J. D. Safran (a cura di), Psychoanalysis and Buddhism. Un Unfolding Dialogue, Wisdom Publications, Boston: 51: “Nelle culture da cui il Buddismo è emigrato verso occidente, preminentemente in India e Giappone, il senso del sé è molto più mescolato con gli altri in un ‘senso del noi’ che è profondamente differente dall’’Io-sé’ separato ed autonomo dell’esperienza occidentale. Il sé è esperito come incorporato in una matrice di relazioni e come definito da tali relazioni, non solo la matrice delle relazioni umane e sociali ma la matrice più comprensiva delle relazioni all’interno del mondo della natura, e da ultimo il cosmo nel suo insieme”.

3

agiscono sia in modo discontinuo che in modo continuo. (...) In ogni momento dato una

persona opera a partire da un determinato contesto relazionale (...); al contempo quella

specifica versione del sé contribuisce a dar forma a una sequenza continuativa di

esperienza che ha le sue caratteristiche distintive. (...) Pensiamo al sé come alla sequenza

dei fotogrammi di un film. In ambedue i casi l’esperienza del movimento e della continuità

è un’illusione. Ma “l’illusione” “crea un’esperienza che ha una grande ricchezza soggettiva

in proprio, producendo un’immagine più ampia e ‘in movimento’ molto diversa (e molto

maggiore) della semplice somma delle immagini singole”. Similmente nel percorso

analitico “quanto più l’analizzando può tollerare di esperire versioni molteplici di se stesso,

tanto più si vivrà come forte, duraturo e capace di resilienza. E reciprocamente quanto più

l’analizzando ritrova dei tratti di continuità nel passaggio tra le sue varie esperienze, tanto

più può reggere la diffusione di identità implicita nel far convivere molteplici versioni del

sé”.7

Resta comunque, del discorso di Mitchell - e, se si vuole, anche in virtù delle sue

conclusioni - il punto forse più innovativo. Che si privilegi l’aspetto della discontinuità e

molteplicità o invece quello della continuità, il sé viene a perdere in ogni caso qualsiasi

carattere sostanziale per riproporsi come mera rappresentazione: capace, proprio per

questo, di più versioni e modi di esperienza possibili, nessuna eguagliabile a un ‘vero sé’.

Un corollario di questa innovazione è un diverso approccio ai temi dello sviluppo. Così

l’idea di un sé preesistente alla nascita il cui realizzarsi può solamente essere facilitato o

impedito lascia spazio all’ipotesi di più percorsi possibili grazie al convergere tra

potenzialità del bambino e influsso prevalente dell’uno o l’altro caregiver.8 Inoltre - si fa

ancora osservare - già negli scritti di Winnicott, l’opposizione tra sé ‘vero’ e ‘falso’ viene

formulata anche come antitesi fra non-integrazione - la possibilità per l’infante di rilassarsi

e abbandonarsi all’esperienza del gioco alla presenza rassicurante della madre - e

necessità di reagire, in modo prevalente, a stimoli o intrusioni esterne. In quest’ultimo caso

- ma solo in questo (ad esempio quando debba far fronte ad una madre angosciata o

depressa) - il bambino isola un proprio mondo privato (il suo ‘vero sé’) fino a nasconderlo

perfino a se stesso e si concentra sulla gestione del mondo esterno.9 Un ultimo modo,

infine, di ripensare quell’opposizione è prender atto della tensione costante, nel corso

della vita di ognuno, fra spontaneità e esigenza di conservare relazioni sicure10 (perciò

tener conto del proprio impatto sugli altri) o ancora fra agentività e relazionalità11 o fra

7 S. Mitchell, op. cit.: 115-116.

8 Ibidem: 129.

9 Scriveva Winnicott : “Soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la

propria vita personale. L’alternativa patologica è una vita falsa costruita su reazioni agli stimoli esterni. Quando è solo, nel senso suddetto, e solamente quando è solo, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, e cioè è in grado di diventare non-integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un po’ senza essere né qualcosa che reagisce ad un urto dall’esterno, né una persona attiva con una direzione d’interesse o di movimento. (...) Solamente in queste condizioni il bambino può avere un’esperienza e sentirla come reale. Un gran numero di tali esperienze formano la base di una vita reale e non futile.” (D. W. Winnicott (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando, Roma 1974: 36.). In età adulta situazioni analoghe di ‘non-integrazione’ in presenza d’altri (o relazionalità non reattiva) saranno condizioni per una crescita di creatività. (Cfr. M. Masud R. Khan, “On Lying Fallow” in Hidden Selves, Hogart Press, London 1983: 183-188.) 10

S. Mitchell, op. cit.: 133. 11

J. D. Safran e J. C. Muran, op.cit.: 39.

4

efficacia e esigenze di sicurezza.12 Il contrasto non è analizzabile in termini di contenuti

(come nella vecchia teoria freudiana delle pulsioni dove l’Es è tenuto a bada da Io e

Superio) e neanche in termini di priorità precostituite (come nell’ipotesi del ‘vero’ sé), ma

nella maggiore o minore capacità di un negoziato flessibile fra le due istanze. Questa

formulazione è già compatibile con un quadro teorico che all’antitesi ‘sé’ vero o falso’

sostituisca l’assunto di “numerosi stati del sé che lottano per dominare nello stato di

coscienza in un determinato momento”.13

E appunto questo - di una pluralità originaria di stati del sé - è l’assunto che ispira, in modo

forse anche più radicale del lavoro di Mitchell, il secondo contributo importante che va qui

ricordato - gli scritti sulla dissociazione di Philip Bromberg. L’esperienza di unità e

continuità del sé, per Bromberg, è senz’altro illusoria e “è generata dalla capacità

evoluzionistica della mente di radicare la coscienza in una delle configurazioni di stati del

sé che risultano più adattive in quel momento”.14 Di fatto “l’esperienza di sé si origina da

stati del sé relativamente isolati fra loro, ognuno con una propria coerenza interna” ma

“quando (...) tutto procede bene una persona è solo vagamente e momentaneamente

consapevole dell’esistenza di stati del sé individuali e delle loro rispettive realtà: questo

perché ognuno funziona come parte di una salutare illusione di identità personale unitaria

- uno stato cognitivo ed esperienziale sovraordinato sentito come ‘me’.” In questi termini

“la dissociazione (...) è una funzione sana e adattiva della mente umana. E’ un processo di

base che consente agli stati individuali del sé di funzionare in modo ottimale (e non in

modo semplicemente difensivo) quando ciò di cui abbiamo veramente bisogno o

desideriamo è una totale immersione in una singola realtà, in un singolo affetto forte, e

una sospensione della capacità autoriflessiva.”15

L’illusione di unità e di continuità così resa possibile - da questo genere di dissociazione

non difensiva - si caratterizza per il fatto di lasciar spazio alla capacità riflessiva e quindi

alla comunicazione anche con stati momentaneamente non in primo piano nell’esperienza

del sé. Bromberg usa l’espressione “restare negli spazi” per descrivere “la relativa

capacità della persona di ospitare in un dato momento una realtà soggettiva che non può

essere facilmente contenuta dal sé che in quel momento sente come ‘me’”. Questa

capacità di comunicare, momento per momento, con esperienze del sé discrepanti è

anche condizione della comunicazione intersoggettiva, ossia della capacità che le persone

hanno - ancora una volta: se tutto procede bene - di aprirsi all’esperienza che altri fanno

di loro.

Ma a volte - anzi, piuttosto spesso - non tutto procede bene. L’immagine del sé rimandata

dall’altro (o - che è lo stesso - da altri stati del sé) “può essere sentita troppo discrepante

dall'esperienza di sé che si sta facendo in quel momento per far sì che entrambe possano

essere conservate in mente simultaneamente”. In questo caso la dissociazione si piega

alla funzione - solo difensiva - di conservare “le esperienze di sé eccessivamente

discrepanti in stati del Sé separati che non comunicano tra loro, per lo meno per un certo

12

J. Greenberg, Oedipus and beyond, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1991: 129 sgg. 13

J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 115-116. 14

P. M. Bromberg (2011), L’ombra dello tsunami, Cortina, Milano 2012: 100. 15

P. M. Bromberg (1998/2001), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano 2007: 211.

5

periodo”; e può trattarsi di un periodo breve, per affrontare una situazione momentanea di

stress, ovvero più lungo o dell’intera esistenza. L’illusione di unità e continuità del sé ha

allora come condizione proprio il persistere della struttura dissociativa:

La mente/cervello organizza i suoi stati come un sistema protettivo che tenta,

proattivamente, di zittire l'accesso esperienziale a stati del Sé discrepanti con la gamma di

stati, limitati dissociativamente, di cui si fa esperienza in un dato momento come "me".

Questo rigido sequestro di stati del Sé per mezzo di una struttura mentale dissociativa è

talmente centrale per la personalità di alcuni individui che, virtualmente, modella tutto il

funzionamento mentale, mentre per altri il suo range è più limitato. Ma, a prescindere dalla

misura o dal range, la sua funzione evoluzionistica è di assicurare la sopravvivenza della

continuità del Sé relegando il funzionamento riflessivo a un ruolo minore, o a nessun

ruolo.16

Ciò è quanto accade, tipicamente, in occasione di traumi - sia traumi gravi (abusi sessuali

o fisici) sia, soprattutto, di traumi evolutivi: in questo caso, agendo ancora una volta al

servizio della continuità del sé e perciò conformandosi ai primi modelli di attaccamento,

saranno dissociati gli stati del sé ignorati o disconfermati dai genitori. Questi stati saranno

esclusi in permanenza dalla comunicazione in quanto non mentalizzati all’origine - non

confrontati col loro modo di apparire nella mente dell’altro - pertanto tendenzialmente non

simbolizzati sul piano cognitivo e quindi non recuperabili a un’unità del sé garantita

dall’autoriflessione (il mancato operare della comunicazione intersoggettiva sarà in questo

caso non conseguenza ma proprio l’origine della frattura dissociativa). Ne seguirà un

sentimento inguaribile di inautenticità imputabile, come visto sopra, non al tradimento del

‘vero sé’, ma all’eslcusione di un qualsiasi stato o aspetto del sé dall’esperienza

interpersonale.

Il Sé vissuto come vero è sentito essere sempre quello che sta bussando alla porta - la

voce interna antagonista, udita ma non "pensata" (Bollas, 1987). Questa voce viene

sentita inevitabilmente come più vera sul piano soggettivo semplicemente perché essa

contiene una "verità" diversa ma non formulata - una visione alternativa della realtà che

viene negata al sé che sta intrattenendo rapporti con il mondo, rendendolo così limitato sul

piano relazionale e compromesso nella possibilità di sentirsi autentico. Come ha detto

Mitchell (1993), "ciò che può sembrare autentico nel contesto di una versione del sé può

essere completamente inautentico rispetto ad altre versioni".17

2. Dopo questo richiamo, indispensabile per inquadrare il discorso, ai contributi della

psicoanalisi relazionale - ci si è limitati, a fronte di una produzione ormai molto ampia, a

due autori particolarmente influenti e significativi - si può dar spazio agli interventi

propriamente ispirati alla tradizione buddista. Qui la natura illusoria o piuttosto ingannevole

dell’unità e continuità del sé non è più solo ricondotta all’onnipresenza delle dinamiche

dissociative - così efficacemente illustrate da Bromberg - o all’intreccio relazionale delle

16

P.M. Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 14-15. 17

Ibidem: 128.

6

identità. In primo piano è invece il contrasto fra la preoccupazione costante e pervasiva

che più o meno tutti ci caratterizza - ma che è alla base, secondo il Buddha, di ogni

sofferenza - di preservare, proteggere, espandere il sé, e il dato radicale della sua

impermanenza, non autonomia e non separatezza, al pari di ogni essere e di ogni cosa

esistente. E’ un fatto che se poniamo attenzione, momento dopo momento, al flusso della

coscienza a monte degli automatismi con cui di solito selezioniamo, organizziamo e

interpretiamo i dati percettivi, concettuali e affettivi non incontriamo alcuna entità duratura,

nessun soggetto o oggetto costante ma solo operazioni con cui, momento dopo momento,

a partire da quei dati elementari di continuo e sempre di nuovo strutturiamo in modo

dualistico la nostra esperienza opponendo insiemi di oggetti distinti l’uno dall’altro e dal sé.

Come osserva Jack Engler

Il costrutto-sé ... è incorporato nella caratteristica più profondamente radicata del pensiero

e della percezione umana: la tendenza a considerare ogni oggetto dell’esperienza o della

percezione come un’entità separata o una ‘cosa’ dotata della sua esistenza e identità

concreta e separata e solo in un secondo momento in relazione con altre ‘cose’. (...) Ma la

‘cosalità’ o la ‘esistenza inerente’ è in realtà un’imputazione o un’attribuzione, non una

caratteristica delle ‘cose. (...) Come scrive la studiosa buddista Anne Klein “Le cose

semplicemente sembrano odorano e si fanno gustare come più solide individuabili e

intrisecamente disponibili di quanto in realtà non siano.” (...) Questa “attribuzione non

pensata di inerenza” a sé e agli altri è la “ontologia vissuta che sottosta ad ogni altra

esperienza di seità, inclusi i moderni sé psicologici” e specialmente la rappresentazione in

parte conscia in parte inconscia del sé come entità singola, unica e separata “collocata nel

profondo di noi stessi”.18

Detto in altri termini:

Il sé dell’uomo è un’azione: è qualcosa che facciamo per unificare la nostra soggettività

nello spazio e nel tempo, separandola dal flusso dell’esperienza e creandole un confine

intorno. Qualche volta facciamo questo consapevolmente, ma la maggior parte delle volte

lo facciamo senza avere consapevolezza del sé attraverso micromovimenti nelle nostre

percezioni che creano l’impressione di essere “qui dentro”, mentre qualcos’altro è “là

fuori”.19

La riduzione o decostruzione del sé che in questo modo si avanza è dunque più radicale

della innovazioni della psicoanalisi relazionale: il sé non soltanto è plurale e molteplice,

diversamente declinato per situazioni e rapporti; non solamente è rappresentazione, ma si

dà solo come relazione, come momento subordinato di questa - non c’è alcun ‘dentro’ se

non opposto a un ‘fuori’, non c’è alcun ‘io’ se non diretto a un ‘tu’20 - coinvolto,

18

J. Engler, op. cit.: 88. 19

P. Young-Eisendrath, “Il ruolo del non-sé nella creatività” in A. Molino e R. Carnevali (a cura di), Tra sogni di Budda e risvegli di Freud. Esplorazioni in psicoanalisi e buddismo, ARPANet, Milano 2010: 91. 20

Per una sintesi della formulazione più radicale di questo approccio, dovuta a Nagarjuna, si può vedere il lavoro non più recente ma ancora di grande interesse di F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991, cap. V. Vedi anche G. Kopf, “Di fronte all’altro. L’intrico psichico in Dogen e Jung” in A. Molino (a cura di) (1998), Psicoanalisi e buddismo, Raffaello Cortina, Milano 2001: 190-191.

7

inevitabilmente, sempre di nuovo ricostruito e dissolto nel dinamismo di un continuo fluire.

La stessa idea di qualche genere di costanza o ‘esistenza inerente’ attribuibile al sé non è

originaria ma è già prodotto del ciclo del karma - della causazione21 - dove prevalgono i

due opposti moventi dell’attaccamento e dell’avversione; e a sua volta è causa di

sofferenza, come già detto, perché sempre smentita dall’impermanenza, non separatezza

e finitezza del tutto. Si tratta allora, mediante la pratica meditativa, di mirare al risveglio,

alla consapevolezza non solo cognitiva ma esperienzale22 di queste verità, e le

implicazioni propriamente psicologiche di tale pratica sono già rilevanti: perché

presuppongono un definitivo ridimensionamento del sé non più quale soggetto, ma come

oggetto di consapevolezza - l’opposizione, quindi, almeno potenziale, tra modi della

soggettività e funzioni dell’Io. Se quelli sono da porre in problema queste, proprio nella

pratica meditativa, sono il più possibile potenziate: primo, per decostruire i processi (più

che altro inconsci) di costituzione, autoaffermazione e difesa dell’identità di soggetti;

secondo per accertarne funzionalità o interferenze in vista del crescere della

consapevolezza.23

Su questo punto si è già fatto cenno agli automatismi che reggono, d’abitudine, il nostro

rapportarci ai dati di esperienza. La meditazione di consapevolezza24 ci rende consci del

loro carattere prevalentemente difensivo-reattivo; ossia della nostra propensione a

distanziarci dalle esperienze e ad attutirne e filtrarne l’impatto mediante un flusso

praticamente incessante di fantasie e di pensieri - la cosiddetta proliferazione mentale -

che ne rielaborano ovvero ne anticipano le implicazioni sotto il profilo dell’attaccamento o

dell’avversione (rimuginazioni intorno al passato, speranze e attese circa il futuro); e ne

riducono la novità e la ricchezza reinterpretandola secondo termini e coordinate già note.

L’intento, almeno a prima vista, è pararne il carattere sorprendente o frustrante ampliando

per quanto possibile il controllo dell’Io. Ma ciò cui spesso veramente si mira è

salvaguardare per quanto possibile la certezza e la continuità della rappresentazione del

sé; e ciò anche a spese, se necessario, di un confronto paziente e puntuale col dato

concreto e di un pieno incontro con le emozioni che davvero assicurerebbero, anche nelle

situazioni più complicate o frustranti, non una reazione semiautomatica ma una risposta

mirata, più pertinente e più efficace dell’Io. Scrive in proposito un autore buddista:

L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale

è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e

definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente. 21

Un’utile sintesi ancora in F. J. Varela et al., op. cit.: 110 passim. 22

Come osserva J. Engler (op. cit.: 93) una consapevolezza solo cognitiva comporta ancora il punto di vista di un sé separato. 23

Su tutto questo M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 86 sgg. e 117. 24

Si distinguono, più precisamente, pratiche di meditazione formale (attenzione al respiro, alle sensazioni del corpo, alle percezioni, ai pensieri) da svolgersi in posizione seduta oppure sdraiata o anche camminando; e pratiche di meditazione informale consistenti ad esempio, nell’apprezzare intensamente e a lungo, in tutte le sue sfumature il sapore di un cibo, la bellezza e i colori di un giardino, i dettagli di un percorso abituale, i singoli momenti e le sensazioni di qualsiasi attività come farsi la doccia o lavare i piatti. Soprattutto le pratiche formali, come quella descritta sopra relativa al respiro, intendono non tanto far crescere direttamente l’accettazione quanto renderci attenti al nostro resistere all’accettazione, al nostro continuo ‘sganciarci’ dall’adesione al presente. Su questo vedi C. Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994 : 157-158. Vedi anche più in generale Thich Nhat Hanh (1987), Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma 1992.

8

... Invece che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo

di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per

aver luogo ben di rado. ... Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza

ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che

essa ci appaia così come ce la raccontiamo. E dunque l’indugiare frequentemente in

pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare

‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto,

all’ignoto.. E così pure quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli

avremmo voluto dire, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura

e simili. ... Noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia ... noi vogliamo

parlare nella rabbia, pensare e immaginare nella rabbia anche se tutto ciò che diciamo è

prevedibile, anzi è importante proprio perché è prevedibile, noto, abituale. In questa

maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia ... ne rimaniamo separati da quella

barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.25

La libertà da che viene perseguita - su un piano, peraltro, solo immaginativo-ideativo -

come difesa ad oltranza di una rappresentazione costante e rassicurante del sé, mediante

gli automatismi della proliferazione mentale, è a spese, assai spesso, della libertà di - di

un esercizio competente e efficace delle funzioni dell’Io.26 Grazie alla pratica meditativa

possiamo apprendere tuttavia ad osservare i nostri pensieri e le nostre reazioni

automatiche, ma senza agirli e identificarci con essi. Così facendo sarà possibile,

progressivamente, evitare l’irrigidirsi e il consolidarsi (sempre a livello immaginativo-

ideativo) degli aggregati percettivo-affettivi del sé e degli oggetti, mentre al contempo

accoglieremo e lasceremo operare le nostre emozioni, ci apriremo all’emergere di spunti

diversi, amplieremo lo spazio di ideazione e di azione. L’unità o continuità del sé così

realizzabile, come osserva Mark Epstein, sarà assimilabile sempre meno a un’entità fissa

e sempre più a “un flusso di consapevolezza ... sempre in evoluzione ... un processo mai

del tutto concluso di autoscoperta e autocreazione” e l’io dovrà subordinare, per quanto

possibile, a questa fluidità processuale ogni pretesa alla stabilità.

L"Io' è il veicolo individuale per attuare questi incontri, ma anch'esso non ha un'identità

intrinseca. Un lo sano inizia, si avvicina, stabilisce un contatto e si dissolve, per poi iniziare

il ciclo di nuovo. Un lo disturbato frappone ostacoli e interferisce con il contatto sano,

perpetuando la propria realtà a spese dell'interazione. (...) L'Io che è di ostacolo non

giunge mai alla trasparenza; il risultato sarà una persona contratta per la propria

sensazione di inadeguatezza. Un senso positivo del sé emerge solo quando l'Io permette

a se stesso di dissolversi.27

Di fatto facciamo già tutti quotidianamente esperienza - chi più chi meno - di questo

genere di fluidità o consapevolezza adualistica o priva di sé (più precisamente:

consapevolezza senza coscienza riflessiva del sé). Guidiamo l’automobile o qualche altro

25

C. Pensa, L’intelligenza spirituale, Ubaldini, Roma 2002: 30-32. 26

Spesso ma, ovviamente non sempre: gli automatismi della mente includono infatti primariamente, le attività di categorizzazione e astrazione che sono indispensabili all’apprendimento, alla previsione e alla sopravvivenza adattiva. 27

M. Epstein (2001), La continuità d’essere, Ubaldini, Roma 2002: 28-29.

9

veicolo adattando l’andatura alla situazione ed evitando possibili ostacoli senza necessità

di riflettere; ‘ci perdiamo’ nella contemplazione di uno spettacolo naturale, di una persona,

di un’opera d’arte o nel rapporto sessuale. Se sappiamo suonare uno strumento

muoviamo spontaneamente le mani nel modo giusto; similmente se siamo veramente

esperti in un arte marziale rispondiamo senza riflettere ma in modo del tutto adeguato alla

mossa dell’avversario.28 In tutti questi casi non siamo consci di noi stessi ma siamo

consapevoli, sintonizzati alla realtà del momento. Pensieri, sentimenti azioni avvengono

ma non sono esperiti come originantisi in o da “me”. Avvengono semplicemente in risposta

alle esigenze del momento per conto loro, senza forza o intenzione cosciente.29

Ancora Epstein insiste a lungo sull’affinità fra questo genere di disponibilità e fluidità

esperienziale - resa possibile da un alto grado di flessibilità o ‘trasparenza’ dell’Io - ed il

recupero, in età adulta, di uno stato di inintegrazione affine alla continuità d’essere

dell’infante (di cui parla Winnicottt) che può abbandonarsi all’esperienza del gioco potendo

contare sull’attendibilità della madre. Si è già detto sopra che questo stato di non-

integrazione - che riesce possibile, in età adulta, solo come resa30 o piena adesione al

presente31 - è quanto di più simile possa pensarsi, in un’ottica relazionale, a un’esperienza

del ‘vero’ sé. Anche per una psicoanalisi del non-sé ispirata al buddismo non c’è

ovviamente alcun vero sé se non nel “processo mai del tutto concluso di autoscoperta e di

autocreazione” (di cui parla Epstein) reso possibile da questa adesione. O se si vuole -

come appena visto - il ‘vero sé’ è il venir meno dell’autocoscienza messa a guardia

dell’autocentramento del sé”32; o ancora, in termini kohutiani, “per il non-sé tutte le

esperienze sono esperienze mature di oggetti-sé.33

Che dire, infine, in una prospettiva junghiana? Il netto rifiuto degli autori buddisti di

riconoscere al sé qualunque genere di consistenza ‘ontologica’34, e l’insistenza nel non

vedervi di più che una rappresentazione (per giunta, in linea di massima fuorviante e

ingannevole) suona, a ragion veduta, in aperto contrasto con la nozione junghiana del Sé

quale ‘centro’ della totalità psichica e ancor di più, in quanto meta del processo di

invididuazione, quale portatore di un senso. Ma a fronte di ciò, e anche tralasciando le

affinità, rilevate da Jung,35 tra la propria psicologia e il cammino buddista, occorrerebbe

28

G. Kopf, op. cit.: 193. 29

J. Engler, op. cit: 60.61. 30

Sul tema della resa vedi l’ottimo studio di E. Ghent, “Masochism, Submission, Surrender: Masochism as a Perversion of Surrender” in S. A. Mitchell. L. Aron (a cura di) Relational Psychoanalysis. The Emergence of a Tradition, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 211-242. 31

L’insistenza sull’attenzione esclusiva al presente, implicita in questa concezione, è ben illustrata dal famoso koan Zen: “In questo preciso momento, non pensando né al bene né al male, mostrami il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori”. “Essendo andati oltre il dualismo, oltre ‘il pensare il bene ed il male’ c’è un vero sé essenziale? Budda ha insegnato che il sé è ‘vuoto’, che non ha assolutamente natura fissa o essenziale. Tutto quello che c’è è ciò che le stesse parole di apertura del koan ci dicono: essere proprio questo momento è il nostro vero sé. Il nostro volto originario non può essere altro che il volto di questo momento”. (B. Magid, “Your Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 265-266) 32

P. A. Ringstrom, “Psychoanalysis and Buddhism: Two Extraordinary Paths to An Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 288. Così, prendendo le distanze da Winnicott, anche M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 68-69. 33

B. Magid, op. cit.: 271. 34

Vedi in proposito di nuovo J. Engler, op. cit.: 52. 35

C.G. Jung (1939), “Prefazione a D.T. Suzuki, ‘La grande liberazione. Introduzione al buddismo zen’” in Opere, XII, Boringhieri, Torino 1979: 549-567.

10

ancora considerare tre aspetti. 1) Col segnalare la finalità difensiva (della continuità e della

sicurezza del sé) del pensare per segni - cioè del ridurre il vissuto al concetto, il nuovo, il

particolare e l’affettivamente pregnante all’astratto e al già noto) il pensiero buddista

mostra di privilegiare un’attenzione al concreto, al differente, al non riducibile che è

rispetto profondo (come ancora vedremo) di ogni alterità ma è anche del tutto affine, nel

contesto junghiano, all’esperienza simbolica - al modo proprio di manifestarsi dell’alterità

dell’inconscio. 2) L’idea di un sé solo processuale che non conosce un’identità

precostituita ma che si esplica e con ciò stesso si scopre, momento dopo momento, solo

nella pratica dell’accettazione, cioè nella piena adesione al presente, è molto simile

all’idea junghiana di individuazione come ricerca/accettazione del corpo, della propria

forma, e del proprio limite. 3) Infine Jung mette in relazione la sua nozione del sé con

l’idea buddhista di una ‘coscienza della coscienza’:

La possibilità che esistano vari stadi nello sviluppo della coscienza non ci viene nemmeno

in mente; il solo pensiero che esista una forte differenza psicologica fra la coscienza

dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto assomiglia

molto da vicino a un cavillo che appena merita risposta. (...) Furono lo yoga in India e il

buddhismo in Cina a dare l’avvio a questi tentativi di strapparsi alla cattività di un dato

stato di coscienza, sentito come imperfetto. Per quanto riguarda la mistica occidentale i

suoi testi sono pieni di istruzioni sul modo in cui l’uomo possa e debba liberarsi dell’essere

Io della sua coscienza, onde elevarsi, per mezzo della conoscenza della sua natura, al di

sopra di questa e raggiungere l’uomo interiore (divino). (...) Questo nuovo stato di

coscienza derivato dalla pratica religiosa si distingue per il fatto che le cose esteriori non

influiscono più su una coscienza fatta di Io ... ma che una coscienza vuota è aperta a

un’influenza diversa. Questa influenza “diversa” non è più sentita come attività propria, ma

come quella di un non-Io il cui oggetto è la coscienza. E’ come se il carattere soggettivo

dell’Io fosse stato sopraffatto o assunto da un altro soggetto che si fosse messo al posto

dell’Io.36

L’obiezione buddhista a a queste note di Jung sarebbe che una ‘coscienza della

coscienza’ che la ponesse a oggetto di un altro soggetto sarebbe appunto coscienza di un

oggetto (di quella stessa coscienza oggettivata) non della coscienza colta nel suo operare

come “carattere soggettivo dell’io” o soggettività conoscente; allo stesso modo in cui

l’occhio può vedere se stesso come oggetto riflesso in uno specchio ma non nell’atto del

suo vedere. Ne segue che se si vuole pensare il Sé come ‘coscienza della coscienza’37

non si può porlo come ‘altro soggetto’ cui si oppone un oggetto. Come chiarisce assai

bene Engler

non posso osservare direttamente il mio sé osservante. Se lo faccio ... muto soltanto l’atto

della consapevolezza in un altro oggetto di consapevolezza in una regressione all’infinito.

... (...) Il sé che io rappresento, il “sé” che io posso conoscere o afferrare non è mai “me”.

L’occhio che vede, dice lo Zen, non può vedere sé stesso. E infine è chiaro: non possiamo

staccare il nostro “sé” dalla consapevolezza perché siamo quella consapevolezza.

36

Ibidem: 555-556. 37

Ibidem: 553.

11

In questo senso la consapevolezza non è semplicemente una funzione dell’Io. (...) La

consapevolezza in quanto tale non può mai essere oggettivata, colta come un oggetto,

identificata coi contenuti della coscienza, rappresentata come “questo o “quello”. E’ di

natura fondamentalmente diversa: senza qualità, senza limiti, senza confini: (...) In

essenza Io non sono nulla che possa essere nominato o pensato, rappresentato o negato,

trovato o perso. “Chi sei” dice Sri Nisargatta Maharaj, “è indefinibile e indescrivibile. La

consapevolezza soggettiva è ciò che rende possibile l’esperienza, ma non è essa stessa

esperienza. (...) la piena realizzazione di ciò è la consapevolezza non dualistica come

proprio stato naturale. L’identificazione con ogni rappresentazione o attività di un sé

separato diviene impossibile”.38

E’ però interessante che altrove lo stesso Jung si avvicini molto a questa prospettiva:

Proprio come l’Io è una certa esperienza di me stesso, così il Sé è un’esperienza del mio

Io, vissuta però non più nella forma di un Io più vasto e più alto, ma in forma di un non-

Io.39

E ancora, più diffusamente:

Poiché il numero di possibilità è limitato si raggiunge ben presto una frontiera, o piuttosto

frontiere che arretrano una dopo l’altra presumibilmente fino al momento della morte.

L’esperienza di queste frontiere conduce gradualmente alla convinzione che quanto viene

esperito è un’interminabile approssimazione. Lo scopo di questa approssimazione sembra

essere anticipato da simboli archetipici che rappresentano qualcosa come la

circumabulazione di un centro. Al crescere dell’approssimazione al centro c’è un

corrispondente depotenziamento dell’Io a favore dell’influenza del centro “vuoto” che certo

non coincide con l’archetipo ma è ciò cui l’archetipo mira. Come direbbero i Cinesi,

l’archetipo è soltanto il nome del Tao, non il Tao in sé. Così come i Gesuiti traducevano

Tao come “Dio” così noi possiamo descrivere la “vuotezza” del centro come “Dio”.

Vuotezza in questo senso non significa “assenza” o “vacanza” ma qualcosa di

inconoscibile dotato della più elevata intensità. Se io chiamo questo inconoscibile “Sé”

tutto ciò che è accaduto è che gli effetti dell’inconoscibile hanno ricevuto un nome

aggregato, ma i suoi contenuti non ne sono affetti in alcun modo. Una parte

indeterminabilmente ampia del mio stesso essere è inclusa in esso, ma poiché questa

parte è l’inconscio non posso indicare i suoi limiti e la sua estensione. Il sé è pertanto una

concetto liminare, in alcun modo riempito coi processi psichici noti.40

3. Al terzo punto di questa esposizione sono le implicazioni di un pensiero analitico

ispirato al buddhismo per l’ascolto e la pratica psicoterapeutica. Anche in quest’ambito è

indiscutibile un nesso di continuità fra autori buddhisti e psicoanalisi relazionale (a sua

38

J. Engler, op. cit.: 66. 39

C. G. Jung, op. cit.: 553. 40

C. G. Jung, Letters, Routledge, London 1975, II: 258, traduzione mia.

12

volta vicina, per una serie di aspetti, alle posizioni originali di Jung41

). Sé del paziente e sé

del terapeuta sono intesi ambedue come relazionali e molteplici e ’normalmente o

patologicamente dissociativi’42 (nel senso già visto di Mitchell e Bromberg), e come tali si

esprimono e operano anche all’interno della relazione analitica. Il terapeuta, in particolare,

non si può ergere a ‘osservatore oggettivo’ - colui che ‘sa’ i contenuti dell’inconscio - né

l’attitudine del paziente verso di lui si può spiegare, in modo esauriente, come distorsione

dovuta al transfert. L’incontro analitico vive invece del gioco sempre irripetibile

dell’interazione fra quel paziente e quell’analista e della loro influenza reciproca (deve

restare, perciò, una questione aperta in qual misura questa interazione segua modelli

caratteristici di altre relazioni della vita del paziente); e il compito del terapeuta - che può

definirsi di osservatore partecipante - è 1) monitorare al meglio i propri sentimenti, le

proprie reazioni, anche le proprie sensazioni fisiche, 2) guidare, a partire di qui

un’osservazione congiunta di quanto accade volta per volta nel qui ed ora della relazione

per trarne ipotesi sui processi psichici del paziente. Da ripensare è anche il vecchio

concetto di ‘resistenza’, che non può più soltanto indicare una generica difficoltà del

paziente a divenir consapevole di certi sentimenti o emozioni ma deve includere anche il

contributo eventuale del terapeuta: ossia “esplorare che cosa il paziente teme che accada

se tali emozioni vengono espresse nel qui ed ora della relazione terapeutica”.43

La differenza essenziale tra questo approccio e quello della psicoanalisi tradizionale suole

riassumersi nel venir meno di ogni finzione o di ogni pretesa di ‘oggettività’ per il terapeuta

“relazionale. Ma ‘oggettività’ (o meglio: assenza di oggettività) si può ancora intendere in

una doppia accezione. Come mancanza di referenti o evidenze per il lavoro analitico il cui

significato sia indiscutibile, in quanto univoco e palese per tutti: non-oggettività, allora, col

significato di relatività, o impossibilità, intesa dal vertice dell’analista, di non trasferire

nell’interpretazione il carico della sua psicologia personale. O ancora, declinata invece dal

vertice del paziente, come portato dalla natura interpersonale del lavoro analitico che

come tale vuol rivolgersi all’altro nella sua differenza e nella sua unicità; nel suo sottrarsi,

pertanto, sempre e di continuo all’oggettivazione, a qualsiasi genere di omologazione

teorica e ad ogni riduzione a categorie ed a concetti con la conseguenza di destabilizzare

lo stesso analista: frustrandone le velleità di conoscenza e controllo, anche i bisogni di

distanziamento fra sé e il paziente, ed attraendolo a sua volta a coinvolgersi nella totalità e

quindi anche nell’assoluta specificità della propria persona.44 Lewis Aron, sulla scorta di

Winnicott e Jessica Benjamin,45 descrive proprio in questi termini l’andamento alternante -

fra oggettivazione e intersoggettività - della relazione analitica:

41

Sul punto vedi, da ultimo W. Colman, “Bringing it all back home: how I became a relational analyst”, The Journal of Analytical Psychology, 58, 4, Sept. 2013: 470-49. 42

Bromberg precisa, a questo proposito che il trauma evolutivo (o trauma relazionale) come egli lo intende “fa parte del processo di modellamento dei precoci pattern di attaccamento (incluso l'’attaccamento sicuro’), che a sua volta determina quelli che Bowlby (1969,1973,1980) chiama ‘modelli operativi interni’. (...) Vale a dire che il trauma connesso all'attaccamento è parte dell'esperienza passata di tutti e un fattore centrale in ogni trattamento; per alcuni pazienti però ha portato a una struttura mentale dissociativa che si è impossessata del funzionamento della personalità e della vita mentale, imponendo quindi la "Verità" su presente e futuro.” (P. M Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 71 e 103-104. 43

J.D. Safran. J. C. Muran, op. cit. : 100. 44

I riferimenti filosofici d’obbligo sono qui M. Buber (1984), “Io e tu” in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997 e E. Lévinas (1971), Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977. 45

Aron rimanda, in particolare, a D. W. Winnicott, “L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” in Gioco e realtà, Armando Armando, Roma 1974 e all’interpretazione di questo lavoro (come superamento dell’oggettivazione e come scoperta della soggettività della madre/altro) proposta da J.

13

Suggerisco che la relazione intersoggettiva sia continuamente interrotta tra le persone -

anche tra paziente e analista - scambiandola per una relazione soggetto-oggetto, e che

poi la relazione intersoggettiva sia ristabilita. Credo che l’intimità non coincida con

l’intersoggettività ma che, piuttosto, trascenda questa relazione dialettica. L’intimità implica

la sopravvivenza e il sostentamento di questa relazione tramite la continua creazione e

distruzione dell’intersoggettività.46

L’alternativa - o, più radicalmente, l’antidoto - al ‘pregiudizio’ dell’analista, in questa

prospettiva non è soltanto una comprensione più completa e migliore, resa possibile -

come propongono ad esempio Safran e Muran47 - in una sorta di dialogo ermeneutico; è

un coinvolgimento con la persona o l’esser soggetto dell’altro che ci mantiene in tensione

verso di lui, incessantemente in ascolto perché ci sollecita di continuo all’interpretazione

ma ci fa vivere via via come impropria e virtualmente insoddisfacente ogni comprensione o

qualsiasi giudizio. Questa visione - che riprende, incidentalmente, quasi alla lettera le

prescrizioni di Bion sulla capacità negativa e sulla necessità di astenersi (per l’analista) da

attività mentale, desiderio e memoria48 - è in sintonia con la dottrina buddhista, riferita

sopra, sui rischi della proliferazione mentale e sulle finalità difensive - per la stabilità della

rappresentazione del sé - della omologazione al già noto, a scapito delle capacità

percettive e dell’efficacia dell’Io. Qui infatti non si tratta già più - lo si è visto sopra -

soltanto di includere la soggettività conoscente (nel nostro caso quella dell’analista), come

nel primo approccio relazionale; quanto, piuttosto, di rendersene consapevoli e di

trascenderla, per quanto possibile, come momento a sua volta relativo nella dualità

continuamente ricreata di soggetto ed oggetto del processo di conoscenza, dunque da

subordinare alla qualità e all’efficacia di questo. L’esito un po’ paradossale, e

però),innegabile, come ancora vedremo è alla fine il recupero, nella prima accezione del

termine, non di una pretesa ma di una tensione all’oggettività.

Per la psicoanalisi (e la psicologia analitica) ispirate al buddhismo ciò si è tradotto, molto

concretamente, non nel semplice invito a una disciplina mentale - come già in Bion - ma

nell’acquisizione al lavoro analitico e soprattutto al training quotidiano dell’analista di

pratiche tratte dalla meditazione di consapevolezza. A tali pratiche - a questo punto anche

dissociabili e dissociate, di fatto da un credo buddhista - o, meglio ancora al tipo e alla

qualità di attenzione che con esse si mira a far crescere e sostenere va il nome generale

Benjamin, “Recognition and Destruction: An Outline of Intersubjectivity” in S. A. Mitchell, L. Aron (a cura di), Relational Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 183-210, traduzione italiana parziale in J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello Cortina, Milano 1996. 46

L. Aron, A meeting of minds, The Analytic Press , Hillsdale and London 1996: 152 (traduzione mia); citato da J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 68. 47

J. D. Safran, J. C. Muran, op. cit. : 44-45. 48

Vedi soprattutto W. R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Armando, Roma 1973 e W. R. Bion (1965) Trasformazioni, Armando Armando, Roma 1973. Ma sono anche da ricordare i contributi di Marion Milner e Karen Horney: M. Milner, “The concentration of the body” in The suppressed madnes of sane men, Tavistock Publications, London & New York 1987: 234-240 e K. Horney, Final Lectures, ed. by D. Ingram, Norton, New York 1987: 19.21 citato da M. E. Miller, “Zen and Psychotherapy” in P. Young Eisendrath and S. Muramoto (a cura di), Awakening and Insight. Zen Buddhism and Psychotherapy, Brunner-Routledge, New York 2002: 85.

14

di Mindfulness (variamente tradotto con ‘presenza mentale’, ‘consapevolezza’ o anche

‘pienezza della consapevolezza mentale’). Tale attenzione è stata definita:

Focalizzata, cioè orientata in modo esclusivo verso un determinato oggetto ... (il proprio

respiro, un’amica con la quale stiamo parlando ... una sensazione corporea). E’ importante

che, quando ci si rende conto che l’oggetto stabilito non è più al centro del focus attentivo,

si compia ... una intenzionale rifocalizzazione dell’attenzione verso quell’oggetto dal quale

ci si è allontanati.

Rivolta al momento presente, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto ci si riesce)

verso l’esperienza che si sta vivendo qui ed ora: ogni volta che si diviene consapevoli che

la mente ci ha trasportato ... nel passato o nel futuro ... è importante che si attivi ... un

riposizionamento dell’attenzione sul momento presente.

Non categorizzante, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto si riesce, all’esperienza

in cui ci si trova, senza usare le categorie, le classificazioni, e i giudizi abituali per

comprenderla: ogni volta che si diventa consapevoli che la mente sta operando una

sistematizzazione di quello che sta accadendo in base a schemi pregressi, e importante

che si metta in atto ... un riorientamento dell’attenzione sulla qualità di novità

dell’esperienza, che di fatto possiede.49

Trasferita nel contesto analitico (sempre gli autori di ispirazione buddhista50 insistono

molto sulla sua affinità con la attenzione ugualmente sospesa prescritta da Freud51)

l’attenzione mindful ha di mira anzitutto le autodifese dell’analista - messe in atto,

comunemente, col ritirarsi dalla relazione, con l’assimilarla a situazioni trascorse o

proiettandola nel futuro, col neutralizzarne l’impatto emotivo mediante astrazioni - ogni

qualvolta la relazione stessa sia troppo frustrante, dolorosa o allarmante o comunque

coinvolga aree di forte vulnerabilità, facendo prevalere su un’attitudine recettiva una

risposta reattiva. Può però trasmettersi - per ragioni del tutto analoghe - dall’analista al

paziente (Wallin definisce la psicoterapia, sotto questo profilo, come una specie di

meditazione a due52) in modo tacito o per inviti espliciti: ad esempio col chiedere

ripetutamente al paziente di soffermarsi su ciò che sente in un determinato momento, di

provarsi a descriverlo nei dettagli e anche indicare dove lo sente (in quale area del corpo).

Lo sfondo che potremmo chiamare ‘umanistico’ (in effetti ancora vicino al buddhismo) di

questa pratica dell’attenzione è l‘accettazione non giudicante (la meditazione di

consapevolezza ha qui la funzione di renderci consci, momento dopo momento, dei giudizi

e delle risposte di rifiuto che rivolgiamo innanzitutto a noi stessi); e la compassione per

noi medesimi “che emerge quando diventiamo capaci di aprirci [anche] alle esperienze

dolorose”.53 In particolare: col trattare noi stessi gentilmente e senza giudicarci con

severità; riconoscendo che errori, fallimenti e avversità fanno parte della comune

49

G. Amadei, Mindfulness. Essere consapevoli, Il Mulino, Bologna 2013. 50

In particolare M. D. Epstein, “Sulla negazione dell’attenzione ugualmente sospesa”, in A. Molino, R. Carnevali (a cura di), op. cit.: 160-175) e M. Epstein (2007), Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio, Roma 2008: 95. 51

S. Freud (1912) “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, Opere, VI, Bollati Boringhieri, Torino1989,: 532-533. 52

D. J Wallin (2007) Psicoterapia e teoria dell’attaccamento, Il Mulino, Bologna 2009: 264. Questo testo, ai capitoli IX e XVII contiene una sintesi eccellente dell’approccio mindfulness in psicoterapia. 53

Ibidem: 283.

15

esperienza umana; mantenendo un’equilibrata consapevolezza di pensieri e sentimenti

spiacevoli, invece di evitarli, cancellarli o identificarsi eccessivamente con essi.54 Sempre

per Wallin una tale apertura tenderà ad autoconsolidarsi in quanto la consapevolezza

anche dei sentimenti dolorosi ne farà comprendere sempre di più la qualità transitoria

rendendoli, con ciò stesso, assai meno temibili; legando, di conseguenza, sempre di più

alla consapevolezza, più che a figure protettive interiorizzate o a determinati stati mentali il

nostro senso di sicurezza; ed evitando il sovrappiù di sofferenza sempre legato allo sforzo

di evitare il dolore.55

In termini più formali l’attenzione mindful mirerà a sospendere per quanto possibile gli

automatismi categorizzanti o ‘dall’alto in basso’ (dei quali a lungo si è detto sopra)

finalizzati alla previsione e alla sopravvivenza adattiva per dare spazio alla modalità

senso-percettiva (‘dal basso verso l’alto’) vuoi verso l’esterno (nel setting analitico:

l’espressione facciale, il tono di voce, le sfumature emotive, la postura corporea del

paziente) vuoi verso l’interno (pensieri, sentimenti, emozioni, anche stati fisici dell’analista

- osservati, però, e anche utilizzati, ma in modo equanime e ad una certa distanza, alla

stregua di eventi o stati transitori e dunque senza identificarsi con essi56). Questa

attenzione accrescerà l’efficacia (ai fini del cambiamento) del dialogo terapeutico con

l’ancorarlo più saldamente all’esperienza vissuta, ossia al qui ed ora più che alla semplice

riflessione o ricostruzione retrospettiva e al vissuto emozionale-corporeo oltre che alla

comprensione concettuale. Notano in proposito Safran e Muran:

Diversamente da quanto accade per un pensiero più concettuale, che può essere staccato

dall'azione, la conoscenza a livello corporeo ha sempre implicazioni per il passo

successivo all'attuale. Quando un individuo ha una nuova sensazione, dà a se stesso

un'irrefutabile informazione su quanto l'intera configurazione relazionale significhi

realmente per lui come organismo intero, e tale significato ha risvolti impliciti per l'azione.

(...) L'insight emozionale, o consapevolezza, comporta così la rivalutazione di un evento o

di un'esperienza in un modo che conduce al «che cosa vuoi dire per me ora». (...) Ciò

riflette il fatto che l'individuo conosce qualcosa in maniera differente, come un organismo

concreto, in interazione con l'ambiente circostante.57

54

K. D. Neff, “Self-compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself” in Self and Identity, 2: 85-101, 2003 citato da R. a. Baer, “la compassione di sé” in R. A. Baer (2010) a cura di, Come funziona la mindfulness, Raffaello Cortina, Milano 2012: 130. 55

D. J. Wallin, op. cit.: 263. 56

Su questo punto, veramente essenziale, vedi quanto scrive D.J. Siegel (2007), Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009: 25-26: “Da questo modo di essere riflessivo, mindful, emerge un processo fondamentale chiamato ‘discernimento’, in cui diventa possibile essere consapevoli del fatto che le attività della propria mente non sono la totalità di ciò che si è. Il discernimento è una forma di disidentificazione dall’attività della propria mente: quando diventi consapevole delle sensazioni, dei sentimenti e dei pensieri ... arrivi a vedere queste attività come delle onde che si muovono sulla superficie del mare della mente. Da questo luogo più profondo della mente, da questo spazio interno della consapevolezza mindful, è possibile notare come le onde superficiali del cervello vadano e vengano. Questa capacità di liberarsi dal chiacchiericcio della mente, di capire che queste sono “solo attività della mente”, è un’esperienza liberatoria e per molti perfino rivoluzionaria”. Vedi anche, dello stesso autore, The Mindful Therapist, Norton, New York & London 2010. 57

J.D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 63.

16

In questa linea, per richiamare un esempio recente, può rilevarsi un alto grado di

congruenza fra attitudine mindful e i contributi di Daniel Stern e del Boston Change

Process Study Group sul cambiamento in psicoterapia e la conoscenza relazionale

implicita. Si tratta di cogliere e valorizzare anche in questo caso il momento presente - i

cosiddetti now moments - con la totale disponibilità da parte dell’analista a mettersi in

gioco personalmente nella situazione, esponendosi senza difese ai suoi elementi di novità

e al suo impatto emotivo e offrendo così una risposta che attesti, per ambe le parti, la

saldatura di di un nuovo piano di sintonizzazione emotiva.

I momenti più interessanti sorgono quando il paziente fa qualcosa che è difficile

catalogare, qualche cosa che richiede una reazione nuova e diversa, contraddistinta da

una firma personale che fa condividere al paziente lo stato soggettivo dell’analista (affetti,

fantasie, esperienze reali ecc.). (...) Il terapeuta deve usare un aspetto specifico della

propria individualità, un aspetto che porta una connotazione personale. I due soggetti si

incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai

loro rispettivi e ordinari ruoli in terapia. Inoltre le azioni che costituiscono il “momento di

incontro” non possono essere consuete, abituali o tecniche; devono essere nuove e

forgiate per soddisfare le particolarità del momento.58

Vi sono da ultimo, per concludere, linee assai rilevanti di convergenza del pensiero

mindful con l’impostazione junghiana. Già l’insistenza sul non sottrarsi al confronto con

temi dolorosi o allarmanti e soffermarsi, al contrario, in un contatto approfondito con essi

risuona affine alla basilare prescrizione di Jung sull’importanza di ‘stare nel conflitto’

perché si produca un cambiamento spontaneo e più autentico - la cosiddetta funzione

trascendente (ciò sia nel conflitto esclusivamente interiore, sia nel confronto

intersoggettivo). In aggiunta a questo ritengo assai significative alcune considerazioni

recenti (penso, in particolare, all’ultimo libro di Maria Ilena Marozza59) sulla questione - a

cui si è qui solamente accennato - della tensione all’oggettività nell’ascolto analitico. In

sintesi, ritiene Marozza, si può pensare ad una base di oggettività in psicoanalisi a

condizione di fare spazio (esattamente come propone l’approccio mindful) alla dimensione

sensoriale-affettiva, che in ogni caso accompagna sempre la comunicazione verbale, la

completa, la qualifica e la precisa radicandola nello spessore psico-corporeo; ma si

differenzia, contestualmente, da essa perché non confluisce nell’astrattezza dei segni e

quindi non si offre, al pari di questi, all’immediatezza della comprensione linguistica. Essa

piuttosto trattiene nel concreto, contagia e provoca alla ricerca di una comprensione che

non può contare su di un sapere generalizzabile (ma quindi non può nemmeno venir

tradita o fraintesa in forza di preferenze teoriche o categoriali) ma obbliga - proprio come il

simbolo60 - a soffermarsi nell’esperienza e a esporsi a lungo al coinvolgimento e alla

58

Cfr. The Boston Change Study Group (2010), Il cambiamento in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano 2012: 15-16. 59

M.I. Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo 2012. Ma vedi anche M.La Forgia e M. I. Marozza, Le radici del comprendere, Fioriti, Roma 2005 e M. La Forgia e M. I. Marozza (a cura di), La conoscenza sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo 2008. 60

Sull’affinità fra impegno in chiave di ‘capacità negativa’ e esperienza simbolica ho scritto in G. Kaufman, “Il silenzio del padre nella relazione analitica. Bion, Jung e una rilettura del simbolico” in Il Padre. Parola Silenzio Trasformazione”, Atti dell’XI Convegno Nazionale del Centro Italiano di Psicologia analitica,

17

condivisione: e appunto qui, in questo tratto non riducibile di autoreferenzialità o

intransitività è quanto rende “la realtà dell’affetto ... la manifestazione fenomenica e del

tutto oggettiva, di una supponibile realtà dell’inconscio: poiché, come scrive Matte Blanco,

nulla ci conduce ad una chiara distinzione psicologica fra l’emozione e l’inconscio”.61 In

particolare, nello specifico della costruzione junghiana il nesso mai del tutto scindibile fra

strato sensoriale-affettivo e dimensione rappresentativa-ideativa, su fino al piano verbale-

razionale si salda nell’unità dei complessi e nel loro operare a differenti livelli di coscienza

cui corrispondono modalità qualitativamente diverse (ma tali da confrontarsi e completarsi

l’una con l’altra) di registrazione delle esperienze. Ne segue “la possibilità ... di insediare

l’ordine linguistico e la capacità di significare nell’ordine dell’esperienza soggettiva vitale e

diretta”.62 E in primo luogo di riscontrare le rappresentazioni logico-razionali ma in potenza

del tutto astratte del complesso dell’io (inclusa la distinzione che solo qui si rappresenta

compiutamente fra il sé ed il mondo) con quanto si esprime dai complessi secondari in

modo più indistinto ma impegnativo e pregnante dell’esistenza emozionale e sensoriale di

base.

Vivarium 2002. Sul coincidere fra esperienza simbolica e incontro con la “cosa in sé” vedi M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986: 80-83. 61

Scrive ancora Marozza: “Solo in questo senso possiamo tenere insieme il significato più profondo del termine inconscio, come ciò che non è conosciuto, ritenerlo eternamente tale e connaturato all'esperienza umana e nello stesso tempo considerarlo assolutamente influente e talmente oggettivo da poter essere la vera fonte dell'attività psichica, manipolabile dalla soggettività cosciente solo nella direzione da esso stesso consentita.” (M.I. Marozza, op. cit.: 210-211). 62

Ibidem: 207.

GIANNI KAUFMAN

SE’/NON SE’. INTRECCI TRA BUDDISMO E PSICOANALISI

SEMINARIO CIPA. MILANO 12 OTTOBRE 2013.

1. Oggetto del mio intervento è l’incontro - che risale almeno alla metà degli anni ’90 - fra

buddhismo, psicoanalisi e psicologia analitica e le ricadute o gli ulteriori sviluppi di questo

incontro riferibili essenzialmente a due temi: 1) sul piano teorico la natura o le

caratteristiche proprie del sé, 2) sul piano pratico la qualità della consapevolezza o

dell’attenzione in psicoterapia e il ruolo che in questo ambito può riconoscersi alla pratica

meditativa. Se si accantonano, ma solo momentaneamente, i contributi propriamente

junghiani - la teoria dei complessi e la metapsicologia del Sé - l’incontro fra psicologia

dinamica e l’impresa di decostruzione del sé della tradizione buddista si prepara anzitutto

con le proposte, al tempo assai innovative, della psicoanalisi relazionale.1 Già in un lavoro

del ’93 Stephen Mitchell (un autore non espressamente interessato al buddismo) notava il

succedersi nella tradizione psicoanalitica di due metafore per la rappresentazione del sé:

una metafora di tipo spaziale - quella di Freud - “il sé come stratificato, singolo e continuo

(...) la mente come un posto in cui le cose accadono, il sé come qualcosa in quel posto,

composto di parti o strutture costitutive”. E una metafora di tipo temporale, inclusa

dapprima nella teoria delle relazioni oggettuali e sostenuta, dopo di essa, dai vari approcci

di tipo relazionale. Qui il sé coincide con esperienze differenziate secondo l’ambito e la

qualità dei rapporti, e quindi è inteso come molteplice e discontinuo. “Poiché apprendiamo

a divenire persone mediante l’interazione con differenti altri e attraverso interazioni

differenti col medesimo altro la nostra esperienza del sé è discontinua, composta di

differenti configurazioni, differenti sé con differenti altri. (...) il risultato è un’organizzazione

plurale e multiforme del sé, modellata su differenti immagini o rappresentazioni del sé e

dell’oggetto, derivate da differenti contesti relazionali.” Così “i sé cambiano e si

trasformano continuamente nel tempo, e una singola vita è composta di più sé.

Un’esperienza del sé ha luogo necessariamente in un momento del tempo; essa riempie

lo spazio psichico e un’altra versione alternativa del sé sfuma sullo sfondo”.2 Ancora: se

applichiamo la prima metafora, - il sé come entità singola e stratificata - “ha senso

approcciarlo come (...) una cipolla, tentare di situarne il ‘centro’ o il ‘cuore’, delinenarne gli

strati, differenziarne le parti autentiche da quelle false, la struttura protettiva e così via”.3

Se tuttavia “il sé si muove nel tempo piuttosto che esistere nello spazio non ha un nucleo

fisso”. La ricerca di un nucleo invariante o di un ‘vero’ sé, colto ai suoi inizi, nella sua

essenza presociale, al di sotto degli adattamenti e delle negoziazioni con altri, “implica

rimuovere il sé dal tempo, uno sforzo male indirizzato per rendere statiche le

organizzazioni mutevoli dell’esperienza del sé.” Può accadere che io mi senta più

autentico (o meno autentico, meno spontaneo o più stereotipato) in certi modi di agire o di

esprimermi, in certe occasioni o in certe situazioni: ma ciò non implica rinviare ad un

‘nucleo’, a un ‘vero’ o ‘un ‘autentico’ me. “Facciamo esperienza di noi stessi nel tempo.

1 Per una critica stringente, sul piano filosofico, dei presupposti e delle implicazioni dell’approccio relazionale

vedi il recente lavoro di J. Mills, Conundrums. A Critique of Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York 2012. 2 S. A. Mitchell, Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York 1993: 101-104.

3 Ibidem: 101.

2

Possiamo valutare una nuova esperienza in termini di continuità o discontinuità col

passato e il presente; una nuova esperienza può rappresentare ed esprimere la propria

storia e la situazione presente oppure negare e tradire la propria storia e condizione

presente o ancora riformulare la propria storia e condizione presente in un modo nuovo e

arricchente. Il senso di autenticità è sempre una costruzione, e come costruzione è

sempre relativa ad altre possibili costruzioni del sé in ogni tempo particolare.”4

Con tutto questo - chiariva Mitchell - non può negarsi anche l’esistenza di un senso o di un

vissuto di continuità nell’esperienza del sé, indipendente dai cambiamenti nel tempo, in

forza del quale mi rappresento, ad ogni istante, come un Io identico, a cui rimandano i miei

ricordi in passato e che proietto nel mio futuro. Questo sentire è anche condizione di un

senso di agency, di continuità e responsabilità nell’agire, e ancora della possibilità di

imporre un’ordine di priorità a scopi impulsi e motivazioni, il non sentirsi trascinati qua e là.

Ciò è vero anche se non è semplice, all’atto pratico, stabilire quanto vi sia in tutto questo

di soggettivo o propriamente oggettivo. “Può essere che io faccia tutto ciò che faccio, ma

può anche essere che io faccia certe cose in contesti esperienziali del tutto diversi da

quelli in cui faccio altre cose. L’Io che fa cose diverse è un Io diverso in tempi diversi”.5 E

In ogni caso questa maniera di rappresentarsi del sé come agente autonomo e separato

non pare rispondere - Mitchell cita qui Clfford Geertz - a un’istanza evolutiva di tipo

universale quanto, piuttosto, a un dato culturale:

La concezione occidentale della persona come un universo motivazionale e cognitivo

delimitato, unico, più o meno integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emozione,

giudizio e azione organizzati in un insieme distinto e contrapposto sia ad altre entità simili

sia al contesto sociale e naturale è, per quanto incorreggibile ci sembri, un’idea

abbastanza peculiare nell’insieme delle culture mondiali.6

Può a questo punto suonare discordante, dopo tanti argomenti a favore di un sé

relazionale e molteplice, che le conclusioni di Mitchell siano da ultimo caute. “Potrebbe

ritenersi” - leggiamo infine - “che il senso di continuità nell’esperienza del sé sia totalmente

illusorio. Esso però assolve, almeno nella nostra cultura, a un’importante funzione

adattiva” E d’altra parte i due modi di rappresentare il sé - come molteplice e discontinuo,

e come integro, continuo e separabile, non sono reciprocamente esclusivi. “Le persone

4 Ibidem: 130-131. Anche le nozioni di Winnicott di ‘vero‘ e ‘falso’ sé riferite al rapporto del bambino col seno,

secondo Mitchell, “sono un importante punto di partenza ma si tratta di una situazione troppo semplificata quando si considera l’esperienza adulta. Tutte le motivazioni personali hanno una lunga storia relazionale, il sé è sempre immerso in contesti relazionali, attuali o interni, perciò tutte le motivazioni importanti sono apparse e hanno preso vita e forma in presenza e attraverso le reazioni di altri significativi.” (Ibidem: 134) 5 Ibidem: 109.

6 C. Geertz, “From the Native’s Point of View: On the Nature of Anthropological Understanding” in Local

Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York 1979: 59, citato da S. Mitchell, op. cit.: 110. Vedi anche quanto scrive J. Engler, “Being Somebody and Being Nobody: A Reexamination of the Understanding of Self in Psychoanalysis and Buddhism” in J. D. Safran (a cura di), Psychoanalysis and Buddhism. Un Unfolding Dialogue, Wisdom Publications, Boston: 51: “Nelle culture da cui il Buddismo è emigrato verso occidente, preminentemente in India e Giappone, il senso del sé è molto più mescolato con gli altri in un ‘senso del noi’ che è profondamente differente dall’’Io-sé’ separato ed autonomo dell’esperienza occidentale. Il sé è esperito come incorporato in una matrice di relazioni e come definito da tali relazioni, non solo la matrice delle relazioni umane e sociali ma la matrice più comprensiva delle relazioni all’interno del mondo della natura, e da ultimo il cosmo nel suo insieme”.

3

agiscono sia in modo discontinuo che in modo continuo. (...) In ogni momento dato una

persona opera a partire da un determinato contesto relazionale (...); al contempo quella

specifica versione del sé contribuisce a dar forma a una sequenza continuativa di

esperienza che ha le sue caratteristiche distintive. (...) Pensiamo al sé come alla sequenza

dei fotogrammi di un film. In ambedue i casi l’esperienza del movimento e della continuità

è un’illusione. Ma “l’illusione” “crea un’esperienza che ha una grande ricchezza soggettiva

in proprio, producendo un’immagine più ampia e ‘in movimento’ molto diversa (e molto

maggiore) della semplice somma delle immagini singole”. Similmente nel percorso

analitico “quanto più l’analizzando può tollerare di esperire versioni molteplici di se stesso,

tanto più si vivrà come forte, duraturo e capace di resilienza. E reciprocamente quanto più

l’analizzando ritrova dei tratti di continuità nel passaggio tra le sue varie esperienze, tanto

più può reggere la diffusione di identità implicita nel far convivere molteplici versioni del

sé”.7

Resta comunque, del discorso di Mitchell - e, se si vuole, anche in virtù delle sue

conclusioni - il punto forse più innovativo. Che si privilegi l’aspetto della discontinuità e

molteplicità o invece quello della continuità, il sé viene a perdere in ogni caso qualsiasi

carattere sostanziale per riproporsi come mera rappresentazione: capace, proprio per

questo, di più versioni e modi di esperienza possibili, nessuna eguagliabile a un ‘vero sé’.

Un corollario di questa innovazione è un diverso approccio ai temi dello sviluppo. Così

l’idea di un sé preesistente alla nascita il cui realizzarsi può solamente essere facilitato o

impedito lascia spazio all’ipotesi di più percorsi possibili grazie al convergere tra

potenzialità del bambino e influsso prevalente dell’uno o l’altro caregiver.8 Inoltre - si fa

ancora osservare - già negli scritti di Winnicott, l’opposizione tra sé ‘vero’ e ‘falso’ viene

formulata anche come antitesi fra non-integrazione - la possibilità per l’infante di rilassarsi

e abbandonarsi all’esperienza del gioco alla presenza rassicurante della madre - e

necessità di reagire, in modo prevalente, a stimoli o intrusioni esterne. In quest’ultimo caso

- ma solo in questo (ad esempio quando debba far fronte ad una madre angosciata o

depressa) - il bambino isola un proprio mondo privato (il suo ‘vero sé’) fino a nasconderlo

perfino a se stesso e si concentra sulla gestione del mondo esterno.9 Un ultimo modo,

infine, di ripensare quell’opposizione è prender atto della tensione costante, nel corso

della vita di ognuno, fra spontaneità e esigenza di conservare relazioni sicure10 (perciò

tener conto del proprio impatto sugli altri) o ancora fra agentività e relazionalità11 o fra

7 S. Mitchell, op. cit.: 115-116.

8 Ibidem: 129.

9 Scriveva Winnicott : “Soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la

propria vita personale. L’alternativa patologica è una vita falsa costruita su reazioni agli stimoli esterni. Quando è solo, nel senso suddetto, e solamente quando è solo, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, e cioè è in grado di diventare non-integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un po’ senza essere né qualcosa che reagisce ad un urto dall’esterno, né una persona attiva con una direzione d’interesse o di movimento. (...) Solamente in queste condizioni il bambino può avere un’esperienza e sentirla come reale. Un gran numero di tali esperienze formano la base di una vita reale e non futile.” (D. W. Winnicott (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando, Roma 1974: 36.). In età adulta situazioni analoghe di ‘non-integrazione’ in presenza d’altri (o relazionalità non reattiva) saranno condizioni per una crescita di creatività. (Cfr. M. Masud R. Khan, “On Lying Fallow” in Hidden Selves, Hogart Press, London 1983: 183-188.) 10

S. Mitchell, op. cit.: 133. 11

J. D. Safran e J. C. Muran, op.cit.: 39.

4

efficacia e esigenze di sicurezza.12 Il contrasto non è analizzabile in termini di contenuti

(come nella vecchia teoria freudiana delle pulsioni dove l’Es è tenuto a bada da Io e

Superio) e neanche in termini di priorità precostituite (come nell’ipotesi del ‘vero’ sé), ma

nella maggiore o minore capacità di un negoziato flessibile fra le due istanze. Questa

formulazione è già compatibile con un quadro teorico che all’antitesi ‘sé’ vero o falso’

sostituisca l’assunto di “numerosi stati del sé che lottano per dominare nello stato di

coscienza in un determinato momento”.13

E appunto questo - di una pluralità originaria di stati del sé - è l’assunto che ispira, in modo

forse anche più radicale del lavoro di Mitchell, il secondo contributo importante che va qui

ricordato - gli scritti sulla dissociazione di Philip Bromberg. L’esperienza di unità e

continuità del sé, per Bromberg, è senz’altro illusoria e “è generata dalla capacità

evoluzionistica della mente di radicare la coscienza in una delle configurazioni di stati del

sé che risultano più adattive in quel momento”.14 Di fatto “l’esperienza di sé si origina da

stati del sé relativamente isolati fra loro, ognuno con una propria coerenza interna” ma

“quando (...) tutto procede bene una persona è solo vagamente e momentaneamente

consapevole dell’esistenza di stati del sé individuali e delle loro rispettive realtà: questo

perché ognuno funziona come parte di una salutare illusione di identità personale unitaria

- uno stato cognitivo ed esperienziale sovraordinato sentito come ‘me’.” In questi termini

“la dissociazione (...) è una funzione sana e adattiva della mente umana. E’ un processo di

base che consente agli stati individuali del sé di funzionare in modo ottimale (e non in

modo semplicemente difensivo) quando ciò di cui abbiamo veramente bisogno o

desideriamo è una totale immersione in una singola realtà, in un singolo affetto forte, e

una sospensione della capacità autoriflessiva.”15

L’illusione di unità e di continuità così resa possibile - da questo genere di dissociazione

non difensiva - si caratterizza per il fatto di lasciar spazio alla capacità riflessiva e quindi

alla comunicazione anche con stati momentaneamente non in primo piano nell’esperienza

del sé. Bromberg usa l’espressione “restare negli spazi” per descrivere “la relativa

capacità della persona di ospitare in un dato momento una realtà soggettiva che non può

essere facilmente contenuta dal sé che in quel momento sente come ‘me’”. Questa

capacità di comunicare, momento per momento, con esperienze del sé discrepanti è

anche condizione della comunicazione intersoggettiva, ossia della capacità che le persone

hanno - ancora una volta: se tutto procede bene - di aprirsi all’esperienza che altri fanno

di loro.

Ma a volte - anzi, piuttosto spesso - non tutto procede bene. L’immagine del sé rimandata

dall’altro (o - che è lo stesso - da altri stati del sé) “può essere sentita troppo discrepante

dall'esperienza di sé che si sta facendo in quel momento per far sì che entrambe possano

essere conservate in mente simultaneamente”. In questo caso la dissociazione si piega

alla funzione - solo difensiva - di conservare “le esperienze di sé eccessivamente

discrepanti in stati del Sé separati che non comunicano tra loro, per lo meno per un certo

12

J. Greenberg, Oedipus and beyond, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1991: 129 sgg. 13

J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 115-116. 14

P. M. Bromberg (2011), L’ombra dello tsunami, Cortina, Milano 2012: 100. 15

P. M. Bromberg (1998/2001), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano 2007: 211.

5

periodo”; e può trattarsi di un periodo breve, per affrontare una situazione momentanea di

stress, ovvero più lungo o dell’intera esistenza. L’illusione di unità e continuità del sé ha

allora come condizione proprio il persistere della struttura dissociativa:

La mente/cervello organizza i suoi stati come un sistema protettivo che tenta,

proattivamente, di zittire l'accesso esperienziale a stati del Sé discrepanti con la gamma di

stati, limitati dissociativamente, di cui si fa esperienza in un dato momento come "me".

Questo rigido sequestro di stati del Sé per mezzo di una struttura mentale dissociativa è

talmente centrale per la personalità di alcuni individui che, virtualmente, modella tutto il

funzionamento mentale, mentre per altri il suo range è più limitato. Ma, a prescindere dalla

misura o dal range, la sua funzione evoluzionistica è di assicurare la sopravvivenza della

continuità del Sé relegando il funzionamento riflessivo a un ruolo minore, o a nessun

ruolo.16

Ciò è quanto accade, tipicamente, in occasione di traumi - sia traumi gravi (abusi sessuali

o fisici) sia, soprattutto, di traumi evolutivi: in questo caso, agendo ancora una volta al

servizio della continuità del sé e perciò conformandosi ai primi modelli di attaccamento,

saranno dissociati gli stati del sé ignorati o disconfermati dai genitori. Questi stati saranno

esclusi in permanenza dalla comunicazione in quanto non mentalizzati all’origine - non

confrontati col loro modo di apparire nella mente dell’altro - pertanto tendenzialmente non

simbolizzati sul piano cognitivo e quindi non recuperabili a un’unità del sé garantita

dall’autoriflessione (il mancato operare della comunicazione intersoggettiva sarà in questo

caso non conseguenza ma proprio l’origine della frattura dissociativa). Ne seguirà un

sentimento inguaribile di inautenticità imputabile, come visto sopra, non al tradimento del

‘vero sé’, ma all’eslcusione di un qualsiasi stato o aspetto del sé dall’esperienza

interpersonale.

Il Sé vissuto come vero è sentito essere sempre quello che sta bussando alla porta - la

voce interna antagonista, udita ma non "pensata" (Bollas, 1987). Questa voce viene

sentita inevitabilmente come più vera sul piano soggettivo semplicemente perché essa

contiene una "verità" diversa ma non formulata - una visione alternativa della realtà che

viene negata al sé che sta intrattenendo rapporti con il mondo, rendendolo così limitato sul

piano relazionale e compromesso nella possibilità di sentirsi autentico. Come ha detto

Mitchell (1993), "ciò che può sembrare autentico nel contesto di una versione del sé può

essere completamente inautentico rispetto ad altre versioni".17

2. Dopo questo richiamo, indispensabile per inquadrare il discorso, ai contributi della

psicoanalisi relazionale - ci si è limitati, a fronte di una produzione ormai molto ampia, a

due autori particolarmente influenti e significativi - si può dar spazio agli interventi

propriamente ispirati alla tradizione buddista. Qui la natura illusoria o piuttosto ingannevole

dell’unità e continuità del sé non è più solo ricondotta all’onnipresenza delle dinamiche

dissociative - così efficacemente illustrate da Bromberg - o all’intreccio relazionale delle

16

P.M. Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 14-15. 17

Ibidem: 128.

6

identità. In primo piano è invece il contrasto fra la preoccupazione costante e pervasiva

che più o meno tutti ci caratterizza - ma che è alla base, secondo il Buddha, di ogni

sofferenza - di preservare, proteggere, espandere il sé, e il dato radicale della sua

impermanenza, non autonomia e non separatezza, al pari di ogni essere e di ogni cosa

esistente. E’ un fatto che se poniamo attenzione, momento dopo momento, al flusso della

coscienza a monte degli automatismi con cui di solito selezioniamo, organizziamo e

interpretiamo i dati percettivi, concettuali e affettivi non incontriamo alcuna entità duratura,

nessun soggetto o oggetto costante ma solo operazioni con cui, momento dopo momento,

a partire da quei dati elementari di continuo e sempre di nuovo strutturiamo in modo

dualistico la nostra esperienza opponendo insiemi di oggetti distinti l’uno dall’altro e dal sé.

Come osserva Jack Engler

Il costrutto-sé ... è incorporato nella caratteristica più profondamente radicata del pensiero

e della percezione umana: la tendenza a considerare ogni oggetto dell’esperienza o della

percezione come un’entità separata o una ‘cosa’ dotata della sua esistenza e identità

concreta e separata e solo in un secondo momento in relazione con altre ‘cose’. (...) Ma la

‘cosalità’ o la ‘esistenza inerente’ è in realtà un’imputazione o un’attribuzione, non una

caratteristica delle ‘cose. (...) Come scrive la studiosa buddista Anne Klein “Le cose

semplicemente sembrano odorano e si fanno gustare come più solide individuabili e

intrisecamente disponibili di quanto in realtà non siano.” (...) Questa “attribuzione non

pensata di inerenza” a sé e agli altri è la “ontologia vissuta che sottosta ad ogni altra

esperienza di seità, inclusi i moderni sé psicologici” e specialmente la rappresentazione in

parte conscia in parte inconscia del sé come entità singola, unica e separata “collocata nel

profondo di noi stessi”.18

Detto in altri termini:

Il sé dell’uomo è un’azione: è qualcosa che facciamo per unificare la nostra soggettività

nello spazio e nel tempo, separandola dal flusso dell’esperienza e creandole un confine

intorno. Qualche volta facciamo questo consapevolmente, ma la maggior parte delle volte

lo facciamo senza avere consapevolezza del sé attraverso micromovimenti nelle nostre

percezioni che creano l’impressione di essere “qui dentro”, mentre qualcos’altro è “là

fuori”.19

La riduzione o decostruzione del sé che in questo modo si avanza è dunque più radicale

della innovazioni della psicoanalisi relazionale: il sé non soltanto è plurale e molteplice,

diversamente declinato per situazioni e rapporti; non solamente è rappresentazione, ma si

dà solo come relazione, come momento subordinato di questa - non c’è alcun ‘dentro’ se

non opposto a un ‘fuori’, non c’è alcun ‘io’ se non diretto a un ‘tu’20 - coinvolto,

18

J. Engler, op. cit.: 88. 19

P. Young-Eisendrath, “Il ruolo del non-sé nella creatività” in A. Molino e R. Carnevali (a cura di), Tra sogni di Budda e risvegli di Freud. Esplorazioni in psicoanalisi e buddismo, ARPANet, Milano 2010: 91. 20

Per una sintesi della formulazione più radicale di questo approccio, dovuta a Nagarjuna, si può vedere il lavoro non più recente ma ancora di grande interesse di F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991, cap. V. Vedi anche G. Kopf, “Di fronte all’altro. L’intrico psichico in Dogen e Jung” in A. Molino (a cura di) (1998), Psicoanalisi e buddismo, Raffaello Cortina, Milano 2001: 190-191.

7

inevitabilmente, sempre di nuovo ricostruito e dissolto nel dinamismo di un continuo fluire.

La stessa idea di qualche genere di costanza o ‘esistenza inerente’ attribuibile al sé non è

originaria ma è già prodotto del ciclo del karma - della causazione21 - dove prevalgono i

due opposti moventi dell’attaccamento e dell’avversione; e a sua volta è causa di

sofferenza, come già detto, perché sempre smentita dall’impermanenza, non separatezza

e finitezza del tutto. Si tratta allora, mediante la pratica meditativa, di mirare al risveglio,

alla consapevolezza non solo cognitiva ma esperienzale22 di queste verità, e le

implicazioni propriamente psicologiche di tale pratica sono già rilevanti: perché

presuppongono un definitivo ridimensionamento del sé non più quale soggetto, ma come

oggetto di consapevolezza - l’opposizione, quindi, almeno potenziale, tra modi della

soggettività e funzioni dell’Io. Se quelli sono da porre in problema queste, proprio nella

pratica meditativa, sono il più possibile potenziate: primo, per decostruire i processi (più

che altro inconsci) di costituzione, autoaffermazione e difesa dell’identità di soggetti;

secondo per accertarne funzionalità o interferenze in vista del crescere della

consapevolezza.23

Su questo punto si è già fatto cenno agli automatismi che reggono, d’abitudine, il nostro

rapportarci ai dati di esperienza. La meditazione di consapevolezza24 ci rende consci del

loro carattere prevalentemente difensivo-reattivo; ossia della nostra propensione a

distanziarci dalle esperienze e ad attutirne e filtrarne l’impatto mediante un flusso

praticamente incessante di fantasie e di pensieri - la cosiddetta proliferazione mentale -

che ne rielaborano ovvero ne anticipano le implicazioni sotto il profilo dell’attaccamento o

dell’avversione (rimuginazioni intorno al passato, speranze e attese circa il futuro); e ne

riducono la novità e la ricchezza reinterpretandola secondo termini e coordinate già note.

L’intento, almeno a prima vista, è pararne il carattere sorprendente o frustrante ampliando

per quanto possibile il controllo dell’Io. Ma ciò cui spesso veramente si mira è

salvaguardare per quanto possibile la certezza e la continuità della rappresentazione del

sé; e ciò anche a spese, se necessario, di un confronto paziente e puntuale col dato

concreto e di un pieno incontro con le emozioni che davvero assicurerebbero, anche nelle

situazioni più complicate o frustranti, non una reazione semiautomatica ma una risposta

mirata, più pertinente e più efficace dell’Io. Scrive in proposito un autore buddista:

L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale

è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e

definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente. 21

Un’utile sintesi ancora in F. J. Varela et al., op. cit.: 110 passim. 22

Come osserva J. Engler (op. cit.: 93) una consapevolezza solo cognitiva comporta ancora il punto di vista di un sé separato. 23

Su tutto questo M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 86 sgg. e 117. 24

Si distinguono, più precisamente, pratiche di meditazione formale (attenzione al respiro, alle sensazioni del corpo, alle percezioni, ai pensieri) da svolgersi in posizione seduta oppure sdraiata o anche camminando; e pratiche di meditazione informale consistenti ad esempio, nell’apprezzare intensamente e a lungo, in tutte le sue sfumature il sapore di un cibo, la bellezza e i colori di un giardino, i dettagli di un percorso abituale, i singoli momenti e le sensazioni di qualsiasi attività come farsi la doccia o lavare i piatti. Soprattutto le pratiche formali, come quella descritta sopra relativa al respiro, intendono non tanto far crescere direttamente l’accettazione quanto renderci attenti al nostro resistere all’accettazione, al nostro continuo ‘sganciarci’ dall’adesione al presente. Su questo vedi C. Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994 : 157-158. Vedi anche più in generale Thich Nhat Hanh (1987), Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma 1992.

8

... Invece che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo

di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per

aver luogo ben di rado. ... Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza

ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che

essa ci appaia così come ce la raccontiamo. E dunque l’indugiare frequentemente in

pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare

‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto,

all’ignoto.. E così pure quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli

avremmo voluto dire, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura

e simili. ... Noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia ... noi vogliamo

parlare nella rabbia, pensare e immaginare nella rabbia anche se tutto ciò che diciamo è

prevedibile, anzi è importante proprio perché è prevedibile, noto, abituale. In questa

maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia ... ne rimaniamo separati da quella

barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.25

La libertà da che viene perseguita - su un piano, peraltro, solo immaginativo-ideativo -

come difesa ad oltranza di una rappresentazione costante e rassicurante del sé, mediante

gli automatismi della proliferazione mentale, è a spese, assai spesso, della libertà di - di

un esercizio competente e efficace delle funzioni dell’Io.26 Grazie alla pratica meditativa

possiamo apprendere tuttavia ad osservare i nostri pensieri e le nostre reazioni

automatiche, ma senza agirli e identificarci con essi. Così facendo sarà possibile,

progressivamente, evitare l’irrigidirsi e il consolidarsi (sempre a livello immaginativo-

ideativo) degli aggregati percettivo-affettivi del sé e degli oggetti, mentre al contempo

accoglieremo e lasceremo operare le nostre emozioni, ci apriremo all’emergere di spunti

diversi, amplieremo lo spazio di ideazione e di azione. L’unità o continuità del sé così

realizzabile, come osserva Mark Epstein, sarà assimilabile sempre meno a un’entità fissa

e sempre più a “un flusso di consapevolezza ... sempre in evoluzione ... un processo mai

del tutto concluso di autoscoperta e autocreazione” e l’io dovrà subordinare, per quanto

possibile, a questa fluidità processuale ogni pretesa alla stabilità.

L"Io' è il veicolo individuale per attuare questi incontri, ma anch'esso non ha un'identità

intrinseca. Un lo sano inizia, si avvicina, stabilisce un contatto e si dissolve, per poi iniziare

il ciclo di nuovo. Un lo disturbato frappone ostacoli e interferisce con il contatto sano,

perpetuando la propria realtà a spese dell'interazione. (...) L'Io che è di ostacolo non

giunge mai alla trasparenza; il risultato sarà una persona contratta per la propria

sensazione di inadeguatezza. Un senso positivo del sé emerge solo quando l'Io permette

a se stesso di dissolversi.27

Di fatto facciamo già tutti quotidianamente esperienza - chi più chi meno - di questo

genere di fluidità o consapevolezza adualistica o priva di sé (più precisamente:

consapevolezza senza coscienza riflessiva del sé). Guidiamo l’automobile o qualche altro

25

C. Pensa, L’intelligenza spirituale, Ubaldini, Roma 2002: 30-32. 26

Spesso ma, ovviamente non sempre: gli automatismi della mente includono infatti primariamente, le attività di categorizzazione e astrazione che sono indispensabili all’apprendimento, alla previsione e alla sopravvivenza adattiva. 27

M. Epstein (2001), La continuità d’essere, Ubaldini, Roma 2002: 28-29.

9

veicolo adattando l’andatura alla situazione ed evitando possibili ostacoli senza necessità

di riflettere; ‘ci perdiamo’ nella contemplazione di uno spettacolo naturale, di una persona,

di un’opera d’arte o nel rapporto sessuale. Se sappiamo suonare uno strumento

muoviamo spontaneamente le mani nel modo giusto; similmente se siamo veramente

esperti in un arte marziale rispondiamo senza riflettere ma in modo del tutto adeguato alla

mossa dell’avversario.28 In tutti questi casi non siamo consci di noi stessi ma siamo

consapevoli, sintonizzati alla realtà del momento. Pensieri, sentimenti azioni avvengono

ma non sono esperiti come originantisi in o da “me”. Avvengono semplicemente in risposta

alle esigenze del momento per conto loro, senza forza o intenzione cosciente.29

Ancora Epstein insiste a lungo sull’affinità fra questo genere di disponibilità e fluidità

esperienziale - resa possibile da un alto grado di flessibilità o ‘trasparenza’ dell’Io - ed il

recupero, in età adulta, di uno stato di inintegrazione affine alla continuità d’essere

dell’infante (di cui parla Winnicottt) che può abbandonarsi all’esperienza del gioco potendo

contare sull’attendibilità della madre. Si è già detto sopra che questo stato di non-

integrazione - che riesce possibile, in età adulta, solo come resa30 o piena adesione al

presente31 - è quanto di più simile possa pensarsi, in un’ottica relazionale, a un’esperienza

del ‘vero’ sé. Anche per una psicoanalisi del non-sé ispirata al buddismo non c’è

ovviamente alcun vero sé se non nel “processo mai del tutto concluso di autoscoperta e di

autocreazione” (di cui parla Epstein) reso possibile da questa adesione. O se si vuole -

come appena visto - il ‘vero sé’ è il venir meno dell’autocoscienza messa a guardia

dell’autocentramento del sé”32; o ancora, in termini kohutiani, “per il non-sé tutte le

esperienze sono esperienze mature di oggetti-sé.33

Che dire, infine, in una prospettiva junghiana? Il netto rifiuto degli autori buddisti di

riconoscere al sé qualunque genere di consistenza ‘ontologica’34, e l’insistenza nel non

vedervi di più che una rappresentazione (per giunta, in linea di massima fuorviante e

ingannevole) suona, a ragion veduta, in aperto contrasto con la nozione junghiana del Sé

quale ‘centro’ della totalità psichica e ancor di più, in quanto meta del processo di

invididuazione, quale portatore di un senso. Ma a fronte di ciò, e anche tralasciando le

affinità, rilevate da Jung,35 tra la propria psicologia e il cammino buddista, occorrerebbe

28

G. Kopf, op. cit.: 193. 29

J. Engler, op. cit: 60.61. 30

Sul tema della resa vedi l’ottimo studio di E. Ghent, “Masochism, Submission, Surrender: Masochism as a Perversion of Surrender” in S. A. Mitchell. L. Aron (a cura di) Relational Psychoanalysis. The Emergence of a Tradition, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 211-242. 31

L’insistenza sull’attenzione esclusiva al presente, implicita in questa concezione, è ben illustrata dal famoso koan Zen: “In questo preciso momento, non pensando né al bene né al male, mostrami il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori”. “Essendo andati oltre il dualismo, oltre ‘il pensare il bene ed il male’ c’è un vero sé essenziale? Budda ha insegnato che il sé è ‘vuoto’, che non ha assolutamente natura fissa o essenziale. Tutto quello che c’è è ciò che le stesse parole di apertura del koan ci dicono: essere proprio questo momento è il nostro vero sé. Il nostro volto originario non può essere altro che il volto di questo momento”. (B. Magid, “Your Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 265-266) 32

P. A. Ringstrom, “Psychoanalysis and Buddhism: Two Extraordinary Paths to An Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 288. Così, prendendo le distanze da Winnicott, anche M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 68-69. 33

B. Magid, op. cit.: 271. 34

Vedi in proposito di nuovo J. Engler, op. cit.: 52. 35

C.G. Jung (1939), “Prefazione a D.T. Suzuki, ‘La grande liberazione. Introduzione al buddismo zen’” in Opere, XII, Boringhieri, Torino 1979: 549-567.

10

ancora considerare tre aspetti. 1) Col segnalare la finalità difensiva (della continuità e della

sicurezza del sé) del pensare per segni - cioè del ridurre il vissuto al concetto, il nuovo, il

particolare e l’affettivamente pregnante all’astratto e al già noto) il pensiero buddista

mostra di privilegiare un’attenzione al concreto, al differente, al non riducibile che è

rispetto profondo (come ancora vedremo) di ogni alterità ma è anche del tutto affine, nel

contesto junghiano, all’esperienza simbolica - al modo proprio di manifestarsi dell’alterità

dell’inconscio. 2) L’idea di un sé solo processuale che non conosce un’identità

precostituita ma che si esplica e con ciò stesso si scopre, momento dopo momento, solo

nella pratica dell’accettazione, cioè nella piena adesione al presente, è molto simile

all’idea junghiana di individuazione come ricerca/accettazione del corpo, della propria

forma, e del proprio limite. 3) Infine Jung mette in relazione la sua nozione del sé con

l’idea buddhista di una ‘coscienza della coscienza’:

La possibilità che esistano vari stadi nello sviluppo della coscienza non ci viene nemmeno

in mente; il solo pensiero che esista una forte differenza psicologica fra la coscienza

dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto assomiglia

molto da vicino a un cavillo che appena merita risposta. (...) Furono lo yoga in India e il

buddhismo in Cina a dare l’avvio a questi tentativi di strapparsi alla cattività di un dato

stato di coscienza, sentito come imperfetto. Per quanto riguarda la mistica occidentale i

suoi testi sono pieni di istruzioni sul modo in cui l’uomo possa e debba liberarsi dell’essere

Io della sua coscienza, onde elevarsi, per mezzo della conoscenza della sua natura, al di

sopra di questa e raggiungere l’uomo interiore (divino). (...) Questo nuovo stato di

coscienza derivato dalla pratica religiosa si distingue per il fatto che le cose esteriori non

influiscono più su una coscienza fatta di Io ... ma che una coscienza vuota è aperta a

un’influenza diversa. Questa influenza “diversa” non è più sentita come attività propria, ma

come quella di un non-Io il cui oggetto è la coscienza. E’ come se il carattere soggettivo

dell’Io fosse stato sopraffatto o assunto da un altro soggetto che si fosse messo al posto

dell’Io.36

L’obiezione buddhista a a queste note di Jung sarebbe che una ‘coscienza della

coscienza’ che la ponesse a oggetto di un altro soggetto sarebbe appunto coscienza di un

oggetto (di quella stessa coscienza oggettivata) non della coscienza colta nel suo operare

come “carattere soggettivo dell’io” o soggettività conoscente; allo stesso modo in cui

l’occhio può vedere se stesso come oggetto riflesso in uno specchio ma non nell’atto del

suo vedere. Ne segue che se si vuole pensare il Sé come ‘coscienza della coscienza’37

non si può porlo come ‘altro soggetto’ cui si oppone un oggetto. Come chiarisce assai

bene Engler

non posso osservare direttamente il mio sé osservante. Se lo faccio ... muto soltanto l’atto

della consapevolezza in un altro oggetto di consapevolezza in una regressione all’infinito.

... (...) Il sé che io rappresento, il “sé” che io posso conoscere o afferrare non è mai “me”.

L’occhio che vede, dice lo Zen, non può vedere sé stesso. E infine è chiaro: non possiamo

staccare il nostro “sé” dalla consapevolezza perché siamo quella consapevolezza.

36

Ibidem: 555-556. 37

Ibidem: 553.

11

In questo senso la consapevolezza non è semplicemente una funzione dell’Io. (...) La

consapevolezza in quanto tale non può mai essere oggettivata, colta come un oggetto,

identificata coi contenuti della coscienza, rappresentata come “questo o “quello”. E’ di

natura fondamentalmente diversa: senza qualità, senza limiti, senza confini: (...) In

essenza Io non sono nulla che possa essere nominato o pensato, rappresentato o negato,

trovato o perso. “Chi sei” dice Sri Nisargatta Maharaj, “è indefinibile e indescrivibile. La

consapevolezza soggettiva è ciò che rende possibile l’esperienza, ma non è essa stessa

esperienza. (...) la piena realizzazione di ciò è la consapevolezza non dualistica come

proprio stato naturale. L’identificazione con ogni rappresentazione o attività di un sé

separato diviene impossibile”.38

E’ però interessante che altrove lo stesso Jung si avvicini molto a questa prospettiva:

Proprio come l’Io è una certa esperienza di me stesso, così il Sé è un’esperienza del mio

Io, vissuta però non più nella forma di un Io più vasto e più alto, ma in forma di un non-

Io.39

E ancora, più diffusamente:

Poiché il numero di possibilità è limitato si raggiunge ben presto una frontiera, o piuttosto

frontiere che arretrano una dopo l’altra presumibilmente fino al momento della morte.

L’esperienza di queste frontiere conduce gradualmente alla convinzione che quanto viene

esperito è un’interminabile approssimazione. Lo scopo di questa approssimazione sembra

essere anticipato da simboli archetipici che rappresentano qualcosa come la

circumabulazione di un centro. Al crescere dell’approssimazione al centro c’è un

corrispondente depotenziamento dell’Io a favore dell’influenza del centro “vuoto” che certo

non coincide con l’archetipo ma è ciò cui l’archetipo mira. Come direbbero i Cinesi,

l’archetipo è soltanto il nome del Tao, non il Tao in sé. Così come i Gesuiti traducevano

Tao come “Dio” così noi possiamo descrivere la “vuotezza” del centro come “Dio”.

Vuotezza in questo senso non significa “assenza” o “vacanza” ma qualcosa di

inconoscibile dotato della più elevata intensità. Se io chiamo questo inconoscibile “Sé”

tutto ciò che è accaduto è che gli effetti dell’inconoscibile hanno ricevuto un nome

aggregato, ma i suoi contenuti non ne sono affetti in alcun modo. Una parte

indeterminabilmente ampia del mio stesso essere è inclusa in esso, ma poiché questa

parte è l’inconscio non posso indicare i suoi limiti e la sua estensione. Il sé è pertanto una

concetto liminare, in alcun modo riempito coi processi psichici noti.40

3. Al terzo punto di questa esposizione sono le implicazioni di un pensiero analitico

ispirato al buddhismo per l’ascolto e la pratica psicoterapeutica. Anche in quest’ambito è

indiscutibile un nesso di continuità fra autori buddhisti e psicoanalisi relazionale (a sua

38

J. Engler, op. cit.: 66. 39

C. G. Jung, op. cit.: 553. 40

C. G. Jung, Letters, Routledge, London 1975, II: 258, traduzione mia.

12

volta vicina, per una serie di aspetti, alle posizioni originali di Jung41

). Sé del paziente e sé

del terapeuta sono intesi ambedue come relazionali e molteplici e ’normalmente o

patologicamente dissociativi’42 (nel senso già visto di Mitchell e Bromberg), e come tali si

esprimono e operano anche all’interno della relazione analitica. Il terapeuta, in particolare,

non si può ergere a ‘osservatore oggettivo’ - colui che ‘sa’ i contenuti dell’inconscio - né

l’attitudine del paziente verso di lui si può spiegare, in modo esauriente, come distorsione

dovuta al transfert. L’incontro analitico vive invece del gioco sempre irripetibile

dell’interazione fra quel paziente e quell’analista e della loro influenza reciproca (deve

restare, perciò, una questione aperta in qual misura questa interazione segua modelli

caratteristici di altre relazioni della vita del paziente); e il compito del terapeuta - che può

definirsi di osservatore partecipante - è 1) monitorare al meglio i propri sentimenti, le

proprie reazioni, anche le proprie sensazioni fisiche, 2) guidare, a partire di qui

un’osservazione congiunta di quanto accade volta per volta nel qui ed ora della relazione

per trarne ipotesi sui processi psichici del paziente. Da ripensare è anche il vecchio

concetto di ‘resistenza’, che non può più soltanto indicare una generica difficoltà del

paziente a divenir consapevole di certi sentimenti o emozioni ma deve includere anche il

contributo eventuale del terapeuta: ossia “esplorare che cosa il paziente teme che accada

se tali emozioni vengono espresse nel qui ed ora della relazione terapeutica”.43

La differenza essenziale tra questo approccio e quello della psicoanalisi tradizionale suole

riassumersi nel venir meno di ogni finzione o di ogni pretesa di ‘oggettività’ per il terapeuta

“relazionale. Ma ‘oggettività’ (o meglio: assenza di oggettività) si può ancora intendere in

una doppia accezione. Come mancanza di referenti o evidenze per il lavoro analitico il cui

significato sia indiscutibile, in quanto univoco e palese per tutti: non-oggettività, allora, col

significato di relatività, o impossibilità, intesa dal vertice dell’analista, di non trasferire

nell’interpretazione il carico della sua psicologia personale. O ancora, declinata invece dal

vertice del paziente, come portato dalla natura interpersonale del lavoro analitico che

come tale vuol rivolgersi all’altro nella sua differenza e nella sua unicità; nel suo sottrarsi,

pertanto, sempre e di continuo all’oggettivazione, a qualsiasi genere di omologazione

teorica e ad ogni riduzione a categorie ed a concetti con la conseguenza di destabilizzare

lo stesso analista: frustrandone le velleità di conoscenza e controllo, anche i bisogni di

distanziamento fra sé e il paziente, ed attraendolo a sua volta a coinvolgersi nella totalità e

quindi anche nell’assoluta specificità della propria persona.44 Lewis Aron, sulla scorta di

Winnicott e Jessica Benjamin,45 descrive proprio in questi termini l’andamento alternante -

fra oggettivazione e intersoggettività - della relazione analitica:

41

Sul punto vedi, da ultimo W. Colman, “Bringing it all back home: how I became a relational analyst”, The Journal of Analytical Psychology, 58, 4, Sept. 2013: 470-49. 42

Bromberg precisa, a questo proposito che il trauma evolutivo (o trauma relazionale) come egli lo intende “fa parte del processo di modellamento dei precoci pattern di attaccamento (incluso l'’attaccamento sicuro’), che a sua volta determina quelli che Bowlby (1969,1973,1980) chiama ‘modelli operativi interni’. (...) Vale a dire che il trauma connesso all'attaccamento è parte dell'esperienza passata di tutti e un fattore centrale in ogni trattamento; per alcuni pazienti però ha portato a una struttura mentale dissociativa che si è impossessata del funzionamento della personalità e della vita mentale, imponendo quindi la "Verità" su presente e futuro.” (P. M Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 71 e 103-104. 43

J.D. Safran. J. C. Muran, op. cit. : 100. 44

I riferimenti filosofici d’obbligo sono qui M. Buber (1984), “Io e tu” in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997 e E. Lévinas (1971), Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977. 45

Aron rimanda, in particolare, a D. W. Winnicott, “L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” in Gioco e realtà, Armando Armando, Roma 1974 e all’interpretazione di questo lavoro (come superamento dell’oggettivazione e come scoperta della soggettività della madre/altro) proposta da J.

13

Suggerisco che la relazione intersoggettiva sia continuamente interrotta tra le persone -

anche tra paziente e analista - scambiandola per una relazione soggetto-oggetto, e che

poi la relazione intersoggettiva sia ristabilita. Credo che l’intimità non coincida con

l’intersoggettività ma che, piuttosto, trascenda questa relazione dialettica. L’intimità implica

la sopravvivenza e il sostentamento di questa relazione tramite la continua creazione e

distruzione dell’intersoggettività.46

L’alternativa - o, più radicalmente, l’antidoto - al ‘pregiudizio’ dell’analista, in questa

prospettiva non è soltanto una comprensione più completa e migliore, resa possibile -

come propongono ad esempio Safran e Muran47 - in una sorta di dialogo ermeneutico; è

un coinvolgimento con la persona o l’esser soggetto dell’altro che ci mantiene in tensione

verso di lui, incessantemente in ascolto perché ci sollecita di continuo all’interpretazione

ma ci fa vivere via via come impropria e virtualmente insoddisfacente ogni comprensione o

qualsiasi giudizio. Questa visione - che riprende, incidentalmente, quasi alla lettera le

prescrizioni di Bion sulla capacità negativa e sulla necessità di astenersi (per l’analista) da

attività mentale, desiderio e memoria48 - è in sintonia con la dottrina buddhista, riferita

sopra, sui rischi della proliferazione mentale e sulle finalità difensive - per la stabilità della

rappresentazione del sé - della omologazione al già noto, a scapito delle capacità

percettive e dell’efficacia dell’Io. Qui infatti non si tratta già più - lo si è visto sopra -

soltanto di includere la soggettività conoscente (nel nostro caso quella dell’analista), come

nel primo approccio relazionale; quanto, piuttosto, di rendersene consapevoli e di

trascenderla, per quanto possibile, come momento a sua volta relativo nella dualità

continuamente ricreata di soggetto ed oggetto del processo di conoscenza, dunque da

subordinare alla qualità e all’efficacia di questo. L’esito un po’ paradossale, e

però),innegabile, come ancora vedremo è alla fine il recupero, nella prima accezione del

termine, non di una pretesa ma di una tensione all’oggettività.

Per la psicoanalisi (e la psicologia analitica) ispirate al buddhismo ciò si è tradotto, molto

concretamente, non nel semplice invito a una disciplina mentale - come già in Bion - ma

nell’acquisizione al lavoro analitico e soprattutto al training quotidiano dell’analista di

pratiche tratte dalla meditazione di consapevolezza. A tali pratiche - a questo punto anche

dissociabili e dissociate, di fatto da un credo buddhista - o, meglio ancora al tipo e alla

qualità di attenzione che con esse si mira a far crescere e sostenere va il nome generale

Benjamin, “Recognition and Destruction: An Outline of Intersubjectivity” in S. A. Mitchell, L. Aron (a cura di), Relational Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 183-210, traduzione italiana parziale in J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello Cortina, Milano 1996. 46

L. Aron, A meeting of minds, The Analytic Press , Hillsdale and London 1996: 152 (traduzione mia); citato da J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 68. 47

J. D. Safran, J. C. Muran, op. cit. : 44-45. 48

Vedi soprattutto W. R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Armando, Roma 1973 e W. R. Bion (1965) Trasformazioni, Armando Armando, Roma 1973. Ma sono anche da ricordare i contributi di Marion Milner e Karen Horney: M. Milner, “The concentration of the body” in The suppressed madnes of sane men, Tavistock Publications, London & New York 1987: 234-240 e K. Horney, Final Lectures, ed. by D. Ingram, Norton, New York 1987: 19.21 citato da M. E. Miller, “Zen and Psychotherapy” in P. Young Eisendrath and S. Muramoto (a cura di), Awakening and Insight. Zen Buddhism and Psychotherapy, Brunner-Routledge, New York 2002: 85.

14

di Mindfulness (variamente tradotto con ‘presenza mentale’, ‘consapevolezza’ o anche

‘pienezza della consapevolezza mentale’). Tale attenzione è stata definita:

Focalizzata, cioè orientata in modo esclusivo verso un determinato oggetto ... (il proprio

respiro, un’amica con la quale stiamo parlando ... una sensazione corporea). E’ importante

che, quando ci si rende conto che l’oggetto stabilito non è più al centro del focus attentivo,

si compia ... una intenzionale rifocalizzazione dell’attenzione verso quell’oggetto dal quale

ci si è allontanati.

Rivolta al momento presente, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto ci si riesce)

verso l’esperienza che si sta vivendo qui ed ora: ogni volta che si diviene consapevoli che

la mente ci ha trasportato ... nel passato o nel futuro ... è importante che si attivi ... un

riposizionamento dell’attenzione sul momento presente.

Non categorizzante, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto si riesce, all’esperienza

in cui ci si trova, senza usare le categorie, le classificazioni, e i giudizi abituali per

comprenderla: ogni volta che si diventa consapevoli che la mente sta operando una

sistematizzazione di quello che sta accadendo in base a schemi pregressi, e importante

che si metta in atto ... un riorientamento dell’attenzione sulla qualità di novità

dell’esperienza, che di fatto possiede.49

Trasferita nel contesto analitico (sempre gli autori di ispirazione buddhista50 insistono

molto sulla sua affinità con la attenzione ugualmente sospesa prescritta da Freud51)

l’attenzione mindful ha di mira anzitutto le autodifese dell’analista - messe in atto,

comunemente, col ritirarsi dalla relazione, con l’assimilarla a situazioni trascorse o

proiettandola nel futuro, col neutralizzarne l’impatto emotivo mediante astrazioni - ogni

qualvolta la relazione stessa sia troppo frustrante, dolorosa o allarmante o comunque

coinvolga aree di forte vulnerabilità, facendo prevalere su un’attitudine recettiva una

risposta reattiva. Può però trasmettersi - per ragioni del tutto analoghe - dall’analista al

paziente (Wallin definisce la psicoterapia, sotto questo profilo, come una specie di

meditazione a due52) in modo tacito o per inviti espliciti: ad esempio col chiedere

ripetutamente al paziente di soffermarsi su ciò che sente in un determinato momento, di

provarsi a descriverlo nei dettagli e anche indicare dove lo sente (in quale area del corpo).

Lo sfondo che potremmo chiamare ‘umanistico’ (in effetti ancora vicino al buddhismo) di

questa pratica dell’attenzione è l‘accettazione non giudicante (la meditazione di

consapevolezza ha qui la funzione di renderci consci, momento dopo momento, dei giudizi

e delle risposte di rifiuto che rivolgiamo innanzitutto a noi stessi); e la compassione per

noi medesimi “che emerge quando diventiamo capaci di aprirci [anche] alle esperienze

dolorose”.53 In particolare: col trattare noi stessi gentilmente e senza giudicarci con

severità; riconoscendo che errori, fallimenti e avversità fanno parte della comune

49

G. Amadei, Mindfulness. Essere consapevoli, Il Mulino, Bologna 2013. 50

In particolare M. D. Epstein, “Sulla negazione dell’attenzione ugualmente sospesa”, in A. Molino, R. Carnevali (a cura di), op. cit.: 160-175) e M. Epstein (2007), Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio, Roma 2008: 95. 51

S. Freud (1912) “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, Opere, VI, Bollati Boringhieri, Torino1989,: 532-533. 52

D. J Wallin (2007) Psicoterapia e teoria dell’attaccamento, Il Mulino, Bologna 2009: 264. Questo testo, ai capitoli IX e XVII contiene una sintesi eccellente dell’approccio mindfulness in psicoterapia. 53

Ibidem: 283.

15

esperienza umana; mantenendo un’equilibrata consapevolezza di pensieri e sentimenti

spiacevoli, invece di evitarli, cancellarli o identificarsi eccessivamente con essi.54 Sempre

per Wallin una tale apertura tenderà ad autoconsolidarsi in quanto la consapevolezza

anche dei sentimenti dolorosi ne farà comprendere sempre di più la qualità transitoria

rendendoli, con ciò stesso, assai meno temibili; legando, di conseguenza, sempre di più

alla consapevolezza, più che a figure protettive interiorizzate o a determinati stati mentali il

nostro senso di sicurezza; ed evitando il sovrappiù di sofferenza sempre legato allo sforzo

di evitare il dolore.55

In termini più formali l’attenzione mindful mirerà a sospendere per quanto possibile gli

automatismi categorizzanti o ‘dall’alto in basso’ (dei quali a lungo si è detto sopra)

finalizzati alla previsione e alla sopravvivenza adattiva per dare spazio alla modalità

senso-percettiva (‘dal basso verso l’alto’) vuoi verso l’esterno (nel setting analitico:

l’espressione facciale, il tono di voce, le sfumature emotive, la postura corporea del

paziente) vuoi verso l’interno (pensieri, sentimenti, emozioni, anche stati fisici dell’analista

- osservati, però, e anche utilizzati, ma in modo equanime e ad una certa distanza, alla

stregua di eventi o stati transitori e dunque senza identificarsi con essi56). Questa

attenzione accrescerà l’efficacia (ai fini del cambiamento) del dialogo terapeutico con

l’ancorarlo più saldamente all’esperienza vissuta, ossia al qui ed ora più che alla semplice

riflessione o ricostruzione retrospettiva e al vissuto emozionale-corporeo oltre che alla

comprensione concettuale. Notano in proposito Safran e Muran:

Diversamente da quanto accade per un pensiero più concettuale, che può essere staccato

dall'azione, la conoscenza a livello corporeo ha sempre implicazioni per il passo

successivo all'attuale. Quando un individuo ha una nuova sensazione, dà a se stesso

un'irrefutabile informazione su quanto l'intera configurazione relazionale significhi

realmente per lui come organismo intero, e tale significato ha risvolti impliciti per l'azione.

(...) L'insight emozionale, o consapevolezza, comporta così la rivalutazione di un evento o

di un'esperienza in un modo che conduce al «che cosa vuoi dire per me ora». (...) Ciò

riflette il fatto che l'individuo conosce qualcosa in maniera differente, come un organismo

concreto, in interazione con l'ambiente circostante.57

54

K. D. Neff, “Self-compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself” in Self and Identity, 2: 85-101, 2003 citato da R. a. Baer, “la compassione di sé” in R. A. Baer (2010) a cura di, Come funziona la mindfulness, Raffaello Cortina, Milano 2012: 130. 55

D. J. Wallin, op. cit.: 263. 56

Su questo punto, veramente essenziale, vedi quanto scrive D.J. Siegel (2007), Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009: 25-26: “Da questo modo di essere riflessivo, mindful, emerge un processo fondamentale chiamato ‘discernimento’, in cui diventa possibile essere consapevoli del fatto che le attività della propria mente non sono la totalità di ciò che si è. Il discernimento è una forma di disidentificazione dall’attività della propria mente: quando diventi consapevole delle sensazioni, dei sentimenti e dei pensieri ... arrivi a vedere queste attività come delle onde che si muovono sulla superficie del mare della mente. Da questo luogo più profondo della mente, da questo spazio interno della consapevolezza mindful, è possibile notare come le onde superficiali del cervello vadano e vengano. Questa capacità di liberarsi dal chiacchiericcio della mente, di capire che queste sono “solo attività della mente”, è un’esperienza liberatoria e per molti perfino rivoluzionaria”. Vedi anche, dello stesso autore, The Mindful Therapist, Norton, New York & London 2010. 57

J.D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 63.

16

In questa linea, per richiamare un esempio recente, può rilevarsi un alto grado di

congruenza fra attitudine mindful e i contributi di Daniel Stern e del Boston Change

Process Study Group sul cambiamento in psicoterapia e la conoscenza relazionale

implicita. Si tratta di cogliere e valorizzare anche in questo caso il momento presente - i

cosiddetti now moments - con la totale disponibilità da parte dell’analista a mettersi in

gioco personalmente nella situazione, esponendosi senza difese ai suoi elementi di novità

e al suo impatto emotivo e offrendo così una risposta che attesti, per ambe le parti, la

saldatura di di un nuovo piano di sintonizzazione emotiva.

I momenti più interessanti sorgono quando il paziente fa qualcosa che è difficile

catalogare, qualche cosa che richiede una reazione nuova e diversa, contraddistinta da

una firma personale che fa condividere al paziente lo stato soggettivo dell’analista (affetti,

fantasie, esperienze reali ecc.). (...) Il terapeuta deve usare un aspetto specifico della

propria individualità, un aspetto che porta una connotazione personale. I due soggetti si

incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai

loro rispettivi e ordinari ruoli in terapia. Inoltre le azioni che costituiscono il “momento di

incontro” non possono essere consuete, abituali o tecniche; devono essere nuove e

forgiate per soddisfare le particolarità del momento.58

Vi sono da ultimo, per concludere, linee assai rilevanti di convergenza del pensiero

mindful con l’impostazione junghiana. Già l’insistenza sul non sottrarsi al confronto con

temi dolorosi o allarmanti e soffermarsi, al contrario, in un contatto approfondito con essi

risuona affine alla basilare prescrizione di Jung sull’importanza di ‘stare nel conflitto’

perché si produca un cambiamento spontaneo e più autentico - la cosiddetta funzione

trascendente (ciò sia nel conflitto esclusivamente interiore, sia nel confronto

intersoggettivo). In aggiunta a questo ritengo assai significative alcune considerazioni

recenti (penso, in particolare, all’ultimo libro di Maria Ilena Marozza59) sulla questione - a

cui si è qui solamente accennato - della tensione all’oggettività nell’ascolto analitico. In

sintesi, ritiene Marozza, si può pensare ad una base di oggettività in psicoanalisi a

condizione di fare spazio (esattamente come propone l’approccio mindful) alla dimensione

sensoriale-affettiva, che in ogni caso accompagna sempre la comunicazione verbale, la

completa, la qualifica e la precisa radicandola nello spessore psico-corporeo; ma si

differenzia, contestualmente, da essa perché non confluisce nell’astrattezza dei segni e

quindi non si offre, al pari di questi, all’immediatezza della comprensione linguistica. Essa

piuttosto trattiene nel concreto, contagia e provoca alla ricerca di una comprensione che

non può contare su di un sapere generalizzabile (ma quindi non può nemmeno venir

tradita o fraintesa in forza di preferenze teoriche o categoriali) ma obbliga - proprio come il

simbolo60 - a soffermarsi nell’esperienza e a esporsi a lungo al coinvolgimento e alla

58

Cfr. The Boston Change Study Group (2010), Il cambiamento in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano 2012: 15-16. 59

M.I. Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo 2012. Ma vedi anche M.La Forgia e M. I. Marozza, Le radici del comprendere, Fioriti, Roma 2005 e M. La Forgia e M. I. Marozza (a cura di), La conoscenza sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo 2008. 60

Sull’affinità fra impegno in chiave di ‘capacità negativa’ e esperienza simbolica ho scritto in G. Kaufman, “Il silenzio del padre nella relazione analitica. Bion, Jung e una rilettura del simbolico” in Il Padre. Parola Silenzio Trasformazione”, Atti dell’XI Convegno Nazionale del Centro Italiano di Psicologia analitica,

17

condivisione: e appunto qui, in questo tratto non riducibile di autoreferenzialità o

intransitività è quanto rende “la realtà dell’affetto ... la manifestazione fenomenica e del

tutto oggettiva, di una supponibile realtà dell’inconscio: poiché, come scrive Matte Blanco,

nulla ci conduce ad una chiara distinzione psicologica fra l’emozione e l’inconscio”.61 In

particolare, nello specifico della costruzione junghiana il nesso mai del tutto scindibile fra

strato sensoriale-affettivo e dimensione rappresentativa-ideativa, su fino al piano verbale-

razionale si salda nell’unità dei complessi e nel loro operare a differenti livelli di coscienza

cui corrispondono modalità qualitativamente diverse (ma tali da confrontarsi e completarsi

l’una con l’altra) di registrazione delle esperienze. Ne segue “la possibilità ... di insediare

l’ordine linguistico e la capacità di significare nell’ordine dell’esperienza soggettiva vitale e

diretta”.62 E in primo luogo di riscontrare le rappresentazioni logico-razionali ma in potenza

del tutto astratte del complesso dell’io (inclusa la distinzione che solo qui si rappresenta

compiutamente fra il sé ed il mondo) con quanto si esprime dai complessi secondari in

modo più indistinto ma impegnativo e pregnante dell’esistenza emozionale e sensoriale di

base.

Vivarium 2002. Sul coincidere fra esperienza simbolica e incontro con la “cosa in sé” vedi M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986: 80-83. 61

Scrive ancora Marozza: “Solo in questo senso possiamo tenere insieme il significato più profondo del termine inconscio, come ciò che non è conosciuto, ritenerlo eternamente tale e connaturato all'esperienza umana e nello stesso tempo considerarlo assolutamente influente e talmente oggettivo da poter essere la vera fonte dell'attività psichica, manipolabile dalla soggettività cosciente solo nella direzione da esso stesso consentita.” (M.I. Marozza, op. cit.: 210-211). 62

Ibidem: 207.

GIANNI KAUFMAN

SE’/NON SE’. INTRECCI TRA BUDDISMO E PSICOANALISI

SEMINARIO CIPA. MILANO 12 OTTOBRE 2013.

1. Oggetto del mio intervento è l’incontro - che risale almeno alla metà degli anni ’90 - fra

buddhismo, psicoanalisi e psicologia analitica e le ricadute o gli ulteriori sviluppi di questo

incontro riferibili essenzialmente a due temi: 1) sul piano teorico la natura o le

caratteristiche proprie del sé, 2) sul piano pratico la qualità della consapevolezza o

dell’attenzione in psicoterapia e il ruolo che in questo ambito può riconoscersi alla pratica

meditativa. Se si accantonano, ma solo momentaneamente, i contributi propriamente

junghiani - la teoria dei complessi e la metapsicologia del Sé - l’incontro fra psicologia

dinamica e l’impresa di decostruzione del sé della tradizione buddista si prepara anzitutto

con le proposte, al tempo assai innovative, della psicoanalisi relazionale.1 Già in un lavoro

del ’93 Stephen Mitchell (un autore non espressamente interessato al buddismo) notava il

succedersi nella tradizione psicoanalitica di due metafore per la rappresentazione del sé:

una metafora di tipo spaziale - quella di Freud - “il sé come stratificato, singolo e continuo

(...) la mente come un posto in cui le cose accadono, il sé come qualcosa in quel posto,

composto di parti o strutture costitutive”. E una metafora di tipo temporale, inclusa

dapprima nella teoria delle relazioni oggettuali e sostenuta, dopo di essa, dai vari approcci

di tipo relazionale. Qui il sé coincide con esperienze differenziate secondo l’ambito e la

qualità dei rapporti, e quindi è inteso come molteplice e discontinuo. “Poiché apprendiamo

a divenire persone mediante l’interazione con differenti altri e attraverso interazioni

differenti col medesimo altro la nostra esperienza del sé è discontinua, composta di

differenti configurazioni, differenti sé con differenti altri. (...) il risultato è un’organizzazione

plurale e multiforme del sé, modellata su differenti immagini o rappresentazioni del sé e

dell’oggetto, derivate da differenti contesti relazionali.” Così “i sé cambiano e si

trasformano continuamente nel tempo, e una singola vita è composta di più sé.

Un’esperienza del sé ha luogo necessariamente in un momento del tempo; essa riempie

lo spazio psichico e un’altra versione alternativa del sé sfuma sullo sfondo”.2 Ancora: se

applichiamo la prima metafora, - il sé come entità singola e stratificata - “ha senso

approcciarlo come (...) una cipolla, tentare di situarne il ‘centro’ o il ‘cuore’, delinenarne gli

strati, differenziarne le parti autentiche da quelle false, la struttura protettiva e così via”.3

Se tuttavia “il sé si muove nel tempo piuttosto che esistere nello spazio non ha un nucleo

fisso”. La ricerca di un nucleo invariante o di un ‘vero’ sé, colto ai suoi inizi, nella sua

essenza presociale, al di sotto degli adattamenti e delle negoziazioni con altri, “implica

rimuovere il sé dal tempo, uno sforzo male indirizzato per rendere statiche le

organizzazioni mutevoli dell’esperienza del sé.” Può accadere che io mi senta più

autentico (o meno autentico, meno spontaneo o più stereotipato) in certi modi di agire o di

esprimermi, in certe occasioni o in certe situazioni: ma ciò non implica rinviare ad un

‘nucleo’, a un ‘vero’ o ‘un ‘autentico’ me. “Facciamo esperienza di noi stessi nel tempo.

1 Per una critica stringente, sul piano filosofico, dei presupposti e delle implicazioni dell’approccio relazionale

vedi il recente lavoro di J. Mills, Conundrums. A Critique of Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York 2012. 2 S. A. Mitchell, Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York 1993: 101-104.

3 Ibidem: 101.

2

Possiamo valutare una nuova esperienza in termini di continuità o discontinuità col

passato e il presente; una nuova esperienza può rappresentare ed esprimere la propria

storia e la situazione presente oppure negare e tradire la propria storia e condizione

presente o ancora riformulare la propria storia e condizione presente in un modo nuovo e

arricchente. Il senso di autenticità è sempre una costruzione, e come costruzione è

sempre relativa ad altre possibili costruzioni del sé in ogni tempo particolare.”4

Con tutto questo - chiariva Mitchell - non può negarsi anche l’esistenza di un senso o di un

vissuto di continuità nell’esperienza del sé, indipendente dai cambiamenti nel tempo, in

forza del quale mi rappresento, ad ogni istante, come un Io identico, a cui rimandano i miei

ricordi in passato e che proietto nel mio futuro. Questo sentire è anche condizione di un

senso di agency, di continuità e responsabilità nell’agire, e ancora della possibilità di

imporre un’ordine di priorità a scopi impulsi e motivazioni, il non sentirsi trascinati qua e là.

Ciò è vero anche se non è semplice, all’atto pratico, stabilire quanto vi sia in tutto questo

di soggettivo o propriamente oggettivo. “Può essere che io faccia tutto ciò che faccio, ma

può anche essere che io faccia certe cose in contesti esperienziali del tutto diversi da

quelli in cui faccio altre cose. L’Io che fa cose diverse è un Io diverso in tempi diversi”.5 E

In ogni caso questa maniera di rappresentarsi del sé come agente autonomo e separato

non pare rispondere - Mitchell cita qui Clfford Geertz - a un’istanza evolutiva di tipo

universale quanto, piuttosto, a un dato culturale:

La concezione occidentale della persona come un universo motivazionale e cognitivo

delimitato, unico, più o meno integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emozione,

giudizio e azione organizzati in un insieme distinto e contrapposto sia ad altre entità simili

sia al contesto sociale e naturale è, per quanto incorreggibile ci sembri, un’idea

abbastanza peculiare nell’insieme delle culture mondiali.6

Può a questo punto suonare discordante, dopo tanti argomenti a favore di un sé

relazionale e molteplice, che le conclusioni di Mitchell siano da ultimo caute. “Potrebbe

ritenersi” - leggiamo infine - “che il senso di continuità nell’esperienza del sé sia totalmente

illusorio. Esso però assolve, almeno nella nostra cultura, a un’importante funzione

adattiva” E d’altra parte i due modi di rappresentare il sé - come molteplice e discontinuo,

e come integro, continuo e separabile, non sono reciprocamente esclusivi. “Le persone

4 Ibidem: 130-131. Anche le nozioni di Winnicott di ‘vero‘ e ‘falso’ sé riferite al rapporto del bambino col seno,

secondo Mitchell, “sono un importante punto di partenza ma si tratta di una situazione troppo semplificata quando si considera l’esperienza adulta. Tutte le motivazioni personali hanno una lunga storia relazionale, il sé è sempre immerso in contesti relazionali, attuali o interni, perciò tutte le motivazioni importanti sono apparse e hanno preso vita e forma in presenza e attraverso le reazioni di altri significativi.” (Ibidem: 134) 5 Ibidem: 109.

6 C. Geertz, “From the Native’s Point of View: On the Nature of Anthropological Understanding” in Local

Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York 1979: 59, citato da S. Mitchell, op. cit.: 110. Vedi anche quanto scrive J. Engler, “Being Somebody and Being Nobody: A Reexamination of the Understanding of Self in Psychoanalysis and Buddhism” in J. D. Safran (a cura di), Psychoanalysis and Buddhism. Un Unfolding Dialogue, Wisdom Publications, Boston: 51: “Nelle culture da cui il Buddismo è emigrato verso occidente, preminentemente in India e Giappone, il senso del sé è molto più mescolato con gli altri in un ‘senso del noi’ che è profondamente differente dall’’Io-sé’ separato ed autonomo dell’esperienza occidentale. Il sé è esperito come incorporato in una matrice di relazioni e come definito da tali relazioni, non solo la matrice delle relazioni umane e sociali ma la matrice più comprensiva delle relazioni all’interno del mondo della natura, e da ultimo il cosmo nel suo insieme”.

3

agiscono sia in modo discontinuo che in modo continuo. (...) In ogni momento dato una

persona opera a partire da un determinato contesto relazionale (...); al contempo quella

specifica versione del sé contribuisce a dar forma a una sequenza continuativa di

esperienza che ha le sue caratteristiche distintive. (...) Pensiamo al sé come alla sequenza

dei fotogrammi di un film. In ambedue i casi l’esperienza del movimento e della continuità

è un’illusione. Ma “l’illusione” “crea un’esperienza che ha una grande ricchezza soggettiva

in proprio, producendo un’immagine più ampia e ‘in movimento’ molto diversa (e molto

maggiore) della semplice somma delle immagini singole”. Similmente nel percorso

analitico “quanto più l’analizzando può tollerare di esperire versioni molteplici di se stesso,

tanto più si vivrà come forte, duraturo e capace di resilienza. E reciprocamente quanto più

l’analizzando ritrova dei tratti di continuità nel passaggio tra le sue varie esperienze, tanto

più può reggere la diffusione di identità implicita nel far convivere molteplici versioni del

sé”.7

Resta comunque, del discorso di Mitchell - e, se si vuole, anche in virtù delle sue

conclusioni - il punto forse più innovativo. Che si privilegi l’aspetto della discontinuità e

molteplicità o invece quello della continuità, il sé viene a perdere in ogni caso qualsiasi

carattere sostanziale per riproporsi come mera rappresentazione: capace, proprio per

questo, di più versioni e modi di esperienza possibili, nessuna eguagliabile a un ‘vero sé’.

Un corollario di questa innovazione è un diverso approccio ai temi dello sviluppo. Così

l’idea di un sé preesistente alla nascita il cui realizzarsi può solamente essere facilitato o

impedito lascia spazio all’ipotesi di più percorsi possibili grazie al convergere tra

potenzialità del bambino e influsso prevalente dell’uno o l’altro caregiver.8 Inoltre - si fa

ancora osservare - già negli scritti di Winnicott, l’opposizione tra sé ‘vero’ e ‘falso’ viene

formulata anche come antitesi fra non-integrazione - la possibilità per l’infante di rilassarsi

e abbandonarsi all’esperienza del gioco alla presenza rassicurante della madre - e

necessità di reagire, in modo prevalente, a stimoli o intrusioni esterne. In quest’ultimo caso

- ma solo in questo (ad esempio quando debba far fronte ad una madre angosciata o

depressa) - il bambino isola un proprio mondo privato (il suo ‘vero sé’) fino a nasconderlo

perfino a se stesso e si concentra sulla gestione del mondo esterno.9 Un ultimo modo,

infine, di ripensare quell’opposizione è prender atto della tensione costante, nel corso

della vita di ognuno, fra spontaneità e esigenza di conservare relazioni sicure10 (perciò

tener conto del proprio impatto sugli altri) o ancora fra agentività e relazionalità11 o fra

7 S. Mitchell, op. cit.: 115-116.

8 Ibidem: 129.

9 Scriveva Winnicott : “Soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la

propria vita personale. L’alternativa patologica è una vita falsa costruita su reazioni agli stimoli esterni. Quando è solo, nel senso suddetto, e solamente quando è solo, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, e cioè è in grado di diventare non-integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un po’ senza essere né qualcosa che reagisce ad un urto dall’esterno, né una persona attiva con una direzione d’interesse o di movimento. (...) Solamente in queste condizioni il bambino può avere un’esperienza e sentirla come reale. Un gran numero di tali esperienze formano la base di una vita reale e non futile.” (D. W. Winnicott (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando, Roma 1974: 36.). In età adulta situazioni analoghe di ‘non-integrazione’ in presenza d’altri (o relazionalità non reattiva) saranno condizioni per una crescita di creatività. (Cfr. M. Masud R. Khan, “On Lying Fallow” in Hidden Selves, Hogart Press, London 1983: 183-188.) 10

S. Mitchell, op. cit.: 133. 11

J. D. Safran e J. C. Muran, op.cit.: 39.

4

efficacia e esigenze di sicurezza.12 Il contrasto non è analizzabile in termini di contenuti

(come nella vecchia teoria freudiana delle pulsioni dove l’Es è tenuto a bada da Io e

Superio) e neanche in termini di priorità precostituite (come nell’ipotesi del ‘vero’ sé), ma

nella maggiore o minore capacità di un negoziato flessibile fra le due istanze. Questa

formulazione è già compatibile con un quadro teorico che all’antitesi ‘sé’ vero o falso’

sostituisca l’assunto di “numerosi stati del sé che lottano per dominare nello stato di

coscienza in un determinato momento”.13

E appunto questo - di una pluralità originaria di stati del sé - è l’assunto che ispira, in modo

forse anche più radicale del lavoro di Mitchell, il secondo contributo importante che va qui

ricordato - gli scritti sulla dissociazione di Philip Bromberg. L’esperienza di unità e

continuità del sé, per Bromberg, è senz’altro illusoria e “è generata dalla capacità

evoluzionistica della mente di radicare la coscienza in una delle configurazioni di stati del

sé che risultano più adattive in quel momento”.14 Di fatto “l’esperienza di sé si origina da

stati del sé relativamente isolati fra loro, ognuno con una propria coerenza interna” ma

“quando (...) tutto procede bene una persona è solo vagamente e momentaneamente

consapevole dell’esistenza di stati del sé individuali e delle loro rispettive realtà: questo

perché ognuno funziona come parte di una salutare illusione di identità personale unitaria

- uno stato cognitivo ed esperienziale sovraordinato sentito come ‘me’.” In questi termini

“la dissociazione (...) è una funzione sana e adattiva della mente umana. E’ un processo di

base che consente agli stati individuali del sé di funzionare in modo ottimale (e non in

modo semplicemente difensivo) quando ciò di cui abbiamo veramente bisogno o

desideriamo è una totale immersione in una singola realtà, in un singolo affetto forte, e

una sospensione della capacità autoriflessiva.”15

L’illusione di unità e di continuità così resa possibile - da questo genere di dissociazione

non difensiva - si caratterizza per il fatto di lasciar spazio alla capacità riflessiva e quindi

alla comunicazione anche con stati momentaneamente non in primo piano nell’esperienza

del sé. Bromberg usa l’espressione “restare negli spazi” per descrivere “la relativa

capacità della persona di ospitare in un dato momento una realtà soggettiva che non può

essere facilmente contenuta dal sé che in quel momento sente come ‘me’”. Questa

capacità di comunicare, momento per momento, con esperienze del sé discrepanti è

anche condizione della comunicazione intersoggettiva, ossia della capacità che le persone

hanno - ancora una volta: se tutto procede bene - di aprirsi all’esperienza che altri fanno

di loro.

Ma a volte - anzi, piuttosto spesso - non tutto procede bene. L’immagine del sé rimandata

dall’altro (o - che è lo stesso - da altri stati del sé) “può essere sentita troppo discrepante

dall'esperienza di sé che si sta facendo in quel momento per far sì che entrambe possano

essere conservate in mente simultaneamente”. In questo caso la dissociazione si piega

alla funzione - solo difensiva - di conservare “le esperienze di sé eccessivamente

discrepanti in stati del Sé separati che non comunicano tra loro, per lo meno per un certo

12

J. Greenberg, Oedipus and beyond, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1991: 129 sgg. 13

J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 115-116. 14

P. M. Bromberg (2011), L’ombra dello tsunami, Cortina, Milano 2012: 100. 15

P. M. Bromberg (1998/2001), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano 2007: 211.

5

periodo”; e può trattarsi di un periodo breve, per affrontare una situazione momentanea di

stress, ovvero più lungo o dell’intera esistenza. L’illusione di unità e continuità del sé ha

allora come condizione proprio il persistere della struttura dissociativa:

La mente/cervello organizza i suoi stati come un sistema protettivo che tenta,

proattivamente, di zittire l'accesso esperienziale a stati del Sé discrepanti con la gamma di

stati, limitati dissociativamente, di cui si fa esperienza in un dato momento come "me".

Questo rigido sequestro di stati del Sé per mezzo di una struttura mentale dissociativa è

talmente centrale per la personalità di alcuni individui che, virtualmente, modella tutto il

funzionamento mentale, mentre per altri il suo range è più limitato. Ma, a prescindere dalla

misura o dal range, la sua funzione evoluzionistica è di assicurare la sopravvivenza della

continuità del Sé relegando il funzionamento riflessivo a un ruolo minore, o a nessun

ruolo.16

Ciò è quanto accade, tipicamente, in occasione di traumi - sia traumi gravi (abusi sessuali

o fisici) sia, soprattutto, di traumi evolutivi: in questo caso, agendo ancora una volta al

servizio della continuità del sé e perciò conformandosi ai primi modelli di attaccamento,

saranno dissociati gli stati del sé ignorati o disconfermati dai genitori. Questi stati saranno

esclusi in permanenza dalla comunicazione in quanto non mentalizzati all’origine - non

confrontati col loro modo di apparire nella mente dell’altro - pertanto tendenzialmente non

simbolizzati sul piano cognitivo e quindi non recuperabili a un’unità del sé garantita

dall’autoriflessione (il mancato operare della comunicazione intersoggettiva sarà in questo

caso non conseguenza ma proprio l’origine della frattura dissociativa). Ne seguirà un

sentimento inguaribile di inautenticità imputabile, come visto sopra, non al tradimento del

‘vero sé’, ma all’eslcusione di un qualsiasi stato o aspetto del sé dall’esperienza

interpersonale.

Il Sé vissuto come vero è sentito essere sempre quello che sta bussando alla porta - la

voce interna antagonista, udita ma non "pensata" (Bollas, 1987). Questa voce viene

sentita inevitabilmente come più vera sul piano soggettivo semplicemente perché essa

contiene una "verità" diversa ma non formulata - una visione alternativa della realtà che

viene negata al sé che sta intrattenendo rapporti con il mondo, rendendolo così limitato sul

piano relazionale e compromesso nella possibilità di sentirsi autentico. Come ha detto

Mitchell (1993), "ciò che può sembrare autentico nel contesto di una versione del sé può

essere completamente inautentico rispetto ad altre versioni".17

2. Dopo questo richiamo, indispensabile per inquadrare il discorso, ai contributi della

psicoanalisi relazionale - ci si è limitati, a fronte di una produzione ormai molto ampia, a

due autori particolarmente influenti e significativi - si può dar spazio agli interventi

propriamente ispirati alla tradizione buddista. Qui la natura illusoria o piuttosto ingannevole

dell’unità e continuità del sé non è più solo ricondotta all’onnipresenza delle dinamiche

dissociative - così efficacemente illustrate da Bromberg - o all’intreccio relazionale delle

16

P.M. Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 14-15. 17

Ibidem: 128.

6

identità. In primo piano è invece il contrasto fra la preoccupazione costante e pervasiva

che più o meno tutti ci caratterizza - ma che è alla base, secondo il Buddha, di ogni

sofferenza - di preservare, proteggere, espandere il sé, e il dato radicale della sua

impermanenza, non autonomia e non separatezza, al pari di ogni essere e di ogni cosa

esistente. E’ un fatto che se poniamo attenzione, momento dopo momento, al flusso della

coscienza a monte degli automatismi con cui di solito selezioniamo, organizziamo e

interpretiamo i dati percettivi, concettuali e affettivi non incontriamo alcuna entità duratura,

nessun soggetto o oggetto costante ma solo operazioni con cui, momento dopo momento,

a partire da quei dati elementari di continuo e sempre di nuovo strutturiamo in modo

dualistico la nostra esperienza opponendo insiemi di oggetti distinti l’uno dall’altro e dal sé.

Come osserva Jack Engler

Il costrutto-sé ... è incorporato nella caratteristica più profondamente radicata del pensiero

e della percezione umana: la tendenza a considerare ogni oggetto dell’esperienza o della

percezione come un’entità separata o una ‘cosa’ dotata della sua esistenza e identità

concreta e separata e solo in un secondo momento in relazione con altre ‘cose’. (...) Ma la

‘cosalità’ o la ‘esistenza inerente’ è in realtà un’imputazione o un’attribuzione, non una

caratteristica delle ‘cose. (...) Come scrive la studiosa buddista Anne Klein “Le cose

semplicemente sembrano odorano e si fanno gustare come più solide individuabili e

intrisecamente disponibili di quanto in realtà non siano.” (...) Questa “attribuzione non

pensata di inerenza” a sé e agli altri è la “ontologia vissuta che sottosta ad ogni altra

esperienza di seità, inclusi i moderni sé psicologici” e specialmente la rappresentazione in

parte conscia in parte inconscia del sé come entità singola, unica e separata “collocata nel

profondo di noi stessi”.18

Detto in altri termini:

Il sé dell’uomo è un’azione: è qualcosa che facciamo per unificare la nostra soggettività

nello spazio e nel tempo, separandola dal flusso dell’esperienza e creandole un confine

intorno. Qualche volta facciamo questo consapevolmente, ma la maggior parte delle volte

lo facciamo senza avere consapevolezza del sé attraverso micromovimenti nelle nostre

percezioni che creano l’impressione di essere “qui dentro”, mentre qualcos’altro è “là

fuori”.19

La riduzione o decostruzione del sé che in questo modo si avanza è dunque più radicale

della innovazioni della psicoanalisi relazionale: il sé non soltanto è plurale e molteplice,

diversamente declinato per situazioni e rapporti; non solamente è rappresentazione, ma si

dà solo come relazione, come momento subordinato di questa - non c’è alcun ‘dentro’ se

non opposto a un ‘fuori’, non c’è alcun ‘io’ se non diretto a un ‘tu’20 - coinvolto,

18

J. Engler, op. cit.: 88. 19

P. Young-Eisendrath, “Il ruolo del non-sé nella creatività” in A. Molino e R. Carnevali (a cura di), Tra sogni di Budda e risvegli di Freud. Esplorazioni in psicoanalisi e buddismo, ARPANet, Milano 2010: 91. 20

Per una sintesi della formulazione più radicale di questo approccio, dovuta a Nagarjuna, si può vedere il lavoro non più recente ma ancora di grande interesse di F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991, cap. V. Vedi anche G. Kopf, “Di fronte all’altro. L’intrico psichico in Dogen e Jung” in A. Molino (a cura di) (1998), Psicoanalisi e buddismo, Raffaello Cortina, Milano 2001: 190-191.

7

inevitabilmente, sempre di nuovo ricostruito e dissolto nel dinamismo di un continuo fluire.

La stessa idea di qualche genere di costanza o ‘esistenza inerente’ attribuibile al sé non è

originaria ma è già prodotto del ciclo del karma - della causazione21 - dove prevalgono i

due opposti moventi dell’attaccamento e dell’avversione; e a sua volta è causa di

sofferenza, come già detto, perché sempre smentita dall’impermanenza, non separatezza

e finitezza del tutto. Si tratta allora, mediante la pratica meditativa, di mirare al risveglio,

alla consapevolezza non solo cognitiva ma esperienzale22 di queste verità, e le

implicazioni propriamente psicologiche di tale pratica sono già rilevanti: perché

presuppongono un definitivo ridimensionamento del sé non più quale soggetto, ma come

oggetto di consapevolezza - l’opposizione, quindi, almeno potenziale, tra modi della

soggettività e funzioni dell’Io. Se quelli sono da porre in problema queste, proprio nella

pratica meditativa, sono il più possibile potenziate: primo, per decostruire i processi (più

che altro inconsci) di costituzione, autoaffermazione e difesa dell’identità di soggetti;

secondo per accertarne funzionalità o interferenze in vista del crescere della

consapevolezza.23

Su questo punto si è già fatto cenno agli automatismi che reggono, d’abitudine, il nostro

rapportarci ai dati di esperienza. La meditazione di consapevolezza24 ci rende consci del

loro carattere prevalentemente difensivo-reattivo; ossia della nostra propensione a

distanziarci dalle esperienze e ad attutirne e filtrarne l’impatto mediante un flusso

praticamente incessante di fantasie e di pensieri - la cosiddetta proliferazione mentale -

che ne rielaborano ovvero ne anticipano le implicazioni sotto il profilo dell’attaccamento o

dell’avversione (rimuginazioni intorno al passato, speranze e attese circa il futuro); e ne

riducono la novità e la ricchezza reinterpretandola secondo termini e coordinate già note.

L’intento, almeno a prima vista, è pararne il carattere sorprendente o frustrante ampliando

per quanto possibile il controllo dell’Io. Ma ciò cui spesso veramente si mira è

salvaguardare per quanto possibile la certezza e la continuità della rappresentazione del

sé; e ciò anche a spese, se necessario, di un confronto paziente e puntuale col dato

concreto e di un pieno incontro con le emozioni che davvero assicurerebbero, anche nelle

situazioni più complicate o frustranti, non una reazione semiautomatica ma una risposta

mirata, più pertinente e più efficace dell’Io. Scrive in proposito un autore buddista:

L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale

è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e

definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente. 21

Un’utile sintesi ancora in F. J. Varela et al., op. cit.: 110 passim. 22

Come osserva J. Engler (op. cit.: 93) una consapevolezza solo cognitiva comporta ancora il punto di vista di un sé separato. 23

Su tutto questo M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 86 sgg. e 117. 24

Si distinguono, più precisamente, pratiche di meditazione formale (attenzione al respiro, alle sensazioni del corpo, alle percezioni, ai pensieri) da svolgersi in posizione seduta oppure sdraiata o anche camminando; e pratiche di meditazione informale consistenti ad esempio, nell’apprezzare intensamente e a lungo, in tutte le sue sfumature il sapore di un cibo, la bellezza e i colori di un giardino, i dettagli di un percorso abituale, i singoli momenti e le sensazioni di qualsiasi attività come farsi la doccia o lavare i piatti. Soprattutto le pratiche formali, come quella descritta sopra relativa al respiro, intendono non tanto far crescere direttamente l’accettazione quanto renderci attenti al nostro resistere all’accettazione, al nostro continuo ‘sganciarci’ dall’adesione al presente. Su questo vedi C. Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994 : 157-158. Vedi anche più in generale Thich Nhat Hanh (1987), Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma 1992.

8

... Invece che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo

di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per

aver luogo ben di rado. ... Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza

ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che

essa ci appaia così come ce la raccontiamo. E dunque l’indugiare frequentemente in

pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare

‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto,

all’ignoto.. E così pure quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli

avremmo voluto dire, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura

e simili. ... Noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia ... noi vogliamo

parlare nella rabbia, pensare e immaginare nella rabbia anche se tutto ciò che diciamo è

prevedibile, anzi è importante proprio perché è prevedibile, noto, abituale. In questa

maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia ... ne rimaniamo separati da quella

barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.25

La libertà da che viene perseguita - su un piano, peraltro, solo immaginativo-ideativo -

come difesa ad oltranza di una rappresentazione costante e rassicurante del sé, mediante

gli automatismi della proliferazione mentale, è a spese, assai spesso, della libertà di - di

un esercizio competente e efficace delle funzioni dell’Io.26 Grazie alla pratica meditativa

possiamo apprendere tuttavia ad osservare i nostri pensieri e le nostre reazioni

automatiche, ma senza agirli e identificarci con essi. Così facendo sarà possibile,

progressivamente, evitare l’irrigidirsi e il consolidarsi (sempre a livello immaginativo-

ideativo) degli aggregati percettivo-affettivi del sé e degli oggetti, mentre al contempo

accoglieremo e lasceremo operare le nostre emozioni, ci apriremo all’emergere di spunti

diversi, amplieremo lo spazio di ideazione e di azione. L’unità o continuità del sé così

realizzabile, come osserva Mark Epstein, sarà assimilabile sempre meno a un’entità fissa

e sempre più a “un flusso di consapevolezza ... sempre in evoluzione ... un processo mai

del tutto concluso di autoscoperta e autocreazione” e l’io dovrà subordinare, per quanto

possibile, a questa fluidità processuale ogni pretesa alla stabilità.

L"Io' è il veicolo individuale per attuare questi incontri, ma anch'esso non ha un'identità

intrinseca. Un lo sano inizia, si avvicina, stabilisce un contatto e si dissolve, per poi iniziare

il ciclo di nuovo. Un lo disturbato frappone ostacoli e interferisce con il contatto sano,

perpetuando la propria realtà a spese dell'interazione. (...) L'Io che è di ostacolo non

giunge mai alla trasparenza; il risultato sarà una persona contratta per la propria

sensazione di inadeguatezza. Un senso positivo del sé emerge solo quando l'Io permette

a se stesso di dissolversi.27

Di fatto facciamo già tutti quotidianamente esperienza - chi più chi meno - di questo

genere di fluidità o consapevolezza adualistica o priva di sé (più precisamente:

consapevolezza senza coscienza riflessiva del sé). Guidiamo l’automobile o qualche altro

25

C. Pensa, L’intelligenza spirituale, Ubaldini, Roma 2002: 30-32. 26

Spesso ma, ovviamente non sempre: gli automatismi della mente includono infatti primariamente, le attività di categorizzazione e astrazione che sono indispensabili all’apprendimento, alla previsione e alla sopravvivenza adattiva. 27

M. Epstein (2001), La continuità d’essere, Ubaldini, Roma 2002: 28-29.

9

veicolo adattando l’andatura alla situazione ed evitando possibili ostacoli senza necessità

di riflettere; ‘ci perdiamo’ nella contemplazione di uno spettacolo naturale, di una persona,

di un’opera d’arte o nel rapporto sessuale. Se sappiamo suonare uno strumento

muoviamo spontaneamente le mani nel modo giusto; similmente se siamo veramente

esperti in un arte marziale rispondiamo senza riflettere ma in modo del tutto adeguato alla

mossa dell’avversario.28 In tutti questi casi non siamo consci di noi stessi ma siamo

consapevoli, sintonizzati alla realtà del momento. Pensieri, sentimenti azioni avvengono

ma non sono esperiti come originantisi in o da “me”. Avvengono semplicemente in risposta

alle esigenze del momento per conto loro, senza forza o intenzione cosciente.29

Ancora Epstein insiste a lungo sull’affinità fra questo genere di disponibilità e fluidità

esperienziale - resa possibile da un alto grado di flessibilità o ‘trasparenza’ dell’Io - ed il

recupero, in età adulta, di uno stato di inintegrazione affine alla continuità d’essere

dell’infante (di cui parla Winnicottt) che può abbandonarsi all’esperienza del gioco potendo

contare sull’attendibilità della madre. Si è già detto sopra che questo stato di non-

integrazione - che riesce possibile, in età adulta, solo come resa30 o piena adesione al

presente31 - è quanto di più simile possa pensarsi, in un’ottica relazionale, a un’esperienza

del ‘vero’ sé. Anche per una psicoanalisi del non-sé ispirata al buddismo non c’è

ovviamente alcun vero sé se non nel “processo mai del tutto concluso di autoscoperta e di

autocreazione” (di cui parla Epstein) reso possibile da questa adesione. O se si vuole -

come appena visto - il ‘vero sé’ è il venir meno dell’autocoscienza messa a guardia

dell’autocentramento del sé”32; o ancora, in termini kohutiani, “per il non-sé tutte le

esperienze sono esperienze mature di oggetti-sé.33

Che dire, infine, in una prospettiva junghiana? Il netto rifiuto degli autori buddisti di

riconoscere al sé qualunque genere di consistenza ‘ontologica’34, e l’insistenza nel non

vedervi di più che una rappresentazione (per giunta, in linea di massima fuorviante e

ingannevole) suona, a ragion veduta, in aperto contrasto con la nozione junghiana del Sé

quale ‘centro’ della totalità psichica e ancor di più, in quanto meta del processo di

invididuazione, quale portatore di un senso. Ma a fronte di ciò, e anche tralasciando le

affinità, rilevate da Jung,35 tra la propria psicologia e il cammino buddista, occorrerebbe

28

G. Kopf, op. cit.: 193. 29

J. Engler, op. cit: 60.61. 30

Sul tema della resa vedi l’ottimo studio di E. Ghent, “Masochism, Submission, Surrender: Masochism as a Perversion of Surrender” in S. A. Mitchell. L. Aron (a cura di) Relational Psychoanalysis. The Emergence of a Tradition, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 211-242. 31

L’insistenza sull’attenzione esclusiva al presente, implicita in questa concezione, è ben illustrata dal famoso koan Zen: “In questo preciso momento, non pensando né al bene né al male, mostrami il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori”. “Essendo andati oltre il dualismo, oltre ‘il pensare il bene ed il male’ c’è un vero sé essenziale? Budda ha insegnato che il sé è ‘vuoto’, che non ha assolutamente natura fissa o essenziale. Tutto quello che c’è è ciò che le stesse parole di apertura del koan ci dicono: essere proprio questo momento è il nostro vero sé. Il nostro volto originario non può essere altro che il volto di questo momento”. (B. Magid, “Your Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 265-266) 32

P. A. Ringstrom, “Psychoanalysis and Buddhism: Two Extraordinary Paths to An Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 288. Così, prendendo le distanze da Winnicott, anche M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 68-69. 33

B. Magid, op. cit.: 271. 34

Vedi in proposito di nuovo J. Engler, op. cit.: 52. 35

C.G. Jung (1939), “Prefazione a D.T. Suzuki, ‘La grande liberazione. Introduzione al buddismo zen’” in Opere, XII, Boringhieri, Torino 1979: 549-567.

10

ancora considerare tre aspetti. 1) Col segnalare la finalità difensiva (della continuità e della

sicurezza del sé) del pensare per segni - cioè del ridurre il vissuto al concetto, il nuovo, il

particolare e l’affettivamente pregnante all’astratto e al già noto) il pensiero buddista

mostra di privilegiare un’attenzione al concreto, al differente, al non riducibile che è

rispetto profondo (come ancora vedremo) di ogni alterità ma è anche del tutto affine, nel

contesto junghiano, all’esperienza simbolica - al modo proprio di manifestarsi dell’alterità

dell’inconscio. 2) L’idea di un sé solo processuale che non conosce un’identità

precostituita ma che si esplica e con ciò stesso si scopre, momento dopo momento, solo

nella pratica dell’accettazione, cioè nella piena adesione al presente, è molto simile

all’idea junghiana di individuazione come ricerca/accettazione del corpo, della propria

forma, e del proprio limite. 3) Infine Jung mette in relazione la sua nozione del sé con

l’idea buddhista di una ‘coscienza della coscienza’:

La possibilità che esistano vari stadi nello sviluppo della coscienza non ci viene nemmeno

in mente; il solo pensiero che esista una forte differenza psicologica fra la coscienza

dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto assomiglia

molto da vicino a un cavillo che appena merita risposta. (...) Furono lo yoga in India e il

buddhismo in Cina a dare l’avvio a questi tentativi di strapparsi alla cattività di un dato

stato di coscienza, sentito come imperfetto. Per quanto riguarda la mistica occidentale i

suoi testi sono pieni di istruzioni sul modo in cui l’uomo possa e debba liberarsi dell’essere

Io della sua coscienza, onde elevarsi, per mezzo della conoscenza della sua natura, al di

sopra di questa e raggiungere l’uomo interiore (divino). (...) Questo nuovo stato di

coscienza derivato dalla pratica religiosa si distingue per il fatto che le cose esteriori non

influiscono più su una coscienza fatta di Io ... ma che una coscienza vuota è aperta a

un’influenza diversa. Questa influenza “diversa” non è più sentita come attività propria, ma

come quella di un non-Io il cui oggetto è la coscienza. E’ come se il carattere soggettivo

dell’Io fosse stato sopraffatto o assunto da un altro soggetto che si fosse messo al posto

dell’Io.36

L’obiezione buddhista a a queste note di Jung sarebbe che una ‘coscienza della

coscienza’ che la ponesse a oggetto di un altro soggetto sarebbe appunto coscienza di un

oggetto (di quella stessa coscienza oggettivata) non della coscienza colta nel suo operare

come “carattere soggettivo dell’io” o soggettività conoscente; allo stesso modo in cui

l’occhio può vedere se stesso come oggetto riflesso in uno specchio ma non nell’atto del

suo vedere. Ne segue che se si vuole pensare il Sé come ‘coscienza della coscienza’37

non si può porlo come ‘altro soggetto’ cui si oppone un oggetto. Come chiarisce assai

bene Engler

non posso osservare direttamente il mio sé osservante. Se lo faccio ... muto soltanto l’atto

della consapevolezza in un altro oggetto di consapevolezza in una regressione all’infinito.

... (...) Il sé che io rappresento, il “sé” che io posso conoscere o afferrare non è mai “me”.

L’occhio che vede, dice lo Zen, non può vedere sé stesso. E infine è chiaro: non possiamo

staccare il nostro “sé” dalla consapevolezza perché siamo quella consapevolezza.

36

Ibidem: 555-556. 37

Ibidem: 553.

11

In questo senso la consapevolezza non è semplicemente una funzione dell’Io. (...) La

consapevolezza in quanto tale non può mai essere oggettivata, colta come un oggetto,

identificata coi contenuti della coscienza, rappresentata come “questo o “quello”. E’ di

natura fondamentalmente diversa: senza qualità, senza limiti, senza confini: (...) In

essenza Io non sono nulla che possa essere nominato o pensato, rappresentato o negato,

trovato o perso. “Chi sei” dice Sri Nisargatta Maharaj, “è indefinibile e indescrivibile. La

consapevolezza soggettiva è ciò che rende possibile l’esperienza, ma non è essa stessa

esperienza. (...) la piena realizzazione di ciò è la consapevolezza non dualistica come

proprio stato naturale. L’identificazione con ogni rappresentazione o attività di un sé

separato diviene impossibile”.38

E’ però interessante che altrove lo stesso Jung si avvicini molto a questa prospettiva:

Proprio come l’Io è una certa esperienza di me stesso, così il Sé è un’esperienza del mio

Io, vissuta però non più nella forma di un Io più vasto e più alto, ma in forma di un non-

Io.39

E ancora, più diffusamente:

Poiché il numero di possibilità è limitato si raggiunge ben presto una frontiera, o piuttosto

frontiere che arretrano una dopo l’altra presumibilmente fino al momento della morte.

L’esperienza di queste frontiere conduce gradualmente alla convinzione che quanto viene

esperito è un’interminabile approssimazione. Lo scopo di questa approssimazione sembra

essere anticipato da simboli archetipici che rappresentano qualcosa come la

circumabulazione di un centro. Al crescere dell’approssimazione al centro c’è un

corrispondente depotenziamento dell’Io a favore dell’influenza del centro “vuoto” che certo

non coincide con l’archetipo ma è ciò cui l’archetipo mira. Come direbbero i Cinesi,

l’archetipo è soltanto il nome del Tao, non il Tao in sé. Così come i Gesuiti traducevano

Tao come “Dio” così noi possiamo descrivere la “vuotezza” del centro come “Dio”.

Vuotezza in questo senso non significa “assenza” o “vacanza” ma qualcosa di

inconoscibile dotato della più elevata intensità. Se io chiamo questo inconoscibile “Sé”

tutto ciò che è accaduto è che gli effetti dell’inconoscibile hanno ricevuto un nome

aggregato, ma i suoi contenuti non ne sono affetti in alcun modo. Una parte

indeterminabilmente ampia del mio stesso essere è inclusa in esso, ma poiché questa

parte è l’inconscio non posso indicare i suoi limiti e la sua estensione. Il sé è pertanto una

concetto liminare, in alcun modo riempito coi processi psichici noti.40

3. Al terzo punto di questa esposizione sono le implicazioni di un pensiero analitico

ispirato al buddhismo per l’ascolto e la pratica psicoterapeutica. Anche in quest’ambito è

indiscutibile un nesso di continuità fra autori buddhisti e psicoanalisi relazionale (a sua

38

J. Engler, op. cit.: 66. 39

C. G. Jung, op. cit.: 553. 40

C. G. Jung, Letters, Routledge, London 1975, II: 258, traduzione mia.

12

volta vicina, per una serie di aspetti, alle posizioni originali di Jung41

). Sé del paziente e sé

del terapeuta sono intesi ambedue come relazionali e molteplici e ’normalmente o

patologicamente dissociativi’42 (nel senso già visto di Mitchell e Bromberg), e come tali si

esprimono e operano anche all’interno della relazione analitica. Il terapeuta, in particolare,

non si può ergere a ‘osservatore oggettivo’ - colui che ‘sa’ i contenuti dell’inconscio - né

l’attitudine del paziente verso di lui si può spiegare, in modo esauriente, come distorsione

dovuta al transfert. L’incontro analitico vive invece del gioco sempre irripetibile

dell’interazione fra quel paziente e quell’analista e della loro influenza reciproca (deve

restare, perciò, una questione aperta in qual misura questa interazione segua modelli

caratteristici di altre relazioni della vita del paziente); e il compito del terapeuta - che può

definirsi di osservatore partecipante - è 1) monitorare al meglio i propri sentimenti, le

proprie reazioni, anche le proprie sensazioni fisiche, 2) guidare, a partire di qui

un’osservazione congiunta di quanto accade volta per volta nel qui ed ora della relazione

per trarne ipotesi sui processi psichici del paziente. Da ripensare è anche il vecchio

concetto di ‘resistenza’, che non può più soltanto indicare una generica difficoltà del

paziente a divenir consapevole di certi sentimenti o emozioni ma deve includere anche il

contributo eventuale del terapeuta: ossia “esplorare che cosa il paziente teme che accada

se tali emozioni vengono espresse nel qui ed ora della relazione terapeutica”.43

La differenza essenziale tra questo approccio e quello della psicoanalisi tradizionale suole

riassumersi nel venir meno di ogni finzione o di ogni pretesa di ‘oggettività’ per il terapeuta

“relazionale. Ma ‘oggettività’ (o meglio: assenza di oggettività) si può ancora intendere in

una doppia accezione. Come mancanza di referenti o evidenze per il lavoro analitico il cui

significato sia indiscutibile, in quanto univoco e palese per tutti: non-oggettività, allora, col

significato di relatività, o impossibilità, intesa dal vertice dell’analista, di non trasferire

nell’interpretazione il carico della sua psicologia personale. O ancora, declinata invece dal

vertice del paziente, come portato dalla natura interpersonale del lavoro analitico che

come tale vuol rivolgersi all’altro nella sua differenza e nella sua unicità; nel suo sottrarsi,

pertanto, sempre e di continuo all’oggettivazione, a qualsiasi genere di omologazione

teorica e ad ogni riduzione a categorie ed a concetti con la conseguenza di destabilizzare

lo stesso analista: frustrandone le velleità di conoscenza e controllo, anche i bisogni di

distanziamento fra sé e il paziente, ed attraendolo a sua volta a coinvolgersi nella totalità e

quindi anche nell’assoluta specificità della propria persona.44 Lewis Aron, sulla scorta di

Winnicott e Jessica Benjamin,45 descrive proprio in questi termini l’andamento alternante -

fra oggettivazione e intersoggettività - della relazione analitica:

41

Sul punto vedi, da ultimo W. Colman, “Bringing it all back home: how I became a relational analyst”, The Journal of Analytical Psychology, 58, 4, Sept. 2013: 470-49. 42

Bromberg precisa, a questo proposito che il trauma evolutivo (o trauma relazionale) come egli lo intende “fa parte del processo di modellamento dei precoci pattern di attaccamento (incluso l'’attaccamento sicuro’), che a sua volta determina quelli che Bowlby (1969,1973,1980) chiama ‘modelli operativi interni’. (...) Vale a dire che il trauma connesso all'attaccamento è parte dell'esperienza passata di tutti e un fattore centrale in ogni trattamento; per alcuni pazienti però ha portato a una struttura mentale dissociativa che si è impossessata del funzionamento della personalità e della vita mentale, imponendo quindi la "Verità" su presente e futuro.” (P. M Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 71 e 103-104. 43

J.D. Safran. J. C. Muran, op. cit. : 100. 44

I riferimenti filosofici d’obbligo sono qui M. Buber (1984), “Io e tu” in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997 e E. Lévinas (1971), Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977. 45

Aron rimanda, in particolare, a D. W. Winnicott, “L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” in Gioco e realtà, Armando Armando, Roma 1974 e all’interpretazione di questo lavoro (come superamento dell’oggettivazione e come scoperta della soggettività della madre/altro) proposta da J.

13

Suggerisco che la relazione intersoggettiva sia continuamente interrotta tra le persone -

anche tra paziente e analista - scambiandola per una relazione soggetto-oggetto, e che

poi la relazione intersoggettiva sia ristabilita. Credo che l’intimità non coincida con

l’intersoggettività ma che, piuttosto, trascenda questa relazione dialettica. L’intimità implica

la sopravvivenza e il sostentamento di questa relazione tramite la continua creazione e

distruzione dell’intersoggettività.46

L’alternativa - o, più radicalmente, l’antidoto - al ‘pregiudizio’ dell’analista, in questa

prospettiva non è soltanto una comprensione più completa e migliore, resa possibile -

come propongono ad esempio Safran e Muran47 - in una sorta di dialogo ermeneutico; è

un coinvolgimento con la persona o l’esser soggetto dell’altro che ci mantiene in tensione

verso di lui, incessantemente in ascolto perché ci sollecita di continuo all’interpretazione

ma ci fa vivere via via come impropria e virtualmente insoddisfacente ogni comprensione o

qualsiasi giudizio. Questa visione - che riprende, incidentalmente, quasi alla lettera le

prescrizioni di Bion sulla capacità negativa e sulla necessità di astenersi (per l’analista) da

attività mentale, desiderio e memoria48 - è in sintonia con la dottrina buddhista, riferita

sopra, sui rischi della proliferazione mentale e sulle finalità difensive - per la stabilità della

rappresentazione del sé - della omologazione al già noto, a scapito delle capacità

percettive e dell’efficacia dell’Io. Qui infatti non si tratta già più - lo si è visto sopra -

soltanto di includere la soggettività conoscente (nel nostro caso quella dell’analista), come

nel primo approccio relazionale; quanto, piuttosto, di rendersene consapevoli e di

trascenderla, per quanto possibile, come momento a sua volta relativo nella dualità

continuamente ricreata di soggetto ed oggetto del processo di conoscenza, dunque da

subordinare alla qualità e all’efficacia di questo. L’esito un po’ paradossale, e

però),innegabile, come ancora vedremo è alla fine il recupero, nella prima accezione del

termine, non di una pretesa ma di una tensione all’oggettività.

Per la psicoanalisi (e la psicologia analitica) ispirate al buddhismo ciò si è tradotto, molto

concretamente, non nel semplice invito a una disciplina mentale - come già in Bion - ma

nell’acquisizione al lavoro analitico e soprattutto al training quotidiano dell’analista di

pratiche tratte dalla meditazione di consapevolezza. A tali pratiche - a questo punto anche

dissociabili e dissociate, di fatto da un credo buddhista - o, meglio ancora al tipo e alla

qualità di attenzione che con esse si mira a far crescere e sostenere va il nome generale

Benjamin, “Recognition and Destruction: An Outline of Intersubjectivity” in S. A. Mitchell, L. Aron (a cura di), Relational Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 183-210, traduzione italiana parziale in J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello Cortina, Milano 1996. 46

L. Aron, A meeting of minds, The Analytic Press , Hillsdale and London 1996: 152 (traduzione mia); citato da J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 68. 47

J. D. Safran, J. C. Muran, op. cit. : 44-45. 48

Vedi soprattutto W. R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Armando, Roma 1973 e W. R. Bion (1965) Trasformazioni, Armando Armando, Roma 1973. Ma sono anche da ricordare i contributi di Marion Milner e Karen Horney: M. Milner, “The concentration of the body” in The suppressed madnes of sane men, Tavistock Publications, London & New York 1987: 234-240 e K. Horney, Final Lectures, ed. by D. Ingram, Norton, New York 1987: 19.21 citato da M. E. Miller, “Zen and Psychotherapy” in P. Young Eisendrath and S. Muramoto (a cura di), Awakening and Insight. Zen Buddhism and Psychotherapy, Brunner-Routledge, New York 2002: 85.

14

di Mindfulness (variamente tradotto con ‘presenza mentale’, ‘consapevolezza’ o anche

‘pienezza della consapevolezza mentale’). Tale attenzione è stata definita:

Focalizzata, cioè orientata in modo esclusivo verso un determinato oggetto ... (il proprio

respiro, un’amica con la quale stiamo parlando ... una sensazione corporea). E’ importante

che, quando ci si rende conto che l’oggetto stabilito non è più al centro del focus attentivo,

si compia ... una intenzionale rifocalizzazione dell’attenzione verso quell’oggetto dal quale

ci si è allontanati.

Rivolta al momento presente, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto ci si riesce)

verso l’esperienza che si sta vivendo qui ed ora: ogni volta che si diviene consapevoli che

la mente ci ha trasportato ... nel passato o nel futuro ... è importante che si attivi ... un

riposizionamento dell’attenzione sul momento presente.

Non categorizzante, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto si riesce, all’esperienza

in cui ci si trova, senza usare le categorie, le classificazioni, e i giudizi abituali per

comprenderla: ogni volta che si diventa consapevoli che la mente sta operando una

sistematizzazione di quello che sta accadendo in base a schemi pregressi, e importante

che si metta in atto ... un riorientamento dell’attenzione sulla qualità di novità

dell’esperienza, che di fatto possiede.49

Trasferita nel contesto analitico (sempre gli autori di ispirazione buddhista50 insistono

molto sulla sua affinità con la attenzione ugualmente sospesa prescritta da Freud51)

l’attenzione mindful ha di mira anzitutto le autodifese dell’analista - messe in atto,

comunemente, col ritirarsi dalla relazione, con l’assimilarla a situazioni trascorse o

proiettandola nel futuro, col neutralizzarne l’impatto emotivo mediante astrazioni - ogni

qualvolta la relazione stessa sia troppo frustrante, dolorosa o allarmante o comunque

coinvolga aree di forte vulnerabilità, facendo prevalere su un’attitudine recettiva una

risposta reattiva. Può però trasmettersi - per ragioni del tutto analoghe - dall’analista al

paziente (Wallin definisce la psicoterapia, sotto questo profilo, come una specie di

meditazione a due52) in modo tacito o per inviti espliciti: ad esempio col chiedere

ripetutamente al paziente di soffermarsi su ciò che sente in un determinato momento, di

provarsi a descriverlo nei dettagli e anche indicare dove lo sente (in quale area del corpo).

Lo sfondo che potremmo chiamare ‘umanistico’ (in effetti ancora vicino al buddhismo) di

questa pratica dell’attenzione è l‘accettazione non giudicante (la meditazione di

consapevolezza ha qui la funzione di renderci consci, momento dopo momento, dei giudizi

e delle risposte di rifiuto che rivolgiamo innanzitutto a noi stessi); e la compassione per

noi medesimi “che emerge quando diventiamo capaci di aprirci [anche] alle esperienze

dolorose”.53 In particolare: col trattare noi stessi gentilmente e senza giudicarci con

severità; riconoscendo che errori, fallimenti e avversità fanno parte della comune

49

G. Amadei, Mindfulness. Essere consapevoli, Il Mulino, Bologna 2013. 50

In particolare M. D. Epstein, “Sulla negazione dell’attenzione ugualmente sospesa”, in A. Molino, R. Carnevali (a cura di), op. cit.: 160-175) e M. Epstein (2007), Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio, Roma 2008: 95. 51

S. Freud (1912) “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, Opere, VI, Bollati Boringhieri, Torino1989,: 532-533. 52

D. J Wallin (2007) Psicoterapia e teoria dell’attaccamento, Il Mulino, Bologna 2009: 264. Questo testo, ai capitoli IX e XVII contiene una sintesi eccellente dell’approccio mindfulness in psicoterapia. 53

Ibidem: 283.

15

esperienza umana; mantenendo un’equilibrata consapevolezza di pensieri e sentimenti

spiacevoli, invece di evitarli, cancellarli o identificarsi eccessivamente con essi.54 Sempre

per Wallin una tale apertura tenderà ad autoconsolidarsi in quanto la consapevolezza

anche dei sentimenti dolorosi ne farà comprendere sempre di più la qualità transitoria

rendendoli, con ciò stesso, assai meno temibili; legando, di conseguenza, sempre di più

alla consapevolezza, più che a figure protettive interiorizzate o a determinati stati mentali il

nostro senso di sicurezza; ed evitando il sovrappiù di sofferenza sempre legato allo sforzo

di evitare il dolore.55

In termini più formali l’attenzione mindful mirerà a sospendere per quanto possibile gli

automatismi categorizzanti o ‘dall’alto in basso’ (dei quali a lungo si è detto sopra)

finalizzati alla previsione e alla sopravvivenza adattiva per dare spazio alla modalità

senso-percettiva (‘dal basso verso l’alto’) vuoi verso l’esterno (nel setting analitico:

l’espressione facciale, il tono di voce, le sfumature emotive, la postura corporea del

paziente) vuoi verso l’interno (pensieri, sentimenti, emozioni, anche stati fisici dell’analista

- osservati, però, e anche utilizzati, ma in modo equanime e ad una certa distanza, alla

stregua di eventi o stati transitori e dunque senza identificarsi con essi56). Questa

attenzione accrescerà l’efficacia (ai fini del cambiamento) del dialogo terapeutico con

l’ancorarlo più saldamente all’esperienza vissuta, ossia al qui ed ora più che alla semplice

riflessione o ricostruzione retrospettiva e al vissuto emozionale-corporeo oltre che alla

comprensione concettuale. Notano in proposito Safran e Muran:

Diversamente da quanto accade per un pensiero più concettuale, che può essere staccato

dall'azione, la conoscenza a livello corporeo ha sempre implicazioni per il passo

successivo all'attuale. Quando un individuo ha una nuova sensazione, dà a se stesso

un'irrefutabile informazione su quanto l'intera configurazione relazionale significhi

realmente per lui come organismo intero, e tale significato ha risvolti impliciti per l'azione.

(...) L'insight emozionale, o consapevolezza, comporta così la rivalutazione di un evento o

di un'esperienza in un modo che conduce al «che cosa vuoi dire per me ora». (...) Ciò

riflette il fatto che l'individuo conosce qualcosa in maniera differente, come un organismo

concreto, in interazione con l'ambiente circostante.57

54

K. D. Neff, “Self-compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself” in Self and Identity, 2: 85-101, 2003 citato da R. a. Baer, “la compassione di sé” in R. A. Baer (2010) a cura di, Come funziona la mindfulness, Raffaello Cortina, Milano 2012: 130. 55

D. J. Wallin, op. cit.: 263. 56

Su questo punto, veramente essenziale, vedi quanto scrive D.J. Siegel (2007), Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009: 25-26: “Da questo modo di essere riflessivo, mindful, emerge un processo fondamentale chiamato ‘discernimento’, in cui diventa possibile essere consapevoli del fatto che le attività della propria mente non sono la totalità di ciò che si è. Il discernimento è una forma di disidentificazione dall’attività della propria mente: quando diventi consapevole delle sensazioni, dei sentimenti e dei pensieri ... arrivi a vedere queste attività come delle onde che si muovono sulla superficie del mare della mente. Da questo luogo più profondo della mente, da questo spazio interno della consapevolezza mindful, è possibile notare come le onde superficiali del cervello vadano e vengano. Questa capacità di liberarsi dal chiacchiericcio della mente, di capire che queste sono “solo attività della mente”, è un’esperienza liberatoria e per molti perfino rivoluzionaria”. Vedi anche, dello stesso autore, The Mindful Therapist, Norton, New York & London 2010. 57

J.D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 63.

16

In questa linea, per richiamare un esempio recente, può rilevarsi un alto grado di

congruenza fra attitudine mindful e i contributi di Daniel Stern e del Boston Change

Process Study Group sul cambiamento in psicoterapia e la conoscenza relazionale

implicita. Si tratta di cogliere e valorizzare anche in questo caso il momento presente - i

cosiddetti now moments - con la totale disponibilità da parte dell’analista a mettersi in

gioco personalmente nella situazione, esponendosi senza difese ai suoi elementi di novità

e al suo impatto emotivo e offrendo così una risposta che attesti, per ambe le parti, la

saldatura di di un nuovo piano di sintonizzazione emotiva.

I momenti più interessanti sorgono quando il paziente fa qualcosa che è difficile

catalogare, qualche cosa che richiede una reazione nuova e diversa, contraddistinta da

una firma personale che fa condividere al paziente lo stato soggettivo dell’analista (affetti,

fantasie, esperienze reali ecc.). (...) Il terapeuta deve usare un aspetto specifico della

propria individualità, un aspetto che porta una connotazione personale. I due soggetti si

incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai

loro rispettivi e ordinari ruoli in terapia. Inoltre le azioni che costituiscono il “momento di

incontro” non possono essere consuete, abituali o tecniche; devono essere nuove e

forgiate per soddisfare le particolarità del momento.58

Vi sono da ultimo, per concludere, linee assai rilevanti di convergenza del pensiero

mindful con l’impostazione junghiana. Già l’insistenza sul non sottrarsi al confronto con

temi dolorosi o allarmanti e soffermarsi, al contrario, in un contatto approfondito con essi

risuona affine alla basilare prescrizione di Jung sull’importanza di ‘stare nel conflitto’

perché si produca un cambiamento spontaneo e più autentico - la cosiddetta funzione

trascendente (ciò sia nel conflitto esclusivamente interiore, sia nel confronto

intersoggettivo). In aggiunta a questo ritengo assai significative alcune considerazioni

recenti (penso, in particolare, all’ultimo libro di Maria Ilena Marozza59) sulla questione - a

cui si è qui solamente accennato - della tensione all’oggettività nell’ascolto analitico. In

sintesi, ritiene Marozza, si può pensare ad una base di oggettività in psicoanalisi a

condizione di fare spazio (esattamente come propone l’approccio mindful) alla dimensione

sensoriale-affettiva, che in ogni caso accompagna sempre la comunicazione verbale, la

completa, la qualifica e la precisa radicandola nello spessore psico-corporeo; ma si

differenzia, contestualmente, da essa perché non confluisce nell’astrattezza dei segni e

quindi non si offre, al pari di questi, all’immediatezza della comprensione linguistica. Essa

piuttosto trattiene nel concreto, contagia e provoca alla ricerca di una comprensione che

non può contare su di un sapere generalizzabile (ma quindi non può nemmeno venir

tradita o fraintesa in forza di preferenze teoriche o categoriali) ma obbliga - proprio come il

simbolo60 - a soffermarsi nell’esperienza e a esporsi a lungo al coinvolgimento e alla

58

Cfr. The Boston Change Study Group (2010), Il cambiamento in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano 2012: 15-16. 59

M.I. Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo 2012. Ma vedi anche M.La Forgia e M. I. Marozza, Le radici del comprendere, Fioriti, Roma 2005 e M. La Forgia e M. I. Marozza (a cura di), La conoscenza sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo 2008. 60

Sull’affinità fra impegno in chiave di ‘capacità negativa’ e esperienza simbolica ho scritto in G. Kaufman, “Il silenzio del padre nella relazione analitica. Bion, Jung e una rilettura del simbolico” in Il Padre. Parola Silenzio Trasformazione”, Atti dell’XI Convegno Nazionale del Centro Italiano di Psicologia analitica,

17

condivisione: e appunto qui, in questo tratto non riducibile di autoreferenzialità o

intransitività è quanto rende “la realtà dell’affetto ... la manifestazione fenomenica e del

tutto oggettiva, di una supponibile realtà dell’inconscio: poiché, come scrive Matte Blanco,

nulla ci conduce ad una chiara distinzione psicologica fra l’emozione e l’inconscio”.61 In

particolare, nello specifico della costruzione junghiana il nesso mai del tutto scindibile fra

strato sensoriale-affettivo e dimensione rappresentativa-ideativa, su fino al piano verbale-

razionale si salda nell’unità dei complessi e nel loro operare a differenti livelli di coscienza

cui corrispondono modalità qualitativamente diverse (ma tali da confrontarsi e completarsi

l’una con l’altra) di registrazione delle esperienze. Ne segue “la possibilità ... di insediare

l’ordine linguistico e la capacità di significare nell’ordine dell’esperienza soggettiva vitale e

diretta”.62 E in primo luogo di riscontrare le rappresentazioni logico-razionali ma in potenza

del tutto astratte del complesso dell’io (inclusa la distinzione che solo qui si rappresenta

compiutamente fra il sé ed il mondo) con quanto si esprime dai complessi secondari in

modo più indistinto ma impegnativo e pregnante dell’esistenza emozionale e sensoriale di

base.

Vivarium 2002. Sul coincidere fra esperienza simbolica e incontro con la “cosa in sé” vedi M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986: 80-83. 61

Scrive ancora Marozza: “Solo in questo senso possiamo tenere insieme il significato più profondo del termine inconscio, come ciò che non è conosciuto, ritenerlo eternamente tale e connaturato all'esperienza umana e nello stesso tempo considerarlo assolutamente influente e talmente oggettivo da poter essere la vera fonte dell'attività psichica, manipolabile dalla soggettività cosciente solo nella direzione da esso stesso consentita.” (M.I. Marozza, op. cit.: 210-211). 62

Ibidem: 207.

GIANNI KAUFMAN

SE’/NON SE’. INTRECCI TRA BUDDISMO E PSICOANALISI

SEMINARIO CIPA. MILANO 12 OTTOBRE 2013.

1. Oggetto del mio intervento è l’incontro - che risale almeno alla metà degli anni ’90 - fra

buddhismo, psicoanalisi e psicologia analitica e le ricadute o gli ulteriori sviluppi di questo

incontro riferibili essenzialmente a due temi: 1) sul piano teorico la natura o le

caratteristiche proprie del sé, 2) sul piano pratico la qualità della consapevolezza o

dell’attenzione in psicoterapia e il ruolo che in questo ambito può riconoscersi alla pratica

meditativa. Se si accantonano, ma solo momentaneamente, i contributi propriamente

junghiani - la teoria dei complessi e la metapsicologia del Sé - l’incontro fra psicologia

dinamica e l’impresa di decostruzione del sé della tradizione buddista si prepara anzitutto

con le proposte, al tempo assai innovative, della psicoanalisi relazionale.1 Già in un lavoro

del ’93 Stephen Mitchell (un autore non espressamente interessato al buddismo) notava il

succedersi nella tradizione psicoanalitica di due metafore per la rappresentazione del sé:

una metafora di tipo spaziale - quella di Freud - “il sé come stratificato, singolo e continuo

(...) la mente come un posto in cui le cose accadono, il sé come qualcosa in quel posto,

composto di parti o strutture costitutive”. E una metafora di tipo temporale, inclusa

dapprima nella teoria delle relazioni oggettuali e sostenuta, dopo di essa, dai vari approcci

di tipo relazionale. Qui il sé coincide con esperienze differenziate secondo l’ambito e la

qualità dei rapporti, e quindi è inteso come molteplice e discontinuo. “Poiché apprendiamo

a divenire persone mediante l’interazione con differenti altri e attraverso interazioni

differenti col medesimo altro la nostra esperienza del sé è discontinua, composta di

differenti configurazioni, differenti sé con differenti altri. (...) il risultato è un’organizzazione

plurale e multiforme del sé, modellata su differenti immagini o rappresentazioni del sé e

dell’oggetto, derivate da differenti contesti relazionali.” Così “i sé cambiano e si

trasformano continuamente nel tempo, e una singola vita è composta di più sé.

Un’esperienza del sé ha luogo necessariamente in un momento del tempo; essa riempie

lo spazio psichico e un’altra versione alternativa del sé sfuma sullo sfondo”.2 Ancora: se

applichiamo la prima metafora, - il sé come entità singola e stratificata - “ha senso

approcciarlo come (...) una cipolla, tentare di situarne il ‘centro’ o il ‘cuore’, delinenarne gli

strati, differenziarne le parti autentiche da quelle false, la struttura protettiva e così via”.3

Se tuttavia “il sé si muove nel tempo piuttosto che esistere nello spazio non ha un nucleo

fisso”. La ricerca di un nucleo invariante o di un ‘vero’ sé, colto ai suoi inizi, nella sua

essenza presociale, al di sotto degli adattamenti e delle negoziazioni con altri, “implica

rimuovere il sé dal tempo, uno sforzo male indirizzato per rendere statiche le

organizzazioni mutevoli dell’esperienza del sé.” Può accadere che io mi senta più

autentico (o meno autentico, meno spontaneo o più stereotipato) in certi modi di agire o di

esprimermi, in certe occasioni o in certe situazioni: ma ciò non implica rinviare ad un

‘nucleo’, a un ‘vero’ o ‘un ‘autentico’ me. “Facciamo esperienza di noi stessi nel tempo.

1 Per una critica stringente, sul piano filosofico, dei presupposti e delle implicazioni dell’approccio relazionale

vedi il recente lavoro di J. Mills, Conundrums. A Critique of Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York 2012. 2 S. A. Mitchell, Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York 1993: 101-104.

3 Ibidem: 101.

2

Possiamo valutare una nuova esperienza in termini di continuità o discontinuità col

passato e il presente; una nuova esperienza può rappresentare ed esprimere la propria

storia e la situazione presente oppure negare e tradire la propria storia e condizione

presente o ancora riformulare la propria storia e condizione presente in un modo nuovo e

arricchente. Il senso di autenticità è sempre una costruzione, e come costruzione è

sempre relativa ad altre possibili costruzioni del sé in ogni tempo particolare.”4

Con tutto questo - chiariva Mitchell - non può negarsi anche l’esistenza di un senso o di un

vissuto di continuità nell’esperienza del sé, indipendente dai cambiamenti nel tempo, in

forza del quale mi rappresento, ad ogni istante, come un Io identico, a cui rimandano i miei

ricordi in passato e che proietto nel mio futuro. Questo sentire è anche condizione di un

senso di agency, di continuità e responsabilità nell’agire, e ancora della possibilità di

imporre un’ordine di priorità a scopi impulsi e motivazioni, il non sentirsi trascinati qua e là.

Ciò è vero anche se non è semplice, all’atto pratico, stabilire quanto vi sia in tutto questo

di soggettivo o propriamente oggettivo. “Può essere che io faccia tutto ciò che faccio, ma

può anche essere che io faccia certe cose in contesti esperienziali del tutto diversi da

quelli in cui faccio altre cose. L’Io che fa cose diverse è un Io diverso in tempi diversi”.5 E

In ogni caso questa maniera di rappresentarsi del sé come agente autonomo e separato

non pare rispondere - Mitchell cita qui Clfford Geertz - a un’istanza evolutiva di tipo

universale quanto, piuttosto, a un dato culturale:

La concezione occidentale della persona come un universo motivazionale e cognitivo

delimitato, unico, più o meno integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emozione,

giudizio e azione organizzati in un insieme distinto e contrapposto sia ad altre entità simili

sia al contesto sociale e naturale è, per quanto incorreggibile ci sembri, un’idea

abbastanza peculiare nell’insieme delle culture mondiali.6

Può a questo punto suonare discordante, dopo tanti argomenti a favore di un sé

relazionale e molteplice, che le conclusioni di Mitchell siano da ultimo caute. “Potrebbe

ritenersi” - leggiamo infine - “che il senso di continuità nell’esperienza del sé sia totalmente

illusorio. Esso però assolve, almeno nella nostra cultura, a un’importante funzione

adattiva” E d’altra parte i due modi di rappresentare il sé - come molteplice e discontinuo,

e come integro, continuo e separabile, non sono reciprocamente esclusivi. “Le persone

4 Ibidem: 130-131. Anche le nozioni di Winnicott di ‘vero‘ e ‘falso’ sé riferite al rapporto del bambino col seno,

secondo Mitchell, “sono un importante punto di partenza ma si tratta di una situazione troppo semplificata quando si considera l’esperienza adulta. Tutte le motivazioni personali hanno una lunga storia relazionale, il sé è sempre immerso in contesti relazionali, attuali o interni, perciò tutte le motivazioni importanti sono apparse e hanno preso vita e forma in presenza e attraverso le reazioni di altri significativi.” (Ibidem: 134) 5 Ibidem: 109.

6 C. Geertz, “From the Native’s Point of View: On the Nature of Anthropological Understanding” in Local

Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York 1979: 59, citato da S. Mitchell, op. cit.: 110. Vedi anche quanto scrive J. Engler, “Being Somebody and Being Nobody: A Reexamination of the Understanding of Self in Psychoanalysis and Buddhism” in J. D. Safran (a cura di), Psychoanalysis and Buddhism. Un Unfolding Dialogue, Wisdom Publications, Boston: 51: “Nelle culture da cui il Buddismo è emigrato verso occidente, preminentemente in India e Giappone, il senso del sé è molto più mescolato con gli altri in un ‘senso del noi’ che è profondamente differente dall’’Io-sé’ separato ed autonomo dell’esperienza occidentale. Il sé è esperito come incorporato in una matrice di relazioni e come definito da tali relazioni, non solo la matrice delle relazioni umane e sociali ma la matrice più comprensiva delle relazioni all’interno del mondo della natura, e da ultimo il cosmo nel suo insieme”.

3

agiscono sia in modo discontinuo che in modo continuo. (...) In ogni momento dato una

persona opera a partire da un determinato contesto relazionale (...); al contempo quella

specifica versione del sé contribuisce a dar forma a una sequenza continuativa di

esperienza che ha le sue caratteristiche distintive. (...) Pensiamo al sé come alla sequenza

dei fotogrammi di un film. In ambedue i casi l’esperienza del movimento e della continuità

è un’illusione. Ma “l’illusione” “crea un’esperienza che ha una grande ricchezza soggettiva

in proprio, producendo un’immagine più ampia e ‘in movimento’ molto diversa (e molto

maggiore) della semplice somma delle immagini singole”. Similmente nel percorso

analitico “quanto più l’analizzando può tollerare di esperire versioni molteplici di se stesso,

tanto più si vivrà come forte, duraturo e capace di resilienza. E reciprocamente quanto più

l’analizzando ritrova dei tratti di continuità nel passaggio tra le sue varie esperienze, tanto

più può reggere la diffusione di identità implicita nel far convivere molteplici versioni del

sé”.7

Resta comunque, del discorso di Mitchell - e, se si vuole, anche in virtù delle sue

conclusioni - il punto forse più innovativo. Che si privilegi l’aspetto della discontinuità e

molteplicità o invece quello della continuità, il sé viene a perdere in ogni caso qualsiasi

carattere sostanziale per riproporsi come mera rappresentazione: capace, proprio per

questo, di più versioni e modi di esperienza possibili, nessuna eguagliabile a un ‘vero sé’.

Un corollario di questa innovazione è un diverso approccio ai temi dello sviluppo. Così

l’idea di un sé preesistente alla nascita il cui realizzarsi può solamente essere facilitato o

impedito lascia spazio all’ipotesi di più percorsi possibili grazie al convergere tra

potenzialità del bambino e influsso prevalente dell’uno o l’altro caregiver.8 Inoltre - si fa

ancora osservare - già negli scritti di Winnicott, l’opposizione tra sé ‘vero’ e ‘falso’ viene

formulata anche come antitesi fra non-integrazione - la possibilità per l’infante di rilassarsi

e abbandonarsi all’esperienza del gioco alla presenza rassicurante della madre - e

necessità di reagire, in modo prevalente, a stimoli o intrusioni esterne. In quest’ultimo caso

- ma solo in questo (ad esempio quando debba far fronte ad una madre angosciata o

depressa) - il bambino isola un proprio mondo privato (il suo ‘vero sé’) fino a nasconderlo

perfino a se stesso e si concentra sulla gestione del mondo esterno.9 Un ultimo modo,

infine, di ripensare quell’opposizione è prender atto della tensione costante, nel corso

della vita di ognuno, fra spontaneità e esigenza di conservare relazioni sicure10 (perciò

tener conto del proprio impatto sugli altri) o ancora fra agentività e relazionalità11 o fra

7 S. Mitchell, op. cit.: 115-116.

8 Ibidem: 129.

9 Scriveva Winnicott : “Soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la

propria vita personale. L’alternativa patologica è una vita falsa costruita su reazioni agli stimoli esterni. Quando è solo, nel senso suddetto, e solamente quando è solo, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, e cioè è in grado di diventare non-integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un po’ senza essere né qualcosa che reagisce ad un urto dall’esterno, né una persona attiva con una direzione d’interesse o di movimento. (...) Solamente in queste condizioni il bambino può avere un’esperienza e sentirla come reale. Un gran numero di tali esperienze formano la base di una vita reale e non futile.” (D. W. Winnicott (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando, Roma 1974: 36.). In età adulta situazioni analoghe di ‘non-integrazione’ in presenza d’altri (o relazionalità non reattiva) saranno condizioni per una crescita di creatività. (Cfr. M. Masud R. Khan, “On Lying Fallow” in Hidden Selves, Hogart Press, London 1983: 183-188.) 10

S. Mitchell, op. cit.: 133. 11

J. D. Safran e J. C. Muran, op.cit.: 39.

4

efficacia e esigenze di sicurezza.12 Il contrasto non è analizzabile in termini di contenuti

(come nella vecchia teoria freudiana delle pulsioni dove l’Es è tenuto a bada da Io e

Superio) e neanche in termini di priorità precostituite (come nell’ipotesi del ‘vero’ sé), ma

nella maggiore o minore capacità di un negoziato flessibile fra le due istanze. Questa

formulazione è già compatibile con un quadro teorico che all’antitesi ‘sé’ vero o falso’

sostituisca l’assunto di “numerosi stati del sé che lottano per dominare nello stato di

coscienza in un determinato momento”.13

E appunto questo - di una pluralità originaria di stati del sé - è l’assunto che ispira, in modo

forse anche più radicale del lavoro di Mitchell, il secondo contributo importante che va qui

ricordato - gli scritti sulla dissociazione di Philip Bromberg. L’esperienza di unità e

continuità del sé, per Bromberg, è senz’altro illusoria e “è generata dalla capacità

evoluzionistica della mente di radicare la coscienza in una delle configurazioni di stati del

sé che risultano più adattive in quel momento”.14 Di fatto “l’esperienza di sé si origina da

stati del sé relativamente isolati fra loro, ognuno con una propria coerenza interna” ma

“quando (...) tutto procede bene una persona è solo vagamente e momentaneamente

consapevole dell’esistenza di stati del sé individuali e delle loro rispettive realtà: questo

perché ognuno funziona come parte di una salutare illusione di identità personale unitaria

- uno stato cognitivo ed esperienziale sovraordinato sentito come ‘me’.” In questi termini

“la dissociazione (...) è una funzione sana e adattiva della mente umana. E’ un processo di

base che consente agli stati individuali del sé di funzionare in modo ottimale (e non in

modo semplicemente difensivo) quando ciò di cui abbiamo veramente bisogno o

desideriamo è una totale immersione in una singola realtà, in un singolo affetto forte, e

una sospensione della capacità autoriflessiva.”15

L’illusione di unità e di continuità così resa possibile - da questo genere di dissociazione

non difensiva - si caratterizza per il fatto di lasciar spazio alla capacità riflessiva e quindi

alla comunicazione anche con stati momentaneamente non in primo piano nell’esperienza

del sé. Bromberg usa l’espressione “restare negli spazi” per descrivere “la relativa

capacità della persona di ospitare in un dato momento una realtà soggettiva che non può

essere facilmente contenuta dal sé che in quel momento sente come ‘me’”. Questa

capacità di comunicare, momento per momento, con esperienze del sé discrepanti è

anche condizione della comunicazione intersoggettiva, ossia della capacità che le persone

hanno - ancora una volta: se tutto procede bene - di aprirsi all’esperienza che altri fanno

di loro.

Ma a volte - anzi, piuttosto spesso - non tutto procede bene. L’immagine del sé rimandata

dall’altro (o - che è lo stesso - da altri stati del sé) “può essere sentita troppo discrepante

dall'esperienza di sé che si sta facendo in quel momento per far sì che entrambe possano

essere conservate in mente simultaneamente”. In questo caso la dissociazione si piega

alla funzione - solo difensiva - di conservare “le esperienze di sé eccessivamente

discrepanti in stati del Sé separati che non comunicano tra loro, per lo meno per un certo

12

J. Greenberg, Oedipus and beyond, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1991: 129 sgg. 13

J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 115-116. 14

P. M. Bromberg (2011), L’ombra dello tsunami, Cortina, Milano 2012: 100. 15

P. M. Bromberg (1998/2001), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano 2007: 211.

5

periodo”; e può trattarsi di un periodo breve, per affrontare una situazione momentanea di

stress, ovvero più lungo o dell’intera esistenza. L’illusione di unità e continuità del sé ha

allora come condizione proprio il persistere della struttura dissociativa:

La mente/cervello organizza i suoi stati come un sistema protettivo che tenta,

proattivamente, di zittire l'accesso esperienziale a stati del Sé discrepanti con la gamma di

stati, limitati dissociativamente, di cui si fa esperienza in un dato momento come "me".

Questo rigido sequestro di stati del Sé per mezzo di una struttura mentale dissociativa è

talmente centrale per la personalità di alcuni individui che, virtualmente, modella tutto il

funzionamento mentale, mentre per altri il suo range è più limitato. Ma, a prescindere dalla

misura o dal range, la sua funzione evoluzionistica è di assicurare la sopravvivenza della

continuità del Sé relegando il funzionamento riflessivo a un ruolo minore, o a nessun

ruolo.16

Ciò è quanto accade, tipicamente, in occasione di traumi - sia traumi gravi (abusi sessuali

o fisici) sia, soprattutto, di traumi evolutivi: in questo caso, agendo ancora una volta al

servizio della continuità del sé e perciò conformandosi ai primi modelli di attaccamento,

saranno dissociati gli stati del sé ignorati o disconfermati dai genitori. Questi stati saranno

esclusi in permanenza dalla comunicazione in quanto non mentalizzati all’origine - non

confrontati col loro modo di apparire nella mente dell’altro - pertanto tendenzialmente non

simbolizzati sul piano cognitivo e quindi non recuperabili a un’unità del sé garantita

dall’autoriflessione (il mancato operare della comunicazione intersoggettiva sarà in questo

caso non conseguenza ma proprio l’origine della frattura dissociativa). Ne seguirà un

sentimento inguaribile di inautenticità imputabile, come visto sopra, non al tradimento del

‘vero sé’, ma all’eslcusione di un qualsiasi stato o aspetto del sé dall’esperienza

interpersonale.

Il Sé vissuto come vero è sentito essere sempre quello che sta bussando alla porta - la

voce interna antagonista, udita ma non "pensata" (Bollas, 1987). Questa voce viene

sentita inevitabilmente come più vera sul piano soggettivo semplicemente perché essa

contiene una "verità" diversa ma non formulata - una visione alternativa della realtà che

viene negata al sé che sta intrattenendo rapporti con il mondo, rendendolo così limitato sul

piano relazionale e compromesso nella possibilità di sentirsi autentico. Come ha detto

Mitchell (1993), "ciò che può sembrare autentico nel contesto di una versione del sé può

essere completamente inautentico rispetto ad altre versioni".17

2. Dopo questo richiamo, indispensabile per inquadrare il discorso, ai contributi della

psicoanalisi relazionale - ci si è limitati, a fronte di una produzione ormai molto ampia, a

due autori particolarmente influenti e significativi - si può dar spazio agli interventi

propriamente ispirati alla tradizione buddista. Qui la natura illusoria o piuttosto ingannevole

dell’unità e continuità del sé non è più solo ricondotta all’onnipresenza delle dinamiche

dissociative - così efficacemente illustrate da Bromberg - o all’intreccio relazionale delle

16

P.M. Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 14-15. 17

Ibidem: 128.

6

identità. In primo piano è invece il contrasto fra la preoccupazione costante e pervasiva

che più o meno tutti ci caratterizza - ma che è alla base, secondo il Buddha, di ogni

sofferenza - di preservare, proteggere, espandere il sé, e il dato radicale della sua

impermanenza, non autonomia e non separatezza, al pari di ogni essere e di ogni cosa

esistente. E’ un fatto che se poniamo attenzione, momento dopo momento, al flusso della

coscienza a monte degli automatismi con cui di solito selezioniamo, organizziamo e

interpretiamo i dati percettivi, concettuali e affettivi non incontriamo alcuna entità duratura,

nessun soggetto o oggetto costante ma solo operazioni con cui, momento dopo momento,

a partire da quei dati elementari di continuo e sempre di nuovo strutturiamo in modo

dualistico la nostra esperienza opponendo insiemi di oggetti distinti l’uno dall’altro e dal sé.

Come osserva Jack Engler

Il costrutto-sé ... è incorporato nella caratteristica più profondamente radicata del pensiero

e della percezione umana: la tendenza a considerare ogni oggetto dell’esperienza o della

percezione come un’entità separata o una ‘cosa’ dotata della sua esistenza e identità

concreta e separata e solo in un secondo momento in relazione con altre ‘cose’. (...) Ma la

‘cosalità’ o la ‘esistenza inerente’ è in realtà un’imputazione o un’attribuzione, non una

caratteristica delle ‘cose. (...) Come scrive la studiosa buddista Anne Klein “Le cose

semplicemente sembrano odorano e si fanno gustare come più solide individuabili e

intrisecamente disponibili di quanto in realtà non siano.” (...) Questa “attribuzione non

pensata di inerenza” a sé e agli altri è la “ontologia vissuta che sottosta ad ogni altra

esperienza di seità, inclusi i moderni sé psicologici” e specialmente la rappresentazione in

parte conscia in parte inconscia del sé come entità singola, unica e separata “collocata nel

profondo di noi stessi”.18

Detto in altri termini:

Il sé dell’uomo è un’azione: è qualcosa che facciamo per unificare la nostra soggettività

nello spazio e nel tempo, separandola dal flusso dell’esperienza e creandole un confine

intorno. Qualche volta facciamo questo consapevolmente, ma la maggior parte delle volte

lo facciamo senza avere consapevolezza del sé attraverso micromovimenti nelle nostre

percezioni che creano l’impressione di essere “qui dentro”, mentre qualcos’altro è “là

fuori”.19

La riduzione o decostruzione del sé che in questo modo si avanza è dunque più radicale

della innovazioni della psicoanalisi relazionale: il sé non soltanto è plurale e molteplice,

diversamente declinato per situazioni e rapporti; non solamente è rappresentazione, ma si

dà solo come relazione, come momento subordinato di questa - non c’è alcun ‘dentro’ se

non opposto a un ‘fuori’, non c’è alcun ‘io’ se non diretto a un ‘tu’20 - coinvolto,

18

J. Engler, op. cit.: 88. 19

P. Young-Eisendrath, “Il ruolo del non-sé nella creatività” in A. Molino e R. Carnevali (a cura di), Tra sogni di Budda e risvegli di Freud. Esplorazioni in psicoanalisi e buddismo, ARPANet, Milano 2010: 91. 20

Per una sintesi della formulazione più radicale di questo approccio, dovuta a Nagarjuna, si può vedere il lavoro non più recente ma ancora di grande interesse di F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991, cap. V. Vedi anche G. Kopf, “Di fronte all’altro. L’intrico psichico in Dogen e Jung” in A. Molino (a cura di) (1998), Psicoanalisi e buddismo, Raffaello Cortina, Milano 2001: 190-191.

7

inevitabilmente, sempre di nuovo ricostruito e dissolto nel dinamismo di un continuo fluire.

La stessa idea di qualche genere di costanza o ‘esistenza inerente’ attribuibile al sé non è

originaria ma è già prodotto del ciclo del karma - della causazione21 - dove prevalgono i

due opposti moventi dell’attaccamento e dell’avversione; e a sua volta è causa di

sofferenza, come già detto, perché sempre smentita dall’impermanenza, non separatezza

e finitezza del tutto. Si tratta allora, mediante la pratica meditativa, di mirare al risveglio,

alla consapevolezza non solo cognitiva ma esperienzale22 di queste verità, e le

implicazioni propriamente psicologiche di tale pratica sono già rilevanti: perché

presuppongono un definitivo ridimensionamento del sé non più quale soggetto, ma come

oggetto di consapevolezza - l’opposizione, quindi, almeno potenziale, tra modi della

soggettività e funzioni dell’Io. Se quelli sono da porre in problema queste, proprio nella

pratica meditativa, sono il più possibile potenziate: primo, per decostruire i processi (più

che altro inconsci) di costituzione, autoaffermazione e difesa dell’identità di soggetti;

secondo per accertarne funzionalità o interferenze in vista del crescere della

consapevolezza.23

Su questo punto si è già fatto cenno agli automatismi che reggono, d’abitudine, il nostro

rapportarci ai dati di esperienza. La meditazione di consapevolezza24 ci rende consci del

loro carattere prevalentemente difensivo-reattivo; ossia della nostra propensione a

distanziarci dalle esperienze e ad attutirne e filtrarne l’impatto mediante un flusso

praticamente incessante di fantasie e di pensieri - la cosiddetta proliferazione mentale -

che ne rielaborano ovvero ne anticipano le implicazioni sotto il profilo dell’attaccamento o

dell’avversione (rimuginazioni intorno al passato, speranze e attese circa il futuro); e ne

riducono la novità e la ricchezza reinterpretandola secondo termini e coordinate già note.

L’intento, almeno a prima vista, è pararne il carattere sorprendente o frustrante ampliando

per quanto possibile il controllo dell’Io. Ma ciò cui spesso veramente si mira è

salvaguardare per quanto possibile la certezza e la continuità della rappresentazione del

sé; e ciò anche a spese, se necessario, di un confronto paziente e puntuale col dato

concreto e di un pieno incontro con le emozioni che davvero assicurerebbero, anche nelle

situazioni più complicate o frustranti, non una reazione semiautomatica ma una risposta

mirata, più pertinente e più efficace dell’Io. Scrive in proposito un autore buddista:

L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale

è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e

definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente. 21

Un’utile sintesi ancora in F. J. Varela et al., op. cit.: 110 passim. 22

Come osserva J. Engler (op. cit.: 93) una consapevolezza solo cognitiva comporta ancora il punto di vista di un sé separato. 23

Su tutto questo M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 86 sgg. e 117. 24

Si distinguono, più precisamente, pratiche di meditazione formale (attenzione al respiro, alle sensazioni del corpo, alle percezioni, ai pensieri) da svolgersi in posizione seduta oppure sdraiata o anche camminando; e pratiche di meditazione informale consistenti ad esempio, nell’apprezzare intensamente e a lungo, in tutte le sue sfumature il sapore di un cibo, la bellezza e i colori di un giardino, i dettagli di un percorso abituale, i singoli momenti e le sensazioni di qualsiasi attività come farsi la doccia o lavare i piatti. Soprattutto le pratiche formali, come quella descritta sopra relativa al respiro, intendono non tanto far crescere direttamente l’accettazione quanto renderci attenti al nostro resistere all’accettazione, al nostro continuo ‘sganciarci’ dall’adesione al presente. Su questo vedi C. Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994 : 157-158. Vedi anche più in generale Thich Nhat Hanh (1987), Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma 1992.

8

... Invece che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo

di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per

aver luogo ben di rado. ... Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza

ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che

essa ci appaia così come ce la raccontiamo. E dunque l’indugiare frequentemente in

pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare

‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto,

all’ignoto.. E così pure quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli

avremmo voluto dire, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura

e simili. ... Noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia ... noi vogliamo

parlare nella rabbia, pensare e immaginare nella rabbia anche se tutto ciò che diciamo è

prevedibile, anzi è importante proprio perché è prevedibile, noto, abituale. In questa

maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia ... ne rimaniamo separati da quella

barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.25

La libertà da che viene perseguita - su un piano, peraltro, solo immaginativo-ideativo -

come difesa ad oltranza di una rappresentazione costante e rassicurante del sé, mediante

gli automatismi della proliferazione mentale, è a spese, assai spesso, della libertà di - di

un esercizio competente e efficace delle funzioni dell’Io.26 Grazie alla pratica meditativa

possiamo apprendere tuttavia ad osservare i nostri pensieri e le nostre reazioni

automatiche, ma senza agirli e identificarci con essi. Così facendo sarà possibile,

progressivamente, evitare l’irrigidirsi e il consolidarsi (sempre a livello immaginativo-

ideativo) degli aggregati percettivo-affettivi del sé e degli oggetti, mentre al contempo

accoglieremo e lasceremo operare le nostre emozioni, ci apriremo all’emergere di spunti

diversi, amplieremo lo spazio di ideazione e di azione. L’unità o continuità del sé così

realizzabile, come osserva Mark Epstein, sarà assimilabile sempre meno a un’entità fissa

e sempre più a “un flusso di consapevolezza ... sempre in evoluzione ... un processo mai

del tutto concluso di autoscoperta e autocreazione” e l’io dovrà subordinare, per quanto

possibile, a questa fluidità processuale ogni pretesa alla stabilità.

L"Io' è il veicolo individuale per attuare questi incontri, ma anch'esso non ha un'identità

intrinseca. Un lo sano inizia, si avvicina, stabilisce un contatto e si dissolve, per poi iniziare

il ciclo di nuovo. Un lo disturbato frappone ostacoli e interferisce con il contatto sano,

perpetuando la propria realtà a spese dell'interazione. (...) L'Io che è di ostacolo non

giunge mai alla trasparenza; il risultato sarà una persona contratta per la propria

sensazione di inadeguatezza. Un senso positivo del sé emerge solo quando l'Io permette

a se stesso di dissolversi.27

Di fatto facciamo già tutti quotidianamente esperienza - chi più chi meno - di questo

genere di fluidità o consapevolezza adualistica o priva di sé (più precisamente:

consapevolezza senza coscienza riflessiva del sé). Guidiamo l’automobile o qualche altro

25

C. Pensa, L’intelligenza spirituale, Ubaldini, Roma 2002: 30-32. 26

Spesso ma, ovviamente non sempre: gli automatismi della mente includono infatti primariamente, le attività di categorizzazione e astrazione che sono indispensabili all’apprendimento, alla previsione e alla sopravvivenza adattiva. 27

M. Epstein (2001), La continuità d’essere, Ubaldini, Roma 2002: 28-29.

9

veicolo adattando l’andatura alla situazione ed evitando possibili ostacoli senza necessità

di riflettere; ‘ci perdiamo’ nella contemplazione di uno spettacolo naturale, di una persona,

di un’opera d’arte o nel rapporto sessuale. Se sappiamo suonare uno strumento

muoviamo spontaneamente le mani nel modo giusto; similmente se siamo veramente

esperti in un arte marziale rispondiamo senza riflettere ma in modo del tutto adeguato alla

mossa dell’avversario.28 In tutti questi casi non siamo consci di noi stessi ma siamo

consapevoli, sintonizzati alla realtà del momento. Pensieri, sentimenti azioni avvengono

ma non sono esperiti come originantisi in o da “me”. Avvengono semplicemente in risposta

alle esigenze del momento per conto loro, senza forza o intenzione cosciente.29

Ancora Epstein insiste a lungo sull’affinità fra questo genere di disponibilità e fluidità

esperienziale - resa possibile da un alto grado di flessibilità o ‘trasparenza’ dell’Io - ed il

recupero, in età adulta, di uno stato di inintegrazione affine alla continuità d’essere

dell’infante (di cui parla Winnicottt) che può abbandonarsi all’esperienza del gioco potendo

contare sull’attendibilità della madre. Si è già detto sopra che questo stato di non-

integrazione - che riesce possibile, in età adulta, solo come resa30 o piena adesione al

presente31 - è quanto di più simile possa pensarsi, in un’ottica relazionale, a un’esperienza

del ‘vero’ sé. Anche per una psicoanalisi del non-sé ispirata al buddismo non c’è

ovviamente alcun vero sé se non nel “processo mai del tutto concluso di autoscoperta e di

autocreazione” (di cui parla Epstein) reso possibile da questa adesione. O se si vuole -

come appena visto - il ‘vero sé’ è il venir meno dell’autocoscienza messa a guardia

dell’autocentramento del sé”32; o ancora, in termini kohutiani, “per il non-sé tutte le

esperienze sono esperienze mature di oggetti-sé.33

Che dire, infine, in una prospettiva junghiana? Il netto rifiuto degli autori buddisti di

riconoscere al sé qualunque genere di consistenza ‘ontologica’34, e l’insistenza nel non

vedervi di più che una rappresentazione (per giunta, in linea di massima fuorviante e

ingannevole) suona, a ragion veduta, in aperto contrasto con la nozione junghiana del Sé

quale ‘centro’ della totalità psichica e ancor di più, in quanto meta del processo di

invididuazione, quale portatore di un senso. Ma a fronte di ciò, e anche tralasciando le

affinità, rilevate da Jung,35 tra la propria psicologia e il cammino buddista, occorrerebbe

28

G. Kopf, op. cit.: 193. 29

J. Engler, op. cit: 60.61. 30

Sul tema della resa vedi l’ottimo studio di E. Ghent, “Masochism, Submission, Surrender: Masochism as a Perversion of Surrender” in S. A. Mitchell. L. Aron (a cura di) Relational Psychoanalysis. The Emergence of a Tradition, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 211-242. 31

L’insistenza sull’attenzione esclusiva al presente, implicita in questa concezione, è ben illustrata dal famoso koan Zen: “In questo preciso momento, non pensando né al bene né al male, mostrami il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori”. “Essendo andati oltre il dualismo, oltre ‘il pensare il bene ed il male’ c’è un vero sé essenziale? Budda ha insegnato che il sé è ‘vuoto’, che non ha assolutamente natura fissa o essenziale. Tutto quello che c’è è ciò che le stesse parole di apertura del koan ci dicono: essere proprio questo momento è il nostro vero sé. Il nostro volto originario non può essere altro che il volto di questo momento”. (B. Magid, “Your Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 265-266) 32

P. A. Ringstrom, “Psychoanalysis and Buddhism: Two Extraordinary Paths to An Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 288. Così, prendendo le distanze da Winnicott, anche M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 68-69. 33

B. Magid, op. cit.: 271. 34

Vedi in proposito di nuovo J. Engler, op. cit.: 52. 35

C.G. Jung (1939), “Prefazione a D.T. Suzuki, ‘La grande liberazione. Introduzione al buddismo zen’” in Opere, XII, Boringhieri, Torino 1979: 549-567.

10

ancora considerare tre aspetti. 1) Col segnalare la finalità difensiva (della continuità e della

sicurezza del sé) del pensare per segni - cioè del ridurre il vissuto al concetto, il nuovo, il

particolare e l’affettivamente pregnante all’astratto e al già noto) il pensiero buddista

mostra di privilegiare un’attenzione al concreto, al differente, al non riducibile che è

rispetto profondo (come ancora vedremo) di ogni alterità ma è anche del tutto affine, nel

contesto junghiano, all’esperienza simbolica - al modo proprio di manifestarsi dell’alterità

dell’inconscio. 2) L’idea di un sé solo processuale che non conosce un’identità

precostituita ma che si esplica e con ciò stesso si scopre, momento dopo momento, solo

nella pratica dell’accettazione, cioè nella piena adesione al presente, è molto simile

all’idea junghiana di individuazione come ricerca/accettazione del corpo, della propria

forma, e del proprio limite. 3) Infine Jung mette in relazione la sua nozione del sé con

l’idea buddhista di una ‘coscienza della coscienza’:

La possibilità che esistano vari stadi nello sviluppo della coscienza non ci viene nemmeno

in mente; il solo pensiero che esista una forte differenza psicologica fra la coscienza

dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto assomiglia

molto da vicino a un cavillo che appena merita risposta. (...) Furono lo yoga in India e il

buddhismo in Cina a dare l’avvio a questi tentativi di strapparsi alla cattività di un dato

stato di coscienza, sentito come imperfetto. Per quanto riguarda la mistica occidentale i

suoi testi sono pieni di istruzioni sul modo in cui l’uomo possa e debba liberarsi dell’essere

Io della sua coscienza, onde elevarsi, per mezzo della conoscenza della sua natura, al di

sopra di questa e raggiungere l’uomo interiore (divino). (...) Questo nuovo stato di

coscienza derivato dalla pratica religiosa si distingue per il fatto che le cose esteriori non

influiscono più su una coscienza fatta di Io ... ma che una coscienza vuota è aperta a

un’influenza diversa. Questa influenza “diversa” non è più sentita come attività propria, ma

come quella di un non-Io il cui oggetto è la coscienza. E’ come se il carattere soggettivo

dell’Io fosse stato sopraffatto o assunto da un altro soggetto che si fosse messo al posto

dell’Io.36

L’obiezione buddhista a a queste note di Jung sarebbe che una ‘coscienza della

coscienza’ che la ponesse a oggetto di un altro soggetto sarebbe appunto coscienza di un

oggetto (di quella stessa coscienza oggettivata) non della coscienza colta nel suo operare

come “carattere soggettivo dell’io” o soggettività conoscente; allo stesso modo in cui

l’occhio può vedere se stesso come oggetto riflesso in uno specchio ma non nell’atto del

suo vedere. Ne segue che se si vuole pensare il Sé come ‘coscienza della coscienza’37

non si può porlo come ‘altro soggetto’ cui si oppone un oggetto. Come chiarisce assai

bene Engler

non posso osservare direttamente il mio sé osservante. Se lo faccio ... muto soltanto l’atto

della consapevolezza in un altro oggetto di consapevolezza in una regressione all’infinito.

... (...) Il sé che io rappresento, il “sé” che io posso conoscere o afferrare non è mai “me”.

L’occhio che vede, dice lo Zen, non può vedere sé stesso. E infine è chiaro: non possiamo

staccare il nostro “sé” dalla consapevolezza perché siamo quella consapevolezza.

36

Ibidem: 555-556. 37

Ibidem: 553.

11

In questo senso la consapevolezza non è semplicemente una funzione dell’Io. (...) La

consapevolezza in quanto tale non può mai essere oggettivata, colta come un oggetto,

identificata coi contenuti della coscienza, rappresentata come “questo o “quello”. E’ di

natura fondamentalmente diversa: senza qualità, senza limiti, senza confini: (...) In

essenza Io non sono nulla che possa essere nominato o pensato, rappresentato o negato,

trovato o perso. “Chi sei” dice Sri Nisargatta Maharaj, “è indefinibile e indescrivibile. La

consapevolezza soggettiva è ciò che rende possibile l’esperienza, ma non è essa stessa

esperienza. (...) la piena realizzazione di ciò è la consapevolezza non dualistica come

proprio stato naturale. L’identificazione con ogni rappresentazione o attività di un sé

separato diviene impossibile”.38

E’ però interessante che altrove lo stesso Jung si avvicini molto a questa prospettiva:

Proprio come l’Io è una certa esperienza di me stesso, così il Sé è un’esperienza del mio

Io, vissuta però non più nella forma di un Io più vasto e più alto, ma in forma di un non-

Io.39

E ancora, più diffusamente:

Poiché il numero di possibilità è limitato si raggiunge ben presto una frontiera, o piuttosto

frontiere che arretrano una dopo l’altra presumibilmente fino al momento della morte.

L’esperienza di queste frontiere conduce gradualmente alla convinzione che quanto viene

esperito è un’interminabile approssimazione. Lo scopo di questa approssimazione sembra

essere anticipato da simboli archetipici che rappresentano qualcosa come la

circumabulazione di un centro. Al crescere dell’approssimazione al centro c’è un

corrispondente depotenziamento dell’Io a favore dell’influenza del centro “vuoto” che certo

non coincide con l’archetipo ma è ciò cui l’archetipo mira. Come direbbero i Cinesi,

l’archetipo è soltanto il nome del Tao, non il Tao in sé. Così come i Gesuiti traducevano

Tao come “Dio” così noi possiamo descrivere la “vuotezza” del centro come “Dio”.

Vuotezza in questo senso non significa “assenza” o “vacanza” ma qualcosa di

inconoscibile dotato della più elevata intensità. Se io chiamo questo inconoscibile “Sé”

tutto ciò che è accaduto è che gli effetti dell’inconoscibile hanno ricevuto un nome

aggregato, ma i suoi contenuti non ne sono affetti in alcun modo. Una parte

indeterminabilmente ampia del mio stesso essere è inclusa in esso, ma poiché questa

parte è l’inconscio non posso indicare i suoi limiti e la sua estensione. Il sé è pertanto una

concetto liminare, in alcun modo riempito coi processi psichici noti.40

3. Al terzo punto di questa esposizione sono le implicazioni di un pensiero analitico

ispirato al buddhismo per l’ascolto e la pratica psicoterapeutica. Anche in quest’ambito è

indiscutibile un nesso di continuità fra autori buddhisti e psicoanalisi relazionale (a sua

38

J. Engler, op. cit.: 66. 39

C. G. Jung, op. cit.: 553. 40

C. G. Jung, Letters, Routledge, London 1975, II: 258, traduzione mia.

12

volta vicina, per una serie di aspetti, alle posizioni originali di Jung41

). Sé del paziente e sé

del terapeuta sono intesi ambedue come relazionali e molteplici e ’normalmente o

patologicamente dissociativi’42 (nel senso già visto di Mitchell e Bromberg), e come tali si

esprimono e operano anche all’interno della relazione analitica. Il terapeuta, in particolare,

non si può ergere a ‘osservatore oggettivo’ - colui che ‘sa’ i contenuti dell’inconscio - né

l’attitudine del paziente verso di lui si può spiegare, in modo esauriente, come distorsione

dovuta al transfert. L’incontro analitico vive invece del gioco sempre irripetibile

dell’interazione fra quel paziente e quell’analista e della loro influenza reciproca (deve

restare, perciò, una questione aperta in qual misura questa interazione segua modelli

caratteristici di altre relazioni della vita del paziente); e il compito del terapeuta - che può

definirsi di osservatore partecipante - è 1) monitorare al meglio i propri sentimenti, le

proprie reazioni, anche le proprie sensazioni fisiche, 2) guidare, a partire di qui

un’osservazione congiunta di quanto accade volta per volta nel qui ed ora della relazione

per trarne ipotesi sui processi psichici del paziente. Da ripensare è anche il vecchio

concetto di ‘resistenza’, che non può più soltanto indicare una generica difficoltà del

paziente a divenir consapevole di certi sentimenti o emozioni ma deve includere anche il

contributo eventuale del terapeuta: ossia “esplorare che cosa il paziente teme che accada

se tali emozioni vengono espresse nel qui ed ora della relazione terapeutica”.43

La differenza essenziale tra questo approccio e quello della psicoanalisi tradizionale suole

riassumersi nel venir meno di ogni finzione o di ogni pretesa di ‘oggettività’ per il terapeuta

“relazionale. Ma ‘oggettività’ (o meglio: assenza di oggettività) si può ancora intendere in

una doppia accezione. Come mancanza di referenti o evidenze per il lavoro analitico il cui

significato sia indiscutibile, in quanto univoco e palese per tutti: non-oggettività, allora, col

significato di relatività, o impossibilità, intesa dal vertice dell’analista, di non trasferire

nell’interpretazione il carico della sua psicologia personale. O ancora, declinata invece dal

vertice del paziente, come portato dalla natura interpersonale del lavoro analitico che

come tale vuol rivolgersi all’altro nella sua differenza e nella sua unicità; nel suo sottrarsi,

pertanto, sempre e di continuo all’oggettivazione, a qualsiasi genere di omologazione

teorica e ad ogni riduzione a categorie ed a concetti con la conseguenza di destabilizzare

lo stesso analista: frustrandone le velleità di conoscenza e controllo, anche i bisogni di

distanziamento fra sé e il paziente, ed attraendolo a sua volta a coinvolgersi nella totalità e

quindi anche nell’assoluta specificità della propria persona.44 Lewis Aron, sulla scorta di

Winnicott e Jessica Benjamin,45 descrive proprio in questi termini l’andamento alternante -

fra oggettivazione e intersoggettività - della relazione analitica:

41

Sul punto vedi, da ultimo W. Colman, “Bringing it all back home: how I became a relational analyst”, The Journal of Analytical Psychology, 58, 4, Sept. 2013: 470-49. 42

Bromberg precisa, a questo proposito che il trauma evolutivo (o trauma relazionale) come egli lo intende “fa parte del processo di modellamento dei precoci pattern di attaccamento (incluso l'’attaccamento sicuro’), che a sua volta determina quelli che Bowlby (1969,1973,1980) chiama ‘modelli operativi interni’. (...) Vale a dire che il trauma connesso all'attaccamento è parte dell'esperienza passata di tutti e un fattore centrale in ogni trattamento; per alcuni pazienti però ha portato a una struttura mentale dissociativa che si è impossessata del funzionamento della personalità e della vita mentale, imponendo quindi la "Verità" su presente e futuro.” (P. M Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 71 e 103-104. 43

J.D. Safran. J. C. Muran, op. cit. : 100. 44

I riferimenti filosofici d’obbligo sono qui M. Buber (1984), “Io e tu” in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997 e E. Lévinas (1971), Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977. 45

Aron rimanda, in particolare, a D. W. Winnicott, “L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” in Gioco e realtà, Armando Armando, Roma 1974 e all’interpretazione di questo lavoro (come superamento dell’oggettivazione e come scoperta della soggettività della madre/altro) proposta da J.

13

Suggerisco che la relazione intersoggettiva sia continuamente interrotta tra le persone -

anche tra paziente e analista - scambiandola per una relazione soggetto-oggetto, e che

poi la relazione intersoggettiva sia ristabilita. Credo che l’intimità non coincida con

l’intersoggettività ma che, piuttosto, trascenda questa relazione dialettica. L’intimità implica

la sopravvivenza e il sostentamento di questa relazione tramite la continua creazione e

distruzione dell’intersoggettività.46

L’alternativa - o, più radicalmente, l’antidoto - al ‘pregiudizio’ dell’analista, in questa

prospettiva non è soltanto una comprensione più completa e migliore, resa possibile -

come propongono ad esempio Safran e Muran47 - in una sorta di dialogo ermeneutico; è

un coinvolgimento con la persona o l’esser soggetto dell’altro che ci mantiene in tensione

verso di lui, incessantemente in ascolto perché ci sollecita di continuo all’interpretazione

ma ci fa vivere via via come impropria e virtualmente insoddisfacente ogni comprensione o

qualsiasi giudizio. Questa visione - che riprende, incidentalmente, quasi alla lettera le

prescrizioni di Bion sulla capacità negativa e sulla necessità di astenersi (per l’analista) da

attività mentale, desiderio e memoria48 - è in sintonia con la dottrina buddhista, riferita

sopra, sui rischi della proliferazione mentale e sulle finalità difensive - per la stabilità della

rappresentazione del sé - della omologazione al già noto, a scapito delle capacità

percettive e dell’efficacia dell’Io. Qui infatti non si tratta già più - lo si è visto sopra -

soltanto di includere la soggettività conoscente (nel nostro caso quella dell’analista), come

nel primo approccio relazionale; quanto, piuttosto, di rendersene consapevoli e di

trascenderla, per quanto possibile, come momento a sua volta relativo nella dualità

continuamente ricreata di soggetto ed oggetto del processo di conoscenza, dunque da

subordinare alla qualità e all’efficacia di questo. L’esito un po’ paradossale, e

però),innegabile, come ancora vedremo è alla fine il recupero, nella prima accezione del

termine, non di una pretesa ma di una tensione all’oggettività.

Per la psicoanalisi (e la psicologia analitica) ispirate al buddhismo ciò si è tradotto, molto

concretamente, non nel semplice invito a una disciplina mentale - come già in Bion - ma

nell’acquisizione al lavoro analitico e soprattutto al training quotidiano dell’analista di

pratiche tratte dalla meditazione di consapevolezza. A tali pratiche - a questo punto anche

dissociabili e dissociate, di fatto da un credo buddhista - o, meglio ancora al tipo e alla

qualità di attenzione che con esse si mira a far crescere e sostenere va il nome generale

Benjamin, “Recognition and Destruction: An Outline of Intersubjectivity” in S. A. Mitchell, L. Aron (a cura di), Relational Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 183-210, traduzione italiana parziale in J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello Cortina, Milano 1996. 46

L. Aron, A meeting of minds, The Analytic Press , Hillsdale and London 1996: 152 (traduzione mia); citato da J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 68. 47

J. D. Safran, J. C. Muran, op. cit. : 44-45. 48

Vedi soprattutto W. R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Armando, Roma 1973 e W. R. Bion (1965) Trasformazioni, Armando Armando, Roma 1973. Ma sono anche da ricordare i contributi di Marion Milner e Karen Horney: M. Milner, “The concentration of the body” in The suppressed madnes of sane men, Tavistock Publications, London & New York 1987: 234-240 e K. Horney, Final Lectures, ed. by D. Ingram, Norton, New York 1987: 19.21 citato da M. E. Miller, “Zen and Psychotherapy” in P. Young Eisendrath and S. Muramoto (a cura di), Awakening and Insight. Zen Buddhism and Psychotherapy, Brunner-Routledge, New York 2002: 85.

14

di Mindfulness (variamente tradotto con ‘presenza mentale’, ‘consapevolezza’ o anche

‘pienezza della consapevolezza mentale’). Tale attenzione è stata definita:

Focalizzata, cioè orientata in modo esclusivo verso un determinato oggetto ... (il proprio

respiro, un’amica con la quale stiamo parlando ... una sensazione corporea). E’ importante

che, quando ci si rende conto che l’oggetto stabilito non è più al centro del focus attentivo,

si compia ... una intenzionale rifocalizzazione dell’attenzione verso quell’oggetto dal quale

ci si è allontanati.

Rivolta al momento presente, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto ci si riesce)

verso l’esperienza che si sta vivendo qui ed ora: ogni volta che si diviene consapevoli che

la mente ci ha trasportato ... nel passato o nel futuro ... è importante che si attivi ... un

riposizionamento dell’attenzione sul momento presente.

Non categorizzante, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto si riesce, all’esperienza

in cui ci si trova, senza usare le categorie, le classificazioni, e i giudizi abituali per

comprenderla: ogni volta che si diventa consapevoli che la mente sta operando una

sistematizzazione di quello che sta accadendo in base a schemi pregressi, e importante

che si metta in atto ... un riorientamento dell’attenzione sulla qualità di novità

dell’esperienza, che di fatto possiede.49

Trasferita nel contesto analitico (sempre gli autori di ispirazione buddhista50 insistono

molto sulla sua affinità con la attenzione ugualmente sospesa prescritta da Freud51)

l’attenzione mindful ha di mira anzitutto le autodifese dell’analista - messe in atto,

comunemente, col ritirarsi dalla relazione, con l’assimilarla a situazioni trascorse o

proiettandola nel futuro, col neutralizzarne l’impatto emotivo mediante astrazioni - ogni

qualvolta la relazione stessa sia troppo frustrante, dolorosa o allarmante o comunque

coinvolga aree di forte vulnerabilità, facendo prevalere su un’attitudine recettiva una

risposta reattiva. Può però trasmettersi - per ragioni del tutto analoghe - dall’analista al

paziente (Wallin definisce la psicoterapia, sotto questo profilo, come una specie di

meditazione a due52) in modo tacito o per inviti espliciti: ad esempio col chiedere

ripetutamente al paziente di soffermarsi su ciò che sente in un determinato momento, di

provarsi a descriverlo nei dettagli e anche indicare dove lo sente (in quale area del corpo).

Lo sfondo che potremmo chiamare ‘umanistico’ (in effetti ancora vicino al buddhismo) di

questa pratica dell’attenzione è l‘accettazione non giudicante (la meditazione di

consapevolezza ha qui la funzione di renderci consci, momento dopo momento, dei giudizi

e delle risposte di rifiuto che rivolgiamo innanzitutto a noi stessi); e la compassione per

noi medesimi “che emerge quando diventiamo capaci di aprirci [anche] alle esperienze

dolorose”.53 In particolare: col trattare noi stessi gentilmente e senza giudicarci con

severità; riconoscendo che errori, fallimenti e avversità fanno parte della comune

49

G. Amadei, Mindfulness. Essere consapevoli, Il Mulino, Bologna 2013. 50

In particolare M. D. Epstein, “Sulla negazione dell’attenzione ugualmente sospesa”, in A. Molino, R. Carnevali (a cura di), op. cit.: 160-175) e M. Epstein (2007), Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio, Roma 2008: 95. 51

S. Freud (1912) “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, Opere, VI, Bollati Boringhieri, Torino1989,: 532-533. 52

D. J Wallin (2007) Psicoterapia e teoria dell’attaccamento, Il Mulino, Bologna 2009: 264. Questo testo, ai capitoli IX e XVII contiene una sintesi eccellente dell’approccio mindfulness in psicoterapia. 53

Ibidem: 283.

15

esperienza umana; mantenendo un’equilibrata consapevolezza di pensieri e sentimenti

spiacevoli, invece di evitarli, cancellarli o identificarsi eccessivamente con essi.54 Sempre

per Wallin una tale apertura tenderà ad autoconsolidarsi in quanto la consapevolezza

anche dei sentimenti dolorosi ne farà comprendere sempre di più la qualità transitoria

rendendoli, con ciò stesso, assai meno temibili; legando, di conseguenza, sempre di più

alla consapevolezza, più che a figure protettive interiorizzate o a determinati stati mentali il

nostro senso di sicurezza; ed evitando il sovrappiù di sofferenza sempre legato allo sforzo

di evitare il dolore.55

In termini più formali l’attenzione mindful mirerà a sospendere per quanto possibile gli

automatismi categorizzanti o ‘dall’alto in basso’ (dei quali a lungo si è detto sopra)

finalizzati alla previsione e alla sopravvivenza adattiva per dare spazio alla modalità

senso-percettiva (‘dal basso verso l’alto’) vuoi verso l’esterno (nel setting analitico:

l’espressione facciale, il tono di voce, le sfumature emotive, la postura corporea del

paziente) vuoi verso l’interno (pensieri, sentimenti, emozioni, anche stati fisici dell’analista

- osservati, però, e anche utilizzati, ma in modo equanime e ad una certa distanza, alla

stregua di eventi o stati transitori e dunque senza identificarsi con essi56). Questa

attenzione accrescerà l’efficacia (ai fini del cambiamento) del dialogo terapeutico con

l’ancorarlo più saldamente all’esperienza vissuta, ossia al qui ed ora più che alla semplice

riflessione o ricostruzione retrospettiva e al vissuto emozionale-corporeo oltre che alla

comprensione concettuale. Notano in proposito Safran e Muran:

Diversamente da quanto accade per un pensiero più concettuale, che può essere staccato

dall'azione, la conoscenza a livello corporeo ha sempre implicazioni per il passo

successivo all'attuale. Quando un individuo ha una nuova sensazione, dà a se stesso

un'irrefutabile informazione su quanto l'intera configurazione relazionale significhi

realmente per lui come organismo intero, e tale significato ha risvolti impliciti per l'azione.

(...) L'insight emozionale, o consapevolezza, comporta così la rivalutazione di un evento o

di un'esperienza in un modo che conduce al «che cosa vuoi dire per me ora». (...) Ciò

riflette il fatto che l'individuo conosce qualcosa in maniera differente, come un organismo

concreto, in interazione con l'ambiente circostante.57

54

K. D. Neff, “Self-compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself” in Self and Identity, 2: 85-101, 2003 citato da R. a. Baer, “la compassione di sé” in R. A. Baer (2010) a cura di, Come funziona la mindfulness, Raffaello Cortina, Milano 2012: 130. 55

D. J. Wallin, op. cit.: 263. 56

Su questo punto, veramente essenziale, vedi quanto scrive D.J. Siegel (2007), Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009: 25-26: “Da questo modo di essere riflessivo, mindful, emerge un processo fondamentale chiamato ‘discernimento’, in cui diventa possibile essere consapevoli del fatto che le attività della propria mente non sono la totalità di ciò che si è. Il discernimento è una forma di disidentificazione dall’attività della propria mente: quando diventi consapevole delle sensazioni, dei sentimenti e dei pensieri ... arrivi a vedere queste attività come delle onde che si muovono sulla superficie del mare della mente. Da questo luogo più profondo della mente, da questo spazio interno della consapevolezza mindful, è possibile notare come le onde superficiali del cervello vadano e vengano. Questa capacità di liberarsi dal chiacchiericcio della mente, di capire che queste sono “solo attività della mente”, è un’esperienza liberatoria e per molti perfino rivoluzionaria”. Vedi anche, dello stesso autore, The Mindful Therapist, Norton, New York & London 2010. 57

J.D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 63.

16

In questa linea, per richiamare un esempio recente, può rilevarsi un alto grado di

congruenza fra attitudine mindful e i contributi di Daniel Stern e del Boston Change

Process Study Group sul cambiamento in psicoterapia e la conoscenza relazionale

implicita. Si tratta di cogliere e valorizzare anche in questo caso il momento presente - i

cosiddetti now moments - con la totale disponibilità da parte dell’analista a mettersi in

gioco personalmente nella situazione, esponendosi senza difese ai suoi elementi di novità

e al suo impatto emotivo e offrendo così una risposta che attesti, per ambe le parti, la

saldatura di di un nuovo piano di sintonizzazione emotiva.

I momenti più interessanti sorgono quando il paziente fa qualcosa che è difficile

catalogare, qualche cosa che richiede una reazione nuova e diversa, contraddistinta da

una firma personale che fa condividere al paziente lo stato soggettivo dell’analista (affetti,

fantasie, esperienze reali ecc.). (...) Il terapeuta deve usare un aspetto specifico della

propria individualità, un aspetto che porta una connotazione personale. I due soggetti si

incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai

loro rispettivi e ordinari ruoli in terapia. Inoltre le azioni che costituiscono il “momento di

incontro” non possono essere consuete, abituali o tecniche; devono essere nuove e

forgiate per soddisfare le particolarità del momento.58

Vi sono da ultimo, per concludere, linee assai rilevanti di convergenza del pensiero

mindful con l’impostazione junghiana. Già l’insistenza sul non sottrarsi al confronto con

temi dolorosi o allarmanti e soffermarsi, al contrario, in un contatto approfondito con essi

risuona affine alla basilare prescrizione di Jung sull’importanza di ‘stare nel conflitto’

perché si produca un cambiamento spontaneo e più autentico - la cosiddetta funzione

trascendente (ciò sia nel conflitto esclusivamente interiore, sia nel confronto

intersoggettivo). In aggiunta a questo ritengo assai significative alcune considerazioni

recenti (penso, in particolare, all’ultimo libro di Maria Ilena Marozza59) sulla questione - a

cui si è qui solamente accennato - della tensione all’oggettività nell’ascolto analitico. In

sintesi, ritiene Marozza, si può pensare ad una base di oggettività in psicoanalisi a

condizione di fare spazio (esattamente come propone l’approccio mindful) alla dimensione

sensoriale-affettiva, che in ogni caso accompagna sempre la comunicazione verbale, la

completa, la qualifica e la precisa radicandola nello spessore psico-corporeo; ma si

differenzia, contestualmente, da essa perché non confluisce nell’astrattezza dei segni e

quindi non si offre, al pari di questi, all’immediatezza della comprensione linguistica. Essa

piuttosto trattiene nel concreto, contagia e provoca alla ricerca di una comprensione che

non può contare su di un sapere generalizzabile (ma quindi non può nemmeno venir

tradita o fraintesa in forza di preferenze teoriche o categoriali) ma obbliga - proprio come il

simbolo60 - a soffermarsi nell’esperienza e a esporsi a lungo al coinvolgimento e alla

58

Cfr. The Boston Change Study Group (2010), Il cambiamento in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano 2012: 15-16. 59

M.I. Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo 2012. Ma vedi anche M.La Forgia e M. I. Marozza, Le radici del comprendere, Fioriti, Roma 2005 e M. La Forgia e M. I. Marozza (a cura di), La conoscenza sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo 2008. 60

Sull’affinità fra impegno in chiave di ‘capacità negativa’ e esperienza simbolica ho scritto in G. Kaufman, “Il silenzio del padre nella relazione analitica. Bion, Jung e una rilettura del simbolico” in Il Padre. Parola Silenzio Trasformazione”, Atti dell’XI Convegno Nazionale del Centro Italiano di Psicologia analitica,

17

condivisione: e appunto qui, in questo tratto non riducibile di autoreferenzialità o

intransitività è quanto rende “la realtà dell’affetto ... la manifestazione fenomenica e del

tutto oggettiva, di una supponibile realtà dell’inconscio: poiché, come scrive Matte Blanco,

nulla ci conduce ad una chiara distinzione psicologica fra l’emozione e l’inconscio”.61 In

particolare, nello specifico della costruzione junghiana il nesso mai del tutto scindibile fra

strato sensoriale-affettivo e dimensione rappresentativa-ideativa, su fino al piano verbale-

razionale si salda nell’unità dei complessi e nel loro operare a differenti livelli di coscienza

cui corrispondono modalità qualitativamente diverse (ma tali da confrontarsi e completarsi

l’una con l’altra) di registrazione delle esperienze. Ne segue “la possibilità ... di insediare

l’ordine linguistico e la capacità di significare nell’ordine dell’esperienza soggettiva vitale e

diretta”.62 E in primo luogo di riscontrare le rappresentazioni logico-razionali ma in potenza

del tutto astratte del complesso dell’io (inclusa la distinzione che solo qui si rappresenta

compiutamente fra il sé ed il mondo) con quanto si esprime dai complessi secondari in

modo più indistinto ma impegnativo e pregnante dell’esistenza emozionale e sensoriale di

base.

Vivarium 2002. Sul coincidere fra esperienza simbolica e incontro con la “cosa in sé” vedi M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986: 80-83. 61

Scrive ancora Marozza: “Solo in questo senso possiamo tenere insieme il significato più profondo del termine inconscio, come ciò che non è conosciuto, ritenerlo eternamente tale e connaturato all'esperienza umana e nello stesso tempo considerarlo assolutamente influente e talmente oggettivo da poter essere la vera fonte dell'attività psichica, manipolabile dalla soggettività cosciente solo nella direzione da esso stesso consentita.” (M.I. Marozza, op. cit.: 210-211). 62

Ibidem: 207.

GIANNI KAUFMAN

SE’/NON SE’. INTRECCI TRA BUDDISMO E PSICOANALISI

SEMINARIO CIPA. MILANO 12 OTTOBRE 2013.

1. Oggetto del mio intervento è l’incontro - che risale almeno alla metà degli anni ’90 - fra

buddhismo, psicoanalisi e psicologia analitica e le ricadute o gli ulteriori sviluppi di questo

incontro riferibili essenzialmente a due temi: 1) sul piano teorico la natura o le

caratteristiche proprie del sé, 2) sul piano pratico la qualità della consapevolezza o

dell’attenzione in psicoterapia e il ruolo che in questo ambito può riconoscersi alla pratica

meditativa. Se si accantonano, ma solo momentaneamente, i contributi propriamente

junghiani - la teoria dei complessi e la metapsicologia del Sé - l’incontro fra psicologia

dinamica e l’impresa di decostruzione del sé della tradizione buddista si prepara anzitutto

con le proposte, al tempo assai innovative, della psicoanalisi relazionale.1 Già in un lavoro

del ’93 Stephen Mitchell (un autore non espressamente interessato al buddismo) notava il

succedersi nella tradizione psicoanalitica di due metafore per la rappresentazione del sé:

una metafora di tipo spaziale - quella di Freud - “il sé come stratificato, singolo e continuo

(...) la mente come un posto in cui le cose accadono, il sé come qualcosa in quel posto,

composto di parti o strutture costitutive”. E una metafora di tipo temporale, inclusa

dapprima nella teoria delle relazioni oggettuali e sostenuta, dopo di essa, dai vari approcci

di tipo relazionale. Qui il sé coincide con esperienze differenziate secondo l’ambito e la

qualità dei rapporti, e quindi è inteso come molteplice e discontinuo. “Poiché apprendiamo

a divenire persone mediante l’interazione con differenti altri e attraverso interazioni

differenti col medesimo altro la nostra esperienza del sé è discontinua, composta di

differenti configurazioni, differenti sé con differenti altri. (...) il risultato è un’organizzazione

plurale e multiforme del sé, modellata su differenti immagini o rappresentazioni del sé e

dell’oggetto, derivate da differenti contesti relazionali.” Così “i sé cambiano e si

trasformano continuamente nel tempo, e una singola vita è composta di più sé.

Un’esperienza del sé ha luogo necessariamente in un momento del tempo; essa riempie

lo spazio psichico e un’altra versione alternativa del sé sfuma sullo sfondo”.2 Ancora: se

applichiamo la prima metafora, - il sé come entità singola e stratificata - “ha senso

approcciarlo come (...) una cipolla, tentare di situarne il ‘centro’ o il ‘cuore’, delinenarne gli

strati, differenziarne le parti autentiche da quelle false, la struttura protettiva e così via”.3

Se tuttavia “il sé si muove nel tempo piuttosto che esistere nello spazio non ha un nucleo

fisso”. La ricerca di un nucleo invariante o di un ‘vero’ sé, colto ai suoi inizi, nella sua

essenza presociale, al di sotto degli adattamenti e delle negoziazioni con altri, “implica

rimuovere il sé dal tempo, uno sforzo male indirizzato per rendere statiche le

organizzazioni mutevoli dell’esperienza del sé.” Può accadere che io mi senta più

autentico (o meno autentico, meno spontaneo o più stereotipato) in certi modi di agire o di

esprimermi, in certe occasioni o in certe situazioni: ma ciò non implica rinviare ad un

‘nucleo’, a un ‘vero’ o ‘un ‘autentico’ me. “Facciamo esperienza di noi stessi nel tempo.

1 Per una critica stringente, sul piano filosofico, dei presupposti e delle implicazioni dell’approccio relazionale

vedi il recente lavoro di J. Mills, Conundrums. A Critique of Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York 2012. 2 S. A. Mitchell, Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York 1993: 101-104.

3 Ibidem: 101.

2

Possiamo valutare una nuova esperienza in termini di continuità o discontinuità col

passato e il presente; una nuova esperienza può rappresentare ed esprimere la propria

storia e la situazione presente oppure negare e tradire la propria storia e condizione

presente o ancora riformulare la propria storia e condizione presente in un modo nuovo e

arricchente. Il senso di autenticità è sempre una costruzione, e come costruzione è

sempre relativa ad altre possibili costruzioni del sé in ogni tempo particolare.”4

Con tutto questo - chiariva Mitchell - non può negarsi anche l’esistenza di un senso o di un

vissuto di continuità nell’esperienza del sé, indipendente dai cambiamenti nel tempo, in

forza del quale mi rappresento, ad ogni istante, come un Io identico, a cui rimandano i miei

ricordi in passato e che proietto nel mio futuro. Questo sentire è anche condizione di un

senso di agency, di continuità e responsabilità nell’agire, e ancora della possibilità di

imporre un’ordine di priorità a scopi impulsi e motivazioni, il non sentirsi trascinati qua e là.

Ciò è vero anche se non è semplice, all’atto pratico, stabilire quanto vi sia in tutto questo

di soggettivo o propriamente oggettivo. “Può essere che io faccia tutto ciò che faccio, ma

può anche essere che io faccia certe cose in contesti esperienziali del tutto diversi da

quelli in cui faccio altre cose. L’Io che fa cose diverse è un Io diverso in tempi diversi”.5 E

In ogni caso questa maniera di rappresentarsi del sé come agente autonomo e separato

non pare rispondere - Mitchell cita qui Clfford Geertz - a un’istanza evolutiva di tipo

universale quanto, piuttosto, a un dato culturale:

La concezione occidentale della persona come un universo motivazionale e cognitivo

delimitato, unico, più o meno integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emozione,

giudizio e azione organizzati in un insieme distinto e contrapposto sia ad altre entità simili

sia al contesto sociale e naturale è, per quanto incorreggibile ci sembri, un’idea

abbastanza peculiare nell’insieme delle culture mondiali.6

Può a questo punto suonare discordante, dopo tanti argomenti a favore di un sé

relazionale e molteplice, che le conclusioni di Mitchell siano da ultimo caute. “Potrebbe

ritenersi” - leggiamo infine - “che il senso di continuità nell’esperienza del sé sia totalmente

illusorio. Esso però assolve, almeno nella nostra cultura, a un’importante funzione

adattiva” E d’altra parte i due modi di rappresentare il sé - come molteplice e discontinuo,

e come integro, continuo e separabile, non sono reciprocamente esclusivi. “Le persone

4 Ibidem: 130-131. Anche le nozioni di Winnicott di ‘vero‘ e ‘falso’ sé riferite al rapporto del bambino col seno,

secondo Mitchell, “sono un importante punto di partenza ma si tratta di una situazione troppo semplificata quando si considera l’esperienza adulta. Tutte le motivazioni personali hanno una lunga storia relazionale, il sé è sempre immerso in contesti relazionali, attuali o interni, perciò tutte le motivazioni importanti sono apparse e hanno preso vita e forma in presenza e attraverso le reazioni di altri significativi.” (Ibidem: 134) 5 Ibidem: 109.

6 C. Geertz, “From the Native’s Point of View: On the Nature of Anthropological Understanding” in Local

Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York 1979: 59, citato da S. Mitchell, op. cit.: 110. Vedi anche quanto scrive J. Engler, “Being Somebody and Being Nobody: A Reexamination of the Understanding of Self in Psychoanalysis and Buddhism” in J. D. Safran (a cura di), Psychoanalysis and Buddhism. Un Unfolding Dialogue, Wisdom Publications, Boston: 51: “Nelle culture da cui il Buddismo è emigrato verso occidente, preminentemente in India e Giappone, il senso del sé è molto più mescolato con gli altri in un ‘senso del noi’ che è profondamente differente dall’’Io-sé’ separato ed autonomo dell’esperienza occidentale. Il sé è esperito come incorporato in una matrice di relazioni e come definito da tali relazioni, non solo la matrice delle relazioni umane e sociali ma la matrice più comprensiva delle relazioni all’interno del mondo della natura, e da ultimo il cosmo nel suo insieme”.

3

agiscono sia in modo discontinuo che in modo continuo. (...) In ogni momento dato una

persona opera a partire da un determinato contesto relazionale (...); al contempo quella

specifica versione del sé contribuisce a dar forma a una sequenza continuativa di

esperienza che ha le sue caratteristiche distintive. (...) Pensiamo al sé come alla sequenza

dei fotogrammi di un film. In ambedue i casi l’esperienza del movimento e della continuità

è un’illusione. Ma “l’illusione” “crea un’esperienza che ha una grande ricchezza soggettiva

in proprio, producendo un’immagine più ampia e ‘in movimento’ molto diversa (e molto

maggiore) della semplice somma delle immagini singole”. Similmente nel percorso

analitico “quanto più l’analizzando può tollerare di esperire versioni molteplici di se stesso,

tanto più si vivrà come forte, duraturo e capace di resilienza. E reciprocamente quanto più

l’analizzando ritrova dei tratti di continuità nel passaggio tra le sue varie esperienze, tanto

più può reggere la diffusione di identità implicita nel far convivere molteplici versioni del

sé”.7

Resta comunque, del discorso di Mitchell - e, se si vuole, anche in virtù delle sue

conclusioni - il punto forse più innovativo. Che si privilegi l’aspetto della discontinuità e

molteplicità o invece quello della continuità, il sé viene a perdere in ogni caso qualsiasi

carattere sostanziale per riproporsi come mera rappresentazione: capace, proprio per

questo, di più versioni e modi di esperienza possibili, nessuna eguagliabile a un ‘vero sé’.

Un corollario di questa innovazione è un diverso approccio ai temi dello sviluppo. Così

l’idea di un sé preesistente alla nascita il cui realizzarsi può solamente essere facilitato o

impedito lascia spazio all’ipotesi di più percorsi possibili grazie al convergere tra

potenzialità del bambino e influsso prevalente dell’uno o l’altro caregiver.8 Inoltre - si fa

ancora osservare - già negli scritti di Winnicott, l’opposizione tra sé ‘vero’ e ‘falso’ viene

formulata anche come antitesi fra non-integrazione - la possibilità per l’infante di rilassarsi

e abbandonarsi all’esperienza del gioco alla presenza rassicurante della madre - e

necessità di reagire, in modo prevalente, a stimoli o intrusioni esterne. In quest’ultimo caso

- ma solo in questo (ad esempio quando debba far fronte ad una madre angosciata o

depressa) - il bambino isola un proprio mondo privato (il suo ‘vero sé’) fino a nasconderlo

perfino a se stesso e si concentra sulla gestione del mondo esterno.9 Un ultimo modo,

infine, di ripensare quell’opposizione è prender atto della tensione costante, nel corso

della vita di ognuno, fra spontaneità e esigenza di conservare relazioni sicure10 (perciò

tener conto del proprio impatto sugli altri) o ancora fra agentività e relazionalità11 o fra

7 S. Mitchell, op. cit.: 115-116.

8 Ibidem: 129.

9 Scriveva Winnicott : “Soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la

propria vita personale. L’alternativa patologica è una vita falsa costruita su reazioni agli stimoli esterni. Quando è solo, nel senso suddetto, e solamente quando è solo, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, e cioè è in grado di diventare non-integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un po’ senza essere né qualcosa che reagisce ad un urto dall’esterno, né una persona attiva con una direzione d’interesse o di movimento. (...) Solamente in queste condizioni il bambino può avere un’esperienza e sentirla come reale. Un gran numero di tali esperienze formano la base di una vita reale e non futile.” (D. W. Winnicott (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando, Roma 1974: 36.). In età adulta situazioni analoghe di ‘non-integrazione’ in presenza d’altri (o relazionalità non reattiva) saranno condizioni per una crescita di creatività. (Cfr. M. Masud R. Khan, “On Lying Fallow” in Hidden Selves, Hogart Press, London 1983: 183-188.) 10

S. Mitchell, op. cit.: 133. 11

J. D. Safran e J. C. Muran, op.cit.: 39.

4

efficacia e esigenze di sicurezza.12 Il contrasto non è analizzabile in termini di contenuti

(come nella vecchia teoria freudiana delle pulsioni dove l’Es è tenuto a bada da Io e

Superio) e neanche in termini di priorità precostituite (come nell’ipotesi del ‘vero’ sé), ma

nella maggiore o minore capacità di un negoziato flessibile fra le due istanze. Questa

formulazione è già compatibile con un quadro teorico che all’antitesi ‘sé’ vero o falso’

sostituisca l’assunto di “numerosi stati del sé che lottano per dominare nello stato di

coscienza in un determinato momento”.13

E appunto questo - di una pluralità originaria di stati del sé - è l’assunto che ispira, in modo

forse anche più radicale del lavoro di Mitchell, il secondo contributo importante che va qui

ricordato - gli scritti sulla dissociazione di Philip Bromberg. L’esperienza di unità e

continuità del sé, per Bromberg, è senz’altro illusoria e “è generata dalla capacità

evoluzionistica della mente di radicare la coscienza in una delle configurazioni di stati del

sé che risultano più adattive in quel momento”.14 Di fatto “l’esperienza di sé si origina da

stati del sé relativamente isolati fra loro, ognuno con una propria coerenza interna” ma

“quando (...) tutto procede bene una persona è solo vagamente e momentaneamente

consapevole dell’esistenza di stati del sé individuali e delle loro rispettive realtà: questo

perché ognuno funziona come parte di una salutare illusione di identità personale unitaria

- uno stato cognitivo ed esperienziale sovraordinato sentito come ‘me’.” In questi termini

“la dissociazione (...) è una funzione sana e adattiva della mente umana. E’ un processo di

base che consente agli stati individuali del sé di funzionare in modo ottimale (e non in

modo semplicemente difensivo) quando ciò di cui abbiamo veramente bisogno o

desideriamo è una totale immersione in una singola realtà, in un singolo affetto forte, e

una sospensione della capacità autoriflessiva.”15

L’illusione di unità e di continuità così resa possibile - da questo genere di dissociazione

non difensiva - si caratterizza per il fatto di lasciar spazio alla capacità riflessiva e quindi

alla comunicazione anche con stati momentaneamente non in primo piano nell’esperienza

del sé. Bromberg usa l’espressione “restare negli spazi” per descrivere “la relativa

capacità della persona di ospitare in un dato momento una realtà soggettiva che non può

essere facilmente contenuta dal sé che in quel momento sente come ‘me’”. Questa

capacità di comunicare, momento per momento, con esperienze del sé discrepanti è

anche condizione della comunicazione intersoggettiva, ossia della capacità che le persone

hanno - ancora una volta: se tutto procede bene - di aprirsi all’esperienza che altri fanno

di loro.

Ma a volte - anzi, piuttosto spesso - non tutto procede bene. L’immagine del sé rimandata

dall’altro (o - che è lo stesso - da altri stati del sé) “può essere sentita troppo discrepante

dall'esperienza di sé che si sta facendo in quel momento per far sì che entrambe possano

essere conservate in mente simultaneamente”. In questo caso la dissociazione si piega

alla funzione - solo difensiva - di conservare “le esperienze di sé eccessivamente

discrepanti in stati del Sé separati che non comunicano tra loro, per lo meno per un certo

12

J. Greenberg, Oedipus and beyond, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1991: 129 sgg. 13

J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 115-116. 14

P. M. Bromberg (2011), L’ombra dello tsunami, Cortina, Milano 2012: 100. 15

P. M. Bromberg (1998/2001), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano 2007: 211.

5

periodo”; e può trattarsi di un periodo breve, per affrontare una situazione momentanea di

stress, ovvero più lungo o dell’intera esistenza. L’illusione di unità e continuità del sé ha

allora come condizione proprio il persistere della struttura dissociativa:

La mente/cervello organizza i suoi stati come un sistema protettivo che tenta,

proattivamente, di zittire l'accesso esperienziale a stati del Sé discrepanti con la gamma di

stati, limitati dissociativamente, di cui si fa esperienza in un dato momento come "me".

Questo rigido sequestro di stati del Sé per mezzo di una struttura mentale dissociativa è

talmente centrale per la personalità di alcuni individui che, virtualmente, modella tutto il

funzionamento mentale, mentre per altri il suo range è più limitato. Ma, a prescindere dalla

misura o dal range, la sua funzione evoluzionistica è di assicurare la sopravvivenza della

continuità del Sé relegando il funzionamento riflessivo a un ruolo minore, o a nessun

ruolo.16

Ciò è quanto accade, tipicamente, in occasione di traumi - sia traumi gravi (abusi sessuali

o fisici) sia, soprattutto, di traumi evolutivi: in questo caso, agendo ancora una volta al

servizio della continuità del sé e perciò conformandosi ai primi modelli di attaccamento,

saranno dissociati gli stati del sé ignorati o disconfermati dai genitori. Questi stati saranno

esclusi in permanenza dalla comunicazione in quanto non mentalizzati all’origine - non

confrontati col loro modo di apparire nella mente dell’altro - pertanto tendenzialmente non

simbolizzati sul piano cognitivo e quindi non recuperabili a un’unità del sé garantita

dall’autoriflessione (il mancato operare della comunicazione intersoggettiva sarà in questo

caso non conseguenza ma proprio l’origine della frattura dissociativa). Ne seguirà un

sentimento inguaribile di inautenticità imputabile, come visto sopra, non al tradimento del

‘vero sé’, ma all’eslcusione di un qualsiasi stato o aspetto del sé dall’esperienza

interpersonale.

Il Sé vissuto come vero è sentito essere sempre quello che sta bussando alla porta - la

voce interna antagonista, udita ma non "pensata" (Bollas, 1987). Questa voce viene

sentita inevitabilmente come più vera sul piano soggettivo semplicemente perché essa

contiene una "verità" diversa ma non formulata - una visione alternativa della realtà che

viene negata al sé che sta intrattenendo rapporti con il mondo, rendendolo così limitato sul

piano relazionale e compromesso nella possibilità di sentirsi autentico. Come ha detto

Mitchell (1993), "ciò che può sembrare autentico nel contesto di una versione del sé può

essere completamente inautentico rispetto ad altre versioni".17

2. Dopo questo richiamo, indispensabile per inquadrare il discorso, ai contributi della

psicoanalisi relazionale - ci si è limitati, a fronte di una produzione ormai molto ampia, a

due autori particolarmente influenti e significativi - si può dar spazio agli interventi

propriamente ispirati alla tradizione buddista. Qui la natura illusoria o piuttosto ingannevole

dell’unità e continuità del sé non è più solo ricondotta all’onnipresenza delle dinamiche

dissociative - così efficacemente illustrate da Bromberg - o all’intreccio relazionale delle

16

P.M. Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 14-15. 17

Ibidem: 128.

6

identità. In primo piano è invece il contrasto fra la preoccupazione costante e pervasiva

che più o meno tutti ci caratterizza - ma che è alla base, secondo il Buddha, di ogni

sofferenza - di preservare, proteggere, espandere il sé, e il dato radicale della sua

impermanenza, non autonomia e non separatezza, al pari di ogni essere e di ogni cosa

esistente. E’ un fatto che se poniamo attenzione, momento dopo momento, al flusso della

coscienza a monte degli automatismi con cui di solito selezioniamo, organizziamo e

interpretiamo i dati percettivi, concettuali e affettivi non incontriamo alcuna entità duratura,

nessun soggetto o oggetto costante ma solo operazioni con cui, momento dopo momento,

a partire da quei dati elementari di continuo e sempre di nuovo strutturiamo in modo

dualistico la nostra esperienza opponendo insiemi di oggetti distinti l’uno dall’altro e dal sé.

Come osserva Jack Engler

Il costrutto-sé ... è incorporato nella caratteristica più profondamente radicata del pensiero

e della percezione umana: la tendenza a considerare ogni oggetto dell’esperienza o della

percezione come un’entità separata o una ‘cosa’ dotata della sua esistenza e identità

concreta e separata e solo in un secondo momento in relazione con altre ‘cose’. (...) Ma la

‘cosalità’ o la ‘esistenza inerente’ è in realtà un’imputazione o un’attribuzione, non una

caratteristica delle ‘cose. (...) Come scrive la studiosa buddista Anne Klein “Le cose

semplicemente sembrano odorano e si fanno gustare come più solide individuabili e

intrisecamente disponibili di quanto in realtà non siano.” (...) Questa “attribuzione non

pensata di inerenza” a sé e agli altri è la “ontologia vissuta che sottosta ad ogni altra

esperienza di seità, inclusi i moderni sé psicologici” e specialmente la rappresentazione in

parte conscia in parte inconscia del sé come entità singola, unica e separata “collocata nel

profondo di noi stessi”.18

Detto in altri termini:

Il sé dell’uomo è un’azione: è qualcosa che facciamo per unificare la nostra soggettività

nello spazio e nel tempo, separandola dal flusso dell’esperienza e creandole un confine

intorno. Qualche volta facciamo questo consapevolmente, ma la maggior parte delle volte

lo facciamo senza avere consapevolezza del sé attraverso micromovimenti nelle nostre

percezioni che creano l’impressione di essere “qui dentro”, mentre qualcos’altro è “là

fuori”.19

La riduzione o decostruzione del sé che in questo modo si avanza è dunque più radicale

della innovazioni della psicoanalisi relazionale: il sé non soltanto è plurale e molteplice,

diversamente declinato per situazioni e rapporti; non solamente è rappresentazione, ma si

dà solo come relazione, come momento subordinato di questa - non c’è alcun ‘dentro’ se

non opposto a un ‘fuori’, non c’è alcun ‘io’ se non diretto a un ‘tu’20 - coinvolto,

18

J. Engler, op. cit.: 88. 19

P. Young-Eisendrath, “Il ruolo del non-sé nella creatività” in A. Molino e R. Carnevali (a cura di), Tra sogni di Budda e risvegli di Freud. Esplorazioni in psicoanalisi e buddismo, ARPANet, Milano 2010: 91. 20

Per una sintesi della formulazione più radicale di questo approccio, dovuta a Nagarjuna, si può vedere il lavoro non più recente ma ancora di grande interesse di F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991, cap. V. Vedi anche G. Kopf, “Di fronte all’altro. L’intrico psichico in Dogen e Jung” in A. Molino (a cura di) (1998), Psicoanalisi e buddismo, Raffaello Cortina, Milano 2001: 190-191.

7

inevitabilmente, sempre di nuovo ricostruito e dissolto nel dinamismo di un continuo fluire.

La stessa idea di qualche genere di costanza o ‘esistenza inerente’ attribuibile al sé non è

originaria ma è già prodotto del ciclo del karma - della causazione21 - dove prevalgono i

due opposti moventi dell’attaccamento e dell’avversione; e a sua volta è causa di

sofferenza, come già detto, perché sempre smentita dall’impermanenza, non separatezza

e finitezza del tutto. Si tratta allora, mediante la pratica meditativa, di mirare al risveglio,

alla consapevolezza non solo cognitiva ma esperienzale22 di queste verità, e le

implicazioni propriamente psicologiche di tale pratica sono già rilevanti: perché

presuppongono un definitivo ridimensionamento del sé non più quale soggetto, ma come

oggetto di consapevolezza - l’opposizione, quindi, almeno potenziale, tra modi della

soggettività e funzioni dell’Io. Se quelli sono da porre in problema queste, proprio nella

pratica meditativa, sono il più possibile potenziate: primo, per decostruire i processi (più

che altro inconsci) di costituzione, autoaffermazione e difesa dell’identità di soggetti;

secondo per accertarne funzionalità o interferenze in vista del crescere della

consapevolezza.23

Su questo punto si è già fatto cenno agli automatismi che reggono, d’abitudine, il nostro

rapportarci ai dati di esperienza. La meditazione di consapevolezza24 ci rende consci del

loro carattere prevalentemente difensivo-reattivo; ossia della nostra propensione a

distanziarci dalle esperienze e ad attutirne e filtrarne l’impatto mediante un flusso

praticamente incessante di fantasie e di pensieri - la cosiddetta proliferazione mentale -

che ne rielaborano ovvero ne anticipano le implicazioni sotto il profilo dell’attaccamento o

dell’avversione (rimuginazioni intorno al passato, speranze e attese circa il futuro); e ne

riducono la novità e la ricchezza reinterpretandola secondo termini e coordinate già note.

L’intento, almeno a prima vista, è pararne il carattere sorprendente o frustrante ampliando

per quanto possibile il controllo dell’Io. Ma ciò cui spesso veramente si mira è

salvaguardare per quanto possibile la certezza e la continuità della rappresentazione del

sé; e ciò anche a spese, se necessario, di un confronto paziente e puntuale col dato

concreto e di un pieno incontro con le emozioni che davvero assicurerebbero, anche nelle

situazioni più complicate o frustranti, non una reazione semiautomatica ma una risposta

mirata, più pertinente e più efficace dell’Io. Scrive in proposito un autore buddista:

L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale

è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e

definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente. 21

Un’utile sintesi ancora in F. J. Varela et al., op. cit.: 110 passim. 22

Come osserva J. Engler (op. cit.: 93) una consapevolezza solo cognitiva comporta ancora il punto di vista di un sé separato. 23

Su tutto questo M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 86 sgg. e 117. 24

Si distinguono, più precisamente, pratiche di meditazione formale (attenzione al respiro, alle sensazioni del corpo, alle percezioni, ai pensieri) da svolgersi in posizione seduta oppure sdraiata o anche camminando; e pratiche di meditazione informale consistenti ad esempio, nell’apprezzare intensamente e a lungo, in tutte le sue sfumature il sapore di un cibo, la bellezza e i colori di un giardino, i dettagli di un percorso abituale, i singoli momenti e le sensazioni di qualsiasi attività come farsi la doccia o lavare i piatti. Soprattutto le pratiche formali, come quella descritta sopra relativa al respiro, intendono non tanto far crescere direttamente l’accettazione quanto renderci attenti al nostro resistere all’accettazione, al nostro continuo ‘sganciarci’ dall’adesione al presente. Su questo vedi C. Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994 : 157-158. Vedi anche più in generale Thich Nhat Hanh (1987), Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma 1992.

8

... Invece che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo

di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per

aver luogo ben di rado. ... Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza

ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che

essa ci appaia così come ce la raccontiamo. E dunque l’indugiare frequentemente in

pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare

‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto,

all’ignoto.. E così pure quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli

avremmo voluto dire, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura

e simili. ... Noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia ... noi vogliamo

parlare nella rabbia, pensare e immaginare nella rabbia anche se tutto ciò che diciamo è

prevedibile, anzi è importante proprio perché è prevedibile, noto, abituale. In questa

maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia ... ne rimaniamo separati da quella

barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.25

La libertà da che viene perseguita - su un piano, peraltro, solo immaginativo-ideativo -

come difesa ad oltranza di una rappresentazione costante e rassicurante del sé, mediante

gli automatismi della proliferazione mentale, è a spese, assai spesso, della libertà di - di

un esercizio competente e efficace delle funzioni dell’Io.26 Grazie alla pratica meditativa

possiamo apprendere tuttavia ad osservare i nostri pensieri e le nostre reazioni

automatiche, ma senza agirli e identificarci con essi. Così facendo sarà possibile,

progressivamente, evitare l’irrigidirsi e il consolidarsi (sempre a livello immaginativo-

ideativo) degli aggregati percettivo-affettivi del sé e degli oggetti, mentre al contempo

accoglieremo e lasceremo operare le nostre emozioni, ci apriremo all’emergere di spunti

diversi, amplieremo lo spazio di ideazione e di azione. L’unità o continuità del sé così

realizzabile, come osserva Mark Epstein, sarà assimilabile sempre meno a un’entità fissa

e sempre più a “un flusso di consapevolezza ... sempre in evoluzione ... un processo mai

del tutto concluso di autoscoperta e autocreazione” e l’io dovrà subordinare, per quanto

possibile, a questa fluidità processuale ogni pretesa alla stabilità.

L"Io' è il veicolo individuale per attuare questi incontri, ma anch'esso non ha un'identità

intrinseca. Un lo sano inizia, si avvicina, stabilisce un contatto e si dissolve, per poi iniziare

il ciclo di nuovo. Un lo disturbato frappone ostacoli e interferisce con il contatto sano,

perpetuando la propria realtà a spese dell'interazione. (...) L'Io che è di ostacolo non

giunge mai alla trasparenza; il risultato sarà una persona contratta per la propria

sensazione di inadeguatezza. Un senso positivo del sé emerge solo quando l'Io permette

a se stesso di dissolversi.27

Di fatto facciamo già tutti quotidianamente esperienza - chi più chi meno - di questo

genere di fluidità o consapevolezza adualistica o priva di sé (più precisamente:

consapevolezza senza coscienza riflessiva del sé). Guidiamo l’automobile o qualche altro

25

C. Pensa, L’intelligenza spirituale, Ubaldini, Roma 2002: 30-32. 26

Spesso ma, ovviamente non sempre: gli automatismi della mente includono infatti primariamente, le attività di categorizzazione e astrazione che sono indispensabili all’apprendimento, alla previsione e alla sopravvivenza adattiva. 27

M. Epstein (2001), La continuità d’essere, Ubaldini, Roma 2002: 28-29.

9

veicolo adattando l’andatura alla situazione ed evitando possibili ostacoli senza necessità

di riflettere; ‘ci perdiamo’ nella contemplazione di uno spettacolo naturale, di una persona,

di un’opera d’arte o nel rapporto sessuale. Se sappiamo suonare uno strumento

muoviamo spontaneamente le mani nel modo giusto; similmente se siamo veramente

esperti in un arte marziale rispondiamo senza riflettere ma in modo del tutto adeguato alla

mossa dell’avversario.28 In tutti questi casi non siamo consci di noi stessi ma siamo

consapevoli, sintonizzati alla realtà del momento. Pensieri, sentimenti azioni avvengono

ma non sono esperiti come originantisi in o da “me”. Avvengono semplicemente in risposta

alle esigenze del momento per conto loro, senza forza o intenzione cosciente.29

Ancora Epstein insiste a lungo sull’affinità fra questo genere di disponibilità e fluidità

esperienziale - resa possibile da un alto grado di flessibilità o ‘trasparenza’ dell’Io - ed il

recupero, in età adulta, di uno stato di inintegrazione affine alla continuità d’essere

dell’infante (di cui parla Winnicottt) che può abbandonarsi all’esperienza del gioco potendo

contare sull’attendibilità della madre. Si è già detto sopra che questo stato di non-

integrazione - che riesce possibile, in età adulta, solo come resa30 o piena adesione al

presente31 - è quanto di più simile possa pensarsi, in un’ottica relazionale, a un’esperienza

del ‘vero’ sé. Anche per una psicoanalisi del non-sé ispirata al buddismo non c’è

ovviamente alcun vero sé se non nel “processo mai del tutto concluso di autoscoperta e di

autocreazione” (di cui parla Epstein) reso possibile da questa adesione. O se si vuole -

come appena visto - il ‘vero sé’ è il venir meno dell’autocoscienza messa a guardia

dell’autocentramento del sé”32; o ancora, in termini kohutiani, “per il non-sé tutte le

esperienze sono esperienze mature di oggetti-sé.33

Che dire, infine, in una prospettiva junghiana? Il netto rifiuto degli autori buddisti di

riconoscere al sé qualunque genere di consistenza ‘ontologica’34, e l’insistenza nel non

vedervi di più che una rappresentazione (per giunta, in linea di massima fuorviante e

ingannevole) suona, a ragion veduta, in aperto contrasto con la nozione junghiana del Sé

quale ‘centro’ della totalità psichica e ancor di più, in quanto meta del processo di

invididuazione, quale portatore di un senso. Ma a fronte di ciò, e anche tralasciando le

affinità, rilevate da Jung,35 tra la propria psicologia e il cammino buddista, occorrerebbe

28

G. Kopf, op. cit.: 193. 29

J. Engler, op. cit: 60.61. 30

Sul tema della resa vedi l’ottimo studio di E. Ghent, “Masochism, Submission, Surrender: Masochism as a Perversion of Surrender” in S. A. Mitchell. L. Aron (a cura di) Relational Psychoanalysis. The Emergence of a Tradition, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 211-242. 31

L’insistenza sull’attenzione esclusiva al presente, implicita in questa concezione, è ben illustrata dal famoso koan Zen: “In questo preciso momento, non pensando né al bene né al male, mostrami il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori”. “Essendo andati oltre il dualismo, oltre ‘il pensare il bene ed il male’ c’è un vero sé essenziale? Budda ha insegnato che il sé è ‘vuoto’, che non ha assolutamente natura fissa o essenziale. Tutto quello che c’è è ciò che le stesse parole di apertura del koan ci dicono: essere proprio questo momento è il nostro vero sé. Il nostro volto originario non può essere altro che il volto di questo momento”. (B. Magid, “Your Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 265-266) 32

P. A. Ringstrom, “Psychoanalysis and Buddhism: Two Extraordinary Paths to An Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 288. Così, prendendo le distanze da Winnicott, anche M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 68-69. 33

B. Magid, op. cit.: 271. 34

Vedi in proposito di nuovo J. Engler, op. cit.: 52. 35

C.G. Jung (1939), “Prefazione a D.T. Suzuki, ‘La grande liberazione. Introduzione al buddismo zen’” in Opere, XII, Boringhieri, Torino 1979: 549-567.

10

ancora considerare tre aspetti. 1) Col segnalare la finalità difensiva (della continuità e della

sicurezza del sé) del pensare per segni - cioè del ridurre il vissuto al concetto, il nuovo, il

particolare e l’affettivamente pregnante all’astratto e al già noto) il pensiero buddista

mostra di privilegiare un’attenzione al concreto, al differente, al non riducibile che è

rispetto profondo (come ancora vedremo) di ogni alterità ma è anche del tutto affine, nel

contesto junghiano, all’esperienza simbolica - al modo proprio di manifestarsi dell’alterità

dell’inconscio. 2) L’idea di un sé solo processuale che non conosce un’identità

precostituita ma che si esplica e con ciò stesso si scopre, momento dopo momento, solo

nella pratica dell’accettazione, cioè nella piena adesione al presente, è molto simile

all’idea junghiana di individuazione come ricerca/accettazione del corpo, della propria

forma, e del proprio limite. 3) Infine Jung mette in relazione la sua nozione del sé con

l’idea buddhista di una ‘coscienza della coscienza’:

La possibilità che esistano vari stadi nello sviluppo della coscienza non ci viene nemmeno

in mente; il solo pensiero che esista una forte differenza psicologica fra la coscienza

dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto assomiglia

molto da vicino a un cavillo che appena merita risposta. (...) Furono lo yoga in India e il

buddhismo in Cina a dare l’avvio a questi tentativi di strapparsi alla cattività di un dato

stato di coscienza, sentito come imperfetto. Per quanto riguarda la mistica occidentale i

suoi testi sono pieni di istruzioni sul modo in cui l’uomo possa e debba liberarsi dell’essere

Io della sua coscienza, onde elevarsi, per mezzo della conoscenza della sua natura, al di

sopra di questa e raggiungere l’uomo interiore (divino). (...) Questo nuovo stato di

coscienza derivato dalla pratica religiosa si distingue per il fatto che le cose esteriori non

influiscono più su una coscienza fatta di Io ... ma che una coscienza vuota è aperta a

un’influenza diversa. Questa influenza “diversa” non è più sentita come attività propria, ma

come quella di un non-Io il cui oggetto è la coscienza. E’ come se il carattere soggettivo

dell’Io fosse stato sopraffatto o assunto da un altro soggetto che si fosse messo al posto

dell’Io.36

L’obiezione buddhista a a queste note di Jung sarebbe che una ‘coscienza della

coscienza’ che la ponesse a oggetto di un altro soggetto sarebbe appunto coscienza di un

oggetto (di quella stessa coscienza oggettivata) non della coscienza colta nel suo operare

come “carattere soggettivo dell’io” o soggettività conoscente; allo stesso modo in cui

l’occhio può vedere se stesso come oggetto riflesso in uno specchio ma non nell’atto del

suo vedere. Ne segue che se si vuole pensare il Sé come ‘coscienza della coscienza’37

non si può porlo come ‘altro soggetto’ cui si oppone un oggetto. Come chiarisce assai

bene Engler

non posso osservare direttamente il mio sé osservante. Se lo faccio ... muto soltanto l’atto

della consapevolezza in un altro oggetto di consapevolezza in una regressione all’infinito.

... (...) Il sé che io rappresento, il “sé” che io posso conoscere o afferrare non è mai “me”.

L’occhio che vede, dice lo Zen, non può vedere sé stesso. E infine è chiaro: non possiamo

staccare il nostro “sé” dalla consapevolezza perché siamo quella consapevolezza.

36

Ibidem: 555-556. 37

Ibidem: 553.

11

In questo senso la consapevolezza non è semplicemente una funzione dell’Io. (...) La

consapevolezza in quanto tale non può mai essere oggettivata, colta come un oggetto,

identificata coi contenuti della coscienza, rappresentata come “questo o “quello”. E’ di

natura fondamentalmente diversa: senza qualità, senza limiti, senza confini: (...) In

essenza Io non sono nulla che possa essere nominato o pensato, rappresentato o negato,

trovato o perso. “Chi sei” dice Sri Nisargatta Maharaj, “è indefinibile e indescrivibile. La

consapevolezza soggettiva è ciò che rende possibile l’esperienza, ma non è essa stessa

esperienza. (...) la piena realizzazione di ciò è la consapevolezza non dualistica come

proprio stato naturale. L’identificazione con ogni rappresentazione o attività di un sé

separato diviene impossibile”.38

E’ però interessante che altrove lo stesso Jung si avvicini molto a questa prospettiva:

Proprio come l’Io è una certa esperienza di me stesso, così il Sé è un’esperienza del mio

Io, vissuta però non più nella forma di un Io più vasto e più alto, ma in forma di un non-

Io.39

E ancora, più diffusamente:

Poiché il numero di possibilità è limitato si raggiunge ben presto una frontiera, o piuttosto

frontiere che arretrano una dopo l’altra presumibilmente fino al momento della morte.

L’esperienza di queste frontiere conduce gradualmente alla convinzione che quanto viene

esperito è un’interminabile approssimazione. Lo scopo di questa approssimazione sembra

essere anticipato da simboli archetipici che rappresentano qualcosa come la

circumabulazione di un centro. Al crescere dell’approssimazione al centro c’è un

corrispondente depotenziamento dell’Io a favore dell’influenza del centro “vuoto” che certo

non coincide con l’archetipo ma è ciò cui l’archetipo mira. Come direbbero i Cinesi,

l’archetipo è soltanto il nome del Tao, non il Tao in sé. Così come i Gesuiti traducevano

Tao come “Dio” così noi possiamo descrivere la “vuotezza” del centro come “Dio”.

Vuotezza in questo senso non significa “assenza” o “vacanza” ma qualcosa di

inconoscibile dotato della più elevata intensità. Se io chiamo questo inconoscibile “Sé”

tutto ciò che è accaduto è che gli effetti dell’inconoscibile hanno ricevuto un nome

aggregato, ma i suoi contenuti non ne sono affetti in alcun modo. Una parte

indeterminabilmente ampia del mio stesso essere è inclusa in esso, ma poiché questa

parte è l’inconscio non posso indicare i suoi limiti e la sua estensione. Il sé è pertanto una

concetto liminare, in alcun modo riempito coi processi psichici noti.40

3. Al terzo punto di questa esposizione sono le implicazioni di un pensiero analitico

ispirato al buddhismo per l’ascolto e la pratica psicoterapeutica. Anche in quest’ambito è

indiscutibile un nesso di continuità fra autori buddhisti e psicoanalisi relazionale (a sua

38

J. Engler, op. cit.: 66. 39

C. G. Jung, op. cit.: 553. 40

C. G. Jung, Letters, Routledge, London 1975, II: 258, traduzione mia.

12

volta vicina, per una serie di aspetti, alle posizioni originali di Jung41

). Sé del paziente e sé

del terapeuta sono intesi ambedue come relazionali e molteplici e ’normalmente o

patologicamente dissociativi’42 (nel senso già visto di Mitchell e Bromberg), e come tali si

esprimono e operano anche all’interno della relazione analitica. Il terapeuta, in particolare,

non si può ergere a ‘osservatore oggettivo’ - colui che ‘sa’ i contenuti dell’inconscio - né

l’attitudine del paziente verso di lui si può spiegare, in modo esauriente, come distorsione

dovuta al transfert. L’incontro analitico vive invece del gioco sempre irripetibile

dell’interazione fra quel paziente e quell’analista e della loro influenza reciproca (deve

restare, perciò, una questione aperta in qual misura questa interazione segua modelli

caratteristici di altre relazioni della vita del paziente); e il compito del terapeuta - che può

definirsi di osservatore partecipante - è 1) monitorare al meglio i propri sentimenti, le

proprie reazioni, anche le proprie sensazioni fisiche, 2) guidare, a partire di qui

un’osservazione congiunta di quanto accade volta per volta nel qui ed ora della relazione

per trarne ipotesi sui processi psichici del paziente. Da ripensare è anche il vecchio

concetto di ‘resistenza’, che non può più soltanto indicare una generica difficoltà del

paziente a divenir consapevole di certi sentimenti o emozioni ma deve includere anche il

contributo eventuale del terapeuta: ossia “esplorare che cosa il paziente teme che accada

se tali emozioni vengono espresse nel qui ed ora della relazione terapeutica”.43

La differenza essenziale tra questo approccio e quello della psicoanalisi tradizionale suole

riassumersi nel venir meno di ogni finzione o di ogni pretesa di ‘oggettività’ per il terapeuta

“relazionale. Ma ‘oggettività’ (o meglio: assenza di oggettività) si può ancora intendere in

una doppia accezione. Come mancanza di referenti o evidenze per il lavoro analitico il cui

significato sia indiscutibile, in quanto univoco e palese per tutti: non-oggettività, allora, col

significato di relatività, o impossibilità, intesa dal vertice dell’analista, di non trasferire

nell’interpretazione il carico della sua psicologia personale. O ancora, declinata invece dal

vertice del paziente, come portato dalla natura interpersonale del lavoro analitico che

come tale vuol rivolgersi all’altro nella sua differenza e nella sua unicità; nel suo sottrarsi,

pertanto, sempre e di continuo all’oggettivazione, a qualsiasi genere di omologazione

teorica e ad ogni riduzione a categorie ed a concetti con la conseguenza di destabilizzare

lo stesso analista: frustrandone le velleità di conoscenza e controllo, anche i bisogni di

distanziamento fra sé e il paziente, ed attraendolo a sua volta a coinvolgersi nella totalità e

quindi anche nell’assoluta specificità della propria persona.44 Lewis Aron, sulla scorta di

Winnicott e Jessica Benjamin,45 descrive proprio in questi termini l’andamento alternante -

fra oggettivazione e intersoggettività - della relazione analitica:

41

Sul punto vedi, da ultimo W. Colman, “Bringing it all back home: how I became a relational analyst”, The Journal of Analytical Psychology, 58, 4, Sept. 2013: 470-49. 42

Bromberg precisa, a questo proposito che il trauma evolutivo (o trauma relazionale) come egli lo intende “fa parte del processo di modellamento dei precoci pattern di attaccamento (incluso l'’attaccamento sicuro’), che a sua volta determina quelli che Bowlby (1969,1973,1980) chiama ‘modelli operativi interni’. (...) Vale a dire che il trauma connesso all'attaccamento è parte dell'esperienza passata di tutti e un fattore centrale in ogni trattamento; per alcuni pazienti però ha portato a una struttura mentale dissociativa che si è impossessata del funzionamento della personalità e della vita mentale, imponendo quindi la "Verità" su presente e futuro.” (P. M Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 71 e 103-104. 43

J.D. Safran. J. C. Muran, op. cit. : 100. 44

I riferimenti filosofici d’obbligo sono qui M. Buber (1984), “Io e tu” in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997 e E. Lévinas (1971), Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977. 45

Aron rimanda, in particolare, a D. W. Winnicott, “L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” in Gioco e realtà, Armando Armando, Roma 1974 e all’interpretazione di questo lavoro (come superamento dell’oggettivazione e come scoperta della soggettività della madre/altro) proposta da J.

13

Suggerisco che la relazione intersoggettiva sia continuamente interrotta tra le persone -

anche tra paziente e analista - scambiandola per una relazione soggetto-oggetto, e che

poi la relazione intersoggettiva sia ristabilita. Credo che l’intimità non coincida con

l’intersoggettività ma che, piuttosto, trascenda questa relazione dialettica. L’intimità implica

la sopravvivenza e il sostentamento di questa relazione tramite la continua creazione e

distruzione dell’intersoggettività.46

L’alternativa - o, più radicalmente, l’antidoto - al ‘pregiudizio’ dell’analista, in questa

prospettiva non è soltanto una comprensione più completa e migliore, resa possibile -

come propongono ad esempio Safran e Muran47 - in una sorta di dialogo ermeneutico; è

un coinvolgimento con la persona o l’esser soggetto dell’altro che ci mantiene in tensione

verso di lui, incessantemente in ascolto perché ci sollecita di continuo all’interpretazione

ma ci fa vivere via via come impropria e virtualmente insoddisfacente ogni comprensione o

qualsiasi giudizio. Questa visione - che riprende, incidentalmente, quasi alla lettera le

prescrizioni di Bion sulla capacità negativa e sulla necessità di astenersi (per l’analista) da

attività mentale, desiderio e memoria48 - è in sintonia con la dottrina buddhista, riferita

sopra, sui rischi della proliferazione mentale e sulle finalità difensive - per la stabilità della

rappresentazione del sé - della omologazione al già noto, a scapito delle capacità

percettive e dell’efficacia dell’Io. Qui infatti non si tratta già più - lo si è visto sopra -

soltanto di includere la soggettività conoscente (nel nostro caso quella dell’analista), come

nel primo approccio relazionale; quanto, piuttosto, di rendersene consapevoli e di

trascenderla, per quanto possibile, come momento a sua volta relativo nella dualità

continuamente ricreata di soggetto ed oggetto del processo di conoscenza, dunque da

subordinare alla qualità e all’efficacia di questo. L’esito un po’ paradossale, e

però),innegabile, come ancora vedremo è alla fine il recupero, nella prima accezione del

termine, non di una pretesa ma di una tensione all’oggettività.

Per la psicoanalisi (e la psicologia analitica) ispirate al buddhismo ciò si è tradotto, molto

concretamente, non nel semplice invito a una disciplina mentale - come già in Bion - ma

nell’acquisizione al lavoro analitico e soprattutto al training quotidiano dell’analista di

pratiche tratte dalla meditazione di consapevolezza. A tali pratiche - a questo punto anche

dissociabili e dissociate, di fatto da un credo buddhista - o, meglio ancora al tipo e alla

qualità di attenzione che con esse si mira a far crescere e sostenere va il nome generale

Benjamin, “Recognition and Destruction: An Outline of Intersubjectivity” in S. A. Mitchell, L. Aron (a cura di), Relational Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 183-210, traduzione italiana parziale in J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello Cortina, Milano 1996. 46

L. Aron, A meeting of minds, The Analytic Press , Hillsdale and London 1996: 152 (traduzione mia); citato da J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 68. 47

J. D. Safran, J. C. Muran, op. cit. : 44-45. 48

Vedi soprattutto W. R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Armando, Roma 1973 e W. R. Bion (1965) Trasformazioni, Armando Armando, Roma 1973. Ma sono anche da ricordare i contributi di Marion Milner e Karen Horney: M. Milner, “The concentration of the body” in The suppressed madnes of sane men, Tavistock Publications, London & New York 1987: 234-240 e K. Horney, Final Lectures, ed. by D. Ingram, Norton, New York 1987: 19.21 citato da M. E. Miller, “Zen and Psychotherapy” in P. Young Eisendrath and S. Muramoto (a cura di), Awakening and Insight. Zen Buddhism and Psychotherapy, Brunner-Routledge, New York 2002: 85.

14

di Mindfulness (variamente tradotto con ‘presenza mentale’, ‘consapevolezza’ o anche

‘pienezza della consapevolezza mentale’). Tale attenzione è stata definita:

Focalizzata, cioè orientata in modo esclusivo verso un determinato oggetto ... (il proprio

respiro, un’amica con la quale stiamo parlando ... una sensazione corporea). E’ importante

che, quando ci si rende conto che l’oggetto stabilito non è più al centro del focus attentivo,

si compia ... una intenzionale rifocalizzazione dell’attenzione verso quell’oggetto dal quale

ci si è allontanati.

Rivolta al momento presente, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto ci si riesce)

verso l’esperienza che si sta vivendo qui ed ora: ogni volta che si diviene consapevoli che

la mente ci ha trasportato ... nel passato o nel futuro ... è importante che si attivi ... un

riposizionamento dell’attenzione sul momento presente.

Non categorizzante, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto si riesce, all’esperienza

in cui ci si trova, senza usare le categorie, le classificazioni, e i giudizi abituali per

comprenderla: ogni volta che si diventa consapevoli che la mente sta operando una

sistematizzazione di quello che sta accadendo in base a schemi pregressi, e importante

che si metta in atto ... un riorientamento dell’attenzione sulla qualità di novità

dell’esperienza, che di fatto possiede.49

Trasferita nel contesto analitico (sempre gli autori di ispirazione buddhista50 insistono

molto sulla sua affinità con la attenzione ugualmente sospesa prescritta da Freud51)

l’attenzione mindful ha di mira anzitutto le autodifese dell’analista - messe in atto,

comunemente, col ritirarsi dalla relazione, con l’assimilarla a situazioni trascorse o

proiettandola nel futuro, col neutralizzarne l’impatto emotivo mediante astrazioni - ogni

qualvolta la relazione stessa sia troppo frustrante, dolorosa o allarmante o comunque

coinvolga aree di forte vulnerabilità, facendo prevalere su un’attitudine recettiva una

risposta reattiva. Può però trasmettersi - per ragioni del tutto analoghe - dall’analista al

paziente (Wallin definisce la psicoterapia, sotto questo profilo, come una specie di

meditazione a due52) in modo tacito o per inviti espliciti: ad esempio col chiedere

ripetutamente al paziente di soffermarsi su ciò che sente in un determinato momento, di

provarsi a descriverlo nei dettagli e anche indicare dove lo sente (in quale area del corpo).

Lo sfondo che potremmo chiamare ‘umanistico’ (in effetti ancora vicino al buddhismo) di

questa pratica dell’attenzione è l‘accettazione non giudicante (la meditazione di

consapevolezza ha qui la funzione di renderci consci, momento dopo momento, dei giudizi

e delle risposte di rifiuto che rivolgiamo innanzitutto a noi stessi); e la compassione per

noi medesimi “che emerge quando diventiamo capaci di aprirci [anche] alle esperienze

dolorose”.53 In particolare: col trattare noi stessi gentilmente e senza giudicarci con

severità; riconoscendo che errori, fallimenti e avversità fanno parte della comune

49

G. Amadei, Mindfulness. Essere consapevoli, Il Mulino, Bologna 2013. 50

In particolare M. D. Epstein, “Sulla negazione dell’attenzione ugualmente sospesa”, in A. Molino, R. Carnevali (a cura di), op. cit.: 160-175) e M. Epstein (2007), Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio, Roma 2008: 95. 51

S. Freud (1912) “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, Opere, VI, Bollati Boringhieri, Torino1989,: 532-533. 52

D. J Wallin (2007) Psicoterapia e teoria dell’attaccamento, Il Mulino, Bologna 2009: 264. Questo testo, ai capitoli IX e XVII contiene una sintesi eccellente dell’approccio mindfulness in psicoterapia. 53

Ibidem: 283.

15

esperienza umana; mantenendo un’equilibrata consapevolezza di pensieri e sentimenti

spiacevoli, invece di evitarli, cancellarli o identificarsi eccessivamente con essi.54 Sempre

per Wallin una tale apertura tenderà ad autoconsolidarsi in quanto la consapevolezza

anche dei sentimenti dolorosi ne farà comprendere sempre di più la qualità transitoria

rendendoli, con ciò stesso, assai meno temibili; legando, di conseguenza, sempre di più

alla consapevolezza, più che a figure protettive interiorizzate o a determinati stati mentali il

nostro senso di sicurezza; ed evitando il sovrappiù di sofferenza sempre legato allo sforzo

di evitare il dolore.55

In termini più formali l’attenzione mindful mirerà a sospendere per quanto possibile gli

automatismi categorizzanti o ‘dall’alto in basso’ (dei quali a lungo si è detto sopra)

finalizzati alla previsione e alla sopravvivenza adattiva per dare spazio alla modalità

senso-percettiva (‘dal basso verso l’alto’) vuoi verso l’esterno (nel setting analitico:

l’espressione facciale, il tono di voce, le sfumature emotive, la postura corporea del

paziente) vuoi verso l’interno (pensieri, sentimenti, emozioni, anche stati fisici dell’analista

- osservati, però, e anche utilizzati, ma in modo equanime e ad una certa distanza, alla

stregua di eventi o stati transitori e dunque senza identificarsi con essi56). Questa

attenzione accrescerà l’efficacia (ai fini del cambiamento) del dialogo terapeutico con

l’ancorarlo più saldamente all’esperienza vissuta, ossia al qui ed ora più che alla semplice

riflessione o ricostruzione retrospettiva e al vissuto emozionale-corporeo oltre che alla

comprensione concettuale. Notano in proposito Safran e Muran:

Diversamente da quanto accade per un pensiero più concettuale, che può essere staccato

dall'azione, la conoscenza a livello corporeo ha sempre implicazioni per il passo

successivo all'attuale. Quando un individuo ha una nuova sensazione, dà a se stesso

un'irrefutabile informazione su quanto l'intera configurazione relazionale significhi

realmente per lui come organismo intero, e tale significato ha risvolti impliciti per l'azione.

(...) L'insight emozionale, o consapevolezza, comporta così la rivalutazione di un evento o

di un'esperienza in un modo che conduce al «che cosa vuoi dire per me ora». (...) Ciò

riflette il fatto che l'individuo conosce qualcosa in maniera differente, come un organismo

concreto, in interazione con l'ambiente circostante.57

54

K. D. Neff, “Self-compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself” in Self and Identity, 2: 85-101, 2003 citato da R. a. Baer, “la compassione di sé” in R. A. Baer (2010) a cura di, Come funziona la mindfulness, Raffaello Cortina, Milano 2012: 130. 55

D. J. Wallin, op. cit.: 263. 56

Su questo punto, veramente essenziale, vedi quanto scrive D.J. Siegel (2007), Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009: 25-26: “Da questo modo di essere riflessivo, mindful, emerge un processo fondamentale chiamato ‘discernimento’, in cui diventa possibile essere consapevoli del fatto che le attività della propria mente non sono la totalità di ciò che si è. Il discernimento è una forma di disidentificazione dall’attività della propria mente: quando diventi consapevole delle sensazioni, dei sentimenti e dei pensieri ... arrivi a vedere queste attività come delle onde che si muovono sulla superficie del mare della mente. Da questo luogo più profondo della mente, da questo spazio interno della consapevolezza mindful, è possibile notare come le onde superficiali del cervello vadano e vengano. Questa capacità di liberarsi dal chiacchiericcio della mente, di capire che queste sono “solo attività della mente”, è un’esperienza liberatoria e per molti perfino rivoluzionaria”. Vedi anche, dello stesso autore, The Mindful Therapist, Norton, New York & London 2010. 57

J.D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 63.

16

In questa linea, per richiamare un esempio recente, può rilevarsi un alto grado di

congruenza fra attitudine mindful e i contributi di Daniel Stern e del Boston Change

Process Study Group sul cambiamento in psicoterapia e la conoscenza relazionale

implicita. Si tratta di cogliere e valorizzare anche in questo caso il momento presente - i

cosiddetti now moments - con la totale disponibilità da parte dell’analista a mettersi in

gioco personalmente nella situazione, esponendosi senza difese ai suoi elementi di novità

e al suo impatto emotivo e offrendo così una risposta che attesti, per ambe le parti, la

saldatura di di un nuovo piano di sintonizzazione emotiva.

I momenti più interessanti sorgono quando il paziente fa qualcosa che è difficile

catalogare, qualche cosa che richiede una reazione nuova e diversa, contraddistinta da

una firma personale che fa condividere al paziente lo stato soggettivo dell’analista (affetti,

fantasie, esperienze reali ecc.). (...) Il terapeuta deve usare un aspetto specifico della

propria individualità, un aspetto che porta una connotazione personale. I due soggetti si

incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai

loro rispettivi e ordinari ruoli in terapia. Inoltre le azioni che costituiscono il “momento di

incontro” non possono essere consuete, abituali o tecniche; devono essere nuove e

forgiate per soddisfare le particolarità del momento.58

Vi sono da ultimo, per concludere, linee assai rilevanti di convergenza del pensiero

mindful con l’impostazione junghiana. Già l’insistenza sul non sottrarsi al confronto con

temi dolorosi o allarmanti e soffermarsi, al contrario, in un contatto approfondito con essi

risuona affine alla basilare prescrizione di Jung sull’importanza di ‘stare nel conflitto’

perché si produca un cambiamento spontaneo e più autentico - la cosiddetta funzione

trascendente (ciò sia nel conflitto esclusivamente interiore, sia nel confronto

intersoggettivo). In aggiunta a questo ritengo assai significative alcune considerazioni

recenti (penso, in particolare, all’ultimo libro di Maria Ilena Marozza59) sulla questione - a

cui si è qui solamente accennato - della tensione all’oggettività nell’ascolto analitico. In

sintesi, ritiene Marozza, si può pensare ad una base di oggettività in psicoanalisi a

condizione di fare spazio (esattamente come propone l’approccio mindful) alla dimensione

sensoriale-affettiva, che in ogni caso accompagna sempre la comunicazione verbale, la

completa, la qualifica e la precisa radicandola nello spessore psico-corporeo; ma si

differenzia, contestualmente, da essa perché non confluisce nell’astrattezza dei segni e

quindi non si offre, al pari di questi, all’immediatezza della comprensione linguistica. Essa

piuttosto trattiene nel concreto, contagia e provoca alla ricerca di una comprensione che

non può contare su di un sapere generalizzabile (ma quindi non può nemmeno venir

tradita o fraintesa in forza di preferenze teoriche o categoriali) ma obbliga - proprio come il

simbolo60 - a soffermarsi nell’esperienza e a esporsi a lungo al coinvolgimento e alla

58

Cfr. The Boston Change Study Group (2010), Il cambiamento in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano 2012: 15-16. 59

M.I. Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo 2012. Ma vedi anche M.La Forgia e M. I. Marozza, Le radici del comprendere, Fioriti, Roma 2005 e M. La Forgia e M. I. Marozza (a cura di), La conoscenza sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo 2008. 60

Sull’affinità fra impegno in chiave di ‘capacità negativa’ e esperienza simbolica ho scritto in G. Kaufman, “Il silenzio del padre nella relazione analitica. Bion, Jung e una rilettura del simbolico” in Il Padre. Parola Silenzio Trasformazione”, Atti dell’XI Convegno Nazionale del Centro Italiano di Psicologia analitica,

17

condivisione: e appunto qui, in questo tratto non riducibile di autoreferenzialità o

intransitività è quanto rende “la realtà dell’affetto ... la manifestazione fenomenica e del

tutto oggettiva, di una supponibile realtà dell’inconscio: poiché, come scrive Matte Blanco,

nulla ci conduce ad una chiara distinzione psicologica fra l’emozione e l’inconscio”.61 In

particolare, nello specifico della costruzione junghiana il nesso mai del tutto scindibile fra

strato sensoriale-affettivo e dimensione rappresentativa-ideativa, su fino al piano verbale-

razionale si salda nell’unità dei complessi e nel loro operare a differenti livelli di coscienza

cui corrispondono modalità qualitativamente diverse (ma tali da confrontarsi e completarsi

l’una con l’altra) di registrazione delle esperienze. Ne segue “la possibilità ... di insediare

l’ordine linguistico e la capacità di significare nell’ordine dell’esperienza soggettiva vitale e

diretta”.62 E in primo luogo di riscontrare le rappresentazioni logico-razionali ma in potenza

del tutto astratte del complesso dell’io (inclusa la distinzione che solo qui si rappresenta

compiutamente fra il sé ed il mondo) con quanto si esprime dai complessi secondari in

modo più indistinto ma impegnativo e pregnante dell’esistenza emozionale e sensoriale di

base.

Vivarium 2002. Sul coincidere fra esperienza simbolica e incontro con la “cosa in sé” vedi M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986: 80-83. 61

Scrive ancora Marozza: “Solo in questo senso possiamo tenere insieme il significato più profondo del termine inconscio, come ciò che non è conosciuto, ritenerlo eternamente tale e connaturato all'esperienza umana e nello stesso tempo considerarlo assolutamente influente e talmente oggettivo da poter essere la vera fonte dell'attività psichica, manipolabile dalla soggettività cosciente solo nella direzione da esso stesso consentita.” (M.I. Marozza, op. cit.: 210-211). 62

Ibidem: 207.

GIANNI KAUFMAN

SE’/NON SE’. INTRECCI TRA BUDDISMO E PSICOANALISI

SEMINARIO CIPA. MILANO 12 OTTOBRE 2013.

1. Oggetto del mio intervento è l’incontro - che risale almeno alla metà degli anni ’90 - fra

buddhismo, psicoanalisi e psicologia analitica e le ricadute o gli ulteriori sviluppi di questo

incontro riferibili essenzialmente a due temi: 1) sul piano teorico la natura o le

caratteristiche proprie del sé, 2) sul piano pratico la qualità della consapevolezza o

dell’attenzione in psicoterapia e il ruolo che in questo ambito può riconoscersi alla pratica

meditativa. Se si accantonano, ma solo momentaneamente, i contributi propriamente

junghiani - la teoria dei complessi e la metapsicologia del Sé - l’incontro fra psicologia

dinamica e l’impresa di decostruzione del sé della tradizione buddista si prepara anzitutto

con le proposte, al tempo assai innovative, della psicoanalisi relazionale.1 Già in un lavoro

del ’93 Stephen Mitchell (un autore non espressamente interessato al buddismo) notava il

succedersi nella tradizione psicoanalitica di due metafore per la rappresentazione del sé:

una metafora di tipo spaziale - quella di Freud - “il sé come stratificato, singolo e continuo

(...) la mente come un posto in cui le cose accadono, il sé come qualcosa in quel posto,

composto di parti o strutture costitutive”. E una metafora di tipo temporale, inclusa

dapprima nella teoria delle relazioni oggettuali e sostenuta, dopo di essa, dai vari approcci

di tipo relazionale. Qui il sé coincide con esperienze differenziate secondo l’ambito e la

qualità dei rapporti, e quindi è inteso come molteplice e discontinuo. “Poiché apprendiamo

a divenire persone mediante l’interazione con differenti altri e attraverso interazioni

differenti col medesimo altro la nostra esperienza del sé è discontinua, composta di

differenti configurazioni, differenti sé con differenti altri. (...) il risultato è un’organizzazione

plurale e multiforme del sé, modellata su differenti immagini o rappresentazioni del sé e

dell’oggetto, derivate da differenti contesti relazionali.” Così “i sé cambiano e si

trasformano continuamente nel tempo, e una singola vita è composta di più sé.

Un’esperienza del sé ha luogo necessariamente in un momento del tempo; essa riempie

lo spazio psichico e un’altra versione alternativa del sé sfuma sullo sfondo”.2 Ancora: se

applichiamo la prima metafora, - il sé come entità singola e stratificata - “ha senso

approcciarlo come (...) una cipolla, tentare di situarne il ‘centro’ o il ‘cuore’, delinenarne gli

strati, differenziarne le parti autentiche da quelle false, la struttura protettiva e così via”.3

Se tuttavia “il sé si muove nel tempo piuttosto che esistere nello spazio non ha un nucleo

fisso”. La ricerca di un nucleo invariante o di un ‘vero’ sé, colto ai suoi inizi, nella sua

essenza presociale, al di sotto degli adattamenti e delle negoziazioni con altri, “implica

rimuovere il sé dal tempo, uno sforzo male indirizzato per rendere statiche le

organizzazioni mutevoli dell’esperienza del sé.” Può accadere che io mi senta più

autentico (o meno autentico, meno spontaneo o più stereotipato) in certi modi di agire o di

esprimermi, in certe occasioni o in certe situazioni: ma ciò non implica rinviare ad un

‘nucleo’, a un ‘vero’ o ‘un ‘autentico’ me. “Facciamo esperienza di noi stessi nel tempo.

1 Per una critica stringente, sul piano filosofico, dei presupposti e delle implicazioni dell’approccio relazionale

vedi il recente lavoro di J. Mills, Conundrums. A Critique of Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York 2012. 2 S. A. Mitchell, Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York 1993: 101-104.

3 Ibidem: 101.

2

Possiamo valutare una nuova esperienza in termini di continuità o discontinuità col

passato e il presente; una nuova esperienza può rappresentare ed esprimere la propria

storia e la situazione presente oppure negare e tradire la propria storia e condizione

presente o ancora riformulare la propria storia e condizione presente in un modo nuovo e

arricchente. Il senso di autenticità è sempre una costruzione, e come costruzione è

sempre relativa ad altre possibili costruzioni del sé in ogni tempo particolare.”4

Con tutto questo - chiariva Mitchell - non può negarsi anche l’esistenza di un senso o di un

vissuto di continuità nell’esperienza del sé, indipendente dai cambiamenti nel tempo, in

forza del quale mi rappresento, ad ogni istante, come un Io identico, a cui rimandano i miei

ricordi in passato e che proietto nel mio futuro. Questo sentire è anche condizione di un

senso di agency, di continuità e responsabilità nell’agire, e ancora della possibilità di

imporre un’ordine di priorità a scopi impulsi e motivazioni, il non sentirsi trascinati qua e là.

Ciò è vero anche se non è semplice, all’atto pratico, stabilire quanto vi sia in tutto questo

di soggettivo o propriamente oggettivo. “Può essere che io faccia tutto ciò che faccio, ma

può anche essere che io faccia certe cose in contesti esperienziali del tutto diversi da

quelli in cui faccio altre cose. L’Io che fa cose diverse è un Io diverso in tempi diversi”.5 E

In ogni caso questa maniera di rappresentarsi del sé come agente autonomo e separato

non pare rispondere - Mitchell cita qui Clfford Geertz - a un’istanza evolutiva di tipo

universale quanto, piuttosto, a un dato culturale:

La concezione occidentale della persona come un universo motivazionale e cognitivo

delimitato, unico, più o meno integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emozione,

giudizio e azione organizzati in un insieme distinto e contrapposto sia ad altre entità simili

sia al contesto sociale e naturale è, per quanto incorreggibile ci sembri, un’idea

abbastanza peculiare nell’insieme delle culture mondiali.6

Può a questo punto suonare discordante, dopo tanti argomenti a favore di un sé

relazionale e molteplice, che le conclusioni di Mitchell siano da ultimo caute. “Potrebbe

ritenersi” - leggiamo infine - “che il senso di continuità nell’esperienza del sé sia totalmente

illusorio. Esso però assolve, almeno nella nostra cultura, a un’importante funzione

adattiva” E d’altra parte i due modi di rappresentare il sé - come molteplice e discontinuo,

e come integro, continuo e separabile, non sono reciprocamente esclusivi. “Le persone

4 Ibidem: 130-131. Anche le nozioni di Winnicott di ‘vero‘ e ‘falso’ sé riferite al rapporto del bambino col seno,

secondo Mitchell, “sono un importante punto di partenza ma si tratta di una situazione troppo semplificata quando si considera l’esperienza adulta. Tutte le motivazioni personali hanno una lunga storia relazionale, il sé è sempre immerso in contesti relazionali, attuali o interni, perciò tutte le motivazioni importanti sono apparse e hanno preso vita e forma in presenza e attraverso le reazioni di altri significativi.” (Ibidem: 134) 5 Ibidem: 109.

6 C. Geertz, “From the Native’s Point of View: On the Nature of Anthropological Understanding” in Local

Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York 1979: 59, citato da S. Mitchell, op. cit.: 110. Vedi anche quanto scrive J. Engler, “Being Somebody and Being Nobody: A Reexamination of the Understanding of Self in Psychoanalysis and Buddhism” in J. D. Safran (a cura di), Psychoanalysis and Buddhism. Un Unfolding Dialogue, Wisdom Publications, Boston: 51: “Nelle culture da cui il Buddismo è emigrato verso occidente, preminentemente in India e Giappone, il senso del sé è molto più mescolato con gli altri in un ‘senso del noi’ che è profondamente differente dall’’Io-sé’ separato ed autonomo dell’esperienza occidentale. Il sé è esperito come incorporato in una matrice di relazioni e come definito da tali relazioni, non solo la matrice delle relazioni umane e sociali ma la matrice più comprensiva delle relazioni all’interno del mondo della natura, e da ultimo il cosmo nel suo insieme”.

3

agiscono sia in modo discontinuo che in modo continuo. (...) In ogni momento dato una

persona opera a partire da un determinato contesto relazionale (...); al contempo quella

specifica versione del sé contribuisce a dar forma a una sequenza continuativa di

esperienza che ha le sue caratteristiche distintive. (...) Pensiamo al sé come alla sequenza

dei fotogrammi di un film. In ambedue i casi l’esperienza del movimento e della continuità

è un’illusione. Ma “l’illusione” “crea un’esperienza che ha una grande ricchezza soggettiva

in proprio, producendo un’immagine più ampia e ‘in movimento’ molto diversa (e molto

maggiore) della semplice somma delle immagini singole”. Similmente nel percorso

analitico “quanto più l’analizzando può tollerare di esperire versioni molteplici di se stesso,

tanto più si vivrà come forte, duraturo e capace di resilienza. E reciprocamente quanto più

l’analizzando ritrova dei tratti di continuità nel passaggio tra le sue varie esperienze, tanto

più può reggere la diffusione di identità implicita nel far convivere molteplici versioni del

sé”.7

Resta comunque, del discorso di Mitchell - e, se si vuole, anche in virtù delle sue

conclusioni - il punto forse più innovativo. Che si privilegi l’aspetto della discontinuità e

molteplicità o invece quello della continuità, il sé viene a perdere in ogni caso qualsiasi

carattere sostanziale per riproporsi come mera rappresentazione: capace, proprio per

questo, di più versioni e modi di esperienza possibili, nessuna eguagliabile a un ‘vero sé’.

Un corollario di questa innovazione è un diverso approccio ai temi dello sviluppo. Così

l’idea di un sé preesistente alla nascita il cui realizzarsi può solamente essere facilitato o

impedito lascia spazio all’ipotesi di più percorsi possibili grazie al convergere tra

potenzialità del bambino e influsso prevalente dell’uno o l’altro caregiver.8 Inoltre - si fa

ancora osservare - già negli scritti di Winnicott, l’opposizione tra sé ‘vero’ e ‘falso’ viene

formulata anche come antitesi fra non-integrazione - la possibilità per l’infante di rilassarsi

e abbandonarsi all’esperienza del gioco alla presenza rassicurante della madre - e

necessità di reagire, in modo prevalente, a stimoli o intrusioni esterne. In quest’ultimo caso

- ma solo in questo (ad esempio quando debba far fronte ad una madre angosciata o

depressa) - il bambino isola un proprio mondo privato (il suo ‘vero sé’) fino a nasconderlo

perfino a se stesso e si concentra sulla gestione del mondo esterno.9 Un ultimo modo,

infine, di ripensare quell’opposizione è prender atto della tensione costante, nel corso

della vita di ognuno, fra spontaneità e esigenza di conservare relazioni sicure10 (perciò

tener conto del proprio impatto sugli altri) o ancora fra agentività e relazionalità11 o fra

7 S. Mitchell, op. cit.: 115-116.

8 Ibidem: 129.

9 Scriveva Winnicott : “Soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la

propria vita personale. L’alternativa patologica è una vita falsa costruita su reazioni agli stimoli esterni. Quando è solo, nel senso suddetto, e solamente quando è solo, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, e cioè è in grado di diventare non-integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un po’ senza essere né qualcosa che reagisce ad un urto dall’esterno, né una persona attiva con una direzione d’interesse o di movimento. (...) Solamente in queste condizioni il bambino può avere un’esperienza e sentirla come reale. Un gran numero di tali esperienze formano la base di una vita reale e non futile.” (D. W. Winnicott (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando, Roma 1974: 36.). In età adulta situazioni analoghe di ‘non-integrazione’ in presenza d’altri (o relazionalità non reattiva) saranno condizioni per una crescita di creatività. (Cfr. M. Masud R. Khan, “On Lying Fallow” in Hidden Selves, Hogart Press, London 1983: 183-188.) 10

S. Mitchell, op. cit.: 133. 11

J. D. Safran e J. C. Muran, op.cit.: 39.

4

efficacia e esigenze di sicurezza.12 Il contrasto non è analizzabile in termini di contenuti

(come nella vecchia teoria freudiana delle pulsioni dove l’Es è tenuto a bada da Io e

Superio) e neanche in termini di priorità precostituite (come nell’ipotesi del ‘vero’ sé), ma

nella maggiore o minore capacità di un negoziato flessibile fra le due istanze. Questa

formulazione è già compatibile con un quadro teorico che all’antitesi ‘sé’ vero o falso’

sostituisca l’assunto di “numerosi stati del sé che lottano per dominare nello stato di

coscienza in un determinato momento”.13

E appunto questo - di una pluralità originaria di stati del sé - è l’assunto che ispira, in modo

forse anche più radicale del lavoro di Mitchell, il secondo contributo importante che va qui

ricordato - gli scritti sulla dissociazione di Philip Bromberg. L’esperienza di unità e

continuità del sé, per Bromberg, è senz’altro illusoria e “è generata dalla capacità

evoluzionistica della mente di radicare la coscienza in una delle configurazioni di stati del

sé che risultano più adattive in quel momento”.14 Di fatto “l’esperienza di sé si origina da

stati del sé relativamente isolati fra loro, ognuno con una propria coerenza interna” ma

“quando (...) tutto procede bene una persona è solo vagamente e momentaneamente

consapevole dell’esistenza di stati del sé individuali e delle loro rispettive realtà: questo

perché ognuno funziona come parte di una salutare illusione di identità personale unitaria

- uno stato cognitivo ed esperienziale sovraordinato sentito come ‘me’.” In questi termini

“la dissociazione (...) è una funzione sana e adattiva della mente umana. E’ un processo di

base che consente agli stati individuali del sé di funzionare in modo ottimale (e non in

modo semplicemente difensivo) quando ciò di cui abbiamo veramente bisogno o

desideriamo è una totale immersione in una singola realtà, in un singolo affetto forte, e

una sospensione della capacità autoriflessiva.”15

L’illusione di unità e di continuità così resa possibile - da questo genere di dissociazione

non difensiva - si caratterizza per il fatto di lasciar spazio alla capacità riflessiva e quindi

alla comunicazione anche con stati momentaneamente non in primo piano nell’esperienza

del sé. Bromberg usa l’espressione “restare negli spazi” per descrivere “la relativa

capacità della persona di ospitare in un dato momento una realtà soggettiva che non può

essere facilmente contenuta dal sé che in quel momento sente come ‘me’”. Questa

capacità di comunicare, momento per momento, con esperienze del sé discrepanti è

anche condizione della comunicazione intersoggettiva, ossia della capacità che le persone

hanno - ancora una volta: se tutto procede bene - di aprirsi all’esperienza che altri fanno

di loro.

Ma a volte - anzi, piuttosto spesso - non tutto procede bene. L’immagine del sé rimandata

dall’altro (o - che è lo stesso - da altri stati del sé) “può essere sentita troppo discrepante

dall'esperienza di sé che si sta facendo in quel momento per far sì che entrambe possano

essere conservate in mente simultaneamente”. In questo caso la dissociazione si piega

alla funzione - solo difensiva - di conservare “le esperienze di sé eccessivamente

discrepanti in stati del Sé separati che non comunicano tra loro, per lo meno per un certo

12

J. Greenberg, Oedipus and beyond, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1991: 129 sgg. 13

J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 115-116. 14

P. M. Bromberg (2011), L’ombra dello tsunami, Cortina, Milano 2012: 100. 15

P. M. Bromberg (1998/2001), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano 2007: 211.

5

periodo”; e può trattarsi di un periodo breve, per affrontare una situazione momentanea di

stress, ovvero più lungo o dell’intera esistenza. L’illusione di unità e continuità del sé ha

allora come condizione proprio il persistere della struttura dissociativa:

La mente/cervello organizza i suoi stati come un sistema protettivo che tenta,

proattivamente, di zittire l'accesso esperienziale a stati del Sé discrepanti con la gamma di

stati, limitati dissociativamente, di cui si fa esperienza in un dato momento come "me".

Questo rigido sequestro di stati del Sé per mezzo di una struttura mentale dissociativa è

talmente centrale per la personalità di alcuni individui che, virtualmente, modella tutto il

funzionamento mentale, mentre per altri il suo range è più limitato. Ma, a prescindere dalla

misura o dal range, la sua funzione evoluzionistica è di assicurare la sopravvivenza della

continuità del Sé relegando il funzionamento riflessivo a un ruolo minore, o a nessun

ruolo.16

Ciò è quanto accade, tipicamente, in occasione di traumi - sia traumi gravi (abusi sessuali

o fisici) sia, soprattutto, di traumi evolutivi: in questo caso, agendo ancora una volta al

servizio della continuità del sé e perciò conformandosi ai primi modelli di attaccamento,

saranno dissociati gli stati del sé ignorati o disconfermati dai genitori. Questi stati saranno

esclusi in permanenza dalla comunicazione in quanto non mentalizzati all’origine - non

confrontati col loro modo di apparire nella mente dell’altro - pertanto tendenzialmente non

simbolizzati sul piano cognitivo e quindi non recuperabili a un’unità del sé garantita

dall’autoriflessione (il mancato operare della comunicazione intersoggettiva sarà in questo

caso non conseguenza ma proprio l’origine della frattura dissociativa). Ne seguirà un

sentimento inguaribile di inautenticità imputabile, come visto sopra, non al tradimento del

‘vero sé’, ma all’eslcusione di un qualsiasi stato o aspetto del sé dall’esperienza

interpersonale.

Il Sé vissuto come vero è sentito essere sempre quello che sta bussando alla porta - la

voce interna antagonista, udita ma non "pensata" (Bollas, 1987). Questa voce viene

sentita inevitabilmente come più vera sul piano soggettivo semplicemente perché essa

contiene una "verità" diversa ma non formulata - una visione alternativa della realtà che

viene negata al sé che sta intrattenendo rapporti con il mondo, rendendolo così limitato sul

piano relazionale e compromesso nella possibilità di sentirsi autentico. Come ha detto

Mitchell (1993), "ciò che può sembrare autentico nel contesto di una versione del sé può

essere completamente inautentico rispetto ad altre versioni".17

2. Dopo questo richiamo, indispensabile per inquadrare il discorso, ai contributi della

psicoanalisi relazionale - ci si è limitati, a fronte di una produzione ormai molto ampia, a

due autori particolarmente influenti e significativi - si può dar spazio agli interventi

propriamente ispirati alla tradizione buddista. Qui la natura illusoria o piuttosto ingannevole

dell’unità e continuità del sé non è più solo ricondotta all’onnipresenza delle dinamiche

dissociative - così efficacemente illustrate da Bromberg - o all’intreccio relazionale delle

16

P.M. Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 14-15. 17

Ibidem: 128.

6

identità. In primo piano è invece il contrasto fra la preoccupazione costante e pervasiva

che più o meno tutti ci caratterizza - ma che è alla base, secondo il Buddha, di ogni

sofferenza - di preservare, proteggere, espandere il sé, e il dato radicale della sua

impermanenza, non autonomia e non separatezza, al pari di ogni essere e di ogni cosa

esistente. E’ un fatto che se poniamo attenzione, momento dopo momento, al flusso della

coscienza a monte degli automatismi con cui di solito selezioniamo, organizziamo e

interpretiamo i dati percettivi, concettuali e affettivi non incontriamo alcuna entità duratura,

nessun soggetto o oggetto costante ma solo operazioni con cui, momento dopo momento,

a partire da quei dati elementari di continuo e sempre di nuovo strutturiamo in modo

dualistico la nostra esperienza opponendo insiemi di oggetti distinti l’uno dall’altro e dal sé.

Come osserva Jack Engler

Il costrutto-sé ... è incorporato nella caratteristica più profondamente radicata del pensiero

e della percezione umana: la tendenza a considerare ogni oggetto dell’esperienza o della

percezione come un’entità separata o una ‘cosa’ dotata della sua esistenza e identità

concreta e separata e solo in un secondo momento in relazione con altre ‘cose’. (...) Ma la

‘cosalità’ o la ‘esistenza inerente’ è in realtà un’imputazione o un’attribuzione, non una

caratteristica delle ‘cose. (...) Come scrive la studiosa buddista Anne Klein “Le cose

semplicemente sembrano odorano e si fanno gustare come più solide individuabili e

intrisecamente disponibili di quanto in realtà non siano.” (...) Questa “attribuzione non

pensata di inerenza” a sé e agli altri è la “ontologia vissuta che sottosta ad ogni altra

esperienza di seità, inclusi i moderni sé psicologici” e specialmente la rappresentazione in

parte conscia in parte inconscia del sé come entità singola, unica e separata “collocata nel

profondo di noi stessi”.18

Detto in altri termini:

Il sé dell’uomo è un’azione: è qualcosa che facciamo per unificare la nostra soggettività

nello spazio e nel tempo, separandola dal flusso dell’esperienza e creandole un confine

intorno. Qualche volta facciamo questo consapevolmente, ma la maggior parte delle volte

lo facciamo senza avere consapevolezza del sé attraverso micromovimenti nelle nostre

percezioni che creano l’impressione di essere “qui dentro”, mentre qualcos’altro è “là

fuori”.19

La riduzione o decostruzione del sé che in questo modo si avanza è dunque più radicale

della innovazioni della psicoanalisi relazionale: il sé non soltanto è plurale e molteplice,

diversamente declinato per situazioni e rapporti; non solamente è rappresentazione, ma si

dà solo come relazione, come momento subordinato di questa - non c’è alcun ‘dentro’ se

non opposto a un ‘fuori’, non c’è alcun ‘io’ se non diretto a un ‘tu’20 - coinvolto,

18

J. Engler, op. cit.: 88. 19

P. Young-Eisendrath, “Il ruolo del non-sé nella creatività” in A. Molino e R. Carnevali (a cura di), Tra sogni di Budda e risvegli di Freud. Esplorazioni in psicoanalisi e buddismo, ARPANet, Milano 2010: 91. 20

Per una sintesi della formulazione più radicale di questo approccio, dovuta a Nagarjuna, si può vedere il lavoro non più recente ma ancora di grande interesse di F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991, cap. V. Vedi anche G. Kopf, “Di fronte all’altro. L’intrico psichico in Dogen e Jung” in A. Molino (a cura di) (1998), Psicoanalisi e buddismo, Raffaello Cortina, Milano 2001: 190-191.

7

inevitabilmente, sempre di nuovo ricostruito e dissolto nel dinamismo di un continuo fluire.

La stessa idea di qualche genere di costanza o ‘esistenza inerente’ attribuibile al sé non è

originaria ma è già prodotto del ciclo del karma - della causazione21 - dove prevalgono i

due opposti moventi dell’attaccamento e dell’avversione; e a sua volta è causa di

sofferenza, come già detto, perché sempre smentita dall’impermanenza, non separatezza

e finitezza del tutto. Si tratta allora, mediante la pratica meditativa, di mirare al risveglio,

alla consapevolezza non solo cognitiva ma esperienzale22 di queste verità, e le

implicazioni propriamente psicologiche di tale pratica sono già rilevanti: perché

presuppongono un definitivo ridimensionamento del sé non più quale soggetto, ma come

oggetto di consapevolezza - l’opposizione, quindi, almeno potenziale, tra modi della

soggettività e funzioni dell’Io. Se quelli sono da porre in problema queste, proprio nella

pratica meditativa, sono il più possibile potenziate: primo, per decostruire i processi (più

che altro inconsci) di costituzione, autoaffermazione e difesa dell’identità di soggetti;

secondo per accertarne funzionalità o interferenze in vista del crescere della

consapevolezza.23

Su questo punto si è già fatto cenno agli automatismi che reggono, d’abitudine, il nostro

rapportarci ai dati di esperienza. La meditazione di consapevolezza24 ci rende consci del

loro carattere prevalentemente difensivo-reattivo; ossia della nostra propensione a

distanziarci dalle esperienze e ad attutirne e filtrarne l’impatto mediante un flusso

praticamente incessante di fantasie e di pensieri - la cosiddetta proliferazione mentale -

che ne rielaborano ovvero ne anticipano le implicazioni sotto il profilo dell’attaccamento o

dell’avversione (rimuginazioni intorno al passato, speranze e attese circa il futuro); e ne

riducono la novità e la ricchezza reinterpretandola secondo termini e coordinate già note.

L’intento, almeno a prima vista, è pararne il carattere sorprendente o frustrante ampliando

per quanto possibile il controllo dell’Io. Ma ciò cui spesso veramente si mira è

salvaguardare per quanto possibile la certezza e la continuità della rappresentazione del

sé; e ciò anche a spese, se necessario, di un confronto paziente e puntuale col dato

concreto e di un pieno incontro con le emozioni che davvero assicurerebbero, anche nelle

situazioni più complicate o frustranti, non una reazione semiautomatica ma una risposta

mirata, più pertinente e più efficace dell’Io. Scrive in proposito un autore buddista:

L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale

è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e

definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente. 21

Un’utile sintesi ancora in F. J. Varela et al., op. cit.: 110 passim. 22

Come osserva J. Engler (op. cit.: 93) una consapevolezza solo cognitiva comporta ancora il punto di vista di un sé separato. 23

Su tutto questo M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 86 sgg. e 117. 24

Si distinguono, più precisamente, pratiche di meditazione formale (attenzione al respiro, alle sensazioni del corpo, alle percezioni, ai pensieri) da svolgersi in posizione seduta oppure sdraiata o anche camminando; e pratiche di meditazione informale consistenti ad esempio, nell’apprezzare intensamente e a lungo, in tutte le sue sfumature il sapore di un cibo, la bellezza e i colori di un giardino, i dettagli di un percorso abituale, i singoli momenti e le sensazioni di qualsiasi attività come farsi la doccia o lavare i piatti. Soprattutto le pratiche formali, come quella descritta sopra relativa al respiro, intendono non tanto far crescere direttamente l’accettazione quanto renderci attenti al nostro resistere all’accettazione, al nostro continuo ‘sganciarci’ dall’adesione al presente. Su questo vedi C. Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994 : 157-158. Vedi anche più in generale Thich Nhat Hanh (1987), Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma 1992.

8

... Invece che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo

di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per

aver luogo ben di rado. ... Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza

ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che

essa ci appaia così come ce la raccontiamo. E dunque l’indugiare frequentemente in

pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare

‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto,

all’ignoto.. E così pure quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli

avremmo voluto dire, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura

e simili. ... Noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia ... noi vogliamo

parlare nella rabbia, pensare e immaginare nella rabbia anche se tutto ciò che diciamo è

prevedibile, anzi è importante proprio perché è prevedibile, noto, abituale. In questa

maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia ... ne rimaniamo separati da quella

barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.25

La libertà da che viene perseguita - su un piano, peraltro, solo immaginativo-ideativo -

come difesa ad oltranza di una rappresentazione costante e rassicurante del sé, mediante

gli automatismi della proliferazione mentale, è a spese, assai spesso, della libertà di - di

un esercizio competente e efficace delle funzioni dell’Io.26 Grazie alla pratica meditativa

possiamo apprendere tuttavia ad osservare i nostri pensieri e le nostre reazioni

automatiche, ma senza agirli e identificarci con essi. Così facendo sarà possibile,

progressivamente, evitare l’irrigidirsi e il consolidarsi (sempre a livello immaginativo-

ideativo) degli aggregati percettivo-affettivi del sé e degli oggetti, mentre al contempo

accoglieremo e lasceremo operare le nostre emozioni, ci apriremo all’emergere di spunti

diversi, amplieremo lo spazio di ideazione e di azione. L’unità o continuità del sé così

realizzabile, come osserva Mark Epstein, sarà assimilabile sempre meno a un’entità fissa

e sempre più a “un flusso di consapevolezza ... sempre in evoluzione ... un processo mai

del tutto concluso di autoscoperta e autocreazione” e l’io dovrà subordinare, per quanto

possibile, a questa fluidità processuale ogni pretesa alla stabilità.

L"Io' è il veicolo individuale per attuare questi incontri, ma anch'esso non ha un'identità

intrinseca. Un lo sano inizia, si avvicina, stabilisce un contatto e si dissolve, per poi iniziare

il ciclo di nuovo. Un lo disturbato frappone ostacoli e interferisce con il contatto sano,

perpetuando la propria realtà a spese dell'interazione. (...) L'Io che è di ostacolo non

giunge mai alla trasparenza; il risultato sarà una persona contratta per la propria

sensazione di inadeguatezza. Un senso positivo del sé emerge solo quando l'Io permette

a se stesso di dissolversi.27

Di fatto facciamo già tutti quotidianamente esperienza - chi più chi meno - di questo

genere di fluidità o consapevolezza adualistica o priva di sé (più precisamente:

consapevolezza senza coscienza riflessiva del sé). Guidiamo l’automobile o qualche altro

25

C. Pensa, L’intelligenza spirituale, Ubaldini, Roma 2002: 30-32. 26

Spesso ma, ovviamente non sempre: gli automatismi della mente includono infatti primariamente, le attività di categorizzazione e astrazione che sono indispensabili all’apprendimento, alla previsione e alla sopravvivenza adattiva. 27

M. Epstein (2001), La continuità d’essere, Ubaldini, Roma 2002: 28-29.

9

veicolo adattando l’andatura alla situazione ed evitando possibili ostacoli senza necessità

di riflettere; ‘ci perdiamo’ nella contemplazione di uno spettacolo naturale, di una persona,

di un’opera d’arte o nel rapporto sessuale. Se sappiamo suonare uno strumento

muoviamo spontaneamente le mani nel modo giusto; similmente se siamo veramente

esperti in un arte marziale rispondiamo senza riflettere ma in modo del tutto adeguato alla

mossa dell’avversario.28 In tutti questi casi non siamo consci di noi stessi ma siamo

consapevoli, sintonizzati alla realtà del momento. Pensieri, sentimenti azioni avvengono

ma non sono esperiti come originantisi in o da “me”. Avvengono semplicemente in risposta

alle esigenze del momento per conto loro, senza forza o intenzione cosciente.29

Ancora Epstein insiste a lungo sull’affinità fra questo genere di disponibilità e fluidità

esperienziale - resa possibile da un alto grado di flessibilità o ‘trasparenza’ dell’Io - ed il

recupero, in età adulta, di uno stato di inintegrazione affine alla continuità d’essere

dell’infante (di cui parla Winnicottt) che può abbandonarsi all’esperienza del gioco potendo

contare sull’attendibilità della madre. Si è già detto sopra che questo stato di non-

integrazione - che riesce possibile, in età adulta, solo come resa30 o piena adesione al

presente31 - è quanto di più simile possa pensarsi, in un’ottica relazionale, a un’esperienza

del ‘vero’ sé. Anche per una psicoanalisi del non-sé ispirata al buddismo non c’è

ovviamente alcun vero sé se non nel “processo mai del tutto concluso di autoscoperta e di

autocreazione” (di cui parla Epstein) reso possibile da questa adesione. O se si vuole -

come appena visto - il ‘vero sé’ è il venir meno dell’autocoscienza messa a guardia

dell’autocentramento del sé”32; o ancora, in termini kohutiani, “per il non-sé tutte le

esperienze sono esperienze mature di oggetti-sé.33

Che dire, infine, in una prospettiva junghiana? Il netto rifiuto degli autori buddisti di

riconoscere al sé qualunque genere di consistenza ‘ontologica’34, e l’insistenza nel non

vedervi di più che una rappresentazione (per giunta, in linea di massima fuorviante e

ingannevole) suona, a ragion veduta, in aperto contrasto con la nozione junghiana del Sé

quale ‘centro’ della totalità psichica e ancor di più, in quanto meta del processo di

invididuazione, quale portatore di un senso. Ma a fronte di ciò, e anche tralasciando le

affinità, rilevate da Jung,35 tra la propria psicologia e il cammino buddista, occorrerebbe

28

G. Kopf, op. cit.: 193. 29

J. Engler, op. cit: 60.61. 30

Sul tema della resa vedi l’ottimo studio di E. Ghent, “Masochism, Submission, Surrender: Masochism as a Perversion of Surrender” in S. A. Mitchell. L. Aron (a cura di) Relational Psychoanalysis. The Emergence of a Tradition, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 211-242. 31

L’insistenza sull’attenzione esclusiva al presente, implicita in questa concezione, è ben illustrata dal famoso koan Zen: “In questo preciso momento, non pensando né al bene né al male, mostrami il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori”. “Essendo andati oltre il dualismo, oltre ‘il pensare il bene ed il male’ c’è un vero sé essenziale? Budda ha insegnato che il sé è ‘vuoto’, che non ha assolutamente natura fissa o essenziale. Tutto quello che c’è è ciò che le stesse parole di apertura del koan ci dicono: essere proprio questo momento è il nostro vero sé. Il nostro volto originario non può essere altro che il volto di questo momento”. (B. Magid, “Your Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 265-266) 32

P. A. Ringstrom, “Psychoanalysis and Buddhism: Two Extraordinary Paths to An Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 288. Così, prendendo le distanze da Winnicott, anche M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 68-69. 33

B. Magid, op. cit.: 271. 34

Vedi in proposito di nuovo J. Engler, op. cit.: 52. 35

C.G. Jung (1939), “Prefazione a D.T. Suzuki, ‘La grande liberazione. Introduzione al buddismo zen’” in Opere, XII, Boringhieri, Torino 1979: 549-567.

10

ancora considerare tre aspetti. 1) Col segnalare la finalità difensiva (della continuità e della

sicurezza del sé) del pensare per segni - cioè del ridurre il vissuto al concetto, il nuovo, il

particolare e l’affettivamente pregnante all’astratto e al già noto) il pensiero buddista

mostra di privilegiare un’attenzione al concreto, al differente, al non riducibile che è

rispetto profondo (come ancora vedremo) di ogni alterità ma è anche del tutto affine, nel

contesto junghiano, all’esperienza simbolica - al modo proprio di manifestarsi dell’alterità

dell’inconscio. 2) L’idea di un sé solo processuale che non conosce un’identità

precostituita ma che si esplica e con ciò stesso si scopre, momento dopo momento, solo

nella pratica dell’accettazione, cioè nella piena adesione al presente, è molto simile

all’idea junghiana di individuazione come ricerca/accettazione del corpo, della propria

forma, e del proprio limite. 3) Infine Jung mette in relazione la sua nozione del sé con

l’idea buddhista di una ‘coscienza della coscienza’:

La possibilità che esistano vari stadi nello sviluppo della coscienza non ci viene nemmeno

in mente; il solo pensiero che esista una forte differenza psicologica fra la coscienza

dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto assomiglia

molto da vicino a un cavillo che appena merita risposta. (...) Furono lo yoga in India e il

buddhismo in Cina a dare l’avvio a questi tentativi di strapparsi alla cattività di un dato

stato di coscienza, sentito come imperfetto. Per quanto riguarda la mistica occidentale i

suoi testi sono pieni di istruzioni sul modo in cui l’uomo possa e debba liberarsi dell’essere

Io della sua coscienza, onde elevarsi, per mezzo della conoscenza della sua natura, al di

sopra di questa e raggiungere l’uomo interiore (divino). (...) Questo nuovo stato di

coscienza derivato dalla pratica religiosa si distingue per il fatto che le cose esteriori non

influiscono più su una coscienza fatta di Io ... ma che una coscienza vuota è aperta a

un’influenza diversa. Questa influenza “diversa” non è più sentita come attività propria, ma

come quella di un non-Io il cui oggetto è la coscienza. E’ come se il carattere soggettivo

dell’Io fosse stato sopraffatto o assunto da un altro soggetto che si fosse messo al posto

dell’Io.36

L’obiezione buddhista a a queste note di Jung sarebbe che una ‘coscienza della

coscienza’ che la ponesse a oggetto di un altro soggetto sarebbe appunto coscienza di un

oggetto (di quella stessa coscienza oggettivata) non della coscienza colta nel suo operare

come “carattere soggettivo dell’io” o soggettività conoscente; allo stesso modo in cui

l’occhio può vedere se stesso come oggetto riflesso in uno specchio ma non nell’atto del

suo vedere. Ne segue che se si vuole pensare il Sé come ‘coscienza della coscienza’37

non si può porlo come ‘altro soggetto’ cui si oppone un oggetto. Come chiarisce assai

bene Engler

non posso osservare direttamente il mio sé osservante. Se lo faccio ... muto soltanto l’atto

della consapevolezza in un altro oggetto di consapevolezza in una regressione all’infinito.

... (...) Il sé che io rappresento, il “sé” che io posso conoscere o afferrare non è mai “me”.

L’occhio che vede, dice lo Zen, non può vedere sé stesso. E infine è chiaro: non possiamo

staccare il nostro “sé” dalla consapevolezza perché siamo quella consapevolezza.

36

Ibidem: 555-556. 37

Ibidem: 553.

11

In questo senso la consapevolezza non è semplicemente una funzione dell’Io. (...) La

consapevolezza in quanto tale non può mai essere oggettivata, colta come un oggetto,

identificata coi contenuti della coscienza, rappresentata come “questo o “quello”. E’ di

natura fondamentalmente diversa: senza qualità, senza limiti, senza confini: (...) In

essenza Io non sono nulla che possa essere nominato o pensato, rappresentato o negato,

trovato o perso. “Chi sei” dice Sri Nisargatta Maharaj, “è indefinibile e indescrivibile. La

consapevolezza soggettiva è ciò che rende possibile l’esperienza, ma non è essa stessa

esperienza. (...) la piena realizzazione di ciò è la consapevolezza non dualistica come

proprio stato naturale. L’identificazione con ogni rappresentazione o attività di un sé

separato diviene impossibile”.38

E’ però interessante che altrove lo stesso Jung si avvicini molto a questa prospettiva:

Proprio come l’Io è una certa esperienza di me stesso, così il Sé è un’esperienza del mio

Io, vissuta però non più nella forma di un Io più vasto e più alto, ma in forma di un non-

Io.39

E ancora, più diffusamente:

Poiché il numero di possibilità è limitato si raggiunge ben presto una frontiera, o piuttosto

frontiere che arretrano una dopo l’altra presumibilmente fino al momento della morte.

L’esperienza di queste frontiere conduce gradualmente alla convinzione che quanto viene

esperito è un’interminabile approssimazione. Lo scopo di questa approssimazione sembra

essere anticipato da simboli archetipici che rappresentano qualcosa come la

circumabulazione di un centro. Al crescere dell’approssimazione al centro c’è un

corrispondente depotenziamento dell’Io a favore dell’influenza del centro “vuoto” che certo

non coincide con l’archetipo ma è ciò cui l’archetipo mira. Come direbbero i Cinesi,

l’archetipo è soltanto il nome del Tao, non il Tao in sé. Così come i Gesuiti traducevano

Tao come “Dio” così noi possiamo descrivere la “vuotezza” del centro come “Dio”.

Vuotezza in questo senso non significa “assenza” o “vacanza” ma qualcosa di

inconoscibile dotato della più elevata intensità. Se io chiamo questo inconoscibile “Sé”

tutto ciò che è accaduto è che gli effetti dell’inconoscibile hanno ricevuto un nome

aggregato, ma i suoi contenuti non ne sono affetti in alcun modo. Una parte

indeterminabilmente ampia del mio stesso essere è inclusa in esso, ma poiché questa

parte è l’inconscio non posso indicare i suoi limiti e la sua estensione. Il sé è pertanto una

concetto liminare, in alcun modo riempito coi processi psichici noti.40

3. Al terzo punto di questa esposizione sono le implicazioni di un pensiero analitico

ispirato al buddhismo per l’ascolto e la pratica psicoterapeutica. Anche in quest’ambito è

indiscutibile un nesso di continuità fra autori buddhisti e psicoanalisi relazionale (a sua

38

J. Engler, op. cit.: 66. 39

C. G. Jung, op. cit.: 553. 40

C. G. Jung, Letters, Routledge, London 1975, II: 258, traduzione mia.

12

volta vicina, per una serie di aspetti, alle posizioni originali di Jung41

). Sé del paziente e sé

del terapeuta sono intesi ambedue come relazionali e molteplici e ’normalmente o

patologicamente dissociativi’42 (nel senso già visto di Mitchell e Bromberg), e come tali si

esprimono e operano anche all’interno della relazione analitica. Il terapeuta, in particolare,

non si può ergere a ‘osservatore oggettivo’ - colui che ‘sa’ i contenuti dell’inconscio - né

l’attitudine del paziente verso di lui si può spiegare, in modo esauriente, come distorsione

dovuta al transfert. L’incontro analitico vive invece del gioco sempre irripetibile

dell’interazione fra quel paziente e quell’analista e della loro influenza reciproca (deve

restare, perciò, una questione aperta in qual misura questa interazione segua modelli

caratteristici di altre relazioni della vita del paziente); e il compito del terapeuta - che può

definirsi di osservatore partecipante - è 1) monitorare al meglio i propri sentimenti, le

proprie reazioni, anche le proprie sensazioni fisiche, 2) guidare, a partire di qui

un’osservazione congiunta di quanto accade volta per volta nel qui ed ora della relazione

per trarne ipotesi sui processi psichici del paziente. Da ripensare è anche il vecchio

concetto di ‘resistenza’, che non può più soltanto indicare una generica difficoltà del

paziente a divenir consapevole di certi sentimenti o emozioni ma deve includere anche il

contributo eventuale del terapeuta: ossia “esplorare che cosa il paziente teme che accada

se tali emozioni vengono espresse nel qui ed ora della relazione terapeutica”.43

La differenza essenziale tra questo approccio e quello della psicoanalisi tradizionale suole

riassumersi nel venir meno di ogni finzione o di ogni pretesa di ‘oggettività’ per il terapeuta

“relazionale. Ma ‘oggettività’ (o meglio: assenza di oggettività) si può ancora intendere in

una doppia accezione. Come mancanza di referenti o evidenze per il lavoro analitico il cui

significato sia indiscutibile, in quanto univoco e palese per tutti: non-oggettività, allora, col

significato di relatività, o impossibilità, intesa dal vertice dell’analista, di non trasferire

nell’interpretazione il carico della sua psicologia personale. O ancora, declinata invece dal

vertice del paziente, come portato dalla natura interpersonale del lavoro analitico che

come tale vuol rivolgersi all’altro nella sua differenza e nella sua unicità; nel suo sottrarsi,

pertanto, sempre e di continuo all’oggettivazione, a qualsiasi genere di omologazione

teorica e ad ogni riduzione a categorie ed a concetti con la conseguenza di destabilizzare

lo stesso analista: frustrandone le velleità di conoscenza e controllo, anche i bisogni di

distanziamento fra sé e il paziente, ed attraendolo a sua volta a coinvolgersi nella totalità e

quindi anche nell’assoluta specificità della propria persona.44 Lewis Aron, sulla scorta di

Winnicott e Jessica Benjamin,45 descrive proprio in questi termini l’andamento alternante -

fra oggettivazione e intersoggettività - della relazione analitica:

41

Sul punto vedi, da ultimo W. Colman, “Bringing it all back home: how I became a relational analyst”, The Journal of Analytical Psychology, 58, 4, Sept. 2013: 470-49. 42

Bromberg precisa, a questo proposito che il trauma evolutivo (o trauma relazionale) come egli lo intende “fa parte del processo di modellamento dei precoci pattern di attaccamento (incluso l'’attaccamento sicuro’), che a sua volta determina quelli che Bowlby (1969,1973,1980) chiama ‘modelli operativi interni’. (...) Vale a dire che il trauma connesso all'attaccamento è parte dell'esperienza passata di tutti e un fattore centrale in ogni trattamento; per alcuni pazienti però ha portato a una struttura mentale dissociativa che si è impossessata del funzionamento della personalità e della vita mentale, imponendo quindi la "Verità" su presente e futuro.” (P. M Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 71 e 103-104. 43

J.D. Safran. J. C. Muran, op. cit. : 100. 44

I riferimenti filosofici d’obbligo sono qui M. Buber (1984), “Io e tu” in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997 e E. Lévinas (1971), Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977. 45

Aron rimanda, in particolare, a D. W. Winnicott, “L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” in Gioco e realtà, Armando Armando, Roma 1974 e all’interpretazione di questo lavoro (come superamento dell’oggettivazione e come scoperta della soggettività della madre/altro) proposta da J.

13

Suggerisco che la relazione intersoggettiva sia continuamente interrotta tra le persone -

anche tra paziente e analista - scambiandola per una relazione soggetto-oggetto, e che

poi la relazione intersoggettiva sia ristabilita. Credo che l’intimità non coincida con

l’intersoggettività ma che, piuttosto, trascenda questa relazione dialettica. L’intimità implica

la sopravvivenza e il sostentamento di questa relazione tramite la continua creazione e

distruzione dell’intersoggettività.46

L’alternativa - o, più radicalmente, l’antidoto - al ‘pregiudizio’ dell’analista, in questa

prospettiva non è soltanto una comprensione più completa e migliore, resa possibile -

come propongono ad esempio Safran e Muran47 - in una sorta di dialogo ermeneutico; è

un coinvolgimento con la persona o l’esser soggetto dell’altro che ci mantiene in tensione

verso di lui, incessantemente in ascolto perché ci sollecita di continuo all’interpretazione

ma ci fa vivere via via come impropria e virtualmente insoddisfacente ogni comprensione o

qualsiasi giudizio. Questa visione - che riprende, incidentalmente, quasi alla lettera le

prescrizioni di Bion sulla capacità negativa e sulla necessità di astenersi (per l’analista) da

attività mentale, desiderio e memoria48 - è in sintonia con la dottrina buddhista, riferita

sopra, sui rischi della proliferazione mentale e sulle finalità difensive - per la stabilità della

rappresentazione del sé - della omologazione al già noto, a scapito delle capacità

percettive e dell’efficacia dell’Io. Qui infatti non si tratta già più - lo si è visto sopra -

soltanto di includere la soggettività conoscente (nel nostro caso quella dell’analista), come

nel primo approccio relazionale; quanto, piuttosto, di rendersene consapevoli e di

trascenderla, per quanto possibile, come momento a sua volta relativo nella dualità

continuamente ricreata di soggetto ed oggetto del processo di conoscenza, dunque da

subordinare alla qualità e all’efficacia di questo. L’esito un po’ paradossale, e

però),innegabile, come ancora vedremo è alla fine il recupero, nella prima accezione del

termine, non di una pretesa ma di una tensione all’oggettività.

Per la psicoanalisi (e la psicologia analitica) ispirate al buddhismo ciò si è tradotto, molto

concretamente, non nel semplice invito a una disciplina mentale - come già in Bion - ma

nell’acquisizione al lavoro analitico e soprattutto al training quotidiano dell’analista di

pratiche tratte dalla meditazione di consapevolezza. A tali pratiche - a questo punto anche

dissociabili e dissociate, di fatto da un credo buddhista - o, meglio ancora al tipo e alla

qualità di attenzione che con esse si mira a far crescere e sostenere va il nome generale

Benjamin, “Recognition and Destruction: An Outline of Intersubjectivity” in S. A. Mitchell, L. Aron (a cura di), Relational Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 183-210, traduzione italiana parziale in J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello Cortina, Milano 1996. 46

L. Aron, A meeting of minds, The Analytic Press , Hillsdale and London 1996: 152 (traduzione mia); citato da J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 68. 47

J. D. Safran, J. C. Muran, op. cit. : 44-45. 48

Vedi soprattutto W. R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Armando, Roma 1973 e W. R. Bion (1965) Trasformazioni, Armando Armando, Roma 1973. Ma sono anche da ricordare i contributi di Marion Milner e Karen Horney: M. Milner, “The concentration of the body” in The suppressed madnes of sane men, Tavistock Publications, London & New York 1987: 234-240 e K. Horney, Final Lectures, ed. by D. Ingram, Norton, New York 1987: 19.21 citato da M. E. Miller, “Zen and Psychotherapy” in P. Young Eisendrath and S. Muramoto (a cura di), Awakening and Insight. Zen Buddhism and Psychotherapy, Brunner-Routledge, New York 2002: 85.

14

di Mindfulness (variamente tradotto con ‘presenza mentale’, ‘consapevolezza’ o anche

‘pienezza della consapevolezza mentale’). Tale attenzione è stata definita:

Focalizzata, cioè orientata in modo esclusivo verso un determinato oggetto ... (il proprio

respiro, un’amica con la quale stiamo parlando ... una sensazione corporea). E’ importante

che, quando ci si rende conto che l’oggetto stabilito non è più al centro del focus attentivo,

si compia ... una intenzionale rifocalizzazione dell’attenzione verso quell’oggetto dal quale

ci si è allontanati.

Rivolta al momento presente, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto ci si riesce)

verso l’esperienza che si sta vivendo qui ed ora: ogni volta che si diviene consapevoli che

la mente ci ha trasportato ... nel passato o nel futuro ... è importante che si attivi ... un

riposizionamento dell’attenzione sul momento presente.

Non categorizzante, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto si riesce, all’esperienza

in cui ci si trova, senza usare le categorie, le classificazioni, e i giudizi abituali per

comprenderla: ogni volta che si diventa consapevoli che la mente sta operando una

sistematizzazione di quello che sta accadendo in base a schemi pregressi, e importante

che si metta in atto ... un riorientamento dell’attenzione sulla qualità di novità

dell’esperienza, che di fatto possiede.49

Trasferita nel contesto analitico (sempre gli autori di ispirazione buddhista50 insistono

molto sulla sua affinità con la attenzione ugualmente sospesa prescritta da Freud51)

l’attenzione mindful ha di mira anzitutto le autodifese dell’analista - messe in atto,

comunemente, col ritirarsi dalla relazione, con l’assimilarla a situazioni trascorse o

proiettandola nel futuro, col neutralizzarne l’impatto emotivo mediante astrazioni - ogni

qualvolta la relazione stessa sia troppo frustrante, dolorosa o allarmante o comunque

coinvolga aree di forte vulnerabilità, facendo prevalere su un’attitudine recettiva una

risposta reattiva. Può però trasmettersi - per ragioni del tutto analoghe - dall’analista al

paziente (Wallin definisce la psicoterapia, sotto questo profilo, come una specie di

meditazione a due52) in modo tacito o per inviti espliciti: ad esempio col chiedere

ripetutamente al paziente di soffermarsi su ciò che sente in un determinato momento, di

provarsi a descriverlo nei dettagli e anche indicare dove lo sente (in quale area del corpo).

Lo sfondo che potremmo chiamare ‘umanistico’ (in effetti ancora vicino al buddhismo) di

questa pratica dell’attenzione è l‘accettazione non giudicante (la meditazione di

consapevolezza ha qui la funzione di renderci consci, momento dopo momento, dei giudizi

e delle risposte di rifiuto che rivolgiamo innanzitutto a noi stessi); e la compassione per

noi medesimi “che emerge quando diventiamo capaci di aprirci [anche] alle esperienze

dolorose”.53 In particolare: col trattare noi stessi gentilmente e senza giudicarci con

severità; riconoscendo che errori, fallimenti e avversità fanno parte della comune

49

G. Amadei, Mindfulness. Essere consapevoli, Il Mulino, Bologna 2013. 50

In particolare M. D. Epstein, “Sulla negazione dell’attenzione ugualmente sospesa”, in A. Molino, R. Carnevali (a cura di), op. cit.: 160-175) e M. Epstein (2007), Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio, Roma 2008: 95. 51

S. Freud (1912) “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, Opere, VI, Bollati Boringhieri, Torino1989,: 532-533. 52

D. J Wallin (2007) Psicoterapia e teoria dell’attaccamento, Il Mulino, Bologna 2009: 264. Questo testo, ai capitoli IX e XVII contiene una sintesi eccellente dell’approccio mindfulness in psicoterapia. 53

Ibidem: 283.

15

esperienza umana; mantenendo un’equilibrata consapevolezza di pensieri e sentimenti

spiacevoli, invece di evitarli, cancellarli o identificarsi eccessivamente con essi.54 Sempre

per Wallin una tale apertura tenderà ad autoconsolidarsi in quanto la consapevolezza

anche dei sentimenti dolorosi ne farà comprendere sempre di più la qualità transitoria

rendendoli, con ciò stesso, assai meno temibili; legando, di conseguenza, sempre di più

alla consapevolezza, più che a figure protettive interiorizzate o a determinati stati mentali il

nostro senso di sicurezza; ed evitando il sovrappiù di sofferenza sempre legato allo sforzo

di evitare il dolore.55

In termini più formali l’attenzione mindful mirerà a sospendere per quanto possibile gli

automatismi categorizzanti o ‘dall’alto in basso’ (dei quali a lungo si è detto sopra)

finalizzati alla previsione e alla sopravvivenza adattiva per dare spazio alla modalità

senso-percettiva (‘dal basso verso l’alto’) vuoi verso l’esterno (nel setting analitico:

l’espressione facciale, il tono di voce, le sfumature emotive, la postura corporea del

paziente) vuoi verso l’interno (pensieri, sentimenti, emozioni, anche stati fisici dell’analista

- osservati, però, e anche utilizzati, ma in modo equanime e ad una certa distanza, alla

stregua di eventi o stati transitori e dunque senza identificarsi con essi56). Questa

attenzione accrescerà l’efficacia (ai fini del cambiamento) del dialogo terapeutico con

l’ancorarlo più saldamente all’esperienza vissuta, ossia al qui ed ora più che alla semplice

riflessione o ricostruzione retrospettiva e al vissuto emozionale-corporeo oltre che alla

comprensione concettuale. Notano in proposito Safran e Muran:

Diversamente da quanto accade per un pensiero più concettuale, che può essere staccato

dall'azione, la conoscenza a livello corporeo ha sempre implicazioni per il passo

successivo all'attuale. Quando un individuo ha una nuova sensazione, dà a se stesso

un'irrefutabile informazione su quanto l'intera configurazione relazionale significhi

realmente per lui come organismo intero, e tale significato ha risvolti impliciti per l'azione.

(...) L'insight emozionale, o consapevolezza, comporta così la rivalutazione di un evento o

di un'esperienza in un modo che conduce al «che cosa vuoi dire per me ora». (...) Ciò

riflette il fatto che l'individuo conosce qualcosa in maniera differente, come un organismo

concreto, in interazione con l'ambiente circostante.57

54

K. D. Neff, “Self-compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself” in Self and Identity, 2: 85-101, 2003 citato da R. a. Baer, “la compassione di sé” in R. A. Baer (2010) a cura di, Come funziona la mindfulness, Raffaello Cortina, Milano 2012: 130. 55

D. J. Wallin, op. cit.: 263. 56

Su questo punto, veramente essenziale, vedi quanto scrive D.J. Siegel (2007), Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009: 25-26: “Da questo modo di essere riflessivo, mindful, emerge un processo fondamentale chiamato ‘discernimento’, in cui diventa possibile essere consapevoli del fatto che le attività della propria mente non sono la totalità di ciò che si è. Il discernimento è una forma di disidentificazione dall’attività della propria mente: quando diventi consapevole delle sensazioni, dei sentimenti e dei pensieri ... arrivi a vedere queste attività come delle onde che si muovono sulla superficie del mare della mente. Da questo luogo più profondo della mente, da questo spazio interno della consapevolezza mindful, è possibile notare come le onde superficiali del cervello vadano e vengano. Questa capacità di liberarsi dal chiacchiericcio della mente, di capire che queste sono “solo attività della mente”, è un’esperienza liberatoria e per molti perfino rivoluzionaria”. Vedi anche, dello stesso autore, The Mindful Therapist, Norton, New York & London 2010. 57

J.D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 63.

16

In questa linea, per richiamare un esempio recente, può rilevarsi un alto grado di

congruenza fra attitudine mindful e i contributi di Daniel Stern e del Boston Change

Process Study Group sul cambiamento in psicoterapia e la conoscenza relazionale

implicita. Si tratta di cogliere e valorizzare anche in questo caso il momento presente - i

cosiddetti now moments - con la totale disponibilità da parte dell’analista a mettersi in

gioco personalmente nella situazione, esponendosi senza difese ai suoi elementi di novità

e al suo impatto emotivo e offrendo così una risposta che attesti, per ambe le parti, la

saldatura di di un nuovo piano di sintonizzazione emotiva.

I momenti più interessanti sorgono quando il paziente fa qualcosa che è difficile

catalogare, qualche cosa che richiede una reazione nuova e diversa, contraddistinta da

una firma personale che fa condividere al paziente lo stato soggettivo dell’analista (affetti,

fantasie, esperienze reali ecc.). (...) Il terapeuta deve usare un aspetto specifico della

propria individualità, un aspetto che porta una connotazione personale. I due soggetti si

incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai

loro rispettivi e ordinari ruoli in terapia. Inoltre le azioni che costituiscono il “momento di

incontro” non possono essere consuete, abituali o tecniche; devono essere nuove e

forgiate per soddisfare le particolarità del momento.58

Vi sono da ultimo, per concludere, linee assai rilevanti di convergenza del pensiero

mindful con l’impostazione junghiana. Già l’insistenza sul non sottrarsi al confronto con

temi dolorosi o allarmanti e soffermarsi, al contrario, in un contatto approfondito con essi

risuona affine alla basilare prescrizione di Jung sull’importanza di ‘stare nel conflitto’

perché si produca un cambiamento spontaneo e più autentico - la cosiddetta funzione

trascendente (ciò sia nel conflitto esclusivamente interiore, sia nel confronto

intersoggettivo). In aggiunta a questo ritengo assai significative alcune considerazioni

recenti (penso, in particolare, all’ultimo libro di Maria Ilena Marozza59) sulla questione - a

cui si è qui solamente accennato - della tensione all’oggettività nell’ascolto analitico. In

sintesi, ritiene Marozza, si può pensare ad una base di oggettività in psicoanalisi a

condizione di fare spazio (esattamente come propone l’approccio mindful) alla dimensione

sensoriale-affettiva, che in ogni caso accompagna sempre la comunicazione verbale, la

completa, la qualifica e la precisa radicandola nello spessore psico-corporeo; ma si

differenzia, contestualmente, da essa perché non confluisce nell’astrattezza dei segni e

quindi non si offre, al pari di questi, all’immediatezza della comprensione linguistica. Essa

piuttosto trattiene nel concreto, contagia e provoca alla ricerca di una comprensione che

non può contare su di un sapere generalizzabile (ma quindi non può nemmeno venir

tradita o fraintesa in forza di preferenze teoriche o categoriali) ma obbliga - proprio come il

simbolo60 - a soffermarsi nell’esperienza e a esporsi a lungo al coinvolgimento e alla

58

Cfr. The Boston Change Study Group (2010), Il cambiamento in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano 2012: 15-16. 59

M.I. Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo 2012. Ma vedi anche M.La Forgia e M. I. Marozza, Le radici del comprendere, Fioriti, Roma 2005 e M. La Forgia e M. I. Marozza (a cura di), La conoscenza sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo 2008. 60

Sull’affinità fra impegno in chiave di ‘capacità negativa’ e esperienza simbolica ho scritto in G. Kaufman, “Il silenzio del padre nella relazione analitica. Bion, Jung e una rilettura del simbolico” in Il Padre. Parola Silenzio Trasformazione”, Atti dell’XI Convegno Nazionale del Centro Italiano di Psicologia analitica,

17

condivisione: e appunto qui, in questo tratto non riducibile di autoreferenzialità o

intransitività è quanto rende “la realtà dell’affetto ... la manifestazione fenomenica e del

tutto oggettiva, di una supponibile realtà dell’inconscio: poiché, come scrive Matte Blanco,

nulla ci conduce ad una chiara distinzione psicologica fra l’emozione e l’inconscio”.61 In

particolare, nello specifico della costruzione junghiana il nesso mai del tutto scindibile fra

strato sensoriale-affettivo e dimensione rappresentativa-ideativa, su fino al piano verbale-

razionale si salda nell’unità dei complessi e nel loro operare a differenti livelli di coscienza

cui corrispondono modalità qualitativamente diverse (ma tali da confrontarsi e completarsi

l’una con l’altra) di registrazione delle esperienze. Ne segue “la possibilità ... di insediare

l’ordine linguistico e la capacità di significare nell’ordine dell’esperienza soggettiva vitale e

diretta”.62 E in primo luogo di riscontrare le rappresentazioni logico-razionali ma in potenza

del tutto astratte del complesso dell’io (inclusa la distinzione che solo qui si rappresenta

compiutamente fra il sé ed il mondo) con quanto si esprime dai complessi secondari in

modo più indistinto ma impegnativo e pregnante dell’esistenza emozionale e sensoriale di

base.

Vivarium 2002. Sul coincidere fra esperienza simbolica e incontro con la “cosa in sé” vedi M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986: 80-83. 61

Scrive ancora Marozza: “Solo in questo senso possiamo tenere insieme il significato più profondo del termine inconscio, come ciò che non è conosciuto, ritenerlo eternamente tale e connaturato all'esperienza umana e nello stesso tempo considerarlo assolutamente influente e talmente oggettivo da poter essere la vera fonte dell'attività psichica, manipolabile dalla soggettività cosciente solo nella direzione da esso stesso consentita.” (M.I. Marozza, op. cit.: 210-211). 62

Ibidem: 207.

GIANNI KAUFMAN

SE’/NON SE’. INTRECCI TRA BUDDISMO E PSICOANALISI

SEMINARIO CIPA. MILANO 12 OTTOBRE 2013.

1. Oggetto del mio intervento è l’incontro - che risale almeno alla metà degli anni ’90 - fra

buddhismo, psicoanalisi e psicologia analitica e le ricadute o gli ulteriori sviluppi di questo

incontro riferibili essenzialmente a due temi: 1) sul piano teorico la natura o le

caratteristiche proprie del sé, 2) sul piano pratico la qualità della consapevolezza o

dell’attenzione in psicoterapia e il ruolo che in questo ambito può riconoscersi alla pratica

meditativa. Se si accantonano, ma solo momentaneamente, i contributi propriamente

junghiani - la teoria dei complessi e la metapsicologia del Sé - l’incontro fra psicologia

dinamica e l’impresa di decostruzione del sé della tradizione buddista si prepara anzitutto

con le proposte, al tempo assai innovative, della psicoanalisi relazionale.1 Già in un lavoro

del ’93 Stephen Mitchell (un autore non espressamente interessato al buddismo) notava il

succedersi nella tradizione psicoanalitica di due metafore per la rappresentazione del sé:

una metafora di tipo spaziale - quella di Freud - “il sé come stratificato, singolo e continuo

(...) la mente come un posto in cui le cose accadono, il sé come qualcosa in quel posto,

composto di parti o strutture costitutive”. E una metafora di tipo temporale, inclusa

dapprima nella teoria delle relazioni oggettuali e sostenuta, dopo di essa, dai vari approcci

di tipo relazionale. Qui il sé coincide con esperienze differenziate secondo l’ambito e la

qualità dei rapporti, e quindi è inteso come molteplice e discontinuo. “Poiché apprendiamo

a divenire persone mediante l’interazione con differenti altri e attraverso interazioni

differenti col medesimo altro la nostra esperienza del sé è discontinua, composta di

differenti configurazioni, differenti sé con differenti altri. (...) il risultato è un’organizzazione

plurale e multiforme del sé, modellata su differenti immagini o rappresentazioni del sé e

dell’oggetto, derivate da differenti contesti relazionali.” Così “i sé cambiano e si

trasformano continuamente nel tempo, e una singola vita è composta di più sé.

Un’esperienza del sé ha luogo necessariamente in un momento del tempo; essa riempie

lo spazio psichico e un’altra versione alternativa del sé sfuma sullo sfondo”.2 Ancora: se

applichiamo la prima metafora, - il sé come entità singola e stratificata - “ha senso

approcciarlo come (...) una cipolla, tentare di situarne il ‘centro’ o il ‘cuore’, delinenarne gli

strati, differenziarne le parti autentiche da quelle false, la struttura protettiva e così via”.3

Se tuttavia “il sé si muove nel tempo piuttosto che esistere nello spazio non ha un nucleo

fisso”. La ricerca di un nucleo invariante o di un ‘vero’ sé, colto ai suoi inizi, nella sua

essenza presociale, al di sotto degli adattamenti e delle negoziazioni con altri, “implica

rimuovere il sé dal tempo, uno sforzo male indirizzato per rendere statiche le

organizzazioni mutevoli dell’esperienza del sé.” Può accadere che io mi senta più

autentico (o meno autentico, meno spontaneo o più stereotipato) in certi modi di agire o di

esprimermi, in certe occasioni o in certe situazioni: ma ciò non implica rinviare ad un

‘nucleo’, a un ‘vero’ o ‘un ‘autentico’ me. “Facciamo esperienza di noi stessi nel tempo.

1 Per una critica stringente, sul piano filosofico, dei presupposti e delle implicazioni dell’approccio relazionale

vedi il recente lavoro di J. Mills, Conundrums. A Critique of Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York 2012. 2 S. A. Mitchell, Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York 1993: 101-104.

3 Ibidem: 101.

2

Possiamo valutare una nuova esperienza in termini di continuità o discontinuità col

passato e il presente; una nuova esperienza può rappresentare ed esprimere la propria

storia e la situazione presente oppure negare e tradire la propria storia e condizione

presente o ancora riformulare la propria storia e condizione presente in un modo nuovo e

arricchente. Il senso di autenticità è sempre una costruzione, e come costruzione è

sempre relativa ad altre possibili costruzioni del sé in ogni tempo particolare.”4

Con tutto questo - chiariva Mitchell - non può negarsi anche l’esistenza di un senso o di un

vissuto di continuità nell’esperienza del sé, indipendente dai cambiamenti nel tempo, in

forza del quale mi rappresento, ad ogni istante, come un Io identico, a cui rimandano i miei

ricordi in passato e che proietto nel mio futuro. Questo sentire è anche condizione di un

senso di agency, di continuità e responsabilità nell’agire, e ancora della possibilità di

imporre un’ordine di priorità a scopi impulsi e motivazioni, il non sentirsi trascinati qua e là.

Ciò è vero anche se non è semplice, all’atto pratico, stabilire quanto vi sia in tutto questo

di soggettivo o propriamente oggettivo. “Può essere che io faccia tutto ciò che faccio, ma

può anche essere che io faccia certe cose in contesti esperienziali del tutto diversi da

quelli in cui faccio altre cose. L’Io che fa cose diverse è un Io diverso in tempi diversi”.5 E

In ogni caso questa maniera di rappresentarsi del sé come agente autonomo e separato

non pare rispondere - Mitchell cita qui Clfford Geertz - a un’istanza evolutiva di tipo

universale quanto, piuttosto, a un dato culturale:

La concezione occidentale della persona come un universo motivazionale e cognitivo

delimitato, unico, più o meno integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emozione,

giudizio e azione organizzati in un insieme distinto e contrapposto sia ad altre entità simili

sia al contesto sociale e naturale è, per quanto incorreggibile ci sembri, un’idea

abbastanza peculiare nell’insieme delle culture mondiali.6

Può a questo punto suonare discordante, dopo tanti argomenti a favore di un sé

relazionale e molteplice, che le conclusioni di Mitchell siano da ultimo caute. “Potrebbe

ritenersi” - leggiamo infine - “che il senso di continuità nell’esperienza del sé sia totalmente

illusorio. Esso però assolve, almeno nella nostra cultura, a un’importante funzione

adattiva” E d’altra parte i due modi di rappresentare il sé - come molteplice e discontinuo,

e come integro, continuo e separabile, non sono reciprocamente esclusivi. “Le persone

4 Ibidem: 130-131. Anche le nozioni di Winnicott di ‘vero‘ e ‘falso’ sé riferite al rapporto del bambino col seno,

secondo Mitchell, “sono un importante punto di partenza ma si tratta di una situazione troppo semplificata quando si considera l’esperienza adulta. Tutte le motivazioni personali hanno una lunga storia relazionale, il sé è sempre immerso in contesti relazionali, attuali o interni, perciò tutte le motivazioni importanti sono apparse e hanno preso vita e forma in presenza e attraverso le reazioni di altri significativi.” (Ibidem: 134) 5 Ibidem: 109.

6 C. Geertz, “From the Native’s Point of View: On the Nature of Anthropological Understanding” in Local

Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York 1979: 59, citato da S. Mitchell, op. cit.: 110. Vedi anche quanto scrive J. Engler, “Being Somebody and Being Nobody: A Reexamination of the Understanding of Self in Psychoanalysis and Buddhism” in J. D. Safran (a cura di), Psychoanalysis and Buddhism. Un Unfolding Dialogue, Wisdom Publications, Boston: 51: “Nelle culture da cui il Buddismo è emigrato verso occidente, preminentemente in India e Giappone, il senso del sé è molto più mescolato con gli altri in un ‘senso del noi’ che è profondamente differente dall’’Io-sé’ separato ed autonomo dell’esperienza occidentale. Il sé è esperito come incorporato in una matrice di relazioni e come definito da tali relazioni, non solo la matrice delle relazioni umane e sociali ma la matrice più comprensiva delle relazioni all’interno del mondo della natura, e da ultimo il cosmo nel suo insieme”.

3

agiscono sia in modo discontinuo che in modo continuo. (...) In ogni momento dato una

persona opera a partire da un determinato contesto relazionale (...); al contempo quella

specifica versione del sé contribuisce a dar forma a una sequenza continuativa di

esperienza che ha le sue caratteristiche distintive. (...) Pensiamo al sé come alla sequenza

dei fotogrammi di un film. In ambedue i casi l’esperienza del movimento e della continuità

è un’illusione. Ma “l’illusione” “crea un’esperienza che ha una grande ricchezza soggettiva

in proprio, producendo un’immagine più ampia e ‘in movimento’ molto diversa (e molto

maggiore) della semplice somma delle immagini singole”. Similmente nel percorso

analitico “quanto più l’analizzando può tollerare di esperire versioni molteplici di se stesso,

tanto più si vivrà come forte, duraturo e capace di resilienza. E reciprocamente quanto più

l’analizzando ritrova dei tratti di continuità nel passaggio tra le sue varie esperienze, tanto

più può reggere la diffusione di identità implicita nel far convivere molteplici versioni del

sé”.7

Resta comunque, del discorso di Mitchell - e, se si vuole, anche in virtù delle sue

conclusioni - il punto forse più innovativo. Che si privilegi l’aspetto della discontinuità e

molteplicità o invece quello della continuità, il sé viene a perdere in ogni caso qualsiasi

carattere sostanziale per riproporsi come mera rappresentazione: capace, proprio per

questo, di più versioni e modi di esperienza possibili, nessuna eguagliabile a un ‘vero sé’.

Un corollario di questa innovazione è un diverso approccio ai temi dello sviluppo. Così

l’idea di un sé preesistente alla nascita il cui realizzarsi può solamente essere facilitato o

impedito lascia spazio all’ipotesi di più percorsi possibili grazie al convergere tra

potenzialità del bambino e influsso prevalente dell’uno o l’altro caregiver.8 Inoltre - si fa

ancora osservare - già negli scritti di Winnicott, l’opposizione tra sé ‘vero’ e ‘falso’ viene

formulata anche come antitesi fra non-integrazione - la possibilità per l’infante di rilassarsi

e abbandonarsi all’esperienza del gioco alla presenza rassicurante della madre - e

necessità di reagire, in modo prevalente, a stimoli o intrusioni esterne. In quest’ultimo caso

- ma solo in questo (ad esempio quando debba far fronte ad una madre angosciata o

depressa) - il bambino isola un proprio mondo privato (il suo ‘vero sé’) fino a nasconderlo

perfino a se stesso e si concentra sulla gestione del mondo esterno.9 Un ultimo modo,

infine, di ripensare quell’opposizione è prender atto della tensione costante, nel corso

della vita di ognuno, fra spontaneità e esigenza di conservare relazioni sicure10 (perciò

tener conto del proprio impatto sugli altri) o ancora fra agentività e relazionalità11 o fra

7 S. Mitchell, op. cit.: 115-116.

8 Ibidem: 129.

9 Scriveva Winnicott : “Soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la

propria vita personale. L’alternativa patologica è una vita falsa costruita su reazioni agli stimoli esterni. Quando è solo, nel senso suddetto, e solamente quando è solo, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, e cioè è in grado di diventare non-integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un po’ senza essere né qualcosa che reagisce ad un urto dall’esterno, né una persona attiva con una direzione d’interesse o di movimento. (...) Solamente in queste condizioni il bambino può avere un’esperienza e sentirla come reale. Un gran numero di tali esperienze formano la base di una vita reale e non futile.” (D. W. Winnicott (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando, Roma 1974: 36.). In età adulta situazioni analoghe di ‘non-integrazione’ in presenza d’altri (o relazionalità non reattiva) saranno condizioni per una crescita di creatività. (Cfr. M. Masud R. Khan, “On Lying Fallow” in Hidden Selves, Hogart Press, London 1983: 183-188.) 10

S. Mitchell, op. cit.: 133. 11

J. D. Safran e J. C. Muran, op.cit.: 39.

4

efficacia e esigenze di sicurezza.12 Il contrasto non è analizzabile in termini di contenuti

(come nella vecchia teoria freudiana delle pulsioni dove l’Es è tenuto a bada da Io e

Superio) e neanche in termini di priorità precostituite (come nell’ipotesi del ‘vero’ sé), ma

nella maggiore o minore capacità di un negoziato flessibile fra le due istanze. Questa

formulazione è già compatibile con un quadro teorico che all’antitesi ‘sé’ vero o falso’

sostituisca l’assunto di “numerosi stati del sé che lottano per dominare nello stato di

coscienza in un determinato momento”.13

E appunto questo - di una pluralità originaria di stati del sé - è l’assunto che ispira, in modo

forse anche più radicale del lavoro di Mitchell, il secondo contributo importante che va qui

ricordato - gli scritti sulla dissociazione di Philip Bromberg. L’esperienza di unità e

continuità del sé, per Bromberg, è senz’altro illusoria e “è generata dalla capacità

evoluzionistica della mente di radicare la coscienza in una delle configurazioni di stati del

sé che risultano più adattive in quel momento”.14 Di fatto “l’esperienza di sé si origina da

stati del sé relativamente isolati fra loro, ognuno con una propria coerenza interna” ma

“quando (...) tutto procede bene una persona è solo vagamente e momentaneamente

consapevole dell’esistenza di stati del sé individuali e delle loro rispettive realtà: questo

perché ognuno funziona come parte di una salutare illusione di identità personale unitaria

- uno stato cognitivo ed esperienziale sovraordinato sentito come ‘me’.” In questi termini

“la dissociazione (...) è una funzione sana e adattiva della mente umana. E’ un processo di

base che consente agli stati individuali del sé di funzionare in modo ottimale (e non in

modo semplicemente difensivo) quando ciò di cui abbiamo veramente bisogno o

desideriamo è una totale immersione in una singola realtà, in un singolo affetto forte, e

una sospensione della capacità autoriflessiva.”15

L’illusione di unità e di continuità così resa possibile - da questo genere di dissociazione

non difensiva - si caratterizza per il fatto di lasciar spazio alla capacità riflessiva e quindi

alla comunicazione anche con stati momentaneamente non in primo piano nell’esperienza

del sé. Bromberg usa l’espressione “restare negli spazi” per descrivere “la relativa

capacità della persona di ospitare in un dato momento una realtà soggettiva che non può

essere facilmente contenuta dal sé che in quel momento sente come ‘me’”. Questa

capacità di comunicare, momento per momento, con esperienze del sé discrepanti è

anche condizione della comunicazione intersoggettiva, ossia della capacità che le persone

hanno - ancora una volta: se tutto procede bene - di aprirsi all’esperienza che altri fanno

di loro.

Ma a volte - anzi, piuttosto spesso - non tutto procede bene. L’immagine del sé rimandata

dall’altro (o - che è lo stesso - da altri stati del sé) “può essere sentita troppo discrepante

dall'esperienza di sé che si sta facendo in quel momento per far sì che entrambe possano

essere conservate in mente simultaneamente”. In questo caso la dissociazione si piega

alla funzione - solo difensiva - di conservare “le esperienze di sé eccessivamente

discrepanti in stati del Sé separati che non comunicano tra loro, per lo meno per un certo

12

J. Greenberg, Oedipus and beyond, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1991: 129 sgg. 13

J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 115-116. 14

P. M. Bromberg (2011), L’ombra dello tsunami, Cortina, Milano 2012: 100. 15

P. M. Bromberg (1998/2001), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano 2007: 211.

5

periodo”; e può trattarsi di un periodo breve, per affrontare una situazione momentanea di

stress, ovvero più lungo o dell’intera esistenza. L’illusione di unità e continuità del sé ha

allora come condizione proprio il persistere della struttura dissociativa:

La mente/cervello organizza i suoi stati come un sistema protettivo che tenta,

proattivamente, di zittire l'accesso esperienziale a stati del Sé discrepanti con la gamma di

stati, limitati dissociativamente, di cui si fa esperienza in un dato momento come "me".

Questo rigido sequestro di stati del Sé per mezzo di una struttura mentale dissociativa è

talmente centrale per la personalità di alcuni individui che, virtualmente, modella tutto il

funzionamento mentale, mentre per altri il suo range è più limitato. Ma, a prescindere dalla

misura o dal range, la sua funzione evoluzionistica è di assicurare la sopravvivenza della

continuità del Sé relegando il funzionamento riflessivo a un ruolo minore, o a nessun

ruolo.16

Ciò è quanto accade, tipicamente, in occasione di traumi - sia traumi gravi (abusi sessuali

o fisici) sia, soprattutto, di traumi evolutivi: in questo caso, agendo ancora una volta al

servizio della continuità del sé e perciò conformandosi ai primi modelli di attaccamento,

saranno dissociati gli stati del sé ignorati o disconfermati dai genitori. Questi stati saranno

esclusi in permanenza dalla comunicazione in quanto non mentalizzati all’origine - non

confrontati col loro modo di apparire nella mente dell’altro - pertanto tendenzialmente non

simbolizzati sul piano cognitivo e quindi non recuperabili a un’unità del sé garantita

dall’autoriflessione (il mancato operare della comunicazione intersoggettiva sarà in questo

caso non conseguenza ma proprio l’origine della frattura dissociativa). Ne seguirà un

sentimento inguaribile di inautenticità imputabile, come visto sopra, non al tradimento del

‘vero sé’, ma all’eslcusione di un qualsiasi stato o aspetto del sé dall’esperienza

interpersonale.

Il Sé vissuto come vero è sentito essere sempre quello che sta bussando alla porta - la

voce interna antagonista, udita ma non "pensata" (Bollas, 1987). Questa voce viene

sentita inevitabilmente come più vera sul piano soggettivo semplicemente perché essa

contiene una "verità" diversa ma non formulata - una visione alternativa della realtà che

viene negata al sé che sta intrattenendo rapporti con il mondo, rendendolo così limitato sul

piano relazionale e compromesso nella possibilità di sentirsi autentico. Come ha detto

Mitchell (1993), "ciò che può sembrare autentico nel contesto di una versione del sé può

essere completamente inautentico rispetto ad altre versioni".17

2. Dopo questo richiamo, indispensabile per inquadrare il discorso, ai contributi della

psicoanalisi relazionale - ci si è limitati, a fronte di una produzione ormai molto ampia, a

due autori particolarmente influenti e significativi - si può dar spazio agli interventi

propriamente ispirati alla tradizione buddista. Qui la natura illusoria o piuttosto ingannevole

dell’unità e continuità del sé non è più solo ricondotta all’onnipresenza delle dinamiche

dissociative - così efficacemente illustrate da Bromberg - o all’intreccio relazionale delle

16

P.M. Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 14-15. 17

Ibidem: 128.

6

identità. In primo piano è invece il contrasto fra la preoccupazione costante e pervasiva

che più o meno tutti ci caratterizza - ma che è alla base, secondo il Buddha, di ogni

sofferenza - di preservare, proteggere, espandere il sé, e il dato radicale della sua

impermanenza, non autonomia e non separatezza, al pari di ogni essere e di ogni cosa

esistente. E’ un fatto che se poniamo attenzione, momento dopo momento, al flusso della

coscienza a monte degli automatismi con cui di solito selezioniamo, organizziamo e

interpretiamo i dati percettivi, concettuali e affettivi non incontriamo alcuna entità duratura,

nessun soggetto o oggetto costante ma solo operazioni con cui, momento dopo momento,

a partire da quei dati elementari di continuo e sempre di nuovo strutturiamo in modo

dualistico la nostra esperienza opponendo insiemi di oggetti distinti l’uno dall’altro e dal sé.

Come osserva Jack Engler

Il costrutto-sé ... è incorporato nella caratteristica più profondamente radicata del pensiero

e della percezione umana: la tendenza a considerare ogni oggetto dell’esperienza o della

percezione come un’entità separata o una ‘cosa’ dotata della sua esistenza e identità

concreta e separata e solo in un secondo momento in relazione con altre ‘cose’. (...) Ma la

‘cosalità’ o la ‘esistenza inerente’ è in realtà un’imputazione o un’attribuzione, non una

caratteristica delle ‘cose. (...) Come scrive la studiosa buddista Anne Klein “Le cose

semplicemente sembrano odorano e si fanno gustare come più solide individuabili e

intrisecamente disponibili di quanto in realtà non siano.” (...) Questa “attribuzione non

pensata di inerenza” a sé e agli altri è la “ontologia vissuta che sottosta ad ogni altra

esperienza di seità, inclusi i moderni sé psicologici” e specialmente la rappresentazione in

parte conscia in parte inconscia del sé come entità singola, unica e separata “collocata nel

profondo di noi stessi”.18

Detto in altri termini:

Il sé dell’uomo è un’azione: è qualcosa che facciamo per unificare la nostra soggettività

nello spazio e nel tempo, separandola dal flusso dell’esperienza e creandole un confine

intorno. Qualche volta facciamo questo consapevolmente, ma la maggior parte delle volte

lo facciamo senza avere consapevolezza del sé attraverso micromovimenti nelle nostre

percezioni che creano l’impressione di essere “qui dentro”, mentre qualcos’altro è “là

fuori”.19

La riduzione o decostruzione del sé che in questo modo si avanza è dunque più radicale

della innovazioni della psicoanalisi relazionale: il sé non soltanto è plurale e molteplice,

diversamente declinato per situazioni e rapporti; non solamente è rappresentazione, ma si

dà solo come relazione, come momento subordinato di questa - non c’è alcun ‘dentro’ se

non opposto a un ‘fuori’, non c’è alcun ‘io’ se non diretto a un ‘tu’20 - coinvolto,

18

J. Engler, op. cit.: 88. 19

P. Young-Eisendrath, “Il ruolo del non-sé nella creatività” in A. Molino e R. Carnevali (a cura di), Tra sogni di Budda e risvegli di Freud. Esplorazioni in psicoanalisi e buddismo, ARPANet, Milano 2010: 91. 20

Per una sintesi della formulazione più radicale di questo approccio, dovuta a Nagarjuna, si può vedere il lavoro non più recente ma ancora di grande interesse di F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991, cap. V. Vedi anche G. Kopf, “Di fronte all’altro. L’intrico psichico in Dogen e Jung” in A. Molino (a cura di) (1998), Psicoanalisi e buddismo, Raffaello Cortina, Milano 2001: 190-191.

7

inevitabilmente, sempre di nuovo ricostruito e dissolto nel dinamismo di un continuo fluire.

La stessa idea di qualche genere di costanza o ‘esistenza inerente’ attribuibile al sé non è

originaria ma è già prodotto del ciclo del karma - della causazione21 - dove prevalgono i

due opposti moventi dell’attaccamento e dell’avversione; e a sua volta è causa di

sofferenza, come già detto, perché sempre smentita dall’impermanenza, non separatezza

e finitezza del tutto. Si tratta allora, mediante la pratica meditativa, di mirare al risveglio,

alla consapevolezza non solo cognitiva ma esperienzale22 di queste verità, e le

implicazioni propriamente psicologiche di tale pratica sono già rilevanti: perché

presuppongono un definitivo ridimensionamento del sé non più quale soggetto, ma come

oggetto di consapevolezza - l’opposizione, quindi, almeno potenziale, tra modi della

soggettività e funzioni dell’Io. Se quelli sono da porre in problema queste, proprio nella

pratica meditativa, sono il più possibile potenziate: primo, per decostruire i processi (più

che altro inconsci) di costituzione, autoaffermazione e difesa dell’identità di soggetti;

secondo per accertarne funzionalità o interferenze in vista del crescere della

consapevolezza.23

Su questo punto si è già fatto cenno agli automatismi che reggono, d’abitudine, il nostro

rapportarci ai dati di esperienza. La meditazione di consapevolezza24 ci rende consci del

loro carattere prevalentemente difensivo-reattivo; ossia della nostra propensione a

distanziarci dalle esperienze e ad attutirne e filtrarne l’impatto mediante un flusso

praticamente incessante di fantasie e di pensieri - la cosiddetta proliferazione mentale -

che ne rielaborano ovvero ne anticipano le implicazioni sotto il profilo dell’attaccamento o

dell’avversione (rimuginazioni intorno al passato, speranze e attese circa il futuro); e ne

riducono la novità e la ricchezza reinterpretandola secondo termini e coordinate già note.

L’intento, almeno a prima vista, è pararne il carattere sorprendente o frustrante ampliando

per quanto possibile il controllo dell’Io. Ma ciò cui spesso veramente si mira è

salvaguardare per quanto possibile la certezza e la continuità della rappresentazione del

sé; e ciò anche a spese, se necessario, di un confronto paziente e puntuale col dato

concreto e di un pieno incontro con le emozioni che davvero assicurerebbero, anche nelle

situazioni più complicate o frustranti, non una reazione semiautomatica ma una risposta

mirata, più pertinente e più efficace dell’Io. Scrive in proposito un autore buddista:

L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale

è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e

definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente. 21

Un’utile sintesi ancora in F. J. Varela et al., op. cit.: 110 passim. 22

Come osserva J. Engler (op. cit.: 93) una consapevolezza solo cognitiva comporta ancora il punto di vista di un sé separato. 23

Su tutto questo M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 86 sgg. e 117. 24

Si distinguono, più precisamente, pratiche di meditazione formale (attenzione al respiro, alle sensazioni del corpo, alle percezioni, ai pensieri) da svolgersi in posizione seduta oppure sdraiata o anche camminando; e pratiche di meditazione informale consistenti ad esempio, nell’apprezzare intensamente e a lungo, in tutte le sue sfumature il sapore di un cibo, la bellezza e i colori di un giardino, i dettagli di un percorso abituale, i singoli momenti e le sensazioni di qualsiasi attività come farsi la doccia o lavare i piatti. Soprattutto le pratiche formali, come quella descritta sopra relativa al respiro, intendono non tanto far crescere direttamente l’accettazione quanto renderci attenti al nostro resistere all’accettazione, al nostro continuo ‘sganciarci’ dall’adesione al presente. Su questo vedi C. Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994 : 157-158. Vedi anche più in generale Thich Nhat Hanh (1987), Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma 1992.

8

... Invece che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo

di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per

aver luogo ben di rado. ... Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza

ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che

essa ci appaia così come ce la raccontiamo. E dunque l’indugiare frequentemente in

pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare

‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto,

all’ignoto.. E così pure quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli

avremmo voluto dire, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura

e simili. ... Noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia ... noi vogliamo

parlare nella rabbia, pensare e immaginare nella rabbia anche se tutto ciò che diciamo è

prevedibile, anzi è importante proprio perché è prevedibile, noto, abituale. In questa

maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia ... ne rimaniamo separati da quella

barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.25

La libertà da che viene perseguita - su un piano, peraltro, solo immaginativo-ideativo -

come difesa ad oltranza di una rappresentazione costante e rassicurante del sé, mediante

gli automatismi della proliferazione mentale, è a spese, assai spesso, della libertà di - di

un esercizio competente e efficace delle funzioni dell’Io.26 Grazie alla pratica meditativa

possiamo apprendere tuttavia ad osservare i nostri pensieri e le nostre reazioni

automatiche, ma senza agirli e identificarci con essi. Così facendo sarà possibile,

progressivamente, evitare l’irrigidirsi e il consolidarsi (sempre a livello immaginativo-

ideativo) degli aggregati percettivo-affettivi del sé e degli oggetti, mentre al contempo

accoglieremo e lasceremo operare le nostre emozioni, ci apriremo all’emergere di spunti

diversi, amplieremo lo spazio di ideazione e di azione. L’unità o continuità del sé così

realizzabile, come osserva Mark Epstein, sarà assimilabile sempre meno a un’entità fissa

e sempre più a “un flusso di consapevolezza ... sempre in evoluzione ... un processo mai

del tutto concluso di autoscoperta e autocreazione” e l’io dovrà subordinare, per quanto

possibile, a questa fluidità processuale ogni pretesa alla stabilità.

L"Io' è il veicolo individuale per attuare questi incontri, ma anch'esso non ha un'identità

intrinseca. Un lo sano inizia, si avvicina, stabilisce un contatto e si dissolve, per poi iniziare

il ciclo di nuovo. Un lo disturbato frappone ostacoli e interferisce con il contatto sano,

perpetuando la propria realtà a spese dell'interazione. (...) L'Io che è di ostacolo non

giunge mai alla trasparenza; il risultato sarà una persona contratta per la propria

sensazione di inadeguatezza. Un senso positivo del sé emerge solo quando l'Io permette

a se stesso di dissolversi.27

Di fatto facciamo già tutti quotidianamente esperienza - chi più chi meno - di questo

genere di fluidità o consapevolezza adualistica o priva di sé (più precisamente:

consapevolezza senza coscienza riflessiva del sé). Guidiamo l’automobile o qualche altro

25

C. Pensa, L’intelligenza spirituale, Ubaldini, Roma 2002: 30-32. 26

Spesso ma, ovviamente non sempre: gli automatismi della mente includono infatti primariamente, le attività di categorizzazione e astrazione che sono indispensabili all’apprendimento, alla previsione e alla sopravvivenza adattiva. 27

M. Epstein (2001), La continuità d’essere, Ubaldini, Roma 2002: 28-29.

9

veicolo adattando l’andatura alla situazione ed evitando possibili ostacoli senza necessità

di riflettere; ‘ci perdiamo’ nella contemplazione di uno spettacolo naturale, di una persona,

di un’opera d’arte o nel rapporto sessuale. Se sappiamo suonare uno strumento

muoviamo spontaneamente le mani nel modo giusto; similmente se siamo veramente

esperti in un arte marziale rispondiamo senza riflettere ma in modo del tutto adeguato alla

mossa dell’avversario.28 In tutti questi casi non siamo consci di noi stessi ma siamo

consapevoli, sintonizzati alla realtà del momento. Pensieri, sentimenti azioni avvengono

ma non sono esperiti come originantisi in o da “me”. Avvengono semplicemente in risposta

alle esigenze del momento per conto loro, senza forza o intenzione cosciente.29

Ancora Epstein insiste a lungo sull’affinità fra questo genere di disponibilità e fluidità

esperienziale - resa possibile da un alto grado di flessibilità o ‘trasparenza’ dell’Io - ed il

recupero, in età adulta, di uno stato di inintegrazione affine alla continuità d’essere

dell’infante (di cui parla Winnicottt) che può abbandonarsi all’esperienza del gioco potendo

contare sull’attendibilità della madre. Si è già detto sopra che questo stato di non-

integrazione - che riesce possibile, in età adulta, solo come resa30 o piena adesione al

presente31 - è quanto di più simile possa pensarsi, in un’ottica relazionale, a un’esperienza

del ‘vero’ sé. Anche per una psicoanalisi del non-sé ispirata al buddismo non c’è

ovviamente alcun vero sé se non nel “processo mai del tutto concluso di autoscoperta e di

autocreazione” (di cui parla Epstein) reso possibile da questa adesione. O se si vuole -

come appena visto - il ‘vero sé’ è il venir meno dell’autocoscienza messa a guardia

dell’autocentramento del sé”32; o ancora, in termini kohutiani, “per il non-sé tutte le

esperienze sono esperienze mature di oggetti-sé.33

Che dire, infine, in una prospettiva junghiana? Il netto rifiuto degli autori buddisti di

riconoscere al sé qualunque genere di consistenza ‘ontologica’34, e l’insistenza nel non

vedervi di più che una rappresentazione (per giunta, in linea di massima fuorviante e

ingannevole) suona, a ragion veduta, in aperto contrasto con la nozione junghiana del Sé

quale ‘centro’ della totalità psichica e ancor di più, in quanto meta del processo di

invididuazione, quale portatore di un senso. Ma a fronte di ciò, e anche tralasciando le

affinità, rilevate da Jung,35 tra la propria psicologia e il cammino buddista, occorrerebbe

28

G. Kopf, op. cit.: 193. 29

J. Engler, op. cit: 60.61. 30

Sul tema della resa vedi l’ottimo studio di E. Ghent, “Masochism, Submission, Surrender: Masochism as a Perversion of Surrender” in S. A. Mitchell. L. Aron (a cura di) Relational Psychoanalysis. The Emergence of a Tradition, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 211-242. 31

L’insistenza sull’attenzione esclusiva al presente, implicita in questa concezione, è ben illustrata dal famoso koan Zen: “In questo preciso momento, non pensando né al bene né al male, mostrami il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori”. “Essendo andati oltre il dualismo, oltre ‘il pensare il bene ed il male’ c’è un vero sé essenziale? Budda ha insegnato che il sé è ‘vuoto’, che non ha assolutamente natura fissa o essenziale. Tutto quello che c’è è ciò che le stesse parole di apertura del koan ci dicono: essere proprio questo momento è il nostro vero sé. Il nostro volto originario non può essere altro che il volto di questo momento”. (B. Magid, “Your Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 265-266) 32

P. A. Ringstrom, “Psychoanalysis and Buddhism: Two Extraordinary Paths to An Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 288. Così, prendendo le distanze da Winnicott, anche M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 68-69. 33

B. Magid, op. cit.: 271. 34

Vedi in proposito di nuovo J. Engler, op. cit.: 52. 35

C.G. Jung (1939), “Prefazione a D.T. Suzuki, ‘La grande liberazione. Introduzione al buddismo zen’” in Opere, XII, Boringhieri, Torino 1979: 549-567.

10

ancora considerare tre aspetti. 1) Col segnalare la finalità difensiva (della continuità e della

sicurezza del sé) del pensare per segni - cioè del ridurre il vissuto al concetto, il nuovo, il

particolare e l’affettivamente pregnante all’astratto e al già noto) il pensiero buddista

mostra di privilegiare un’attenzione al concreto, al differente, al non riducibile che è

rispetto profondo (come ancora vedremo) di ogni alterità ma è anche del tutto affine, nel

contesto junghiano, all’esperienza simbolica - al modo proprio di manifestarsi dell’alterità

dell’inconscio. 2) L’idea di un sé solo processuale che non conosce un’identità

precostituita ma che si esplica e con ciò stesso si scopre, momento dopo momento, solo

nella pratica dell’accettazione, cioè nella piena adesione al presente, è molto simile

all’idea junghiana di individuazione come ricerca/accettazione del corpo, della propria

forma, e del proprio limite. 3) Infine Jung mette in relazione la sua nozione del sé con

l’idea buddhista di una ‘coscienza della coscienza’:

La possibilità che esistano vari stadi nello sviluppo della coscienza non ci viene nemmeno

in mente; il solo pensiero che esista una forte differenza psicologica fra la coscienza

dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto assomiglia

molto da vicino a un cavillo che appena merita risposta. (...) Furono lo yoga in India e il

buddhismo in Cina a dare l’avvio a questi tentativi di strapparsi alla cattività di un dato

stato di coscienza, sentito come imperfetto. Per quanto riguarda la mistica occidentale i

suoi testi sono pieni di istruzioni sul modo in cui l’uomo possa e debba liberarsi dell’essere

Io della sua coscienza, onde elevarsi, per mezzo della conoscenza della sua natura, al di

sopra di questa e raggiungere l’uomo interiore (divino). (...) Questo nuovo stato di

coscienza derivato dalla pratica religiosa si distingue per il fatto che le cose esteriori non

influiscono più su una coscienza fatta di Io ... ma che una coscienza vuota è aperta a

un’influenza diversa. Questa influenza “diversa” non è più sentita come attività propria, ma

come quella di un non-Io il cui oggetto è la coscienza. E’ come se il carattere soggettivo

dell’Io fosse stato sopraffatto o assunto da un altro soggetto che si fosse messo al posto

dell’Io.36

L’obiezione buddhista a a queste note di Jung sarebbe che una ‘coscienza della

coscienza’ che la ponesse a oggetto di un altro soggetto sarebbe appunto coscienza di un

oggetto (di quella stessa coscienza oggettivata) non della coscienza colta nel suo operare

come “carattere soggettivo dell’io” o soggettività conoscente; allo stesso modo in cui

l’occhio può vedere se stesso come oggetto riflesso in uno specchio ma non nell’atto del

suo vedere. Ne segue che se si vuole pensare il Sé come ‘coscienza della coscienza’37

non si può porlo come ‘altro soggetto’ cui si oppone un oggetto. Come chiarisce assai

bene Engler

non posso osservare direttamente il mio sé osservante. Se lo faccio ... muto soltanto l’atto

della consapevolezza in un altro oggetto di consapevolezza in una regressione all’infinito.

... (...) Il sé che io rappresento, il “sé” che io posso conoscere o afferrare non è mai “me”.

L’occhio che vede, dice lo Zen, non può vedere sé stesso. E infine è chiaro: non possiamo

staccare il nostro “sé” dalla consapevolezza perché siamo quella consapevolezza.

36

Ibidem: 555-556. 37

Ibidem: 553.

11

In questo senso la consapevolezza non è semplicemente una funzione dell’Io. (...) La

consapevolezza in quanto tale non può mai essere oggettivata, colta come un oggetto,

identificata coi contenuti della coscienza, rappresentata come “questo o “quello”. E’ di

natura fondamentalmente diversa: senza qualità, senza limiti, senza confini: (...) In

essenza Io non sono nulla che possa essere nominato o pensato, rappresentato o negato,

trovato o perso. “Chi sei” dice Sri Nisargatta Maharaj, “è indefinibile e indescrivibile. La

consapevolezza soggettiva è ciò che rende possibile l’esperienza, ma non è essa stessa

esperienza. (...) la piena realizzazione di ciò è la consapevolezza non dualistica come

proprio stato naturale. L’identificazione con ogni rappresentazione o attività di un sé

separato diviene impossibile”.38

E’ però interessante che altrove lo stesso Jung si avvicini molto a questa prospettiva:

Proprio come l’Io è una certa esperienza di me stesso, così il Sé è un’esperienza del mio

Io, vissuta però non più nella forma di un Io più vasto e più alto, ma in forma di un non-

Io.39

E ancora, più diffusamente:

Poiché il numero di possibilità è limitato si raggiunge ben presto una frontiera, o piuttosto

frontiere che arretrano una dopo l’altra presumibilmente fino al momento della morte.

L’esperienza di queste frontiere conduce gradualmente alla convinzione che quanto viene

esperito è un’interminabile approssimazione. Lo scopo di questa approssimazione sembra

essere anticipato da simboli archetipici che rappresentano qualcosa come la

circumabulazione di un centro. Al crescere dell’approssimazione al centro c’è un

corrispondente depotenziamento dell’Io a favore dell’influenza del centro “vuoto” che certo

non coincide con l’archetipo ma è ciò cui l’archetipo mira. Come direbbero i Cinesi,

l’archetipo è soltanto il nome del Tao, non il Tao in sé. Così come i Gesuiti traducevano

Tao come “Dio” così noi possiamo descrivere la “vuotezza” del centro come “Dio”.

Vuotezza in questo senso non significa “assenza” o “vacanza” ma qualcosa di

inconoscibile dotato della più elevata intensità. Se io chiamo questo inconoscibile “Sé”

tutto ciò che è accaduto è che gli effetti dell’inconoscibile hanno ricevuto un nome

aggregato, ma i suoi contenuti non ne sono affetti in alcun modo. Una parte

indeterminabilmente ampia del mio stesso essere è inclusa in esso, ma poiché questa

parte è l’inconscio non posso indicare i suoi limiti e la sua estensione. Il sé è pertanto una

concetto liminare, in alcun modo riempito coi processi psichici noti.40

3. Al terzo punto di questa esposizione sono le implicazioni di un pensiero analitico

ispirato al buddhismo per l’ascolto e la pratica psicoterapeutica. Anche in quest’ambito è

indiscutibile un nesso di continuità fra autori buddhisti e psicoanalisi relazionale (a sua

38

J. Engler, op. cit.: 66. 39

C. G. Jung, op. cit.: 553. 40

C. G. Jung, Letters, Routledge, London 1975, II: 258, traduzione mia.

12

volta vicina, per una serie di aspetti, alle posizioni originali di Jung41

). Sé del paziente e sé

del terapeuta sono intesi ambedue come relazionali e molteplici e ’normalmente o

patologicamente dissociativi’42 (nel senso già visto di Mitchell e Bromberg), e come tali si

esprimono e operano anche all’interno della relazione analitica. Il terapeuta, in particolare,

non si può ergere a ‘osservatore oggettivo’ - colui che ‘sa’ i contenuti dell’inconscio - né

l’attitudine del paziente verso di lui si può spiegare, in modo esauriente, come distorsione

dovuta al transfert. L’incontro analitico vive invece del gioco sempre irripetibile

dell’interazione fra quel paziente e quell’analista e della loro influenza reciproca (deve

restare, perciò, una questione aperta in qual misura questa interazione segua modelli

caratteristici di altre relazioni della vita del paziente); e il compito del terapeuta - che può

definirsi di osservatore partecipante - è 1) monitorare al meglio i propri sentimenti, le

proprie reazioni, anche le proprie sensazioni fisiche, 2) guidare, a partire di qui

un’osservazione congiunta di quanto accade volta per volta nel qui ed ora della relazione

per trarne ipotesi sui processi psichici del paziente. Da ripensare è anche il vecchio

concetto di ‘resistenza’, che non può più soltanto indicare una generica difficoltà del

paziente a divenir consapevole di certi sentimenti o emozioni ma deve includere anche il

contributo eventuale del terapeuta: ossia “esplorare che cosa il paziente teme che accada

se tali emozioni vengono espresse nel qui ed ora della relazione terapeutica”.43

La differenza essenziale tra questo approccio e quello della psicoanalisi tradizionale suole

riassumersi nel venir meno di ogni finzione o di ogni pretesa di ‘oggettività’ per il terapeuta

“relazionale. Ma ‘oggettività’ (o meglio: assenza di oggettività) si può ancora intendere in

una doppia accezione. Come mancanza di referenti o evidenze per il lavoro analitico il cui

significato sia indiscutibile, in quanto univoco e palese per tutti: non-oggettività, allora, col

significato di relatività, o impossibilità, intesa dal vertice dell’analista, di non trasferire

nell’interpretazione il carico della sua psicologia personale. O ancora, declinata invece dal

vertice del paziente, come portato dalla natura interpersonale del lavoro analitico che

come tale vuol rivolgersi all’altro nella sua differenza e nella sua unicità; nel suo sottrarsi,

pertanto, sempre e di continuo all’oggettivazione, a qualsiasi genere di omologazione

teorica e ad ogni riduzione a categorie ed a concetti con la conseguenza di destabilizzare

lo stesso analista: frustrandone le velleità di conoscenza e controllo, anche i bisogni di

distanziamento fra sé e il paziente, ed attraendolo a sua volta a coinvolgersi nella totalità e

quindi anche nell’assoluta specificità della propria persona.44 Lewis Aron, sulla scorta di

Winnicott e Jessica Benjamin,45 descrive proprio in questi termini l’andamento alternante -

fra oggettivazione e intersoggettività - della relazione analitica:

41

Sul punto vedi, da ultimo W. Colman, “Bringing it all back home: how I became a relational analyst”, The Journal of Analytical Psychology, 58, 4, Sept. 2013: 470-49. 42

Bromberg precisa, a questo proposito che il trauma evolutivo (o trauma relazionale) come egli lo intende “fa parte del processo di modellamento dei precoci pattern di attaccamento (incluso l'’attaccamento sicuro’), che a sua volta determina quelli che Bowlby (1969,1973,1980) chiama ‘modelli operativi interni’. (...) Vale a dire che il trauma connesso all'attaccamento è parte dell'esperienza passata di tutti e un fattore centrale in ogni trattamento; per alcuni pazienti però ha portato a una struttura mentale dissociativa che si è impossessata del funzionamento della personalità e della vita mentale, imponendo quindi la "Verità" su presente e futuro.” (P. M Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 71 e 103-104. 43

J.D. Safran. J. C. Muran, op. cit. : 100. 44

I riferimenti filosofici d’obbligo sono qui M. Buber (1984), “Io e tu” in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997 e E. Lévinas (1971), Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977. 45

Aron rimanda, in particolare, a D. W. Winnicott, “L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” in Gioco e realtà, Armando Armando, Roma 1974 e all’interpretazione di questo lavoro (come superamento dell’oggettivazione e come scoperta della soggettività della madre/altro) proposta da J.

13

Suggerisco che la relazione intersoggettiva sia continuamente interrotta tra le persone -

anche tra paziente e analista - scambiandola per una relazione soggetto-oggetto, e che

poi la relazione intersoggettiva sia ristabilita. Credo che l’intimità non coincida con

l’intersoggettività ma che, piuttosto, trascenda questa relazione dialettica. L’intimità implica

la sopravvivenza e il sostentamento di questa relazione tramite la continua creazione e

distruzione dell’intersoggettività.46

L’alternativa - o, più radicalmente, l’antidoto - al ‘pregiudizio’ dell’analista, in questa

prospettiva non è soltanto una comprensione più completa e migliore, resa possibile -

come propongono ad esempio Safran e Muran47 - in una sorta di dialogo ermeneutico; è

un coinvolgimento con la persona o l’esser soggetto dell’altro che ci mantiene in tensione

verso di lui, incessantemente in ascolto perché ci sollecita di continuo all’interpretazione

ma ci fa vivere via via come impropria e virtualmente insoddisfacente ogni comprensione o

qualsiasi giudizio. Questa visione - che riprende, incidentalmente, quasi alla lettera le

prescrizioni di Bion sulla capacità negativa e sulla necessità di astenersi (per l’analista) da

attività mentale, desiderio e memoria48 - è in sintonia con la dottrina buddhista, riferita

sopra, sui rischi della proliferazione mentale e sulle finalità difensive - per la stabilità della

rappresentazione del sé - della omologazione al già noto, a scapito delle capacità

percettive e dell’efficacia dell’Io. Qui infatti non si tratta già più - lo si è visto sopra -

soltanto di includere la soggettività conoscente (nel nostro caso quella dell’analista), come

nel primo approccio relazionale; quanto, piuttosto, di rendersene consapevoli e di

trascenderla, per quanto possibile, come momento a sua volta relativo nella dualità

continuamente ricreata di soggetto ed oggetto del processo di conoscenza, dunque da

subordinare alla qualità e all’efficacia di questo. L’esito un po’ paradossale, e

però),innegabile, come ancora vedremo è alla fine il recupero, nella prima accezione del

termine, non di una pretesa ma di una tensione all’oggettività.

Per la psicoanalisi (e la psicologia analitica) ispirate al buddhismo ciò si è tradotto, molto

concretamente, non nel semplice invito a una disciplina mentale - come già in Bion - ma

nell’acquisizione al lavoro analitico e soprattutto al training quotidiano dell’analista di

pratiche tratte dalla meditazione di consapevolezza. A tali pratiche - a questo punto anche

dissociabili e dissociate, di fatto da un credo buddhista - o, meglio ancora al tipo e alla

qualità di attenzione che con esse si mira a far crescere e sostenere va il nome generale

Benjamin, “Recognition and Destruction: An Outline of Intersubjectivity” in S. A. Mitchell, L. Aron (a cura di), Relational Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 183-210, traduzione italiana parziale in J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello Cortina, Milano 1996. 46

L. Aron, A meeting of minds, The Analytic Press , Hillsdale and London 1996: 152 (traduzione mia); citato da J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 68. 47

J. D. Safran, J. C. Muran, op. cit. : 44-45. 48

Vedi soprattutto W. R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Armando, Roma 1973 e W. R. Bion (1965) Trasformazioni, Armando Armando, Roma 1973. Ma sono anche da ricordare i contributi di Marion Milner e Karen Horney: M. Milner, “The concentration of the body” in The suppressed madnes of sane men, Tavistock Publications, London & New York 1987: 234-240 e K. Horney, Final Lectures, ed. by D. Ingram, Norton, New York 1987: 19.21 citato da M. E. Miller, “Zen and Psychotherapy” in P. Young Eisendrath and S. Muramoto (a cura di), Awakening and Insight. Zen Buddhism and Psychotherapy, Brunner-Routledge, New York 2002: 85.

14

di Mindfulness (variamente tradotto con ‘presenza mentale’, ‘consapevolezza’ o anche

‘pienezza della consapevolezza mentale’). Tale attenzione è stata definita:

Focalizzata, cioè orientata in modo esclusivo verso un determinato oggetto ... (il proprio

respiro, un’amica con la quale stiamo parlando ... una sensazione corporea). E’ importante

che, quando ci si rende conto che l’oggetto stabilito non è più al centro del focus attentivo,

si compia ... una intenzionale rifocalizzazione dell’attenzione verso quell’oggetto dal quale

ci si è allontanati.

Rivolta al momento presente, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto ci si riesce)

verso l’esperienza che si sta vivendo qui ed ora: ogni volta che si diviene consapevoli che

la mente ci ha trasportato ... nel passato o nel futuro ... è importante che si attivi ... un

riposizionamento dell’attenzione sul momento presente.

Non categorizzante, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto si riesce, all’esperienza

in cui ci si trova, senza usare le categorie, le classificazioni, e i giudizi abituali per

comprenderla: ogni volta che si diventa consapevoli che la mente sta operando una

sistematizzazione di quello che sta accadendo in base a schemi pregressi, e importante

che si metta in atto ... un riorientamento dell’attenzione sulla qualità di novità

dell’esperienza, che di fatto possiede.49

Trasferita nel contesto analitico (sempre gli autori di ispirazione buddhista50 insistono

molto sulla sua affinità con la attenzione ugualmente sospesa prescritta da Freud51)

l’attenzione mindful ha di mira anzitutto le autodifese dell’analista - messe in atto,

comunemente, col ritirarsi dalla relazione, con l’assimilarla a situazioni trascorse o

proiettandola nel futuro, col neutralizzarne l’impatto emotivo mediante astrazioni - ogni

qualvolta la relazione stessa sia troppo frustrante, dolorosa o allarmante o comunque

coinvolga aree di forte vulnerabilità, facendo prevalere su un’attitudine recettiva una

risposta reattiva. Può però trasmettersi - per ragioni del tutto analoghe - dall’analista al

paziente (Wallin definisce la psicoterapia, sotto questo profilo, come una specie di

meditazione a due52) in modo tacito o per inviti espliciti: ad esempio col chiedere

ripetutamente al paziente di soffermarsi su ciò che sente in un determinato momento, di

provarsi a descriverlo nei dettagli e anche indicare dove lo sente (in quale area del corpo).

Lo sfondo che potremmo chiamare ‘umanistico’ (in effetti ancora vicino al buddhismo) di

questa pratica dell’attenzione è l‘accettazione non giudicante (la meditazione di

consapevolezza ha qui la funzione di renderci consci, momento dopo momento, dei giudizi

e delle risposte di rifiuto che rivolgiamo innanzitutto a noi stessi); e la compassione per

noi medesimi “che emerge quando diventiamo capaci di aprirci [anche] alle esperienze

dolorose”.53 In particolare: col trattare noi stessi gentilmente e senza giudicarci con

severità; riconoscendo che errori, fallimenti e avversità fanno parte della comune

49

G. Amadei, Mindfulness. Essere consapevoli, Il Mulino, Bologna 2013. 50

In particolare M. D. Epstein, “Sulla negazione dell’attenzione ugualmente sospesa”, in A. Molino, R. Carnevali (a cura di), op. cit.: 160-175) e M. Epstein (2007), Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio, Roma 2008: 95. 51

S. Freud (1912) “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, Opere, VI, Bollati Boringhieri, Torino1989,: 532-533. 52

D. J Wallin (2007) Psicoterapia e teoria dell’attaccamento, Il Mulino, Bologna 2009: 264. Questo testo, ai capitoli IX e XVII contiene una sintesi eccellente dell’approccio mindfulness in psicoterapia. 53

Ibidem: 283.

15

esperienza umana; mantenendo un’equilibrata consapevolezza di pensieri e sentimenti

spiacevoli, invece di evitarli, cancellarli o identificarsi eccessivamente con essi.54 Sempre

per Wallin una tale apertura tenderà ad autoconsolidarsi in quanto la consapevolezza

anche dei sentimenti dolorosi ne farà comprendere sempre di più la qualità transitoria

rendendoli, con ciò stesso, assai meno temibili; legando, di conseguenza, sempre di più

alla consapevolezza, più che a figure protettive interiorizzate o a determinati stati mentali il

nostro senso di sicurezza; ed evitando il sovrappiù di sofferenza sempre legato allo sforzo

di evitare il dolore.55

In termini più formali l’attenzione mindful mirerà a sospendere per quanto possibile gli

automatismi categorizzanti o ‘dall’alto in basso’ (dei quali a lungo si è detto sopra)

finalizzati alla previsione e alla sopravvivenza adattiva per dare spazio alla modalità

senso-percettiva (‘dal basso verso l’alto’) vuoi verso l’esterno (nel setting analitico:

l’espressione facciale, il tono di voce, le sfumature emotive, la postura corporea del

paziente) vuoi verso l’interno (pensieri, sentimenti, emozioni, anche stati fisici dell’analista

- osservati, però, e anche utilizzati, ma in modo equanime e ad una certa distanza, alla

stregua di eventi o stati transitori e dunque senza identificarsi con essi56). Questa

attenzione accrescerà l’efficacia (ai fini del cambiamento) del dialogo terapeutico con

l’ancorarlo più saldamente all’esperienza vissuta, ossia al qui ed ora più che alla semplice

riflessione o ricostruzione retrospettiva e al vissuto emozionale-corporeo oltre che alla

comprensione concettuale. Notano in proposito Safran e Muran:

Diversamente da quanto accade per un pensiero più concettuale, che può essere staccato

dall'azione, la conoscenza a livello corporeo ha sempre implicazioni per il passo

successivo all'attuale. Quando un individuo ha una nuova sensazione, dà a se stesso

un'irrefutabile informazione su quanto l'intera configurazione relazionale significhi

realmente per lui come organismo intero, e tale significato ha risvolti impliciti per l'azione.

(...) L'insight emozionale, o consapevolezza, comporta così la rivalutazione di un evento o

di un'esperienza in un modo che conduce al «che cosa vuoi dire per me ora». (...) Ciò

riflette il fatto che l'individuo conosce qualcosa in maniera differente, come un organismo

concreto, in interazione con l'ambiente circostante.57

54

K. D. Neff, “Self-compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself” in Self and Identity, 2: 85-101, 2003 citato da R. a. Baer, “la compassione di sé” in R. A. Baer (2010) a cura di, Come funziona la mindfulness, Raffaello Cortina, Milano 2012: 130. 55

D. J. Wallin, op. cit.: 263. 56

Su questo punto, veramente essenziale, vedi quanto scrive D.J. Siegel (2007), Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009: 25-26: “Da questo modo di essere riflessivo, mindful, emerge un processo fondamentale chiamato ‘discernimento’, in cui diventa possibile essere consapevoli del fatto che le attività della propria mente non sono la totalità di ciò che si è. Il discernimento è una forma di disidentificazione dall’attività della propria mente: quando diventi consapevole delle sensazioni, dei sentimenti e dei pensieri ... arrivi a vedere queste attività come delle onde che si muovono sulla superficie del mare della mente. Da questo luogo più profondo della mente, da questo spazio interno della consapevolezza mindful, è possibile notare come le onde superficiali del cervello vadano e vengano. Questa capacità di liberarsi dal chiacchiericcio della mente, di capire che queste sono “solo attività della mente”, è un’esperienza liberatoria e per molti perfino rivoluzionaria”. Vedi anche, dello stesso autore, The Mindful Therapist, Norton, New York & London 2010. 57

J.D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 63.

16

In questa linea, per richiamare un esempio recente, può rilevarsi un alto grado di

congruenza fra attitudine mindful e i contributi di Daniel Stern e del Boston Change

Process Study Group sul cambiamento in psicoterapia e la conoscenza relazionale

implicita. Si tratta di cogliere e valorizzare anche in questo caso il momento presente - i

cosiddetti now moments - con la totale disponibilità da parte dell’analista a mettersi in

gioco personalmente nella situazione, esponendosi senza difese ai suoi elementi di novità

e al suo impatto emotivo e offrendo così una risposta che attesti, per ambe le parti, la

saldatura di di un nuovo piano di sintonizzazione emotiva.

I momenti più interessanti sorgono quando il paziente fa qualcosa che è difficile

catalogare, qualche cosa che richiede una reazione nuova e diversa, contraddistinta da

una firma personale che fa condividere al paziente lo stato soggettivo dell’analista (affetti,

fantasie, esperienze reali ecc.). (...) Il terapeuta deve usare un aspetto specifico della

propria individualità, un aspetto che porta una connotazione personale. I due soggetti si

incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai

loro rispettivi e ordinari ruoli in terapia. Inoltre le azioni che costituiscono il “momento di

incontro” non possono essere consuete, abituali o tecniche; devono essere nuove e

forgiate per soddisfare le particolarità del momento.58

Vi sono da ultimo, per concludere, linee assai rilevanti di convergenza del pensiero

mindful con l’impostazione junghiana. Già l’insistenza sul non sottrarsi al confronto con

temi dolorosi o allarmanti e soffermarsi, al contrario, in un contatto approfondito con essi

risuona affine alla basilare prescrizione di Jung sull’importanza di ‘stare nel conflitto’

perché si produca un cambiamento spontaneo e più autentico - la cosiddetta funzione

trascendente (ciò sia nel conflitto esclusivamente interiore, sia nel confronto

intersoggettivo). In aggiunta a questo ritengo assai significative alcune considerazioni

recenti (penso, in particolare, all’ultimo libro di Maria Ilena Marozza59) sulla questione - a

cui si è qui solamente accennato - della tensione all’oggettività nell’ascolto analitico. In

sintesi, ritiene Marozza, si può pensare ad una base di oggettività in psicoanalisi a

condizione di fare spazio (esattamente come propone l’approccio mindful) alla dimensione

sensoriale-affettiva, che in ogni caso accompagna sempre la comunicazione verbale, la

completa, la qualifica e la precisa radicandola nello spessore psico-corporeo; ma si

differenzia, contestualmente, da essa perché non confluisce nell’astrattezza dei segni e

quindi non si offre, al pari di questi, all’immediatezza della comprensione linguistica. Essa

piuttosto trattiene nel concreto, contagia e provoca alla ricerca di una comprensione che

non può contare su di un sapere generalizzabile (ma quindi non può nemmeno venir

tradita o fraintesa in forza di preferenze teoriche o categoriali) ma obbliga - proprio come il

simbolo60 - a soffermarsi nell’esperienza e a esporsi a lungo al coinvolgimento e alla

58

Cfr. The Boston Change Study Group (2010), Il cambiamento in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano 2012: 15-16. 59

M.I. Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo 2012. Ma vedi anche M.La Forgia e M. I. Marozza, Le radici del comprendere, Fioriti, Roma 2005 e M. La Forgia e M. I. Marozza (a cura di), La conoscenza sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo 2008. 60

Sull’affinità fra impegno in chiave di ‘capacità negativa’ e esperienza simbolica ho scritto in G. Kaufman, “Il silenzio del padre nella relazione analitica. Bion, Jung e una rilettura del simbolico” in Il Padre. Parola Silenzio Trasformazione”, Atti dell’XI Convegno Nazionale del Centro Italiano di Psicologia analitica,

17

condivisione: e appunto qui, in questo tratto non riducibile di autoreferenzialità o

intransitività è quanto rende “la realtà dell’affetto ... la manifestazione fenomenica e del

tutto oggettiva, di una supponibile realtà dell’inconscio: poiché, come scrive Matte Blanco,

nulla ci conduce ad una chiara distinzione psicologica fra l’emozione e l’inconscio”.61 In

particolare, nello specifico della costruzione junghiana il nesso mai del tutto scindibile fra

strato sensoriale-affettivo e dimensione rappresentativa-ideativa, su fino al piano verbale-

razionale si salda nell’unità dei complessi e nel loro operare a differenti livelli di coscienza

cui corrispondono modalità qualitativamente diverse (ma tali da confrontarsi e completarsi

l’una con l’altra) di registrazione delle esperienze. Ne segue “la possibilità ... di insediare

l’ordine linguistico e la capacità di significare nell’ordine dell’esperienza soggettiva vitale e

diretta”.62 E in primo luogo di riscontrare le rappresentazioni logico-razionali ma in potenza

del tutto astratte del complesso dell’io (inclusa la distinzione che solo qui si rappresenta

compiutamente fra il sé ed il mondo) con quanto si esprime dai complessi secondari in

modo più indistinto ma impegnativo e pregnante dell’esistenza emozionale e sensoriale di

base.

Vivarium 2002. Sul coincidere fra esperienza simbolica e incontro con la “cosa in sé” vedi M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986: 80-83. 61

Scrive ancora Marozza: “Solo in questo senso possiamo tenere insieme il significato più profondo del termine inconscio, come ciò che non è conosciuto, ritenerlo eternamente tale e connaturato all'esperienza umana e nello stesso tempo considerarlo assolutamente influente e talmente oggettivo da poter essere la vera fonte dell'attività psichica, manipolabile dalla soggettività cosciente solo nella direzione da esso stesso consentita.” (M.I. Marozza, op. cit.: 210-211). 62

Ibidem: 207.

GIANNI KAUFMAN

SE’/NON SE’. INTRECCI TRA BUDDISMO E PSICOANALISI

SEMINARIO CIPA. MILANO 12 OTTOBRE 2013.

1. Oggetto del mio intervento è l’incontro - che risale almeno alla metà degli anni ’90 - fra

buddhismo, psicoanalisi e psicologia analitica e le ricadute o gli ulteriori sviluppi di questo

incontro riferibili essenzialmente a due temi: 1) sul piano teorico la natura o le

caratteristiche proprie del sé, 2) sul piano pratico la qualità della consapevolezza o

dell’attenzione in psicoterapia e il ruolo che in questo ambito può riconoscersi alla pratica

meditativa. Se si accantonano, ma solo momentaneamente, i contributi propriamente

junghiani - la teoria dei complessi e la metapsicologia del Sé - l’incontro fra psicologia

dinamica e l’impresa di decostruzione del sé della tradizione buddista si prepara anzitutto

con le proposte, al tempo assai innovative, della psicoanalisi relazionale.1 Già in un lavoro

del ’93 Stephen Mitchell (un autore non espressamente interessato al buddismo) notava il

succedersi nella tradizione psicoanalitica di due metafore per la rappresentazione del sé:

una metafora di tipo spaziale - quella di Freud - “il sé come stratificato, singolo e continuo

(...) la mente come un posto in cui le cose accadono, il sé come qualcosa in quel posto,

composto di parti o strutture costitutive”. E una metafora di tipo temporale, inclusa

dapprima nella teoria delle relazioni oggettuali e sostenuta, dopo di essa, dai vari approcci

di tipo relazionale. Qui il sé coincide con esperienze differenziate secondo l’ambito e la

qualità dei rapporti, e quindi è inteso come molteplice e discontinuo. “Poiché apprendiamo

a divenire persone mediante l’interazione con differenti altri e attraverso interazioni

differenti col medesimo altro la nostra esperienza del sé è discontinua, composta di

differenti configurazioni, differenti sé con differenti altri. (...) il risultato è un’organizzazione

plurale e multiforme del sé, modellata su differenti immagini o rappresentazioni del sé e

dell’oggetto, derivate da differenti contesti relazionali.” Così “i sé cambiano e si

trasformano continuamente nel tempo, e una singola vita è composta di più sé.

Un’esperienza del sé ha luogo necessariamente in un momento del tempo; essa riempie

lo spazio psichico e un’altra versione alternativa del sé sfuma sullo sfondo”.2 Ancora: se

applichiamo la prima metafora, - il sé come entità singola e stratificata - “ha senso

approcciarlo come (...) una cipolla, tentare di situarne il ‘centro’ o il ‘cuore’, delinenarne gli

strati, differenziarne le parti autentiche da quelle false, la struttura protettiva e così via”.3

Se tuttavia “il sé si muove nel tempo piuttosto che esistere nello spazio non ha un nucleo

fisso”. La ricerca di un nucleo invariante o di un ‘vero’ sé, colto ai suoi inizi, nella sua

essenza presociale, al di sotto degli adattamenti e delle negoziazioni con altri, “implica

rimuovere il sé dal tempo, uno sforzo male indirizzato per rendere statiche le

organizzazioni mutevoli dell’esperienza del sé.” Può accadere che io mi senta più

autentico (o meno autentico, meno spontaneo o più stereotipato) in certi modi di agire o di

esprimermi, in certe occasioni o in certe situazioni: ma ciò non implica rinviare ad un

‘nucleo’, a un ‘vero’ o ‘un ‘autentico’ me. “Facciamo esperienza di noi stessi nel tempo.

1 Per una critica stringente, sul piano filosofico, dei presupposti e delle implicazioni dell’approccio relazionale

vedi il recente lavoro di J. Mills, Conundrums. A Critique of Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York 2012. 2 S. A. Mitchell, Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York 1993: 101-104.

3 Ibidem: 101.

2

Possiamo valutare una nuova esperienza in termini di continuità o discontinuità col

passato e il presente; una nuova esperienza può rappresentare ed esprimere la propria

storia e la situazione presente oppure negare e tradire la propria storia e condizione

presente o ancora riformulare la propria storia e condizione presente in un modo nuovo e

arricchente. Il senso di autenticità è sempre una costruzione, e come costruzione è

sempre relativa ad altre possibili costruzioni del sé in ogni tempo particolare.”4

Con tutto questo - chiariva Mitchell - non può negarsi anche l’esistenza di un senso o di un

vissuto di continuità nell’esperienza del sé, indipendente dai cambiamenti nel tempo, in

forza del quale mi rappresento, ad ogni istante, come un Io identico, a cui rimandano i miei

ricordi in passato e che proietto nel mio futuro. Questo sentire è anche condizione di un

senso di agency, di continuità e responsabilità nell’agire, e ancora della possibilità di

imporre un’ordine di priorità a scopi impulsi e motivazioni, il non sentirsi trascinati qua e là.

Ciò è vero anche se non è semplice, all’atto pratico, stabilire quanto vi sia in tutto questo

di soggettivo o propriamente oggettivo. “Può essere che io faccia tutto ciò che faccio, ma

può anche essere che io faccia certe cose in contesti esperienziali del tutto diversi da

quelli in cui faccio altre cose. L’Io che fa cose diverse è un Io diverso in tempi diversi”.5 E

In ogni caso questa maniera di rappresentarsi del sé come agente autonomo e separato

non pare rispondere - Mitchell cita qui Clfford Geertz - a un’istanza evolutiva di tipo

universale quanto, piuttosto, a un dato culturale:

La concezione occidentale della persona come un universo motivazionale e cognitivo

delimitato, unico, più o meno integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emozione,

giudizio e azione organizzati in un insieme distinto e contrapposto sia ad altre entità simili

sia al contesto sociale e naturale è, per quanto incorreggibile ci sembri, un’idea

abbastanza peculiare nell’insieme delle culture mondiali.6

Può a questo punto suonare discordante, dopo tanti argomenti a favore di un sé

relazionale e molteplice, che le conclusioni di Mitchell siano da ultimo caute. “Potrebbe

ritenersi” - leggiamo infine - “che il senso di continuità nell’esperienza del sé sia totalmente

illusorio. Esso però assolve, almeno nella nostra cultura, a un’importante funzione

adattiva” E d’altra parte i due modi di rappresentare il sé - come molteplice e discontinuo,

e come integro, continuo e separabile, non sono reciprocamente esclusivi. “Le persone

4 Ibidem: 130-131. Anche le nozioni di Winnicott di ‘vero‘ e ‘falso’ sé riferite al rapporto del bambino col seno,

secondo Mitchell, “sono un importante punto di partenza ma si tratta di una situazione troppo semplificata quando si considera l’esperienza adulta. Tutte le motivazioni personali hanno una lunga storia relazionale, il sé è sempre immerso in contesti relazionali, attuali o interni, perciò tutte le motivazioni importanti sono apparse e hanno preso vita e forma in presenza e attraverso le reazioni di altri significativi.” (Ibidem: 134) 5 Ibidem: 109.

6 C. Geertz, “From the Native’s Point of View: On the Nature of Anthropological Understanding” in Local

Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York 1979: 59, citato da S. Mitchell, op. cit.: 110. Vedi anche quanto scrive J. Engler, “Being Somebody and Being Nobody: A Reexamination of the Understanding of Self in Psychoanalysis and Buddhism” in J. D. Safran (a cura di), Psychoanalysis and Buddhism. Un Unfolding Dialogue, Wisdom Publications, Boston: 51: “Nelle culture da cui il Buddismo è emigrato verso occidente, preminentemente in India e Giappone, il senso del sé è molto più mescolato con gli altri in un ‘senso del noi’ che è profondamente differente dall’’Io-sé’ separato ed autonomo dell’esperienza occidentale. Il sé è esperito come incorporato in una matrice di relazioni e come definito da tali relazioni, non solo la matrice delle relazioni umane e sociali ma la matrice più comprensiva delle relazioni all’interno del mondo della natura, e da ultimo il cosmo nel suo insieme”.

3

agiscono sia in modo discontinuo che in modo continuo. (...) In ogni momento dato una

persona opera a partire da un determinato contesto relazionale (...); al contempo quella

specifica versione del sé contribuisce a dar forma a una sequenza continuativa di

esperienza che ha le sue caratteristiche distintive. (...) Pensiamo al sé come alla sequenza

dei fotogrammi di un film. In ambedue i casi l’esperienza del movimento e della continuità

è un’illusione. Ma “l’illusione” “crea un’esperienza che ha una grande ricchezza soggettiva

in proprio, producendo un’immagine più ampia e ‘in movimento’ molto diversa (e molto

maggiore) della semplice somma delle immagini singole”. Similmente nel percorso

analitico “quanto più l’analizzando può tollerare di esperire versioni molteplici di se stesso,

tanto più si vivrà come forte, duraturo e capace di resilienza. E reciprocamente quanto più

l’analizzando ritrova dei tratti di continuità nel passaggio tra le sue varie esperienze, tanto

più può reggere la diffusione di identità implicita nel far convivere molteplici versioni del

sé”.7

Resta comunque, del discorso di Mitchell - e, se si vuole, anche in virtù delle sue

conclusioni - il punto forse più innovativo. Che si privilegi l’aspetto della discontinuità e

molteplicità o invece quello della continuità, il sé viene a perdere in ogni caso qualsiasi

carattere sostanziale per riproporsi come mera rappresentazione: capace, proprio per

questo, di più versioni e modi di esperienza possibili, nessuna eguagliabile a un ‘vero sé’.

Un corollario di questa innovazione è un diverso approccio ai temi dello sviluppo. Così

l’idea di un sé preesistente alla nascita il cui realizzarsi può solamente essere facilitato o

impedito lascia spazio all’ipotesi di più percorsi possibili grazie al convergere tra

potenzialità del bambino e influsso prevalente dell’uno o l’altro caregiver.8 Inoltre - si fa

ancora osservare - già negli scritti di Winnicott, l’opposizione tra sé ‘vero’ e ‘falso’ viene

formulata anche come antitesi fra non-integrazione - la possibilità per l’infante di rilassarsi

e abbandonarsi all’esperienza del gioco alla presenza rassicurante della madre - e

necessità di reagire, in modo prevalente, a stimoli o intrusioni esterne. In quest’ultimo caso

- ma solo in questo (ad esempio quando debba far fronte ad una madre angosciata o

depressa) - il bambino isola un proprio mondo privato (il suo ‘vero sé’) fino a nasconderlo

perfino a se stesso e si concentra sulla gestione del mondo esterno.9 Un ultimo modo,

infine, di ripensare quell’opposizione è prender atto della tensione costante, nel corso

della vita di ognuno, fra spontaneità e esigenza di conservare relazioni sicure10 (perciò

tener conto del proprio impatto sugli altri) o ancora fra agentività e relazionalità11 o fra

7 S. Mitchell, op. cit.: 115-116.

8 Ibidem: 129.

9 Scriveva Winnicott : “Soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la

propria vita personale. L’alternativa patologica è una vita falsa costruita su reazioni agli stimoli esterni. Quando è solo, nel senso suddetto, e solamente quando è solo, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, e cioè è in grado di diventare non-integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un po’ senza essere né qualcosa che reagisce ad un urto dall’esterno, né una persona attiva con una direzione d’interesse o di movimento. (...) Solamente in queste condizioni il bambino può avere un’esperienza e sentirla come reale. Un gran numero di tali esperienze formano la base di una vita reale e non futile.” (D. W. Winnicott (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando, Roma 1974: 36.). In età adulta situazioni analoghe di ‘non-integrazione’ in presenza d’altri (o relazionalità non reattiva) saranno condizioni per una crescita di creatività. (Cfr. M. Masud R. Khan, “On Lying Fallow” in Hidden Selves, Hogart Press, London 1983: 183-188.) 10

S. Mitchell, op. cit.: 133. 11

J. D. Safran e J. C. Muran, op.cit.: 39.

4

efficacia e esigenze di sicurezza.12 Il contrasto non è analizzabile in termini di contenuti

(come nella vecchia teoria freudiana delle pulsioni dove l’Es è tenuto a bada da Io e

Superio) e neanche in termini di priorità precostituite (come nell’ipotesi del ‘vero’ sé), ma

nella maggiore o minore capacità di un negoziato flessibile fra le due istanze. Questa

formulazione è già compatibile con un quadro teorico che all’antitesi ‘sé’ vero o falso’

sostituisca l’assunto di “numerosi stati del sé che lottano per dominare nello stato di

coscienza in un determinato momento”.13

E appunto questo - di una pluralità originaria di stati del sé - è l’assunto che ispira, in modo

forse anche più radicale del lavoro di Mitchell, il secondo contributo importante che va qui

ricordato - gli scritti sulla dissociazione di Philip Bromberg. L’esperienza di unità e

continuità del sé, per Bromberg, è senz’altro illusoria e “è generata dalla capacità

evoluzionistica della mente di radicare la coscienza in una delle configurazioni di stati del

sé che risultano più adattive in quel momento”.14 Di fatto “l’esperienza di sé si origina da

stati del sé relativamente isolati fra loro, ognuno con una propria coerenza interna” ma

“quando (...) tutto procede bene una persona è solo vagamente e momentaneamente

consapevole dell’esistenza di stati del sé individuali e delle loro rispettive realtà: questo

perché ognuno funziona come parte di una salutare illusione di identità personale unitaria

- uno stato cognitivo ed esperienziale sovraordinato sentito come ‘me’.” In questi termini

“la dissociazione (...) è una funzione sana e adattiva della mente umana. E’ un processo di

base che consente agli stati individuali del sé di funzionare in modo ottimale (e non in

modo semplicemente difensivo) quando ciò di cui abbiamo veramente bisogno o

desideriamo è una totale immersione in una singola realtà, in un singolo affetto forte, e

una sospensione della capacità autoriflessiva.”15

L’illusione di unità e di continuità così resa possibile - da questo genere di dissociazione

non difensiva - si caratterizza per il fatto di lasciar spazio alla capacità riflessiva e quindi

alla comunicazione anche con stati momentaneamente non in primo piano nell’esperienza

del sé. Bromberg usa l’espressione “restare negli spazi” per descrivere “la relativa

capacità della persona di ospitare in un dato momento una realtà soggettiva che non può

essere facilmente contenuta dal sé che in quel momento sente come ‘me’”. Questa

capacità di comunicare, momento per momento, con esperienze del sé discrepanti è

anche condizione della comunicazione intersoggettiva, ossia della capacità che le persone

hanno - ancora una volta: se tutto procede bene - di aprirsi all’esperienza che altri fanno

di loro.

Ma a volte - anzi, piuttosto spesso - non tutto procede bene. L’immagine del sé rimandata

dall’altro (o - che è lo stesso - da altri stati del sé) “può essere sentita troppo discrepante

dall'esperienza di sé che si sta facendo in quel momento per far sì che entrambe possano

essere conservate in mente simultaneamente”. In questo caso la dissociazione si piega

alla funzione - solo difensiva - di conservare “le esperienze di sé eccessivamente

discrepanti in stati del Sé separati che non comunicano tra loro, per lo meno per un certo

12

J. Greenberg, Oedipus and beyond, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1991: 129 sgg. 13

J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 115-116. 14

P. M. Bromberg (2011), L’ombra dello tsunami, Cortina, Milano 2012: 100. 15

P. M. Bromberg (1998/2001), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano 2007: 211.

5

periodo”; e può trattarsi di un periodo breve, per affrontare una situazione momentanea di

stress, ovvero più lungo o dell’intera esistenza. L’illusione di unità e continuità del sé ha

allora come condizione proprio il persistere della struttura dissociativa:

La mente/cervello organizza i suoi stati come un sistema protettivo che tenta,

proattivamente, di zittire l'accesso esperienziale a stati del Sé discrepanti con la gamma di

stati, limitati dissociativamente, di cui si fa esperienza in un dato momento come "me".

Questo rigido sequestro di stati del Sé per mezzo di una struttura mentale dissociativa è

talmente centrale per la personalità di alcuni individui che, virtualmente, modella tutto il

funzionamento mentale, mentre per altri il suo range è più limitato. Ma, a prescindere dalla

misura o dal range, la sua funzione evoluzionistica è di assicurare la sopravvivenza della

continuità del Sé relegando il funzionamento riflessivo a un ruolo minore, o a nessun

ruolo.16

Ciò è quanto accade, tipicamente, in occasione di traumi - sia traumi gravi (abusi sessuali

o fisici) sia, soprattutto, di traumi evolutivi: in questo caso, agendo ancora una volta al

servizio della continuità del sé e perciò conformandosi ai primi modelli di attaccamento,

saranno dissociati gli stati del sé ignorati o disconfermati dai genitori. Questi stati saranno

esclusi in permanenza dalla comunicazione in quanto non mentalizzati all’origine - non

confrontati col loro modo di apparire nella mente dell’altro - pertanto tendenzialmente non

simbolizzati sul piano cognitivo e quindi non recuperabili a un’unità del sé garantita

dall’autoriflessione (il mancato operare della comunicazione intersoggettiva sarà in questo

caso non conseguenza ma proprio l’origine della frattura dissociativa). Ne seguirà un

sentimento inguaribile di inautenticità imputabile, come visto sopra, non al tradimento del

‘vero sé’, ma all’eslcusione di un qualsiasi stato o aspetto del sé dall’esperienza

interpersonale.

Il Sé vissuto come vero è sentito essere sempre quello che sta bussando alla porta - la

voce interna antagonista, udita ma non "pensata" (Bollas, 1987). Questa voce viene

sentita inevitabilmente come più vera sul piano soggettivo semplicemente perché essa

contiene una "verità" diversa ma non formulata - una visione alternativa della realtà che

viene negata al sé che sta intrattenendo rapporti con il mondo, rendendolo così limitato sul

piano relazionale e compromesso nella possibilità di sentirsi autentico. Come ha detto

Mitchell (1993), "ciò che può sembrare autentico nel contesto di una versione del sé può

essere completamente inautentico rispetto ad altre versioni".17

2. Dopo questo richiamo, indispensabile per inquadrare il discorso, ai contributi della

psicoanalisi relazionale - ci si è limitati, a fronte di una produzione ormai molto ampia, a

due autori particolarmente influenti e significativi - si può dar spazio agli interventi

propriamente ispirati alla tradizione buddista. Qui la natura illusoria o piuttosto ingannevole

dell’unità e continuità del sé non è più solo ricondotta all’onnipresenza delle dinamiche

dissociative - così efficacemente illustrate da Bromberg - o all’intreccio relazionale delle

16

P.M. Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 14-15. 17

Ibidem: 128.

6

identità. In primo piano è invece il contrasto fra la preoccupazione costante e pervasiva

che più o meno tutti ci caratterizza - ma che è alla base, secondo il Buddha, di ogni

sofferenza - di preservare, proteggere, espandere il sé, e il dato radicale della sua

impermanenza, non autonomia e non separatezza, al pari di ogni essere e di ogni cosa

esistente. E’ un fatto che se poniamo attenzione, momento dopo momento, al flusso della

coscienza a monte degli automatismi con cui di solito selezioniamo, organizziamo e

interpretiamo i dati percettivi, concettuali e affettivi non incontriamo alcuna entità duratura,

nessun soggetto o oggetto costante ma solo operazioni con cui, momento dopo momento,

a partire da quei dati elementari di continuo e sempre di nuovo strutturiamo in modo

dualistico la nostra esperienza opponendo insiemi di oggetti distinti l’uno dall’altro e dal sé.

Come osserva Jack Engler

Il costrutto-sé ... è incorporato nella caratteristica più profondamente radicata del pensiero

e della percezione umana: la tendenza a considerare ogni oggetto dell’esperienza o della

percezione come un’entità separata o una ‘cosa’ dotata della sua esistenza e identità

concreta e separata e solo in un secondo momento in relazione con altre ‘cose’. (...) Ma la

‘cosalità’ o la ‘esistenza inerente’ è in realtà un’imputazione o un’attribuzione, non una

caratteristica delle ‘cose. (...) Come scrive la studiosa buddista Anne Klein “Le cose

semplicemente sembrano odorano e si fanno gustare come più solide individuabili e

intrisecamente disponibili di quanto in realtà non siano.” (...) Questa “attribuzione non

pensata di inerenza” a sé e agli altri è la “ontologia vissuta che sottosta ad ogni altra

esperienza di seità, inclusi i moderni sé psicologici” e specialmente la rappresentazione in

parte conscia in parte inconscia del sé come entità singola, unica e separata “collocata nel

profondo di noi stessi”.18

Detto in altri termini:

Il sé dell’uomo è un’azione: è qualcosa che facciamo per unificare la nostra soggettività

nello spazio e nel tempo, separandola dal flusso dell’esperienza e creandole un confine

intorno. Qualche volta facciamo questo consapevolmente, ma la maggior parte delle volte

lo facciamo senza avere consapevolezza del sé attraverso micromovimenti nelle nostre

percezioni che creano l’impressione di essere “qui dentro”, mentre qualcos’altro è “là

fuori”.19

La riduzione o decostruzione del sé che in questo modo si avanza è dunque più radicale

della innovazioni della psicoanalisi relazionale: il sé non soltanto è plurale e molteplice,

diversamente declinato per situazioni e rapporti; non solamente è rappresentazione, ma si

dà solo come relazione, come momento subordinato di questa - non c’è alcun ‘dentro’ se

non opposto a un ‘fuori’, non c’è alcun ‘io’ se non diretto a un ‘tu’20 - coinvolto,

18

J. Engler, op. cit.: 88. 19

P. Young-Eisendrath, “Il ruolo del non-sé nella creatività” in A. Molino e R. Carnevali (a cura di), Tra sogni di Budda e risvegli di Freud. Esplorazioni in psicoanalisi e buddismo, ARPANet, Milano 2010: 91. 20

Per una sintesi della formulazione più radicale di questo approccio, dovuta a Nagarjuna, si può vedere il lavoro non più recente ma ancora di grande interesse di F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991, cap. V. Vedi anche G. Kopf, “Di fronte all’altro. L’intrico psichico in Dogen e Jung” in A. Molino (a cura di) (1998), Psicoanalisi e buddismo, Raffaello Cortina, Milano 2001: 190-191.

7

inevitabilmente, sempre di nuovo ricostruito e dissolto nel dinamismo di un continuo fluire.

La stessa idea di qualche genere di costanza o ‘esistenza inerente’ attribuibile al sé non è

originaria ma è già prodotto del ciclo del karma - della causazione21 - dove prevalgono i

due opposti moventi dell’attaccamento e dell’avversione; e a sua volta è causa di

sofferenza, come già detto, perché sempre smentita dall’impermanenza, non separatezza

e finitezza del tutto. Si tratta allora, mediante la pratica meditativa, di mirare al risveglio,

alla consapevolezza non solo cognitiva ma esperienzale22 di queste verità, e le

implicazioni propriamente psicologiche di tale pratica sono già rilevanti: perché

presuppongono un definitivo ridimensionamento del sé non più quale soggetto, ma come

oggetto di consapevolezza - l’opposizione, quindi, almeno potenziale, tra modi della

soggettività e funzioni dell’Io. Se quelli sono da porre in problema queste, proprio nella

pratica meditativa, sono il più possibile potenziate: primo, per decostruire i processi (più

che altro inconsci) di costituzione, autoaffermazione e difesa dell’identità di soggetti;

secondo per accertarne funzionalità o interferenze in vista del crescere della

consapevolezza.23

Su questo punto si è già fatto cenno agli automatismi che reggono, d’abitudine, il nostro

rapportarci ai dati di esperienza. La meditazione di consapevolezza24 ci rende consci del

loro carattere prevalentemente difensivo-reattivo; ossia della nostra propensione a

distanziarci dalle esperienze e ad attutirne e filtrarne l’impatto mediante un flusso

praticamente incessante di fantasie e di pensieri - la cosiddetta proliferazione mentale -

che ne rielaborano ovvero ne anticipano le implicazioni sotto il profilo dell’attaccamento o

dell’avversione (rimuginazioni intorno al passato, speranze e attese circa il futuro); e ne

riducono la novità e la ricchezza reinterpretandola secondo termini e coordinate già note.

L’intento, almeno a prima vista, è pararne il carattere sorprendente o frustrante ampliando

per quanto possibile il controllo dell’Io. Ma ciò cui spesso veramente si mira è

salvaguardare per quanto possibile la certezza e la continuità della rappresentazione del

sé; e ciò anche a spese, se necessario, di un confronto paziente e puntuale col dato

concreto e di un pieno incontro con le emozioni che davvero assicurerebbero, anche nelle

situazioni più complicate o frustranti, non una reazione semiautomatica ma una risposta

mirata, più pertinente e più efficace dell’Io. Scrive in proposito un autore buddista:

L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale

è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e

definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente. 21

Un’utile sintesi ancora in F. J. Varela et al., op. cit.: 110 passim. 22

Come osserva J. Engler (op. cit.: 93) una consapevolezza solo cognitiva comporta ancora il punto di vista di un sé separato. 23

Su tutto questo M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 86 sgg. e 117. 24

Si distinguono, più precisamente, pratiche di meditazione formale (attenzione al respiro, alle sensazioni del corpo, alle percezioni, ai pensieri) da svolgersi in posizione seduta oppure sdraiata o anche camminando; e pratiche di meditazione informale consistenti ad esempio, nell’apprezzare intensamente e a lungo, in tutte le sue sfumature il sapore di un cibo, la bellezza e i colori di un giardino, i dettagli di un percorso abituale, i singoli momenti e le sensazioni di qualsiasi attività come farsi la doccia o lavare i piatti. Soprattutto le pratiche formali, come quella descritta sopra relativa al respiro, intendono non tanto far crescere direttamente l’accettazione quanto renderci attenti al nostro resistere all’accettazione, al nostro continuo ‘sganciarci’ dall’adesione al presente. Su questo vedi C. Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994 : 157-158. Vedi anche più in generale Thich Nhat Hanh (1987), Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma 1992.

8

... Invece che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo

di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per

aver luogo ben di rado. ... Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza

ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che

essa ci appaia così come ce la raccontiamo. E dunque l’indugiare frequentemente in

pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare

‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto,

all’ignoto.. E così pure quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli

avremmo voluto dire, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura

e simili. ... Noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia ... noi vogliamo

parlare nella rabbia, pensare e immaginare nella rabbia anche se tutto ciò che diciamo è

prevedibile, anzi è importante proprio perché è prevedibile, noto, abituale. In questa

maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia ... ne rimaniamo separati da quella

barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.25

La libertà da che viene perseguita - su un piano, peraltro, solo immaginativo-ideativo -

come difesa ad oltranza di una rappresentazione costante e rassicurante del sé, mediante

gli automatismi della proliferazione mentale, è a spese, assai spesso, della libertà di - di

un esercizio competente e efficace delle funzioni dell’Io.26 Grazie alla pratica meditativa

possiamo apprendere tuttavia ad osservare i nostri pensieri e le nostre reazioni

automatiche, ma senza agirli e identificarci con essi. Così facendo sarà possibile,

progressivamente, evitare l’irrigidirsi e il consolidarsi (sempre a livello immaginativo-

ideativo) degli aggregati percettivo-affettivi del sé e degli oggetti, mentre al contempo

accoglieremo e lasceremo operare le nostre emozioni, ci apriremo all’emergere di spunti

diversi, amplieremo lo spazio di ideazione e di azione. L’unità o continuità del sé così

realizzabile, come osserva Mark Epstein, sarà assimilabile sempre meno a un’entità fissa

e sempre più a “un flusso di consapevolezza ... sempre in evoluzione ... un processo mai

del tutto concluso di autoscoperta e autocreazione” e l’io dovrà subordinare, per quanto

possibile, a questa fluidità processuale ogni pretesa alla stabilità.

L"Io' è il veicolo individuale per attuare questi incontri, ma anch'esso non ha un'identità

intrinseca. Un lo sano inizia, si avvicina, stabilisce un contatto e si dissolve, per poi iniziare

il ciclo di nuovo. Un lo disturbato frappone ostacoli e interferisce con il contatto sano,

perpetuando la propria realtà a spese dell'interazione. (...) L'Io che è di ostacolo non

giunge mai alla trasparenza; il risultato sarà una persona contratta per la propria

sensazione di inadeguatezza. Un senso positivo del sé emerge solo quando l'Io permette

a se stesso di dissolversi.27

Di fatto facciamo già tutti quotidianamente esperienza - chi più chi meno - di questo

genere di fluidità o consapevolezza adualistica o priva di sé (più precisamente:

consapevolezza senza coscienza riflessiva del sé). Guidiamo l’automobile o qualche altro

25

C. Pensa, L’intelligenza spirituale, Ubaldini, Roma 2002: 30-32. 26

Spesso ma, ovviamente non sempre: gli automatismi della mente includono infatti primariamente, le attività di categorizzazione e astrazione che sono indispensabili all’apprendimento, alla previsione e alla sopravvivenza adattiva. 27

M. Epstein (2001), La continuità d’essere, Ubaldini, Roma 2002: 28-29.

9

veicolo adattando l’andatura alla situazione ed evitando possibili ostacoli senza necessità

di riflettere; ‘ci perdiamo’ nella contemplazione di uno spettacolo naturale, di una persona,

di un’opera d’arte o nel rapporto sessuale. Se sappiamo suonare uno strumento

muoviamo spontaneamente le mani nel modo giusto; similmente se siamo veramente

esperti in un arte marziale rispondiamo senza riflettere ma in modo del tutto adeguato alla

mossa dell’avversario.28 In tutti questi casi non siamo consci di noi stessi ma siamo

consapevoli, sintonizzati alla realtà del momento. Pensieri, sentimenti azioni avvengono

ma non sono esperiti come originantisi in o da “me”. Avvengono semplicemente in risposta

alle esigenze del momento per conto loro, senza forza o intenzione cosciente.29

Ancora Epstein insiste a lungo sull’affinità fra questo genere di disponibilità e fluidità

esperienziale - resa possibile da un alto grado di flessibilità o ‘trasparenza’ dell’Io - ed il

recupero, in età adulta, di uno stato di inintegrazione affine alla continuità d’essere

dell’infante (di cui parla Winnicottt) che può abbandonarsi all’esperienza del gioco potendo

contare sull’attendibilità della madre. Si è già detto sopra che questo stato di non-

integrazione - che riesce possibile, in età adulta, solo come resa30 o piena adesione al

presente31 - è quanto di più simile possa pensarsi, in un’ottica relazionale, a un’esperienza

del ‘vero’ sé. Anche per una psicoanalisi del non-sé ispirata al buddismo non c’è

ovviamente alcun vero sé se non nel “processo mai del tutto concluso di autoscoperta e di

autocreazione” (di cui parla Epstein) reso possibile da questa adesione. O se si vuole -

come appena visto - il ‘vero sé’ è il venir meno dell’autocoscienza messa a guardia

dell’autocentramento del sé”32; o ancora, in termini kohutiani, “per il non-sé tutte le

esperienze sono esperienze mature di oggetti-sé.33

Che dire, infine, in una prospettiva junghiana? Il netto rifiuto degli autori buddisti di

riconoscere al sé qualunque genere di consistenza ‘ontologica’34, e l’insistenza nel non

vedervi di più che una rappresentazione (per giunta, in linea di massima fuorviante e

ingannevole) suona, a ragion veduta, in aperto contrasto con la nozione junghiana del Sé

quale ‘centro’ della totalità psichica e ancor di più, in quanto meta del processo di

invididuazione, quale portatore di un senso. Ma a fronte di ciò, e anche tralasciando le

affinità, rilevate da Jung,35 tra la propria psicologia e il cammino buddista, occorrerebbe

28

G. Kopf, op. cit.: 193. 29

J. Engler, op. cit: 60.61. 30

Sul tema della resa vedi l’ottimo studio di E. Ghent, “Masochism, Submission, Surrender: Masochism as a Perversion of Surrender” in S. A. Mitchell. L. Aron (a cura di) Relational Psychoanalysis. The Emergence of a Tradition, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 211-242. 31

L’insistenza sull’attenzione esclusiva al presente, implicita in questa concezione, è ben illustrata dal famoso koan Zen: “In questo preciso momento, non pensando né al bene né al male, mostrami il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori”. “Essendo andati oltre il dualismo, oltre ‘il pensare il bene ed il male’ c’è un vero sé essenziale? Budda ha insegnato che il sé è ‘vuoto’, che non ha assolutamente natura fissa o essenziale. Tutto quello che c’è è ciò che le stesse parole di apertura del koan ci dicono: essere proprio questo momento è il nostro vero sé. Il nostro volto originario non può essere altro che il volto di questo momento”. (B. Magid, “Your Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 265-266) 32

P. A. Ringstrom, “Psychoanalysis and Buddhism: Two Extraordinary Paths to An Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 288. Così, prendendo le distanze da Winnicott, anche M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 68-69. 33

B. Magid, op. cit.: 271. 34

Vedi in proposito di nuovo J. Engler, op. cit.: 52. 35

C.G. Jung (1939), “Prefazione a D.T. Suzuki, ‘La grande liberazione. Introduzione al buddismo zen’” in Opere, XII, Boringhieri, Torino 1979: 549-567.

10

ancora considerare tre aspetti. 1) Col segnalare la finalità difensiva (della continuità e della

sicurezza del sé) del pensare per segni - cioè del ridurre il vissuto al concetto, il nuovo, il

particolare e l’affettivamente pregnante all’astratto e al già noto) il pensiero buddista

mostra di privilegiare un’attenzione al concreto, al differente, al non riducibile che è

rispetto profondo (come ancora vedremo) di ogni alterità ma è anche del tutto affine, nel

contesto junghiano, all’esperienza simbolica - al modo proprio di manifestarsi dell’alterità

dell’inconscio. 2) L’idea di un sé solo processuale che non conosce un’identità

precostituita ma che si esplica e con ciò stesso si scopre, momento dopo momento, solo

nella pratica dell’accettazione, cioè nella piena adesione al presente, è molto simile

all’idea junghiana di individuazione come ricerca/accettazione del corpo, della propria

forma, e del proprio limite. 3) Infine Jung mette in relazione la sua nozione del sé con

l’idea buddhista di una ‘coscienza della coscienza’:

La possibilità che esistano vari stadi nello sviluppo della coscienza non ci viene nemmeno

in mente; il solo pensiero che esista una forte differenza psicologica fra la coscienza

dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto assomiglia

molto da vicino a un cavillo che appena merita risposta. (...) Furono lo yoga in India e il

buddhismo in Cina a dare l’avvio a questi tentativi di strapparsi alla cattività di un dato

stato di coscienza, sentito come imperfetto. Per quanto riguarda la mistica occidentale i

suoi testi sono pieni di istruzioni sul modo in cui l’uomo possa e debba liberarsi dell’essere

Io della sua coscienza, onde elevarsi, per mezzo della conoscenza della sua natura, al di

sopra di questa e raggiungere l’uomo interiore (divino). (...) Questo nuovo stato di

coscienza derivato dalla pratica religiosa si distingue per il fatto che le cose esteriori non

influiscono più su una coscienza fatta di Io ... ma che una coscienza vuota è aperta a

un’influenza diversa. Questa influenza “diversa” non è più sentita come attività propria, ma

come quella di un non-Io il cui oggetto è la coscienza. E’ come se il carattere soggettivo

dell’Io fosse stato sopraffatto o assunto da un altro soggetto che si fosse messo al posto

dell’Io.36

L’obiezione buddhista a a queste note di Jung sarebbe che una ‘coscienza della

coscienza’ che la ponesse a oggetto di un altro soggetto sarebbe appunto coscienza di un

oggetto (di quella stessa coscienza oggettivata) non della coscienza colta nel suo operare

come “carattere soggettivo dell’io” o soggettività conoscente; allo stesso modo in cui

l’occhio può vedere se stesso come oggetto riflesso in uno specchio ma non nell’atto del

suo vedere. Ne segue che se si vuole pensare il Sé come ‘coscienza della coscienza’37

non si può porlo come ‘altro soggetto’ cui si oppone un oggetto. Come chiarisce assai

bene Engler

non posso osservare direttamente il mio sé osservante. Se lo faccio ... muto soltanto l’atto

della consapevolezza in un altro oggetto di consapevolezza in una regressione all’infinito.

... (...) Il sé che io rappresento, il “sé” che io posso conoscere o afferrare non è mai “me”.

L’occhio che vede, dice lo Zen, non può vedere sé stesso. E infine è chiaro: non possiamo

staccare il nostro “sé” dalla consapevolezza perché siamo quella consapevolezza.

36

Ibidem: 555-556. 37

Ibidem: 553.

11

In questo senso la consapevolezza non è semplicemente una funzione dell’Io. (...) La

consapevolezza in quanto tale non può mai essere oggettivata, colta come un oggetto,

identificata coi contenuti della coscienza, rappresentata come “questo o “quello”. E’ di

natura fondamentalmente diversa: senza qualità, senza limiti, senza confini: (...) In

essenza Io non sono nulla che possa essere nominato o pensato, rappresentato o negato,

trovato o perso. “Chi sei” dice Sri Nisargatta Maharaj, “è indefinibile e indescrivibile. La

consapevolezza soggettiva è ciò che rende possibile l’esperienza, ma non è essa stessa

esperienza. (...) la piena realizzazione di ciò è la consapevolezza non dualistica come

proprio stato naturale. L’identificazione con ogni rappresentazione o attività di un sé

separato diviene impossibile”.38

E’ però interessante che altrove lo stesso Jung si avvicini molto a questa prospettiva:

Proprio come l’Io è una certa esperienza di me stesso, così il Sé è un’esperienza del mio

Io, vissuta però non più nella forma di un Io più vasto e più alto, ma in forma di un non-

Io.39

E ancora, più diffusamente:

Poiché il numero di possibilità è limitato si raggiunge ben presto una frontiera, o piuttosto

frontiere che arretrano una dopo l’altra presumibilmente fino al momento della morte.

L’esperienza di queste frontiere conduce gradualmente alla convinzione che quanto viene

esperito è un’interminabile approssimazione. Lo scopo di questa approssimazione sembra

essere anticipato da simboli archetipici che rappresentano qualcosa come la

circumabulazione di un centro. Al crescere dell’approssimazione al centro c’è un

corrispondente depotenziamento dell’Io a favore dell’influenza del centro “vuoto” che certo

non coincide con l’archetipo ma è ciò cui l’archetipo mira. Come direbbero i Cinesi,

l’archetipo è soltanto il nome del Tao, non il Tao in sé. Così come i Gesuiti traducevano

Tao come “Dio” così noi possiamo descrivere la “vuotezza” del centro come “Dio”.

Vuotezza in questo senso non significa “assenza” o “vacanza” ma qualcosa di

inconoscibile dotato della più elevata intensità. Se io chiamo questo inconoscibile “Sé”

tutto ciò che è accaduto è che gli effetti dell’inconoscibile hanno ricevuto un nome

aggregato, ma i suoi contenuti non ne sono affetti in alcun modo. Una parte

indeterminabilmente ampia del mio stesso essere è inclusa in esso, ma poiché questa

parte è l’inconscio non posso indicare i suoi limiti e la sua estensione. Il sé è pertanto una

concetto liminare, in alcun modo riempito coi processi psichici noti.40

3. Al terzo punto di questa esposizione sono le implicazioni di un pensiero analitico

ispirato al buddhismo per l’ascolto e la pratica psicoterapeutica. Anche in quest’ambito è

indiscutibile un nesso di continuità fra autori buddhisti e psicoanalisi relazionale (a sua

38

J. Engler, op. cit.: 66. 39

C. G. Jung, op. cit.: 553. 40

C. G. Jung, Letters, Routledge, London 1975, II: 258, traduzione mia.

12

volta vicina, per una serie di aspetti, alle posizioni originali di Jung41

). Sé del paziente e sé

del terapeuta sono intesi ambedue come relazionali e molteplici e ’normalmente o

patologicamente dissociativi’42 (nel senso già visto di Mitchell e Bromberg), e come tali si

esprimono e operano anche all’interno della relazione analitica. Il terapeuta, in particolare,

non si può ergere a ‘osservatore oggettivo’ - colui che ‘sa’ i contenuti dell’inconscio - né

l’attitudine del paziente verso di lui si può spiegare, in modo esauriente, come distorsione

dovuta al transfert. L’incontro analitico vive invece del gioco sempre irripetibile

dell’interazione fra quel paziente e quell’analista e della loro influenza reciproca (deve

restare, perciò, una questione aperta in qual misura questa interazione segua modelli

caratteristici di altre relazioni della vita del paziente); e il compito del terapeuta - che può

definirsi di osservatore partecipante - è 1) monitorare al meglio i propri sentimenti, le

proprie reazioni, anche le proprie sensazioni fisiche, 2) guidare, a partire di qui

un’osservazione congiunta di quanto accade volta per volta nel qui ed ora della relazione

per trarne ipotesi sui processi psichici del paziente. Da ripensare è anche il vecchio

concetto di ‘resistenza’, che non può più soltanto indicare una generica difficoltà del

paziente a divenir consapevole di certi sentimenti o emozioni ma deve includere anche il

contributo eventuale del terapeuta: ossia “esplorare che cosa il paziente teme che accada

se tali emozioni vengono espresse nel qui ed ora della relazione terapeutica”.43

La differenza essenziale tra questo approccio e quello della psicoanalisi tradizionale suole

riassumersi nel venir meno di ogni finzione o di ogni pretesa di ‘oggettività’ per il terapeuta

“relazionale. Ma ‘oggettività’ (o meglio: assenza di oggettività) si può ancora intendere in

una doppia accezione. Come mancanza di referenti o evidenze per il lavoro analitico il cui

significato sia indiscutibile, in quanto univoco e palese per tutti: non-oggettività, allora, col

significato di relatività, o impossibilità, intesa dal vertice dell’analista, di non trasferire

nell’interpretazione il carico della sua psicologia personale. O ancora, declinata invece dal

vertice del paziente, come portato dalla natura interpersonale del lavoro analitico che

come tale vuol rivolgersi all’altro nella sua differenza e nella sua unicità; nel suo sottrarsi,

pertanto, sempre e di continuo all’oggettivazione, a qualsiasi genere di omologazione

teorica e ad ogni riduzione a categorie ed a concetti con la conseguenza di destabilizzare

lo stesso analista: frustrandone le velleità di conoscenza e controllo, anche i bisogni di

distanziamento fra sé e il paziente, ed attraendolo a sua volta a coinvolgersi nella totalità e

quindi anche nell’assoluta specificità della propria persona.44 Lewis Aron, sulla scorta di

Winnicott e Jessica Benjamin,45 descrive proprio in questi termini l’andamento alternante -

fra oggettivazione e intersoggettività - della relazione analitica:

41

Sul punto vedi, da ultimo W. Colman, “Bringing it all back home: how I became a relational analyst”, The Journal of Analytical Psychology, 58, 4, Sept. 2013: 470-49. 42

Bromberg precisa, a questo proposito che il trauma evolutivo (o trauma relazionale) come egli lo intende “fa parte del processo di modellamento dei precoci pattern di attaccamento (incluso l'’attaccamento sicuro’), che a sua volta determina quelli che Bowlby (1969,1973,1980) chiama ‘modelli operativi interni’. (...) Vale a dire che il trauma connesso all'attaccamento è parte dell'esperienza passata di tutti e un fattore centrale in ogni trattamento; per alcuni pazienti però ha portato a una struttura mentale dissociativa che si è impossessata del funzionamento della personalità e della vita mentale, imponendo quindi la "Verità" su presente e futuro.” (P. M Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 71 e 103-104. 43

J.D. Safran. J. C. Muran, op. cit. : 100. 44

I riferimenti filosofici d’obbligo sono qui M. Buber (1984), “Io e tu” in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997 e E. Lévinas (1971), Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977. 45

Aron rimanda, in particolare, a D. W. Winnicott, “L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” in Gioco e realtà, Armando Armando, Roma 1974 e all’interpretazione di questo lavoro (come superamento dell’oggettivazione e come scoperta della soggettività della madre/altro) proposta da J.

13

Suggerisco che la relazione intersoggettiva sia continuamente interrotta tra le persone -

anche tra paziente e analista - scambiandola per una relazione soggetto-oggetto, e che

poi la relazione intersoggettiva sia ristabilita. Credo che l’intimità non coincida con

l’intersoggettività ma che, piuttosto, trascenda questa relazione dialettica. L’intimità implica

la sopravvivenza e il sostentamento di questa relazione tramite la continua creazione e

distruzione dell’intersoggettività.46

L’alternativa - o, più radicalmente, l’antidoto - al ‘pregiudizio’ dell’analista, in questa

prospettiva non è soltanto una comprensione più completa e migliore, resa possibile -

come propongono ad esempio Safran e Muran47 - in una sorta di dialogo ermeneutico; è

un coinvolgimento con la persona o l’esser soggetto dell’altro che ci mantiene in tensione

verso di lui, incessantemente in ascolto perché ci sollecita di continuo all’interpretazione

ma ci fa vivere via via come impropria e virtualmente insoddisfacente ogni comprensione o

qualsiasi giudizio. Questa visione - che riprende, incidentalmente, quasi alla lettera le

prescrizioni di Bion sulla capacità negativa e sulla necessità di astenersi (per l’analista) da

attività mentale, desiderio e memoria48 - è in sintonia con la dottrina buddhista, riferita

sopra, sui rischi della proliferazione mentale e sulle finalità difensive - per la stabilità della

rappresentazione del sé - della omologazione al già noto, a scapito delle capacità

percettive e dell’efficacia dell’Io. Qui infatti non si tratta già più - lo si è visto sopra -

soltanto di includere la soggettività conoscente (nel nostro caso quella dell’analista), come

nel primo approccio relazionale; quanto, piuttosto, di rendersene consapevoli e di

trascenderla, per quanto possibile, come momento a sua volta relativo nella dualità

continuamente ricreata di soggetto ed oggetto del processo di conoscenza, dunque da

subordinare alla qualità e all’efficacia di questo. L’esito un po’ paradossale, e

però),innegabile, come ancora vedremo è alla fine il recupero, nella prima accezione del

termine, non di una pretesa ma di una tensione all’oggettività.

Per la psicoanalisi (e la psicologia analitica) ispirate al buddhismo ciò si è tradotto, molto

concretamente, non nel semplice invito a una disciplina mentale - come già in Bion - ma

nell’acquisizione al lavoro analitico e soprattutto al training quotidiano dell’analista di

pratiche tratte dalla meditazione di consapevolezza. A tali pratiche - a questo punto anche

dissociabili e dissociate, di fatto da un credo buddhista - o, meglio ancora al tipo e alla

qualità di attenzione che con esse si mira a far crescere e sostenere va il nome generale

Benjamin, “Recognition and Destruction: An Outline of Intersubjectivity” in S. A. Mitchell, L. Aron (a cura di), Relational Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 183-210, traduzione italiana parziale in J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello Cortina, Milano 1996. 46

L. Aron, A meeting of minds, The Analytic Press , Hillsdale and London 1996: 152 (traduzione mia); citato da J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 68. 47

J. D. Safran, J. C. Muran, op. cit. : 44-45. 48

Vedi soprattutto W. R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Armando, Roma 1973 e W. R. Bion (1965) Trasformazioni, Armando Armando, Roma 1973. Ma sono anche da ricordare i contributi di Marion Milner e Karen Horney: M. Milner, “The concentration of the body” in The suppressed madnes of sane men, Tavistock Publications, London & New York 1987: 234-240 e K. Horney, Final Lectures, ed. by D. Ingram, Norton, New York 1987: 19.21 citato da M. E. Miller, “Zen and Psychotherapy” in P. Young Eisendrath and S. Muramoto (a cura di), Awakening and Insight. Zen Buddhism and Psychotherapy, Brunner-Routledge, New York 2002: 85.

14

di Mindfulness (variamente tradotto con ‘presenza mentale’, ‘consapevolezza’ o anche

‘pienezza della consapevolezza mentale’). Tale attenzione è stata definita:

Focalizzata, cioè orientata in modo esclusivo verso un determinato oggetto ... (il proprio

respiro, un’amica con la quale stiamo parlando ... una sensazione corporea). E’ importante

che, quando ci si rende conto che l’oggetto stabilito non è più al centro del focus attentivo,

si compia ... una intenzionale rifocalizzazione dell’attenzione verso quell’oggetto dal quale

ci si è allontanati.

Rivolta al momento presente, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto ci si riesce)

verso l’esperienza che si sta vivendo qui ed ora: ogni volta che si diviene consapevoli che

la mente ci ha trasportato ... nel passato o nel futuro ... è importante che si attivi ... un

riposizionamento dell’attenzione sul momento presente.

Non categorizzante, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto si riesce, all’esperienza

in cui ci si trova, senza usare le categorie, le classificazioni, e i giudizi abituali per

comprenderla: ogni volta che si diventa consapevoli che la mente sta operando una

sistematizzazione di quello che sta accadendo in base a schemi pregressi, e importante

che si metta in atto ... un riorientamento dell’attenzione sulla qualità di novità

dell’esperienza, che di fatto possiede.49

Trasferita nel contesto analitico (sempre gli autori di ispirazione buddhista50 insistono

molto sulla sua affinità con la attenzione ugualmente sospesa prescritta da Freud51)

l’attenzione mindful ha di mira anzitutto le autodifese dell’analista - messe in atto,

comunemente, col ritirarsi dalla relazione, con l’assimilarla a situazioni trascorse o

proiettandola nel futuro, col neutralizzarne l’impatto emotivo mediante astrazioni - ogni

qualvolta la relazione stessa sia troppo frustrante, dolorosa o allarmante o comunque

coinvolga aree di forte vulnerabilità, facendo prevalere su un’attitudine recettiva una

risposta reattiva. Può però trasmettersi - per ragioni del tutto analoghe - dall’analista al

paziente (Wallin definisce la psicoterapia, sotto questo profilo, come una specie di

meditazione a due52) in modo tacito o per inviti espliciti: ad esempio col chiedere

ripetutamente al paziente di soffermarsi su ciò che sente in un determinato momento, di

provarsi a descriverlo nei dettagli e anche indicare dove lo sente (in quale area del corpo).

Lo sfondo che potremmo chiamare ‘umanistico’ (in effetti ancora vicino al buddhismo) di

questa pratica dell’attenzione è l‘accettazione non giudicante (la meditazione di

consapevolezza ha qui la funzione di renderci consci, momento dopo momento, dei giudizi

e delle risposte di rifiuto che rivolgiamo innanzitutto a noi stessi); e la compassione per

noi medesimi “che emerge quando diventiamo capaci di aprirci [anche] alle esperienze

dolorose”.53 In particolare: col trattare noi stessi gentilmente e senza giudicarci con

severità; riconoscendo che errori, fallimenti e avversità fanno parte della comune

49

G. Amadei, Mindfulness. Essere consapevoli, Il Mulino, Bologna 2013. 50

In particolare M. D. Epstein, “Sulla negazione dell’attenzione ugualmente sospesa”, in A. Molino, R. Carnevali (a cura di), op. cit.: 160-175) e M. Epstein (2007), Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio, Roma 2008: 95. 51

S. Freud (1912) “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, Opere, VI, Bollati Boringhieri, Torino1989,: 532-533. 52

D. J Wallin (2007) Psicoterapia e teoria dell’attaccamento, Il Mulino, Bologna 2009: 264. Questo testo, ai capitoli IX e XVII contiene una sintesi eccellente dell’approccio mindfulness in psicoterapia. 53

Ibidem: 283.

15

esperienza umana; mantenendo un’equilibrata consapevolezza di pensieri e sentimenti

spiacevoli, invece di evitarli, cancellarli o identificarsi eccessivamente con essi.54 Sempre

per Wallin una tale apertura tenderà ad autoconsolidarsi in quanto la consapevolezza

anche dei sentimenti dolorosi ne farà comprendere sempre di più la qualità transitoria

rendendoli, con ciò stesso, assai meno temibili; legando, di conseguenza, sempre di più

alla consapevolezza, più che a figure protettive interiorizzate o a determinati stati mentali il

nostro senso di sicurezza; ed evitando il sovrappiù di sofferenza sempre legato allo sforzo

di evitare il dolore.55

In termini più formali l’attenzione mindful mirerà a sospendere per quanto possibile gli

automatismi categorizzanti o ‘dall’alto in basso’ (dei quali a lungo si è detto sopra)

finalizzati alla previsione e alla sopravvivenza adattiva per dare spazio alla modalità

senso-percettiva (‘dal basso verso l’alto’) vuoi verso l’esterno (nel setting analitico:

l’espressione facciale, il tono di voce, le sfumature emotive, la postura corporea del

paziente) vuoi verso l’interno (pensieri, sentimenti, emozioni, anche stati fisici dell’analista

- osservati, però, e anche utilizzati, ma in modo equanime e ad una certa distanza, alla

stregua di eventi o stati transitori e dunque senza identificarsi con essi56). Questa

attenzione accrescerà l’efficacia (ai fini del cambiamento) del dialogo terapeutico con

l’ancorarlo più saldamente all’esperienza vissuta, ossia al qui ed ora più che alla semplice

riflessione o ricostruzione retrospettiva e al vissuto emozionale-corporeo oltre che alla

comprensione concettuale. Notano in proposito Safran e Muran:

Diversamente da quanto accade per un pensiero più concettuale, che può essere staccato

dall'azione, la conoscenza a livello corporeo ha sempre implicazioni per il passo

successivo all'attuale. Quando un individuo ha una nuova sensazione, dà a se stesso

un'irrefutabile informazione su quanto l'intera configurazione relazionale significhi

realmente per lui come organismo intero, e tale significato ha risvolti impliciti per l'azione.

(...) L'insight emozionale, o consapevolezza, comporta così la rivalutazione di un evento o

di un'esperienza in un modo che conduce al «che cosa vuoi dire per me ora». (...) Ciò

riflette il fatto che l'individuo conosce qualcosa in maniera differente, come un organismo

concreto, in interazione con l'ambiente circostante.57

54

K. D. Neff, “Self-compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself” in Self and Identity, 2: 85-101, 2003 citato da R. a. Baer, “la compassione di sé” in R. A. Baer (2010) a cura di, Come funziona la mindfulness, Raffaello Cortina, Milano 2012: 130. 55

D. J. Wallin, op. cit.: 263. 56

Su questo punto, veramente essenziale, vedi quanto scrive D.J. Siegel (2007), Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009: 25-26: “Da questo modo di essere riflessivo, mindful, emerge un processo fondamentale chiamato ‘discernimento’, in cui diventa possibile essere consapevoli del fatto che le attività della propria mente non sono la totalità di ciò che si è. Il discernimento è una forma di disidentificazione dall’attività della propria mente: quando diventi consapevole delle sensazioni, dei sentimenti e dei pensieri ... arrivi a vedere queste attività come delle onde che si muovono sulla superficie del mare della mente. Da questo luogo più profondo della mente, da questo spazio interno della consapevolezza mindful, è possibile notare come le onde superficiali del cervello vadano e vengano. Questa capacità di liberarsi dal chiacchiericcio della mente, di capire che queste sono “solo attività della mente”, è un’esperienza liberatoria e per molti perfino rivoluzionaria”. Vedi anche, dello stesso autore, The Mindful Therapist, Norton, New York & London 2010. 57

J.D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 63.

16

In questa linea, per richiamare un esempio recente, può rilevarsi un alto grado di

congruenza fra attitudine mindful e i contributi di Daniel Stern e del Boston Change

Process Study Group sul cambiamento in psicoterapia e la conoscenza relazionale

implicita. Si tratta di cogliere e valorizzare anche in questo caso il momento presente - i

cosiddetti now moments - con la totale disponibilità da parte dell’analista a mettersi in

gioco personalmente nella situazione, esponendosi senza difese ai suoi elementi di novità

e al suo impatto emotivo e offrendo così una risposta che attesti, per ambe le parti, la

saldatura di di un nuovo piano di sintonizzazione emotiva.

I momenti più interessanti sorgono quando il paziente fa qualcosa che è difficile

catalogare, qualche cosa che richiede una reazione nuova e diversa, contraddistinta da

una firma personale che fa condividere al paziente lo stato soggettivo dell’analista (affetti,

fantasie, esperienze reali ecc.). (...) Il terapeuta deve usare un aspetto specifico della

propria individualità, un aspetto che porta una connotazione personale. I due soggetti si

incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai

loro rispettivi e ordinari ruoli in terapia. Inoltre le azioni che costituiscono il “momento di

incontro” non possono essere consuete, abituali o tecniche; devono essere nuove e

forgiate per soddisfare le particolarità del momento.58

Vi sono da ultimo, per concludere, linee assai rilevanti di convergenza del pensiero

mindful con l’impostazione junghiana. Già l’insistenza sul non sottrarsi al confronto con

temi dolorosi o allarmanti e soffermarsi, al contrario, in un contatto approfondito con essi

risuona affine alla basilare prescrizione di Jung sull’importanza di ‘stare nel conflitto’

perché si produca un cambiamento spontaneo e più autentico - la cosiddetta funzione

trascendente (ciò sia nel conflitto esclusivamente interiore, sia nel confronto

intersoggettivo). In aggiunta a questo ritengo assai significative alcune considerazioni

recenti (penso, in particolare, all’ultimo libro di Maria Ilena Marozza59) sulla questione - a

cui si è qui solamente accennato - della tensione all’oggettività nell’ascolto analitico. In

sintesi, ritiene Marozza, si può pensare ad una base di oggettività in psicoanalisi a

condizione di fare spazio (esattamente come propone l’approccio mindful) alla dimensione

sensoriale-affettiva, che in ogni caso accompagna sempre la comunicazione verbale, la

completa, la qualifica e la precisa radicandola nello spessore psico-corporeo; ma si

differenzia, contestualmente, da essa perché non confluisce nell’astrattezza dei segni e

quindi non si offre, al pari di questi, all’immediatezza della comprensione linguistica. Essa

piuttosto trattiene nel concreto, contagia e provoca alla ricerca di una comprensione che

non può contare su di un sapere generalizzabile (ma quindi non può nemmeno venir

tradita o fraintesa in forza di preferenze teoriche o categoriali) ma obbliga - proprio come il

simbolo60 - a soffermarsi nell’esperienza e a esporsi a lungo al coinvolgimento e alla

58

Cfr. The Boston Change Study Group (2010), Il cambiamento in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano 2012: 15-16. 59

M.I. Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo 2012. Ma vedi anche M.La Forgia e M. I. Marozza, Le radici del comprendere, Fioriti, Roma 2005 e M. La Forgia e M. I. Marozza (a cura di), La conoscenza sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo 2008. 60

Sull’affinità fra impegno in chiave di ‘capacità negativa’ e esperienza simbolica ho scritto in G. Kaufman, “Il silenzio del padre nella relazione analitica. Bion, Jung e una rilettura del simbolico” in Il Padre. Parola Silenzio Trasformazione”, Atti dell’XI Convegno Nazionale del Centro Italiano di Psicologia analitica,

17

condivisione: e appunto qui, in questo tratto non riducibile di autoreferenzialità o

intransitività è quanto rende “la realtà dell’affetto ... la manifestazione fenomenica e del

tutto oggettiva, di una supponibile realtà dell’inconscio: poiché, come scrive Matte Blanco,

nulla ci conduce ad una chiara distinzione psicologica fra l’emozione e l’inconscio”.61 In

particolare, nello specifico della costruzione junghiana il nesso mai del tutto scindibile fra

strato sensoriale-affettivo e dimensione rappresentativa-ideativa, su fino al piano verbale-

razionale si salda nell’unità dei complessi e nel loro operare a differenti livelli di coscienza

cui corrispondono modalità qualitativamente diverse (ma tali da confrontarsi e completarsi

l’una con l’altra) di registrazione delle esperienze. Ne segue “la possibilità ... di insediare

l’ordine linguistico e la capacità di significare nell’ordine dell’esperienza soggettiva vitale e

diretta”.62 E in primo luogo di riscontrare le rappresentazioni logico-razionali ma in potenza

del tutto astratte del complesso dell’io (inclusa la distinzione che solo qui si rappresenta

compiutamente fra il sé ed il mondo) con quanto si esprime dai complessi secondari in

modo più indistinto ma impegnativo e pregnante dell’esistenza emozionale e sensoriale di

base.

Vivarium 2002. Sul coincidere fra esperienza simbolica e incontro con la “cosa in sé” vedi M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986: 80-83. 61

Scrive ancora Marozza: “Solo in questo senso possiamo tenere insieme il significato più profondo del termine inconscio, come ciò che non è conosciuto, ritenerlo eternamente tale e connaturato all'esperienza umana e nello stesso tempo considerarlo assolutamente influente e talmente oggettivo da poter essere la vera fonte dell'attività psichica, manipolabile dalla soggettività cosciente solo nella direzione da esso stesso consentita.” (M.I. Marozza, op. cit.: 210-211). 62

Ibidem: 207.

GIANNI KAUFMAN

SE’/NON SE’. INTRECCI TRA BUDDISMO E PSICOANALISI

SEMINARIO CIPA. MILANO 12 OTTOBRE 2013.

1. Oggetto del mio intervento è l’incontro - che risale almeno alla metà degli anni ’90 - fra

buddhismo, psicoanalisi e psicologia analitica e le ricadute o gli ulteriori sviluppi di questo

incontro riferibili essenzialmente a due temi: 1) sul piano teorico la natura o le

caratteristiche proprie del sé, 2) sul piano pratico la qualità della consapevolezza o

dell’attenzione in psicoterapia e il ruolo che in questo ambito può riconoscersi alla pratica

meditativa. Se si accantonano, ma solo momentaneamente, i contributi propriamente

junghiani - la teoria dei complessi e la metapsicologia del Sé - l’incontro fra psicologia

dinamica e l’impresa di decostruzione del sé della tradizione buddista si prepara anzitutto

con le proposte, al tempo assai innovative, della psicoanalisi relazionale.1 Già in un lavoro

del ’93 Stephen Mitchell (un autore non espressamente interessato al buddismo) notava il

succedersi nella tradizione psicoanalitica di due metafore per la rappresentazione del sé:

una metafora di tipo spaziale - quella di Freud - “il sé come stratificato, singolo e continuo

(...) la mente come un posto in cui le cose accadono, il sé come qualcosa in quel posto,

composto di parti o strutture costitutive”. E una metafora di tipo temporale, inclusa

dapprima nella teoria delle relazioni oggettuali e sostenuta, dopo di essa, dai vari approcci

di tipo relazionale. Qui il sé coincide con esperienze differenziate secondo l’ambito e la

qualità dei rapporti, e quindi è inteso come molteplice e discontinuo. “Poiché apprendiamo

a divenire persone mediante l’interazione con differenti altri e attraverso interazioni

differenti col medesimo altro la nostra esperienza del sé è discontinua, composta di

differenti configurazioni, differenti sé con differenti altri. (...) il risultato è un’organizzazione

plurale e multiforme del sé, modellata su differenti immagini o rappresentazioni del sé e

dell’oggetto, derivate da differenti contesti relazionali.” Così “i sé cambiano e si

trasformano continuamente nel tempo, e una singola vita è composta di più sé.

Un’esperienza del sé ha luogo necessariamente in un momento del tempo; essa riempie

lo spazio psichico e un’altra versione alternativa del sé sfuma sullo sfondo”.2 Ancora: se

applichiamo la prima metafora, - il sé come entità singola e stratificata - “ha senso

approcciarlo come (...) una cipolla, tentare di situarne il ‘centro’ o il ‘cuore’, delinenarne gli

strati, differenziarne le parti autentiche da quelle false, la struttura protettiva e così via”.3

Se tuttavia “il sé si muove nel tempo piuttosto che esistere nello spazio non ha un nucleo

fisso”. La ricerca di un nucleo invariante o di un ‘vero’ sé, colto ai suoi inizi, nella sua

essenza presociale, al di sotto degli adattamenti e delle negoziazioni con altri, “implica

rimuovere il sé dal tempo, uno sforzo male indirizzato per rendere statiche le

organizzazioni mutevoli dell’esperienza del sé.” Può accadere che io mi senta più

autentico (o meno autentico, meno spontaneo o più stereotipato) in certi modi di agire o di

esprimermi, in certe occasioni o in certe situazioni: ma ciò non implica rinviare ad un

‘nucleo’, a un ‘vero’ o ‘un ‘autentico’ me. “Facciamo esperienza di noi stessi nel tempo.

1 Per una critica stringente, sul piano filosofico, dei presupposti e delle implicazioni dell’approccio relazionale

vedi il recente lavoro di J. Mills, Conundrums. A Critique of Contemporary Psychoanalysis, Routledge, New York 2012. 2 S. A. Mitchell, Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York 1993: 101-104.

3 Ibidem: 101.

2

Possiamo valutare una nuova esperienza in termini di continuità o discontinuità col

passato e il presente; una nuova esperienza può rappresentare ed esprimere la propria

storia e la situazione presente oppure negare e tradire la propria storia e condizione

presente o ancora riformulare la propria storia e condizione presente in un modo nuovo e

arricchente. Il senso di autenticità è sempre una costruzione, e come costruzione è

sempre relativa ad altre possibili costruzioni del sé in ogni tempo particolare.”4

Con tutto questo - chiariva Mitchell - non può negarsi anche l’esistenza di un senso o di un

vissuto di continuità nell’esperienza del sé, indipendente dai cambiamenti nel tempo, in

forza del quale mi rappresento, ad ogni istante, come un Io identico, a cui rimandano i miei

ricordi in passato e che proietto nel mio futuro. Questo sentire è anche condizione di un

senso di agency, di continuità e responsabilità nell’agire, e ancora della possibilità di

imporre un’ordine di priorità a scopi impulsi e motivazioni, il non sentirsi trascinati qua e là.

Ciò è vero anche se non è semplice, all’atto pratico, stabilire quanto vi sia in tutto questo

di soggettivo o propriamente oggettivo. “Può essere che io faccia tutto ciò che faccio, ma

può anche essere che io faccia certe cose in contesti esperienziali del tutto diversi da

quelli in cui faccio altre cose. L’Io che fa cose diverse è un Io diverso in tempi diversi”.5 E

In ogni caso questa maniera di rappresentarsi del sé come agente autonomo e separato

non pare rispondere - Mitchell cita qui Clfford Geertz - a un’istanza evolutiva di tipo

universale quanto, piuttosto, a un dato culturale:

La concezione occidentale della persona come un universo motivazionale e cognitivo

delimitato, unico, più o meno integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emozione,

giudizio e azione organizzati in un insieme distinto e contrapposto sia ad altre entità simili

sia al contesto sociale e naturale è, per quanto incorreggibile ci sembri, un’idea

abbastanza peculiare nell’insieme delle culture mondiali.6

Può a questo punto suonare discordante, dopo tanti argomenti a favore di un sé

relazionale e molteplice, che le conclusioni di Mitchell siano da ultimo caute. “Potrebbe

ritenersi” - leggiamo infine - “che il senso di continuità nell’esperienza del sé sia totalmente

illusorio. Esso però assolve, almeno nella nostra cultura, a un’importante funzione

adattiva” E d’altra parte i due modi di rappresentare il sé - come molteplice e discontinuo,

e come integro, continuo e separabile, non sono reciprocamente esclusivi. “Le persone

4 Ibidem: 130-131. Anche le nozioni di Winnicott di ‘vero‘ e ‘falso’ sé riferite al rapporto del bambino col seno,

secondo Mitchell, “sono un importante punto di partenza ma si tratta di una situazione troppo semplificata quando si considera l’esperienza adulta. Tutte le motivazioni personali hanno una lunga storia relazionale, il sé è sempre immerso in contesti relazionali, attuali o interni, perciò tutte le motivazioni importanti sono apparse e hanno preso vita e forma in presenza e attraverso le reazioni di altri significativi.” (Ibidem: 134) 5 Ibidem: 109.

6 C. Geertz, “From the Native’s Point of View: On the Nature of Anthropological Understanding” in Local

Knowledge. Further Essays in Interpretive Anthropology, Basic Books, New York 1979: 59, citato da S. Mitchell, op. cit.: 110. Vedi anche quanto scrive J. Engler, “Being Somebody and Being Nobody: A Reexamination of the Understanding of Self in Psychoanalysis and Buddhism” in J. D. Safran (a cura di), Psychoanalysis and Buddhism. Un Unfolding Dialogue, Wisdom Publications, Boston: 51: “Nelle culture da cui il Buddismo è emigrato verso occidente, preminentemente in India e Giappone, il senso del sé è molto più mescolato con gli altri in un ‘senso del noi’ che è profondamente differente dall’’Io-sé’ separato ed autonomo dell’esperienza occidentale. Il sé è esperito come incorporato in una matrice di relazioni e come definito da tali relazioni, non solo la matrice delle relazioni umane e sociali ma la matrice più comprensiva delle relazioni all’interno del mondo della natura, e da ultimo il cosmo nel suo insieme”.

3

agiscono sia in modo discontinuo che in modo continuo. (...) In ogni momento dato una

persona opera a partire da un determinato contesto relazionale (...); al contempo quella

specifica versione del sé contribuisce a dar forma a una sequenza continuativa di

esperienza che ha le sue caratteristiche distintive. (...) Pensiamo al sé come alla sequenza

dei fotogrammi di un film. In ambedue i casi l’esperienza del movimento e della continuità

è un’illusione. Ma “l’illusione” “crea un’esperienza che ha una grande ricchezza soggettiva

in proprio, producendo un’immagine più ampia e ‘in movimento’ molto diversa (e molto

maggiore) della semplice somma delle immagini singole”. Similmente nel percorso

analitico “quanto più l’analizzando può tollerare di esperire versioni molteplici di se stesso,

tanto più si vivrà come forte, duraturo e capace di resilienza. E reciprocamente quanto più

l’analizzando ritrova dei tratti di continuità nel passaggio tra le sue varie esperienze, tanto

più può reggere la diffusione di identità implicita nel far convivere molteplici versioni del

sé”.7

Resta comunque, del discorso di Mitchell - e, se si vuole, anche in virtù delle sue

conclusioni - il punto forse più innovativo. Che si privilegi l’aspetto della discontinuità e

molteplicità o invece quello della continuità, il sé viene a perdere in ogni caso qualsiasi

carattere sostanziale per riproporsi come mera rappresentazione: capace, proprio per

questo, di più versioni e modi di esperienza possibili, nessuna eguagliabile a un ‘vero sé’.

Un corollario di questa innovazione è un diverso approccio ai temi dello sviluppo. Così

l’idea di un sé preesistente alla nascita il cui realizzarsi può solamente essere facilitato o

impedito lascia spazio all’ipotesi di più percorsi possibili grazie al convergere tra

potenzialità del bambino e influsso prevalente dell’uno o l’altro caregiver.8 Inoltre - si fa

ancora osservare - già negli scritti di Winnicott, l’opposizione tra sé ‘vero’ e ‘falso’ viene

formulata anche come antitesi fra non-integrazione - la possibilità per l’infante di rilassarsi

e abbandonarsi all’esperienza del gioco alla presenza rassicurante della madre - e

necessità di reagire, in modo prevalente, a stimoli o intrusioni esterne. In quest’ultimo caso

- ma solo in questo (ad esempio quando debba far fronte ad una madre angosciata o

depressa) - il bambino isola un proprio mondo privato (il suo ‘vero sé’) fino a nasconderlo

perfino a se stesso e si concentra sulla gestione del mondo esterno.9 Un ultimo modo,

infine, di ripensare quell’opposizione è prender atto della tensione costante, nel corso

della vita di ognuno, fra spontaneità e esigenza di conservare relazioni sicure10 (perciò

tener conto del proprio impatto sugli altri) o ancora fra agentività e relazionalità11 o fra

7 S. Mitchell, op. cit.: 115-116.

8 Ibidem: 129.

9 Scriveva Winnicott : “Soltanto quando è solo (cioè solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la

propria vita personale. L’alternativa patologica è una vita falsa costruita su reazioni agli stimoli esterni. Quando è solo, nel senso suddetto, e solamente quando è solo, l’infante è in grado di fare qualcosa di simile al rilassarsi dell’adulto, e cioè è in grado di diventare non-integrato, di agitarsi, di permanere in uno stato di disorientamento, di esistere per un po’ senza essere né qualcosa che reagisce ad un urto dall’esterno, né una persona attiva con una direzione d’interesse o di movimento. (...) Solamente in queste condizioni il bambino può avere un’esperienza e sentirla come reale. Un gran numero di tali esperienze formano la base di una vita reale e non futile.” (D. W. Winnicott (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Armando, Roma 1974: 36.). In età adulta situazioni analoghe di ‘non-integrazione’ in presenza d’altri (o relazionalità non reattiva) saranno condizioni per una crescita di creatività. (Cfr. M. Masud R. Khan, “On Lying Fallow” in Hidden Selves, Hogart Press, London 1983: 183-188.) 10

S. Mitchell, op. cit.: 133. 11

J. D. Safran e J. C. Muran, op.cit.: 39.

4

efficacia e esigenze di sicurezza.12 Il contrasto non è analizzabile in termini di contenuti

(come nella vecchia teoria freudiana delle pulsioni dove l’Es è tenuto a bada da Io e

Superio) e neanche in termini di priorità precostituite (come nell’ipotesi del ‘vero’ sé), ma

nella maggiore o minore capacità di un negoziato flessibile fra le due istanze. Questa

formulazione è già compatibile con un quadro teorico che all’antitesi ‘sé’ vero o falso’

sostituisca l’assunto di “numerosi stati del sé che lottano per dominare nello stato di

coscienza in un determinato momento”.13

E appunto questo - di una pluralità originaria di stati del sé - è l’assunto che ispira, in modo

forse anche più radicale del lavoro di Mitchell, il secondo contributo importante che va qui

ricordato - gli scritti sulla dissociazione di Philip Bromberg. L’esperienza di unità e

continuità del sé, per Bromberg, è senz’altro illusoria e “è generata dalla capacità

evoluzionistica della mente di radicare la coscienza in una delle configurazioni di stati del

sé che risultano più adattive in quel momento”.14 Di fatto “l’esperienza di sé si origina da

stati del sé relativamente isolati fra loro, ognuno con una propria coerenza interna” ma

“quando (...) tutto procede bene una persona è solo vagamente e momentaneamente

consapevole dell’esistenza di stati del sé individuali e delle loro rispettive realtà: questo

perché ognuno funziona come parte di una salutare illusione di identità personale unitaria

- uno stato cognitivo ed esperienziale sovraordinato sentito come ‘me’.” In questi termini

“la dissociazione (...) è una funzione sana e adattiva della mente umana. E’ un processo di

base che consente agli stati individuali del sé di funzionare in modo ottimale (e non in

modo semplicemente difensivo) quando ciò di cui abbiamo veramente bisogno o

desideriamo è una totale immersione in una singola realtà, in un singolo affetto forte, e

una sospensione della capacità autoriflessiva.”15

L’illusione di unità e di continuità così resa possibile - da questo genere di dissociazione

non difensiva - si caratterizza per il fatto di lasciar spazio alla capacità riflessiva e quindi

alla comunicazione anche con stati momentaneamente non in primo piano nell’esperienza

del sé. Bromberg usa l’espressione “restare negli spazi” per descrivere “la relativa

capacità della persona di ospitare in un dato momento una realtà soggettiva che non può

essere facilmente contenuta dal sé che in quel momento sente come ‘me’”. Questa

capacità di comunicare, momento per momento, con esperienze del sé discrepanti è

anche condizione della comunicazione intersoggettiva, ossia della capacità che le persone

hanno - ancora una volta: se tutto procede bene - di aprirsi all’esperienza che altri fanno

di loro.

Ma a volte - anzi, piuttosto spesso - non tutto procede bene. L’immagine del sé rimandata

dall’altro (o - che è lo stesso - da altri stati del sé) “può essere sentita troppo discrepante

dall'esperienza di sé che si sta facendo in quel momento per far sì che entrambe possano

essere conservate in mente simultaneamente”. In questo caso la dissociazione si piega

alla funzione - solo difensiva - di conservare “le esperienze di sé eccessivamente

discrepanti in stati del Sé separati che non comunicano tra loro, per lo meno per un certo

12

J. Greenberg, Oedipus and beyond, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1991: 129 sgg. 13

J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 115-116. 14

P. M. Bromberg (2011), L’ombra dello tsunami, Cortina, Milano 2012: 100. 15

P. M. Bromberg (1998/2001), Clinica del trauma e della dissociazione, Cortina, Milano 2007: 211.

5

periodo”; e può trattarsi di un periodo breve, per affrontare una situazione momentanea di

stress, ovvero più lungo o dell’intera esistenza. L’illusione di unità e continuità del sé ha

allora come condizione proprio il persistere della struttura dissociativa:

La mente/cervello organizza i suoi stati come un sistema protettivo che tenta,

proattivamente, di zittire l'accesso esperienziale a stati del Sé discrepanti con la gamma di

stati, limitati dissociativamente, di cui si fa esperienza in un dato momento come "me".

Questo rigido sequestro di stati del Sé per mezzo di una struttura mentale dissociativa è

talmente centrale per la personalità di alcuni individui che, virtualmente, modella tutto il

funzionamento mentale, mentre per altri il suo range è più limitato. Ma, a prescindere dalla

misura o dal range, la sua funzione evoluzionistica è di assicurare la sopravvivenza della

continuità del Sé relegando il funzionamento riflessivo a un ruolo minore, o a nessun

ruolo.16

Ciò è quanto accade, tipicamente, in occasione di traumi - sia traumi gravi (abusi sessuali

o fisici) sia, soprattutto, di traumi evolutivi: in questo caso, agendo ancora una volta al

servizio della continuità del sé e perciò conformandosi ai primi modelli di attaccamento,

saranno dissociati gli stati del sé ignorati o disconfermati dai genitori. Questi stati saranno

esclusi in permanenza dalla comunicazione in quanto non mentalizzati all’origine - non

confrontati col loro modo di apparire nella mente dell’altro - pertanto tendenzialmente non

simbolizzati sul piano cognitivo e quindi non recuperabili a un’unità del sé garantita

dall’autoriflessione (il mancato operare della comunicazione intersoggettiva sarà in questo

caso non conseguenza ma proprio l’origine della frattura dissociativa). Ne seguirà un

sentimento inguaribile di inautenticità imputabile, come visto sopra, non al tradimento del

‘vero sé’, ma all’eslcusione di un qualsiasi stato o aspetto del sé dall’esperienza

interpersonale.

Il Sé vissuto come vero è sentito essere sempre quello che sta bussando alla porta - la

voce interna antagonista, udita ma non "pensata" (Bollas, 1987). Questa voce viene

sentita inevitabilmente come più vera sul piano soggettivo semplicemente perché essa

contiene una "verità" diversa ma non formulata - una visione alternativa della realtà che

viene negata al sé che sta intrattenendo rapporti con il mondo, rendendolo così limitato sul

piano relazionale e compromesso nella possibilità di sentirsi autentico. Come ha detto

Mitchell (1993), "ciò che può sembrare autentico nel contesto di una versione del sé può

essere completamente inautentico rispetto ad altre versioni".17

2. Dopo questo richiamo, indispensabile per inquadrare il discorso, ai contributi della

psicoanalisi relazionale - ci si è limitati, a fronte di una produzione ormai molto ampia, a

due autori particolarmente influenti e significativi - si può dar spazio agli interventi

propriamente ispirati alla tradizione buddista. Qui la natura illusoria o piuttosto ingannevole

dell’unità e continuità del sé non è più solo ricondotta all’onnipresenza delle dinamiche

dissociative - così efficacemente illustrate da Bromberg - o all’intreccio relazionale delle

16

P.M. Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 14-15. 17

Ibidem: 128.

6

identità. In primo piano è invece il contrasto fra la preoccupazione costante e pervasiva

che più o meno tutti ci caratterizza - ma che è alla base, secondo il Buddha, di ogni

sofferenza - di preservare, proteggere, espandere il sé, e il dato radicale della sua

impermanenza, non autonomia e non separatezza, al pari di ogni essere e di ogni cosa

esistente. E’ un fatto che se poniamo attenzione, momento dopo momento, al flusso della

coscienza a monte degli automatismi con cui di solito selezioniamo, organizziamo e

interpretiamo i dati percettivi, concettuali e affettivi non incontriamo alcuna entità duratura,

nessun soggetto o oggetto costante ma solo operazioni con cui, momento dopo momento,

a partire da quei dati elementari di continuo e sempre di nuovo strutturiamo in modo

dualistico la nostra esperienza opponendo insiemi di oggetti distinti l’uno dall’altro e dal sé.

Come osserva Jack Engler

Il costrutto-sé ... è incorporato nella caratteristica più profondamente radicata del pensiero

e della percezione umana: la tendenza a considerare ogni oggetto dell’esperienza o della

percezione come un’entità separata o una ‘cosa’ dotata della sua esistenza e identità

concreta e separata e solo in un secondo momento in relazione con altre ‘cose’. (...) Ma la

‘cosalità’ o la ‘esistenza inerente’ è in realtà un’imputazione o un’attribuzione, non una

caratteristica delle ‘cose. (...) Come scrive la studiosa buddista Anne Klein “Le cose

semplicemente sembrano odorano e si fanno gustare come più solide individuabili e

intrisecamente disponibili di quanto in realtà non siano.” (...) Questa “attribuzione non

pensata di inerenza” a sé e agli altri è la “ontologia vissuta che sottosta ad ogni altra

esperienza di seità, inclusi i moderni sé psicologici” e specialmente la rappresentazione in

parte conscia in parte inconscia del sé come entità singola, unica e separata “collocata nel

profondo di noi stessi”.18

Detto in altri termini:

Il sé dell’uomo è un’azione: è qualcosa che facciamo per unificare la nostra soggettività

nello spazio e nel tempo, separandola dal flusso dell’esperienza e creandole un confine

intorno. Qualche volta facciamo questo consapevolmente, ma la maggior parte delle volte

lo facciamo senza avere consapevolezza del sé attraverso micromovimenti nelle nostre

percezioni che creano l’impressione di essere “qui dentro”, mentre qualcos’altro è “là

fuori”.19

La riduzione o decostruzione del sé che in questo modo si avanza è dunque più radicale

della innovazioni della psicoanalisi relazionale: il sé non soltanto è plurale e molteplice,

diversamente declinato per situazioni e rapporti; non solamente è rappresentazione, ma si

dà solo come relazione, come momento subordinato di questa - non c’è alcun ‘dentro’ se

non opposto a un ‘fuori’, non c’è alcun ‘io’ se non diretto a un ‘tu’20 - coinvolto,

18

J. Engler, op. cit.: 88. 19

P. Young-Eisendrath, “Il ruolo del non-sé nella creatività” in A. Molino e R. Carnevali (a cura di), Tra sogni di Budda e risvegli di Freud. Esplorazioni in psicoanalisi e buddismo, ARPANet, Milano 2010: 91. 20

Per una sintesi della formulazione più radicale di questo approccio, dovuta a Nagarjuna, si può vedere il lavoro non più recente ma ancora di grande interesse di F. J. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991, cap. V. Vedi anche G. Kopf, “Di fronte all’altro. L’intrico psichico in Dogen e Jung” in A. Molino (a cura di) (1998), Psicoanalisi e buddismo, Raffaello Cortina, Milano 2001: 190-191.

7

inevitabilmente, sempre di nuovo ricostruito e dissolto nel dinamismo di un continuo fluire.

La stessa idea di qualche genere di costanza o ‘esistenza inerente’ attribuibile al sé non è

originaria ma è già prodotto del ciclo del karma - della causazione21 - dove prevalgono i

due opposti moventi dell’attaccamento e dell’avversione; e a sua volta è causa di

sofferenza, come già detto, perché sempre smentita dall’impermanenza, non separatezza

e finitezza del tutto. Si tratta allora, mediante la pratica meditativa, di mirare al risveglio,

alla consapevolezza non solo cognitiva ma esperienzale22 di queste verità, e le

implicazioni propriamente psicologiche di tale pratica sono già rilevanti: perché

presuppongono un definitivo ridimensionamento del sé non più quale soggetto, ma come

oggetto di consapevolezza - l’opposizione, quindi, almeno potenziale, tra modi della

soggettività e funzioni dell’Io. Se quelli sono da porre in problema queste, proprio nella

pratica meditativa, sono il più possibile potenziate: primo, per decostruire i processi (più

che altro inconsci) di costituzione, autoaffermazione e difesa dell’identità di soggetti;

secondo per accertarne funzionalità o interferenze in vista del crescere della

consapevolezza.23

Su questo punto si è già fatto cenno agli automatismi che reggono, d’abitudine, il nostro

rapportarci ai dati di esperienza. La meditazione di consapevolezza24 ci rende consci del

loro carattere prevalentemente difensivo-reattivo; ossia della nostra propensione a

distanziarci dalle esperienze e ad attutirne e filtrarne l’impatto mediante un flusso

praticamente incessante di fantasie e di pensieri - la cosiddetta proliferazione mentale -

che ne rielaborano ovvero ne anticipano le implicazioni sotto il profilo dell’attaccamento o

dell’avversione (rimuginazioni intorno al passato, speranze e attese circa il futuro); e ne

riducono la novità e la ricchezza reinterpretandola secondo termini e coordinate già note.

L’intento, almeno a prima vista, è pararne il carattere sorprendente o frustrante ampliando

per quanto possibile il controllo dell’Io. Ma ciò cui spesso veramente si mira è

salvaguardare per quanto possibile la certezza e la continuità della rappresentazione del

sé; e ciò anche a spese, se necessario, di un confronto paziente e puntuale col dato

concreto e di un pieno incontro con le emozioni che davvero assicurerebbero, anche nelle

situazioni più complicate o frustranti, non una reazione semiautomatica ma una risposta

mirata, più pertinente e più efficace dell’Io. Scrive in proposito un autore buddista:

L’incessante pensare per pensare, il nostro profondo attaccamento al discorrere mentale

è, in effetto, un continuo fasciarci, coprirci, chiuderci. Infatti, così facendo, noi dipingiamo e

definiamo la realtà in termini noti e abituali, poco conta se negativamente o positivamente. 21

Un’utile sintesi ancora in F. J. Varela et al., op. cit.: 110 passim. 22

Come osserva J. Engler (op. cit.: 93) una consapevolezza solo cognitiva comporta ancora il punto di vista di un sé separato. 23

Su tutto questo M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 86 sgg. e 117. 24

Si distinguono, più precisamente, pratiche di meditazione formale (attenzione al respiro, alle sensazioni del corpo, alle percezioni, ai pensieri) da svolgersi in posizione seduta oppure sdraiata o anche camminando; e pratiche di meditazione informale consistenti ad esempio, nell’apprezzare intensamente e a lungo, in tutte le sue sfumature il sapore di un cibo, la bellezza e i colori di un giardino, i dettagli di un percorso abituale, i singoli momenti e le sensazioni di qualsiasi attività come farsi la doccia o lavare i piatti. Soprattutto le pratiche formali, come quella descritta sopra relativa al respiro, intendono non tanto far crescere direttamente l’accettazione quanto renderci attenti al nostro resistere all’accettazione, al nostro continuo ‘sganciarci’ dall’adesione al presente. Su questo vedi C. Pensa, La tranquilla passione, Ubaldini, Roma 1994 : 157-158. Vedi anche più in generale Thich Nhat Hanh (1987), Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma 1992.

8

... Invece che alimentarci dell’ascolto diretto (di cose, situazioni, persone) noi ci nutriamo

di giudizi, concetti, reazioni espresse prima e durante l’ascolto, ascolto che finisce così per

aver luogo ben di rado. ... Del nostro continuo raccontarci e giudicare la realtà senza

ascoltarla fa parte organicamente la compulsione a controllarla il più possibile di modo che

essa ci appaia così come ce la raccontiamo. E dunque l’indugiare frequentemente in

pensieri circa il futuro è spesso un tentativo di esorcizzare l’imprevisto, di cercare

‘sicurezze’ di vario genere, di disporre e ridisporre le cose per far fronte all’indistinto,

all’ignoto.. E così pure quando rimuginiamo ciò che vorremmo dire a quel tale o ciò che gli

avremmo voluto dire, di nuovo rifiutiamo l’ascolto di ciò che è: in questo caso rabbia, paura

e simili. ... Noi non vogliamo contemplare in silenzio la nostra rabbia ... noi vogliamo

parlare nella rabbia, pensare e immaginare nella rabbia anche se tutto ciò che diciamo è

prevedibile, anzi è importante proprio perché è prevedibile, noto, abituale. In questa

maniera noi non incontriamo mai davvero la rabbia ... ne rimaniamo separati da quella

barriera proliferante alla quale siamo così attaccati.25

La libertà da che viene perseguita - su un piano, peraltro, solo immaginativo-ideativo -

come difesa ad oltranza di una rappresentazione costante e rassicurante del sé, mediante

gli automatismi della proliferazione mentale, è a spese, assai spesso, della libertà di - di

un esercizio competente e efficace delle funzioni dell’Io.26 Grazie alla pratica meditativa

possiamo apprendere tuttavia ad osservare i nostri pensieri e le nostre reazioni

automatiche, ma senza agirli e identificarci con essi. Così facendo sarà possibile,

progressivamente, evitare l’irrigidirsi e il consolidarsi (sempre a livello immaginativo-

ideativo) degli aggregati percettivo-affettivi del sé e degli oggetti, mentre al contempo

accoglieremo e lasceremo operare le nostre emozioni, ci apriremo all’emergere di spunti

diversi, amplieremo lo spazio di ideazione e di azione. L’unità o continuità del sé così

realizzabile, come osserva Mark Epstein, sarà assimilabile sempre meno a un’entità fissa

e sempre più a “un flusso di consapevolezza ... sempre in evoluzione ... un processo mai

del tutto concluso di autoscoperta e autocreazione” e l’io dovrà subordinare, per quanto

possibile, a questa fluidità processuale ogni pretesa alla stabilità.

L"Io' è il veicolo individuale per attuare questi incontri, ma anch'esso non ha un'identità

intrinseca. Un lo sano inizia, si avvicina, stabilisce un contatto e si dissolve, per poi iniziare

il ciclo di nuovo. Un lo disturbato frappone ostacoli e interferisce con il contatto sano,

perpetuando la propria realtà a spese dell'interazione. (...) L'Io che è di ostacolo non

giunge mai alla trasparenza; il risultato sarà una persona contratta per la propria

sensazione di inadeguatezza. Un senso positivo del sé emerge solo quando l'Io permette

a se stesso di dissolversi.27

Di fatto facciamo già tutti quotidianamente esperienza - chi più chi meno - di questo

genere di fluidità o consapevolezza adualistica o priva di sé (più precisamente:

consapevolezza senza coscienza riflessiva del sé). Guidiamo l’automobile o qualche altro

25

C. Pensa, L’intelligenza spirituale, Ubaldini, Roma 2002: 30-32. 26

Spesso ma, ovviamente non sempre: gli automatismi della mente includono infatti primariamente, le attività di categorizzazione e astrazione che sono indispensabili all’apprendimento, alla previsione e alla sopravvivenza adattiva. 27

M. Epstein (2001), La continuità d’essere, Ubaldini, Roma 2002: 28-29.

9

veicolo adattando l’andatura alla situazione ed evitando possibili ostacoli senza necessità

di riflettere; ‘ci perdiamo’ nella contemplazione di uno spettacolo naturale, di una persona,

di un’opera d’arte o nel rapporto sessuale. Se sappiamo suonare uno strumento

muoviamo spontaneamente le mani nel modo giusto; similmente se siamo veramente

esperti in un arte marziale rispondiamo senza riflettere ma in modo del tutto adeguato alla

mossa dell’avversario.28 In tutti questi casi non siamo consci di noi stessi ma siamo

consapevoli, sintonizzati alla realtà del momento. Pensieri, sentimenti azioni avvengono

ma non sono esperiti come originantisi in o da “me”. Avvengono semplicemente in risposta

alle esigenze del momento per conto loro, senza forza o intenzione cosciente.29

Ancora Epstein insiste a lungo sull’affinità fra questo genere di disponibilità e fluidità

esperienziale - resa possibile da un alto grado di flessibilità o ‘trasparenza’ dell’Io - ed il

recupero, in età adulta, di uno stato di inintegrazione affine alla continuità d’essere

dell’infante (di cui parla Winnicottt) che può abbandonarsi all’esperienza del gioco potendo

contare sull’attendibilità della madre. Si è già detto sopra che questo stato di non-

integrazione - che riesce possibile, in età adulta, solo come resa30 o piena adesione al

presente31 - è quanto di più simile possa pensarsi, in un’ottica relazionale, a un’esperienza

del ‘vero’ sé. Anche per una psicoanalisi del non-sé ispirata al buddismo non c’è

ovviamente alcun vero sé se non nel “processo mai del tutto concluso di autoscoperta e di

autocreazione” (di cui parla Epstein) reso possibile da questa adesione. O se si vuole -

come appena visto - il ‘vero sé’ è il venir meno dell’autocoscienza messa a guardia

dell’autocentramento del sé”32; o ancora, in termini kohutiani, “per il non-sé tutte le

esperienze sono esperienze mature di oggetti-sé.33

Che dire, infine, in una prospettiva junghiana? Il netto rifiuto degli autori buddisti di

riconoscere al sé qualunque genere di consistenza ‘ontologica’34, e l’insistenza nel non

vedervi di più che una rappresentazione (per giunta, in linea di massima fuorviante e

ingannevole) suona, a ragion veduta, in aperto contrasto con la nozione junghiana del Sé

quale ‘centro’ della totalità psichica e ancor di più, in quanto meta del processo di

invididuazione, quale portatore di un senso. Ma a fronte di ciò, e anche tralasciando le

affinità, rilevate da Jung,35 tra la propria psicologia e il cammino buddista, occorrerebbe

28

G. Kopf, op. cit.: 193. 29

J. Engler, op. cit: 60.61. 30

Sul tema della resa vedi l’ottimo studio di E. Ghent, “Masochism, Submission, Surrender: Masochism as a Perversion of Surrender” in S. A. Mitchell. L. Aron (a cura di) Relational Psychoanalysis. The Emergence of a Tradition, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 211-242. 31

L’insistenza sull’attenzione esclusiva al presente, implicita in questa concezione, è ben illustrata dal famoso koan Zen: “In questo preciso momento, non pensando né al bene né al male, mostrami il tuo volto originario prima della nascita dei tuoi genitori”. “Essendo andati oltre il dualismo, oltre ‘il pensare il bene ed il male’ c’è un vero sé essenziale? Budda ha insegnato che il sé è ‘vuoto’, che non ha assolutamente natura fissa o essenziale. Tutto quello che c’è è ciò che le stesse parole di apertura del koan ci dicono: essere proprio questo momento è il nostro vero sé. Il nostro volto originario non può essere altro che il volto di questo momento”. (B. Magid, “Your Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 265-266) 32

P. A. Ringstrom, “Psychoanalysis and Buddhism: Two Extraordinary Paths to An Ordinary Mind” in D. Safran (a cura di) op. cit.: 288. Così, prendendo le distanze da Winnicott, anche M. Epstein (1995), Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996: 68-69. 33

B. Magid, op. cit.: 271. 34

Vedi in proposito di nuovo J. Engler, op. cit.: 52. 35

C.G. Jung (1939), “Prefazione a D.T. Suzuki, ‘La grande liberazione. Introduzione al buddismo zen’” in Opere, XII, Boringhieri, Torino 1979: 549-567.

10

ancora considerare tre aspetti. 1) Col segnalare la finalità difensiva (della continuità e della

sicurezza del sé) del pensare per segni - cioè del ridurre il vissuto al concetto, il nuovo, il

particolare e l’affettivamente pregnante all’astratto e al già noto) il pensiero buddista

mostra di privilegiare un’attenzione al concreto, al differente, al non riducibile che è

rispetto profondo (come ancora vedremo) di ogni alterità ma è anche del tutto affine, nel

contesto junghiano, all’esperienza simbolica - al modo proprio di manifestarsi dell’alterità

dell’inconscio. 2) L’idea di un sé solo processuale che non conosce un’identità

precostituita ma che si esplica e con ciò stesso si scopre, momento dopo momento, solo

nella pratica dell’accettazione, cioè nella piena adesione al presente, è molto simile

all’idea junghiana di individuazione come ricerca/accettazione del corpo, della propria

forma, e del proprio limite. 3) Infine Jung mette in relazione la sua nozione del sé con

l’idea buddhista di una ‘coscienza della coscienza’:

La possibilità che esistano vari stadi nello sviluppo della coscienza non ci viene nemmeno

in mente; il solo pensiero che esista una forte differenza psicologica fra la coscienza

dell’esistenza di un oggetto e la “coscienza della coscienza” di un oggetto assomiglia

molto da vicino a un cavillo che appena merita risposta. (...) Furono lo yoga in India e il

buddhismo in Cina a dare l’avvio a questi tentativi di strapparsi alla cattività di un dato

stato di coscienza, sentito come imperfetto. Per quanto riguarda la mistica occidentale i

suoi testi sono pieni di istruzioni sul modo in cui l’uomo possa e debba liberarsi dell’essere

Io della sua coscienza, onde elevarsi, per mezzo della conoscenza della sua natura, al di

sopra di questa e raggiungere l’uomo interiore (divino). (...) Questo nuovo stato di

coscienza derivato dalla pratica religiosa si distingue per il fatto che le cose esteriori non

influiscono più su una coscienza fatta di Io ... ma che una coscienza vuota è aperta a

un’influenza diversa. Questa influenza “diversa” non è più sentita come attività propria, ma

come quella di un non-Io il cui oggetto è la coscienza. E’ come se il carattere soggettivo

dell’Io fosse stato sopraffatto o assunto da un altro soggetto che si fosse messo al posto

dell’Io.36

L’obiezione buddhista a a queste note di Jung sarebbe che una ‘coscienza della

coscienza’ che la ponesse a oggetto di un altro soggetto sarebbe appunto coscienza di un

oggetto (di quella stessa coscienza oggettivata) non della coscienza colta nel suo operare

come “carattere soggettivo dell’io” o soggettività conoscente; allo stesso modo in cui

l’occhio può vedere se stesso come oggetto riflesso in uno specchio ma non nell’atto del

suo vedere. Ne segue che se si vuole pensare il Sé come ‘coscienza della coscienza’37

non si può porlo come ‘altro soggetto’ cui si oppone un oggetto. Come chiarisce assai

bene Engler

non posso osservare direttamente il mio sé osservante. Se lo faccio ... muto soltanto l’atto

della consapevolezza in un altro oggetto di consapevolezza in una regressione all’infinito.

... (...) Il sé che io rappresento, il “sé” che io posso conoscere o afferrare non è mai “me”.

L’occhio che vede, dice lo Zen, non può vedere sé stesso. E infine è chiaro: non possiamo

staccare il nostro “sé” dalla consapevolezza perché siamo quella consapevolezza.

36

Ibidem: 555-556. 37

Ibidem: 553.

11

In questo senso la consapevolezza non è semplicemente una funzione dell’Io. (...) La

consapevolezza in quanto tale non può mai essere oggettivata, colta come un oggetto,

identificata coi contenuti della coscienza, rappresentata come “questo o “quello”. E’ di

natura fondamentalmente diversa: senza qualità, senza limiti, senza confini: (...) In

essenza Io non sono nulla che possa essere nominato o pensato, rappresentato o negato,

trovato o perso. “Chi sei” dice Sri Nisargatta Maharaj, “è indefinibile e indescrivibile. La

consapevolezza soggettiva è ciò che rende possibile l’esperienza, ma non è essa stessa

esperienza. (...) la piena realizzazione di ciò è la consapevolezza non dualistica come

proprio stato naturale. L’identificazione con ogni rappresentazione o attività di un sé

separato diviene impossibile”.38

E’ però interessante che altrove lo stesso Jung si avvicini molto a questa prospettiva:

Proprio come l’Io è una certa esperienza di me stesso, così il Sé è un’esperienza del mio

Io, vissuta però non più nella forma di un Io più vasto e più alto, ma in forma di un non-

Io.39

E ancora, più diffusamente:

Poiché il numero di possibilità è limitato si raggiunge ben presto una frontiera, o piuttosto

frontiere che arretrano una dopo l’altra presumibilmente fino al momento della morte.

L’esperienza di queste frontiere conduce gradualmente alla convinzione che quanto viene

esperito è un’interminabile approssimazione. Lo scopo di questa approssimazione sembra

essere anticipato da simboli archetipici che rappresentano qualcosa come la

circumabulazione di un centro. Al crescere dell’approssimazione al centro c’è un

corrispondente depotenziamento dell’Io a favore dell’influenza del centro “vuoto” che certo

non coincide con l’archetipo ma è ciò cui l’archetipo mira. Come direbbero i Cinesi,

l’archetipo è soltanto il nome del Tao, non il Tao in sé. Così come i Gesuiti traducevano

Tao come “Dio” così noi possiamo descrivere la “vuotezza” del centro come “Dio”.

Vuotezza in questo senso non significa “assenza” o “vacanza” ma qualcosa di

inconoscibile dotato della più elevata intensità. Se io chiamo questo inconoscibile “Sé”

tutto ciò che è accaduto è che gli effetti dell’inconoscibile hanno ricevuto un nome

aggregato, ma i suoi contenuti non ne sono affetti in alcun modo. Una parte

indeterminabilmente ampia del mio stesso essere è inclusa in esso, ma poiché questa

parte è l’inconscio non posso indicare i suoi limiti e la sua estensione. Il sé è pertanto una

concetto liminare, in alcun modo riempito coi processi psichici noti.40

3. Al terzo punto di questa esposizione sono le implicazioni di un pensiero analitico

ispirato al buddhismo per l’ascolto e la pratica psicoterapeutica. Anche in quest’ambito è

indiscutibile un nesso di continuità fra autori buddhisti e psicoanalisi relazionale (a sua

38

J. Engler, op. cit.: 66. 39

C. G. Jung, op. cit.: 553. 40

C. G. Jung, Letters, Routledge, London 1975, II: 258, traduzione mia.

12

volta vicina, per una serie di aspetti, alle posizioni originali di Jung41

). Sé del paziente e sé

del terapeuta sono intesi ambedue come relazionali e molteplici e ’normalmente o

patologicamente dissociativi’42 (nel senso già visto di Mitchell e Bromberg), e come tali si

esprimono e operano anche all’interno della relazione analitica. Il terapeuta, in particolare,

non si può ergere a ‘osservatore oggettivo’ - colui che ‘sa’ i contenuti dell’inconscio - né

l’attitudine del paziente verso di lui si può spiegare, in modo esauriente, come distorsione

dovuta al transfert. L’incontro analitico vive invece del gioco sempre irripetibile

dell’interazione fra quel paziente e quell’analista e della loro influenza reciproca (deve

restare, perciò, una questione aperta in qual misura questa interazione segua modelli

caratteristici di altre relazioni della vita del paziente); e il compito del terapeuta - che può

definirsi di osservatore partecipante - è 1) monitorare al meglio i propri sentimenti, le

proprie reazioni, anche le proprie sensazioni fisiche, 2) guidare, a partire di qui

un’osservazione congiunta di quanto accade volta per volta nel qui ed ora della relazione

per trarne ipotesi sui processi psichici del paziente. Da ripensare è anche il vecchio

concetto di ‘resistenza’, che non può più soltanto indicare una generica difficoltà del

paziente a divenir consapevole di certi sentimenti o emozioni ma deve includere anche il

contributo eventuale del terapeuta: ossia “esplorare che cosa il paziente teme che accada

se tali emozioni vengono espresse nel qui ed ora della relazione terapeutica”.43

La differenza essenziale tra questo approccio e quello della psicoanalisi tradizionale suole

riassumersi nel venir meno di ogni finzione o di ogni pretesa di ‘oggettività’ per il terapeuta

“relazionale. Ma ‘oggettività’ (o meglio: assenza di oggettività) si può ancora intendere in

una doppia accezione. Come mancanza di referenti o evidenze per il lavoro analitico il cui

significato sia indiscutibile, in quanto univoco e palese per tutti: non-oggettività, allora, col

significato di relatività, o impossibilità, intesa dal vertice dell’analista, di non trasferire

nell’interpretazione il carico della sua psicologia personale. O ancora, declinata invece dal

vertice del paziente, come portato dalla natura interpersonale del lavoro analitico che

come tale vuol rivolgersi all’altro nella sua differenza e nella sua unicità; nel suo sottrarsi,

pertanto, sempre e di continuo all’oggettivazione, a qualsiasi genere di omologazione

teorica e ad ogni riduzione a categorie ed a concetti con la conseguenza di destabilizzare

lo stesso analista: frustrandone le velleità di conoscenza e controllo, anche i bisogni di

distanziamento fra sé e il paziente, ed attraendolo a sua volta a coinvolgersi nella totalità e

quindi anche nell’assoluta specificità della propria persona.44 Lewis Aron, sulla scorta di

Winnicott e Jessica Benjamin,45 descrive proprio in questi termini l’andamento alternante -

fra oggettivazione e intersoggettività - della relazione analitica:

41

Sul punto vedi, da ultimo W. Colman, “Bringing it all back home: how I became a relational analyst”, The Journal of Analytical Psychology, 58, 4, Sept. 2013: 470-49. 42

Bromberg precisa, a questo proposito che il trauma evolutivo (o trauma relazionale) come egli lo intende “fa parte del processo di modellamento dei precoci pattern di attaccamento (incluso l'’attaccamento sicuro’), che a sua volta determina quelli che Bowlby (1969,1973,1980) chiama ‘modelli operativi interni’. (...) Vale a dire che il trauma connesso all'attaccamento è parte dell'esperienza passata di tutti e un fattore centrale in ogni trattamento; per alcuni pazienti però ha portato a una struttura mentale dissociativa che si è impossessata del funzionamento della personalità e della vita mentale, imponendo quindi la "Verità" su presente e futuro.” (P. M Bromberg, L’ombra dello tsunami, cit.: 71 e 103-104. 43

J.D. Safran. J. C. Muran, op. cit. : 100. 44

I riferimenti filosofici d’obbligo sono qui M. Buber (1984), “Io e tu” in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997 e E. Lévinas (1971), Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1977. 45

Aron rimanda, in particolare, a D. W. Winnicott, “L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” in Gioco e realtà, Armando Armando, Roma 1974 e all’interpretazione di questo lavoro (come superamento dell’oggettivazione e come scoperta della soggettività della madre/altro) proposta da J.

13

Suggerisco che la relazione intersoggettiva sia continuamente interrotta tra le persone -

anche tra paziente e analista - scambiandola per una relazione soggetto-oggetto, e che

poi la relazione intersoggettiva sia ristabilita. Credo che l’intimità non coincida con

l’intersoggettività ma che, piuttosto, trascenda questa relazione dialettica. L’intimità implica

la sopravvivenza e il sostentamento di questa relazione tramite la continua creazione e

distruzione dell’intersoggettività.46

L’alternativa - o, più radicalmente, l’antidoto - al ‘pregiudizio’ dell’analista, in questa

prospettiva non è soltanto una comprensione più completa e migliore, resa possibile -

come propongono ad esempio Safran e Muran47 - in una sorta di dialogo ermeneutico; è

un coinvolgimento con la persona o l’esser soggetto dell’altro che ci mantiene in tensione

verso di lui, incessantemente in ascolto perché ci sollecita di continuo all’interpretazione

ma ci fa vivere via via come impropria e virtualmente insoddisfacente ogni comprensione o

qualsiasi giudizio. Questa visione - che riprende, incidentalmente, quasi alla lettera le

prescrizioni di Bion sulla capacità negativa e sulla necessità di astenersi (per l’analista) da

attività mentale, desiderio e memoria48 - è in sintonia con la dottrina buddhista, riferita

sopra, sui rischi della proliferazione mentale e sulle finalità difensive - per la stabilità della

rappresentazione del sé - della omologazione al già noto, a scapito delle capacità

percettive e dell’efficacia dell’Io. Qui infatti non si tratta già più - lo si è visto sopra -

soltanto di includere la soggettività conoscente (nel nostro caso quella dell’analista), come

nel primo approccio relazionale; quanto, piuttosto, di rendersene consapevoli e di

trascenderla, per quanto possibile, come momento a sua volta relativo nella dualità

continuamente ricreata di soggetto ed oggetto del processo di conoscenza, dunque da

subordinare alla qualità e all’efficacia di questo. L’esito un po’ paradossale, e

però),innegabile, come ancora vedremo è alla fine il recupero, nella prima accezione del

termine, non di una pretesa ma di una tensione all’oggettività.

Per la psicoanalisi (e la psicologia analitica) ispirate al buddhismo ciò si è tradotto, molto

concretamente, non nel semplice invito a una disciplina mentale - come già in Bion - ma

nell’acquisizione al lavoro analitico e soprattutto al training quotidiano dell’analista di

pratiche tratte dalla meditazione di consapevolezza. A tali pratiche - a questo punto anche

dissociabili e dissociate, di fatto da un credo buddhista - o, meglio ancora al tipo e alla

qualità di attenzione che con esse si mira a far crescere e sostenere va il nome generale

Benjamin, “Recognition and Destruction: An Outline of Intersubjectivity” in S. A. Mitchell, L. Aron (a cura di), Relational Psychoanalysis, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1999: 183-210, traduzione italiana parziale in J. Benjamin (1995), Soggetti d’amore, Raffaello Cortina, Milano 1996. 46

L. Aron, A meeting of minds, The Analytic Press , Hillsdale and London 1996: 152 (traduzione mia); citato da J. D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 68. 47

J. D. Safran, J. C. Muran, op. cit. : 44-45. 48

Vedi soprattutto W. R. Bion (1970), Attenzione e interpretazione, Armando Armando, Roma 1973 e W. R. Bion (1965) Trasformazioni, Armando Armando, Roma 1973. Ma sono anche da ricordare i contributi di Marion Milner e Karen Horney: M. Milner, “The concentration of the body” in The suppressed madnes of sane men, Tavistock Publications, London & New York 1987: 234-240 e K. Horney, Final Lectures, ed. by D. Ingram, Norton, New York 1987: 19.21 citato da M. E. Miller, “Zen and Psychotherapy” in P. Young Eisendrath and S. Muramoto (a cura di), Awakening and Insight. Zen Buddhism and Psychotherapy, Brunner-Routledge, New York 2002: 85.

14

di Mindfulness (variamente tradotto con ‘presenza mentale’, ‘consapevolezza’ o anche

‘pienezza della consapevolezza mentale’). Tale attenzione è stata definita:

Focalizzata, cioè orientata in modo esclusivo verso un determinato oggetto ... (il proprio

respiro, un’amica con la quale stiamo parlando ... una sensazione corporea). E’ importante

che, quando ci si rende conto che l’oggetto stabilito non è più al centro del focus attentivo,

si compia ... una intenzionale rifocalizzazione dell’attenzione verso quell’oggetto dal quale

ci si è allontanati.

Rivolta al momento presente, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto ci si riesce)

verso l’esperienza che si sta vivendo qui ed ora: ogni volta che si diviene consapevoli che

la mente ci ha trasportato ... nel passato o nel futuro ... è importante che si attivi ... un

riposizionamento dell’attenzione sul momento presente.

Non categorizzante, cioè orientata in modo esclusivo (per quanto si riesce, all’esperienza

in cui ci si trova, senza usare le categorie, le classificazioni, e i giudizi abituali per

comprenderla: ogni volta che si diventa consapevoli che la mente sta operando una

sistematizzazione di quello che sta accadendo in base a schemi pregressi, e importante

che si metta in atto ... un riorientamento dell’attenzione sulla qualità di novità

dell’esperienza, che di fatto possiede.49

Trasferita nel contesto analitico (sempre gli autori di ispirazione buddhista50 insistono

molto sulla sua affinità con la attenzione ugualmente sospesa prescritta da Freud51)

l’attenzione mindful ha di mira anzitutto le autodifese dell’analista - messe in atto,

comunemente, col ritirarsi dalla relazione, con l’assimilarla a situazioni trascorse o

proiettandola nel futuro, col neutralizzarne l’impatto emotivo mediante astrazioni - ogni

qualvolta la relazione stessa sia troppo frustrante, dolorosa o allarmante o comunque

coinvolga aree di forte vulnerabilità, facendo prevalere su un’attitudine recettiva una

risposta reattiva. Può però trasmettersi - per ragioni del tutto analoghe - dall’analista al

paziente (Wallin definisce la psicoterapia, sotto questo profilo, come una specie di

meditazione a due52) in modo tacito o per inviti espliciti: ad esempio col chiedere

ripetutamente al paziente di soffermarsi su ciò che sente in un determinato momento, di

provarsi a descriverlo nei dettagli e anche indicare dove lo sente (in quale area del corpo).

Lo sfondo che potremmo chiamare ‘umanistico’ (in effetti ancora vicino al buddhismo) di

questa pratica dell’attenzione è l‘accettazione non giudicante (la meditazione di

consapevolezza ha qui la funzione di renderci consci, momento dopo momento, dei giudizi

e delle risposte di rifiuto che rivolgiamo innanzitutto a noi stessi); e la compassione per

noi medesimi “che emerge quando diventiamo capaci di aprirci [anche] alle esperienze

dolorose”.53 In particolare: col trattare noi stessi gentilmente e senza giudicarci con

severità; riconoscendo che errori, fallimenti e avversità fanno parte della comune

49

G. Amadei, Mindfulness. Essere consapevoli, Il Mulino, Bologna 2013. 50

In particolare M. D. Epstein, “Sulla negazione dell’attenzione ugualmente sospesa”, in A. Molino, R. Carnevali (a cura di), op. cit.: 160-175) e M. Epstein (2007), Psicoterapia senza l’Io, Astrolabio, Roma 2008: 95. 51

S. Freud (1912) “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, Opere, VI, Bollati Boringhieri, Torino1989,: 532-533. 52

D. J Wallin (2007) Psicoterapia e teoria dell’attaccamento, Il Mulino, Bologna 2009: 264. Questo testo, ai capitoli IX e XVII contiene una sintesi eccellente dell’approccio mindfulness in psicoterapia. 53

Ibidem: 283.

15

esperienza umana; mantenendo un’equilibrata consapevolezza di pensieri e sentimenti

spiacevoli, invece di evitarli, cancellarli o identificarsi eccessivamente con essi.54 Sempre

per Wallin una tale apertura tenderà ad autoconsolidarsi in quanto la consapevolezza

anche dei sentimenti dolorosi ne farà comprendere sempre di più la qualità transitoria

rendendoli, con ciò stesso, assai meno temibili; legando, di conseguenza, sempre di più

alla consapevolezza, più che a figure protettive interiorizzate o a determinati stati mentali il

nostro senso di sicurezza; ed evitando il sovrappiù di sofferenza sempre legato allo sforzo

di evitare il dolore.55

In termini più formali l’attenzione mindful mirerà a sospendere per quanto possibile gli

automatismi categorizzanti o ‘dall’alto in basso’ (dei quali a lungo si è detto sopra)

finalizzati alla previsione e alla sopravvivenza adattiva per dare spazio alla modalità

senso-percettiva (‘dal basso verso l’alto’) vuoi verso l’esterno (nel setting analitico:

l’espressione facciale, il tono di voce, le sfumature emotive, la postura corporea del

paziente) vuoi verso l’interno (pensieri, sentimenti, emozioni, anche stati fisici dell’analista

- osservati, però, e anche utilizzati, ma in modo equanime e ad una certa distanza, alla

stregua di eventi o stati transitori e dunque senza identificarsi con essi56). Questa

attenzione accrescerà l’efficacia (ai fini del cambiamento) del dialogo terapeutico con

l’ancorarlo più saldamente all’esperienza vissuta, ossia al qui ed ora più che alla semplice

riflessione o ricostruzione retrospettiva e al vissuto emozionale-corporeo oltre che alla

comprensione concettuale. Notano in proposito Safran e Muran:

Diversamente da quanto accade per un pensiero più concettuale, che può essere staccato

dall'azione, la conoscenza a livello corporeo ha sempre implicazioni per il passo

successivo all'attuale. Quando un individuo ha una nuova sensazione, dà a se stesso

un'irrefutabile informazione su quanto l'intera configurazione relazionale significhi

realmente per lui come organismo intero, e tale significato ha risvolti impliciti per l'azione.

(...) L'insight emozionale, o consapevolezza, comporta così la rivalutazione di un evento o

di un'esperienza in un modo che conduce al «che cosa vuoi dire per me ora». (...) Ciò

riflette il fatto che l'individuo conosce qualcosa in maniera differente, come un organismo

concreto, in interazione con l'ambiente circostante.57

54

K. D. Neff, “Self-compassion: An alternative conceptualization of a healthy attitude toward oneself” in Self and Identity, 2: 85-101, 2003 citato da R. a. Baer, “la compassione di sé” in R. A. Baer (2010) a cura di, Come funziona la mindfulness, Raffaello Cortina, Milano 2012: 130. 55

D. J. Wallin, op. cit.: 263. 56

Su questo punto, veramente essenziale, vedi quanto scrive D.J. Siegel (2007), Mindfulness e cervello, Raffaello Cortina, Milano 2009: 25-26: “Da questo modo di essere riflessivo, mindful, emerge un processo fondamentale chiamato ‘discernimento’, in cui diventa possibile essere consapevoli del fatto che le attività della propria mente non sono la totalità di ciò che si è. Il discernimento è una forma di disidentificazione dall’attività della propria mente: quando diventi consapevole delle sensazioni, dei sentimenti e dei pensieri ... arrivi a vedere queste attività come delle onde che si muovono sulla superficie del mare della mente. Da questo luogo più profondo della mente, da questo spazio interno della consapevolezza mindful, è possibile notare come le onde superficiali del cervello vadano e vengano. Questa capacità di liberarsi dal chiacchiericcio della mente, di capire che queste sono “solo attività della mente”, è un’esperienza liberatoria e per molti perfino rivoluzionaria”. Vedi anche, dello stesso autore, The Mindful Therapist, Norton, New York & London 2010. 57

J.D. Safran e J. C. Muran, op. cit.: 63.

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In questa linea, per richiamare un esempio recente, può rilevarsi un alto grado di

congruenza fra attitudine mindful e i contributi di Daniel Stern e del Boston Change

Process Study Group sul cambiamento in psicoterapia e la conoscenza relazionale

implicita. Si tratta di cogliere e valorizzare anche in questo caso il momento presente - i

cosiddetti now moments - con la totale disponibilità da parte dell’analista a mettersi in

gioco personalmente nella situazione, esponendosi senza difese ai suoi elementi di novità

e al suo impatto emotivo e offrendo così una risposta che attesti, per ambe le parti, la

saldatura di di un nuovo piano di sintonizzazione emotiva.

I momenti più interessanti sorgono quando il paziente fa qualcosa che è difficile

catalogare, qualche cosa che richiede una reazione nuova e diversa, contraddistinta da

una firma personale che fa condividere al paziente lo stato soggettivo dell’analista (affetti,

fantasie, esperienze reali ecc.). (...) Il terapeuta deve usare un aspetto specifico della

propria individualità, un aspetto che porta una connotazione personale. I due soggetti si

incontrano in quel momento come persone relativamente svelate, non nascoste dietro ai

loro rispettivi e ordinari ruoli in terapia. Inoltre le azioni che costituiscono il “momento di

incontro” non possono essere consuete, abituali o tecniche; devono essere nuove e

forgiate per soddisfare le particolarità del momento.58

Vi sono da ultimo, per concludere, linee assai rilevanti di convergenza del pensiero

mindful con l’impostazione junghiana. Già l’insistenza sul non sottrarsi al confronto con

temi dolorosi o allarmanti e soffermarsi, al contrario, in un contatto approfondito con essi

risuona affine alla basilare prescrizione di Jung sull’importanza di ‘stare nel conflitto’

perché si produca un cambiamento spontaneo e più autentico - la cosiddetta funzione

trascendente (ciò sia nel conflitto esclusivamente interiore, sia nel confronto

intersoggettivo). In aggiunta a questo ritengo assai significative alcune considerazioni

recenti (penso, in particolare, all’ultimo libro di Maria Ilena Marozza59) sulla questione - a

cui si è qui solamente accennato - della tensione all’oggettività nell’ascolto analitico. In

sintesi, ritiene Marozza, si può pensare ad una base di oggettività in psicoanalisi a

condizione di fare spazio (esattamente come propone l’approccio mindful) alla dimensione

sensoriale-affettiva, che in ogni caso accompagna sempre la comunicazione verbale, la

completa, la qualifica e la precisa radicandola nello spessore psico-corporeo; ma si

differenzia, contestualmente, da essa perché non confluisce nell’astrattezza dei segni e

quindi non si offre, al pari di questi, all’immediatezza della comprensione linguistica. Essa

piuttosto trattiene nel concreto, contagia e provoca alla ricerca di una comprensione che

non può contare su di un sapere generalizzabile (ma quindi non può nemmeno venir

tradita o fraintesa in forza di preferenze teoriche o categoriali) ma obbliga - proprio come il

simbolo60 - a soffermarsi nell’esperienza e a esporsi a lungo al coinvolgimento e alla

58

Cfr. The Boston Change Study Group (2010), Il cambiamento in psicoterapia, Raffaello Cortina, Milano 2012: 15-16. 59

M.I. Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo 2012. Ma vedi anche M.La Forgia e M. I. Marozza, Le radici del comprendere, Fioriti, Roma 2005 e M. La Forgia e M. I. Marozza (a cura di), La conoscenza sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo 2008. 60

Sull’affinità fra impegno in chiave di ‘capacità negativa’ e esperienza simbolica ho scritto in G. Kaufman, “Il silenzio del padre nella relazione analitica. Bion, Jung e una rilettura del simbolico” in Il Padre. Parola Silenzio Trasformazione”, Atti dell’XI Convegno Nazionale del Centro Italiano di Psicologia analitica,

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condivisione: e appunto qui, in questo tratto non riducibile di autoreferenzialità o

intransitività è quanto rende “la realtà dell’affetto ... la manifestazione fenomenica e del

tutto oggettiva, di una supponibile realtà dell’inconscio: poiché, come scrive Matte Blanco,

nulla ci conduce ad una chiara distinzione psicologica fra l’emozione e l’inconscio”.61 In

particolare, nello specifico della costruzione junghiana il nesso mai del tutto scindibile fra

strato sensoriale-affettivo e dimensione rappresentativa-ideativa, su fino al piano verbale-

razionale si salda nell’unità dei complessi e nel loro operare a differenti livelli di coscienza

cui corrispondono modalità qualitativamente diverse (ma tali da confrontarsi e completarsi

l’una con l’altra) di registrazione delle esperienze. Ne segue “la possibilità ... di insediare

l’ordine linguistico e la capacità di significare nell’ordine dell’esperienza soggettiva vitale e

diretta”.62 E in primo luogo di riscontrare le rappresentazioni logico-razionali ma in potenza

del tutto astratte del complesso dell’io (inclusa la distinzione che solo qui si rappresenta

compiutamente fra il sé ed il mondo) con quanto si esprime dai complessi secondari in

modo più indistinto ma impegnativo e pregnante dell’esistenza emozionale e sensoriale di

base.

Vivarium 2002. Sul coincidere fra esperienza simbolica e incontro con la “cosa in sé” vedi M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986: 80-83. 61

Scrive ancora Marozza: “Solo in questo senso possiamo tenere insieme il significato più profondo del termine inconscio, come ciò che non è conosciuto, ritenerlo eternamente tale e connaturato all'esperienza umana e nello stesso tempo considerarlo assolutamente influente e talmente oggettivo da poter essere la vera fonte dell'attività psichica, manipolabile dalla soggettività cosciente solo nella direzione da esso stesso consentita.” (M.I. Marozza, op. cit.: 210-211). 62

Ibidem: 207.