giacomo leopardi e la poesia cosmica

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     L’ultimo orizzonte... 

    Giacomo Leopardi: A Cosmic Poet and H is Testament

    edited by Roberto Bertoni

    Trauben (Turin) in association with the Department of Italian, Trinity College (Dublin), 1999

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    CONTENTS

    PREFACE   p. 4

     Niva LorenziniLEOPARDI E LA POESIA COSMICA   p. 5

    Pamela Williams

     LA GINESTRA: THE LAST WILL AND TESTAMENT OF A POET AND PHILOSOPHER    p. 25

    Roberto Bertoni

     NOTE SUL DIALOGO DI CALVINO CON LEOPARDI   p. 52

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    PREFACE

    This publication originates from a study day on Leopardi, organised at Trinity College

    (Dublin) by the Italian Department with the generous assistance of the Italian Cultural

    Institute and its Director, Laura Oliveti. The study day was held on October 23rd, 1998,

    to celebr ate the bicentenary of Leopardi’s death.

    This volume has been made possible by a grant provided by the Italian Department,

    headed by Corinna Salvadori Lonergan.

    Contributors: Roberto Bertoni (Trinity College Dublin); Niva Lorenzini (University ofBologna); Pamela Williams (University of Hull).

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    Niva Lorenzini

    LEOPARDI E LA POESIA COSMICA 

    Ogni volta che ci si richiama a Leopardi per analizzarne il sistema di pensiero

    inseparabile dalla scrittura poetica, è bene ricordare, prima di ogni altra considerazione,

    che il poeta del ‘pensiero poetante’, come spesso viene definito, si considera

    essenzialmente un lirico, e considera la lirica il più alto, se non l’unico genere di poesia.  

    Gli appunti dello  Zibaldone  sono al riguardo espliciti: se ne ricorderanno alcuni,

    differenziati cronologicamente.1  Il primo è del 18 settembre 1820 [245], e suona

     perentorio: ‘La lirica si può chiamare la cima il colmo la sommità della poesia, la quale è

    la sommità del discorso umano’. 

    Più dettagliato si dimostra un secondo del 26 agosto 1823 [3269], importante perché vi

    si definiscono le caratteristiche del poeta lirico: ‘Il poeta lirico nell’ispirazione, il filosofo

    nella sublimità della speculazione, l’uomo d’immaginativa e di sentimento nel tempo d el

    suo entusiasmo, l’uomo qualunque nel punto di una forte passione [...] vede e guarda le

    cose come da un luogo alto e superiore a quello in cui la mente degli uomini suole

    ordinariamente consistere’. Non a Petrarca, lo si avverte subito, né alla linea di   una

     poesia stilizzata, attenta soprattutto ai valori formali, come capita spesso nella tradizione

    italiana, sta mirando Leopardi. E’ piuttosto al rapporto poesia-pensiero che si rivolge, con

     parole non lontane da quell’idea di poesia che il movimento romantico, in particolare

    quello tedesco che pure Leopardi non amava, stava imponendo in Europa.

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    Leopardi è consapevole del distacco incolmabile della poesia moderna dai valori,

    irrimediabilmente perduti, dell’immaginazione. Già il Discorso di un italiano intorno alla

     poesia romantica (1818) era al riguardo esplicito: la poesia degli antichi poteva cantare la

    natura e imitarla, quella dei moderni non può essere che poesia sentimentale, e cioè,

    nell’accezione di quello scritto, riflessiva, filosofica (‘Gli antichi erano natura -

    commenta in proposito il Rigoni analizzando, nel suo volume  Il pensiero di Leopardi, la

    riflessione di Schiller al riguardo -, i moderni cercano la natura e non la possono cercare e

    trovare se non nell’ideale perché essa, dileguata dall’orizzonte sensibile, sopravvive

    soltanto nella rappresentazione del concetto’).

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     Derivano da qui tutte le aporie e le contraddizioni del poeta lirico nell’epoca della

    modernità, già evidenziate, prima che da Leopardi, appunto da Schiller, tra gli altri, nel

    saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795-1796): il poeta moderno non sente con

    immediatezza, ma riflette. E dunque il poeta lirico, di fronte alla condizione storica del

     proprio tempo, staccatosi dalla mimesi della natura, è richiamato a un’idea di poesia

    come espressione e creazione della soggettività, che mette in campo tutte le risorse della

    sensibilità e della passione per approdare a una modalità di conoscenza superiore allo

    stesso pensiero filosofico.

    L’accento è posto sulla facoltà di percepire simultaneamente (‘in un sol tratto’ - ‘d’un

    sol colpo d’occhio’)3  stimoli diversi, cogliendone le corrispondenze. Da sensista,

    Leopardi considera fondamentale la partecipazione del corpo, degli organi sensoriali, al

     processo di conoscenza: il poeta lirico giunge in tal modo alla scoperta dei ‘rapporti più

    lontani e segreti’,4 proiettando tutto se stesso verso ciò che eccede e travolge i limiti della

    ragione, verso una sorta di ‘dérèglement’ che sarà più tardi Rimbaud, in un contesto

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    diverso e non assimilabile, quello del simbolismo, a richiamare e portare a conseguenze

    estreme, nelle sue Illuminations. ‘Chi non sa - si legge nello Zibaldone in una nota del 5-

    6 ottobre 1821 [1855-56] - quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il

    vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima

    è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato febbrile e straordinario (principalmente,

    anzi quasi indispensabilmente corporale), e quasi di ubbriachezza?’.  

    La scoperta dei rapporti lontani e segreti si compie così non solo attraverso

    l’immaginazione, ma anche attraverso le facoltà di un pensiero analogico che si fonda su

    associazioni libere, e che sarà determinante per lo sviluppo della poesia tra Otto e Novecento. Quella scoperta è così trascinante da influire, come accade sempre nello

     Zibaldone nei momenti di maggiore tensione intellettuale, sulla stessa sintassi e sui modi

    di resa espressiva: da qui le frasi ininterrotte, l’uso dei gerundi e delle relative che

    dilatano il periodo, le iterazioni di verbi e avverbi.

    Per Leopardi, dunque, il poeta lirico avverte in sé la capacità di collegare tra loro

    immagini e sensazioni molteplici. Ce lo racconta attraverso il libero procedere di un

     pensiero che si affida a un ritmo quasi frenetico, di associazione in associazione: 

    ‘Ond’è ch’egli ed abbia in quel momento una straordinaria facoltà di generalizzare [...] ech’egli l’adoperi; e adoperandola scuopra di quelle verità generali e perciò veramente grandi eimportanti, che indarno fuor di quel punto e di quella ispirazione e quasi manìa e furore ofilosofico o passionato o poetico o altro, indarno, dico, con lunghissime e pazientissime edesattissime ricerche, esperienze, confronti, studi, ragionamenti, meditazioni, esercizi dellamente, dell’ingegno, della facoltà di pensare di riflettere di osservare di ragionare, indarno,

    ripeto, non solo quel tal uomo o poeta o filosofo, ma qualunqu’altro [...], anzi pur moltifilosofi [...] e i secoli stessi [...] cercherebbero di scoprire, o d’intendere, o di spiegare [...]’[ Zibaldone, 3270, 26 agosto 1823].5 

    Procedendo lungo le fasi di un pensiero che si va facendo, negli anni, sempre più

    complesso e non privo di contraddizioni (ma sono le contraddizioni di chi non vuole

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    escludere nessuna alternativa, di chi accetta il rischio, interrogandosi senza fine, lontano

    in ogni caso da posizioni dogmatiche), si giunge a una pagina del 15 dicembre 1826

    [4234] in cui il genere lirico viene riconosciuto ‘primogenito di tutti; [...] v era e pura

     poesia in tutta la sua estensione, proprio d’ogni uomo anche incolto’; e ancora

    ‘espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dall’uomo’. Ed è

    un’affermazione, questa dello spontaneismo e della possibilità, per tutti, di  essere poeti,

    che suona in stridente contrasto con quanto veniva affermato tre anni prima, l’8 settembre

    1823 [3384-85], circa la pretesa insensata di credersi filosofi o poeti senza possedere

    specifiche competenze tecniche (‘La ragione si è - scriveva - che tutti si credono esserfilosofi, ed aver quanto si richiede ad esser poeti’: mentre se non posseggono la tecnica

    unita a un impegno rigoroso non sono, chiarirà con disprezzo in più occasioni, che

    semplici ‘versificatori’).

    Il fatto è che Leopardi sta da una parte aderendo a un’idea di lirica moderna secondo

    cui la poesia è contenuta in alcune esperienze decisive proprie di ogni uomo: le grandi

     passioni, riflesso delle forze cosmiche che condizionano la vita, o la contemplazione della

    natura, considerata l’aspetto sensibile della totalità. Ma sta anche difendendo a oltranza,

    dall’altra parte, un’idea di lirica messa in crisi dalla modernità, e con essa appunto lo

    spazio dell’immaginazione, dei ‘cari inganni’. La difende con tanto più accanimento,

    come genere ‘eterno ed universale’ (29 marzo 1829) - proprio lui che odia gli innatismi e

    le generalizzazioni astratte - quanto più la crisi di quel lirismo si sta facendo ineluttabile.

    Soffermiamoci ancora un attimo, prima di verificare le possibilità di incontro tra

    questa concezione assoluta di poesia lirica e il tema della poesia cosmica, che concerne il

    nuovo, impegnativo confronto scienza-poesia così decisivo per Leopardi. Ascoltiamone

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    l’estrema perorazione: l’essenza della poesia, scrive il 29 marzo ‘sta sempre

     principalmente in esso genere [lirico], che quasi si confonde con lei ed è il più veramente

     poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son liriche’ [4476].  

     Non passeranno due mesi e Leopardi si troverà a contestare l’idea di un’armonia

    eterna ed universale, o di ciò che si applichi indistintamente, come fenomeno di natura,

    all’uomo ‘in ogni tempo ed in ogni luogo’: lo farà, lo vedremo, pensando a Rousseau, al

    suo ingiustificato ottimismo.

    Ma intanto, prima di concludere questa introduzione, va chiarito quale idea di lirica

    Leopardi stia davvero difendendo, nel momento in cui il genere sta trionfando anche presso i romantici. Sta difendendo, di fronte all’impossibilità di una ‘imitazione’ della

    natura che solo agli antichi era consentita, il bisogno di sentire accanto a quello di

    conoscere, rivalutando, di fronte alla ragione che spiritualizza e indebolisce la corporeità,

    la forza della natura come materia, sostanza fisica: la difende tentando di ricostruire un

    colloquio tra l’io e il paesaggio, o meglio tra l’io e se stesso, che venga sollecitato proprio

    da uno stimolo, da una percezione fisica concreta (la siepe dell’ermo colle, il canto di un

     passero, le voci notturne, la luce lunare).

     Non è più il rapporto io-paesaggio, convenzionale e stilizzato, come era nel codice

     premoderno (petrarchesco). Qui è presente l’esperienza dell’io, che può anche rinunciare

    a un linguaggio aulico e convenzionale, appunto, per rendere quotidiana e circostanziata

    l’occasione lirica, e insieme attribuire al proprio vissuto di uomo privato un valore

    collettivo (l’uomo in sé). Elementi descrittivi ed elementi meditativi si congiungono,

    dando origine a una poesia, quella degli Idilli in particolare, in cui le collocazioni spaziali

    e temporali delimitano un preciso qui, un preciso ora, un presente cui può ancorarsi la

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    memoria, il ricordo, la narrazione dell’anima, o da cui si può muovere verso la vertigine

    cosmica, seguendo una percezione visiva, acustica.

    E tuttavia mentre difende il ‘canto’, ricostruendo la struttura formale dell’idillio, il

     poeta fa definitivamente vacillare quell’idillio. Vediamo  Alla luna, dove il tono

    confidenziale, colloquiale, ispirato a una tradizione che da Omero e Saffo giunge a

    Virgilio, Petrarca, Tasso, si frange ancorandosi ai dimostrativi insistenti (questo colle,

    quella selva) che segnalano una distanza irreparabile, una perdita:

    ‘O graziosa luna, io mi rammento che, or volge l’anno, sovra questo colle io venia pien d’angoscia a rimirarti; e tu pendevi allor su quella selvasiccome or fai, che tutta la rischiari [...]’[vv. 1-5].

    Ora, allora; questo, quella: gli indicatori temporali, spaziali, si sciolgono nel ricordo,

     perché la realtà è inarrivabile. Dall’esterno si è respinti all’interno, nella tragica

    consapevolezza della perdita irrimediabile della natura: una vertigine si spalanca nel

     paesaggio dell’anima, come nell’ Infinito (‘Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là

    da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo [...]’, vv.

    4-7). Lo sguardo non inquadra un oggetto, resta intransitivo: la privazione del mondo,

    della possibilità di percepirlo, mentre sembra rafforzare il protagonismo di un io ormai

    incapace di armonizzarsi con le cose al punto da doverle reinventare nella vista interiore,

    in realtà ne distrugge la centralità, ne mette a rischio la consistenza.

    Il poeta lirico, si diceva, vuole sentire, non solo conoscere. E sentire significa per

    Leopardi seguire l’impulso del desiderio, di un piacere che, sorretto dall’amor proprio,

     punta all’assoluta felicità (intesa come infinità materiale) senza poterla raggiungere.

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    Deriva di qui lo stretto rapporto tra concetto di infinito e teoria del piacere: 6  perché

    l’infinito si concepisce a partire da una mancanza, da un desiderio di pienezza,

    un’aspirazione e inclinazione connaturali non solo all’uomo, ma agli animali stessi, e

    impossibile da soddisfare se non nell’immaginazione, che resta pur sempre finita di

    fronte a un sentire infinito.

     Non c’è più ar monia (quella tradizionale, del pensiero platonico e neoplatonico) tra la

    catena ascendente degli esseri, ma perdita di centro, sproporzione. La metafisica

    materialistica del Settecento, unita al pensiero scientifico, non consente nessun

    abbandono liberatorio, confidente: ‘Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosaluna?’ [vv. 1-2], con quel che segue nel Canto notturno, testimoniano ben altro che il

    tramonto dell’idillio petrarchesco. L’io e il mondo si contrappongono, in un contrasto

    dialettico, e nel conflitto tra sentimento e immaginazione la natura si rivela luogo della

    vertigine, dell’orrore, della indifferenza (ben altro dal ‘patetico’ romantico).  

    Proviamo a inquadrare questa perdita di centro in base a considerazioni scientifiche

    che la frequentazione assidua, da parte del poeta, di testi di astronomia, fisica, filosofia

    materialistica consente di illustrare lungo l’intero evolversi del suo pensiero e della sua

     produzione letteraria. Il ‘lirico’ Leopardi, il poeta dei grandi interrogativi senza risposta,

    del colloquio negato (‘Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai [...]’), ha già ispezionato da

    adolescente il cielo degli astronomi, scrivendo nel 1813 (a quindici anni, dunque) una

    Storia dell’astronomia che rivelava non solo una precoce curiosità intellettuale, ma anche

    una precisa conoscenza dei problemi posti dalla rivoluzione copernicana e dalle scoperte

    galileiane. E in quella Storia, corredata da un importante elenco di letture,7 si apprende

    anche il ruolo decisivo, per la formazione leopardiana, dei newtoniani  Philosophiae

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    naturalis principia mathematica: ‘Keplero fu il precursore di Newton. La natura, che

    tanto aveva operato per lui, riposò per elevare il filosofo Inglese. Ma se questi non fosse

    stato preceduto da Galilei e da Keplero [...] le sue cognizioni non sarebbon giunte a quel

    grado sublime a cui giunsero in effetto’.8 

    Subito dopo vengono elencate le ‘meravigliose scoperte’ di Newton, dalla fondazione

    di un’‘astronomia nuova, l’astronomia fisica, la scienza delle cause, dalle quali risultan

    quegli effetti, che per tanti secoli sono stati l’oggetto delle umane ricerche’, alle leggi

    sulla gravitazione, alla forza dell’attrazione ‘regolatrice dell’Universo’, ai problemi

    dell’ottica, della rifrazione della luce. Newton ‘separò la  luce dal caos e dissipò le tenebreche offuscavano la filosofia di quei tempi’: eccolo dunque già consacrato, quel Newton

    destinato a entrare nell’immaginario poetico dell’autore dei Canti  ma soprattutto delle

    Operette morali. Quel Newton che, attraverso la fondamentale mediazione del Fontenelle

    continuamente ricordato da Leopardi, coi suoi - riporto il titolo dagli elenchi di letture

    leopardiani - Trattenimenti sulla pluralità dei mondi  (gli  Entretiens sur la pluralité des

    mondes), nonché dell’Algarotti del divulgatissimo  Newtonianesimo per le dame, ma

    anche dei Dialoghi sopra l’ottica Neutoniana ricordati negli stessi elenchi, gli suggerirà,

    nello Zibaldone, le riflessioni più intense sulla vastità del cosmo e sulla ‘vertigine’ che ne

    consegue. Al punto che quel Newton gli apparirà ricco di potenzialità poetiche, e tramite

    lui la scienza, l’intelletto, gli sembrerà competere, a pari grado, con l’immaginazione: 

    ‘La facoltà inventiva è una delle ordinarie, e principali, caratteristiche qualità e partidell’immaginazione. Or questa facoltà appunto è quella che fa i grandi filosofi, e i grandiscopritori delle grandi verità. E si può dire che da una stessa sorgente, da una stessa qualitàdell’animo, diversamente applicata [...] vennero i poemi di Omero e di Dante, e i  Principimatematici della filosofia naturale  di Newton [...] L’immaginazione pertanto è la sorgentedella ragione, come del sentimento, delle passioni, della poesia [...] Immaginazione e intellettoè tutt’uno’ [ Zibaldone, 2133-34, 20 novembre 1821].

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    Di questo parleremo tra poco, analizzando alcuni versi di  Alla sua donna, del Canto

    notturno, della Ginestra. Per ora prendiamo atto che la perdita di centro non riguarda a

    questo punto l’individuo soltanto, ma con lui il pianeta terra, null’altro che un granello di

     pulviscolo cosmico: viene a cadere definitivamente ogni pretesa di antropocentrismo.

    L’uomo leopardiano, che non è più al centro di nulla, può solo guardare, osservare,

    ‘mirare’: ma venendo meno ogni punto di riferimento, il suo sguardo, lo  si è già visto, è

    costretto a ripiegare sull’io singolo. 

    Per restare alla poesia cosmica, occorrerà introdurre qualche altra informazione utile a

    illustrare i modi in cui prende forma il fascino che lo spazio celeste, i globi che lo popolano, esercitano su Leopardi, ‘gran poeta lunare’, secondo Calvino:9  già, perché è

    soprattutto la luna a coinvolgerlo, la sfera per eccellenza delle grandi interrogazioni

    destinate a marcare la distanza tra l’uomo e le conoscenze arcane.  

    Se non è la terminologia scientifica a imporsi nei Canti  (sono piuttosto alcune

    Operette, come il  Dialogo d’Ercole e di Atlante, il  Dialogo della Terra e della Luna, il

     Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco  e  Il Copernico, Dialogo, a trattare di

    ‘globi’ e ‘sfere celesti’, di ‘mondo solare’ e moti, comete, costellazioni, pianeti, mettendo

    in scena, ogni volta, una derisione dell’antropocentrismo in nome del copernicanesimo),

    spetta alla terminologia scientifica costituire, tuttavia, una precisa costellazione semantica

    del cielo e del paesaggio notturno che la luna illumina (gli orti, le case, le piagge, i campi,

    i deserti...).

    A volte i notturni rientrano nell’alveo della tradizione classica, sostenuti da un lessico

    aulico intriso di citazioni letterarie. Basterà ricordare l’avvio dell’Ultimo canto di Saffo 

    (1822), con gli echi virgiliani che lo percorrono:10 

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    ‘Placida notte, e verecondo raggio della cadente luna; e tu che spuntifra la tacita selva in su la rupe,nunzio del giorno [...]’ [vv. 1-4].

    O quello, notissimo, de La sera del dì di festa (1820 - 21), che rinvia al Monti, al Foscolo

    dell’Ortis, ma soprattutto all’Omero dell’ Iliade  [VIII, 555-59], tradotto da Leopardi nel

     Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (‘Sì come quando graziosi in cielo /

    rifulgon gli astri intorno della luna, / e l’aere è senza vento, e si discopre / ogni cima de’

    monti ed ogni selva ed ogni torre [...]’):11 

    ‘Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivelaserena ogni montagna [...]’ [vv. 1-4].

    O anche il notturno di Bruto minore, rischiarato dal sorgere improvviso della luna:

    ‘E tu dal mar cui nostro sangue irriga, candida luna, sorgi,e l’inquieta notte e la funesta all’ausonio valor campagna esplori’ [vv. 76-79].

     Non è questa, dell’idillio intimamente rielaborato o della imitazione classica così

    influente sulle Canzoni, la poesia cosmica che ora ci interessa considerare. Tanto meno ci

    interessa il cosmo definito ‘etra infesto’ nell’ Inno ai Patriarchi [v. 57], e dominato da un

    Dio ‘eterno / degli astri agitator’ [vv. 3-4]. Anche se il senso di vertigine comunicato

    dall’altissimo silenzio della notte sovente si impone qua e là, con suggestioni foniche e

    rimiche degne di attenzione anche nella prospettiva che qui stiamo seguendo: così è ne  La

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    vita solitaria del ’21 (‘Tien quelle rive altissima quiete’, v. 33; e vi si parla di luna

    ‘serena / dominatrice dell’etereo campo’, vv. 101-02).

     Newton è lontano. Ma la sua ricomparsa è prossima, come quella di un motivo

    inseparabile dall’immaginario poetico di Leopardi, anche se restato a lungo sotterraneo

    nella poesia. È il 1823 l’anno fatidico, quando Leopardi accompagna l’elaborazione di

     Alla sua donna con appunti di straordinaria importanza per il nostro discorso.

    Scrive dunque nello Zibaldone, in data 12 agosto 1823 [3171]:

    ‘Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto [...] che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza.Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si sente essere infinitesima parte di un globoch’è minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questaconsiderazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intimamenteriguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensitàdelle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora conquesto atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà’. 

    Il Pascal delle  Pensées, che riflette sulla fragilità e insieme sulla grandezza di un

    individuo parte di una infinità cosmica (l’uomo non è che una fibra dell’universo...) si

    coniuga con Fontenelle e Algarotti, da cui vengono attinti i tecnicismi (‘globo’,

    innanzitutto). Con quella scorta Leopardi sta ideando alcuni versi dell’ultima tra le sue

    Canzoni, quell’enigmatica  Alla sua donna, che l’autografo data settembre 1823 (di un

    solo mese successiva alla nostra nota, dunque):

    ‘O s’altra terra ne’ superni giri fra’ mondi innumerabili t’accoglie e più vaga del Sol prossima stellat’irraggia, e più benigno etere spiri’ [vv. 50-53].

    Il neoplatonismo delle armoniche sfere può uscire disorientato, certo risemantizzato,

    da questa prospettiva cosmica che punta alla vastità, alla vertigine (e non si perda di vista

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    l’argomentare di una pluralità di mondi, nè l’identificazione tra Dio, o un ente supremo, e

    lo spazio, secondo quella prospettiva magniloquente del ‘raptus cosmologico’ che il

    Casini nel saggio su Voltaire divulgatore di Newton considera di diretta derivazione

    newtoniana).12 Tanto più il neoplatonismo esce disorientato se si giunge, procedendo di

     poco, all’altra apertura cosmica dell’epistola Al conte Carlo Pepoli, del ’26, ove l’‘arcano

    universo’ e le leggi che lo governano sono sottoposti a spietata disamina: 

    ‘Con quali ordini e leggi a che si volve  questo arcano universo; il qual di lodecolmano i saggi, io d’ammirar son pago’ [vv. 147-49].

    Sono, per Leopar di, gli anni delle riflessioni più sconsolate sull’ordine universale, sul

    significato e l’estensione totalizzante del male, sul conflittto con il concetto di armonia

    sostenuto da Leibniz, e sono insieme gli anni in cui la nuova scienza newtoniana si fonde,

    nel suo pensiero, col materialismo settecentesco strettamente legato a una visione

    meccanicistica della realtà (quella, ad esempio, del La Mettrie di  L’homme machine,13 di

    cui non si può attestare, in Leopardi, una conoscenza diretta, ma che pure pare ispirargli

    non poche riflessioni per il suo  Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, del tipo:

    ‘Vedesi in questo presente mondo un continuo perire degl’individui ed un continuo

    trasformarsi delle cose da una in altra [...]’).14 

    Come potranno sopravvivere i notturni in cui si rendevano possibili, da Tasso al primo

    Leopardi, i musicali assolo di una voce confidente nella natura, disposta a rivelarle le sue

     pene e a cercare conforto in essa, in un cosmo armonizzato, quando l’ordine, come scrive

    Leopardi, è associato al male, e ben poco, nel sistema della natura, ha da essere lodato? I

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    versi dell’epistola al Pepoli vanno riascoltati accanto a queste pagine dello  Zibaldone 

    [4257-58], datate 21 marzo 1827, per venire pienamente compresi:

    ‘Lodasi senza fine il gran magisterio della natura, l’ordine incomparabile dell’universo. Non sihanno parole sufficienti a commendarlo. Or che ha egli perch’ei possa dirsi lodevole? Almenotanti mali, quanti beni [...] Dico così per non offender le orecchie, e non urtar troppo leopinioni: per altro, io son persuaso, e si potrebbe mostrare, che il male vi è di gran lunga piùche il bene [...] Astenghiamoci dunque dal giudicare, e diciamo che questo è un universo, chequesto è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo’.  

    Ordine e caso si dividono in egual misura, per Leopardi, le sorti dell’universo.

    L’ordine che esiste, e senza il quale non si darebbe il mondo, non sarebbe conoscibile,

    non risponde a necessità, dal momento che il mondo che noi conosciamo è solo uno fra i

    tanti, innumerevoli mondi possibili. E tuttavia il ‘radicale contingentismo’ di Leopardi

    (su cui si sofferma l’analisi del Natoli)15  si unisce a un altrettanto ‘radicale

    determinismo’, come si può constatare scorrendo ancora lo  Zibaldone  [4142-43]: ‘Se

    questa natura fosse stata diversa, se le cose dovessero essere altrimenti, altrimenti

    sarebbero, né però sarebbero men buone e men bene andrebbero [...] di quel che fanno

    ora che sono così come noi le veggiamo. Anzi allora questo che noi chiamiamo ordine e

    che ci pare artifizio mirabile, sarebbe (e se lo potessimo concepire, ci parrebbe) disordine

    e inartifizio totale ed estremo’. 

    Ci si sposta in tale modo gradualmente da riflessioni che riguardano il territorio della

    fisica, dell’astronomia, al piano morale. Mai  come qui Leopardi rivela un pessimismo

    cosmico, contrapposto in tutto all’ottimismo di Rousseau, i cui pensieri sul male che si

     può concepire solo nel disordine e resta dunque fuori del sistema della natura che l’uomo

    colpevolmente infrange, vengono aspramente confutati, e a più riprese (dall’affermazione

    appena citata, datata 8 Ottobre 1825, così perentoria: ‘questo che noi chiamiamo ordine e

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    che ci pare artifizio mirabile, sarebbe [...] disordine e inartifizio totale ed estremo’, a

    quelle del 16-17 Maggio 1829, che iniziano da una citazione dalle  Pensées di Rousseau,

     per sconfessarla radicalmente). Per tornare al nostro appunto del ’27, esso raggiunge nella

    conclusione punte di sarcasmo, che suona blasfemo nei confronti di qualsiasi ipotizzata

    intelligenza superiore, ordinatrice dell’universo: ‘Ammiriamo dunque quest’ordine,

    questo universo: io l’ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità, che

    a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza, che egli

    non sia il pessimo dei possibili’ [4258]. 

    Sono gli anni del Canto notturno (1829), le cui interrogazioni estreme andranno riletteanche in questa luce. Nella prospettiva cioè di un universo visualizzato a partire dal

    concetto di spazio newtoniano, dilatato infinitamente e retto dalle leggi del movimento,

    che lo dirigono con azione continua e invisibile, immateriale e sconosciuta. Ne deriva il

     pathos dell’infinito, in cui l’ordine cosmico precipita: e vien da pensare a tutta una linea

    della poesia anglosassone settecentesca che va dal Pope dell’ Essay on Man  (1734)

    all’Akenside di The Pleasures of the Imagination  (1774) o al Thomson, e subisce il

    disorientamento di un cosmo esteso oltre il sistema solare, infinitizzato nei confini di un

    ‘empyreal waste’ in cui i cieli emergono fuori dal nulla, nell’immenso vuoto, e in cui

    tutto è differenziato e mutevole.

    Ascoltiamo per tutti Pope, in un luogo dell’ Essay on Man [I, vv. 23-34] in cui il poeta

    si misura con il pathos dell’infinito e dell’incommensurabile, avvertendo di conseguenza

    la relatività dell’esistere: 

    ‘He who thro’ vast Immensity can pierce,  see worlds on worlds compose on Universe,observe how System into System runs,what other Planets, and what other Suns?

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    What vary’d Bein peoples ev’ry Star? May tell, why Heav’n has made us as we are.  

    But of this frame the bearings, and the Ties,the strong connections, nice dependencies,gradations just, has thy pervading foul

    look’d thro’? Or can a Part contain the Whole? Is the Great Chain that draws all to agree,and drawn supports, upheld by God, or thee?’

    Quanto a Leopardi, già la Storia dell’astronomia  dimostrava una viva sensibilità

    nell’affrontare il senso di mistero legato al mutamento universale, al movimento senza

     posa dei fenomeni e delle leggi di natura che li governano. Si può leggere una pagina

     particolarmente importante per il Canto notturno: ‘Noi nasciamo e viviamo col moto, i

    suoi fenomeni si cangiano, si succedono, si moltiplicano di continuo intorno a noi’.16 

    Tocca al filosofo (e al poeta?) considerare gli ‘arcani’ della natura, e ravvisare ‘nei

    meravigliosi fenomeni del mondo’ i ‘profondi misteri di essa’, applicandosi quindi ‘ad

    indagarne le cause e a rintracciarne le leggi’.17 

    Ascoltiamo ora i vv. 79 sgg. del Canto notturno. E’ pura poesia cosmica, introdotta da

    uno stacco musicale che sottolinea l’attesa di una rivelazione, di un colloquio dell’anima.

    Interlocutrice è, naturalmente, la luna:

    ‘Spesso quand’io ti miro star così muta in sul deserto piano,che, in suo giro lontano, al ciel confina;[...]E quando miro in ciel arder le stelle;dico fra me pensando:

    a che tante facelle?Che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? Che vuol dir questasolitudine immensa? Ed io che sono?’  [vv. 79-81 e 84-89].

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    Parole da fisico o da metafisico? Certo non era questa solitudine cosmica a ispirare

    l’intimismo della lirica petrarchesca. La scienza viene qui direttamente interrogata in

    versi che l’enjambement   prolunga, assecondando quasi l’estendersi in figuralità dello

    spazio (‘quel profondo / infinito seren’ - ‘questa / solitudine immensa’). E sono

    soprattutto le frasi e i pronomi relativi, come sempre in Leopardi, a dilatare lo spazio: ma

    qui il che  introduce proprio alla vertigine, con ampio giro musicale sottolineato dalla

    rimalmezzo (‘Star così muta in sul deserto piano, / che, in suo giro lontano, al ciel

    confina’). Poi sono le iterazioni a rendersi necessarie (‘quand’io ti miro [...] e quando

    miro [...]’), esprimendo la tensione e la commozione dell’anima, che le tante interrogative propagano.

    Sino allo smarrimento nello spazio cosmico, la cui ricerca di significato (‘che vuol dir

    questa / solitudine immensa [...]’) viene rinviata al massimo, in iperbato, perché resti

    invece in primo piano il fascino travolgente del moto incessante, infinito, eterno. Si

    muove dal Dante del Paradiso per proseguire, soli, nel viaggio interplanetario:

    ‘Così meco ragiono: e della stanza smisurata e superba,e dell’innumerevole famiglia;  poi di tanto adoprar, di tanti motid’ogni celeste, ogni terrena cosa,girando senza posa, per tornar sempre là donde son mosse;uso alcuno, alcun fruttoindovinar non so. [...]’ [vv. 90-98].

     Non è stata sufficientemente indagata, da noi, così esperti di poesia lirica, la struttura

    della poesia cosmica: essa - Leopardi l’avverte bene - richiede la dilatazione ritmica del

    verso, l’iterazione semantica degli elementi che lo costituiscono, attraverso una frenetica

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    tecnica dell’elenco, dell’enumerazione (‘di tanto adoprar, di tanti moti’ - ‘d’ogni celeste,

    ogni terrena cosa’; e il ripercuotersi a eco di giro, girare...), per dar voce alla molteplicità.

    Occorre respirare forte, prima di lanciarsi tra gli spazi innumerevoli.

    Esempio massimo, la Ginestra, ove Leopardi, in versi di tesa concentrazione, riesce a

    mettere in scena l’avventura della parola che insegue la rappresentazione del ‘vòto seren’

    [v. 166] dilatando al massimo il periodo strofico, ispessendo la sintassi in una ipotassi

    esasperata, stipando dimostrativi e congiunzioni, avverbi e formule comparative.

    ‘E poi che gli occhi a quelle luci appunto,  ch’a lor sembrano un punto,e sono immense, in guisache un punto a petto lor son terra e mareveracemente; a cuil’uomo non pur, ma questo globo ove l’uomo è nulla, sconosciuto è del tutto; e quando miroquegli ancor più senz’alcun fin remoti nodi quasi di stelle,ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo e non la terra sol, ma tutte in uno,del numero infinito e della mole,con l’aureo sole insiem, le nostre stelle 

    o sono ignote, o così paion comeessi alla terra, un puntodi luce nebulosa; al pensier mioche sembri allor, o proledell’uomo? [...]’ [vv. 167-85].

    Un’analisi testuale anche di superficie evidenzia subito l’uso dell’avverbio  poi  (qui

    nell’accezione di ‘poiché’),  orientato verso lo slittamento e la dilatazione spaziale, più

    che temporale. Una dilatazione favorita dallo stesso disseminarsi puntiforme della rima

    (‘appunto’, ‘un punto’), dall’uso del relativo con funzione espansiva (‘che’, ‘di cui’),

    dallo stesso esi birsi contrappuntistico di coppie ossimoriche (‘punto’-‘immense’) e dalla

    tensione massima cui viene sottoposto l’endecasillabo, costretto dalle tronche a un ritmo

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    condizionato da attriti fonici (‘Quegli ancor più senz’alcun fin remoti / nodi quasi di

    stelle’, abissalmente lontani dalla musicalità del verso petrarchesco, per eccellenza

    ‘lirico’).

    L’afflato lirico dovrebbe pertanto dissolversi in questo disperato inseguimento dello

    ‘stile cosmico’. Ma sentiamo che non è così, nonostante i tecnicismi che pur e occorre

    considerare: si sono indicati, da parte di Paolo Rota, giovane studioso di  Lune

    leopardiane,18  precisi riscontri con Galileo, letto da Leopardi nell’edizione padovana del

    1744 (in un suo Trattato della sfera ovvero cosmografia, testo di non sicura attribuzione

    allo scienziato, ma incluso da Leopardi nell’elenco delle sue letture, si legge tra l’altro,circa la piccolezza di ogni stella in paragone al cosmo, che ognuna di loro ‘è quasi ch’un

     punto’). E sono stati chiamati in causa anche Fontenelle e Algarotti, per quella terra

    ‘globo’ ove ‘l’uomo è nulla’ (di ‘boule’, ‘petite boule’ parla appunto Fontenelle), 19 e per

    la vertigine siderale (‘l’Univers si grand que je m’y perds [...]’), puntualmente ripresa dal

    modello francese nel  Newtonianesimo per le dame (‘Ma qual è il numero di questi Soli?

    Quali sono i limiti della loro Sfera? Il centro non ne è egli per tutto, e la circonferenza in

    nessun luogo? [...] Io mi perdo, disse la Marchesa, in tanta infinità di Soli, e di Sistemi

    Planetari...’). 

    Sono letture sicure, puntualmente documentate: come è sicuro e preciso il rapporto tra

    questi versi e un passo della Storia dell’astronomia, ove il giovanissimo Leopardi,

     parlando di Galileo e manifestando il proprio entusiasmo per l’invenzione del telescopio,

    scrive: ‘[Galileo] Vide in Venere delle fasi simili a quelle della luna, ed osservò la via

    chiamata Lattea, che egli stimò un confuso ammasso di stelle’20  (‘nodi quasi di stelle /

    ch’a noi paion qual nebbia [...]’, ‘[...] un punto / di luce nebulosa [...]’).  

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    Ma poi, al di là dei riscontri, resta lo stupore dello sguardo contemplante. Uno stupore

    che solo gli antichi e i fanciulli, o tutti noi quando ridiventiamo tali, possiamo, secondo

    Leopardi, conoscere. E resta la sproporzione, che già nel 1818 l’autore de l Discorso di un

    italiano intorno alla poesia romantica  aveva avvertito, tra l’enigma della natura, che

    sfugge alle leggi della fisica e della matematica, e il bisogno ineliminabile di penetrare il

    mistero delle cose con la forza del pensiero. La cognizione della realtà, e del male che la

    costituisce, è per Leopardi poeta cosmico la vera sfida.

    Come lo è la percezione kantiana del limite, il sentirsi immerso nel finito da parte di

    un poeta-individuo, la cui individuale esperienza è rivestita - questa volta davvero insenso ormai romantico - di valore universale, collettivo e assoluto. Così il quotidiano,

    l’individuale, raggiungono un significato ampio. 

    Si può allora comprendere sino in fondo il viaggio nell’infinità degli spazi compiuto,

    nella Ginestra, da un pensatore poeta che fissa le proprie coordinate radicandosi nello

    spazio fisico, definito, delle falde del Vesuvio (‘Qui su l’arida schiena / del formidabil

    monte / sterminator Vesevo’, vv. 1-3). Solo aderendo alla terra, all’ora e al qui di un

     presente che consente di misurarsi con le ‘morte stagioni’, si può volteggiare tra i globi:

    solo ‘premendo il suolo’ si possono ‘appuntare’ gli occhi alle luci innumerevoli,

    sconosciute, che scintillano per ‘lo vòto sereno’, e rivelarne un senso - o una assenza di

    senso - che riguarda il destino di tutti.

    NOTE 

    1  Le citazioni dallo Zibaldone  provengono dall’edizione curata da Rolando Damiani, con commento

    e revisione del testo critico, per ‘I Meridiani’ Mondadori (Milano, 1997, 3 voll.).  

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    2  Mario Andrea Rigoni, Il pensiero di Leopardi, Prefazione di Emile M. Cioran, Milano, Bompiani,

    1997, pp. 13-14.3   Zibaldone, 3269, 26 Agosto 1823.

     

    4   Ibid.

     

    5  Secondo Rigoni, il processo di conoscenza ‘si configura allora come risultato del concorso, della

    tensione e dell’esaltazione di tutte le forze o gli impulsi sensibili dell’individuo, nella loro stessa

    opposizione e contrarietà’ (cit., p. 24). 6  Per una dettagliata analisi dell’ Infinito, in rapporto ai temi qui evidenziati, cfr. Guido Guglielmi,

    ‘Il  piacere dell’infinito’, Il Verri, XLII.2-3, 1997, pp. 7-22.7  Per la Storia dell’astronomia si fa riferimento all’edizione Giacomo Leopardi, Tutte le opere, con

    Introduzione e a cura di Walter Binni e la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1983, vol. I. Nello stesso volume si trovano, a p. 745, gli elenchi di letture utilizzati da Leopardi per la Storia  inquestione, e alle pagine 373-78 gli elenchi relativi al periodo giugno 1823 - marzo 1830.

    8  Giacomo Leopardi, Storia dell’astronomia (cap.IV,  Dalla nascita di Copernico sino alla cometadell’anno 1811), in Tutte le opere, vol. I, cit., p. 681.

    9  Italo Calvino, ‘Il rapporto con la luna’ (1967), in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, 2

    voll., Milano, Mondadori, 1995, p. 228. 10

      In particolare per ‘tacita selva’, il rinvio, segnalato tra gli altri dal commento leopardiano di

    Giuseppe e Domenico De Robertis (Giacomo Leopardi, Canti, Milano, Oscar Mondadori, 1978) e aVirgilio, Aeneides, VI, 386 e VII, 505.

    11  Giacomo Leopardi, Tutte le opere, vol. I, cit., p. 933.

    12  Cfr. Paolo  Casini,  Newton e la coscienza europea, Bologna, il Mulino, 1983. Del Casini va

    consultato anche  L’universo macchina. Origini della filosofia newtoniana, Bari, Laterza, 1969.Sull’argomento vedi, per i risvolti in area italiana, Niva Lorenzini, ‘Ugo Foscolo e Angelo Mazza:sull’armonia’, in AA.VV., Tra storia e simbolo, Firenze, Olschki, 1994, pp. 181-205.

    13  L’opera di Julien Offray de La Mettrie,  L’Homme Machine, venne pubblicata a Parigi nel 1784.

    Un  Eloge de La Mettrie  di Federico II compare nell’elenco di letture  leopardiane dell’ottobre 1823 (inGiacomo Leopardi, Tutte le opere, vol. I, cit., p. 374).

    14  Giacomo Leopardi, Tutte le opere, vol. I, cit., p. 159.

    15  Cfr. Salvatore  Natoli e Antonio Prete,  Dialogo su Leopardi. Natura, poesia, filosofia, Milano,

    Bruno Mondadori, 1998, p. 124 (ma è da consultare l’intero paragrafo dedicato da Natoli a ‘L’ordine e ilcaso’).16

      Giacomo Leopardi, Tutte le opere, vol. I, cit., p. 681.17

       Ibid., p. 682.18

      Paolo Rota, Lune leopardiane. Quattro letture testuali, Bologna, CLUEB, 1997.19

      Leopardi possedeva, nella biblioteca paterna, le Oeuvres  di Fontenelle, Amsterdam, 1742. PerAlgarotti, cfr. Newtonianismo per le Dame, Napoli, Pasquali, 1739, p. 263.

    20  Giacomo Leopardi, Tutte le opere, vol. I, cit., p. 683.

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    Pamela Williams 

    LA GINESTRA: THE LAST WILL AND

    TESTAMENT OF A POET AND PHILOSOPHER  

    Leopardi wrote  La ginestra  in 1836 at the end of his life and it was published

     posthumously as the last poem in the Canti according to the author’s wishes. It is a strong

    defence of his own vision of the human situation which others had denigrated during his

    lifetime. The poem is a restatement of his personal view against those contemporaries

    who have shut their eyes to the truth and in addition laugh at those like himself who do

    not disguise it. Their systems of thought he claims are based on illusion. Either they do

    not see it, or if they do that is worse. If they do not face facts, the rational thought, on

    which they pride themselves so much in ‘enlightened’ times, is no longer worthy of the

    name. La ginestra  is a poem that in its author’s terms states the facts and in this sense,

    Leopardi is a ‘philo-sopher’, a ‘lover of truth’.

    In most of the Canti  the disappearance of illusions is cause for regret.  Il tramonto

    della luna  (1836-37), the poet’s last composition, published posthumously like   La

     ginestra, states the relentless structure of human life: the image represents the

    ‘moonlight’ of illusions in youth - appearances are generally deceptive by the light of the

    moon - followed by the ‘darkness’ of age, of an understanding of life which does not give

    even the appearance of purpose. The statement of the truth for Leopardi asserts nothing

     positively, it only clarifies what is not in the world. The usual connotation of the words

    illusion and truth is generally inverted in the Canti. Ordinarily we think truth positive and

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    illusion negative, but for Leopardi truth reveals nothing of value, it tells us that all that is

    valuable in life is illusory.

    This contradiction, in terms of the desirability of knowledge, is only apparent.

    Leopardi would make a clear distinction between natural illusions and intellectual ones -

    only natural illusions are cause for regret. They give birth to ‘atti e pensieri nobili, forti,

    magnanimi, virtuosi, ed utili al bene comune o privato’; they are ‘quelle immaginazioni

     belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita’.1 They are beliefs in such ideals

    as virtue and justice, not to be judged as morally righteous in themselves because they are

    natural, but giving a certain moral vigour and strength to actions; in children they are anyimaginings which bring happiness and joy in this life. Intellectual illusions are ‘questo

    continuo presupporre che si fa scrivendo e parlando, certe qualità umane che ciascun sa

    che oramai non si trovano in uomo nato, e certi enti razionali o fantastici, adorati già

    lungo tempo addietro, ma ora tenuti internamente per nulla e da chi gli nomina, e da chi

    gli ode a nominare’.2  To be plain, Leopardi refers here among other things to the

    assumption that altruism is inherently human when in fact self-interest, amor proprio, is

    the fundamental human motive, and to the belief in gods, including the Christian God.

    A widely held view at the beginning of the nineteenth century (and probably to some

    degree even today) was that poetry was illusion - its beauty and imagination transported

    the reader to another world - and scientific enquiry and explanation centred on facts. At a

    famous dinner party in England, in 1817, one year before the composition of the first

     poem in the Canti, Keats and Charles Lamb agreed that Newton’s experiments  with a

     prism and light had destroyed all the poetry of the rainbow by reducing it to a spectrum

    of colours. ‘Cold philosophy’ would ‘empty the haunted air’ and ‘unweave the rainbow’

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    and Keats raised a toast that day of ‘confusion to mathematics’. The crit ic and essayist

    William Hazlitt noted in a calmer frame of mind that, as a matter of historical fact, ‘it

    cannot be concealed’ that the progress of knowledge and experimental philosophy ‘has a

    tendency to circumscribe the limits of the imagination, and to clip the wings of poetry’.3 

    In Ad Angelo Mai (1821), Leopardi has Christopher Columbus’s discovery of the New

    World symbolise the destruction of imaginative dreams through scientific knowledge

     both in the history of the world and in the life of a child. People speak of gain, but so

    much is lost. Once the New World is plotted on a map all the myths associated with

    distant lands in the west disappear and in this sense, all we gain is nothingness, ‘solo ilnulla s’accresce’ [l. 100]: 

    ‘Ahi, ahi, ma conosciuto il mondonon cresce, anzi si scema, e assai più vastol’etra sonante e l’alma terra e il mare al fanciullin, che non al saggio, appare.[...]

    A noi ti vietail vero appena è giunto,

    o caro immaginar; da te s’apparta nostra mente in eterno; allo stupendo poter tuo primo ne sottraggon gli anni,e il conforto perì de’ nostri affanni’ [ Ad Angelo Mai, ll. 87-90 and 100-05].

    In  Il Copernico  (1827), a prose dialogue between the Sun and Copernicus, Leopardi

     brings comedy and a sense of the ridiculous to this essentially tragic view of ‘la nullità

    del genere umano’.4 The Sun puts forward a point of view that Leopardi elsewhere would

    describe as a general development in his own life and in the history of humankind. 5 The

    Sun has just got fed up with going round the Earth; it is about time the Earth moved for a

    change. Many years ago it was poets with the beauty of their tales about his course

    through the skies who made him start to rush madly around ‘un granellino di sabbia’; for

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    someone as big and fat as him that was quite a ridiculous thing to do. He was young then,

    however, and beauty moved him to action; neither he nor anyone else for that matter

    listens to poets now. Only philosophers can make the Earth move, though he has to admit

    their explanations help people to understand but they do not generally move them to

    action.6  In the end, Copernicus promises to do the best he can to convince the Earth to

    move with mathematical calculations and scientific explanations:

    ‘La via più spedita e la più sicura [di persuadere la Terra a muoversi] è di trovare un poetaovvero un filosofo [...]. I poeti sono stati quelli che per l’addietro (perch’io  era più giovane, edava loro orecchio), e con quelle belle canzoni, mi hanno fatta fare di buona voglia, come perun diporto, o per un esercizio onorevole, quella sciocchissima fatica di correre alla disperata,

    così grande e grosso come io sono, intorno a un granellino di sabbia. Ma ora che io sonomaturo di tempo, e che mi sono voltato alla filosofia, cerco in ogni cosa l’utilità, e non il bello;e i sentimenti dei poeti, se non mi muovono lo stomaco, mi fanno ridere. [...] Questamutazione in me, come ti ho detto, oltre a quel che ci ha cooperato l’età, l’hanno fatta ifilosofi; gente che in questi tempi è cominicata a montare in potenza, e monta ogni giorno più.[...] Io dubito che un poeta non sarebbe ascoltato oggi dalla Terra [...] e però sarà il meglio chenoi ricorriamo a un filosofo: che se bene i filosofi ordinariamente sono poco atti, e menoinclinati, a muovere altri ad operare: tuttavia può essere che in questo caso così estremo, vengaloro fatta cosa contraria al loro usato’.7 

    In these same terms the Canti are ‘philosophical’ - in a sense their subject matter is

     beautiful and imaginative illusions, but they are philosophical because they convey what

    it is to live in the world without them. In this respect Leopardi is notably different from

    other poets of the age. Keats perceiving himself in an embattled position, opposed the

    sensuality of his poetry to the unemotional and objective descriptions of ‘cold

     philosophy’. For Wordsworth the appropriate business of poetry was ‘to treat things not

    as they are [...] but as they seem to exist to the  senses, and to the passions’.8 Leopardi’s

     poetry treats things as they seem to exist to the senses and to the passions - probably the

    most characteristic subject matter of poetry at this time was a poet’s pr ivate passions and

    imagination - but he would claim for his poetry more truth than the quotation from

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    Wordsworth seems to imply. The Canti  can be described in the terms of a pseudo-

    autobiography he intended to write, a story not of remarkable changes of fortune or

    extraordinary events, rather the story of one man’s soul, ‘i casi del [suo] spirito’.9 

    Leopardi writes about his personal experience of illusions, what it was like to have them,

    to lose them, and what it is like to live in the world without them. He presents himself as

    someone who has drawn inspiration from his own heart to represent what it is like for

    human beings to live in the modern world, someone who has found philosophical truth in

    his own experience. Like his Sappho in Ultimo canto di Saffo (1822), he is a passionate

    genius, ‘un animo tenero, sensitivo, nobile, e caldo’, who loses his illusions; like her, hecommunicates through his own experience, universal statements about human nature.10 It

    seems a contradiction when an exceptional human being claims his experience has

    universal insignificance. However, this contradiction, too, is more apparent than real. For

    Leopardi describes the illusions he personally has lost, his desire for fame and love, yet

    the loss is what is typical.11 

    Leopardi built a system of thought on the basis of the evidence his experience

     provided; in generalising his ideas so constructed, his method was no different from that

    of much modern philosophy. Its strength was that it was, to use the terms of Locke in his

     Essay Concerning Human Understanding , ‘historical’ and ‘plain’. ‘Historical’ because

    Leopardi, like Locke, thought that ideas are not innate, but arrived at by stages in the

    experiment of living, and ‘plain’, because the mind is thus untrammelled by received

    opinion and prejudice.12  The philosophers and scientists of the Enlightenment had in

    Leopardi’s view, and of course their own, swept away not only the illusions of the

    imagination but also rational illusions, which is to say, a good deal of intellectual error

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    and sophistry, including all metaphysics and theology. As the empiricists would have it,

    the wise proportion all rationally held beliefs to the evidence: Locke assumed the humble

     position of an ‘underlabourer’ clearing the ground of rubbish in or der that others can

     build anew more effectively; Hume accepted as knowledge only what he arrived at by

    ‘experimental reasoning concerning matter of fact and existence’. In these terms

     philosophy itself was a more critical approach to the scientific method. The point was to

    establish proper procedures as to what philosophy was and what it could do; and by such

    means to destroy metaphysical systems systematically. Typically Voltaire’s contes

     philosophiques  depict a movement from being ‘philosophical’ in the sense of beingabstract and logical to being ‘philosophical’ in the sense of being based on experience

    and of coming to terms with reality in the light of that experience. Like Voltaire,

    Leopardi judged metaphysical systems were rightly condemned. He built a system of

    thought to which he refers all human feeling and from which all human feeling derives its

    significance, but it was based firmly on his own experience concerning matters of fact

    and existence. It was a science of human feeling and its basis was the sensibility of his

    own heart (‘nel quale principalmente si esamina la natura dell’uomo e delle cose’).13 

     La ginestra  is an attack on intellectual errors. In the words of the Sun in the  Il

    Copernico, it is an attack on those men who go on reasoning back to front, who build

    systems in spite of the evidence of things. They may know that the Earth is not literally at

    the centre of the universe, but they continue to speak as if it were, as if human beings

    were supreme among earthly creatures. The intellectual errors then that Leopardi attacks

    in La ginestra are quite simply statements about life which defy reality. Physical systems

    affect philosophical systems and philosophical systems in their turn affect individuals, the

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    way human beings feel about themselves in the world. If the truth is that the Earth is

    insignificant in terms of the cosmos and that Nature is only concerned with the existence

    of the Universe but not the well-being of its parts then the conceit of those who say

    otherwise flies in the face of the facts. Nature is the only thing that is permanent:

    ‘Caggiono i regni intanto, / passan genti e linguaggi: ella non vede / e l’uom d’eternità

    s’arroga il vanto’ [ll. 294-96]. To consider oneself eternal in the face of all the evidence is

    getting things upside down and the wrong way round, because of personal vanity -  La

     ginestra is a massive indictment of conceit.

     La ginestra opens with the image of the slopes of Vesuvius - the volcano represents Nature both in the sense of forces external to human beings which may overwhelm them,

    and of forces within them which are potentially destructive in terms of the

    disillusionment they experience during their lives. For Leopardi, the human individual

    embodies self-love, the will to live, the desire for one’s own good, one’s own happiness.

    That general desire may become identified with particular objects from time to time but

    actually it cannot be specified in that way, and because it outstrips any individual desire it

    is unsatisfiable. Individuals then are predestined by their nature to disappointment and

    frustration - and that is not to mention the pain they suffer and, in the end, the destruction

    of the very life that is willed. An essentially tragic course is programmed into us from the

     beginning; it is in the nature of what we are. Suffering then does not just come from the

    outside, but we all carry its source within us.14 

    Leopardi uses this image of Vesuvius to open the poem so that we may see ‘quanto / è

    il gener nostro in cura / all’amante natura’ [ll. 39-41]. We see the desolation, but here

    things once flourished - and that is true in terms of the images themselves and in relation

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    to all human lives. The structure here is typically Leopardian, interweaving past and

     present: seeing the  ginestra  on the slopes of Vesuvius, he is reminded of the deserted

    countryside around Rome, and of the greatness of the Empire and its subsequent

    destruction. The fields around Vesuvius covered with ash and lava were once cultivated;

    there were palaces, gardens and famous cities, but everything is a ruin now. Nature and

    human beings are contrasted so as to make it clear that Nature has the last word. The

     point that Leopardi makes in the first stanza is that this is the true context of any

    reflection about oneself, ‘E la possanza / qui con giusta misura / anco estimar potrà

    dell’uman seme’ [ll. 41-43]. There are three main themes in  La ginestra and stanza 1 iscrucial to them all: Leopardi contrasts his view to those of his contemporaries, he states

    the attitude to themselves human beings should adopt to preserve their dignity and, in his

    own inimitable way, he justifies human goodness. The opening image of the poem

    represents the proper context in which all these matters argued in the text can be properly

    assessed.

    Leopardi’s opponents in La ginestra are specifically Christian. They are the revivalist

    Christians of the post-Enlightenment, post-Revolutionary period. When Leopardi returns

    to the landscape in stanza 4, and reflects on the insignificance of human beings in the

    context of the universe, he does not know whether to be moved to pity or laughter by the

     presumption of human beings who think they are the centre of the universe, who think of

    their gods coming down to Earth for their sake, ‘che te signora e fine / credi tu data al

    Tutto’ [ll. 188-89]. He uses the same phrase, ‘questo oscuro / granel di sabbia’ [ll. 190-

    91] as the Sun did in Il Copernico (‘un granellino di sabbia’). Copernicus in that dialogue

    says that it was reasonable enough when the Earth was thought to be literally at the centre

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    of the universe to fabricate a system that was sustained by such facts. When these facts

    are shown to be illusions, to continue to fabricate systems based on them seems to

    Leopardi in  La ginestra either ludicrous or sad: ‘Non so se il riso o la pietà prevale’ [l.

    201]. The epigraph of the poem tells us whom Leopardi has in mind. He quotes a Biblical

    text, John 3:19: ‘E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce’, which in its

    scriptural context contrasts the darkness of sin with the light of God’s grace. In

    connection with Leopardi’s poem it contrasts the darkness of the false hope of Christian

    revivalism, with the light, the hopelessness of Leopardi’s truth. Leopardi never denied

    that natural illusions such as hope are of value because of the feelings that accompanythem but that person is deceived who believes hope in the Christian sense is an assurance,

    a promise of fulfilment, ‘uno attender certo / della gloria futura’ as Dante would define it

    [ Paradiso XXV, 67-68].

     Palinodia al marchese Gino Capponi (1835) and  La ginestra  in the Canti  and the

    dialogues between Eleandro and Timandro and between Tristano and a friend, are all

    works in which Leopardi justifies his vision of life against his contemporaries. Leopardi

    attacks the optimism, the pride and complacency of his contemporaries, and defends what

    they called his pessimism. Leopardi is not the only writer of his age who cast himself in

    the role of lonely hero, hated and outlawed by society and endowed with an ambiguous

    gift of sensibility. Goethe, Byron and Shelley all presented their lives as a Promethean

    struggle of creative genius and individual emotions against the restraints of society and

    social conformity. Leopardi’s position, summed up by Eleandro’s memorable phrase in

    the Operette morali: ‘il mio cervello è fuori di moda’, is different from theirs because he

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    does not share their assumption that human beings can be perfected either by striking off

    the chains of society as individuals or by forms of social action.15 

    He stands full square against what the journals of his day trumpeted optimistically: the

     perfectibility of the human race - as Eleandro says: ‘ora non si attende ad altro che a

     perfezionare la nostra specie’.16  There was almost universal excitement among

    intellectuals in the eighteenth and nineteenth centuries about applying the new scientific

    methods to all areas of study; writers spoke particularly enthusiastically about their

    application to moral, social and political issues. There were few moral and social

    theorists, from Hume through to Bentham who did not set out to be the Newton of thesocial sciences; human beings were judged suitable objects for scientific study and the

    results in terms of classification and statistics determined social and political reform.17 In

     La ginestra Leopardi represents his point of view in the opening image; and at the end of

    stanza 1 he quotes the words of one of his contemporaries: ‘Dipinte in queste rive / son

    dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive’ [ll. 50-52].

    In  Palinodia, Leopardi targets the utilitarian ideals of his age. Like Leopardi, the

    utilitarians assumed that all humans are basically and exclusively motivated by the desire

    to gain pleasure and avoid pain. They regarded the morality of actions as entirely

    dependent on their promotion of human well-being or the maximisation of pleasure. The

    felicific calculus, as Jeremy Bentham called it, played an important role in democratic

    and humane political reforms but in some respects it was an easy target for ridicule.

    Leopardi mentions the exploitation of the colonies so that Western Europeans could

    maximise their pleasure of pepper, sugar cane and cinnamon. He attacks the democratic

    aim in so far as it considers the maximisation of pleasure en masse. Unable to make any

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    one human being on Earth happy, the utilitarians forget individuals altogether, and speak

    only of a happiness for all:

    ‘Ma novo e quasi divin consiglio ritrovar gli eccelsispirti del secol mio: che, non potendofelice in terra far persona alcuna,l’uomo obbliando, a ricercar si diero una comun felicitade’[ Palinodia, ll. 197-202].

    In  Palinodia  Leopardi makes fun of the pride of his contemporaries in the kind of

     practical proposals that most industrial economies boast about, like gas lighting, a tunnel

    under the Thames, faster channel crossings. He contrasts their confidence in maximising

     pleasure in this sense with a broader vision of human endeavour. Nature is described in

     Palinodia as a wilful and cruel child playing an evil game, a child who builds a toy with

    leaves and twigs only to destroy it immediately because the building materials are needed

    for some other game. That is the reality, says Leopardi, and yet his opponents get so

    carried away with their optimism that they speak as if all human pain, illness, and death

    itself might be conquered [ll. 181-89].

    From the point of view of his opponents the lyric was frivolous, self-indulgent, a

     purely private activity. Bentham did not deny to poetry a modest hedonistic utility insofar

    as it afforded pleasure to some human beings among pleasures of a particular sort,

    commonly termed ‘pleasures of the imagination’. In general the social reformers who

    spoke of utility were opposed to poetry because of the seriousness of their social intent

    which they did not attribute to it. In  Palinodia, Leopardi refers to his arch opponent,

     Niccolò Tommaseo, whom he says arrogated to himself the title ‘master of poetry’ and

    ‘teacher and reformer’ of all arts and sciences and spoke condescendingly about feeling

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    in poetry.18  The poet’s duty, according to Tommaseo, was to further breakthroughs in

    scientific progress and public reforms:

    ‘[...] un francodi poetar maestro, anzi di tuttescienze ed arti e facoltadi umane,e menti che fur mai, sono e saranno,dottore, emendator, lascia, mi disse,i propri affetti tuoi. Di lor non curaquesta virile età, volta ai severieconomici studi, e intenta il ciglionelle pubbliche cose. Il proprio pettoesplorar che ti val? Materia al cantonon cercar dentro te. Canta i bisognidel secol nostro, e la matura speme’ [ Palinodia, ll. 227-38].

    There is no doubt that a ‘science of human feeling’ gives ammunition to those who

    want to criticise it. Tommaseo categorically denounced Leopardi’s vision of life  by

    saying that what may have been true personally for the poet was certainly not true for

    everyone. With reference to the Operette morali  in particular he branded Leopardi’s

     principles as negative and said they were founded only on some partial observations.

    Leopardi gave his response to both criticisms in a letter to his publisher Stella:

    ‘Circa il giudizio sopra le Operette morali che Ella mi comunica, che vuol ch’io le dica? Diròsolo che non mi riesce impreveduto. Che i miei principii sieno tutti negativi, io non me neavveggo; ma ciò non mi farebbe gran meraviglia, perché mi ricordo di quel detto di Bayle; chein metafisica e in morale, la ragione non può edificare, ma solo distruggere. Che poi le mieopinioni non sieno  fondate  a ragione ma a qualche osservazione parziale, desidero che siavero’ [Letter to Antonio Fortunato Stella in Milan, Florence, 23 August 1827]. 

    As far as the criticism of ‘negative’ was concerned Leopardi’s counter -claim was that

    his sistema was no different in this respect from a great deal of modern philosophy - like

    the empiricists, Leopardi firmly believed that in the post-empiricism world no

     philosopher could pass arbitrary imaginings for reason anymore or give human beings

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    rules of conduct that were different from those gained through reflections on everyday

    life and a spontaneous experience of the world. Knowledge of the world takes away what

    the imagination naturally fabricates - and experience was a reflection of modern

     philosophy in this sense of revealing errors.19 There is no turning back, no more than

    there is in the progress of knowledge, no returning to believing in illusions once you have

    recognised them as such. These were the foundations on which Leopardi built his

     sistema, his science of human feeling.

    Leopardi countered Tommaseo’s accusation of subjectivity by saying that he only

    wished his opinions were merely subjective. As he has Tristano say in defence of hisOperette morali, he never thought anyone would doubt the observations he made. He

    thought people might say it was not useful to make them, but he never thought they

    would say they were not true. At the beginning of this operetta  he speaks in strongly

    ironic tones, as he does in Palinodia, pretending to retract everything he has ever written

    and join the other side:

    ‘Quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo [che la vita umana fosse infelice].E n’era tanto persuaso, che tutt’altro mi sarei aspettato fuorché sentirmi volgere in dubbio leosservazioni ch’io faceva in quel proposito, parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesserendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputadell’utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi credetti che le mievoci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che leascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche proposizione particolare, ma il tutto, e direche la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’a ltramiseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo’ [ Dialogo di Tristano e di un amico (1832),Tutte le opere, vol. I, pp. 180-81].

    Many people continue to find Leopardi’s poetry as pessimistic as did Tommaseo. His

     poetry and prose is definitely a challenge in this respect. In a way it is too easy to affirm

    that the reader does not have to agree with Leopardi’s vision of life to appreciate his

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     poetry, to say that any judgement of the merit of the poems or prose remains independent

    of whether or not his convictions are accepted. There are few writers, whose poems

    succeed so fully, for better or worse, in making themselves present to the reader and

    evidently what is at issue as far as appreciation is concerned is not agreement with the

     poet’s sentiments but the degree to which the fullness of his experience can be

    comprehended and the manner of its expression. However, in generalising his convictions

    Leopardi does make a certain claim on the belief of his reader. In view of the sharpness

    of his attack on his contemporaries in La ginestra, the challenge that what the reader may

    take to be his pessimism is actually realism is part of the poem’s legacy. What is at issuehere is more than just agreement or disagreement with Leopardi; the distinction between

    these two points of view is crucial to understanding the meaning of the poem.

    It cannot be denied that Leopardi was a pessimist; there are few writers who are more

    so. Of course, his pessimism is logically independent of his philosophy, logically

    speaking a statement of value cannot be derived from a description of fact, an ‘is bad’

    does not follow from an ‘is’.20  However, the pessimism is all-pervading in the way the

     philosophy is articulated. Leopardi was not content to say that this is what life is like for

    him, as in Canto notturno with such resonance, ‘a me la vita è male’ [l. 104], or even to

    claim, as the shepherd does, that ‘la vita è sventura’ [l. 55] as far a s human beings are

    concerned. In his poetry he goes further and states that the ultimate or underlying reality

    is evil: he describes Nature in moral terms as wicked, ‘madre è di parto e di voler

    matrigna’ [ La ginestra, l. 125].

    Out of poetry Leopardi would say that if that is how we experience reality then it just

    seems more likely to say that there is an evil purpose. No-one can judge whether the

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    universe is ultimately good or bad, but if there is not sufficient data, Leopardi argues,

    why is the universe judged more often than not to be good; why not judge on the basis of

    human experience that it is bad. The famous entry in the  Zibaldone [4174-75, 22 April

    1826] which begins ‘Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male’ is sometimes taken to

    the summation of Leopardi’s ‘negative principles’ as Tommaseo called them, but

    Leopardi is actually as modest, as reasonable and as cautious as Locke in stating his

    conclusions. As far as the ultimate nature of things is concerned human beings are

    restricted to speculation - and speculation about the world is restricted to concepts

    acquired through the senses from experience. Leopardi is not substituting ‘tutto è male’for ‘tutto è bene’, or ‘all is for the best in the best of possible worlds’, the disrespectful

    summation of the metaphysical system of Leibniz, notoriously lampooned by Voltaire in

    Candide. All that Leopardi claims in the light of his system of thought is that ‘all is for

    the worst’ is ‘perhaps’ more sustainable.21 

    ‘Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro cheil bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope, ec. che tutto è bene. Nonardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il  peggiore degli universi possibili,sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?’[ Zibaldone, 4174, 22 April 1826].

    It is always possible for people to agree about the facts but to disagree about how they

    are to be evaluated. They may agree about the amount of pleasure and pain in human life,

     but disagree as to which determines their attitude to life. In the popular example of the

    optimist and the pessimist, the person who judges the glass half full and the person who

     judges the glass half empty, they are still in agreement on the facts. What Leopardi says

    in  La ginestra  to justify the charge of pessimism made against him is that his

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    contemporaries are in disagreement with him on the facts. They are, he says, flying in the

    face of the facts and in this sense he considers himself a ‘lover of truth’ and a realist.

    In 1825 Leopardi wrote that he had in mind to write several works that would be of

     profit to his readers, in which he would try to re-establish the principles which should

    form the basis of society: ‘Molti progetti e disegni di opere mi sono passati per la mente,

    lo scopo delle quali sarebbe stato di giovare alla società nel miglior modo possibile,

    cercando di rimettere in piedi quei principii, senza i quali la medesima società è

    veramente un’idea contraddittoria in se stessa’ [Letter to Karl von Bunsen, 3 August

    1825]. Leopardi defines a society, and it is a standard definition, as a community whose purpose is the common good of the individuals within it. Stanza 3 of La ginestra, the so-

    called solidarity stanza, fulfils Leopardi’s stated intention in his own inimitable way.

    Leopardi finds that within the framework of his sistema, he can justify a common good, a

     benevolent attitude of individuals towards one another that would form the basis of

    society in the proper sense of the term. It is not a positive virtue, it is a remedy, a negative

    goodness, so to speak, just as the pleasure that results from the release of pain is a

    negative pleasure in La quiete dopo la tempesta.

    The images of La ginestra represent the framework within which goodness develops.

    In the opening stanza Nature and human beings are contrasted so as to make it clear that

     Nature has the last word. The picture of the skyscape in stanza 4 tells us that in relation to

    the cosmos we are insignificant. The image in stanza 5 of the apple that falls and crushes

    the ants beneath tells us that we are also helpless and impotent, for Nature is capricious.

    In such a context goodness is mutual compassion, recognising each other’s insignificance

    and helplessness.

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    Leopardi did not think that goodness, any more than knowledge, brought happiness or

     perfection, in the sense of making human beings what according to their natures they are

    meant to be.22 Most ethical philosophies, and nearly all ancient philosophies, are

    teleological: they seek to establish the ultimate purpose of human life, that is to say a

    framework in which to work out a priority system of action appropriate to human nature

    and its well-being. There is no denying that if there were such a goal, there would be

    nothing more helpful or more necessary to us than to see it.23 According to the different

     philosophies there are many different views about what constitutes human happiness:

    most ancient philosophies had knowledge or goodness as the ultimate human aim.Leopardi thought there was so much disagreement among philosophers because

    happiness, that purpose of human life on which they did at least all agree, quite simply

    did not exist. After all if human beings had ever experienced happiness in this sense there

    surely would be no controversy.24  As we have seen knowledge by its very nature in

    Leopardi’s terms destroys illusions, and illusions, though the pleasures they promise are

    unreal, are the one thing that can bring happiness. The goodness envisaged in La ginestra 

    is only a consolation for the futility of life; it does not give purpose or meaning. Without

    illusions of purpose human beings are all like the ‘confuso viator’ in  Il tramonto della

    luna, the bewildered traveller who loses ‘mèta o ragione’ after youth has ended.

    The universal principle which in terms of Leopardi’s  sistema  is the foundation for

    social cohesion is each individual’s capacity for suffering. Leopardi was well aware of

    the relativity of suffering, that people suffer for different reasons in different societies and

    at different times of their life. Nevertheless the vulnerabilty and precariousness of

    existence were universals. And the dangers and the distress individuals experience

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     because of those qualities of human life are enhanced by their universal pointlessness -

    the capriciousness of Nature and the unchanging threat through time she represents. The

    fact of being human beings gives us the capacity to feel pain and the desire not to suffer

    is shared by all, and it is upon that basis that Leopardi argues we should not harm one

    another.

    In a letter of 1823, Leopardi wrote that the only thing he was trying to learn now was

    how not to suffer.25 Two years later he published his translation of Epictetus’s  Manual ,

    Stoic advice on how not to be affected by things not in one’s own power. Epictetus had

     been a Greek slave, crippled by the sadistic brutality of one of his masters. Leopardi didnot think that happiness could be found in the Stoic doctrine of moral autonomy, but, as

    he wrote in the preface to his translation, he had found that Epictetus’s advice had helped

    him in his life and he sincerely hoped it would help other people.  La ginestra can be seen

    to be an extension of that endeavour, in a social context; it is an inducement not to harm

    other people, and thereby to reduce their suffering. The society Leopardi envisages is one

    in which human beings minimise the pain they cause one another by the very fact of

    living in society.26 As Leopardi would have it suffering threatens from without through

    dangers from the external world, and from within, by the very fact of the human

    condition, but human beings also suffer through their relations with others. Hatred and

    anger between human beings are ‘più gravi d’ogni altro danno’ [ll. 119-21]. They are a

     pointless, a gratuitous extra, and as absurd as turning on one’s own side when one is

    fighting a war.

    Leopardi conceives of goodness in this sense in terms of a social contract, a rationally

    agreed form of social organisation. His thoughts are always centred on individuals - we

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    see it in the universal principle of the individual who suffers and of course a contract

    implies individual agents who freely associated. This aspect of his thinking distinguishes

    him from the thinking on mass of the utilitarian theory he criticised. Social contract

    theories can be characterised by the view of human nature they express in terms of what

    they call the ‘state of nature’, the permanent substratum in human nature unimpaired by

    the shifts and changes of individual life and social history. That ‘state of nature’ then

    serves to demonstrate exactly what it is human beings come together for in the first place,

    and what they owe to society - most social contract theorists did not think that the state of

    nature they referred to had ever existed, it was just meant to explain how things in factare.

    Perhaps the most famous contract theorist Thomas Hobbes thought that the state of

    nature was a condition in which there was ‘continual fear, and danger of violent death’;

    life was famously ‘solitary, nasty, brutish, and short’. It was a war of all against all, other

     people were as likely as not to kill, injure or rob you. For Hobbes human nature was

     basically aggressive, self-seeking, and not radically altered by society, but rather held in

    check by laws; human beings were made moral by constraint. Leopardi thought that

    human beings in the state of nature were asocial. He separates his own view firmly from

    the traditional one in the  Zibaldone: they say, he says, and it is a commonly held view

    since Aristotle, that human beings are ‘social animals’; Leopardi, on the other hand,

    thinks that ‘human beings are the least social of all the species’, that is to say the least

    likely of all the species to want to work together.27  It is a special characteristic of

    Leopardi’s conception of the social contract that solitary human beings come together out

    of fear of Nature for mutual self-help. The specification of ‘quell’orror’ in stanza 3 [l.

  • 8/15/2019 Giacomo Leopardi e La Poesia Cosmica

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    43

    147] that first drew human beings together is an important one and sets Leopardi’s

    conception apart from other theories of social contract. Subsequently it is the fear of the

    common enemy which has to be maintained in order to uphold the contract, and this is

    what we see in the images in stanza 6 of the poem - the fear and dread of Nature are

     palpable still. It is more than a thousand and eight hundred years since Pompeii was

     buried under lava but the peasant who works the ashy earth still lives in fear for his

    family and his livelihood; the excavations at Pompeii, recent in Leopardi’s time, ‘come

    sepolto / scheletro’ [ll. 271-72], continue to remind the traveller of the terror felt by the

    victims buried beneath the lava.Leopardi thinks of the coming together of human beings in society as grounded in

    recognising a common interest against a common enemy. People do not come together to

    help one another; they come together because their own self-interest is given common

    cause. Leopardi believed amor proprio  to be the sole driving force behind every

    individual’s existence.28  It is born from the sense of one’s own being. It makes

    individuals what they are: it never leaves them as long as they live and it is the

    fundamental feeling of which the rest are only modifications. Being natural it is neither

    good nor bad; it only becomes good or bad by accident and according to the

    circumstances in which it develops. One pities oneself when one sees one’s own

    condition realistically, and self-love then develops to good effect in mutual compassion

    on the same grounds. The total weakness of human beings vis-à-vis Nature leads to

    solidarity. If a community comes together out of fear of a human enemy, then what may

     be natural in the first place is actually the cause of further suffering. And that is one of

    the contradictions of nature which Leopardi found so f