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Francesco Fiume Fisiologia generale delle piante da orto

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Francesco Fiume

Fisiologia generale delle piante da orto

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Fiume Francesco Fisiologia generale delle piante da orto

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Autore: Francesco Fiume

Titolo: Fisiologia generale delle piante da orto

Impostazione e grafica: Francesco Fiume

Elena Ciscognetti

Impaginazione: Francesco Fiume

Finito di stampare: 15 gennaio 2010

Stampato a Pontecagnano (Salerno) Presso la Sezione di Biologia, Fisiologia e Difesa dell’Istituto Sperimentale per l’Orticoltura Via Cavalleggeri, 25 – 84098 Pontecagnano (Salerno) Direttore della Sezione: dott. Francesco Fiume

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INTRODUZIONE

La fisiologia vegetale è la scienza che si occupa delle manifestazioni della vita delle

piante, allo scopo di comprendere come queste nascono, si nutrono, crescono, si moltiplicano e si riproducono, reagiscono agli stimoli ambientali attraverso alcune proprietà come la sensibilità e la motilità, invecchiano e muoiono.

Non è noto come e quando la vita comparve sul nostro pianeta. Le prime impronte della vita sono state riconosciute in rocce vecchie di circa 3,8 miliardi di anni e furono lasciate da microscopici organismi viventi che si possono considerare batteri che ricavavano l’energia necessaria ai loro processi vitali dalla trasformazione di composti dello zolfo, prodotti dall’attività vulcanica presente sul fondo degli oceani. Questi microrganismi sono di circa un miliardo di anni più giovani della Terra e non sono stati trovati altri reperti rocciosi più antichi nei quali è stato possibile individuare tracce di vita in epoca anteriore.

Più tardi, circa 3 miliardi di anni fa, tali organismi acquistarono la capacità di procurarsi energia direttamente dalla luce solare e di accumulare azoto. Gli organismi più complessi dotati di organizzazione cellulare eucariotica non si sono evoluti fino a circa un miliardo e mezzo di anni fa. Per circa 2 miliardi di anni, pertanto, gli organismi unicellulari procariotici, i batteri, furono le sole forme di vita presenti sul nostro pianeta. Nella figura 1 è possibile osservare i più antichi fossili costituiti da batteri provvisti di una struttura molto semplice.

Fig. 1 – Sezione ultrasottile al microscopio elettronico dove si osservano le pareti trasversali delimitanti le singole cellule di batteri uniti in catenelle.

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Un momento fondamentale nella storia della vita è rappresentato dalla comparsa dei

cianobatteri, o alghe azzurre, che si accrebbero formando sul fondo strutture a strati cavoliformi analoghe a quelle tuttora visibili al largo delle coste australiane.

I cianobatteri si servirono dell’energia della luce solare per ricavare carboidrati dalla combinazione chimica dell’acqua con l’anidride carbonica. Tale processo, noto come fotosintesi, diede come prodotto di scarto l’ossigeno che, a partire da 2,5 e sino a 1,75 miliardi di anni fa, si legò chimicamente col ferro ossidandolo e formando sul fondo degli oceani depositi a strati di rocce ferrose.

Il tappeto di alghe azzurre era anche in grado di intrappolare e creare strati di sostanze quali i fanghi di carbonato di calcio, che formarono le strutture note come stromatoliti. Non appena tutto il ferro fu legato chimicamente, l’ossigeno resosi disponibile cominciò ad accumularsi nell’acqua degli oceani e a diffondersi nell’atmosfera; qui costituì uno strato di ozono, che fece da scudo contro le dannosissime radiazioni ultraviolette provenienti dal sole che, altrimenti, avrebbero reso impossibile lo sviluppo della vita. Solo pochissimi fossili di organismi provengono dal Precambriano, anche dal più recente, e per la maggior parte sono costituiti da piante. Alghe calcaree si diffusero ampiamente nei mari dell’America (Montana, Alberta) e della Rhodesia; nella selce nera precambriana dell’Ontario e nelle rocce del Michigan, Minnesota, Inghilterra e Scozia, sono stati trovati primitivi funghi acquatici e alghe.

Gli animali fossili sono rari; è stata scoperta una medusa nel Gran Cañion ed alcune tracce rinvenute nelle rocce del Montana testimoniano una possibile esistenza di esseri viventi. Un maggior numero di fossili sono stati ritrovati in Australia, in depositi recentemente scoperti. Sembra probabile che gli animali del Precambriano avessero il corpo privo di parti di una certa consistenza e perciò scarsamente conservabili sotto forma di fossile; solo in seguito, una grande quantità di differenti specie svilupparono parti ossee ed i loro fossili diventarono più comuni. Il paesaggio dell’epoca precambriana risulta al principio piuttosto desolato: uno sterile deserto di nuda roccia attorniato da mari poco profondi, da dove hanno inizio le prime forme di vita.

Origine della vita

La comprensione della vita e della sua origine sul nostro pianeta è un problema che l’uomo ha sempre, invano, cercato di risolvere ed il notevole sviluppo delle diverse discipline biologiche che si è verificato negli ultimi cento anni ha permesso di affrontare, in modo sperimentale, l’approccio alla problematica.

Anticamente, in assenza di conoscenze scientifiche e tecnologiche, la comprensione dell’origine della vita si è dimostrata di una tale difficoltà ed incertezza da ingenerare le più disparate interpretazioni metafisiche e filosofiche.

Dalla mitologia classica si deduce questa grande confusione, per cui numerosi personaggi prendevano origine da piante ed animali o addirittura si supponevano vivificati dalla materia inanimata. Inoltre, la complessità della vita è giudicata tale che, come logica conseguenza, soltanto un Essere superiore può averla creata e molti scienziati ancora ammettono, in modo esplicito o implicito, l’esistenza di un creatore intelligente e soprannaturale la cui esistenza non è razionalmente descrivibile e dimostrabile attraverso una ricerca sperimentale.

La corrente di pensiero che suppone che le funzioni connesse alla vita siano legate ad una invisibile ed intangibile forza vitale o spirituale è indicata con il termine di vitalismo. Questi punti di vista, che erano sostenuti fino a circa tre secoli addietro, si concretizzano, per esempio, nella teoria della generazione spontanea per la quale piante ed animali potevano prendere

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origine da sostanze in decomposizione e, comunque, da un mondo inanimato. Si credette che le anguille e molti altri vermi prendessero origine dal fango o dalla terra umida, che i parassiti derivassero dal sudiciume e le larve della Sarcophaga carnaria, fossero prodotte dalla carne in via di decomposizione, scambiando, così, l’ambiente favorevole con la causa efficiente.

L’ipotesi della generazione spontanea si esaurì con Francesco Redi, Lazzaro Spallanzani e Luigi Pasteur, i quali dimostrarono, con metodo sperimentale, rispettivamente per gli insetti, i protozoi ed i batteri, che la nascita degli organismi viventi deriva da altri viventi. L’approccio che consente l’applicazione del metodo scientifico attraverso la sperimentazione e la verifica dei risultati ottenuti è denominato meccanicismo.

Va ancora detto, tuttavia, che i principi della teoria della generazione spontanea vengono ancora oggi chiamati in causa, sia pure su basi differenti, per spiegare e sostenere l’origine della vita sul pianeta terra. E’ opinione comune di molti studiosi del problema che, una volta che si è verificata l’evoluzione polimerica dei composti del carbonio, in determinate condizioni ambientali di estremo dinamismo è scoccata, dopo infiniti tentativi, la scintilla dell’evoluzione prebiotica che ha condotto alla comparsa delle prime forme viventi in un mondo senza vita. A tal proposito, numerose sono le ricerche che hanno tentato e cercano di stabilire non tanto i passi dell’evoluzione, dal momento che è impossibile la formulazione di qualunque ricostruzione storica dell’epoca primordiale, ma di stabilire quali possono essere state le caratteristiche fondamentali per la nascita della vita e di ottenere dati sperimentali sui principi fisici che hanno spianato la strada al processo della nascita e della prima evoluzione della vita. La conoscenza della fisica assume un’importanza fondamentale per lo studio dell’energia ed il suo trasferimento in strutture molecolari da cui si sono poi evolute le prime forme viventi.

D’altra parte, numerosi scienziati, tra i quali S. Arrhenius, a cavallo dei due secoli precedenti, e F.H Crick, uno degli ideatori, nel 1953, del modello spaziale della doppia elica del DNA, ammettono che la vita non abbia mai avuto una propria origine e che essa sia sempre esistita come proprietà della materia. Particolari molecole e macromolecole provenienti dallo spazio possono moltiplicarsi e colonizzare i corpi celesti soltanto se su questi esistono condizioni ambientali compatibili con la vita intesa come macchina funzionante. L’evoluzione prebiotica

I tentativi fatti per imitare la vita sono ancora poca cosa rispetto al tempo di tre miliardi e mezzo di anni, trascorso dalla sua origine.

Nessuno può dire di sicuro quali fossero le condizioni atmosferiche o terrestri in quel momento o quale fosse la molecola che oltrepassò la soglia critica tra la chimica organica e la biologia.

Una delle prime interessanti ricerche che ha avuto come obiettivo l’ottenimento di dati sperimentali sulle condizioni ambientali che possono aver determinato l’insorgere della vita è stata quella di S. L. Miller nel 1953, un neolaureato ventitreenne dell’Università di Chicago.

Tra i numerosi e fondamentali problemi che bisogna prendere in considerazione nello studio dell’origine della vita, vi è il modo in cui possono essersi formate le prime proteine in un mondo privo di vita. In un apposito pallone, con all’interno due elettrodi, fu introdotta una miscela di metano, ammoniaca, idrogeno ed acqua, prodotti che probabilmente potevano costituire l’atmosfera terrestre primitiva (brodo primordiale).

L’acqua del pallone fu portata all’ebollizione e la miscela di gas fu sottoposta per una settimana a continue scariche elettriche. Il vapore acqueo trascina con sé i prodotti che si sono

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formati dalla reazione dei tre gas e sono raccolti in un apposito tubo. Dopo 24 ore dall’inizio dell’esperimento, circa la metà del carbonio originariamente presente nel gas metano è trasformato in aminoacidi ed in altre molecole organiche. Nella figura 2 è riportato schematicamente l’esperimento.

Fig. 2 – Esperienza di Stanley Miller. Apparecchio originale in cui fu compiuto l’esperimento (A) e corrispondente schema dell’apparecchio (B): fatto il vuoto nell’apparecchiatura, una miscela di metano, ammoniaca ed idrogeno viene introdotta nel pallone (2); l’acqua del pallone (1) viene portata all’ebollizione ed il vapore viene spinto nel senso delle frecce; nel pallone (2), contenente la miscela di gas che simula l’atmosfera primitiva, viene fatta passare una scarica elettrica per una settimana; il vapore d’acqua trascina con se i prodotti della reazione che subiscono un raffreddamento (3); i composti che si formano sono raccolti nel tubo a U (4), che può essere paragonato ad un oceano primordiale.

In questo modo fu ottenuta la sintesi di parecchi aminoacidi (i mattoni costitutivi delle

principali macromolecole biologiche) e non può essere una coincidenza non significativa il fatto che proprio alcuni di questi sono quelli più importanti presenti negli organismi viventi.

Numerosi altri studiosi hanno confermato questi esperimenti, con la scoperta che è possibile ottenere aminoacidi anche a seguito della modificazione della miscela iniziale, sostituendo ad esempio il metano con l’ossido di carbonio o l’anidride carbonica. E’ stata

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ottenuta la sintesi degli aminoacidi in condizioni abiologiche artificiali attraverso l’impiego di diversi tipi di radiazioni come quelle α, β, γ ed ultraviolette o con l’impiego del calore. Dal grande successo ottenuto con la sintesi artificiale degli aminoacidi con metodi diversi, si deduce che questi composti organici possono essersi formati in molti ambienti terrestri prima della nascita della vita.

Se è stato relativamente semplice la dimostrazione che gli aminoacidi possono prodursi secondo procedimenti abiologici, molto più limitato è risultato l’ottenimento delle proteine per sintesi prebiologica. E’ stato dimostrato che un poli-α-aminoacido, costituito da residui di glicina, poteva ottenersi per condensazione di aminoacetonitrile senza formazione intermedia di aminoacidi ed è stato proposto che questa preproteina possa essere servita come precursore per la sintesi di polimeri molto più complessi, come le proteine. Tuttavia, nonostante sia stato possibile introdurre in questa proteina primordiale altre forme aminoacidiche, i prodotti ottenuti non si sono mai avvicinati alla complessità delle proteine oggi conosciute.

Una convinzione che viene condivisa dalla maggior parte dei ricercatori è che la materia deve aver preso vita da una serie di tappe, tutte molto probabili. Questa interpretazione risale a Darwin il quale ipotizzò che la vita abbia avuto inizio quando alcune sostanze attivate dal calore, dalla luce o da scariche elettriche cominciarono a reagire con altre, generando composti organici di complessità via via crescente e suggerì una spiegazione del perché oggi non si possa veder balzare la vita fuori da sostanze inanimate. Un qualsiasi organismo primitivo, scrisse, verrebbe istantaneamente distrutto o assorbito da quelli più evoluti.

La versione sostenuta da Miller è anch’essa esprimibile secondo i concetti darwiniani. La vita ebbe inizio quando alcuni composti, oppure una categoria di sostanze fu capace di replicarsi secondo un processo tale da dare origine, di tanto in tanto, a degli errori ereditabili, in conseguenza dei quali sono state prodotte nuove generazioni di molecole capaci di copiare se stesse con maggiore efficienza rispetto a quelle parentali.

Negli anni che seguirono il classico esperimento di Miller, le proteine sembrarono essere i migliori candidati al ruolo di prime molecole in grado di autoreplicarsi, poiché erano in grado di riprodursi ed anche di organizzarsi. Un grande sostegno a questa ipotesi prese corpo verso la fine degli anni cinquanta quando S.W. Fox e K. Harada, scaldando a secco miscugli di aminoacidi con acido aspartico ed acido glutammico in sufficiente quantità, riuscirono ad ottenere delle aggregazioni sferiche costituite da polimeri contenenti 18 aminoacidi che si trovano comunemente nelle proteine. Tali polimeri, detti proteinoidi, hanno un elevato peso molecolare, sono digeribili dagli enzimi proteolitici e possiedono deboli proprietà catalitiche. Per tali caratteristiche e per altre ancora, i proteinoidi sono assimilabili qualitativamente alle attuali proteine. I proteinoidi , tuttavia, rimangono tali nel tempo e non riescono ad evolvere o a riprodursi. Diversi altri ricercatori, in particolare C.A. Ponnamperuma dell’Università del Maryland, ripartendo dagli studi di Fox e Harada hanno tentato di ottenere proteine in grado di replicarsi senza gli interventi di acidi nucleici.

E’ opinione comune che gli acidi nucleici, come il DNA, siano da ritenersi, attualmente, i più idonei al ruolo di prime molecole capaci di autoreplicazione. La difficoltà è rappresentata dal fatto che il DNA non può svolgere i propri compiti, compresa la formazione di ulteriore DNA, senza la presenza di proteine catalitiche quali gli enzimi. In altre parole, le proteine non possono formarsi senza DNA, ma neppure il DNA può prendere origine senza la presenza di proteine.

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A questo dilemma dettero una plausibile risposta gli esperimenti condotti, all’inizio degli anno ottanta, dai biologi molecolari T.R. Cech dell’Università del Colorado e S. Altman della Yale University. Era stato ipotizzato che la prima ad autoreplicarsi possa essere stata una molecola di RNA, ma nessuno aveva dimostrato in che modo essa possa efficacemente dar luogo a delle copie di se stessa senza la presenza di enzimi. I due ricercatori scoprirono che certi tipi di RNA potevano comportarsi come enzimi nei confronti di se stessi, tagliandosi in due e ricucendosi nuovamente.

Una tale scoperta valse ai due studiosi, nel 1989, il premio Nobel e fu subito colta dai ricercatori interessati al problema dell’origine della vita. Se le molecole di RNA possono agire come enzima, potrebbero anche replicarsi senza l’aiuto delle proteine. Fu introdotto, da W. Gilbert dell’Università di Harvard, il termine “mondo a RNA”, per cui i primi organismi consistevano di semplici molecole di RNA autoreplicantisi. La loro evoluzione indusse la capacità a sintetizzare le proteine, che favorivano una replicazione più rapida, ed i lipidi che potevano formare una membrana cellulare. Successivamente questi prebiotici ad RNA formarono le prime molecole di DNA che avrebbe costituito un più sicuro deposito di informazione genetica.

In laboratorio sono stati riprodotti con successo i diversi momenti di questa evoluzione. J.W. Szostak ed altri ricercatori hanno costruito speciali molecole di RNA capaci di agire come enzimi di restrizione, ossia di tagliare e poi saldare tra loro le diverse molecole, loro stesse incluse, per molte volte di seguito. Altri ricercatori, in particolare M. Eigen del Max Planck Institut di Gottinga, dimostrano sperimentalmente come la molecola di RNA, protagonista in questa vicenda evolutiva dell’origine della vita sul nostro pianeta, sia capace di adattarsi e di evolversi e sia potenzialmente capace di generare nuovi elementi biologici.

Fig. 3 – Possibile schema di evoluzione prebiotica attraverso un mondo a RNA.

Questo effetto è stato chiamato “evoluzione diretta” ed è schematicamente rappresentato nella figura 3, dove, attraverso un mondo a RNA, lo stesso acido ribonucleico si forma dal ribosio e da altri composti organici (a), si evolve apprendendo al capacità della replicazione (b), inizia a sintetizzare proteine dotate di capacità catalitiche (c), le quali aiutano il nucleotide a

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replicarsi ed a sintetizzare nuove proteine caratterizzate da una maggiore efficienza ed a costruire versioni a doppio filamento di se stesso che poi evolveranno in DNA (d), il quale assumerà una posizione preminente nell’utilizzare le molecole di RNA per costruire ulteriori proteine che, a loro volta, aiutano lo stesso DNA a produrre copie di se stesso ed a trasferire l’informazione genetica allo stesso RNA (e).

Questo antico mondo prebiotico, formato da molecole di RNA poteva aver rappresentato un ponte tra la chimica dei composti semplici ed i prototipi di quelle cellule complesse, la cui sopravvivenza nel tempo è assicurata dal DNA che costituisce il patrimonio ereditario degli attuali organismi. Queste cellule, secondo alcune testimonianze fossili, sarebbero comparse durante il primo miliardo di anni che seguì la formazione del nostro pianeta, databile intorno a 4,5 miliardi di anni.

L’attento esame della teoria del “mondo a RNA” pone il quesito principale di come possa essersi formato il primo RNA.

La molecola di RNA ed i suoi componenti sono difficili da sintetizzare in laboratorio, anche nelle migliori condizioni sperimentali e tali difficoltà saranno state ampiamente amplificate in un mondo primordiale, prima dell’origine della vita.

In particolare, la sintesi dello zucchero chiave dell’acido ribonucleico, il ribosio, produce tutta una serie di altri zuccheri che potrebbero inibire la replicazione dello stesso RNA. Inoltre, non è chiaro perché il fosforo, un elemento relativamente raro in natura, sia così fortemente rappresentato nella molecola di RNA e DNA. La sintesi in laboratorio di RNA può ottenersi, ma la sua replicazione può avvenire soltanto in determinate condizioni che non è detto che si siano verificate all’epoca dell’origine della vita.

Alcuni ricercatori e tra questi L.E. Orgel ritengono che qualche molecola più semplice e forse del tutto diversa possa aver spianato la strada per la sintesi di RNA. L’identificazione di questo composto non è facile ed un gruppo di ricercatori, coordinato da J. Rebek, lavorando intorno a questo problema ha condotto un’ampia sperimentazione che ha portato, intorno alla metà degli anni novanta, alla sintesi di nuove molecole organiche in grado di autoreplicarsi. Molecole autoreplicanti

Le molecole, naturali o sintetiche, riescono a replicarsi quando le loro forme e le loro proprietà chimiche sono dotate di complementarietà.

Una molecola, in virtù di come occupa lo spazio e di come i suoi atomi o gruppi atomici sono distribuiti al suo interno, può posizionarsi nei recessi e negli angoli reconditi di un’altra molecola. L’adattamento ottimale tra due molecole complementari dipende così non soltanto dalla struttura spaziale delle molecole, ma anche dai differenti tipi di legami chimici che le tengono unite in gruppi. Questi gruppi o complessi si formano e si dissociano rapidamente, nello spazio di frazioni infinitesime di secondo, in tempi molto brevi ma sufficientemente lunghi da permettere lo svolgimento di reazioni chimiche.

Le forze che tengono uniti i complessi, spesse volte più deboli dei legami covalenti che si stabiliscono tra gli atomi nelle molecole, sono costituiti dai legami idrogeno, dalle forze di van der Waals e dall’impilamento aromatico.

Il legame a idrogeno o legame polare si forma quando un atomo di idrogeno dotato di una carica parziale positiva è attratto da una atomo di ossigeno che ha una carica parziale negativa.

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Le forze di van der Waals sono quelle che si stabiliscono tra due molecole, quando gli elettroni di una riescono a spostare quelli dell’altra, creando uno squilibrio di carica e stabilendo tra i due complessi delle forze di attrazione.

Il terzo tipo di attrazione, quello dell’impilamento aromatico, si stabilisce tra le superfici piane di molecole cicliche aromatiche le quali si avvicinano le une alle altre, ponendo a contatto diretto le loro facce piatte e venendo a stabilire una configurazione più stabile. Si viene a stabilire una repulsione per il solvente in cui tali molecole si trovano, per cui lo stesso solvente non può interporsi tra le superfici molecolari combacianti che risultano così protette, poiché solventi in grado di danneggiarle, acidi, basi, ossidanti in soluzione, non sono in grado di raggiungerle. Allora legami covalenti forti hanno il tempo di congiungere le parti complementari e, talvolta, soltanto due su tre molecole di un complesso formano un legame, mentre la terza serve semplicemente a facilitare il processo. Il ricorso a forme concave e convesse può essere utile per rappresentare schematicamente il tipo di accoppiamento descritto. Una superficie molecolare concava può riconoscere e circondare il proprio complemento convesso e può fungere da stampo per assemblare la molecola convessa a partire dalle sue parti componenti. Reciprocamente la molecola convessa può costituire uno stampo per riunire e fondere insieme le parti componenti della molecola concava. Si ottiene, in pratica, che ciascuna molecola forma l’altra e questi due tipi di replicazione costituiscono un bi-ciclo.

Nella figura 4 è indicata la rappresentazione schematica del riconoscimento molecolare di due frammenti, con proprietà geometriche e chimiche complementari, fra i quali il solvente che s’interpone viene eliminato, con conseguente stabilizzazione del complesso neoformato. Si realizza un accoppiamento di due molecole complementari con attrazioni elettrostatiche dei segni opposti.

Fig. 4 – Semplice accoppiamento di due molecole complementari con attrazioni elettrostatiche

indicate con i segni + e -. Questo tipo di accoppiamento riproduce uno schema abbastanza diffuso di replicazione che è quello preferito dal DNA.

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Nella figura 5 è schematicamente rappresentato un bi-ciclo di replicazione coinvolgente due molecole che hanno forme complementari rappresentate da due elementi in cui il primo si inserisce nel secondo.

Fig. 5 – Bi-ciclo di replicazione in cui l’elemento A raccoglie le due parti di B attorno a sé per formare un complesso; le parti reagiscono tra loro formando un elemento B intero per poi dissociarsi velocemente (ciclo a sinistra). L’elemento B riunisce i frammenti dell’elemento A in modo che le due molecole complementari catalizzano ciascuna la formazione dell’altro (ciclo a destra).

Un modello alternativo di replicazione è rappresentato da due molecole complementari

all’interno di un complesso che si uniscono in qualche punto che non si trova sulla superficie di riconoscimento, con la formazione di un’unica molecola di cui un’estremità è complementare dell’altra e l’insieme è complementare di se stesso.

Fig. 6 – Se due molecole complementari A e B, anziché inserirsi l’una nell’altra come avviene in un bi-ciclo, si uniscono in corrispondenza di un altro sito di reazione formando una molecola autocomplementare, ha luogo un’autoreplicazione. La molecola assembla copie delle forme originarie e le trattiene in modo che anch’esse possano reagire per dare origine ad una copia di sé stessa.

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Le superfici di riconoscimento alle estremità di questa nuova molecola

autocomplementare sono ancora accessibili ad altre molecole e possono catturare, ciascuna, un frammento identico a quello che si trova all’altra estremità. Una volta catturate, queste due nuove componenti non possono più muoversi liberamente e si spostano insieme nello spazio e le probabilità che si uniscano l’una all’altra sono molto potenziate. In tal modo, l’entità autocomplementare produce una copia e, identicamente, molte copie di sé. Non sono necessari enzimi poiché è la stessa molecola che catalizza la propria formazione (figura 6).

Fig. 7 – Una molecola autocomplementare (ARNI) riunisce i componenti di cui ha bisogno per

replicarsi: una molecola di adeninribosio ed una molecola di naftalenimmide. Gli aloni colorati indicano gli atomi coinvolti nei legami a idrogeno.

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E’ stato proprio questo il metodo che J. Rebek, nel 1994 ha utilizzato in laboratorio per produrre molecole che fossero in grado di reagire l’una con l’altra in modo da richiamare alla mente il mondo vivente. Quando sono associate insieme in un complesso, l’adenina e l’immide si uniscono mediante legame covalente e formano una molecola autocomplementare. L’inserimento tra l’adenina e l’immide di una molecola di naftalene (più voluminosa e più rigida) al posto della catena a legami singoli e di un gruppo di ribosio ciclico, quale unità di collegamento meno flessibile, ha lo scopo di impedire che la lunga catena di atomi di carbonio, quale risultante struttura autocomplementare, si ripiegasse su se stessa senza associarsi ad altre molecole e senza replicarsi. La nuova molecola ottenuta è stata l’adeninribosonaftalenimmide (ARNI) che offrì uno dei primi esempi di autoreplicazione (figura 7).

Tuttavia, l’ARNI non andava incontro ad un accrescimento secondo una curva sigmoide, tipico degli acidi nucleici. Per ottenere ciò si è dovuto inserire una superficie per l’impilamento leggermente più lunga, cioè un bifenile al posto del naftalene per avere così una nuova molecola sintetica che si autoreplica autenticamente, cioè l’adeninribosobifenlimmide (ARBI). L’ARBI, però, pur essendo in grado di replicarsi, è una molecola capace di fare copie soltanto di se stessa, mentre un prodotto ereditabile tipico degli organismi viventi, affinché possa dar luogo ad un processo evolutivo, deve poter sintetizzare di tanto in tanto altre molecole in grado di svolgere una migliore attività duplicativa e dar luogo a variabilità.

E’ stato necessario ottenere, per impostare uno schema che potesse dare un’idea di come la vita ha avuto origine sul nostro pianeta, una molecola che catalizzasse non soltanto la propria formazione, ma anche quella di una molecola di forma simile, tuttavia dotata di una maggiore capacità di replicazione.

Rebek e collaboratori hanno progettato molecole in grado di fare “errori”, di subire, in altre parole, delle mutazioni, cioè delle modificazioni strutturali e biochimiche sotto l’azione di cause ambientali, come, per esempio, le radiazioni ultraviolette. Si trattava di simulare in laboratorio quello che probabilmente accadde sul nostro pianeta qualche miliardo di anni fa, quando si verificarono le condizioni che determinarono la nascita della vita.

In chimica organica, si verifica un “errore” quando i reagenti non possiedono selettività. Per produrre un’ipotesi più o meno valida sulla nascita della vita bisognava disporre di una molecola che catalizzasse non soltanto la propria formazione, ma anche quella di una molecola di forma simile. Inoltre, almeno una di queste due molecole doveva essere in grado di trasformarsi in un’altra dotata di maggiore capacità di replicazione.

Gli studi condotti sul DNA da Watson e Crick dimostrarono l’esistenza di due siti dell’adenina dove si formano i legami a idrogeno: un sito lungo il cosiddetto spigolo di Watson e Crick, che è interessato nella replicazione del DNA, ed un sito presente lungo lo spigolo di Hoogsteen, una parte del DNA che rimane normalmente esposta, anche se a volte è congiunta in eliche triple. Orbene, le immidi di Rebek possono attaccarsi in corrispondenza dell’uno o dell’altro spigolo e se uno degli idrogeni del gruppo amminico (–NH2) dell’adenina, per l’appunto interessato nel legame a idrogeno, viene sostituito da un gruppo di maggiori dimensioni, quest’ultimo blocca l’accesso allo spigolo di Watson e Crick, mentre lo spigolo di Hoogsteen rimane ampiamente accessibile. Infatti, quando un gruppo metilico (–CH3) si unisce all’adenina, si rileva che oltre 85% dei recettori delle immidi si lega lungo lo spigolo di Hoogsteen.

Utilizzando il cambiamento della velocità di replicazione, conseguenza del blocco dello spigolo di Watson e Crick, sono state ottenute due diverse molecole di adenina: una con un

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gruppo benzilossicarbonilico (Z), bloccante nella sintesi delle proteine, ed un’altra con lo stesso gruppo al quale era stato aggiunto un radicale –NO2 (Z–NO2). Ciò allo scopo di assemblare sullo stampo una molecola alterata di adenina ed un’immide, con gruppi bloccanti penzolanti in siti lontani dal punto dove si forma il legame covalente, così che la sintesi potesse svolgersi indipendentemente dall’identità dei gruppi, poiché Z ad un’estremità non sapeva se il gruppo bloccante all’altra estremità poteva essere Z oppure Z-NO2. Prendendo ancora in considerazione la molecola autoreplicante ARBI, questa è stata modificata in ZARBI (con molecole di adenina contenenti il gruppo Z) e ZNARBI (con molecole di adenina provviste del gruppo Z-NO2), due molecole in grado di autoreplicarsi lentamente e di compiere “errori”. Infatti, una catalizza la propria formazione e funge da stampo per l’assemblaggio dell’altra, mentre quest’ultima catalizza la propria formazione e quella della prima.

Va anche detto che l’addizione di molti gruppi può portare alla formazione di molecole autoreplicanti in grado di compiere “errori”, tuttavia –NO2 si comporta in modo particolare, poiché è facile rimuoverlo con irraggiamento mediante particolari lunghezze d’onda nell’ultravioletto.

Una volta staccato il gruppo Z-NO2, lo spigolo di Watson e Crick diventa accessibile, la nuova molecola diventa più leggera ed è possibile trovare una corrispondenza oltre che lungo lo stesso spigolo anche verso quello di Hoogsteen con un raddoppiamento dell’efficienza di autoreplicazione.

Le ricerche di Rebek e collaboratori hanno così portato alla realizzazione di una versione chimica della mutazione, con un cambiamento strutturale permanente, ereditabile, che influisce sulla capacità di sopravvivenza di un organismo o del suo analogo, come in questo caso, la molecola autoreplicante.

Inoltre, come forse avvenne nelle condizioni ambientali all’origine della vita, le modificazioni nella struttura di una molecola autoreplicante possono essere causati da variazioni termiche, acidità, salinità, radiazioni e molti altri fattori.

Facendo competere i derivati adeninici contenenti i gruppi Z e Z-NO2 per una quantità limitata del recettore bifenilico complementare, una volta avvenuto il consumo completo del recettore, il recipiente di reazione è stato irradiato con luce ultravioletta della lunghezza d’onda di 350 nm.

Dopo alcune ore di irradiazione i gruppi bloccanti Z-NO2 sono stati tutti rimossi, sia dalle molecole autoreplicanti ZNARBI, sia dai loro progenitori adeninici. In altre parole, le molecole ZNARBI sono state tutte trasformate in molecole ARBI e le molecole di adenina contenenti i gruppi Z-NO2 sono diventate semplicemente adenina.

Era stata ottenuta una vera mutazione, sollecitata da un cambiamento dell’ambiente. Le molecole ZARBI e la Z-adenina sono rimaste inalterate, ma a seguito dell’aggiunta di altro recettore bifenilico, la molecola ARBI, prodotto dell’irradiazione, diventa loro concorrente e prende il completo e rapido sopravvento nell’utilizzazione delle risorse del sistema, sia perché di forma più affusolata, sia per il vantaggio di replicarsi lungo lo spigolo di Watson e Crick e quello di Hoogsteen, ambedue privi di gruppi bloccanti.

Nella figura 8 viene riportato lo schema di ottenimento di molecole autoreplicanti e mutanti, quando una molecola di adenina, provvista di un qualunque gruppo supplementare (ad esempio un gruppo Z o Z-NO2) si unisce con una molecola di bifenilimmide, formando una molecola autocomplementare.

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Fig. 8 – Ottenimento di molecole mutanti autocomplementari a partire da adenina, provvista di un gruppo R, e da bifenilimmide. R può essere un gruppo Z o Z-NO2, il che dà luogo ad una molecola ZARBI o NZARBI, rispettivamente. Quest’ultima può fissare una molecola di adenina soltanto lungo lo spigolo di Hoogsteen e non con lo spigolo di Watson e Crick, poiché questo è bloccato dal gruppo R, e fonderla con una molecola di bifenilimmide. La molecola NZARBI realizza così la catalisi della propria formazione, oltre a quella della molecola competitrice.

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Diventa ora possibile proporre una semplice spiegazione evoluzionistica. Supponendo che la molecola ZARBI sia la molecola origine, la sua replicazione comporta necessariamente la presenza di una Z-adenina e del recettore bifenilico. Addizionando acido nitrico, alcune molecole di Z-adenina acquistano il gruppo Z-NO2 e vanno a costituire molecole ZNARBI le quali si autoreplicano con maggiore efficienza del predecessore ZARBI. Con l’irraggiamento di luce ultravioletta si verifica un’altra modificazione per la quale ZNARBI si trasforma nella molecola ARBI più semplice ed efficiente, poiché dimostra la migliore autoreplicazione.

La mutazione è il fenomeno più efficiente in quasi tutti i processi evolutivi, ma anche la ricombinazione assume importanza fondamentale nell’evoluzione. Due cromosomi possono dividersi, scambiarsi filamenti di DNA e ricongiungersi, combinando in tal modo anche i loro caratteri.

La mutazione induce piccoli singoli cambiamenti, mentre la ricombinazione permette l’ottenimento di ibridi che sono molto diversi dai loro genitori. Orbene, gli studi di Rebek e collaboratori, allo scopo di dimostrare la ricombinazione a livello molecolare, hanno condotto alla produzione di un insieme di molecole autoreplicanti completamente nuovo. Due molecole complementari vengono unite da un legame covalente per dare origine ad una struttura autocomplementare capace di agevolare la propria sintesi. Specificamente, sono state ottenute molecole autoreplicanti basate sull’adenina e sulla timina le quali, introdotte nello stesso reattore, sono state in grado di rimescolare le proprie componenti in nuove combinazioni ed alcuni dei prodotti della ricombinazione, la diamminotriazinxantentimina (DIXT) e l’adeninribosotimina (ART) hanno dimostrato di essere molecole dotate di autoreplicazione, in particolare la seconda è stata la molecola autoreplicante più prolifica mai incontrata, mentre un’altra, la diamminotriazinxantenbifenilimmide (DIXBI) non riusciva affatto a replicarsi, mostrando caratteristiche, per così dire, di sterilità.

L’efficienza autoreplicante di ART si può spiegare col fatto che questa molecola assomiglia molto ad un segmento di DNA che, probabilmente, è la molecola che si autoreplica nel migliore dei modi fra tutte quelle esistenti. Il ribosio di cui è provvista dà luogo ad una configurazione molto utile allo scopo, poiché rende le superfici di riconoscimento parallele le une alle altre. L’elevata affinità dell’adenina per la sua complementare timina permette, inoltre, la formazione di un complesso che si assembla senza difficoltà.

L’inefficienza nell’autoreplicazione di DIXBI è legata alla sua conformazione molecolare globale, poiché questa è costituita da due molecole a forma di U, unite da un distanziatore bifenilico rigido che induce una struttura complessiva a forma di C o a S.

Nella prima forma le superfici di riconoscimento sono affacciate all’interno, dove non c’è spazio sufficiente per la formazione di un complesso autoreplicante.

Nella seconda forma le superfici di riconoscimento sono molto distanziate, per cui, quando si forma un complesso, le parti reattive sono troppo distanti l’una dall’altra e non riescono ad unirsi tramite un legame covalente.

Ciò spiega perché la DIXBI, pur essendo una molecola autocomplementare non è capace di autoreplicazione.

Un insieme relativamente piccolo di molecole può, pertanto, originare un vero albero genealogico di molecole dotate della peculiarità dell’autoreplicazione. Nella figura 9 viene rappresentato lo schema di un albero genealogico di molecole autoreplicanti, per cui una soluzione con frammenti molecolari complementari può generare alcune molecole che si autoreplicano diverse tra loro.

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Fig. 9 – Rappresentazione di un albero genealogico di molecole capaci di autoreplicazione. L’adenin ribosio e la bifenilimmide producono l’ARBI e se la soluzione, una sorta di brodo primordiale, contiene anche diamminotriazinxantene e timina avviene la sintesi anche di ART, DIXT e DIXBI. La prima molecola è la più prolifica delle quattro, mentre l’ultima è assolutamente sterile.

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Alcune di queste molecole si autoreplicano con buona efficienza, mentre un ramo dell’albero si estingue per assenza della capacità autoreplicante.

Molto interessante sarebbe la reale possibilità che le molecole sterili, frantumate in parti, potessero dar luogo a raggruppamenti chimici che le molecole con elevata capacità di autoreplicazione sarebbero in grado di utilizzare a loro vantaggio. Dalle molecole autoreplicanti ad un modello di cellula primordiale

Un altro evento importante per la comparsa della vita è la costruzione di una membrana capace di operare una separazione spaziale tra gli aggregati di molecole e l’ambiente. In altri termini, le conquiste evolutive, raggiunte da un sistema attraverso apposite sintesi biochimiche, sono vanificate se vi è la libera circolazione delle macromolecole e dei loro prodotti che altrimenti verrebbero condivisi dai loro competitori. La membrana impedisce, inoltre, la penetrazione dall’esterno di molecole in grado di disorganizzare il programma abbozzato, operando da barriera grazie alla sua continuità spaziale ed alla sua particolare struttura fisico-chimica. La natura lipoproteica, infatti, rende la membrana altamente isolante ed impermeabile alle molecole idrofile ed a quelle di grosse dimensioni, anche se tale funzione di impermeabilizzazione non è assoluta, nel senso che la stessa membrana,con una certa selettività, può far passare o trasportare molecole appartenenti alle più diverse categorie, presupposto essenziale al mantenimento della vita della cellula.

Gli eventi che hanno condotto alla formazione della membrana sono sconosciuti e tra le tante teorie ce n’è una che chiama in causa complessi che sono detti coacervati (figura 10).

I coacervati, secondo A.I. Oparin possono ottenersi in laboratorio dissolvendo una proteina in acqua. Se si aggiunge un acido si osserva l’intorbidamento del liquido dovuto alla comparsa di migliaia di piccole goccioline, per l’appunto i coacervati, visibili al microscopio e del diametro compreso tra 0,5 e 2.000 nm, che si formano per l’esistenza sulle macromolecole di cariche elettriche che attirano l’acqua.

I coacervati sono delimitati all’esterno da un evidente strato con carattere di membrana, attraverso il quale possono verificarsi scambi in maniera selettiva.

Fig. 10 – Gocce di coacervato, ottenuto mescolando gelatina e gomma arabica (a sinistra) ed addizionando RNA ad un istone.

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Fig. 11 – Lo schema di formazione delle microsfere distinto in quattro tappe. La prima comporta la presenza di gas costituenti l’atmosfera primordiale (anidride carbonica o metano, ammoniaca, acqua ed idrogeno); questi subiscono una condensazione e danno luogo alla seconda tappa con formazione di aminoacidi; un successivo addensamento degli amminoacidi genera la terza tappa con formazione dei proteinoidi; infine la quarta tappa che produce microsfere dotate di membrane limitanti e di gemme. Nelle due microfotografie è possibile osservare delle microsfere (A), ottenute da S.W. Fox, nelle quali è ben visibile la membrana, le quali stanno producendo un processo formativo delle gemme (B).

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Questi modelli di cellule sono molto interessanti, poiché è possibile che simili aggregati

selettivi di macromolecole si siano formati negli oceani primordiali. S.W. Fox e S. Yuyama sono riusciti ad ottenere coacervati a partire da proteinoidi, preparati per via termica per immersione in soluzioni saline calde.

Fenomeni analoghi, svoltisi in un cosiddetto brodo primordiale, avrebbero permesso la formazione di aggregati colloidali complessi e coacervati, le cui dimensioni avrebbero superato da 200 a 1.000 volte quelle delle singole macromolecole. Queste ultime si sarebbero concentrate in punti localizzati nella massa fluida, fino alla comparsa dell’individualità. Ciascun coacervato o microsfera o micella, gradualmente, avrebbe avuto a disposizione un proprio ambiente interno in cui sarebbero avvenute le principali reazioni chimiche attraverso l’assorbimento, regolato da una membrana rudimentale, di materiale organico dalla soluzione acquosa esterna. Ciascuna goccia, da questo momento, avrebbe seguito un differente cammino: avrebbe potuto evolversi o estinguersi (figura 11).

La successiva evoluzione delle microsfere avrebbe portato ad intravedere i primi passi di un rudimentale metabolismo. Esse si sarebbero orientate verso una graduale organizzazione in semplici sistemi aperti, capaci di scambiare energia e materia mediante processi di diffusione ed osmosi attraverso le membrana, con passaggio preferenziale di alcune molecole come l’acqua, gli zuccheri semplici, gli aminoacidi, prefigurando così i primi processi nutritivi, probabilmente di tipo eterotrofo.

Uno degli attributi chiave della vita è una delimitazione rappresentata dalla parete di un contenitore e, specificamente, di una cellula che separi l’interno dall’esterno ed impedisca alle molecole utili di essere portate via, mentre le molecole che non interessano vengono tenute sotto controllo.

E’ noto che i virus utilizzano come contenitore un involucro proteico di molte copie identiche di una sola unità proteica.

Le unità sono autocomplementari, ma le loro superfici di riconoscimento sono orientate in modo che esse si assemblano in un involucro chiuso.

Il capside virale è costituito da molte copie identiche di una proteina, poiché il genoma virale non possiede una quantità di informazioni adeguata per il coinvolgimento di diverse molecole.

Rebek e collaboratori hanno pensato ad un progetto molto semplice basato sulla struttura di una palla da tennis.

Tagliata lungo la cucitura, essa dà luogo a due metà identiche, le cui estremità convesse sono complementari come forma alle parti centrali concave.

E’ stata sintetizzata, in laboratorio, una struttura che imita le forme dei pezzi della palla da tennis e possiede una complementarietà chimica, con unità che si adattano bene tra loro con legami a idrogeno lungo la cucitura (figura 12).

Una molecola sintetica è stata creata per adattarsi bene all’interno, tuttavia, altri ostacoli si interpongono affinché possa dimostrarsi sino in fondo che un simile progetto possa aver realmente dato luogo all’origine di una struttura vivente. In particolare, è molto difficile dimostrare come un simile pseudorganismo possa trarre energia e da dove, cioè dalla luce o da altre molecole, ed ancora ci si chiede come possono essere reintegrate le parti componenti delle molecole autoreplicanti ed i loro contenitori.

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Fig. 12 – Ipotesi della palla da tennis sull’origine della membrana cellulare, vale a dire di un

contenitore autoreplicante di molecole autoreplicanti in grado di separare l’interno dall’esterno. Sulla destra viene indicata la rappresentazione di una molecola che, assemblandosi con la propria gemella, dà origine ad una sfera cava in grado di contenere molecole autoreplicanti.

Questi esperimenti starebbero a significare che le conoscenze dei concetti intimi che

stanno alla base della vita e della creazione siano prossimi ad essere svelati, mentre le cose non stanno proprio in questi termini e si può sostenere logicamente che la vita è così complessa che potrebbe essere stata creata da un inventore intelligente e la spiegazione possa essere ancora correlata all’esistenza di un Creatore.

Anche se si riuscisse a creare in laboratorio qualcosa dotato di proprietà simili alla vita, rimarrebbe sempre in sospeso la domanda se le cose andarono effettivamente in quel modo. La risposta è molto difficile dal momento che la tettonica delle zolle, il vulcanismo e l’erosione hanno cancellato la maggior parte delle tracce risalenti al primo miliardo di anni del nostro pianeta. Basti pensare che per stimare l’età della Terra bisogna rivolgersi alle meteoriti che si presume siano relitti dell’era in cui il sistema solare si condensò da una nube di gas e polvere e che il tasso di decadimento radioattivo osservato nelle stesse meteoriti indica che esse, e così la Terra, hanno approssimativamente un’età di 4,5 miliardi di anni.

La vita è il prodotto più straordinario scaturito dall’interazione tra sistemi complessi. Lo sviluppo di un organismo vivente è il frutto di una serie articolata di rapporti reciproci che coinvolgono un gran numero di componenti diverse. Queste componenti, o sottosistemi, sono a loro volta costituiti da elementi molecolari più piccoli, ciascuno dei quali, indipendentemente dagli altri, mostra un comportamento dinamico tipico, come, per esempio, la capacità di catalizzare reazioni chimiche. Quando questi elementi sono combinati insieme in unità funzionali più grandi ne scaturiscono nuove ed imprevedibili proprietà come la capacità di accrescersi, di nutrirsi, di moltiplicarsi e di reagire agli stimoli. L’unità funzionale dotata di queste caratteristiche e che rappresenta la chiave per capire come funziona la vita è la cellula ed il fenomeno per il quale diverse componenti si uniscono per formare strutture stabili più grandi, dotate di proprietà inedite rispetto a quelle delle singole componenti, è noto come autoassemblaggio. La cellula è l’unità fondamentale della vita, poiché tutti gli organismi viventi,

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siano essi batteri, animali o vegetali, sono costituiti da cellule e la loro conoscenza rappresenta la chiave per capire la struttura e la funzione delle piante e degli animali. La cellula

La cellula fu osservata fin dal 1674 quando l’olandese A. van Leeuwenhoek gettò lo sguardo in uno dei microscopi a lente singola che egli stesso aveva costruito, scoprendo un universo del tutto nuovo ed affascinante. Lo studioso olandese inconsapevolmente inaugurò l’era della microscopia, in un’epoca nella quale l’ottica non si era ancora sviluppata in una vera e propria scienza. Egli costruì da solo oltre 500 microscopi e per mezzo di questi strumenti ancora rudimentali riuscì ad osservare molte strutture cellulari, scoprì l’esistenza dei globuli rossi del sangue e degli spermatozoi e descrisse anche batteri, protozoi, cellule vegetali e funghi.

I primi organismi cellulari che apparvero sul nostro pianeta, all’incirca 3,7 miliardi di anni fa, erano di dimensioni microscopiche e formati da una sola cellula. Essi erano molto simili ad alcuni batteri attuali. Le cellule di questo tipo sono classificate come procarioti perché prive di un nucleo ben delimitato, contenente il meccanismo genetico responsabile dell’ereditarietà dei caratteri. I procarioti ebbero un grande successo e, grazie alla loro straordinaria capacità di evoluzione e di adattamento, diedero origine ad una grande varietà di specie ed invasero ogni forma di habitat che il mondo aveva da offrire.

Le forme viventi del nostro pianeta sarebbero ancora costituite totalmente da procarioti se non fosse intervenuto un processo straordinario che dette origine ad un tipo di cellula molto diverso, la cellula eucariote, dal greco eu che significa bene e karyon che vuol dire nucleo, provvista di un nucleo vero e proprio. Le conseguenze di questo avvenimento furono straordinarie ed oggi tutti gli organismi pluricellulari sono formati da cellule eucarioti, molto più complesse e con più elevate possibilità evolutive dei procarioti.

In un mondo senza cellule eucarioti non sarebbe stata possibile l’esistenza di un’intera variegata schiera di organismi vegetali ed animali e non sarebbero esistiti neppure gli esseri umani a godere di questa diversità ed a penetrarne i segreti. La cellula procariote ed eucariote

L’evoluzione della cellula fino al tipo eucariote si realizzò, con ogni probabilità, a partire da antenati procarioti. E’ difficile dire come questo avvenne poiché nessun intermedio di questa transizione è sopravvissuto oppure ha lasciato fossili in grado di fornire indizi diretti. L’unica cosa che è possibile osservare è il prodotto finale di questo processo evolutivo, cioè qualcosa di straordinariamente diverso da qualsiasi cellula procariote.

Per valutare un simile percorso di evoluzione bisogna comprendere le diversità tra i due tipi fondamentali di cellule.

Le cellule procarioti sono molto più piccole di quelle eucarioti, poiché hanno un volume 10.000 volte minore. L’aspetto più evidente che distingue la cellula procariote da quella eucariote è la presenza, in quest’ultima, del nucleo nel quale gran parte del DNA è contenuto nei cromosomi dalla struttura molto complessa. Nei procarioti tutto il materiale genetico è contenuto nell’unico cromosoma, costituito semplicemente da un filamento circolare di DNA, immerso nella massa citoplasmatica.

Negli eucarioti sono presenti, nella regione che circonda il nucleo e che costituisce il citoplasma, una serie elaborata di compartimenti, con funzioni molto diversificate, delimitati da membrane. Nello stesso citoplasma vi sono gli elementi scheletrici, che conferiscono alla cellula

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eucariote un sostegno strutturale, mentre alcuni piccoli motori molecolari permettono il rimescolamento del proprio contenuto ed anche movimenti di spostamento.

Le membrane che inducono la compartimentazione delle cellule eucarioti, osservate al microscopio elettronico, appaiono molto simili nei vari organismi animali e vegetali. Esse sono costituite da tre strati, cioè da due strati scuri, ciascuno dello spessore di circa 250 nm, separati da uno strato chiaro dello spessore di circa 35 nm.

Gli eucarioti si distinguono ulteriormente dai procarioti per la presenza di migliaia di strutture specializzate subcellulari, gli organelli, aventi dimensioni all’incirca di una cellula procariote.

Anche gli eucarioti unicellulari, come per esempio i lieviti e le amebe, sono provvisti di numerosi organelli e di complicate strutture interne che fanno di essi, a differenza dei procarioti, organismi dotati di un’enorme complessità.

Una caratteristica molto importante della cellula eucariote è la proprietà della differenziazione per la quale, nello stesso organismo, cellule geneticamente uguali possono assumere forme e funzioni molto diverse e dotate di alta specificità. Possono, in tal modo, formarsi i diversi tessuti ed organi con un’esaltazione delle proprietà tipiche delle diverse specie animali e vegetali.

Queste sono soltanto alcune delle differenze tra le cellule procariote e quelle eucariote, poiché esse sono ancora più numerose e concettuali.

Le cellule eucarioti vegetali presentano delle loro particolari caratteristiche ed una loro trattazione, come ripetizione ed anteprima, viene ora effettuata allo scopo di conoscere le loro principali strutture ed alcune delle loro funzioni meglio conosciute.

LA CELLULA VEGETALE La cellula vegetale è costituita da una parete più o meno rigida e da un protoplasto.

Quest’ultimo è formato dal citoplasma e dal nucleo. Il citoplasma comprende un certo numero di entità definite, dette organelli, che

comprendono i ribosomi, i microtubuli, i plastidi ed i mitocondri, oltre a sistemi di membrana quali il reticolo endoplasmatico ed i corpi del Golgi.

Nella figura 13 è possibile osservare lo schema ed una microfotografia di una cellula vegetale.

Guardando la microfoto è evidente la forma regolare e rigida della cellula vegetale, dovuta alla presenza di una struttura esterna alla membrana, la parete cellulare.

Sempre nella stessa foto sono evidenti i plasmodesmi che collegano tra loro i protoplasti di cellule contigue. Dallo schema della figura si può osservare come, in una cellula vegetale adulta, il citoplasma, contenente il nucleo ed i vari organelli, sia una sottile lamina tutta attorno al vacuolo.

La cellula vegetale possiede molte strutture che sono proprie peculiarità come i cloroplasti, il vacuolo, la parete ed i microcorpi. In particolare, la presenza del cloroplasto, propria del sistema plasmidiale della cellula vegetale, rende possibili quei processi di crescita delle piante e quel tipo di nutrizione e di metabolismo cellulare (assimilazione del carbonio e dell’azoto ed emissione di ossigeno nell’atmosfera) che permettono il mantenimento della vita sul nostro pianeta.

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Fig. 13 – Microfotografia di una tipica cellula vegetale adulta, con schema tridimensionale e bidimensionale nei quali cercano di identificarsi alcuni degli organelli cellulari.

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Nello studio della fisiologia della cellula vegetale sono ora esaminate le principali strutture cellulari rappresentate dal contenitore, cioè la parete cellulare, dalle membrane, dal citoplasma, dai mitocondri, dai plastidi, dai microcorpi, dal vacuolo.

PARETE CELLULARE

La parete cellulare è una struttura tipica delle sole cellule vegetali delle quali ne avvolge il protoplasto. Di quest’ultimo ne determina la forma e lo protegge dagli eventuali traumi e conseguenti danni.

Per comprendere una delle più importanti funzioni della parete basta ricordare che le cellule vegetali potrebbero subire, a seguito dell’assorbimento e della perdita d’acqua, forti variazioni di volume.

La parete cellulare costituisce un involucro sufficientemente resistente e tale da difendere la stessa cellula dai danni che altrimenti deriverebbero dalla variazione della pressione di turgore. In particolare, con la plasmolisi, che si verifica quando la cellula vegetale viene immersa in una soluzione sufficientemente concentrata di saccarosio o di qualsiasi altro soluto (ad esempio cloruro di sodio), si ha fuoriuscita di acqua dal protoplasto, con conseguente contrazione dello stesso. Ma la cellula continua a mantenere la propria forma per un certo tempo ed il rapido ripristino delle normali condizioni di tonicità del liquido extracellulare permette la riassunzione dell’acqua ed il ritorno al normale turgore.

Fig. 14 – La parete cellulare esercita un’azione di sostegno e di stabilità della forma della cellula (A). Ad esempio, quando il contenuto si contrae per plasmolisi (B), la parete consente alla cellula il mantenimento della propria forma ed impedisce che possa afflosciarsi, almeno in tempi brevi, anche quando il protoplasto si contrae vistosamente per una grande differenza di concentrazione tra i liquidi intra ed extracellulari (C).

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La figura 14 riporta lo schema della plasmolisi ed evidenzia il mantenimento della forma

originaria della cellula, nonostante la contrazione del contenuto. Analogamente, grazie alla presenza della parete, le cellule vegetali possono sopportare le

continue variazioni di concentrazione dei liquidi esterni, come i cambiamenti di potenziale osmotico del terreno (in cui le piante alloggiano le loro radici), come accade quando un terreno secco viene bagnato dalla pioggia o da un intervento di irrigazione.

La parete cellulare difende la cellula dalle azioni traumatiche causate dagli eventi meteorici (una pioggia battente, la grandine), dagli animali (particolarmente gli erbivori) e dai parassiti che, per utilizzare le sostanze nutritive della cellula, debbono prima lesionarla e distruggerla.

La parete svolge una funzione di sostegno della cellula e dell’intera pianta, poiché permette il mantenimento di una certa pressione di turgore che consente alla pianta di mantenersi eretta.

La mancanza d’acqua produce appassimento ed avvizzimento della pianta e conseguente afflosciamento.

La parete cellulare può subire ispessimenti parziali (ad esempio soltanto in corrispondenza degli angoli), come avviene nelle cellule dei tessuti collenchimatici e ciò conferisce grande flessibilità e resistenza all’organo che di tali tessuti è dotato (ad esempio il picciolo delle foglie). Ma può anche completamente lignificarsi (le cellule morte dei tessuti sclerenchimatici e del legno delle piante arboree), conferendo alla struttura tissutale un’enorme resistenza e consentendo alle piante di crescere fino a raggiungere dimensioni colossali (si pensi all’enorme sviluppo di certe querce e dei baobab).

Un tempo era opinione diffusa che la parete cellulare fosse soltanto un prodotto esterno ed inattivo del protoplasto, un semplice contenitore, mentre oggi sono state accertate delle funzioni specifiche, essenziali non solo alla cellula ed al tessuto di cui essa fa parte, ma anche all’intero organismo vegetale.

Nelle piante, infatti, le pareti cellulari intervengono in molti processi fisiologici e fra questi l’assorbimento ed il trasporto dell’acqua e dei soluti, la traspirazione, il differenziamento, le secrezione e l’escrezione di alcune sostanze e rappresentano siti di attività dei lisosomi e dell’attività di degradazione e di decomposizione di alcune molecole. Composizione chimica della parete cellulare

La composizione chimica della parete cellulare è complessa e variabile in rapporto all’età di sviluppo della cellula ed al tipo di tessuto cui appartiene.

La parete è costituita da sostanze ternarie (formate da carbonio, idrogeno ed ossigeno), quali la cellulosa, le emicellulose e le sostanze pectiche, e da sostanze quaternarie, cioè le proteine.

La cellulosa rappresenta il polisaccaride della parete cellulare e della struttura extracellulare delle piante più abbondante nel mondo vegetale.

Essa è costituita da molecole formate da lunghi polimeri di glucosio destrogiro (D-glucosio, che ruota a destra la luce polarizzata) con legami β(1→4).

Si ricorda, a tal proposito, che le forme α e β del D-glucosio non sono strutture a catena aperta, ma strutture ad anello a sei atomi di carbonio, ottenute dalla reazione del gruppo alcolico secondario dell’atomo di carbonio 5 con il gruppo aldeidico del carbonio 1.

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Queste strutture ad anello sono chiamate piranosiche perché derivate dal composto

eterociclico del pirano. La forma α del D-glucosio presenta l’ossidrile del carbonio 1 a destra nella formula di

proiezione, mentre la forma β lo presenta a sinistra:

HCOH HOCH ⏐ ⏐ HCOH HCOH ⏐ O ⏐ O HOCH HOCH ⏐ ⏐ HCOH HCOH ⏐ ⏐ HC HC ⏐ ⏐ CH2OH CH2OH α-D-glucosio o α-D-glucopiranosio

β-D-glucosio o β-D-glucopiranosio

Le forme isomere di monosaccaridi, che differiscono tra loro soltanto per la configurazione intorno all’atomo di carbonio carbonilico, sono dette anomeri e l’atomo di carbonio è chiamato carbonio anomerico.

Naturalmente, le forme α e β presentano proprietà fisiche molto diverse. La forma α devia il piano della luce polarizzata con un angolo di + 112,2°, ha un punto di

fusione di 146 °C, una solubilità, in 100 mL d’acqua, di 82,5 g, una velocità relativa d’ossidazione da parte della glucosio-ossidasi pari a 100.

La seconda, la forma β ha una rotazione specifica di + 18,7°, fonde a 150 °C, ha una solubilità di 178 g, ha una velocità di ossidazione da parte dello stesso enzima inferiore all’unità.

Queste differenze si ripercuotono profondamente e determinano le diversità tra l’amido e la cellulosa.

Il peso molecolare minimo della cellulosa proveniente da fonti diverse è stato stimato tra 50.000 e 2.500.000 in specie diverse, equivalente (considerato che il peso molecolare del glucosio è 180) a 278-14.000 residui di glucosio.

L’analisi della diffrazione ai raggi X indica una struttura fisica variabile, con catene elementari riunite in fibrille in cui si distinguono le maglie cristalline separate le une dalle altre da zone amorfe (figura 15).

In corrispondenza delle maglie, le catene sono saldamente unite, probabilmente, dai ponti idrogeno e dalle forze di Van der Waals, mentre nelle zone amorfe i legami sono meno forti.

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Fig. 15 – Le pareti cellulari sono costituite da fili lunghi ed interconnessi, le macrofibrille, tanto grandi (diametro di 0,5 μm e lunghezza di 4 μm) da poter essere viste al microscopio ottico. Queste sono costituite da fasci di fibre più piccole, le microfibrille, visibili solo al microscopio elettronico e larghe da 10 a 25 nm. Alcune porzioni delle microfibrille, le micelle, sono disposte in maniera ordinata conferendo alla cellulosa delle proprietà cristalline. Si osserva un frammento di micella con tratti di molecole di cellulosa con una disposizione a maglia. Le micelle, rappresentate da catene di cellulosa, sono chimicamente strutturate secondo la formula riportata in basso.

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Ogni microfibrilla risulta formata da un fascio di 40-300 lunghi polimeri (ogni polimero è una molecola di cellulosa). La struttura particolarmente robusta e resistente delle microfibrille dipende dai legami idrogeno che si stabiliscono tra i singoli polimeri di cellulosa (figura 16). Questa particolare struttura conferisce alla cellulosa una resistenza pari a quella di una lamina di acciaio di uguale spessore.

Fig. 16 – Due lunghi polimeri di cellulosa saldamente uniti dai legami idrogeno.

Tali caratteristiche fisiche, chimiche, strutturali e la presenza d’altri componenti determinano anche il comportamento biologico della cellulosa.

Nelle pareti cellulari delle piante, le fibrille di cellulosa sono stipate fittamente in fasci paralleli regolari intorno alla cellula e spesso sono sistemati in strati incrociati (figura 17).

Fig. 17 – Superficie della parete cellulare di una cellula vegetale nella quale è possibile osservare le fibrille di cellulosa che si intersecano tra loro conferendo grande resistenza.

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Queste fibrille sono cementate tra loro da una matrice, che occupa gli spazi interfibrillari

ed è costituita da tre materiali polimerici: l’emicellulosa, la pectina e l’estensina. Il legno contiene un’altra sostanza polimerica, la lignina, che costituisce quasi il 25% del suo peso secco.

Le emicellulose non sono simili strutturalmente alla cellulosa, ma sono così chiamate perché, come questa, hanno, all’incirca, le stesse difficoltà di estrazione. Le emicellulose sono polisaccaridi costituiti da xilani, β-glucani, xiloglucani, arabinogalattani, glucurono-arabinoxilani, ramnogalatturonani ed altri.

Gli xilani delle piante contengono legami β(1→4) tra residui di D-xilosio (un monosaccaride aldeidico pentoso) e si formano da UDP-D-xilosio (uridina difosfato D-xilosio), secondo il seguente schema:

UDP-D-xilosio + (D-xilosio)n → UDP + (D-xilosio)n + 1

catena preesistente catena allungata Si ricorda che l’uridina difosfato D-xilosio è un ribonucleoside 5’-fosfato, indicato nello schema seguente, in cui la base azotata è l’uracile:

Nello schema successivo è rappresentato il legame β(1→4) che si stabilisce tra due molecole di D-xilosio:

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ed è proposta la struttura di una porzione di una molecola di xiloglucano di una parete cellulare:

Il numero di residui di glucosio in una molecola completa di xiloglucano è compreso tra 15 e 30. I legami glucosidici sono glucosio-β(1→4)-glucosio; xilosio-α(1→6)-glucosio; galattosio-β(1→2)-xilosio e fucosio-α(1→2)-galattosio.

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Va ricordato che, in generale, i polisaccaridi sono detti glicani e consistono in monosaccaridi legati insieme da legami glucosidici. Essi sono classificati in omopolisaccaridi ed eteropolisaccaridi, a seconda che siano costituiti da un solo tipo di monosaccaridi o da più tipi. Anche se le sequenze di monosaccaridi e polisaccaridi possono in linea di principio variare come quelle delle proteine, essi sono in effetti composti soltanto da pochi tipi di monosaccaridi che si alternano in sequenze ripetitive. Orbene, i β-glucani sono polimeri del β-D-glucosio con legami sia β(1→3), sia β(1→4) glucosidici. Il β-D-glucosio differisce dall’α-D-glucosio per la posizione nello spazio, nella forma piranosica, dei gruppi ossidrili, come è evidenziato nel seguente schema:

α-D-glucosio D-glucosio β-D-glucosio Analogamente i galattani sono polimeri del galattosio. Nella composizione chimica della

parete cellulare sono presenti gli arabinogalattani, polimeri di L-galattosio con frequenti residui laterali di D-arabinosio, singoli o in brevi catene. Nello schema di seguito riportato si ricordano le formule di L-galattosio e di D-arabinosio, nelle forme α e β e si propone la struttura dell’arabinogalattano:

α-L-galattosio L-galattosio β-L-galattosio

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α-D-arabinosio D-arabinosio β-D-arabinosio

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L’arabinogalattano può collegarsi, per un’estremità, con le proteine della parete cellulare ed in particolare con residui di serina di glicoproteine ricche in idrossiprolina. Inoltre, questo polimero plisaccaridico è caratterizzato dalla presenza di un residuo terminale di ramnosio di cui si riportano le forme piranosiche di α-L-ramnosio e di β-L-ramnosio, con al centro la catena lineare:

α-L-ramnosio L-ramnosio β-L-ramnosio

I glucurono-arabinoxilani sono costituiti da acido glucuronico, xilosio e arabinosio. Dei primi due si riportano le strutture nello schema seguente:

acido β-D-glucuronico β-D-xilosio Le emicellulose, che insieme alla cellulosa vanno a costituire l’impalcatura della parete

cellulare, sono abbastanza eterogenee poiché, come si è visto, contengono un gran numero di monosaccaridi polimerizzati in modo più o meno complesso con catene principali e secondarie di varia lunghezza. Tuttavia, le emicellulose, al pari della cellulosa, sono ordinatamente distribuite e si trovano a stretto contatto con le fibrille cellulosiche, costituendo un manicotto amorfo e spingendosi negli spazi sottostanti, dove, in particolare gli arabinogalattani, si collegano con le proteine.

Le sostanze pectiche sono delle macromolecole che derivano dalla polimerizzazione dell’acido α-D-galatturonico, i cui gruppi carbossilici possono essere liberi o bloccati da gruppi metossilici o acetilici. Nel primo caso si hanno gli acidi pectici che rappresentano una riserva di cariche elettriche negative le quali possono essere neutralizzate da cationi calcio, magnesio e potassio, per formare pectati di calcio, di magnesio e di potassio, rispettivamente, mentre nel secondo caso si hanno le pectine in senso stretto. Queste catene sono abbastanza lineari e ciascuna forma un omogalatturonano, in cui le molecole di acido α-D-galatturonico sono

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connesse da legami acido galatturonico-α(1→4)-acido galatturonico e presentano i gruppi carbossilici bloccati da gruppi –COO- o –COCH3.

Le sostanze pectiche della parete cellulare in molti casi possono contenere molti altri monosaccaridi, come il ramnosio, il galattosio, l’arabinosio, che vanno a costituire strutture più complesse le quali possono essere esaminate mediante un’idrolisi parziale e successiva separazione cromatografica. I ramnogalatturonani sono tra le sostanze pectiche più comuni. In seguito si ricorda la formula di struttura dell’acido α-D-galatturonico e si riporta la struttura polimerica di un omogalatturonano e del ramnogalatturonano (quest’ultima proposta da Talmadge e collaboratori) della parete di una cellula vegetale:

acido α-D-galatturonico

omogalatturonano

ramnogalatturonano

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In particolare, i ramnogalatturonani formano una struttura a zig-zag nella quale è possibile individuare 3 bracci che vanno a costituire una forma ad Y. Il primo è formato da una sequenza di ramnosio, cui seguono approssimativamente 8 molecole di acido galatturonico, quindi una molecola di ramnosio; i legami sono ramnosio-α(1→4)-acido galatturonico, acido galatturonico-α(1→4)-acido galatturonico che costituisce le regioni omogalatturoniche, acido galatturonico-α(1→2)-ramnosio. Il secondo braccio è dato dalla sequenza ramnosio-α(1→4)-acido galatturonico-α(1→2)-ramnosio. Il terzo braccio è un galattano oppure un arabinano, formato ciascuno da sequenze di galattosio ed arabinosio, ognuno dei quali si lega al carbonio 4 del ramnosio che chiude la regione omogalatturonica.

Le sostanze pectiche possono facilmente essere estratte dalle pareti cellulari, per bollitura o a seguito di un trattamento con sostanze chelanti, sotto forma di acidi pectici o pectati di calcio, poco solubili e con tendenza a precipitare. E’ quello che capita quando si immerge un frutto in acqua bollente, assistendo al suo rammollimento, per perdita di pectina dalle pareti cellulari insieme alla trasformazione di zuccheri complessi in zuccheri semplici.

Le molecole di acido pectico possono aggregarsi in macromolecole di grandi dimensioni per costituire una protopectina nella porzione di parete cellulare che separa due cellule figlie ottenute da una divisione cellulare. La resistenza di queste pectine può variare con la formazione o meno di ponti covalenti fra residui fenolici, spesso presenti nelle sostanze pectiche. In particolare, tra i residui aromatici prevale l’acido ferulico che è noto perché agisce da coenzima per l’IAA-ossidasi, un enzima che degrada e disattiva l’acido indolacetico (IAA), un vero ormone auxinico delle piante capace di indurre crescita dei tessuti vegetali. Quindi, i legami delle pectine possono influenzare la capacità di dilatazione ed estensione delle pareti cellulari e regolare e controllare l’accrescimento delle cellule. Un aumento di acido ferulico incrementa l’attività della IAA-ossidasi che inattiva e rimuove l’IAA, con conseguente riduzione dell’accrescimento cellulare; al contrario, l’assenza o la diminuzione di acido ferulico riduce l’attività e la sintesi della IAA-ossidasi e, quindi, per l’incremento di IAA si ottiene un incremento di crescita cellulare con dilatazione e distensione della parete della cellula.

Un aspetto pratico della conoscenza della fisiologia delle sostanze pectiche della parete cellulare riguarda la conservazione dei frutti. La maturazione dei frutti carnosi implica numerosi cambiamenti, come la diminuzione del contenuto in clorofilla e la formazione di pigmenti che ne cambiano il colore (invaiatura), ma soprattutto la diminuzione della consistenza, per cui il frutto si ammorbidisce, fino al rammollimento ed al disfacimento. E’ questa una conseguenza della scissione enzimatica della pectina, uno dei componenti della parete cellulare del frutto carnoso, che causa lo scivolamento delle cellule l’una sull’altra. Uno dei principali problemi relativo alla commerciabilità dei frutti carnosi (ad esempio le bacche di pomodoro) è il mantenimento della consistenza per un periodo il più lungo possibile affinché il prodotto possa giungere sulla tavola del consumatore in condizioni ottimali. In numerose esperienze, trattamenti alle bacche di pomodoro con ascorbato di calcio per tempi brevi dell’ordine di grandezza di 2-4 minuti ed alla dose di 0,4% possono prolungare e migliorare la conservazione, riducendo a valori trascurabili gli scarti in magazzino. L’acido ascorbico, infatti, può abbassare il pH del succo del frutto di pomodoro ed inibire, così, l’attività catalitica della poligalatturonasi endogena, responsabile della degradazione delle pectine della parete cellulare durante il processo di maturazione, mentre lo ione calcio può salificare, in seguito alla penetrazione nei tessuti del frutto, gli acidi pectici che si formano durante i processi idrolitici correlati alla

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maturazione. Ne consegue un prolungamento della consistenza di una bacca (figura 18). A tal proposito va anche detto che l’acido ascorbico, insieme ai cationi di ferro trivalente, è un importante cofattore nella biosintesi dell’idrossiprolina, che è un aminoacido fondamentale di quelle glicoproteine strutturali, le estensine, che formano tra loro legami intermolecolari in grado di rafforzare la parete cellulare.

Fig. 18 – Stato di conservabilità di bacche di pomodoro trattate con due livelli quantitativi di ascorbato di calcio, in confronto con il testimone non trattato (da Monopoli e Scaramucci, 1982).

Tab. 1 – Aminoacidi standard. Denominazione e simboli. Denominazione dell’aminoacido

Simbolo a tre lettere Simbolo a una lettera

Alanina Ala A Arginina Arg R Asparagina Asn N Acido aspartico Asp D Cisteina Cys C Glutamina Gln Q Acido glutamico Glu E Glicina Gly G Istidina His H Isoleucina Ile I Leucina Leu L Lisina Lys K Metionina Met M Fenilalanina Phe F Prolina Pro P Serina Ser S Treonina Thr T Triptofano Trp W Tirosina Tyr Y Valina Val V

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Le proteine della parete sono principalmente costituite da polipeptidi ricchi di alcuni aminoacidi, quali l’idrossiprolina, la serina, l’alanina e la glicina. In particolare, una diffusa classe di proteine è rappresentatadall’estensina, una glicoproteina ricca in idrossiprolina che si lega, come già visto, al galattosio terminale dell’arabinogalattano tramite gruppi di idrossiprolina dei residui di serina.

L’idrossiprolina è un aminoacido cosiddetto raro o inconsueto o non standard, derivato dalla prolina, uno dei 20 aminoacidi standard (tabella 1).

L’idrossiprolina, formata da una catena laterale idrofobica (un idrocarburo alifatico, indicato come gruppo R) non polare, viene indicata nel seguente schema:

4-idrossiprolina La sintesi dell’idrossiprolina avviene all’interno della cellula a partire da residui di

prolina. La prolina viene sintetizzata da acido glutamico il cui gruppo γ-carbossilico viene

fosforilato dall’ATP o dal NADPH, analogamente a quanto avviene nella riduzione del 3-fosfoglicerato a gliceraldeide 3-fosfato nell’inverso della glicolisi.

Si forma L-prolina che è anche un inibitore allosterico della reazione di trasformazione del’acido glutamico in semialdeide dell’acido glutamico.

I residui di prolina che si formano, solo dopo la loro incorporazione nella catena polipeptidica, per azione della prolina-4-monossigenasi danno luogo ai residui di 4-idrossiprolina.

Questa ossigenasi a funzione mista (poiché richiede un primo substrato per catalizzare l’inserzione di un atomo di ossigeno e di un secondo substrato che ceda gli elettroni per la

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riduzione ad acqua del secondo atomo della molecola di ossigeno) utilizza acido α-chetoglutarico come coriducente:

Residuo di prolina + O2 + Acido α-chetoglutarico + CoA → Residuo di 4-idrossiprolina +

Succinil CoA + CO2 + H2O

Il Fe3+ e l’acido ascorbico sono necessari cofattori nella trasformazione dei residui di

prolina in residui di idrossiprolina. La somministrazione di ascorbato di calcio per via esogena a frutti carnosi in via di maturazione, oltre a fornire ioni Ca2+, che vanno a costituire ponti tra le molecole di pectina acida rafforzandone i collegamenti (figura 19), rende disponibile acido ascorbico che agisce favorevolmente sulla sintesi di 4-idrossiprolina e, di conseguenza, sull’arrichimento delle estensine nella parete cellulare. Ne deriva una più duratura stabilità della stessa parete, con preservazione del frutto dai fenomeni di rammollimento e miglioramento della consistenza nel tempo.

Le glicoproteine di parete, ricche in idrossiprolina, insieme alle pectine ed alle emicellulose, si modificano ulteriormente nelle cisterne dei dittiosomi del reticolo endoplasmico. Lo scheletro delle glicoproteine è costituito dal polipeptide che si forma dentro le cisterne del reticolo endoplasmatico ruvido. Sui bordi delle cisterne dei dittiosomi, per gemmazione, si formano numerose vescicole di secrezione, le quali sono incaricate del trasporto delle proteine che sono finalmente scaricate nella parete cellulare in fase di crescita.

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Nella figura 19 è riportato lo schema di trasporto del polipeptide dai ribosomi del reticolo endoplasmatico ruvido alle cisterne del dittiosoma. Precisamente, dal reticolo endoplasmatico ruvido, provvisto di dittiosomi (a differenza del reticolo endoplasmatico liscio che ne è privo), si staccano piccole vescicole di transizione che via via si accrescono e vanno a formare le cisterne giovani che costituiscono la faccia in formazione del dittiosoma. Queste cisterne trasformano il loro contenuto, diventano mature e formano, sulla faccia opposta del dittiosoma, la faccia di maturazione formata da cisterne vecchie. Dalla cisterna vecchia prendono origine per gemmazione delle vescicole più grandi, le vescicole di secrezione, nelle quali sono ormai sintetizzate le glicoproteine di parete, che migrano fino alla superficie interna della parete cellulare, nella quale versano il proprio contenuto.

Fig. 19 – Schema di trasporto del materiale della parete cellulare a partire dal sito di formazione:

lo scheletro del polipeptide si è formato nel reticolo endoplasmatico ruvido e viene trasportato - prima mediante le vescicole giovani e poi attraverso le vescicole vecchie secretorie, che non sono altro che le giovani vescicole che sono maturate e nelle quali è avvenuta la modificazione secondaria delle glicoproteine di parete insieme alle pectine ed emicellulose - fino alla membrana plasmatica, alla quale si fondono, per versare il loro contenuto nella parete cellulare in accrescimento.

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L’assemblaggio dei diversi composti costituenti la parete cellulare è schematicamente mostrato nella figura 20, in cui è evidente che le molecole di emicellulosa sono legate alla superficie delle microfibrille di cellulosa da legami idrogeno, che alcune di queste molecole di emicellulosa sono a loro volta legate trasversalmente a molecole acide di pectina da molecole neutre di pectina, che le estensine circondano, collegano e bloccano le microfibrille irrobustendo la parete.

Fig. 20 – Schema di interconnesione fra le microfibrille cellulosiche ed i diversi componenti della parete cellulare.

Infine, si ritiene utile sintetizzare la composizione polimerica centesimale delle pareti di una

sospensione culturale di cellule vegetali che viene riportata nella tabella 2.

Tab. 2 - Composizione polimerica centesimale media delle pareti di cellule vegetali. Componente della parete Pareti cellulari (%)

Arabinano 10 3,6-arabinogalattano 2 4-galattano 8 Cellulosa 23 Proteina 10 Ramnogalatturonano 16 Tetra-arabinosidi attaccati all’idrossiprolina 9 Xiloglucano 21

Totale 99

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Stratificazione della parete cellulare La parete cellulare non è una struttura statica ed inerte e neppure un semplice recipiente

contenente il protoplasma, avente la modesta funzione e tuttavia di vitale importanza, di indurre consistenza e protezione, ma, al contrario, essa mostra un’intensa attività metabolica, interagisce con gli altri comparti e componenti della cellula durante i processi di accrescimento e di differenziamento, mostra un notevole dinamismo per i cambiamenti della composizione chimica a seguito delle stimolazioni esterne ed ambientali.

Lo sviluppo delle cellule vegetali evidenzia che la parete è costituita da due strati: la lamella mediana, più esterna alla cellula, che costituisce la sostanza intercellulare che s’interpone tra due cellule contigue e la parete primaria, più interna. Molte cellule vegetali, in particolare quelle che hanno completato il loro accrescimento, depositano, all’interno della parete primaria, verso il citoplasma, un altro strato che va a costituire la parete secondaria.

La lamella mediana è formata da sostanze pectiche e da proteine e prende origine dalla fusione delle vescicole della piastra cellulare durante la citodieresi, vale a dire quando si ha la divisione del citoplasma durante la mitosi. Durante la formazione della piastra cellulare, vescicole piene di pectine si staccano dai dittiosomi dell’apparato del Golgi e vanno a fondersi lungo l’equatore per formare la nuova lamella mediana.

La parete primaria è lo strato della parete che si è formato durante la crescita cellulare, per coinvolgimento di polisaccaridi non cellulosici secreti dalla cellula durante la formazione della piastra cellulare per mezzo di vescicole dittiosomiche, all’interno e sulla lamella mediana. Oltre alla cellulosa, alle emicellulose ed alle sostanze pectiche, le pareti primarie contengono glicoproteine come le estensine. Le pectine conferiscono qualità plastiche e ciò consente alla parete primaria di distendersi durante l’accrescimento della cellula.

Le cellule giovani in proliferazione, come quelle dei tessuti meristematici e quelle che vanno a riparare lesioni e ferite con la formazione del callo di cicatrizzazione, e le cellule adulte in attività metabolica, come quelle nelle quali avviene la fotosintesi, la respirazione e la secrezione, sono provviste della sola parete primaria. Queste cellule, normalmente, sono capaci di modificarsi morfologicamente, perdere la loro forma cellulare per la quale fanno parte di tessuti specializzati e moltiplicarsi e differenziarsi in nuovi tipi cellulari. Le pareti primarie di queste cellule hanno uno spessore non uniforme, poiché in alcune zone, denominate campi di punteggiature primarie, diventano molto sottili. I plasmodesmi, filamenti di citoplasma che collegano i protoplasti vivi di cellule contigue stabilendo tra loro un rapporto continuo di interscambio, attraversano i campi di punteggiature primarie.

La parete secondaria viene prodotta dal protoplasto all’interno della parete primaria quando la cellula vegetale ha terminato il proprio accrescimento e la stessa parete primaria non ha più bisogno di estendersi in superficie. La presenza della parete secondaria si può considerare un sintomo di invecchiamento della cellula, poiché il protoplasto, dopo la deposizione, spesso muore. Con questo non significa che queste cellule hanno perduto le loro funzioni, anzi, al contrario, vanno a costituire importanti tessuti specializzati nella conduzione della linfa e nel sostegno della pianta e dei suoi organi.

La parete secondaria impartisce alla parete cellulare un notevole aumento della resistenza meccanica e ciò impedisce l’eventuale schiacciamento delle cellule per effetto delle condizioni di elevata tensione che spesso si verificano al loro interno a seguito del flusso di acqua che le attraversa (cellule dei vasi dei fasci vascolari).

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La parete secondaria è ricca di cellulosa ed emicellulose e spesso contiene lignina ed altre sostanze, mentre è priva di pectine e manca di glicoproteine (estensine). Le caratteristiche funzionali della parete secondaria sono rappresentate dall’orientamento ordinato delle microfibrille di cellulosa, che così possono costituire pareti multistratificate laminate, che si osservano, ad esempio, nel legno compensato, o strutture geometriche come le tracheidi spiralate dei tessuti xilematici; dalla presenza di lignina, che impartisce grande consistenza e robustezza ai tessuti che possiedono cellule con pareti secondarie; dalla mancanza di sostanze pectiche che induce rigidezza e limitata possibilità di distensione; dall’assenza delle estensine, che sarebbero inutili qui localizzate, poiché la robustezza della parete è più che sufficientemente impartita dalla lignina. Nella parete secondaria, le fibrille di cellulosa si orientano differentemente tanto che diventa possibile distinguere tre strati (esterno, mediano ed interno) ognuno dei quali è caratterizzato dal fatto che l’angolo, costituito dalla fibrilla e dall’asse principale della fibra di cellulosa, ha un valore costante e specifico e viene usato in merceologia per la valutazione delle qualità meccaniche del materiale. Le catene di cellulosa possono integrarsi ed associarsi con lignina, cere, resine, tannini e pigmenti, in rapporto al tessuto ed alla specie della pianta (figura 21).

Fig. 21 – Catene di cellulosa in strati successivi, in una tipica fibra con elevati depositi di parete secondaria (tre strati). Gli strati sono costituiti da molecole di cellulosa che avvolgono la cellula secondo anelli a spirale.

La parete secondaria non è mai depositata in corrispondenza dei campi di punteggiature

primarie della parete primaria, dove la parete cellulare permane molto sottile e consente d’essere attraversata dai plasmodesmi. La parete secondaria si presenta, pertanto, caratterizzata da depressioni ed assottigliamenti e punteggiature possono formarsi anche dove non si trovano i campi di punteggiature primarie, in corrispondenza di una punteggiatura della cellula contigua.

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La lamella mediana e le due pareti primarie di due cellule vicine sono dette membrana della punteggiatura, mentre una coppia di punteggiatura comprende le due punteggiature delle due cellule contigue più la membrana.

Le cellule provviste di pareti secondarie possono avere una punteggiatura semplice ed una punteggiatura areolata. In queste ultime, e sole in queste, la parete secondaria crea la cavità della punteggiatura (figura 22).

Fig. 22 – Cellula del parenchima, fotosinteticamente attiva, con plasmodesmi in corrispondenza

dei campi delle punteggiature primarie, pareti primarie e lamelle mediane (A); cellule provviste di pareti secondarie e punteggiature semplici (B); punteggiature semplici (C) ed areolate (D) in cellule provviste di pareti secondarie.

Le punteggiature sono, pertanto, delle piccole aree della parete cellulare, il più delle volte

di forma circolare, dove non ha avuto luogo la formazione della parete secondaria (molto meno permeabile all’acqua della parete primaria) e le cellule sono quindi separate soltanto dalla parete primaria. Ciò consente il passaggio dell’acqua tra le trachee o le tracheidi e le cellule circostanti.

In particolare, le punteggiature areolate permettono il passaggio dell’acqua sia attraverso le estremità, di solito inclinate, delle tracheidi, sia attraverso le pareti laterali di esse e dei vasi. Le punteggiature areolate possono modulare il passaggio dell’acqua, nel senso che, nel caso di un eccesso di pressione su uno dei due lati del tracheide, il toro ostruirà l’apertura interrompendo il flusso.

Il toro è una specie di valvola che si forma per rigonfiamento della parete primaria al centro della punteggiatura, laddove la parete secondaria si è fortemente assottigliata, che si chiude quando la pressione da un lato della parete è maggiore che dall’altro.

Nella figura 23 è riportato il particolare schematico di una punteggiatura areolata di un tracheide di conifera.

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Fig. 23 – A: Punteggiatura areolata di un tracheide; il toro consente l’apertura quando la

pressione sui due lati del tracheide è di uguale valore (in basso a sinistra) e si chiude, interrompendo il flusso idrico, quando su uno dei due lati si determina un eccesso di pressione (in basso a destra). B: Fotografia al microscopio elettronico a scansione dei vasi xilematici del caule di cetriolo, caratterizzati da molte punteggiature (da Troughton e Donaldson, 1972).

Fig. 24 – Fotografia, al microscopio elettronico, di plasmodesmi in una sezione longitudinale

(A) e trasversale (B), in un campo di punteggiature primarie di una cellula di una foglia di granoturco (Raven et al., 2000).

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I plasmodesmi (figura 24), come già accennato, rappresentano l’unica soluzione di

continuità della parete cellulare e la sola via di collegamento intercellulare diretto, per il trasporto di materiali da una cellula all’altra. Essi sono sottili canali contenenti filamenti di citoplasma e si trovano sparsi nella parete cellulare o raggruppati in corrispondenza delle punteggiature primarie. Hanno un diametro di 30-60 nm, sono delimitati dalla membrana plasmatica ed attraversati da un tubulo del reticolo endoplasmico, detto desmotubulo, rimasto intrappolato nella piastra cellulare durante la sua formazione, in corso di divisione cellulare. Va anche puntualizzato, però, che i plasmodesmi si formano anche nelle cellule che non subiscono la divisione.

Il trasporto di sostanze da una cellula all’altra attraverso i plasmodesmi è detto trasporto simplastico e simplasto è l’insieme dei protoplasti interconnessi ed i loro plasmodesmi. Al contrario, il trasporto apoplastico è il movimento dei fluidi (acqua e sostanze in soluzione) lungo le pareti cellulari. Il continuum delle pareti cellulari va a costituire l’apoplasto che, pertanto, circonda il simplasto.

I plasmodesmi permettono una comunicazione più efficiente e rapida di quella che avviene con un passaggio indiretto attraverso la membrana plasmatica e la parete della cellula. Il rifornimento nutritivo delle cellule e dei tessuti distanti dalle fonti di approvigionamento può realizzarsi per semplice diffusione, o per flusso di massa attraverso i plasmodesmi, come pure l’entrata e l’uscita di alcune sostanze dai vasi, che trasportano la linfa a lunghe distanze (xilema e floema), può attuarsi attraverso i plasmodesmi.

La dimostrazione che i plasmodesmi collegano cellule adiacenti e consentono il passaggio di sostanze da una cellula all’altra è data da una semplice esperienza. Se s’inietta nel citoplasma di una cellula (ad esempio di uno stame) un colorante fluorescente (la fluoresceina sodica, verso cui la membrana plasmatica è impermeabile), dopo due minuti diventano fluorescenti anche le cellule adiacenti, segno, questo, che il colorante, non potendo attraversare la membrana plasmatica, è passato soltanto attraverso le uniche soluzioni di continuità della membrana, i plasmodesmi. Va tuttavia anche aggiunto che non è ancora noto se i plasmodesmi possono regolare il trasporto intercellulare di sostanze dinamogene e plastiche, anche se essi potrebbero disporre di apposite valvole in grado di farlo.

Attraverso i plasmodesmi avviene anche la diffusione di agenti infettivi delle piante come, per esempio, i virus. Le particelle virali penetrano nelle cellule delle piante ospiti, si replicano, si diffondono nelle cellule vicine ed attraverso il sistema vascolare infettano l’intera pianta (infezione sistemica). Il passaggio dei virus da una cellula all’altra avviene attraverso i plasmodesmi ed i movimenti delle particelle infettive sono resi possibili ed agevolati dalle proteine di movimento (Movement Proteins) che sono codificate dagli stessi virus. Ancora poco conosciute sono le modalità di diffusione dei virus a lunga distanza; tale diffusione, probabilmente, si realizza attraverso l’interazione delle proteine del capside virale con prodotti del floema dotati di elevata specificità. Modificazioni e particolarità funzionali della parete della cellula vegetale

In relazione alle numerose funzioni della parete cellulare, questa può modificarsi nella sua struttura in rapporto all’assorbimento ed alla circolazione dell’acqua e delle sostanze nutritive nella pianta. Queste modificazioni possono avvenire per infiltrazione ed incrostazione di sostanze polimerizzanti tra le fibrille di cellulosa, oppure per apposizione di materiali impermeabili sul lato esterno della stessa membrana.

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L’arricchimento della parete cellulare in lignina avviene per incrostazione e ciò induce alla cellula vegetale ed all’intera pianta un’enorme resistenza meccanica, di sostegno e biologica.

Per questo processo di incrostazione di lignina, le piante possono assumere dimensioni gigantesche e possono creare un efficiente sistema di conduzione della linfa che è lo xilema.

La lignina, dopo la cellulosa, è il più abbondante polimero che si trova nelle piante superiori ed è presente in maggior quantità nelle piante legnose, dove si accumula nella lamella mediana, nella parete primaria e nella parete secondaria dei vasi legnosi che, nel loro complesso, vanno per l’appunto a costituire lo xilema.

La lignina s’infiltra fra le microfibrille di cellulosa rendendo la parete cellulare resistente alle forze di compressione, mentre la cellulosa assolve la funzione di resistenza alle forze di tensione durante l’accrescimento della cellula e sotto l’azione della pressione di turgore.

La lignina si presenta come una sostanza bruna ed amorfa e si evidenzia per la colorazione rossa che assume quando è trattata con una miscela di fluoroglucinolo ed acido cloridrico.

Per il suo elevato peso molecolare (probabilmente oltre 10.000) e per i legami idrogeno dei suoi gruppi ossidrili ai diversi carboidrati e soprattutto alla cellulosa in vari punti, la lignina è difficilmente solubile.

Utilizzando il processo al solfito, è possibile estrarla dal legno a seguito di trattamenti con soluzioni di bisolfito di sodio (NaHSO3) che degradano la lignina in sostanze più semplici solubili in acqua.

Un altro metodo di estrazione della lignina è il processo kraft che consiste nella bollitura della segatura di legno in una miscela di solfuro di sodio (Na2S), carbonato di sodio (Na2CO3) ed idrossido di sodio (NaOH).

Con questo processo vengono liberati sostanze organiche dello zolfo, di odore penetrante, mentre la lignina subisce un profondo processo di demolizione.

Sono questi due processi che vengono impiegati nell’industria cartaria per rimuovere la lignina, la cui presenza darebbe luogo a carta di cattiva qualità per la colorazione giallastra. La lignina rappresenta, così, un importante prodotto di scarto dell’industria della carta e della cellulosa, la cui quantità annua da smaltire nel mondo ammonta a svariati milioni di tonnellate.

Come si è visto, è difficile estrarre la lignina senza scomporla, fino alla degradazione delle sue unità di base e ciò ha reso finora impossibile definire esattamente la sua struttura chimica. Le conoscenze che si hanno in proposito derivano dall’analisi di alcuni composti intermedi che si formano nel ciclo biosintetico della lignina, da cui si è accertata l’esistenza strutturale di alcuni alcoli aromatici, quali l’alcool coniferilico, l’alcool sinapilico e l’alcool p-cumarilico, in particolare nelle piante legnose.

Le lignine di piante erbacee contengono grandi quantità di acidi fenolici, come l’acido p-cumarico e l’acido ferulico i quali si legano fra loro con i rispettivi gruppi alcolici e con l’alcool sinapilico, l’alcool p-cumarilico ed altri.

La via biosintetica che porta alla formazione di lignina è la biosintesi della fenilalanina che dà luogo prima all’acido cinnamico, poi all’acido cumarico e quindi alla lignina.

Nello schema che segue sono indicati i vari passaggi che portano prima alla biosintesi dell’acido corismico, poi della fenilalanina, dell’acido cinnamico, dell’acido cumarico, dell’alcool cumarilico ed infine, per dimerizzazione e polimerizzazione di quest’ultimo, a lignolo e lignina, rispettivamente; di quest’ultima si propone una struttura parziale:

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L’acido corismico rappresenta il crocevia di diverse vie biosintetiche: quella del triptofano

e della tirosina. Dà, inoltre, origine a folati e ubichinoni. L’acido cumarico è il composto di partenza nel processo di polimerizzazione del lignolo e della lignina, ma anche dell’acido caffeico e delle cumarine.

La cutina e la suberina sono polimeri insolubili dei lipidi che fanno parte della struttura della parete cellulare di molti vegetali. Essi costituiscono la matrice di composti lipidici a lunga catena, rappresentati dalle cere le quali conferiscono alla parete cellulare caratteristiche idrofobiche.

La cutina è un polimero eterogeneo costituito in prevalenza da diverse combinazioni di composti di due gruppi di acidi grassi, con 16 e 18 atomi di carbonio, rispettivamente e con uno o più gruppi ossidrilici. Sono, inoltre, presenti piccole quantità di composti fenolici.

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Chimicamente, per circa il 50%, la suberina è costituita da una complessa miscela di acidi grassi a molti atomi di carbonio, di acidi grassi idrossilati, di acidi dicarbossilici e di alcoli a lunga catena. Tutti questi composti presentano quasi sempre più di 16 atomi di carbonio. Il restante 25-50% della suberina totale contiene composti fenolici, fra i quali l’acido ferulico è quello più rappresentato. Per la consistenza della frazione lipidica esiste una certa somiglianza fra cutina e suberina e le differenze sono dovute al tipo di acidi grassi presenti ed al fatto che quest’ultima è provvista di una maggiore quantità della frazione fenolica.

Le cere sono costituite da diversi idrocarburi a lunga catena contenenti anche piccole quantità di ossigeno. Molte cere contengono acidi grassi a molti atomi di carbonio, esterificati con alcoli monoidrici a catena lunga, ma anche alcoli liberi, aldeidi e chetoni con 22-32 atomi di carbonio ed idrocarburi con non oltre 37 atomi di carbonio.

La cutina e le cere o la suberina e le cere, ma particolarmente le cere, vanno a costituire una barriera protettiva che ha lo scopo di prevenire e ridurre la perdita di acqua per evaporazione e di isolare efficacemente organi e tessuti della pianta.

La cutina si deposita, per esempio, in piccoli strati nelle pareti cellulari delle cellule epidermiche delle foglie e dei frutti per formare un tessuto protettivo, la cuticola, che limita notevolmente la perdita d’acqua per traspirazione. In particolare, in corrispondenza delle aree stomatiche esistono adeguati ispessimenti cuticolari che consentono il meccanismo di apertura e chiusura degli stomi, correlato alle variazioni di turgore delle cellule di guardia. Senza la cuticola, la traspirazione nella maggior parte delle specie vegetali sarebbe talmente rapida da provocare la morte delle piante. La cuticola rappresenta, inoltre, un’importante barriera per la protezione delle piante contro agenti patogeni ed eventi traumatici.

Normalmente la cutina e le cere vengono sintetizzate dall’epidermide e vengono poi secrete sulla superficie. Le cere si trovano soprattutto all’esterno della cuticola, dove si accumulano secondo vari modelli, ma possono anche con essa formare un miscuglio.

La cuticola assume un particolare interesse in agricoltura, nella pratica dei trattamenti antiparassitari ed erbicidi, poiché, per la sua idrofobicità, respinge l’acqua di nebulizzazione del fitofarmaco. Per permettere all’acqua del trattamento di bagnare le foglie è necessario aggiungere al fitofarmaco un tensioattivo, detto bagnante, allo scopo di ridurre la tensione superficiale del liquido.

La suberina partecipa alla struttura della parete delle cellule dei tessuti secondari di rivestimento. Tali cellule, a seguito del deposito di suberina, vanno incontro ad un vero e proprio isolamento, con la conseguenza che alla fine esse muoiono, costituendo un tessuto detto sughero. Questo, formato di cellule morte e piene d’aria, ha una funzione d’isolamento e di protezione molto efficace.

La suberina va ad impregnare la parete primaria di un particolare tipo di cellule che costituiscono la banda del Caspary che si trova nell’endoderma, lo strato più interno della corteccia primaria della radice, formato da cellule a stretto contatto fra loro, quindi prive di spazi intercellulari. La banda del Caspary è un ispessimento nastriforme che si trova sulle pareti anticlinali, cioè sulle pareti orientate perpendicolarmente alla superficie delle radici (pareti radiali) e riveste un’importanza fisiologica fondamentale per l’intera pianta. In relazione al fatto che l’endoderma è privo di spazi intercellulari e la banda del Caspary è impermeabile all’acqua, tutte le sostanze del cilindro centrale della radice debbono obbligatoriamente entrare nei protoplasti delle cellule dell’endoderma. Il passaggio dei liquidi e dei soluti può verificarsi

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attraverso le membrane plasmatiche o per mezzo dei plasmodesmi che mettono in comunicazione le cellule dell’endoderma con le cellule della corteccia e del cilindro centrale.

La banda del Caspary impedisce, pertanto, il passaggio delle sostanze attraverso le pareti cellulari e ciò è stato dimostrato nelle radici di granoturco alle quali era stato fatto assorbire lantanio, il cui catione non è in grado di attraversare la membrana plasmatica. L’osservazione al microscopio elettronico mostrava presenza di lantanio soltanto nelle pareti delle cellule della corteccia, segno, questo, che le bande del Caspary dell’endoderma ne avevano impedito il passaggio nel cilindro centrale. Nella figura 25 è visibile il tratto della parete cellulare, più denso, dove è presente la banda del Caspary.

Fig. 25 – Sezione trasversale radiale della parete cellulare di due cellule contigue

dell’endoderma. E’ evidente la banda del Caspary in cui la parete è più densa e le membrane plasmatiche vi aderiscono tenacemente.

Come è stato già accennato, il trasporto dell’acqua si realizza attraverso l’apoplasto o

attraverso il simplasto. Nel primo caso il movimento dell’acqua avviene attraverso le pareti cellulari, mentre nel secondo caso il movimento si verifica da protoplasto a protoplasto attraverso i plasmodesmi. Il trasporto idrico può anche essere misto, cioè via apoplastica-simplastica. L’acqua, pertanto, penetra dal terreno nel pelo radicale, attraversa, via apoplastica prevalentemente, l’epidermide, la rizodermide e la corteccia per giungere alla banda del Caspary dove il trasporto apoplastico è bloccato. La banda del Caspary obbliga l’acqua, che si muove verso lo xilema, ad attraversare la membrana plasmatica ed il protoplasto delle cellule endodermiche (trasporto simplastico) seguendo il passaggio plasmodesmico. Una volta attraversata la banda del Caspary, l’acqua può ancora seguire la via apoplastica nel suo movimento verso il cilindro vascolare (le trachee dello xilema). A livello delle cellule dell’epidermide avviene l’assorbimento attivo degli ioni inorganici che, via simplastica, sono trasportati attraverso la corteccia fino alle cellule parenchimatiche delle trachee nelle quali sono immessi. La figura 26 mostra schematicamente la via di trasporto apoplastico e simplastico dell’acqua e degli ioni inorganici dal terreno fino alle trachee.

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Fig. 26 – Trasporto apoplastico e simplastico dell’acqua e dei soluti attraverso

l’epidermide, la corteccia, l’endoderma e la banda del Caspary, il periciclo, fino ai vasi xilematici (trachee). Notare le cellule della banda del Caspary con le pareti ispessite ed impregnate di polimeri idrofobici (suberina) che hanno la funzione di impedire il passaggio apoplastico dell’acqua e dei soluti dalla corteccia al cilindro centrale della radice e viceversa.

Una particolare modificazione della parete cellulare si trova nelle cellule di trasferimento

(figura 27), comunemente indicate con il termine anglosassone di transfer cells. Osservate al microscopio elettronico, queste cellule presentano una parete a superficie molto sinuosa e con numerose introflessioni che aumentano enormemente la superficie della stessa parete e della membrana plasmatica, consentendo capacità di trasporto molto elevate. Le cellule transfer, infatti, attuano il trasferimento dei soluti a brevi distanze, sono molto diffuse nelle piante dove svolgono la stessa funzione in ogni parte. In particolare, cellule parenchimatiche transfer hanno la funzione di mediare, in parte, i processi di scambio con il floema (linfa “elaborata”) degli elementi minerali e dei soluti organici presenti nel succo xilematico (linfa “grezza”). Si calcola che nelle cellule di trasferimento la superficie di scambio possa decuplicarsi, a parità di volume cellulare, con la conseguenza di un proporzionale aumento della velocità di trasporto. Le transfer cells si trovano in associazione con lo xilema ed il floema di piccole nervature (ad esempio negli ultimi rami di una nervatura fortemente ramificata) fogliari e cotiledonari oppure delle tracce fogliari a livello dei nodi, nelle monocotiledoni e nelle dicotiledoni. Si trovano altresì nei tessuti di alcuni elementi riproduttivi (placenta, sacco embrionale, endosperma), in diverse strutture di secrezione (ghiandole, nettari), nella stele radicale e nei noduli delle radici delle leguminose.

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Fig. 27 – Cellule di trasferimento nella nervatura minore della foglia di una pianta della famiglia delle Asteracee. Le cellule, che si presentano inscurite per il loro citoplasma molto denso, hanno una parete caratterizzata da sinuosità e numerosissime introflessioni che, aumentando la superficie, velocizzano il trasporto dell’acqua e dei soluti (da Gunning e Steer, 1996).

La parete cellulare può subire interessanti modificazioni per opporsi all’ingresso di

microrganismi dannosi alle piante che possono causare l’insorgenza di patologie fino a causarne la morte. Le piante sono esposte all’aggressione di innumerevoli e differenti specie di agenti, causa di infezione ed infestazioni, rappresentati da virus, batteri, funghi, nematodi, acari, insetti. In particolare, un microrganismo per infettare una pianta deve superare le sue barriere difensive ed una volta che ciò è avvenuto la stessa pianta può dar luogo a delle risposte fisiologiche che hanno lo scopo di bloccare la diffusione del patogeno ed evitare di soccombere. Il patogeno può, a sua volta, mettere in atto nuovi meccanismi di virulenza per superare le barriere difensive frapposte dalla pianta. Viene, in tal modo, ad instaurarsi tra pianta e patogeno un complesso rapporto di azioni e reazioni incessantemente presente, con una continua evoluzione dei processi di patogenesi e di difesa delle piante. Ciò porta ad affermare che la sensibilità delle piante alla malattia è un’eccezione e non la norma ed il danno che l’organismo vegetale può ricevere dipende non soltanto dal patogeno, ma anche dall’ambiente, dalla condizione fisiologica della pianta e dall’interazione di tutti questi aspetti.

Un patogeno può penetrare nella pianta attraverso aperture naturali o ferite oppure attraverso le pareti cellulari dopo esserne venuto a contatto ed averle degradate o indebolite. La maggior parte dei batteri e dei funghi fitopatogeni studiati è in grado di produrre, in vitro, enzimi che degradano le pareti cellulari, ma per dimostrare il loro ruolo nella patogenesi è necessario accertarsi della loro presenza nella pianta ammalata. In queste piante è stata individuata la presenza di cellulasi, emicellulasi e diversi tipi di pectinasi che sono in grado di operare la distruzione delle pectine della lamella mediana e conseguente distruzione della parete cellulare. I più importanti enzimi pectici delle malattie sono le endopoligalatturonasi che

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spezzano in modo casuale l’acido poligalatturonico invece di distaccare i singoli residui terminali.

La domanda che sorge è il motivo per il quale questi enzimi della parete, prodotti abbondantemente in coltura dai microrganismi patogeni, sono in grado di degradare soltanto le pareti cellulari degli ospiti sensibili alla malattia e non quelle di tutte le piante. La risposta può essere data considerando diversi meccanismi biochimici messi in atto dalle piante. La cellula, per esempio, può produrre degli inibitori delle endopoligalatturonasi anche se, tuttavia, tali inibitori non sono sufficientemente diversi nelle varie specie e varietà di piante da poter spiegare il fatto che lo stesso patogeno è in grado di attaccare soltanto certe specie o varietà e non altre. Anche le modificazioni nelle pareti cellulari dei tessuti più vecchi, come la formazione di pectati di calcio, possono aumentare la resistenza agli enzimi degradanti le pectine e ciò spiega la resistenza ad alcune malattie per l’invecchiamento della pianta. Un altro meccanismo di resistenza delle piante è la loro capacità di produrre chitinasi che demoliscono le pareti cellulari dei patogeni fungini.

Vi sono, inoltre, prove sperimentali su una precoce reazione di riconoscimento del patogeno da parte della pianta, che può precedere la fase di penetrazione. Così, nella malattia del mal del colletto del tabacco, causata dal fungo Phytophthora parasitica pv nicotiana, quando il promicelio del conidio viene a contatto con le pareti cellulari dell’epidermide radicale delle varietà resistenti, si ha la formazione di vescicole originate dal reticolo endoplasmico e dai dittiosomi, il cui contenuto viene liberato attraverso la membrana plasmatica ed accumulato contro la parete cellulare. Quando l’ifa penetra nella cellula questa muore e le sostanze contenute sulla parete inducono l’inibizione del fungo. Ciò non accade per le cellule sensibili le quali non reagiscono così rapidamente e consentono al fungo di propagarsi ed invadere l’intero tessuto. Questa precoce specificità è causata dalla presenza di proteine simili nell’ospite e nel patogeno. Nelle coppie ospite resistente-patogeno è stato accertato che le proteine dei due individui sono diverse. Tuttavia, il meccanismo del riconoscimento o non riconoscimento delle proteine non è stato ancora completamente chiarito, né è stata accertata la funzione intracellulare delle stesse proteine.

Un altro modello di riconoscimento, questa volta fondato sulla chimica dei carboidrati delle pareti cellulari, si ha, per esempio, quando due individui di sesso opposto (mating types) del lievito Hansenula wingei si incontrano, riconoscendo i carboidrati delle rispettive pareti cellulari. Anche i batteri azotofissatori del genere Rhizobium, che provocano la formazione dei tubercoli radicali nelle leguminose, hanno sulla loro parete cellulare carboidrati differenti da quelli dei ceppi che non inducono la formazione dei tubercoli. Anche i granelli di polline che germinano ed introducono il tubetto pollinico soltanto negli stigmi della stessa specie è stata attribuita al tipo di carboidrati presenti sulla loro parete.

In linea del tutto generale, alcuni componenti delle pareti cellulari producono messaggi chimici capaci di modulare processi fisiologici di fondamentale importanza. Ad esempio, le oligosaccarine, costituite da oligosaccaridi derivati da glucani e pectine, possono essere rilasciate dalle pareti cellulari in condizioni patologiche e stimolare reazioni di difesa e regolare alcuni fenomeni morfogenetici; gli oligogalatturonidi hanno la capacità di inibire alcune risposte ormonali. In particolare, alcuni oligogalatturonidi derivati dalle stesse pectine delle pareti cellulari delle piante, degradate dalle poligalatturonasi fungine, possono agire come elicitori, sostanze, cioè, che durante l’interazione pianta-patogeno, inducono nella pianta l’attivazione di nuovi processi biochimici, con produzione di sostanze che difendono l’organismo vegetale

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dall’aggressione del patogeno. Secondo la teoria del gene per gene è previsto il riconoscimento da parte di un recettore, codificato dal gene per la resistenza della pianta, di un elicitore prodotto dal gene per l’avirulenza del patogeno.

Il prodotto genico del patogeno funziona per evocare la resistenza da parte della pianta ospite e, più specificamente, esso è un enzima coinvolto nella sintesi dello stesso elicitore. Alcuni esempi di elicitori e recettori di membrana sono: l’oligosaccarina che è un recettore da plasmalemma di soia per un β-1,3-β-1,6-eptaglucoside (con 7 monomeri di glucosio o anche frammenti più grandi) prodotto dalle pareti del ficomicete Phytophthora megasperma, che induce reazione di ipersensibilità; la chitina fungina ed i suoi frammenti (a base di N-acetil-glucosammina) stimolano la produzione di fitoalessine (composti fenolici, o terpenoidi, o alcaloidi, dotati di proprietà inibitorie, derivati dal metabolismo secondario, vale a dire la cui sintesi è indotta durante il processo di infezione) in colture cellulari e danno luogo a reazione di ipersensibilità in alcune piante, il cui recettore nel plasmalemma è stato purificato; le proteine elicitrici di reazione ipersensibile come le harpine di diversi batteri fitopatogeni; peptidi prodotti dei geni di avirulenza, come quelli del Deuteromicete, Ifale, Dematiaceo Cladosporium fulvum (così, il peptide AVR9 provoca necrosi fogliare nelle cultivar di pomodoro che contengono il sistema di resistenza nel gene Cf9, che codifica la proteina Cf9, la quale ha la struttura di una protein-chinasi recettoriale).

Infine, molto studiato in Italia è il gene RPS2 di Arabidopsis thaliana, che conferisce resistenza verso Pseudomonas syringae (purché questi abbia il corrispondente gene di avirulenza), la cui proteina RPS2 è transplasmalemma, ha un dominio interno ed un dominio recettoriale esterno per legarsi con il prodotto batterico ed è simile alla regione del ligando dei recettori animali, mentre nella sua porzione esterna è simile all’inibitore PGIP della poligalatturonasi.

Proteine di membrana simili, ma talvolta prive della regione extracellulare, sono conosciute per molte altre piante.

Nello schema seguente sono riportati le formule di alcune oligosaccarine, quali un eptaglucano (derivato dalla parete fungina di Phytophthora megasperma pv glycinea) ed un oligogalatturonide (derivato da pectine vegetali e degradato da poligalatturonasi fungine), che possono agire come elicitori:

Eptaglucano

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Oligogalatturonide In sintesi è possibile affermare che le piante hanno evoluto la capacità di percepire la

presenza dei fitopatogeni e di trasmettere questa informazione all’interno della cellula allo scopo di innescare una serie di risposte in grado di bloccare il processo d’infezione. Per l’attivazione di questi meccanismi è importante il riconoscimento del binomio pianta-patogeno che viene mediato da elicitori prodotti dal patogeno, dalla pianta o da ambedue. Queste molecole elicitrici interagiscono a livello delle superfici di contatto tra i due simbionti antagonisti (ospite e patogeno) per innescare la via della trasduzione del segnale che produce le risposte di difesa della pianta. La maggior parte dei funghi fitopatogeni deve superare la barriera rappresentata dalla parete vegetale e per questo motivo produce una serie di enzimi che degradano i polisaccaridi della parete cellulare. L’azione delle endopoligalatturonasi (PG), enzimi che idrolizzano l’omogalatturano della componente pectica della parete cellulare della pianta, è sovente un prerequisito per la degradazione della parete della cellula vegetale da parte di altri enzimi fungini. La PGIP (polygalacturonase-inhibiting protein) è un inibitore proteico delle poligalatturonasi ed è presente nelle pareti cellulari di molte dicodiledoni. La formazione del complesso PG-PGIP, inibendo l’attività dell’enzima fungino, promuove il rilascio di oligogalatturonidi con grado di polimerizzazione da 10 a 14, attivi come elicitori delle risposte di difesa. La PGIP risulta essere la prima proteina, identificata nelle piante, appartenente alla superfamiglia di proteine caratterizzate dalla presenza di moduli ripetuti ricchi in leucina (LRR). L’analisi della struttura primaria della PGIP ha messo in evidenza un dominio strutturale formato dalla ripetizione in tandem di 10,5 moduli, ciascuno derivato dalla modificazione di un peptide di 24 aminoacidi in cui è mantenuta una distribuzione regolare dei residui di leucina , responsabile della sua interazione con le PG fungine. Le proteine con strutture LRR, distribuite in modo ubiquitario negli organismi viventi, pur svolgendo differenti funzioni, sono specializzate per le interazioni proteina-proteina. La somiglianza strutturale delle regioni LRR riflette l’evoluzione convergente di questo dominio proteico costantemente mantenuto a seguito di pressione selettiva. L’isolamento di numerosi geni di resistenza ha rilevato che alcuni di questi codificano proteine con strutture LRR, omologhe alla PGIP. Questa osservazione indica che le PGIP sono membri di una famiglia di proteine specializzate nell’interazione tra pianta e patogeni. Le PGIP sono il prodotto di geni (pgip) organizzati in famiglie multigeniche. Ad esempio, alcuni membri della famiglia pgip di Phaseolus vulgaris sono stati clonati e caratterizzati ed hanno mostrato che i loro prodotti differiscono soltanto di otto aminoacidi e possiedono differenze significative nel pattern di espressione e nella capacità di inibire le diverse PG fungine.

Sono state descritte alcune specifiche funzioni della parete cellulare e come essa è implicata nei fenomeni di resistenza alle malattie delle piante. Ma una specifica struttura della parete cellulare è possibile osservarla nei granuli di polline dell’antera fiorale. E’ noto che l’antera, dopo la differenziazione, è formata da cellule uniformi ad eccezione dell’epidermide. Poi diventa possibile la distinzione di quattro gruppi di cellule fertili (cellule sporigene), ciascuno dei quali è circondato da diversi strati di cellule sterili che originano la parete

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dell’antera. Lo strato più interno della parete dell’antera si chiama tappeto ed include le cellule nutrici che forniscono sostanze nutritive alle microspore che si sviluppano. Le cellule sporigene diventano microsporociti e subiscono una divisione meiotica (figura 28 A). Ogni microsporocito diploide dà luogo a quattro microspore unicellulari aploidi (tetrade). Ogni divisione meiotica del nucleo può essere seguita dalla formazione della parete (nelle monocotiledoni), oppure ciascun protoplasto può contemporaneamente rivestirsi della parete cellulare dopo la seconda divisione meiotica (nelle dicodiledoni). Si sono, così, formati i granuli di polline, i quali sviluppano una resistente parete esterna (l’esina) ed una parete interna di natura cellulosica (l’entina). L’esina è dura e resistente, spesso è provvista di rilievi che si presentano come una scultura più o meno elaborata, è prevalentemente costituita da sporopollenina, un polimero contenente soprattutto carotinoidi, e deriva in parte dal tappeto ed in parte dalle microspore (figura 28 B). L’entina è depositata dai protoplasti delle microspore ed è composta da cellulosa e pectina.

Fig. 28 – Sezione trasversale di antera immatura del genere Lilium in cui sono visibili le quattro

sacche polliniche dell’antera, contenenti i microsporociti circondati dal tappeto (A). Caratteristica scultura, osservata al microscopio elettronico a scansione, sull’esina di polline del genere Lilium (B).

La struttura della parete assume un ruolo di particolare importanza nelle cellule di guardia,

a proposito della mobilità degli stomi. Questi subiscono, come già accennato, continui movimenti in rapporto alle variazioni di turgore delle cellule di guardia. Quando in queste cellule si verifica un aumento di concentrazione, per accumulo di soluti, si determina un’apertura degli stomi, in relazione al maggior turgore delle cellule di guardia, per richiamo di acqua nel loro interno, rispetto alle cellule epiteliali circostanti. Il meccanismo inverso provoca la chiusura degli stomi, per la diminuzione della pressione di turgore delle cellule di guardia, quale conseguenza di una fuoriuscita di acqua per l’aumento di diluizione. Il turgore delle cellule di guardia aumenta o diminuisce, pertanto, per un meccanismo endosmotico od esosmotico, secondo un gradiente di potenziale idrico dovuto al catione potassio. Lo ione K+,

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misurato quantitativamente con un microelettrodo specifico per questo ione posizionato nel vacuolo delle cellule di guardia di stomi aperti, è stato trovato sempre ad elevata concentrazione, mentre diminuisce in concomitanza alla chiusura stomatica. L’aumento di concentrazione in potassio nelle cellule di guardia causa un passaggio osmotico di acqua dall’esterno verso il vacuolo, con aumento di turgore ed apertura degli stomi; la diminuzione di concentrazione di potassio induce un passaggio osmotico di acqua dall’interno del vacuolo verso l’esterno, con riduzione del turgore cellulare e chiusura stomatica. Il gradiente di potassio tra le cellule di guardia e le cellule adiacenti (6 cellule sussidiarie, di cui 4 laterali e 2 terminali) si modifica rapidamente, generando un movimento idrico, per osmosi, che induce modificazioni del turgore cellulare. L’abbondante movimento del catione potassio, di carica positiva, necessita di anioni, di carica negativa, onde neutralizzare elettricamente il processo ed a tale scopo provvedono gli anioni cloridrico (Cl¯) e malico (COOH-CH2-CHOH-COO¯). Nella figura 29 sono rappresentate le variazioni di concentrazione di K+ nelle cellule di guardia e sussidiarie di un apparato stomatico e nelle adiacenti cellule epidermiche.

Fig. 29 – Concentrazioni di potassio nelle cellule di guardia e sussidiarie (laterali e terminali) di

uno stoma fogliare ed in quelle epidermiche adiacenti, in un apparato stomatico chiuso (A) ed aperto (B).

Dopo questa premessa ci si domanda quale ruolo gioca la struttura della parete delle

cellule di guardia nel movimento stomatico. Due tipi di forze inducono la curvatura delle cellule di guardia, durante l’aumento del turgore e del loro volume, costringendo lo stoma ad aprirsi. La prima è determinata dall’orientamento radiale (detto micellazione radiale) delle microfibrille cellulosiche della parete delle cellule di guardia e dà luogo ad una costrizione che obbliga le cellule stesse ad allungarsi, senza espandersi lateralmente. La seconda forza è posizionata all’estremità delle due cellule di guardia, nel punto dove esse reciprocamente si toccano e mettono in comune la loro parete, immobilizzando questa porzione condivisa e facendole conservare una lunghezza costante durante l’apertura e la chiusura dell’apertura stomatica. L’aumento del turgore cellulare spinge la parete esterna ad incurvarsi verso l’esterno, proprio perché le estremità in comune, inferiori e superiori, sono fisse, cioè non possono spostarsi. Contemporaneamente al movimento di curvatura della parete esterna delle cellule di guardia (mentre le estremità sono fisse), la micellazione radiale trasmette un analogo movimento alla

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parete che delimita la rima stomatica, ossia alla parete ventrale dell’apertura stomatica. Nella figura 30 viene schematicamente riprodotto il meccanismo di apertura e chiusura degli stomi e, ricorrendo all’uso di palloncini, viene dimostrato che la simulazione della micellazione radiale permette una maggiore apertura degli stomi.

Fig. 30 – Schema di una coppia di cellule di guardia: A) disposizione radiale delle microfibrille di cellulosa nelle cellule di guardia; B) palloncini fissati insieme alle due estremità, tenute immobili durante il rigonfiamento; C) palloncini gonfiati sprovvisti dell’effetto della micellazione radiale; D) palloncini gonfiati ai quali sono state applicate strisce di carta adesiva per riprodurre l’effetto della micellazione radiale. L’apertura che si viene a stabilire tra i due palloncini (paragonabile all’apertura stomatica) è maggiore rispetto a quello senza strisce adesive (C).

Crescita della parete cellulare

L’accrescimento della parete cellulare avviene nella doppia direzione dello spessore e della superficie ed ha lo scopo di consentire la crescita della cellula vegetale.

La crescita della parete richiede l’aumento della sintesi delle proteine, della respirazione e dell’assorbimento di acqua da parte della stessa parete cellulare. E’ necessario, tuttavia, distinguere la crescita della parete cellulare che avviene per apporto di nuovo materiale sintetizzato, dal più semplice rilassamento strutturale della parete che ha lo scopo di aumentare l’estensibilità della stessa parete (che diventa più plastica) allorquando la cellula aumenta, accrescendosi, le proprie dimensioni.

Va anche chiarito che i due aspetti sono strettamente correlati, poiché prima aumenta l’estensibilità della parete, poi si verifica la penetrazione di acqua nella cellula provocando la distensione della parete ed, infine, si realizza la sintesi di nuovo materiale che stabilizza la parete distesa e la ricostituisce in modo che possa distendersi ulteriormente.

Fin dal 1971 era noto, presso il laboratorio di Cleland a Seattle, il meccanismo biochimico dell’azione auxinica sulla distensione cellulare. L’auxina non agiva direttamente sulla parete cellulare, bensì nel citoplasma o a livello del plasmalemma e si riteneva che dovesse esistere una relazione tra il citoplasma e la parete. In altri termini l’auxina avrebbe dovuto attivare un fattore in grado d’indurre l’estensione della parete.

Fin dagli anni trenta l’olandese Heyn evidenziò l’effetto dell’acido 3-indolacetico sulle pareti cellulari di tessuti sensibili che, sotto l’azione auxinica, modificava i legami tra le macromolecole delle pareti, che si ricostituivano in funzione delle forze che venivano esercitate sulle stesse pareti. Inoltre, un trattamento con soluzioni acide rendeva le pareti più plastiche, con aumento della velocità di crescita, mentre, al contrario, la neutralizzazione della soluzione induceva un blocco della crescita.

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Nel 1973 Cleland e Marrè, indipendentemente, scoprirono che l’acidificazione delle pareti assume enorme importanza nella distensione della parete cellulare e che le auxine hanno proprio la funzione di attivare la pompa protonica del plasmalemma, con estrusione di H+ ed acidificazione dell’apoplasto.

Dal 1973 le osservazioni iniziali sulla protrusione di protoni sono state approfondite, permettendo di accertare che il fattore della distensione plastica della parete cellulare è da individuare certamente negli ioni idrogeno.

Più recentemente sono state scoperte alcune proteine, che prendono il nome di espansine, aventi la funzione di rendere instabili i ponti idrogeno delle macromolecole di cellulosa, agevolando, così, la cedevolezza plastica della parete cellulare.

L’accrescimento vero e proprio della membrana cellulare avviene con la sintesi di nuovo materiale che viene riversato nell’apoplasto per esocitosi.

Una parte, la maggiore, delle nuove microfibrille si dispone, strato su strato, al di sopra di quelle precedentemente formate, mentre la restante parte può essere inserita nella preesistente struttura della parete. Le microfibrille della parete primaria formano, all’inizio, un reticolo irregolare, con una predominante orientazione trasversale, poi, quando la superficie della parete aumenta, le microfibrille tendono a disporsi longitudinalmente o parallelamente al diametro di maggiore dimensione della cellula.

La sintesi della cellulosa non è ancora completamente nota. E’, tuttavia, abbastanza evidente che le microfibrille di cellulosa sono sintetizzate sulla superficie della cellula ad opera di un complesso enzimatico cellulosa sintasi incluso nella membrana plasmatica e che l’orientazione delle microfibrille è controllata dai microtubuli situati subito sotto il plasmalemma.

La cellulosa sintasi è presente fra i due strati (quello esterno, subito sotto la parete cellulare, e quello interno, a contatto col citoplasma), di cui è costituito il plasmalemma, sotto forma di globuli e rosette.

Il donatore di unità di β-D-glucosio per la sintesi di polimeri del tipo della cellulosa è l’UDP-glucosio (uridina 5’-α-D-glucopiranosil-difosfato), insieme a GDP-glucosio (guanosina difosfoglucosio). UDP-galattosio, UDP-acido galatturonico, UDP-acido glucuronico, UDP-xilosio, UDP-L-ramnosio, UDP-L-arabinosio sono tutti presenti nelle cellule vegetali e sono tutti effettivi donatori di zuccheri per la produzione, in vitro, dei corrispondenti polisaccaridi della parete cellulare.

Va anche detto che la cellulosa sintasi è un complesso enzimatico abbastanza instabile, tanto che dopo l’isolamento non produce più cellulosa (con legami β-1,4) ma callosio (β-D-1,3-glucano).

Le sostanze pectiche, le emicellullose e le glicoproteine sono i componenti della matrice e sono portati alla parete cellulare, come già visto in precedenza, mediante le vescicole dei dittiosomi.

Il tipo di composto della matrice, sintetizzato e secreto dalla cellula in un determinato momento, dipende dallo stato di sviluppo.

Le pectine sono tipiche delle cellule in via di sviluppo, mentre le emicellulose prevalgono in quelle adulte che hanno terminato l’accrescimento.

Sono ben note le reazioni con le quali la maggior parte degli zuccheri-nucleotidi possono essere sintetizzati da UDP-glucosio, di cui si riporta la struttura chimica:

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UDP-glucosio (UDPG)

Per sfortuna si è ancora lontani dal capire come queste reazioni avvengono nella cellula

vegetale ed in particolare che cosa controlli la produzione dei diversi tipi di polimeri nelle differenti specie. Come le proteine entrano nelle pareti e qual è il loro specifico ruolo sono ancora problemi in corso di soluzione. Molto importante è conoscere che cosa stabilisce il modello di deposizione delle microfibrille di cellulosa, poiché è questo modello che controlla la direzione dell’accrescimento cellulare ed influisce sulle forme finali delle cellule e degli organi delle piante.

In conclusione, la parete cellulare, insieme ai vacuoli, è l’aspetto caratteristico delle cellule vegetali, costantemente presente nei tessuti vegetativi delle alghe verdi, delle briofite e delle piante superiori vascolari. Sarebbe sorprendente se una caratteristica così universalmente diffusa, come la parete cellulare, non avesse un significato profondo. Se la parete cellulare non fosse di grande importanza per le piante, nel corso dell’evoluzione sarebbe stata eliminata, almeno in qualche specie vegetale. Ma non esistono eccezioni. Nelle foglie, nei fusti, nelle radici e nei fiori di tutte le specie vegetali, tutte le cellule adulte sono provviste di parete. Il vacuolo per realizzare una struttura rigida ha bisogno di una parete cellulare relativamente poco elastica, con un’elevata resistenza alla tensione. A ciò provvede la cellulosa, di cui è in parte costituita la parete, dotata di una resistenza alla tensione paragonabile a quella di un filo d’acciaio armonico. L’acqua da sola è troppo fluida per essere un materiale strutturale, ma quando è racchiusa da una membrana e da una parete la sua incomprimibilità diviene molto importante. In tali condizioni anche l’aria diventa un materiale strutturale quando è compressa all’interno di un recipiente flessibile, come nel caso dei pneumatici. In una cellula vegetale le pareti di cellulosa forniscono una resistenza alla trazione e l’acqua una resistenza alla compressione ed insieme formano una struttura rigida e resistente. Per rifarsi ad un caso pratico che tutti hanno toccato con mano, un pallone da calcio riempito d’acqua ha le caratteristiche di

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una roccia. Questa rigidità strutturale delle cellule turgide spiega perché le foglie, i cauli erbacei e le piante in generale si mantengono rigidi e per quale motivo essi si afflosciano quando le cellule perdono acqua ed appassiscono. Le fibrille di cellulosa non hanno la capacità, con la sola resistenza alla tensione, di mantenere la pianta eretta, ma hanno bisogno anche della resistenza alla compressione impartita dall’acqua, oppure dalla lignina nei tessuti secondari. Le forze di tensione e di compressione nel contrapporsi portano a realizzare una struttura “precompressa” utilizzata dalla natura fin da quando ebbe origine la vita delle piante, ma scoperta soltanto recentemente dagli ingegneri con il calcestruzzo precompresso.

Il legno è un esempio di struttura naturale precompressa. Le cellule destinate a divenire legno, durante le distensione dovuta alla pressione di turgore, ricevono un graduale deposito di lignina (resistente alla compressione) che s’interpone tra le fibrille stirate di cellulosa. Poi queste cellule muoiono lasciando una parete cellulare costituita da fibrille di cellulosa stirate e da lignina compressa. Questo è il legno, un materiale con caratteristiche strutturali insuperabili ed ancora oggi insostituibile in molti campi delle attività dell’uomo. Il legno è il materiale organico più diffuso sul nostro pianeta, possiede caratteristiche di resistenza molto apprezzate e richiede la minore quantità di energia per la sua sintesi. La cellulosa, che da un punto di vista termodinamico è molto più ricca del legno, richiede per la sua sintesi solo poca energia in più di quella necessaria per la sintesi del glucosio e molto meno di quella necessaria per sintetizzare proteine e lipidi.

MEMBRANE CELLULARI Le membrane delle cellule vegetali sono la membrana plasmatica o membrana cellulare o

plasmalemma che racchiude la cellula e si trova all’interno della parete cellulare, il tonoplasto che delimita il vacuolo, il sistema delle endomembrane, costituente una complessa rete fra molte membrane cellulari in rapporto tra loro ma non con le membrane interne dei plastidi, dei mitocondri, dei microcorpi e di altri organelli cellulari.

Le membrane cellulari, a prescindere del punto in cui sono posizionate, sono costituzionalmente molto simili ed hanno uno spessore che va da 7 nm fino ad oltre 10 nm.

Quasi tutte le membrane della cellula vegetale sono strutturalmente e chimicamente analoghe a quelle della cellula animale, anche se le specificità delle membrane vegetali sono tra loro molto diverse. Così, per esempio, le membrane specifiche della fotosintesi, come quelle dei tilacoidi, oppure quelle dei perossisomi o dei gliossisomi sono assimilabili a modelli molto diversi rispetto a quelli normalmente studiati per la membrana plasmatica e le altre membrane interne.

Le membrane sono costituite principalmente da proteine (per la metà fino a due terzi del peso secco totale) e lipidi. Proteine e lipidi sono in rapporto quantitativo ed hanno struttura chimica variabili in relazione alla membrana ed allo stato fisiologico delle cellule. In particolare, sono evidenti alcune differenze tra le membrane del plasmalemma, del tonoplasto, del reticolo endoplasmatico, dei dictiosomi, dei cloroplasti, dei mitocondri, dei microcorpi (microsomi o perossisomi e gliossisomi). Relativamente ad una certa membrana cellulare, ad esempio il plasmalemma, esistono differenze nella composizione per le diverse specie vegetali.

Lo studio strutturale del plasmalemma è stato affrontato seguendo tre grandi linee: la morfologia, la biochimica e la fisiologia. Con differenti metodologie fu possibile ipotizzare una serie di modelli strutturali e funzionali.

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Irving Langmuir dimostrò che, ponendo dei fosfolipidi su di una superficie acquosa, questi si orientano disponendo la loro testa idrofilica verso l’acqua e le loro code idrorepellenti verso l’aria e costituiscono un monostrato (monolayer). Egli riuscì anche a misurare l’area occupata dalle molecole fosfolipidiche mettendo a punto un semplice strumento che prese il nome di bilancia di Langmuir.

Gorter e Grendel nel 1925, servendosi di questa tecnica e lavorando sui globuli rossi del sangue, suggerirono l’ipotesi che i fosfolipidi costituenti la membrana cellulare devono essere organizzati non a formare un monolayer, ma, molto probabilmente, un bilayer, cioè un doppio strato.

Si riuscì a descrivere, con l’impiego del microscopio elettronico, l’esistenza di una membrana cellulare di spessore di 7 fino a 10 nm, un valore molto al di sotto del potere risolutivo del microscopio ottico, ma ricadente perfettamente nelle capacità esplorative della microscopia elettronica. Prima di allora non fu possibile l’osservazione diretta della membrana cellulare mediante l’uso del microscopio ottico, anche se numerose prove ed evidenze indirette suggerivano la possibile esistenza di un rivestimento delimitante l’ambiente cellulare interno dal mezzo esterno, senza alcun contatto diretto per l’interposizione della parete.

Le prime osservazioni dirette al microscopio elettronico, in cellule isolate e fissate con varie modalità, mostrano come la membrana plasmatica sia costituita da due regioni elettrodense separate da una zona intermedia, translucida e chiara ed evidenziando una struttura a sandwich. Queste prime osservazioni vennero confermate da ricerche realizzate attraverso la diffrazione con raggi X che suggerivano un’organizzazione trilaminare della membrana.

Contemporaneamente, gli studi biochimici delle linee elettrodense individuarono la presenza di strati proteici compatti, mentre la zona intermedia chiara era una matrice lipidica eterogenea. Studi successivi confermarono l’organizzazione delle membrane cellulari in bilayers fosfolipidici attraverso i quali avveniva il passaggio di prodotti liposolubili, mentre le sostanze idrosolubili potevano attraversare la membrana attraverso pori acquosi. Tuttavia, le membrane cellulari facevano registrare valori di tensione superficiale costantemente bassi, mentre se fossero state solo dei bilayers fosfolipidici tali valori dovevano essere più alti, almeno pari a quelli che si rilevano per le gocce d’olio.

Si suppose, allora, che lungo la membrana dovessero essere presenti delle proteine idrosolubili provviste di carica elettrica, aventi funzione di tensioattivi (capaci quindi di ridurre la tensione superficiale) ed in grado di stabilire interazioni elettrostatiche con le teste idrofile dei fosfolipidi. Questo è denominato modello a sandwich dove le proteine, a forma di filamenti, si trovavano sotto e sopra il bilayer fosfolipidico ed orientano i propri gruppi polari idrofili verso gli strati acquosi, all’interno ed all’esterno della cellula, e quelli non polari idrofobici verso le molecole di acidi grassi.

Nello stesso modello è prevista l’esistenza di pori acquosi che originano da una soluzione di continuità del bilayer lipidico, la cui parete è rivestita da proteine per l’introflessione nello stesso poro dello strato proteico esterno ed interno, con la specifica funzione di trasporto passivo per diffusione delle sostanze solubili tra la cellula e l’ambiente esterno.

La figura 31 riporta lo schema della struttura del plasmalemma secondo il modello a sandwich proposto da Danielli e Davson, dove le proteine filamentose impaccano i lipidi disposti su due strati a palizzata, con le teste idrofile legate alle proteine e rivolte verso le soluzioni acquose esterna ed interna della cellula, mentre le code idrofobe di due strati (quello più esterno e quello più interno alla cellula) sono tra loro affacciate.

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Fig. 31 – Schema della struttura del plasmalemma, bene ordinata e tendenzialmente rigida,

secondo il modello a sandwich di Danielli e Davson, con il particolare del poro acquoso rivestito dall’introflessione degli strati proteici verso l’esterno e l’interno alla cellula.

Il modello a sandwich fu confermato da numerose ricerche condotte sulla birifrangenza

delle membrane, sull’analisi diffrattografica, sulla microscopia elettronica e sull’analisi biochimica diretta.

I microscopisti elettronici supposero che questo modello fosse comune a tutte le membrane costituenti la cellula e Robertson, in particolare, avanzò l’ipotesi che il sistema interno delle membrane cellulari dipendesse direttamente dalla membrana plasmatica la quale era in grado di originare, per introflessione, tutta la rete di membrane interne.

E’ questa la teoria della unit membrane che promosse una serie di ricerche sulle membrane intracellulari che evidenziarono dettagli e differenze molto consistenti e permisero, fin dal 1960, di accumulare critiche ed incongruenze nel modello a sandwich di Danielli e Davson e di ridimensionare le generalizzazioni di Robertson.

Si dimostrò che le membrane cellulari potevano mostrare bassi valori di tensione superficiale anche in assenza di proteine e che non tutte le proteine presenti sulla membrana potevano abbassare la tensione superficiale, poiché alcune di esse hanno caratteristiche idrofobe.

Il modello a sandwich, pur essendo in perfetto accordo con le immagini che si ottengono al microscopio elettronico, non riusciva più a soddisfare la maggior parte delle caratteristiche

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fisiologiche e termodinamiche del plasmalemma e delle altre membrane endocellulari. Ed anche se gli strati esterni scuri della membrana cellulare, osservabili al microscopio elettronico, sarebbero da attribuire alle teste polari dei fosfolipidi, molto dense agli elettroni, mentre lo strato intermedio chiaro corrisponderebbe alle code idrofobiche dei fosfolipidi, identificabili con le catene di carbonio degli acidi grassi, meno elettrodense, l’immagine trilaminare che fornisce il microscopio elettronico della membrana cellulare sarebbe soltanto un artefatto dovuto alla tecnica di allestimento dei preparati microscopici.

Gli alcoli utilizzati nella fase di disidratazione, infatti, agirebbero come denaturanti delle proteine, srotolandole e stratificandole in corrispondenza della faccia interna ed esterna del plasmalemma.

In relazione a stringenti evidenze sperimentali Singer e Lucy prima e Singer e Nicholson nel 1972 proponevano un nuovo modello strutturale comune a tutti gli esseri viventi che ammette che le membrane, indipendentemente dalla loro localizzazione nella cellula sono apparentemente tristratificate e costituite da un bilayer fosfolipidico in cui sono immerse delle macromolecole proteiche globulari che attraversano la membrana da parte a parte, mentre altre proteine si legano polarmente alle teste dei fosfolipidi e si muovono in senso laterale.

Secondo questo modello la membrana non è una struttura statica, ma i lipidi e le proteine sono in costante movimento con diffusione laterale e radiale nel piano della membrana.

La membrana assume una consistenza semifluida da cui il nome di modello a mosaico fluido o modello trilaminare a mosaico.

La matrice della membrana plasmatica è costituita da un doppio strato di fosfolipidi con le loro code (catene di acidi grassi) che si fronteggiano le une con le altre interagendo tra loro, mentre le teste polari sono rivolte verso la parete cellulare (quelle di uno strato) e verso l’ambiente intracellulare (quelle dell’altro strato).

L’interno del doppio strato della membrana è costituito dalle catene alifatiche non polari degli acidi grassi, mentre le due superfici esterne (quella rivolta verso la parete cellulare e quella a contatto con il citosol) possono interagire con l’ambiente acquoso perché costituite da gruppi polari dei fosfolipidi.

Le proteine, anziché filamentose e distese in un monostrato continuo (come nel modello a sandwich), sono globulari e si possono distinguere in estrinseche o periferiche, associate cioè solo con le superfici del doppio strato lipidico e ad esse legate attraverso interazioni elettrostatiche o legami idrogeno, ed intrinseche o integrali o costitutive che penetrano nello spessore della membrana oppure l’attraversano da parte a parte (proteine trans-membrana). La porzione della molecola proteica inclusa nello strato lipidico è idrofoba, mentre la porzione che emerge da una parte o dall’altra del bilayer e idrofila.

Le proteine estrinseche ed intrinseche, come già accennato, danno luogo, nell’ambito del doppio strato lipidico, ad una serie di movimenti laterali e radiali, poiché esse sono costituite da aminoacidi polari che consentono loro di stabilire con le teste dei fosfolipidi una serie di legami dinamici che si formano e si disfano continuamente.

Ciò determina una sorta di rotolamento continuo delle proteine estrinseche lungo le due superfici del doppio strato ed un galleggiamento e una deriva delle proteine integrali e delle proteine trans-membrana (come se fossero dei grossi iceberg) in un oceano di fosfolipidi.

La figura 32 cerca di interpretare graficamente il modello a mosaico fluido di Singer e Nicholson.

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Fig. 32 – Schema del modello a mosaico fluido di Singer e Nicholson. Fosfolipidi di membrana

Molto variabile è la quantità e la natura dei lipidi delle membrane cellulari, anche se è possibile individuare alcune caratteristiche comuni alle molecole lipidiche di tutte le membrane biologiche.

I lipidi delle membrane di cellule procarioti sono rappresentati quasi esclusivamente da fosfolipidi e glicolipidi, mentre nelle cellule eucarioti si trovano, oltre quelli ora citati, anche sfingolipidi e colesterolo.

Tuttavia, sulla composizione lipidica della membrana incide anche la capacità metabolica propria della cellula. Questo fatto non è di secondaria importanza, perché una cellula può o meno acilare gli acidi grassi che gli pervengono, oppure, al contrario, può modificarli ed indirizzarli verso una catena metabolica funzionante all'interno della stessa cellula. Ancora, potrà esterificare nei fosfolipidi alcuni acidi grassi dopo il loro allungamento a VLC-PUFA, o esterificarli dopo la retroconversione a molecole più corte.

I principali fosfolipidi del plasmalemma sono la fosfatidilserina, la fosfatidiletanolamina, la fosfatidilcolina e la sfingomielina. Fatta eccezione per la sfingomielina, questi fosfolipidi hanno il glicerolo (indicato in rosso) come molecola base che esterifica due dei suoi gruppi alcolici con due molecole di acidi grassi (nello schema, uno saturo ed uno insaturo con un doppio legame), rispettivamente, mentre il terzo gruppo alcolico è occupato da un gruppo polare

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costituito dalla serina (rappresentata in verde), o dalla etanolamina (in arancione), o dalla colina (in blu): fosfatidilserina fosfatidiletanolamina fosfatidilcolina

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Come si può osservare nello schema, le due catene di acidi grassi partono dal glicerolo e, in virtù del fatto che sono apolari ed idrofobe, si proiettano in direzione opposta a quella del gruppo polare. Queste molecole provviste di una testa polare e di un’estremità opposta apolare sono dette anfipatiche. Osservando nello schema la direzione delle due code di un fosfolipide si nota un’assenza di collinearità tra le due catene di acido grasso (l’acido grasso insaturo con un doppio legame devia leggermente a destra) e ciò è dovuto al fatto che in presenza di doppi legami la catena alifatica presenta ripiegamenti.

Altri lipidi del plasmalemma sono i glicolipidi ed il colesterolo, anch’essi anfipatici poiché una parte della loro molecola (testa) interagisce con i solventi acquosi, mentre la restante parte (coda) mostra affinità con i solventi organici.

Ciò spiega il motivo della grande rappresentatività quantitativa dei fosfolipidi nella membrana cellulare e la scarsa presenza di trigliceridi, di colesterolo e la completa assenza degli steroidi. Il colesterolo, in particolare, fino al 1958, per la sua scarsità, non era stato mai trovato nelle piante per cui si riteneva che esso appartenesse soltanto al mondo animale; in quell’anno esso fu ritrovato nelle alghe rosse e negli anni sessanta fu scoperto nella patata e poi in altre specie, ma sempre in piccola quantità, rispetto, ad esempio, ai fosfolipidi.

Il comportamento del colesterolo nella membrana plasmatica è spiegato nella figura 33 dove si può osservare che il gruppo polare OH si dispone nella regione dove sono presenti le teste polari dei fosfolipidie con il nucleo ciclopentanoperidrofenantrenico nella regione occupata dalle code non polari degli acidi grassi.

Fig. 33 – Struttura del colesterolo e posizionamento della sua molecola, scarsamente presente

nelle cellule vegetali, fra i fosfolipidi della membrana cellulare.

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Nella stessa figura è possibile notare il ripiegamento verso destra della catena alifatica dell’acido grasso insaturo (provvisto di doppi legami) in corrispondenza del quale si costituisce una regione più fluida dove si posiziona la catena alifatica del colesterolo ed i tratti meno organizzati delle code fosfolipidiche caratterizzate dalla presenza di doppi legami.

Quando le molecole anfipatiche (fosfolipidi, colesterolo ed altre) si trovano a contatto con soluzioni acquose (ad esempio il plasmalemma che, all’interno ed all’esterno della cellula, è a contatto con acqua) esse si dispongono in doppio strato, cioè in uno strato bimolecolare o bilayer dello spessore di circa 7 nm.

Tutte le code non polari, aventi qualità idrofobe poiché incapaci di costituire legami idrogeno con l’acqua, si dispongono all’interno del doppio strato, a stretto contatto le une con le altre, senza stabilire contatti con l’acqua ed interagendo tra loro.

Le teste polari si affacciano su entrambi i lati della membrana e, per le loro caratteristiche idrofile, sono a contatto con le soluzioni acquose con cui interagiscono formando legami idrogeno con l’acqua.

Il bilayer fosfolipidico presenta caratteristiche dinamiche correlate alla fluidità (quindi alla viscosità) che dipende in primo luogo dalla natura dei lipidi e dal tipo della testa polare: fosfolipidi costituiti da una coda di acidi grassi insaturi e da una testa formata da fosfatidilcolina induce aumento della fluidità e diminuzione della viscosità e quindi un incremento di moto dei componenti della membrana; al contrario, fosfolipidi costituiti da una coda di acidi grassi saturi e da una testa formata da fosfatidiletanolammina induce diminuzione della fluidità ed aumento della viscosità e, pertanto, un decremento di moto dei componenti della membrana.

Va anche specificato che le variazioni di moto riguardano in particolare le porzioni terminali della molecola che modificano così la loro flessibilità e pertanto sono in grado di ripiegarsi e di interagire con le molecole vicine, mentre le teste polari ed il primo tratto della catena alifatica sono abbastanza rigidi e praticamente immobili.

Non soltanto la natura dei componenti chimici dei fosfolipidi agiscono sulle caratteristiche dinamiche del doppio strato fosfolipidico, ma anche la temperatura che maggiormente ne influenza la fluidità ed inversamente la viscosità.

Temperature abbastanza elevate che superano i 35 °C inducono fluidità e movimento all’intero bistrato, mentre il raffreddamento della membrana produce diminuzione della fluidità fino alla solidificazione del doppio strato nel suo complesso.

La temperatura alla quale si verifica il cambiamento strutturale, dinamico, di fluidità o viscosità della membrana si chiama temperatura di transizione.

La temperatura delle membrane cellulari, la composizione delle catene dei vari acidi grassi ed il grado di saturazione degli stessi possono essere influenzati da fattori esogeni ed ambientali nel giro di poco tempo e quando questi fattori si discostano notevolmente e per un certo periodo dai livelli di normalità diventa possibile che si abbiano riflessi importanti sulla fisiologia del plasmalemma e delle altre membrane e possano originarsi delle membranopatie che favoriscono l’insorgenza di fenomeni di patologia della cellula, dei tessuti e dell’intera pianta.

L’analisi del comportamento fisico-chimico dei fosfolipidi in presenza di acqua permette di comprendere le proprietà della membrana cellulare conferite dal bilayer fosfolipidico.

Un monostrato di fosfolipidi di dispone, in un ambiente acquoso, con le teste idrofile a contatto con l’acqua e con le code idrofobe in posizione opposta e a contatto con l’aria, come nello schema seguente:

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Un bistrato di fosfolipidi si posiziona sempre con le teste idrofile a contatto con l’acqua e

con le code idrofobe in maniera tale che queste rimangono solo a contatto con l’aria, come nello schema seguente:

Se una goccia di fosfolipidi viene sospesa in acqua e la sospensione viene sottoposta ad un

campo di microonde generate da ultrasuoni (sonicazione) si ottiene la frammentazione della goccia fosfolipidica in tante piccole vescicole che vanno a costituire una fase perfettamente separata dall’acqua.

Lo stesso effetto si ottiene se i fosfolipidi sono posti in un solvente organico che viene fatto evaporare lentamente. Sulla parete del contenitore si forma un monostrato lipidico che, fatto interagire con l’acqua, si frammenta in piccole vescicole che si disperdono nel mezzo per costituire una sospensione in cui i lipidi sono separati dall’acqua.

Ogni vescicola sospesa nell’acqua si chiama liposoma, è costituita da circa 5.000.000/μm2 di molecole fosfolipidiche, ha un diametro compreso tra 20 nm e 1 μm e può essere uni o plurilamellare (figura 34).

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Fig. 34 – Sezione e struttura tridimensionale di un liposoma sferico. All’esterno ed all’interno della vescicola sono esposte le teste idrofile dei fosfolipidi, mentre nel suo spessore sono affacciate le une alle altre le code idrofobe.

I liposomi hanno una struttura molto simile a quella del plasmalemma cellulare, sono

bistratificati e nel loro interno racchiudono acqua, per cui le teste polari idrofile rivestono la superficie esterna e quella della cavità interna, ambedue in contatto con l’ambiente acquoso; le code alifatiche apolari, idrofobe dello strato fosfolipidico interno sono contro quelle dello strato fosfolipidico esterno e, pertanto, protette da ogni contatto con l’acqua.

I liposomi sono costituiti da uno o più tipi di fosfolipidi, possono fondersi tra loro scambiando i soluti dell’acqua in essi contenuta ed anche fondersi con le membrane cellulari.

Questa caratteristica ha permesso di usare i liposomi come vettori per l’introduzione nelle cellule, in coltura ed in vivo, di differenti sostanze, senza che esse subissero modificazioni chimiche per idrolisi parziale o totale, come farmaci, proteine enzimatiche e nucleotidi.

I liposomi permettono di studiare le proprietà delle membrane biologiche e tramite la spettroscopia di risonanza di spin elettronico (ESR) è possibile rilevare caratteristiche dei fosfolipidi costitutivi, con particolare riferimento al loro movimento.

In condizioni di buona fluidità del liposoma, a temperature che superano i 30 °C, si è rilevato che le molecole fosfolipidiche di uno stesso strato scambiano facilmente e rapidamente la loro posizione, tanto che in un secondo possono effettuare 107 scambi, diffondendo da un’estremità all’altra di un liposoma di dimensioni simili a quelle di un organello cellulare.

Se il movimento dei fosfolipidi appartenenti allo stesso strato è una regola che conferisce grande dinamicità alla struttura, lo scambio (denominato flip-flop) tra uno strato e l’altro di un liposoma bilamellare è abbastanza raro, trascurabile da un punto di vista biologico e quando avviene si verifica in modo assai lento.

Questo tipo di movimento è termodinamicamente sfavorito poiché il gruppo di testa apolare deve attraversare una catena apolare nel cuore del doppio strato.

Inoltre, la rarità dell’evento e la bassa velocità di scambio flip-flop dei componenti da un lato all’altro del bilayer genera un’asimmetria dei due strati fosfolipidici delle membrane ed una differente loro composizione chimica che si mantiene nel tempo.

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I liposomi rappresentano un modello perfetto per lo studio della fluidità delle membrane cellulari.

La modificazione della temperatura dei liposomi formati da un solo tipo di fosfolipidi o anche da miscele di essi ha dimostrato che più è lunga la catena alifatica costituente la coda apolare, tanto più bassa è la fluidità dei liposomi (e per analogia delle membrane cellulari) e tanto più elevata è la tendenza dei fosfolipidi a formare strutture paracristalline per le interazioni idrofobiche tra le catene di acidi grassi, quando la temperatura diminuisce.

Inoltre, minore è la lunghezza della catena di acidi grassi e maggiore è il numero dei doppi legami insaturi contenuti (nei punti dove si trova il doppio legame la catena non è lineare, ma si piega a gomito), tanto più elevata è la fluidità del bilayer fosfolipidico.

La cristallizzazione delle catene alifatiche di acidi grassi costituenti le code apolari dei fosfolipidi, correlata alla diminuzione di fluidità, a seguito della diminuzione della temperatura, è un evento sicuramente drammatico per le membrane della cellula e per la sopravvivenza dell’organismo vegetale.

Per fortuna nelle membrane cellulari esistono concentrazioni elevate di colesterolo che insieme all’alta percentuale di acidi grassi insaturi rendono difficile la cristallizazione delle catene di acidi grassi delle code fosfolipidiche ed assicurano la necessaria fluidità anche a bassa temperatura.

Va tuttavia chiarito che la membrana cellulare non deve essere eccessivamente fluida, poiché deve possedere una sufficiente stabilità.

Gli acidi grassi saturi sono in grado di mantenere entro i limiti ottimali la fluidità della membrana senza aumentarla troppo, mentre il colesterolo conferisce un certo grado di stabilità.

Una quota cospicua di colesterolo, in particolare, si ripartisce a livello dei due versanti della membrana cellulare conferendone stabilità, pur diminuendone la fluidità.

Un acido grasso saturo può impacchettarsi strettamente con altre catene sature e la struttura risultante è talmente compatta da assumere una configurazione spaziale a forma di reticolo cristallino che induce alla membrana scarsa fluidità.

La sola presenza di un doppio legame, nella catena alifatica dell’acido grasso, determina un ripiegamento a gomito della stessa catena, con la conseguenza che lo spazio occupato è maggiore e la fluidità migliora, poiché uno stretto impacchettamento tra le catene carboniose degli acidi grassi non riesce a costituirsi.

La figura 35 riporta i modelli spaziali (forme anioniche) di un acido grasso saturo (acido stearico), monoinsaturo (acido oleico) e diinsaturo (acido linoleico).

In ogni caso, non esiste una relazione lineare tra il numero dei doppi legami presenti nelle catene alifatiche e l’incremento della fluidità, poiché quando si costituiscono più di due o tre doppi legami la molecola dell’acido grasso assume una disposizione spaziale ad elica e ciò determina un impacchettamento più stretto, anche in relazione all’accorciamento della catena alifatica determinato per l’appunto dalla disposizione elicoidale.

La disposizione spaziale del doppio legame influenza il grado di fluidità della membrana in quanto capace di determinare una collocazione diversa dei due isomeri “cis“ e “trans“ nel contesto della stessa struttura.

Gli isomeri “trans” degli acidi grassi monoinsaturi hanno una configurazione molto simile a quella estesa degli acidi grassi saturi (figura 36), occupando circa lo stesso spazio e determinando, come questi ultimi, una riduzione della fluidità della membrana. Tuttavia, l’afflusso di acidi grassi trans-monoinsaturi al doppio strato lipidico non determina sensibili

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cambiamenti di fluidità della membrana, poiché questi isomeri vanno a sostituire un acido grasso nella posizione 1 del glicerolo, piuttosto che occupare la posizione 2 dove abitualmente si collocano gli isomeri cis-monoinsaturi (figura 37).

Fig. 35 – Modelli spaziali di un acido grasso saturo, monoinsaturo e diinsaturo. Osservando i tre

modelli si comprende come l’impacchettamento di più molecole di acido stearico possa avvenire in maniera molto stretta (per la rettilinearità della catena alifatica) rispetto a quello dell’acido oleico ed ancor meno dell’acido linoleico che presentano, ciascuno, uno e due ripiegamenti. Si può ancora notare che, in senso lineare, la lunghezza della catena alifatica diminuisce all’aumentare dei legami insaturi per la presenza di un ripiegamento in corrispondenza di ognuno di tali legami.

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Fig. 36 – Nella geometria dei doppi legami degli acidi grassi si osserva che la configurazione

della catena satura è molto più somigliante alla configurazione della catena con doppio legame “trans” che non a quella della catena con doppio legame “cis”. Dall’osservazione si può dedurre come l’impacchettamento di lipidi ad acidi grassi a catena satura ed a catena con doppio legame trans può avvenire con un simile grado di compattezza (che induce poi nella membrana cellulare lo stesso grado di fluidità), mentre l’impacchettamento di lipidi di acidi grassi con doppio legame “cis” deve essere forzatamente meno stretto, poiché le catene alifatiche occupano più spazio nel senso trasversale.

Lo scambio di acili è il mezzo più efficace per mantenere un certo grado di fluidità a

livello della membrana cellulare. Infatti, lo scambio tra coppie di acidi grassi delle code apolari dei fosfolipidi, quali il 18:0/18:0 ed il 18:1/18:1 determina la formazione di due nuove coppie 18:0/18:1 che producono un certo grado di fluidità di membrana (figura 37).

La stabilità della membrana viene assicurata anche da molte proteine integrali le quali, formando con i fosfolipidi dei complessi lipoproteici, immobilizzano le molecole lipidiche interessate. La proteine, come la citocromossidasi, capaci di rivestirsi completamente di fosfolipidi e rendendoli immobili, sono dette molecole proteiche penetranti e le molecole lipidiche immobili che rivestono queste proteine costituiscono i lipidi di delimitazione (figura 38).

La quantità totale di fosfolipidi che vanno a costituire i lipidi di delimitazione è proporzionale al numero di molecole proteiche penetranti che possiede la membrana. Bisogna, tuttavia, sottolineare che, in relazione alla fluidità della membrana, i complessi lipoproteici, formati dalle proteine penetranti e dai lipidi di delimitazione, possono subire movimenti di traslazione. Tali movimenti possono realizzarsi unicamente nel piano della membrana, cioè nell’ambito del proprio strato di appartenenza del bilayer, come dimostra la stabilità della configurazione asimmetrica della membrana. Una proteina intrinseca, infatti, per le caratteristiche idrofile delle proprie estremità, non possiede sufficiente energia per attraversare lo spessore idrofobo del doppio strato e raggiungere l’altro lato della membrana, che per questo

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motivo può considerarsi come un fluido soltanto per due dimensioni dove le proteine si trovano soltanto in soluzione parziale.

Fig. 37 – Scambio di acili tra coppie di acidi grassi delle code apolari dei fosfolipidi. A sinistra,

il fosfolipide possiede code apolari i cui acidi grassi sono ambedue acido stearico (saturo), che conferiscono alla membrana scarsissima fluidità; al centro, il fosfolipide possiede code apolari i cui acidi grassi sono ambedue acido oleico (monoinsaturo), che impartisce alla membrana alta fluidità; a destra i due fosfolipidi hanno dato luogo ad uno scambio di acili, costituendo un fosfolipide con una coda di acido stearico (18:0) e l’altra coda di acido oleico (18:1), impartendo alla membrana caratteristiche intermedie di fluidità rispetto agli altri due.

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Fig. 38 – Nel modello a mosaico fluido delle membrane cellulari esistono dei complessi

lipoproteici costituiti da una particolare classe di lipidi che si stratificano (lipidi di delimitazione, indicati in rosso) sulla superficie di molte proteine integrali (molecole proteiche penetranti).

La presenza delle proteine nella membrana cellulare è dimostrata dalle proprie

caratteristiche di impedenza elettrica che sono molto diverse da quelle dei liposomi che sono sprovviste di molecole proteiche. I valori di impedenza elettrica di una membrana cellulare sono di circa 1.000 ohm/cm2 e questo dato può ottenersi soltanto per i liposomi in cui siano presenti, oltre i fosfolipidi, anche le proteine.

Proteine di membrana

Le proteine di membrana appartengono a diverse categorie, sono molto eterogenee riguardo al peso molecolare, alla composizione aminoacidica ed alla mobilità elettroforetica e la maggior parte di esse è costituita da proteine semplici oppure da associazioni a carboidrati (glicoproteine) e contribuiscono all’integrità ed alla stabilità della membrana cellulare. I metodi per la determinazione delle proteine di membrana si fondano sull’estrazione selettiva e sulla loro caratterizzazione elettroforetica. Le proteine che contraggono rapporti idrofobici con i fosfolipidi sono la frazione più elevata di tutte le proteine di membrana e possono essere estratte solo dopo la dissoluzione del doppio strato con detergenti o solventi organici; sono queste le proteine integrali. Le proteine periferiche, che sono legate in modo polare alla superficie del doppio strato lipidico e rappresentano una quota piuttosto ridotta, possono essere rimosse dalla membrana mediante soluzioni saline con metodi basati sull’aumento della forza ionica.

Il triton X-100, tra quelli non ionici, e SDS (sodio dodecilsolfato), tra quelli ionici, sono i detergenti più usati a caldo per la rimozione delle proteine di membrana. Queste possono essere sottoposte ad elettroforesi, in un gel di poliacrilamide contenente SDS, per essere separate in base al loro peso molecolare ed essere riconosciute.

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Le proteine di membrana possono essere estrinseche o periferiche, associate solo alla superficie (extracellulare o intracellulare) della membrana, e proteine intrinseche, integrali o costitutive che penetrano profondamente nel doppio strato lipidico o anche l’attraversano.

Le proteine estrinseche aderiscono debolmente alla membrana, legandosi alle sue estremità polari dei lipidi mediante interazioni idrofile o prendendo contatto con le proteine intrinseche e possono essere facilmente rimosse cambiando semplicemente la forza ionica del mezzo o aggiungendo agenti chelanti come EDTA (etilendiamminotetracetato).

Le proteine intrinseche sono globulari ed anfipatiche, poiché hanno un’estremità idrofoba ed una idrofila, come le molecole del bistrato lipidico, ma, rispetto ad esse, sono di gran lunga di dimensioni maggiori. L’estremità idrofoba della proteina è a stretto contatto con le code idrofobe dei lipidi, vale a dire che la parte idrofoba di queste proteine reagisce estesamente con la catena carboniosa della coda dei fosfolipidi, così che non può venire a contatto con le soluzioni acquose, mentre l’estremità idrofila è allineata con le teste idrofile lipidiche o si protende al di fuori per immergersi nel liquido circondante la membrana. Alcune di queste proteine sono tanto grandi da oltrepassare lo spessore della membrana, solo da una parte o da ambedue. Nel primo caso esse hanno un tratto idrofobo (quello incluso nello spessore della membrana) ed una parte idrofoba (quello che si proietta al di fuori dello spessore della membrana), mentre nel secondo caso esse hanno un solo tratto idrofobo (contenuto nello spessore del doppio strato lipidico ) e due estremità idrofile sporgenti. Sono queste le proteine penetranti e trans-membrana (figura 39). Gli aminoacidi idrofili ed idrofobi di queste proteine hanno caratteristiche che consentono un elevato grado di interazione con i fosfolipidi di membrana e nelle spanner proteins essi sono caratterizzati da una sequenza molto distesa che attraversa diverse volte il bistrato lipidico della membrana (figura 39).

Fig. 39 – Proteine di membrana. A: interazioni degli aminoacidi delle proteine di membrana con

i fosfolipidi del doppio strato; B: una spanner protein (in verde) caratterizzata da una sequenza aminoacidica attraversante diverse volte il bistrato lipidico, proteina intrinseca (in blu) e proteina estrinseca (in azzurro). La sezione delle proteine globulari (penetranti e trans-membrana) mostra la distinzione tra la zona idrofila (dello stesso colore della proteina) e la zona idrofoba (in rosso), contenuta nello spessore del doppio strato e provvista di raggruppamenti idrofobici che permettono la stretta interazione con le code fosfolipidiche.

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Da un punto di vista meccanico, queste particolarità fanno della membrana cellulare una

struttura flessibile e molto resistente paragonabile ad una tela costituita da un doppio tessuto e dove ogni tanto il filo di cotone produce un’imbastitura (la sequenza di aminoacidi ed in particolare quella delle spanner proteins) che induce in quelle aree una maggiore resistenza a qualunque tipo di lacerazione.

Mentre le proteine estrinseche non possiedono gruppi idrofobi e sono completamente a contatto con le soluzioni acquose del mezzo intra o extracellulare, le proteine intrinseche praticano due ambienti differenti.

Per la parte che sporge dallo spessore della membrana esse sono esposte all’acqua, all’interno o all’esterno della cellula, per la restante parte esse sono immerse in una sospensione oleosa.

Pertanto, per mantenere la stabilità in questo duplice ambiente, la proteina estrinseca deve obbligatoriamente possedere caratteristiche anfipatiche, alla stessa stregua dei fosfolipidi di membrana.

Tali caratteristiche sono determinate dalle proprietà degli aminoacidi costituenti la proteina.

Di conseguenza la porzione idrofila deve contenere principalmente aminoacidi idrofili e cioè la lisina, l’istidina, l’arginina, l’acido aspartico, l’acido glutammico, la serina e la treonina.

La porzione idrofoba immersa nel doppio strato lipidico è costituita per la maggior parte da aminoacidi idrofobi, con proprietà lipofile.

Va anche detto che la porzione di proteina intrinseca con caratteristiche idrofobiche ed immersa nel doppio strato lipidico varia dinamicamente nel tempo, in relazione alle funzioni che la cellula svolge.

In altre parole, le proteine intrinseche non sono staticamente immerse nel doppio strato lipidico, ma la loro linea di galleggiamento muta continuamente in rapporto a quanto affondano nel bilayer.

Questo diviene possibile poiché le proteine intrinseche sono globulari e principalmente a struttura terziaria.

Giova ricordare che le proteine globulari, a differenza di quelle fibrose le cui catene polipeptidiche sono disposte parallelamente a formare lunghe fibre o fogli, hanno catene polipeptidiche singole, strettamente ed in modo compatto ripiegate in una forma sferica o globulare chiamata struttura terziaria (figura 40).

Il grado di affondamento dinamico delle proteine intrinseche è dovuto, inoltre, al fatto che una certa sequenza di aminoacidi permette più di una configurazione spaziale, anche se in uno stretto intervallo di possibilità, che ogni configurazione spaziale è caratterizzata da un determinato livello energetico ed, infine, che l’ambiente recepisce soltanto ciò che la proteina espone e che una certa molecola proteica ha caratteristiche che sono quelle proprie dei residui aminoacidici che, a contatto con un certo ambiente assumono un’adatta configurazione spaziale.

Sulla base di questi concetti diventa intuitivo che un polipeptide si ritroverà più o meno immerso nel bistrato lipidico in relazione alla quantità di residui di aminoacidi idrofobici che la configurazione spaziale acquisita gli consentirà di esporre. Una modificazione della configurazione spaziale porterà la proteina globulare ad un differente grado di immersione. Inoltre, ogni cambiamento della configurazione spaziale comporta un salto energetico, generalmente verso l’alto, poiché il polipeptide tenderà ad acquisire quella configurazione a minor dispendio di energia, e quale conseguenza di un apporto energetico le proteine intrinseche

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di membrana saranno capaci di variare il proprio grado di interazione con il doppio strato lipidico e modificare la profondità di galleggiamento nello spessore del bilayer.

Fig. 40 – Schema di proteine fibrose (A) e di proteine globulari (B e C), le prime mancanti

mentre le seconde tipiche della membrana cellulare. La struttura primaria si riferisce allo scheletro covalente della catena polipeptidica ed alla sequenza dei suoi residui aminoacidici; la struttura secondaria indica una disposizione regolare e ricorrente in una dimensione nello spazio della catena polipeptidica ed è evidente nelle proteine fibrose e può esistere anche in segmenti delle catene polipeptidiche delle proteine globulari; la struttura terziaria riguarda il modo in cui la catena polipeptidica è ripiegata tridimensionalmente a formare la struttura compatta e strettamente avvolta delle proteine globulari tipiche delle membrane cellulari (B); la struttura quaternaria interessa il modo in cui le singole catene polipeptidiche di una proteina costituita da due o più catene sono disposte l’una rispetto all’altra (C). La maggior parte delle proteine più grandi contengono due o più catene polipeptidiche, in genere non unite da legami covalenti.

Un esempio di quanto discusso deriva da una proteina intrinseca di grande rilevanza

biologica, la citocromossidasi, un’ossidasi terminale che con la sua attività accetta elettroni trasferendoli all’ossigeno e terminandone il flusso nel momento in cui gli stessi elettroni sono catturati dall’ossigeno insieme a 2 protoni (2 H+), provenienti dalla matrice mitocondriale, con produzione di H2O. Questo enzima della membrana interna dei mitocondri, costituente l’elemento terminale della catena di trasferimento degli elettroni implicata nella sintesi di ATP è lungo circa 5,5 nm, largo 6 nm e profondo da 8 a 8,5 nm. La profondità è più che sufficiente per consentire alle molecole dell’enzima di penetrare completamente nel bistrato lipidico, che ha uno spessore di soli 4,5 nm, lasciando sporgere da una parte e dall’altra della superficie della membrana mitocondriale, allo stesso modo, le sue estremità idrofile. In relazione alla propria attività, questo enzima cambia la propria linea di galleggiamento rispetto al film lipidico della membrana.

Il movimento delle proteine di membrana non avviene soltanto secondo una direzione perpendicolare al piano del plasmalemma con la modificazione del grado di affondamento nel doppio strato lipidico, ma anche in senso traslatorio. Le proteine possono liberamente muoversi nel piano fosfolipidico così come è dimostrato in alcuni esperimenti realizzati con la marcatura mediante anticorpi aventi gruppi cromofori.

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Le proteine di due cellule, ciascuna appartenente a specie diverse, sono state marcate con anticorpi coniugati con flurocromi di colore diverso.

Quelle di una specie con fluorescina, verde, e quelle dell’altra specie con rodamina, rossa. Mediante trattamento con glicole polietilenico è stato provocato la fusione delle due cellule con la formazione di una cellula ibrida (eterocarion).

Dopo la fusione è stato possibile osservare una metà della membrana dell’eterocarion colorata in verde ed una metà colorata in rosso; ciascuna metà corrisponde ad una delle due cellule di cui è stata indotta la fusione e ciascuna colorazione e dovuta al gruppo cromoforo verde legato alle proteine di membrana (tramite l’anticorpo) derivate da una cellula ed a quello rosso legato alle proteine di membrana derivate dall’altra cellula.

Dopo alcuni minuti la distinzione tra le colorazioni è meno netta e dopo un’ora i due colori si trovano uniformemente dispersi e fusi tra loro. Ciò indica che già dopo alcuni minuti dalla fusione, i fluorocromi degli anticorpi e quindi le proteine ad essi legate hanno cominciato a spostarsi, dimostrando la loro dinamicità ed il fatto che esse sono dotate di un attivo e libero movimento nel piano fosfolipidico.

E’ stata anche misurata la velocità del rimescolamento dei colori e quindi degli anticorpi a cui erano legate le proteine di membrana ed è stato osservato che la velocità del loro movimento è funzione della temperatura, crescendo al suo aumento fino ad un certo limite (dopo il quale diminuisce), e della composizione lipidica delle membrane che a sua volta ne influenza la viscosità. Ad esempio, un aumento di viscosità dello strato fosfolipidico diminuisce la velocità di spostamento delle proteine.

Va anche detto che se una proteina integrale è libera di spostarsi nello spessore della membrana, questo movimento è pur sempre relativo, poiché non può esplorare l’intera area a sua disposizione.

In primo luogo esistono scarse possibilità che possa ritornare al punto di partenza e nel suo percorso vi sono probabilità che la proteina possa essere bloccata, aggregata ad altre molecole o internalizzata, cioè guidata verso l’interno della cellula.

Tuttavia, l’equilibrio che si viene a determinare tra i tanti possibili destini di una molecola proteica è tale che comunque risulta essere il maggiore determinante funzionale della membrana cellulare.

Con molta probabilità, molti spostamenti delle proteine integrali di membrana sono mediati da varie componenti del citoscheletro, formato dai microfilamenti e dai microtubuli costituenti un’impalcatura che si modifica continuamente.

Molte proteine si distribuiscono nel piano della membrana in maniera ordinata e non casuale, come pure si osserva una loro inusuale concentrazione in particolari e ristrette aree del plasmalemma, come nel caso della endocitosi mediata da recettori, grazie alle strette interconnessioni esistenti tra molecole proteiche di membrana e strutture del citoscheletro cellulare.

L’endocitosi consiste nell’assunzione di materiali esterni da parte della cellula che può avvenire con tre differenti modalità: per fagocitosi, tipico delle amebe, per pinocitosi consistente nell’assunzione aspecifica di piccoli quantitativi di liquido extracellulare dove è contenuto materiale più diverso, compreso macromolecole di interesse metabolico, per endocitosi mediata da recettori.

Quest’ultima è un processo altamente specifico poiché appositi recettori disposti sulla membrana selezionano le macromolecole del liquido extracellulare e guidano il loro ingresso

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nella cellula (internalizzazione) anche quando sono ad elevata diluizione o sono mescolate con altre molecole.

I recettori sono delle proteine integrali, spesso delle glicoproteine, in grado di raccogliere il segnale ambientale che consente la selezione di macromolecole esterne ed il contatto con le stesse, diretto o indiretto attraverso molecole ponte, ed operare successivamente l’internalizzazione.

Ogni recettore della membrana cellulare si lega stereochimicamente alla molecola (detta ligando) che ha riconosciuto ed innesca movimenti di invaginazione della membrana sottostante, che ingloba il ligando ancorato al recettore e lo racchiude in una vescicola destinata a fondersi nel citoplasma con i lisosomi, i cui enzimi digeriscono il materiale macromolecolare costituente il ligante.

Le fossette da cui inizia l’invaginazione della membrana sono chiamate fossette ammantate o rivestite (coated pits) e presentano delle spinosità addossate alla membrana plasmatica dalla parte del citoplasma.

Queste spinosità sono la porzione dei recettori di membrana che sporge dal lato citoplasmatico della membrana stessa.

Quando le fossette ammantate si approfondano nel citoplasma e si chiudono, circondando il materiale in esse contenute, costituiscono quelle che si denominano vescicole ammantate o rivestite (coated vesicles).

Il materiale elettrodenso che riveste le fossette e le vescicole è di natura proteica e la proteina più comune è la clatrina, proteina fibrosa simile a quella schematizzata nella figura 40A, con peso molecolare di 180 kD, associata ad un polipeptide minore, con peso molecolare di 35 kD.

La clatrina con una sua estremità si lega alla porzione dei recettori di membrana costituente la spinosità della fossetta o della vescicola ammantata, mentre con l’altra estremità si unisce all’actina dei microfilamenti del citoscheletro superficiale, una proteina globulare di peso molecolare di 42,3 kD, presente in tutte le cellule eucariotiche.

Questo induce che le componenti citoscheletriche cambino continuamente la propria organizzazione - stabilendo, così delle interazioni tra proteine intrinseche della membrana e citoscheletro cellulare che svolgono, pertanto, un ruolo cardine nella fisiologia della cellula vegetale - e che il legame di proteine recettoriali con particolari fattori extracellulari possa determinare modificazioni nell’organizzazione spaziale del citoscheletro, responsabili dei cambiamenti che caratterizzano alcune fasi del ciclo e del differenziamento delle cellule vegetali.

La clatrina forma dei polimeri, chiamati triskelion, ciascuno costituito da tre braccia proteiche, divaricate tra di loro a 120° e tenute insieme da polipeptidi centrali.

Ogni triskelion contiene tre molecole di clatrina alternate a tre polipeptidi minori per un peso molecolare totale di 635 kD).

I triskelion si assemblano formando strutture a paniere, a maglie esagonali e pentagonali, che nel formarsi costringono la membrana delle fossette ammantate ad invaginarsi nel citoplasma, chiudendosi poi per formare la vescicola ammantata (figura 41).

Nonostante i ligandi siano dispersi nella sospensione extracellulare a diluizioni molto alte, essi riescono ad entrare in contatto ed a legarsi specificamente con i rispettivi recettori.

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Fig. 41 – Coinvolgimento delle proteine di membrana nell’endocitosi mediata da recettori. In

alto, accoppiamento ligando-recettore, con formazione della fossetta rivestita e poi della vescicola ammantata; subito sotto, particolare schematico di costituzione dei cestelli a maglie pentagonali ed esagonali, a partire dalle molecole di clatrina formanti, assieme ad altri polipeptidi di minor peso molecolare, sistemi a tre bracci (triskelion); ancora sotto, microfotografie dei triskelion e dei cestelli di clatrina; in basso, rappresentazione schematica delle fasi dell’endocitosi fino alla restituzione dei recettori alla membrana plasmatica (riciclaggio dei recettori).

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Ciò induce la polimerizzazione della clatrina – che si organizza per formare dei panieri o cestelli, costituenti ciascuno la vescicola ammantata nel cui lume, legati ai recettori di membrana, si trovano i ligandi – e la successiva internalizzazione delle stesse vescicole.

Queste si spostano nel citoplasma, si fondono tra loro formando gli endosomi (vescicole più grandi), i quali perdono la clatrina che ritorna in superficie al plasmalemma per essere nuovamente utilizzata.

Successivamente, l’endosoma si fonde poi con una vescicola disaccoppiante detta CURL (acronimo di Compartment of Uncoupling of Receptor and Ligant) la quale è caratterizzata da un pH uguale a 5. La fusione di CURL con l’endosoma favorisce la separazione tra il recettore ed il ligando. I recettori sono ormai liberi e possono concentrarsi in una ristretta zona della nuova grande ed allungata vescicola endosoma-CURL. Questa zona è un’area di membrana che si stacca completamente dall’endosoma-CURL formando una vescicola carica di recettori che va al plasmalemma riportandovi le proteine integrali con funzione recettoriale. Si verifica quello che si chiama riciclaggio dei recettori, per cui le molecole proteiche recettrici non debbono essere nuovamente sintetizzate ad ogni ciclo di endocitosi, non vi sono problemi di accumulo di residui e smaltimento di proteine e si realizza il ripristino di quella parte di membrana cellulare andata perduta con l’internalizzazione delle vescicole ammantate. La restante porzione di endosoma contenente il ligando resta nel citoplasma, si fonde con i lisosomi e va a costituire un lisosoma secondario nel quale si verifica l’idrolisi dello stesso ligando per opera di enzimi litici.

Nella figura 41 è riportato uno schema che sintetizza le varie fasi dell’endocitosi mediata da recettori: accoppiamento ligando-recettore, formazione della fossetta rivestita e polimerizzazione delle molecole di clatrina assieme ad altri polipeptidi per costituire un cestello, internalizzazione del ligando sotto forma di vescicola ammantata, fusione delle vescicole e produzione dell’endosoma, fusione di questo con la vescicola CURL, disaccoppiamento ligando-recettore e formazione di una vescicola contenente i soli recettori e di una vescicola con le molecole di ligando, fusione di quest’ultima con un lisosoma primario e produzione di un lisosoma secondario contenente il ligando poi idrolizzato da enzimi litici dello stesso lisosoma, trasferimento della vescicola con recettori al plasmalemma (riciclaggio dei recettori).

Attraverso l’endocitosi la cellula può prelevare differenti materiali dall’ambiente esterno attraverso le invaginazioni della membrana plasmatica le quali, come descritto in modo particolareggiato, si staccano e si muovono con il loro contenuto nel citoplasma.

Nei batteri, nelle vere muffe mucillaginose e nelle muffe mucillaginose cellulari spesso il materiale trasferito dall’esterno della cellula al suo interno è solido, in tal caso questa particolare endocitosi è chiamata fagocitosi, dal termine greco phagein che significa mangiare. La fagocitosi è innescata dal contatto fra la membrana cellulare che esercita l’attività fagocitaria e la superficie di grandi aggregati.

L’assunzione aspecifica di particelle diluite in un liquido è chiamata pinocitosi, dal greco pinein che vuol dire bere.

Essa avviene non soltanto in organismi unicellulari, ma anche in piante pluricellulari ed è distinta in macropinocitosi e micropinocitosi, in base al diametro delle gocciole di liquido penetrate nella cellula ed all’entità delle modificazioni manifestate dalla membrana cellulare. Nella macropinocitosi, visibile anche al microscopio ottico, la cellula incamera gocciole con diametro fino ad un minimo di 0,2 μm, mediante il sollevamento di pliche e la successiva invaginazione della membrana sottostante alle gocciole.

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Il processo che, come la fagocitosi coinvolge vari elementi del citoscheletro, richiede energia rilasciata dall’idrolisi di ATP.

La micropinocitosi, evidenziabile soltanto al microscopio elettronico, poiché le gocciole assunte hanno diametri medi di 65 nm, comporta la penetrazione del liquido nella cellula attraverso aperture tubulari dette caveole, al cui termine si forma la vescicola pinocitotica che internalizza il liquido ed il suo contenuto.

Molte attività di pinocitosi non sono altro che endocitosi mediata da recettori, poiché richiedono la presenza di recettori di membrana che selezionano il materiale da assumere.

L’endocitosi può anche procedere in senso opposto a quello descritto. Molte sostanze vengono espulse dalla cellula per trasferimento dall’interno della cellula

verso il plasmalemma e fusione con quest’ultimo delle vescicole o di speciali vacuoli che le contengono.

Un esempio di questo processo è il ruolo delle vescicole del Golgi nella formazione della parete cellulare, di cui si è detto a proposito della sua genesi e del suo arricchimento (fig. 19). Queste vescicole, contenenti precursori della parete cellulare, si spostano dall’interno verso la superficie della cellula fino a raggiungere il plasmalemma.

La loro membrana limitante si fonde con essa ed il contenuto viene espulso nella regione di formazione della parete. Questa endocitosi inversa è chiamata esocitosi.

Si ricorda che il processo ora descritto inizia nel reticolo endoplasmatico ruvido, dal quale gemmano vescicole di transizione che attraversano la faccia di formazione del dittiosoma e producono le cisterne giovani che maturando si trasformano in cisterne vecchie che a loro volta gemmano dalla faccia di maturazione del dittiosoma verso la periferia cellulare come vescicole secretorie.

Queste vescicole sono trasferite, su tracce microtubulari del citoscheletro, fino al citoplasma superficiale.

Qui i microfilamenti della trama periferica che circonda la cellula costituiscono un’importante barriera che può essere superata solo con variazioni locali dei cationi Ca2+, innescate da segnali ormonali recepiti dalla cellula per mezzo di specifici recettori.

L’entrata di cationi calcio porta all’attivazione di alcune actin severing proteins che non sono altro che proteine che tagliano i filamenti di actina che, agendo sui microfilamenti della trama periferica, aprono varchi nella stessa trama e permettono alle vescicole secretorie di raggiungere le zone attive di membrana, sedi dove le stesse vescicole possono scaricare all’esterno del plasmalemma il proprio contenuto che va ad integrarsi nella parete cellulare che in tal modo aumenta le dimensioni in tutte le direzioni.

Le vescicole di secrezione, contenenti i materiali da riversare all’esterno del plasmalemma per esocitosi, si fondono prima con la stessa membrana plasmatica.

La fusione inizia con il collabimento dello strato lipidico esterno delle vescicole con quello lipidico interno della membrana.

Si forma transitoriamente una struttura pentalaminare delle membrane in via di coalescenza: in corrispondenza della superficie di contatto e di fusione tra la membrana della vescicola e la membrana plasmatica, il terzo strato esterno della prima membrana (della vescicola) si fonde con il terzo strato interno della seconda (del plasmalemma) per formare un unico strato; questo, insieme ai due strati residui della vescicola ed ai due residui del plasmalemma costituiscono un pentastrato.

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A fenomeno completato, si ricostituisce una normale membrana trilaminare a mosaico (modello di Singer e Nicholson).

Nella figura 42 è riportato uno schema di esocitosi in cui una vescicola matura di transizione (a) proveniente dal reticolo endoplasmatico ruvido, dove è stata sintetizzata, migra fino alla membrana plasmatica con la quale si fonde iniziando il collabimento del proprio strato lipidico esterno con quello interno della stessa membrana e determinando transitoriamente una struttura pentalaminare del plasmalemma (b) in via di coalescenza (c); a fenomeno completato si ricostituisce una normale membrana trilaminare (d) costituita da materiale fornito dalla stessa vescicola, mentre il contenuto di quest’ultima viene versato nella regione della parete (e) ed essere assimilato dalla stessa (f).

Fig. 42 – Esempio schematico di esocitosi in una cellula vegetale. Una vescicola matura di transizione (a) migra dal reticolo endoplasmatico ruvido fino al plasmalemma con la quale si fonde, iniziando il collabimento del proprio strato lipidico esterno con quello interno della membrana cellulare e determinando transitoriamente una struttura di membrana pentalaminare (b) in via di coalescenza (c); a fenomeno completato si ricostituisce una normale membrana trilaminare (d), mentre il contenuto della vescicola viene versato nella regione della parete (e) ed assimilato dalla stessa (f).

Con questo meccanismo la vescicola trasporta membrana neosintetizzata e nuovi materiali che arricchiscono, rispettivamente, il plasmalemma e la parete cellulare. Per questo motivo la composizione proteica delle nuove aree della membrana cellulare è diversa da quella del preesistente plasmalemma. Queste aree derivate dalle vescicole di secrezione sono ben presto ricoperte sulla faccia interna da molecole di clatrina o, più verosimilmente, le vescicole mature escono dall’apparato del Golgi già rivestite da una parete di clatrina e sono destinate a diventare le fossette rivestite di cicli di endocitosi mediata da recettori. In altri termini le citomembrane utilizzate per l’esocitosi sono riciclate come vescicole endocitotiche e rinviate al reticolo endoplasmatico, secondo un ciclo descritto nella figura 43.

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Fig. 43 – Rapporti funzionali tra esocitosi ed endocitosi. Le membrane cellulari utilizzate per la secrezione di materiali neosintetizzati a livello del reticolo endoplasmatico (esocitosi) sono riciclate come vescicole ammantate (endocitosi) e rinviate all’apparato del Golgi. La citomembrana (in rosso) costituente la fossetta esocitotica (a), derivata dalla vescicola secretoria, viene riciclata per costituire la membrana della fossetta rivestita (b) e poi quella della vescicola ammantata, nell’endocitosi mediata da recettori. Il materiale della fossetta esocitotica viene assimilato dalla parete cellulare, mentre il materiale che entra nella cellula dall’ambiente esterno si lega ai recettori di membrana come ligando.