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Fiducia e Temporary Management

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La fiducia nella gestione di un cambiamento sotto pressione temporale: un caso di “temporary management” di Paolo De Angeli Questa tesi nasce dalla consapevolezza di due aspetti critici per le imprese: da un lato, la maggiore complessità dello scenario competitivo, che richiede continui cambiamenti e repentine soluzioni a stati di crisi; dall’altro, l’accresciuta criticità di comportamenti basati sulla fiducia e sulla maggiore responsabilizzazione dei collaboratori. Ci si è chiesti come sia possibile pensare di gestire un cambiamento ricorrendo a pratiche di “comando e controllo”, attendendosi che, dopo la fase di transizione o di crisi, l’azienda riprenda la sua normale attività attraverso una gestione ordinaria guidata dalla fiducia e governata da un clima di collaborazione.

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Introduzione L’idea di questo lavoro nasce dalla consapevolezza di due aspetti sempre più centrali per le imprese moderne: da un lato, la maggiore complessità dello scenario competitivo, che richiede continui cambiamenti e repentine soluzioni a stati di crisi; dall’altro, l’accresciuta criticità di comportamenti basati sulla fiducia e sulla maggiore responsabilizzazione dei collaboratori nella gestione ordinaria di un’impresa. A partire da queste considerazioni, ci si è chiesti come sia possibile pensare di poter gestire un cambiamento ricorrendo a pratiche di “comando e controllo”, attendendosi che, dopo la fase di transizione o di crisi, l’azienda riprenda la sua normale attività attraverso una gestione ordinaria guidata dalla fiducia e governata da un clima di collaborazione, come i normali contesti competitivi impongono. Attraverso l’analisi di numerosi studi teorici sul tema del change management e sul concetto di fiducia, in contesti ordinari e in situazioni di forte pressione temporale, in cui essa assume i connotati di quella che Meyerson, Weick e Kramer (1996) definiscono “swift trust” (“fiducia veloce”), e grazie allo studio di un caso empirico di “temporary management”, il presente lavoro si è posto l’obiettivo di dimostrare che è possibile ed efficace gestire una fase di cambiamento sotto forte pressione temporale anche attraverso la fiducia e la delega. L’attenzione dello studio è stata concentrata, da un lato, sull’analisi delle caratteristiche e delle implicazioni dell’attività di “temporary management”, destinata, per le peculiarità dello scenario competitivo odierno, che tale attività sembra cogliere ottimamente, ad avere sempre più successo in un futuro prossimo. Dall’altro, su un esame delle proprietà che la fiducia assume in situazioni in cui è richiesta una soluzione repentina ai problemi dell’azienda, in contesti, cioè, in cui i classici modelli di studio (cfr. Shapiro, Cheppard e Cheraskin, 1992; Lewicky e Bunker, 1996), che presuppongono la necessità di tempo per permettere la nascita di relazioni fiduciarie tra più parti, non possono essere utilizzati, per le caratteristiche proprie della situazione in cui la relazione tra gli attori sociali nasce e si sviluppa. Il caso di successo di un’azienda tessile lombarda, la Leggiuno SpA, infine, ha aiutato a comprendere che gli studi interessati a sottolineare l’importanza delle risorse umane come fattore critico di successo hanno, forse, finalmente, trovato, in questi anni di intensa competizione, dei tempi maturi d’applicazione e che i principi di gestione che suggeriscono un ricorso a stili partecipativi fondati sulla fiducia possono davvero portare ad un successo sano e duraturo, se messi in pratica. Anche in casi di crisi.

1 - L’ANALISI TEORICA 1.1 Le caratteristiche dello scenario competitivo moderno Lo scenario in cui, oggi, le aziende si trovano a competere richiede interventi estremamente accelerati e di massima flessibilità, che significa saper modificare velocemente le strategie e adattare la struttura organizzativa alle diverse

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circostanze per rispondere tempestivamente e nel modo migliore ai continui e rapidi mutamenti del mercato. Alcune azioni organizzative come la qualità totale, la transizione verso una struttura fondata sui team, la costruzione di partnership con clienti e fornitori, il downsizing, il reeingineering, il benchmarking, l’aumento dell’outsourcing e il maggior impiego di personale interinale si inseriscono in questa prospettiva. Trovandosi ad operare in un contesto di ipercompetizione1, le imprese devono assumere un atteggiamento proattivo, per sperare di sopravvivere. Per cogliere le occasioni offerte dall’ambiente, è, infatti, impossibile pensare di non partecipare ai giochi competitivi in modo attivo, perché se in passato le aziende potevano permettersi ritmi più rilassati, oggi, perdere, ad esempio, l’occasione di entrare in un nuovo mercato (merceologico o geografico che sia) può costare caro. Queste particolari caratteristiche dell’ambiente competitivo odierno sono alla base della recente nascita di nuove forme organizzative, quali le imprese a rete e i gruppi temporanei (sistemi di breve durata, flessibili e disegnati ad hoc per fronteggiare specifici problemi, in cui la struttura organizzativa cambia continuamente, le persone si muovono frequentemente tra posizioni diverse e la comunicazione è laterale piuttosto che verticale), e hanno avuto anche forti impatti sulla struttura del mercato del lavoro. Oggi, infatti, come dice Innocenti (2001)2, “le organizzazioni cercano professionisti sempre più coinvolti, dotati di spirito di iniziativa e intraprendenza, senza offrire loro quelle sicurezze e garanzie di un tempo che, peraltro, molti individui sono i primi a non trovare più così attraenti e importanti”. I rapporti tra individui e aziende risultano sempre più caratterizzati da instabilità, incertezza e da una minore fedeltà reciproca. Si riduce, contemporaneamente, il numero di lavoratori assunti “a vita”, mentre si espande il numero dei lavoratori marginali che prestano la loro opera per l’azienda senza esserne realmente parte, anche occupando posizioni manageriali, come nel caso del temporary management, soluzione che permette di “prendere in affitto” manager dall’esterno per gestire un’impresa, una sua parte o un progetto per un periodo di tempo definito, in situazioni in cui è richiesta un’azione rapida e tempestiva. Questa evoluzione del contesto competitivo, come sostengono sempre più studiosi, costringe, inoltre, le aziende a ripensare il classico modello d’impresa, incentrato sul controllo. Come dice D’Egidio (1997, p.31), occorre “far propria la convinzione che le persone tendono a svolgere al meglio il proprio lavoro, applicando al massimo grado la loro competenza, senza aver bisogno di esser strettamente controllate o addirittura sorvegliate da capi”. Molti studiosi concordano nel dire che sia, ormai, necessario prendere in seria considerazione un nuovo modello di impresa, che sostituisca quello classico e si fondi sul concetto di fiducia e suggeriscono, quindi, di responsabilizzare maggiormente i collaboratori. “L’esperienza delle imprese orientate al cliente”, dice Crozier (1989)3, “dimostra che, per fronteggiare la complessità, le organizzazioni di successo lasciano pieno potere decisionale a dei gruppi operativi forti e ad individui liberi (di operare)”. Queste riflessioni s’inseriscono bene in un dibattito molto noto e non ancora del tutto terminato sulla convenienza o meno del ricorso alla fiducia in termini di costi

1 Cfr. D’Aveni R., Ipercompetizione, Edizioni Il Sole 24 Ore, 1995, p.13, p.286 2 Cfr. http://www.nextonline.it/archivio/12/05.htm 3 Cfr. Duluc A., Botteri T., La leadership costruita sulla fiducia, Angeli, Milano, 2003, p.48

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di transazione. La teoria dei costi di transazione sviluppata da Williamson è una teoria organizzativa che si basa sull’assunto che alle persone che lavorano in azienda non si possa dare fiducia. In altre parole, essa sostiene che per continuare a produrre profitti, l’organizzazione deve difendersi dai comportamenti dettati dall’interesse personale e dalla malafede di coloro che vi lavorano. Le organizzazioni esistono, quindi, per la loro capacità superiore rispetto al mercato di attenuare l’opportunismo umano (inteso come il perseguimento dei propri interessi con l’inganno e attribuito da Williamson esclusivamente alla natura umana e non, ad esempio, al contesto), attraverso l’esercizio di un controllo gerarchico (cfr. Ghoshal e Moran, 1996). Questa teoria, nello scorso decennio, è diventata un’àncora sempre più importante per l’analisi di un’ampia gamma di problematiche strategiche e organizzative, ma negli ultimi anni, ha subìto alcune critiche. Date le sue forti ed estreme assunzioni di base, infatti, la sua utilità è molto più limitata di quanto talvolta si affermi. Essa non solo non risulta applicabile a molte situazioni in cui ci si trova a prendere delle decisioni in contesti aziendali, ma, se applicata alla lettera, può anche influenzare la performance aziendale. Che cosa succede, ad esempio, se, contrariamente a quanto dice l’assunto fondamentale della teoria in questione, le organizzazioni partono dal presupposto che gli individui siano, almeno parzialmente, affidabili? Williamson (1975, 1985)4 sostiene che le difficoltà che l’organizzazione inevitabilmente incontra nell’identificare gli individui affidabili, rendono necessaria l’adozione di una struttura coerente con l’assunto che gli individui, invece, non siano tali. Secondo questa teoria, quindi, le organizzazioni in cui si parte dal presupposto dell’affidabilità dei comportamenti degli individui vengono facilmente “invase e sfruttate” da persone che non sono affidabili, perdendo la capacità di produrre profitti. Molte teorie, invece, suggeriscono e l’evidenza empirica dimostra che, almeno in alcuni contesti sociali, le persone sono degne di fiducia (Axelrod, 1984; Cummings e Anton, 1990; Dasgupta, 1988; Frank, 1988; Granovetter, 1985; Witt, 1986). Bromiley e Cummings (1993)5 sostengono, addirittura, che la fiducia riduca i costi di transazione. La tesi di Williamson, secondo cui le organizzazioni dovrebbero agire come se i dipendenti non fossero affidabili, diventa una profezia autoavverantesi: se un’organizzazione agisce come se i dipendenti non fossero affidabili questi lo diventeranno effettivamente. Infatti, i comportamenti opportunistici aumenteranno di pari passo con le sanzioni e gli incentivi progettati per limitarli, creando così il bisogno per sanzioni ed incentivi più forti e più elaborati. Una conseguenza di questa profezia autoavverantesi è l’aumento dei costi di direzione e la progressiva diminuzione del livello di competitività dell’azienda, oltre che l’accrescimento di comportamenti avversi al rischio che influenzano la performance di lungo periodo. Dato che i comportamenti opportunistici sono difficili da distinguere ex ante dall’imprenditorialità e dalla leadership, sforzandosi di controllare i primi, si finirà, infatti, col distruggere i secondi. Oltre a queste considerazioni, è possibile aggiungere che un livello elevato di fiducia ha notevoli effetti sulle variabili organizzative. Secondo McEvily, Perrone e Zaheer 4 Cfr. Ghoshal S., Moran P., “Bad for practice: A Critique of the Transaction Cost Theory”, Academy of Management Review, 1996 5 Cfr. Creed W.E., Miles R.E., A Conceptual Framework linking Organizational Forms, Managerial Philosophies, and the Opportunity Costs of Controls, in Kramer R.M., Tyler T.R., Trust in organizations: Frontiers of Theory and Research, Sage Publications, Thousand Oaks, CA. U.S.A., 1996, p.17

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(2003), la fiducia influenza l’organizzazione attraverso due sentieri causali diversi: la strutturazione della relazione (configurando i modelli d’interazione relativamente stabili e perduranti tra e all’interno delle organizzazioni) e la mobilitazione (motivando gli attori a metter a disposizione, combinare e coordinare le risorse verso sforzi e sfide comuni). Il ricorso alla fiducia piuttosto che al controllo ha rilevanti effetti positivi anche sui costi operativi e su quelli di struttura: una ricerca condotta da Whitney6 ha verificato che i costi di alcune società i cui manager hanno deciso di approvare automaticamente tutte le note spese dei dipendenti sono scesi, nel giro di breve tempo, anche del 40%. Rinunciare al controllo nella gestione aziendale determina notevoli ripercussioni anche sulla struttura stessa dell’organizzazione: in primo luogo, molte persone, il cui unico ruolo in azienda è quello di controllare il comportamento degli altri, diventano superflue e si può decidere di impiegarle in aree diverse e aumentare la produttività o di farle uscire generando un notevole risparmio nei costi di struttura; in secondo luogo, in un’azienda che incoraggia comportamenti di fiducia, il middle management perde la sua funzione di controllore e acquista un ruolo di supporto. Un altro aspetto verso cui la fiducia assume una valenza fondamentale è la creazione di energia: le persone cui si accorda fiducia si sentono più responsabili, forti, degne del compito loro assegnato ed esprimono una maggiore propensione ad impegnarsi con tutte le loro forze per raggiungere gli obiettivi. Occorre, quindi, avere fiducia nei propri collaboratori e questi, a loro volta, nei capi e nell’azienda. “Senza la fiducia”, come dice Duluc (2003, p.16), “non si arriva da nessuna parte: essa è oramai una componente indispensabile, poiché il lavoro è diventato troppo complesso e l’ambiente incerto e mutevole ad un ritmo sempre più rapido”. Il ricorso alla fiducia come meccanismo di coordinamento e di regolazione sociale, del resto, risulta appropriato laddove i compiti e le mansioni risultino caratterizzati da elevata discrezionalità, perché, in questi casi, risulta difficile controllare che le regole e le prescrizioni vengano applicate alla lettera. Se le organizzazioni nei prossimi decenni diventeranno sempre più piatte nelle loro strutture e sempre più incentrate sulle informazioni (Drucker, 1989), la fiducia diverrà sempre più importante nella progettazione e nello sviluppo organizzativi poiché facilita il decentramento del processo di “decision making” e la condivisione di informazioni. Da un lato, quindi, per le caratteristiche competitive del contesto economico globale, le aziende sono costrette a cambiare continuamente; dall’altro, la fiducia assume sempre maggiore criticità. Diventa, allora, importante capire il valore di quest’ultima per competere nei mercati moderni. 1.2 La “swift trust” nelle “swift organizations” Il tema della fiducia (“uno stato psicologico che comporta l’intenzione di accettare di essere vulnerabili basata su aspettative positive circa le intenzioni e il comportamento di un altro”, secondo la definizione di Rousseau, Sitkin, Burt e Camerer, 1998) sta assumendo una posizione di grande rilievo nelle scienze sociali.

6 cfr. D’Egidio F., Molteni G., Treglia G., Vergani A., Manager in affitto per risolvere problemi di cambiamento, crisi, sviluppo e successione, Franco Angeli, Milano, 1997, p.35-36

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Il successo che esso ha riscosso nell’ultimo decennio è dovuto a vari fattori quali: l’instabilità delle relazioni tipica della società moderna; la globalizzazione; processi sempre più frequenti di ristrutturazione; alcuni cambiamenti delle pratiche manageriali; il maggior ricorso al paradigma dell’impresa-rete; relazioni temporanee più frequenti etc. McKnight e Chervany (1996, cfr. Perrone, 1998) hanno recensito oltre 60 tra libri ed articoli sulla fiducia e hanno trovato molte definizioni divergenti. Il concetto di fiducia ha, infatti, riscosso interesse in molti campi ed è stato trattato, a seconda degli studiosi e delle discipline, sotto punti di vista diversi. Worchel (1979) raggruppa queste diverse prospettive in tre gruppi differenti: 1. Il punto di vista dei teorici della personalità, che si sono focalizzati sulle differenze nella disposizione individuale a fidarsi e sui fattori sociali e contestuali specifici che modellano questa disposizione. La fiducia è vista come una convinzione, un’aspettativa o un sentimento che è profondamente radicato nella personalità e trae le sue origini nel primo sviluppo psicologico dell’individuo; 2. Il punto di vista dei sociologi e degli economisti, che si sono focalizzati sul concetto di fiducia come fenomeno istituzionale. La fiducia, in questa accezione, può essere intesa come un fenomeno tanto all’interno quanto tra organizzazioni e come la fiducia che gli individui assegnano a tali istituzioni; se da un lato, però, gli economisti l’hanno sempre vista come un fenomeno fondato su calcoli razionali, i sociologi, dall’altro, hanno concentrato maggiormente la propria attenzione su valori comuni e orientamenti morali degli individui come meccanismi alla base della sua creazione. 3. Il punto di vista degli psicologi sociali, che si sono focalizzati sulle transazioni interpersonali tra individui che creano e distruggono la fiducia a livello interpersonale e di gruppo. La fiducia può esser vista, in questo caso, come l’aspettativa della controparte nella transazione, i rischi associati ad assumere queste aspettative e ad agire di conseguenza, e i rischi contestuali che servono a far crescere o a ridurre lo sviluppo e il mantenimento di quel rapporto di fiducia. L’attenzione maggiore di questo lavoro è, però, rivolta allo studio delle caratteristiche che la fiducia assume in contesti in cui è forte la pressione temporale. Meyerson, Weick e Kramer (1996), prendendo in esame i meccanismi che consentono l’instaurarsi della fiducia in gruppi temporanei, hanno sviluppato il concetto di “swift trust” (fiducia veloce), che sottolinea la necessità di instaurare in breve tempo un legame tra le parti improntato alla fiducia reciproca. Questo tipo di fiducia, per ora limitato ai gruppi temporanei, è destinato ad aver sempre più importanza nei contesti iperveloci e ipercompetitivi in cui le aziende si troveranno a dover competere in un futuro prossimo. In simili contesti, le considerazioni fatte in merito alla fiducia fin ad oggi rimangono valide, ma assumono caratteristiche particolari ed estreme, perché devono essere applicate ad un gruppo temporaneo, un insieme di persone, cioè, con competenze diverse che lavorano insieme ad un obiettivo complesso in un periodo di tempo limitato. In simili casi, non esiste, infatti, il tempo necessario per costruire e creare attività tese allo sviluppo e al mantenimento di fiducia, come in normali organizzazioni. I gruppi temporanei presuppongono che ci sia fiducia tra i membri del gruppo, ma le classiche fonti di fiducia (come la familiarità tra i componenti del gruppo e la condivisione di norme sociali, alcune esperienze condivise e la possibilità di collaborazioni future, un discreto livello d’apertura reciproca, la presenza di minacce e di deterrenti, alcune promesse mantenute, e, ancora, alcune dimostrazioni di non sfruttamento dello

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stato di vulnerabilità altrui) non sono necessariamente riscontrabili in questi sistemi. I gruppi temporanei, in breve, agiscono dando per assunto che la fiducia ci sia, nonostante l’assenza di esperienze passate che dovrebbe teoricamente impedirne lo sviluppo. In situazioni in cui relazioni sviluppate di fiducia sono assenti, infatti, la fiducia è conferita “ex ante”. I processi che avvengono nei sistemi temporanei per arrivare allo sviluppo della fiducia sono, quindi, diversi. Innanzitutto, mancando una storia vera e propria, è tipico in tali situazioni fare uso di variabili che facciano da sostituti o “proxies” alla stessa. A tal proposito, si ricorre spesso a giudicare l’attore destinatario di fiducia in base all’esperienza di quest’ultimo con una terza parte nota; esistono, infatti, degli “intermediari della fiducia” (Coleman, 1990, cfr. Mutti, 1998) costituiti da persone di cui ci si fida e che si fanno garanti dell’affidabilità di altre persone con cui non si è in contatto. Numerosi studi, poi, dimostrano che, in alternativa agli “intermediari della fiducia”, i componenti del gruppo temporaneo utilizzano il ruolo e le caratteristiche degli altri come variabile sostitutiva dell’esperienza passata inesistente, attraverso il fenomeno della categorizzazione e della stereotipizzazione. A causa della pressione temporale che lascia poco tempo alla costruzione di relazioni sociali e ostacola la possibilità dei membri di sviluppare aspettative sugli altri basate su informazioni certe, gli individui si formano attese e sentimenti di fiducia facendo ricorso ad altri contesti con cui hanno maggiore familiarità e costruiscono velocemente impressioni degli altri soggetti. Proprio perché gli individui importano la fiducia piuttosto che svilupparla, essa potrebbe essere presente fin dalle prime interazioni tra individui e toccare il culmine nella fase iniziale del progetto, dato che, in situazioni particolarmente complesse e ad elevata incertezza, la risposta in termini di fiducia non può che essere immediata. Il paradosso apparente della fiducia iniziale può essere spiegato presentando una serie di fattori e processi “nascosti”, che intervengono sugli individui e portano ad alti livelli di fiducia nei primi momenti dell’interazione. Come evidenziato anche da uno studio di McKnight et al. (1998), la fiducia iniziale non sarà basata sulla conoscenza o su esperienze dirette con la controparte, ma sulla disposizione a fidarsi degli individui, che indica la tendenza a voler dipendere dagli altri, e da alcuni meccanismi sociali e processi cognitivi e psicologici, quali le “illusioni di controllo”, l’“invulnerabilità percepita”, il “tradizionalismo” e l’“ottimismo irrealistico”. In pratica, come sostenuto da molti teorici della fiducia e dimostrato da alcuni studi empirici (per tutti, Kramer, 1994, cfr. McKnight et al., 1998), l’affermarsi di comportamenti fiduciosi è sostenuto fortemente dalle illusioni. Ma se, da un lato, come appena visto, risulta determinante l’esistenza di una varietà di sottili processi psicologici e meccanismi sociali per creare fiducia in poco tempo all’interno di tali gruppi, altrettanto importante risulta essere, dall’altro, l’azione conseguente, che ha il compito di rinforzare e sviluppare la fiducia concessa. Più è forte l’azione, maggiore sarà la disposizione a fidarsi e più velocemente si svilupperà la fiducia. Quindi, sebbene la tradizionale concezione di fiducia sia basata sulle relazioni interpersonali, il concetto di “swift trust” de-enfatizza la dimensione interpersonale basandosi inizialmente sull’utilizzo di ampie strutture di categorizzazione sociale e dopo sull’azione. La fiducia in gruppi temporanei non

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assume tanto la forma interpersonale classica, ma una configurazione più cognitiva e di azione. Data la velocità tipica di tali contesti, qualsiasi distrazione dal compito centrale sottrarrebbe, infatti, forze alla prestazione del gruppo. Poiché i compiti devono esser svolti in breve tempo, gli individui si focalizzeranno, quindi, più su di essi che non sullo sviluppo di relazioni sociali e daranno maggior peso, nel decidere se affidare o meno fiducia agli altri, alla loro abilità e alla loro integrità percepita, piuttosto che alla loro benevolenza. Quello che potrebbe sembrare un elemento ostacolante, e cioè la brevità del tempo a disposizione, gioca un ruolo a favore della fiducia e del buon clima interno al gruppo; i membri devono concentrarsi subito sull’obiettivo comune e non hanno tempo a sufficienza per instaurare delle relazioni complesse, che sono spesso alla base, nei gruppi più durevoli, di fenomeni pericolosi, come conflitti, gelosie e fraintendimenti. 1.3 Fiducia e crisi Come detto in precedenza, sempre più studiosi vedono la fiducia al centro della gestione aziendale e sostengono che creare e sviluppare un clima di fiducia all’interno di un’azienda sia la via da perseguire per poter competere in modo efficiente ed efficace nei moderni mercati globali. Il modello del consenso7, che si basa sulla costruzione di un clima in cui le parti siano d’accordo sull’azione, mostra bene alcune implicazioni pratiche di questo mutamento in azienda. Ma se la posizione di tali autori è assolutamente condivisibile e, anzi, raccomandabile, è opportuno sottolineare che i modelli e le considerazioni presentate finora hanno, però, posto esclusivamente l’accento, nella maggior parte dei casi, sull’uso della fiducia per la gestione ordinaria d’azienda, in situazioni in cui i ritmi d’azione a disposizione siano facilmente sostenibili, piuttosto che prevederne l’utilizzo anche in casi di gestione straordinaria, come nel caso di una crisi o di un cambiamento. D’altro canto, i modelli tradizionali di gestione del cambiamento suggeriscono di gestire una situazione di crisi, soprattutto se sotto pressione temporale, con l’accentramento dei poteri in mano a pochi e non con la delega e la fiducia. Lo scopo di questo lavoro, è, invece, quello di dimostrare come, in un caso di riprogettazione e rilancio aziendale, sia possibile far ricorso alla fiducia e ottenere ottimi risultati. Le considerazioni che seguiranno rivestono particolare importanza alla luce della frequenza con cui le aziende oggi si trovano a gestire processi di transizione o crisi e della centralità della modalità di gestione che si decide di perseguire per far fronte a situazioni di gestione straordinaria. Negli ultimi tempi, infatti, le crisi organizzative sono diventate quasi una routine. Nell’analizzare simili situazioni, i ricercatori hanno individuato una serie di comportamenti che prendono forma all’interno delle organizzazioni che si trovano a dover fronteggiare una crisi. Il comune effetto di rigidità, ad esempio, deriva dalla minaccia impellente e si ha sotto le ipotesi che, in risposta ad una crisi, la complessità della comunicazione si riduca, il potere e l’influenza vengano accentrati e l’attenzione all’efficienza aumenti, portando a preservare le risorse e ad assumere

7 Cfr. Duluc A., Botteri T., La leadership costruita sulla fiducia, Angeli, Milano, 2003, p.218

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comportamenti di minor elasticità. Pfeffer (1978)8, del resto, sostiene che “l’accentramento è una soluzione verosimile in casi di minacce e di crisi” ed anche la maggior parte dei modelli classici di change management afferma che, in casi di cambiamento in tempi brevi e con forti pressioni, la soluzione migliore sia fare gestire la difficile situazione ad una o poche persone. La teoria dice che, se si deve lavorare in un lasso di tempo molto breve e con degli obiettivi precisi, un clima d’influenza elevata (con un piano, una struttura etc.) e di apertura debole è più efficace del contrario, ossia debole influenza (nessuna struttura) e apertura elevata9. In condizioni di crisi, normalmente, si fa, quindi, ricorso, per la gestione di un gruppo, al paradigma della “forza” o del “compromesso”10; la prima, in particolare, consiste nel pensare che le persone siano assunte e pagate per lavorare insieme. In questo contesto i fattori motivanti sono soprattutto la paura di essere puniti e il senso della disciplina. Questa concezione permette, a volte, di raggiungere determinati obiettivi in breve tempo: tuttavia, come sottolineano più autori (ad es., Duluc e Botteri, 2003), gli svantaggi sono numerosi: in questo clima, infatti, i membri del gruppo tendono a provare una certa ansia, poiché temono le critiche degli altri, e fanno in modo di evitare errori. Di conseguenza, il livello propositivo è molto basso e la produttività ne risulta limitata. Ognuno si aggrappa al leader che, a poco a poco, assume uno stile autocratico. Le persone proteggono se stesse, mentre la creatività e l’iniziativa lasciano il posto al conformismo e alla routine. Questo tipo di funzionamento, corrispondente al clima di lavoro sotto la forza, conduce spesso a dei veri e propri disastri, come nel caso, ad esempio, dell’incidente del Challenger11 che nel 1986 esplose dopo quarantasei secondi di volo: il rischio di esplosione era stato chiaramente rilevato, ma la pressione del management era così forte che non fu possibile affrontare il problema. Oltre all’evidenza di questi svantaggi, alcune ricerche hanno poi mostrato che l’efficacia di tale forma di gestione non è garantita: D’Aveni (1989)12, per esempio, ha dimostrato che le imprese fallite in seguito ad una crisi soffrivano di un maggior accentramento dell’autorità e di una più rigida adesione alle strategie esistenti, rispetto a quelle che sopravvivevano ad una crisi. Cameron, Kim e Whetten (1987)13 hanno, poi, riscontrato numerosi risultati negativi in imprese in declino o sottoposte a pratiche di “downsizing”: una diminuzione dei livelli di scorte, di morale, fiducia, comunicazione verso l’alto e innovazione e un aumento dei livelli di conflitto e accentramento. In breve, le imprese che accentravano i poteri e non gestivano una crisi con deleghe e fiducia si trovavano, in poco tempo, ad accentrare maggiormente e a subire diminuzioni dei livelli di fiducia, essendo entrate in un circolo vizioso.

8 Cfr. Mishra A.K., Organizational Responses to Crisis: The Centrality of Trust, in Kramer R.M., Tyler T.R., Trust in organizations: Frontiers of Theory and Research, Sage Publications, Thousand Oaks, CA. U.S.A., 1996, p. 262 9 Cfr., ad es., Duluc A., Botteri T., La leadership costruita sulla fiducia, Angeli, Milano, 2003, p.203 10 Cfr. Duluc A., Botteri T., La leadership costruita sulla fiducia, Angeli, Milano, 2003, p.196-197 11 ibid., p.218 12 Cfr. Mishra A.K., Organizational Responses to Crisis: The Centrality of Trust, in Kramer R.M., Tyler T.R., Trust in organizations: Frontiers of Theory and Research, Sage Publications, Thousand Oaks, CA. U.S.A., 1996, p. 262-263 13 ibid.

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Sebbene gli autori citati abbiano affrontato in parte il tema, gli studi condotti finora sulle imprese in crisi hanno trascurato nelle loro analisi alcuni sistemi di valore profondi, come la cultura organizzativa e la fiducia. Ciò risulta, perlomeno, alquanto singolare, dato che la capacità di sviluppare fiducia è vista da molti come una caratteristica saliente che un leader deve avere durante un periodo di crisi. Mishra (1996), ad esempio, dopo aver intervistato 33 manager di circa una dozzina di aziende statunitensi e riassumendo le posizioni di numerosi ricercatori e studiosi sul tema, ha sviluppato un modello attraverso cui è possibile ipotizzare che, durante una crisi, la fiducia abbia effetti positivi su tre aspetti chiave del comportamento organizzativo, particolarmente rilevanti in simili condizioni: decentramento dei processi decisionali; comunicazione non distorta; e collaborazione. Fiducia e crisi risultano, quindi, strettamente collegate tra loro, perché la crisi è fortemente caratterizzata da uno stato di incertezza e dipendenza da altri e diventa un imperativo scegliere le persone giuste cui chiedere aiuto. Le considerazioni appena fatte vanno, quindi, nella stessa direzione di quegli studi, sempre più comuni, secondo cui i modelli tradizionali di gestione di una crisi o di un cambiamento, basati sui paradigmi della forza e del compromesso, devono lasciare il posto a paradigmi fondati sulla collaborazione sincera tra le parti, attraverso il lavoro di un gruppo i cui membri siano complementari tra di loro e abbiano una relazione aperta e onesta. Anche in un processo di cambiamento, sempre più manager si sono resi conto che l’attenzione alle persone è un elemento fondamentale e che gestire una transizione con coloro che per primi ne saranno coinvolti può aiutare l’agente del cambiamento a gestire un’operazione difficile in termini più efficaci ed efficienti. Da più parti risulta chiaro che, come dice Marcandalli (2004)14, il fattore critico di ogni cambiamento relativo all'attività di un’impresa, quello che può determinare il successo o il fallimento, sta nelle risorse umane. Se le persone sono davvero importanti in un processo di cambiamento, è auspicabile, quindi, che esse vengano coinvolte fin dall’inizio. Una delle possibili difficoltà che un change agent potrebbe trovare in questo stadio è quella delle resistenze al cambiamento. Aiutare le persone a cambiare è uno dei compiti più ardui per un manager chiamato a gestire una transizione, ma è assolutamente indispensabile, data la velocità di mutamento dell’ambiente competitivo e le continue trasformazioni che esso richiede. Talvolta, gli individui fanno fatica a cambiare e ad apprendere perchè il cambiamento ha impatto sulle persone coinvolte. Molto spesso, però, ci si trova a dover gestire delle resistenze al cambiamento solo perché non si tiene conto a sufficienza del concetto di sé dell’individuo che corrisponde, in ultima analisi, alla sua identità personale15. Anche il famoso modello di Lewin, che presuppone le tre fasi di scongelamento, cambiamento e ricongelamento, è legato alla percezione di sé. La fiducia interviene in modo principale sulla prima fase. In questo stadio, infatti, oltre ai comuni problemi di motivazione che richiedono di individuare tutti i benefici e le valenze legate al cambiamento, esiste il problema della c.d. “disconferma”: bisogna, cioè,

14 Cfr. Marcandalli R., Change Management: l’impatto sulle risorse umane, Zero Uno, Gennaio 2004, p.60-63 15 Cfr. Duluc A., Botteri T., La leadership costruita sulla fiducia, Angeli, Milano, 2003, p.168

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far capire alle persone coinvolte le ragioni del cambiamento e far comprendere loro che bisogna cambiare, perché il modello di riferimento è diventato obsoleto e non funziona più. Una soluzione può essere, quindi, dar fiducia alle persone per ottenerne l’impegno e la maggiore apertura al cambiamento e per aiutarle a vincere le paure alla base delle resistenze. Per proteggersi da ciò che può minacciare il concetto di sé ed indebolire l’autostima, infatti, come ricorda Duluc (2003, p.185), l’individuo utilizza dei meccanismi di difesa e di chiusura, che operano in maniera non cosciente e che entrano in gioco ogni volta in cui si trova in una situazione di minaccia della propria identità personale. Ciò da cui il soggetto si difende in maniera inconscia sono, in ultima analisi, le sue paure personali profonde, di essere insignificante, di essere incompetente e di non essere amato. Queste considerazioni sono confermate da uno studio di Krackhardt e Stern (1988)16 che ha dimostrato come la fiducia, in periodi caratterizzati dal cambiamento e dall’incertezza, influenzi la cooperazione e il raggiungimento di un accordo. 2 - L’ANALISI EMPIRICA: il caso della Leggiuno SpA Le riflessioni teoriche fatte circa la reale possibilità di gestire, attraverso uno stile partecipativo e basato sulla fiducia, una situazione che richieda soluzioni entro breve termine costituiscono l’elemento centrale dello stile utilizzato da un giovane manager a tempo, Claudio Passera, nella gestione della difficile situazione in cui si trovava un’azienda storica del settore tessile, la Leggiuno SpA. Per comprendere meglio le caratteristiche dello scenario entro cui ha avuto luogo l’intervento di rilancio, occorre dare qualche informazione aggiuntiva sull’attività di “temporary management” che, nata a metà degli anni ‘70 in Olanda, si è diffusa rapidamente in molti Paesi europei e negli Stati Uniti, per l’efficacia con cui essa risolve i problemi tipici delle aziende moderne operanti in contesti ipercompetitivi. Secondo la definizione di diversi autori17, essa è un’“attività svolta da manager altamente qualificati, esterni all’azienda, per gestire un’impresa, una sua parte o un progetto per un periodo di tempo definito, in situazioni in cui è richiesta un’azione rapida con il compito specifico di garantire la continuità all’interno di un’organizzazione, mantenendola competitiva nel tempo, e di accrescere le capacità del management esistente”. Questo non vuol dire che i manager a tempo siano esperti in ogni disciplina; essi sono specializzati nella gestione delle aziende in senso lato, più che degli esperti di ciò che l’azienda cliente produce e per le loro competenze possono essere impiegati in modo efficace anche su problemi diversi dalle loro qualifiche e dalla loro preparazione. Chi diventa manager a tempo rappresenta una risorsa umana di grande qualità, spesso iperqualificata rispetto alla mansione per cui viene chiamato, che unisce

16 Cfr. McGrath C. e Krackhardt D., Network Conditions for Organizational Change, The Journal of Applied Behavioral Science, Vol. 39, No. 3, 2003, p.324-336 17Cfr. D’Egidio F., Molteni G., Treglia G., Vergani A., Manager in affitto per risolvere problemi di cambiamento, crisi, sviluppo e successione, Franco Angeli, Milano, 1997, p.58; Clutterbuck D., Dearlove D., The interim manager, Financial Times Pitman, 1998; Golzen G., Interim management, Sperling & Kupfer, 1994; Quarta M., Temporary management – Ascoltiamo l’Europa, Franco Angeli, Milano, 2004, p.15

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spirito imprenditoriale, competenza ed esperienza (cfr. Golzen, 1994, p.11) e può entrare in qualsiasi tipo di situazione ed essere quasi immediatamente produttivo. Per la criticità della sua attività, il manager a tempo è di solito un ex dirigente di alto livello, di età compresa tra i 45 e i 55 anni, che, lasciata l’azienda di appartenenza, vuole provare le sue capacità imprenditoriali e professionali, mettendosi in discussione, oppure un ex consulente. Oltre alle competenze specifiche, però, sono richieste anche delle caratteristiche psicologiche e personali particolari. Elemento chiave nella figura del manager temporaneo è, infatti, la motivazione e la volontà di ricercare in ogni incarico una nuova sfida, lavorando unicamente per raggiungere gli obiettivi stabiliti, primo tra tutti il diventare “inutile” e mai difendere una posizione acquisita. Oggi, come ricordano diversi autori18, le matrici di provenienza dei diversi operatori del temporary management in Italia sono diverse e comprendono, in primis, le società specializzate di “temporary management”, che si assumono la responsabilità di risolvere il problema del cliente e operano in supporto diretto del manager a tempo, le società di executive search, le cooperative di dirigenti, manager free lance, le società finanziarie e banche d’affari, gli studi di commercialisti o avvocati d'affari e, in misura sempre maggiore, le società di consulenza. L’eterogeneità e la molteplicità degli operatori sono il risultato dell’accresciuto successo che questo servizio sta avendo presso le aziende, che riescono a cogliere, sempre più, i numerosi vantaggi che esso presenta. Tra questi, vi è la possibilità per il cliente di inserire in azienda una persona con competenze tali che l’impresa cliente non potrebbe permettersi di pagare a tempo pieno e di disporre di capitale intellettuale altrimenti non utilizzabile. Quest’attività, come dicono molti autori19, può anche essere intesa, infatti, come la gestione in “outsourcing” di progetti a professionisti di significativa esperienza, al fine di aumentarne la velocità di implementazione, senza dover appesantire la struttura dei costi fissi di lungo periodo. Inoltre, la possibilità per un’impresa di far fronte alla scarsità di competenze interne, con l’ingresso in azienda di un manager a tempo, permette di portare avanti, anche in modo sperimentale, alcune attività che si ritengono strategiche e potenzialmente valide. Un altro vantaggio significativo, infine, è dato dalla possibilità di utilizzare in azienda risorse specialistiche solo per il periodo necessario senza poi doverle tenere in azienda anche se la necessità è terminata20; la flessibilità nel personale è, infatti, una delle problematiche sicuramente più importanti per cui può essere usato il management a tempo, anche se, come ricorda Golzen (1994, p.5), esso è stato finora adottato in gran parte come reazione al cambiamento e alla crisi, invece che come modo per anticiparli. È importante sottolineare che, per le similitudini che a prima vista le due professioni sembrano avere, si confonde spesso il concetto di management temporaneo con quello di consulenza. Il manager a tempo, però, non è un consulente, pur essendo un professionista esterno, e la differenza tra le due attività professionali è sostanziale. Il consulente, infatti, analizzata la situazione dell’azienda cliente, ha il 18Cfr. http://www.ptu.sitech.it/bit/1997/N5/n5_1997_03.htm; D’Egidio F., Molteni G., Treglia G., Vergani A., Manager in affitto per risolvere problemi di cambiamento, crisi, sviluppo e successione, Franco Angeli, Milano, 1997, p.58; Quarta M., Temporary management – Ascoltiamo l’Europa, Franco Angeli, Milano, 2004, p.82 19Cfr., per tutti, Clutterbuck D., Dearlove D., The interim manager, Financial Times Pitman, 1998, p.61 20Cfr. http://www.contractmanager.it/rassegna.asp?funzione=articoli_dal_1987_al_1999&id=13

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compito di fornire una soluzione, aiutare l’azienda nell’implementazione, e, in taluni casi, controllare i risultati dopo l’intervento svolto dall’azienda cliente. Il manager a tempo, invece, entra in azienda e ne individua i problemi, non limitandosi a suggerire un piano d’azione, ma operando in prima persona i cambiamenti necessari, e prendendosi tutte le responsabilità delle sue azioni, che devono portare a dei risultati tangibili entro breve tempo (solitamente dai 6 ai 30 mesi). Un consulente è un supporto teorico all’azienda, mentre il temporary manager è un supporto pratico21. Inoltre, il manager a tempo lavora solo in un’azienda e non in due, tre o quattro aziende parallelamente. In pratica, come aggiunge Quarta (2004, p.17), il temporary management rappresenta una terza via (o una “via intermedia”, come dicono Clutterbuck e Dearlove, 1998, p.3), attraverso la quale un’azienda può procurarsi risorse finalizzate a migliorare sia la propria prestazione sia il livello delle proprie capacità gestionali. È bene precisare, da ultimo, che il temporary management non è né un lavoro interinale, come specifica Quarta (2004, p.18), né un’attività provvisoria, bensì un lavoro “full time”, in cui il manager a tempo impara ad operare come un vero imprenditore di se stesso, e non un riempitivo tra due lavori, nonostante molti manager, specie se in una situazione lavorativa precaria, vi si avvicinino con questa idea. Ma perché mai un manager con un posto fisso dovrebbe accettare un lavoro temporaneo con tutti i rischi che esso comporta e rinunciare alla sicurezza di un posto sicuro? Come dice Golzen (1994, p.8), una risposta potrebbe essere cercata nella mancanza di sicurezza che caratterizza l’era dell’incertezza, in cui accadono sempre più spesso episodi in cui alcune carriere vengono interrotte improvvisamente, a causa di fattori non controllabili da chi ne è colpito. In questo contesto d’incertezza, come detto in precedenza, le aziende si trovano a dover cambiare sempre più velocemente. Se la fiducia, come assunto in questo lavoro, è tanto importante per gestire un’azienda anche in contesti straordinari, quella che il manager a tempo deve creare e sviluppare assume tutti i connotati della “swift trust” di Meyerson et al. (1996), precedentemente descritta. Il manager a tempo deve prestare molta attenzione al fenomeno della “prima impressione”, perché, data la brevità del tempo concessa per operare il cambiamento, egli è soggetto a categorizzazioni fin dai primi istanti. I comportamenti adottati inizialmente e le priorità scelte dal manager a tempo condizioneranno le percezioni dei collaboratori all’interno del gruppo temporaneo e la sua reale capacità di suscitare fiducia. In un processo che si sviluppa secondo un circolo virtuoso, il manager a tempo si guadagna la fiducia dei collaboratori dando loro fiducia fin dall’inizio e gestendo il processo di cambiamento attraverso la fiducia e non accentrando a sé tutti i poteri, sebbene per contratto ne abbia anche facoltà. Questo punto, tanto centrale in questo lavoro, assume maggiore importanza se si considera un semplice aspetto: l’impossibilità di gestire un processo di transizione con pratiche autoritarie, sebbene i modelli tradizionali di gestione del cambiamento in tempi brevi suggeriscano questa via, e attendersi che, una volta terminato il periodo di risanamento e rilancio e conclusosi l’intervento del manager a tempo, l’azienda riprenda ad operare in condizioni ordinarie con un modello di gestione interna fondato sulla fiducia, come quello tanto raccomandabile per poter competere nei moderni contesti competitivi. Se le persone sono degne di fiducia in

21Cfr. Clutterbuck D., Dearlove D., The interim manager, Financial Times Pitman, 1998, p.63

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condizione di normale operatività, si deve dimostrare loro che esse lo sono anche e soprattutto in condizione di crisi. Il caso empirico della Leggiuno SpA mostra che, gestendo un gruppo con la fiducia, i risultati sono altrettanto buoni, se non migliori per le conseguenze che tale modalità di gestione ha sul clima interno, perché se è vero che, da un lato, i tempi per raggiungere un consenso possono risultare più lunghi, è altrettanto vero, dall’altro, che il clima di fiducia reciproca facilita il processo, che la messa in atto delle decisioni è veloce e facilitata da tutti, e che questa situazione permette di guadagnare tempo. La Manifattura Leggiuno SpA è un’importante azienda tessile lombarda e, producendo da quasi cento anni tessuti in lino e cotone, è diventata, ormai, un nome storico della camiceria italiana nel mondo. Tra i primi cinque competitors al mondo nel settore del tessuto per camiceria e tra i primi tre per l’aspetto creativo della collezione, deve il suo stato attuale di salute all’intervento di temporary management che l’ha interessata dal Marzo del 2000 al Marzo del 2002, grazie al quale il prodotto è stato completamente riposizionato, il bacino di distribuzione è stato allargato a Paesi stranieri altamente strategici e si è dato inizio alla successione generazionale che ha portato gradualmente, negli ultimi anni, la quarta generazione a capo delle aree interne all’azienda. Fondata da un sarto a Leggiuno (Va), l’azienda affonda solide radici nel passato e produce cotone e lino per tessuti di camiceria dal 1908. Fin dagli inizi, grazie al successo riscosso dai suoi prodotti, la Leggiuno SpA cresce e si sviluppa, rimanendo fedele al suo modello competitivo e integrando completamente tutte le fasi della produzione, nonostante alcuni importanti cambiamenti strutturali del settore, nel corso degli anni. Nel 1996, però, con un intensificarsi della concorrenza e un susseguirsi di periodi di congiuntura sfavorevole, la società conosce, un momento di crisi, dovuto ad uno stallo del fatturato che perdura ormai da alcuni anni. Solo attraverso l’intervento del dott. Passera, che opera nell’azienda per due anni come manager a tempo, l’azienda riesce a riconquistare la posizione competitiva. La particolarità di questo caso è che l’intervento di rilancio è stato gestito da un manager esterno, chiamato a portare risultati importanti entro breve tempo e che ha deciso di rilanciare l’azienda delegando compiti e decisioni al personale interno e ai discendenti della Proprietà che l’aveva chiamato. Dopo aver vinto l’iniziale perplessità dei proprietari, il dott. Passera ha ottenuto piena fiducia dall’azienda e ha ottenuto risultati positivi grazie alla partecipazione di tutti. Nel caso in esame, il manager a tempo è riuscito a guadagnare fiducia prima ancora di iniziare ad operare, grazie alla sua esperienza di successo e alla presenza della società di temporary management che ha svolto un ruolo di “intermediario della fiducia”, ma, soprattutto, è riuscito ad avere successo guadagnandosi fiducia e rispetto da parte di tutti fin dai primi mesi, grazie al raggiungimento di obiettivi parziali immediati e al reale coinvolgimento di tutti alla buona riuscita del progetto. In breve, dando fiducia ai collaboratori e delegando loro compiti e responsabilità, è arrivato ad ottenere piccoli traguardi iniziali attraverso un lavoro di gruppo ben costruito e ad ottenere a sua volta fiducia e rispetto, sia per aver mantenuto con i fatti le promesse implicite di ottenere risultati positivi, sia per aver dato importanza a tutte le persone coinvolte nel piano di rilancio. Attraverso una gestione incentrata sull’attenzione alle persone e ai risultati, il manager è stato in grado di gestire con successo un cambiamento radicale nel posizionamento dell’azienda sul mercato, delegando il più possibile per “arrivare”, come dice, “ad avere la scrivania sempre

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più vuota”. Raccontandomi della sua esperienza in azienda, Claudio Passera ha più volte sottolineato il suo concetto di gestione ottimale di un’azienda: prestando attenzione alle persone e dando loro la possibilità di esprimersi al meglio senza vincoli iniziali, se ne ottiene la partecipazione e si riesce a migliorare il clima interno. In pratica, dando fiducia alle persone se ne ottiene fiducia, in un circolo virtuoso. Il grande merito di Claudio Passera, in questa sfida, è stato, a mio avviso, quello di delegare a persone di cui si è fidato in poco tempo il compito di rilanciare le due aree più critiche (design e produzione), supportandole e controllandone i risultati, ma evitando di accentrare nelle proprie mani le decisioni relative al futuro di queste aree, come molti modelli teorici e l’esperienza della maggior parte dei casi di ristrutturazioni e rilanci sotto pressione temporale suggerirebbero. Delega e supporto sembrano, quindi, essere le vie d’azione principali per un intervento di rilancio di successo sotto pressione temporale. Nel raccontarmi la sua esperienza di manager a tempo, infatti, Claudio Passera ha più volte ribadito l’importanza di questi due concetti ed evidenziato quanto sia centrale il concetto di “supporto”, affinché la delega abbia efficacia. Come nel caso di un direttore d’orchestra, anche oggi, il compito principale del dott. Passera (che opera ora internamente all’azienda) è quello di controllare che non ci siano errori, e nel caso se ne verifichino, di intervenire subito in modo dettagliato per correggerli, ma sempre supportando le persone perché esse riescano a fare le cose al meglio e in modo autonomo. Diventa, allora, cruciale la costruzione di un sistema di controllo perfetto. In quest’ottica, occorre, però, sottolineare, non si tratta tanto di controllare che le persone facciano quanto il manager ha deciso e ordinato di fare, ma controllare esclusivamente i risultati, che devono essere in linea con quelli che il manager ritiene ottimali per il raggiungimento del piano complessivo. Ogni persona è libera di operare come preferisce ed ha il completo sostegno del dott. Passera per prendere decisioni. Il compito del manager deve essere, allora, più vicino a quello di un facilitatore, attento alle esigenze e capace di prevedere la possibilità di errore, per esser pronto ad intervenire con la massima precisione. La particolarità di quest’esperienza è che il protagonista del cambiamento, colui che ha apportato l’esperienza e le competenze necessarie per il rilancio, si è sempre posto sullo stesso piano dei collaboratori, intuendo che, per ottenere la fiducia e il rispetto necessari per conseguire gli obiettivi sfidanti e di successo che il piano di intervento aveva individuato, avrebbe dovuto dimostrare per primo di avere stima e fiducia nei confronti degli altri e facilitare la condivisione di obiettivi e di idee.

3 - CONCLUSIONI L’esperienza di Claudio Passera in Leggiuno prova che, anche in condizione di cambiamento sotto pressione temporale, uno stile di management maggiormente incentrato sulla fiducia e sulla delega può risultare efficace e ottimale, almeno tanto quanto una gestione che presupponga l’accentramento dei poteri, la pianificazione dei processi e un controllo attento che le persone preposte a portare a termine compiti operativi eseguano quanto deciso. Un punto di forza aggiuntivo di questa soluzione è, però, che oltre ad essere efficace e produrre esperienze di successo, essa contribuisce anche a migliorare il clima interno all’organizzazione, dando attenzione e responsabilità a tutti i

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collaboratori in modo indistinto, facendo correre loro rischi calcolati e promuovendo una crescita di tutte le risorse umane. Attraverso questo lavoro, si è cercato di dimostrare che solo attraverso delle scelte volte a comunicare rispetto e supporto ai propri collaboratori si riesce in poco tempo ad ottenerne l’appoggio e la fiducia, e a creare le condizioni per vincere le resistenze al cambiamento che, sebbene normali e fisiologiche, sono controproducenti perché rallentano il processo di adesione al piano di cambiamento. Queste considerazioni rivestono un ruolo ancora più particolare, ovviamente, in condizioni in cui il tempo sia già ridotto al minimo da cause esterne o da errori passati e in cui, prima ancora di illustrare completamente i piani d’azione, il manager del cambiamento sia chiamato a produrre risultati. Lo scopo di questo lavoro è stato quello di dimostrare, con l’aiuto di un esempio di successo di un intervento di temporary management, come questo sia possibile anche in casi in cui operare in poco tempo sia un fattore critico, non tanto per il successo dell’azienda, quanto più per la sua sopravvivenza, e di far riflettere sulla reale convenienza a ricorrere a stili partecipativi e responsabilizzanti, anche in situazioni di crisi. In sintesi, sarebbe auspicabile che i manager chiamati a gestire un cambiamento sotto pressione temporale passassero da uno stile direzionale fondato sul “comando e controllo” ad uno fondato sulla “fiducia e controllo”, dove il secondo termine assume, però, nel secondo caso, un significato completamente diverso che lascia maggiore spazio a concetti quali supporto e crescita, per permettere alle risorse umane di contribuire in modo attivo allo sviluppo e al successo dell’azienda per cui lavorano.

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