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Universita’ degli Studi Suor Orsola Benincasa − Napoli
Universita’ degli Studi Suor Orsola Benincasa − Napoli
Università degli Studi
Suor Orsola Benincasa
FACOLTA' DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE
CORSO DI LAUREA
SCIENZE DELL’EDUCAZIONE
TESI DI LAUREA
IN
PEDAGOGIA DELLA DEVIANZA E DELLA
MARGINALITA’
IL PROGETTO DI MESSA ALLA PROVA
IN COMUNITA’: L’ESPERIENZA DELLA COMUNITA’
“C.ED.RO.”
Relatore Candidato
Ch.ma Prof.ssa
Margherita Musello
Silvia Ferrante
Matricola 001000738
Anno Accademico 2014- 2015
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E’ la Bellezza che attrae. E’ la Bellezza che stende
il suo manto su tutte le cose e rivela la potenza e la forza
di ciò che è, della Realtà. E’ la Bellezza
che semina Amore. Non esiste Amore che
non semini Bellezza. E’ la Bellezza
che seduce senza ingannare, che incanta senza bloccare.
E’ la Bellezza che conduce il gioco della vita.
Paolo Spoladore Il Bel Pastore
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A chi mi ha donato la vita. A chi mi ha aiutata a ricordare e a ritrovare
la bellezza dei miei desideri e il movimento regale della vita. A chi ha sorriso e pianto con me.
Con il cuore grato e sorridente, la certezza che ne vale sempre la pena,
l’intenzione di non fermare il ritmo dei miei passi, la consapevolezza che il segreto è nel ‘come’e nelle piccole cose,
il desiderio di innamorarmi ogni giorno ancora e ancora dell’amore!
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INDICE
INTRODUZIONE .................................................................... 6
PARTE PRIMA
LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO E MESSA ALLA PROVA:
I PROTAGONISTI, Il QUADRO STORICO-NORMATIVO, IL PROGETTO .... 11
CAPITOLO PRIMO - I PROTAGONISTI: ADOLESCENTI IN DIFFICOLTA’ 12
1.1. Disagio, Devianza, Delinquenza ..................................... 15
1.2. Adolescenza e Devianza .............................................. 19
1.3. Chi è il giovane deviante ............................................ 24
CAPITOLO SECONDO - IL QUADRO STORICO-NORMATIVO ............. 29
2.1. La finalità della pena: excursus storico ........................... 34
2.2. Verso un nuovo processo penale minorile: il D.P.R.448/88 .... 45
2.3. L’introduzione dell’art. 28 come forma di probation ........... 63
CAPITOLO TERZO - IL PROGETTO DI MESSA ALLA PROVA ............. 84
3.1. Un progetto orientato: senso e obiettivi .......................... 88
3.2. La costruzione del progetto: contenuti e gestione .............. 99
3.3. La messa alla prova in comunità: un’innovazione
nell’innovazione. .......................................................... 114
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PARTE SECONDA
DALLA TEORIA ALLA PRATICA:
LA MESSA ALLA PROVA NELLA COMUNITA’ “C.ED.RO.” ................ 134
CAPITOLO QUARTO - L’ESPERIENZA DELLA COMUNITA’ ALLOGGIO
“C.ED.RO.” ................................................................... 135
4.1. Presentazione della comunità alloggio “C.ED.RO.” ............. 141
4.2. Il progetto educativo e il P.E.I ..................................... 155
4.3. Ri-tessere il quotidiano ............................................. 169
CAPITOLO QUINTO - IL PROGETTO DI MESSA ALLA PROVA NELLA
COMUNITA“C.ED.RO”: ANALISI DI UN CASO ............................ 186
5.1. Analisi di un caso: anamnesi e progetto .......................... 192
5.2. Analisi di un caso: percorso e ruolo della comunità ............ 206
5.3. L’educatore: il senso di una presenza ............................ 225
CONCLUSIONI ................................................................... 243
BIBLIOGRAFIA ................................................................... 253
SITOGRAFIA ..................................................................... 260
RIFERIMENTI NORMATIVI ...................................................... 261
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INTRODUZIONE
Per far divenire Realtà un grande Sogno il primo requisito è una grande capacità di Sognare;
il secondo è la Perseveranza: una Fede nel Sogno. Hans Seyle
Fare piccole cose con grande amore. Madre Teresa di Calcutta
“Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven, per vedere se
posso ritornare al mio mondo e alla mia razza e sabato far dire a Rino: ‘Il
priore non riceve, perché sta ascoltando un disco…’. Volevo anche
scrivere sulla porta: ‘I don’t care più’. Ma invece ‘Me ne care’ ancora
molto”1.
Nell’introdurre il mio lavoro di tesi mi riaffiorano alla mente le tante
sere in cui sulla strada di casa, di ritorno dalla comunità ove lavoro, ho
avuto nel cuore questa lettera di don Milani. Ripenso ai tanti momenti in
cui ho avuto voglia di scrivere sulla porta “I don’t care più!” e agli
altrettanti in cui ho poi sentito fortemente che invece l’avere a cuore, la
spinta al servizio è in me troppo più forte di qualsiasi fatica o momento
buio e che al di là di ogni dubbio o timore di non farcela mi
accompagnava saldamente la certezza che ne vale sempre la pena e che
“me ne care ancora molto”, sempre!
La scelta di trattare il ruolo che una comunità residenziale è
chiamata a svolgere con i minori accolti è motivata dal desiderio di
rielaborare e organizzare una serie di riflessioni maturate durante il mio
1 Don Lorenzo Milani, Lettera a Francuccio Gesualdi. 4 aprile 1967, in. M. Gesualdi ( a cura di), Lettere di Don Lorenzo
Milani priore di Barbiana, Arnoldo Mondadori, Milano, 1970.
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percorso personale e lavorativo che mi vede da tanti anni impegnata sul
fronte della “strada” in situazioni di marginalità e degrado sociale, a
stretto contatto con quei bambini ed adolescenti “vivaci” comunemente
definiti “minori a rischio”, con le loro problematiche, i loro vissuti, le
loro emozioni, i loro contesti di vita. E' stato ed è ogni giorno un
percorso intenso, costellato di incontri, volti, sorrisi, occhi, emozioni,
interrogativi, confronti, domande di senso; un percorso orientato dalla
sete di conoscenza, dal desiderio di esserci, di fare la mia parte al
meglio, di andare sempre più a fondo; un percorso reso possibile, nelle
sue innumerevoli difficoltà, da soste in itinere e da luoghi in grado di
rispondere ad una continua necessità di formazione.
In particolare, nella presente tesi, l’attenzione è focalizzata sul
ruolo della comunità e dunque dell’educatore relativamente ai casi di
applicazione del beneficio giuridico previsto dall’art. 28 D.P.R. 448/88,
sospensione del processo e messa alla prova, in quelle circostanze in cui
tale misura viene disposta, congiuntamente ad un collocamento in
Comunità.
Oggetto peculiare del lavoro è, dunque, non l’intera utenza penale
minorile inviata in comunità, né l’intero percorso processuale del minore
che fa ingresso nel circuito penale, ma esclusivamente il ruolo che la
comunità è chiamata a svolgere con quei minorenni cui viene concesso il
beneficio giuridico della messa alla prova che il giudice stabilisce debba
svolgersi presso una comunità educativa.
Tale interesse nasce dalla personale esperienza lavorativa presso la
comunità alloggio “C.ED.RO.” che mi ha permesso di maturare la
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considerazione che il collocamento in comunità sembra rappresentare un
sistema di risposta nel tempo sempre più utilizzato dall’Autorità
Giudiziaria, non solo quale misura cautelare (art. 22 DPR 448/88), ma
anche nell’ambito di altri provvedimenti giudiziari quali appunto
l’applicazione dell’art. 28 da svolgersi presso una struttura residenziale,
proprio in ragione della capacità della stessa di contemperare le
esigenze educative di progettazione socio-psico-trattamentale con quelle
contenitive e di controllo.
Partendo da tale considerazione il lavoro svolto si propone di essere
una riflessione sull’applicazione del beneficio della messa alla prova con
particolare riferimento al senso della dimensione progettuale ed alla sua
realizzazione in un percorso comunitario, per comprenderne la reale
opportunità e provare a valutarne l’effettiva efficacia.
A tal fine si è reputato opportuno organizzare questo elaborato in
due percorsi: uno di analisi teorica e l’altro di ricerca empirica.
La prima parte, articolata in tre capitoli, ha come punto di partenza
il mettere al centro i protagonisti, ovvero gli adolescenti in difficoltà:
nel primo capitolo viene pertanto trattato il tema dell’adolescenza con
particolare riferimento all’aspetto della devianza e della trasgressione.
Tuttavia la messa a fuoco del percorso in comunità del minore
sottoposto a procedimento penale non può prescindere da un breve
richiamo al contesto legislativo - normativo di riferimento. A tal fine il
secondo capitolo tratta l’evoluzione storica della funzione della pena per
giungere alla nascita di un modello di giustizia minorile la cui pietra
miliare è rappresentata dalla riforma del sistema processuale penale
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attuatasi il 22 settembre 1988 con l’emanazione del d.p.r. n. 448,
intitolato “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico
di imputati minorenni”, con il quale è stato varato quello che viene
definito il Codice di Procedura Penale per i Minorenni (c.p.p.m.), entrato
in vigore nel 1989: in esso infatti sono contenute “disposizioni” avente
carattere speciale rispetto a quelle del c.p.p., in quanto, tenendo conto
delle particolari esigenze del minore, cercano di ridurre il più possibile
gli effetti stigmatizzanti del processo per far diventare anche
quest’ultimo uno strumento di crescita rispondente alle finalità
rieducative della giustizia minorile.
L’istituto emblematico rispetto alla connotazione educativa del
processo penale minorile è la sospensione del processo con messa alla
prova, introdotto e disciplinato dagli artt. 28 e 29 del d.p.r. n. 448/88 e
dall’art. 27 D.Lgv n.272 del 1989. Tale beneficio giuridico rappresenta la
principale innovazione operata nell’ambito del processo penale minorile
e consiste nella possibilità di rinunciare alla celebrazione del processo
quando il giudice abbia motivo di ritenere che l’adozione di determinati
tipi di intervento siano sufficienti a garantire il ravvedimento del
minore. In particolar modo nel terzo capitolo, incentrato sul progetto di
messa alla prova, si è cercato di mettere in luce anche il ruolo e la
funzione che la comunità è chiamata a svolgere con il minore nel suo
percorso di messa alla prova, evidenziando la necessità di un lavoro
congiunto e sinergico con gli operatori istituzionali dei Servizi Ministeriali
e Territoriali, ma anche con le associazioni locali e le risorse lavorative
coinvolte nel progetto così come con la famiglia del minore stesso.
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Il secondo percorso, sviluppato nel quarto e nel quinto capitolo, trae
origine dalla pratica e si sviluppa attorno alla narrazione dell’esperienza
della comunità alloggio “C.ED.RO”. In particolar modo il quarto capitolo
è incentrato sulla presentazione della comunità con particolare
riferimento ai minori di area penale ed allo stile di vite comunitario;
mentre il quinto muovendo dall’analisi di un caso specifico, vuole essere
una riflessione volta sia ad evidenziare il ruolo svolto nel percorso del
minore dall’educatore sia a mettere in luce i punti critici e i punti di
forza di tale modalità applicativa del beneficio giuridico in oggetto.
Per portare avanti tale lavoro gli strumenti di cui ci si è avvalsi sono:
1. Dati statistici concernenti il numero degli art. 28 disposti sia in
Campania che su base nazionale nell’arco del periodo che va dal
2003 al 2014 ed il numero di quanti di questi ultimi sono stati
applicati con l’apertura della procedura amministrativa del
collocamento in comunità.
2. Colloqui con operatori della comunità “C.ED.RO.” e dell’U.S.S.M.
di Napoli.
3. Analisi di un caso concreto tratto dall’esperienza della Comunità
“C.ED.RO”.
Nello spirito di un cammino sempre aperto, il desiderio di fondo che
anima l’intero lavoro è quello di provare a rintracciare nell’esperienza
quegli ingredienti necessari a far divenire Realtà un grande Sogno.
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PARTE PRIMA
LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO E MESSA ALLA PROVA:
I PROTAGONISTI, Il QUADRO STORICO-NORMATIVO, IL PROGETTO
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CAPITOLO PRIMO
I Protagonisti: adolescenti in difficoltà
C’è una crepa in ogni cosa, ma è da lì che entra la luce.
Leonard Cohen
Dite: E' faticoso frequentare i bambini. Avete ragione.
Poi aggiungete: Perché bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli.
Ora avete torto. Non è questo che più stanca.
E’ piuttosto il fatto di essere obbligati a innalzarsi fino all'altezza dei loro sentimenti.
Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi. Per non ferirli.
Janusz Korczak
I protagonisti, ossia coloro che beneficiano dell’istituto giuridico
della sospensione del processo e messa alla prova2, costituiscono una
peculiare fascia dell’intera utenza penale minorile, che a sua volta
comprende quei minorenni3 che, avendo commesso un reato, risultano
essere imputabili4 e dunque punibili.
2 Istituto giuridico introdotto e disciplinato dagli artt. 28 e 29 D.P.‘. sette e . e dall a t. D.Lgv. .
del 1989. 3 Per il Codice Civile italiano è minorenne ogni persona che non ha ancora acquisito la maggiore età, fissata dall a t. al
compimento del diciottesimo anno. Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia
stabilita una età diversa. Il minore di anni diciotto pertanto non ha capacità di agire: può essere cioè titolare di diritti, ma
non può esercitarli da solo necessitando in forza di ciò di un rappresentante legale. 4 L a t. .p. sta ilis e he nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in
cui lo ha commesso, non era imputabile. Al secondo comma poi precisa che è imputabile chi ha la capacità di intendere e
volere. La colpevolezza, presuppone quindi la sussistenza, al momento della commissione del fatto illecito, della capacità
di i te de e il disvalo e so iale dell azio e o piuta e della apa ità di li e a autodete i azio e esiste do ad i pulsi interni ed a sollecitazioni esterne del soggetto.
Gli artt. 97 e 98 c.p. prevedono rispettivamente che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non
aveva compiuto i quattordici anni e che è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i
quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e volere; ma la pena è diminuita. Tale capacità
per i minori si identifica con il concetto di atu ità .
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Sono quei ragazzi cui generalmente ci si riferisce definendoli “i
difficili”, appellativo che tante volte mi appare più un’accusa,
un’etichetta che suscita timore e crea distanza, che un dato di realtà da
accogliere e da cui partire. Ma uno sguardo più attento e mosso dal
desiderio di andare oltre, è uno sguardo capace di porsi all’altezza degli
occhi dei tanti “difficili” incontrati lungo il proprio cammino, uno
sguardo che, abbandonando lenti di osservazione volte unicamente ad
analizzarli solo come problema, con definizioni che evidenziano più ciò
che manca che elementi positivi, sia invece capace di utilizzare lenti che
permettano innanzitutto di vederli realmente.
E’ uno sguardo che si alimenta di un desiderio di visione più ampia
che porti a leggere il fenomeno della criminalità minorile alla luce di
quella difficoltà, di quella “crepa nel muro”, da cui hanno origine i
fenomeni del disagio, del disadattamento, della devianza.
“Non esistono ragazzi nati sbagliati – affermò in un intervento
sull’Istituto Penale Minorile (I.P.M.) di Nisida Eduardo De Filippo -ognuno
è frutto delle situazioni che per caso segnano le nostre esperienze. Un
ragazzo sbagliato è figlio di opportunità che non gli sono state date”.
Queste incisive parole aiutano il mio sguardo a volgersi diversamente: i
minorenni che entrano nel circuito penale prima di essere ragazzi
difficili, sono innanzitutto adolescenti in difficoltà, in grande difficoltà.
“Un giovane bisogna educarlo non distruggerlo. Sono convinto che se
si opera con energia, amore e fiducia in questi ragazzi molto si può
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ottenere da loro”5, afferma ancora De Filippo, delineando, con queste
parole, una possibile strada da percorrere: la difficoltà va letta per poter
cogliere, a partire da essa, le possibilità di cambiamento.
Appare dunque di vitale importanza prestare attenzione al segnale
comunicativo di cui è portatore l’atto deviante. Significativo è, a tal
proposito, il punto di vista di Winnicott che parla della delinquenza
“come segno di speranza”6, un‘espressione forte, che fa storcere il naso
per quanto appare stridente: che speranza può mai esserci nella
commissione di un atto che sembra piuttosto scandire la fine di un
percorso?
C’è speranza se c’è un inizio!
E ciò è possibile se l’atto antisociale viene colto nella sua
dimensione di richiesta di aiuto: esso è un “SOS” inviato dal ragazzo, SOS
che, per sua essenza, esige una risposta adeguata alla cui base vi sia una
buona comunicazione. Se questa viene a mancare, infatti, il ragazzo sarà
portato a indurirsi e la chiusura renderà estremamente difficile la
possibilità di cogliere nell’atto deviante la dimensione della speranza,
dimensione che invece porta a riconoscervi un segno capace di
comunicare la fragilità ad esso sottesa e gettarvi luce. In ogni atto
antisociale, afferma il medico inglese, “vi è una causa iniziale,
strutturatasi come una malattia, che precedentemente ha portato quel
ragazzo ad essere un bambino deprivato”7. In altre parole, c’è sempre
5 Dalla prima interpellanza parlamentare, in data 23 marzo 1982, del senatore a vita Eduardo De Filippo che nella sua
attività parlamentare si è sempre adoperato per il miglioramento delle condizioni dei minorenni reclusi negli istituti di
pe a i o ile; la sua p i a i te pella za fu p op io sulla p o le ati a situazio e dei giova i dell istituto Fila gie i di Napoli; http://www.senatoperiragazzi.it/media/Documenti/italiani/fascicolodefilippoweb.pdf 6 D. W. Winnicott, Dal luogo delle origini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1990, pp.89-90.
7 Ibidem.
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un senso in ciò che è accaduto sebbene spesso questo tipo di causa
finisca poi con l’andare perduta.
La speranza allora è riuscire a cogliere quel senso e aiutare il
ragazzo a ripartire da lì. Una risposta educativa e sociale al fenomeno
della delinquenza minorile che voglia porsi in termini di significatività,
deve essere capace di partire dalla difficoltà, per riuscire a leggerla,
abitarla, comprenderla, di accogliere la crepa nel muro per poter
seguire la scia della luce.
1.1. Disagio, Devianza, Delinquenza
Parlare dell’utenza, ossia del minorenne che fa ingresso nel circuito
penale, rende innanzitutto necessario distinguere concettualmente
alcuni termini quali: disagio, disadattamento, devianza, delinquenza.
Tali termini, infatti, strettamente correlati fra loro, si prestano ad
ambiguità interpretative e di conseguenza ad un loro frequente utilizzo
improprio come sinonimi.
Il disagio è una condizione esistenziale legata ad una percezione
soggettiva di malessere, esso è qualcosa che si sente, ma non
necessariamente si vede8, è dunque una sensazione di origine interna
secondo la quale tra sé e l’esterno c’è una situazione di disequilibrio che
dà luogo ad una condizione umana di profonda sofferenza esistenziale in
cui l’individuo si sente inadatto in determinate situazioni (disagio da
ambiente) oppure inadatto in ogni condizione (disagio di vivere).
8
L. Regoliosi, La prevenzione del disagio giovanile, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, p.20.
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Il disadattamento è un concetto molto vicino al disagio ma se ne
differenzia in quanto “si esprime oggettivamente come relazione
disturbata con uno specifico ambiente”9 ed è frutto dell’incapacità di un
individuo ad adeguarsi alle richieste sociali.
Un’accezione particolare assume il disagio giovanile, venendosi a
collocare tra i due concetti esposti: con quest’espressione, infatti, si fa
riferimento ad una situazione esistenziale in cui il giovane sperimenta
una forma di sofferenza in conseguenza del suo mancato adattamento
alle condizioni che caratterizzano la vita sociale e che può investire una
serie di contesti della vita di relazione esprimendosi in una pluralità di
modi che vanno dalle manifestazioni più eclatanti di auto distruzione
(suicidi, droga) ad altre più indirette ma non meno rilevanti.
La devianza è, invece, secondo la definizione che ne dà De Leo, una
“categoria socio-psicologica che fa riferimento a tutte le forme evidenti
ed evidenziate di trasgressione alle norme e alle regole rilevanti di uno
specifico contesto di rapporti interpersonali e sociali”10. Tale definizione
ne mette in luce due elementi peculiari: il primo elemento è quello che
presenta la devianza quale categoria caratterizzata dalla problematicità
che viene a prodursi sul piano sociale, proprio in quanto si configura
come “scostamento o trasgressione rispetto a tutto ciò che costituisce la
ragione e la base di un ordinamento sociale”11, dunque come violazione
delle norme penali, sociali, morali e di costume. La devianza non è una
proprietà di certi atti o comportamenti, ma una qualità che deriva dalle
9 Ibidem.
10 G. De Leo, P. Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, Carocci, Roma, 1999, pp.17-18.
11 D. Izzo, A. Manucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, ETS, Pisa, 2003, p.99.
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risposte, dalle definizioni e dai significati attribuiti a questi dai membri
di una collettività12. La devianza è, in tal senso, il prodotto di una
definizione culturale, essa è un concetto sociale e non giuridico perché
riflette il giudizio che viene formulato dal tessuto sociale nei confronti di
alcune condotte, configurandosi, di fatto, come il comportamento non
conforme rispetto alle aspettative diffuse del sistema culturale in un
determinato gruppo sociale. Ciò rimanda alla relatività quale sua
peculiare caratteristica: la devianza varia nel tempo e nello spazio,
perché dipende dal momento storico e dal contesto sociale in cui viene
osservato il fenomeno13.
Il secondo elemento messo in luce da De Leo, invece, descrive la
devianza come una categoria psicologica, che “si esprime attraverso
comportamenti il cui significato spesso sfugge ai tentativi di
comprensione anche per le caratteristiche di apparente imprevedibilità
o, al contrario, di determinata pianificazione che li connotano”14. Quello
della dimensione psicologica è certamente un aspetto da tenere in
grande considerazione se si vuole privilegiare un approccio che cerchi
innanzitutto di cogliere il segnale comunicativo dell’atto deviante nel hic
et nunc in cui esso si manifesta con uno sguardo capace di una lettura a
360°.
La delinquenza, infine, comprende tutte quelle condotte criminali
che si connotano per l’alto grado di pericolosità sociale e la previa
qualificazione legislativa del comportamento come reato.
12
M. Barbagli, A. Colombo, E. Savona, Sociologia della devianza, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 17. 13
Ivi, p.113. 14
G. De Leo, P. Patrizi, Psicologia della devianza, Carocci, Roma, 2002, p.7.
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E’ bene sottolineare che non bisogna confondere e accomunare
devianza e criminalità in un’unica categoria concettuale, in quanto solo
una piccola parte degli atti devianti costituisce reato, anzi per maggior
chiarezza si può affermare che “la devianza si pone nei confronti della
delinquenza in rapporto di genere a specie”15, nel senso che, se è vero
che il delinquente è anche un deviante, è altrettanto certo che un
deviante non è necessariamente un delinquente. Ma è altresì vero che la
devianza non è altro dalla criminalità in quanto “entrambe le realtà
hanno un intrinseco valore normativo: criminale è quel comportamento
che ponendosi come condotta deviante rispetto alle norme sociali viene
sanzionato anche sul piano giuridico”16.
A tal proposito, riprendendo quanto affermato da Durkheim, appare
rilevante ribadire che anche il reato, seppur connotato di maggiore
normatività rispetto ad atti antisociali che si configurano come violazioni
più lievi, non è una categoria data per via naturale, ma è anch’esso da
intendersi come una categoria relativa in quanto, pur violando una
specifica norma del codice penale, si configura come quella condotta
che mina gravemente la coscienza collettiva di una società in un
momento storico specifico17. Il reato, quindi, presuppone una condotta
che viola i valori fondanti di un consorzio sociale tanto da rendere
necessaria una risposta punitiva. Determinante è quindi secondo il
sociologo francese la reazione della coscienza collettiva: in altri termini,
non bisogna dire “che un atto urta la coscienza comune perché è
15
M. Cavallo, Ragazzi di strada. Voci e testimonianze dal carcere minorile, Paravia Scriptorium, Torino, 1999, p.9. 16
D. Izzo, A. Manucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit., p.113. 17
La coscienza collettiva defi ita o e l i sie e delle ede ze e dei se ti e ti o u i alla edia dei e i della stessa so ietà i E. Du khei , La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano, 1996, p. 103.
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criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo
biasimiamo perché è reato ma è reato perché lo biasimiamo”18. Il reato
nega i sentimenti collettivi, questi vengono tuttavia riaffermati per
mezzo della sanzione penale. Il reato, dunque, non determina la pena in
via diretta ma solo indirettamente stimolando i sentimenti collettivi che
generano la reazione.
In sintesi si può affermare che il confine tra devianza e delinquenza
è segnato da una linea precisa in quanto è definito dalle norme penali, al
contrario del confine tra disagio e devianza che appare più incerto e
sfumato.
I fenomeni di disagio, disadattamento, devianza, delinquenza, pur
manifestandosi in forme assai diverse tra loro, vanno pedagogicamente
interpretati secondo una successione che implica una crescente
problematicità, intendendoli come il susseguirsi di fasi che vanno da un
più o meno accentuato malessere del giovane a un dichiarato conflitto
sociale.
Senza dubbio il disagio rappresenta un campanello di allarme che, se
ignorato o trattato con risposte inadeguate, può sfociare in
comportamenti di maggiore gravità e pericolosità sociale.
1.2. Adolescenza e Devianza
La devianza minorile può essere definita come un fenomeno che
riguarda quegli adolescenti le cui condotte risultano dissonanti rispetto a
18
Ivi, p. 101.
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un certo modello di competenza sociale e che per questo evidenziano la
diversità di chi le agisce rispetto agli altri19. A tale dissonanza è
associato solitamente un giudizio di valore, da parte della collettività,
che connota negativamente quella modalità d’azione e il suo autore, per
cui il comportamento deviante diventa qualcosa da prevenire,
reprimere, controllare.
Il fenomeno della devianza va assumendo una posizione peculiare
all'interno della condizione adolescenziale in quanto lo sviluppo
adolescenziale è una fase critica della formazione dell’essere umano,
una fase di profonda trasformazione caratterizzata da crisi e conflitti, in
cui forme di disagio sembrano essere inevitabili: così studiare
l’adolescenza vuol dire inevitabilmente studiare il disagio giovanile nella
sua accezione più ampia.
Etimologicamente la parola “adolescenza” deriva dal latino
adolescere che significa “crescere verso la maturità”: l’adolescente
cresce verso l’essere adulto, percorso questo connotato da forte
instabilità ed incertezza per ciò che “non è ancora”. Proprio l’incertezza
è indicata da Veggetti Finzi e Battistin come l’elemento che meglio
definisce questo periodo di vita: incerto il modo d’agire degli
adolescenti, incerti i ruoli genitoriali, incerti i valori di riferimento,
incerti i confini temporali dell’adolescenza, incerta anche la chiave di
lettura psicologica possibile20.
19
P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Firenze, 1993,
p.10. 20
S. Vegetti Finzi, A.M. Battistin, L’età i e ta, Mondadori, Milano, 2000.
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21
Ma l’adolescenza non è solo l’età dell’instabilità, della crisi e dei
conflitti, i più recenti contributi di ricerca hanno rivisto questa modalità
interpretativa tradizionale introducendo il concetto, oggi focale, di
“compiti di sviluppo”21. Tale nozione, mutuata dalla teoria di Havigurst,
indica “un compito che si presenta in un determinato periodo della vita
di un individuo e la cui buona risoluzione conduce alla felicità e al
successo nell’affrontare i problemi successivi, mentre il fallimento di
fronte ad esso conduce all’infelicità, alla disapprovazione da parte della
società e a difficoltà di fronte ai compiti che si presentano in seguito”22.
Il superamento di tali compiti può, quindi, incidere
considerevolmente nella costruzione dell’identità personale e sociale
dell’adolescente. Al contrario, la mancata risoluzione comporta gravi
difficoltà per lo sviluppo successivo: risposte non adattive, associate alle
crisi evolutive adolescenziali, possono dar luogo a diverse
problematiche, anche se è bene sottolineare che non è il problema o la
difficoltà in sé a segnare la storia evolutiva del soggetto, ma le
caratteristiche stesse del percorso, le possibilità che il soggetto ha di
trovare risorse esterne o interne che lo aiutino ad affrontare le singole
situazioni problematiche23. Palmonari indica in particolare la ricerca
dell’indipendenza quale elemento costante e specifico di questi compiti,
nell’assolvimento dei quali centrale è il meccanismo di formazione
21
A. Palmonari, Psi ologia dell’adoles e za, Il Mulino, Bologna, 1993. 22
R. J. Havigurst, Human development and education, Longmans, New York, 1953. I pa ti ola e l auto e stila u a lista di compiti di sviluppo elencandoli come segue: instaurare relazioni nuove e più mature con coetanei di entrambi i sessi;
acquisire un ruolo sociale femminile o maschile; accettare il proprio corpo e usarlo in modo efficace; conseguire
l i dipe de za e otiva dai ge ito i e da alt i adulti; aggiu ge e la si u ezza di i dipe de za e o o i a; o ie ta si ve so e prepararsi per una occupazione o professione; prepararsi al matrimonio e alla vita familiare; sviluppare competenze
intellettuali e conoscenze necessarie per la competenza civica; desiderare e acquisire un comportamento socialmente
responsabile: acquisire un sistema di valori ed una coscienza etica come guida al proprio comportamento. 23
Aa. Vv., Il lavoro di strada, Quaderni di animazione e formazione, Gruppo Abele, Torino, 1995, p. 37.
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22
dell’ideale dell’Io e della conseguente costruzione della propria identità,
attraverso identificazioni alternative a quelle genitoriali, passando anche
attraverso l’utilizzazione della dimensione del gruppo dei pari24.
Si rappresenta così l’adolescenza come una fase acuta in cui,
drammaticamente e improvvisamente, il soggetto è investito
dall’urgenza di riadattare se stesso alle molteplici aspettative sociali e
evolutive ed ai compiti sociali che gli vengono richiesti. Ciò causa una
forte instabilità che si manifesta sovente con una ricerca di
comprensione che tuttavia può passare anche attraverso forme di
trasgressione e atteggiamenti oppositivi25.
Per l’adolescente l’azione, il compiere atti, è la forma di espressione
privilegiata di conflitti e tensioni, la maniera più diretta di scaricare
l’angoscia. Tali “agiti”26, possono assumere la forma di comportamenti
devianti27, e anche se non sempre arrivano ad essere veri e propri atti
delinquenziali, sono comunque espressione di un malessere del percorso
evolutivo di crescita dell'adolescente e di carenze nell'ambito del suo
microsistema sociale28. In questa prospettiva, considerando anche che in
questo percorso verso l’autonomia non tutti i comportamenti
dell’adolescente possano ritenersi il frutto di una pura scelta individuale
che non risenta delle influenze del mondo esterno, tali fenomeni devono
essere analizzati in un senso multidimensionale, che sappia tenere in
debita considerazione la famiglia, la classe scolastica ed il gruppo dei
24
A. Palmonari, Gli adolescenti, Il Mulino, Bologna, 2001. 25
http://www.iprs.it/docs/disagio%20adolescenti.pdf 26
Gli agiti so o atti i pulsivi spesso o u a o po e te agg essiva. 27
Le forme agite che si configurano come forme di devianza sono molteplici: la violenza contro gli altri o contro se stessi,
il bullismo, le fughe, le dipendenze, il suicidio, gli atti delinquenziali; ma anche il rifiuto della scuola, la guida temeraria, le
devianze sessuali. 28
D. Izzo, A. Manucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit., p. 233.
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23
coetanei in rapporto al più ampio contesto delle norme culturali, dei
valori dominanti e dello sviluppo economico che caratterizzano una
società in un dato momento storico29.
In particolare, per quel che concerne la trasgressività, Maggiolini e
Riva affermano che essa “è una caratteristica universale
dell’adolescenza, età in cui il rapporto con le regole educative e sociali
viene rivisto e di norma messo in discussione; per questo è difficile
capire fino a che punto può essere considerata espressione di un
desiderio di crescita e di maggiore autonomia e quando, invece, è
segnale di un disagio individuale, familiare o sociale”30.
Il comportamento antisociale costituisce in genere un episodio
transitorio ma in alcuni casi esso può rappresentare la prima fase di un
processo il cui esito è quello della stabilizzazione della devianza31.
E’ pertanto importante distinguere i comportamenti a rischio, il cui
motore d’azione è soprattutto l’esplorazione e la ricerca dell’identità,
dalla condotta deviante, che rientra invece in un pattern più
consapevole e determinato, il cui motore d’azione è il disagio o la
difficoltà adattiva: forza fisica, aggressività, sfida all’autorità,
opposizione sono metodi per ottenere un riconoscimento che non trova
spazio in altre dimensioni che presuppongono la fiducia in se stessi ed
una capacità relazionale adeguata32. I comportamenti di trasgressione
delle norme e delle regole, vengono così a configurarsi come funzionali
all’affermare una propria autonomia, indipendenza e capacità di
29
http://www.giustiziaminorile.it/rsi/studi/gruppiadolescenti.pdf, p.13. 30
A. Maggiolini, E. Riva, Adolescenti trasgressivi: le azioni devianti e le risposte degli adulti, FrancoAngeli, Milano, 1999. 31
G. De Leo, La devianza minorile, Carocci, Roma, 1998. 32
G. F. Ricci, D. Resico, Pedagogia della devianza, FrancoAngeli, Milano, 2010, p. 183.
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24
decisione. Il desiderio di mettere alla prova le proprie possibilità fisiche
e psichiche spinge spesso gli adolescenti ad attuare comportamenti
estremi: si tratta di una sfida con se stessi per dimostrare di esserci e di
essere forte33.
Ciò significa che un adolescente può delinquere con più facilità di un
adulto, ma anche che non può essere ritenuto un delinquente solo per
questa esperienza.
1.3. Chi è il giovane deviante
Nell’età adolescenziale tutti i ragazzi attraversano una fase difficile
che può anche indurli a commettere un reato, ma senza dubbio quei
ragazzi che appartengono ad un ambiente familiare multiproblematico,
disgregato o degradato, corrono il rischio di una crisi adolescenziale più
forte degli altri coetanei, che incide maggiormente e più incisivamente
sul loro processo di crescita.
Volendo provare ad analizzare il “chi è” del giovane deviante, si può
affermare che nella maggioranza dei casi egli vive in città e in zone
degradate, proviene da famiglie disgregate o disfunzionali con cui ha un
rapporto relazionale compromesso, vive un grave disagio economico ed è
di bassa scolarità34.
Le analisi del fenomeno dal 1970 in poi evidenziano le stesse
caratteristiche, mettendo in luce come esso si manifesti spesso in
condizioni di marginalità sociale e individuale, mentre ciò che cambia,
33
G. De Leo, P. Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, cit.
34 M. Cavallo, Ragazzi di strada. Voci e testimonianze dal carcere minorile, op. cit., p.14.
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25
è, invece, il comportamento sociale dei giovani: si è di fronte a forme di
devianza non più legate solo al soddisfacimento dei bisogni materiali, ma
collegate a quel diffuso senso di disagio culturale che caratterizza il
tempo attuale. La devianza ha così assunto caratteristiche che non la
limitano più a una classe o a un gruppo sociale o ad una sub-cultura, ma
essa coinvolge oggi tutti quelli che si vedono rifiutati dal contesto
sociale nel quale vivono o che non riescono ad essere se stessi. Un rifiuto
che si manifesta spesso sotto forma di patologie giovanili di tipo
esistenziale e di comportamenti devianti.
Nell’analisi della delinquenza minorile è, pertanto, necessario
considerare non solo la condotta e la personalità del ragazzo, ma anche
tutte le interrelazioni tra l’autore della condotta e il contesto sociale
allargato. E’ importante, afferma la giudice Cavallo, “osservare come un
ragazzo può manifestare un comportamento deviante o commettere un
reato, e come può diventare un delinquente”35. Si è di fronte, infatti, a
due fenomeni diversi: molti ragazzi possono commettere, in un momento
della loro storia, atti devianti o veri e propri reati, ma non
necessariamente diventano poi delinquenti: quell’atto, infatti, seppur
espressione di disagio, può rimanere singolo senza strutturarsi in una
condotta deviante vera e propria, espressione di un malessere più
strutturato.
Quanto detto pone una riflessione sul fatto che un ragazzo può
percorrere una carriera criminale come spinto da una serie concatenata
di azioni e reazioni poste in essere dal suo circuito familiare, attraverso
35
Ivi, p. 11.
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26
l’abbandono, la trascuratezza, la disattenzione; dal suo contesto
scolastico, attraverso rifiuti, sospensioni ed allontanamenti; dal gruppo
dei pari, attraverso l’imitazione, la derisione, lo scherno perché “non ha
il coraggio di…”; dal suo quartiere, attraverso l’etichettamento;
dall’istituzione, attraverso una risposta non adeguata.
I processi di base secondo i quali si producono il disagio, la devianza
e la delinquenza nel mondo giovanile sono molto complessi, perché vi
concorrono molteplici fattori di ordine sociale e psicologico, variamente
interagenti fra loro. E’ perciò difficile definire schemi nei quali
incasellare le tipologie di comportamenti e i processi evolutivi che li
inducono. Dall’esperienza è tuttavia possibile ricavare un modello
dell’universo minorile configurandolo come una struttura costituita da
quattro strati concentrici: normalità, disagio, devianza, delinquenza.
Lo strato esterno è costituito dall’insieme dei ragazzi che
comunemente definiamo normali, la cui condotta risponde a parametri
comportamentali generalmente accettati dal contesto sociale in cui sono
inseriti e vivono.
Lo strato adiacente, immediatamente più interno, è costituito
dall’area del disagio, ossia da quei ragazzi portatori di quel malessere
diffuso che porta a non sentirsi adatti e che si manifesta con segni quali
l’isolamento, la reattività, l’opposizione, la difficoltà nei processi di
apprendimento e di socializzazione.
Continuando verso l’interno, lo strato successivo è costituito
dall’insieme dei ragazzi che gravitano nell’area della devianza, i cui
comportamenti si allontanano dalla norma sociale ma non si configurano
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27
ancora come reato; i sintomi possono essere: l’abbandono scolastico, la
fuga da casa, la violenza e la prevaricazione diffusa, l’uso di droghe, la
frequentazione di un gruppo dalla condotta irregolare.
Infine, l’ultimo strato è costituito dall’insieme dei ragazzi che nel
loro complesso esprimono l’area della delinquenza, caratterizzata, cioè,
da condotte che configurano reato, perché violano una norma del codice
penale.
Un elemento fondamentale messo in luce da questo modello è che i
passaggi avvengono solo fra strati adiacenti: ne consegue che
praticamente tutti i minori che entrano nell’area penale hanno
attraversato le aree del disagio e della devianza senza aver ricevuto
risposte adeguate.
La delinquenza è il risultato di un percorso personale involutivo che
si manifesta dapprima con il disagio, poi con il disadattamento e la
devianza.
L’atto antigiuridico non si manifesta in maniera casuale ma è frutto
di una difficoltà non letta, a cui non è stata data una risposta adeguata,
una difficoltà che è cresciuta pian piano alimentandosi di fattori
deficitari individuali, familiari, ambientali e sociali. Tale percorso
scandito da tappe progressive può essere paragonato alla corsa di un
treno su un preciso binario con stazioni fatte di azioni, reazioni,
sopraffazioni, prima che colui che viaggia diventi un delinquente. Questo
binario potrà portare fino al capolinea, dove il passeggero troverà il
carcere, se nelle stazioni intermedie non ci sarà qualcuno che lo
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28
convincerà a scendere e a cambiare percorso36. Naturalmente ciò non
vuol dire che i ragazzi dei contesti a rischio siano inesorabilmente
destinati a questo percorso fatale con il carcere al capolinea, quello
decritto non è un percorso ineluttabile, tuttavia quanto detto mette in
rilievo, con forza, l’importanza e l’essenzialità dell’intervento della
scuola, dei servizi socio-educativi dell’Ente locale e del volontariato nei
contesti dominati dalla criminalità organizzata o laddove vi siano
famiglie disfunzionali e multiproblematiche, intervento che si configura
come essenziale perché, ponendosi come riferimento significativo e
forte, evita il possibile aggancio da parte della criminalità37.
In particolare, scrive ancora la Cavallo, “la risposta sociale al primo
atto deviante che segnala il disagio e la sofferenza di un ragazzo, assume
una specifica rilevanza e significatività nella costruzione o meno di una
personalità deviante”38.
Ne consegue che la collettività, le politiche sociali e la politica
giudiziaria concorrono fortemente a ridurre o ad accrescere il rischio di
devianza, massima attenzione è pertanto richiesta alle agenzie di
controllo sociale nei confronti di tutti i minori, soggetti deboli per
definizione e in particolare nei confronti di quelli in situazione di
difficoltà.
36
Ivi, pp. 11-13. 37
Ivi, p. 63. 38
Ivi, p. 13.
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29
CAPITOLO SECONDO
Il quadro storico-normativo
In ogni giovane, anche il più disgraziato, vi è un punto accessibile al bene
e dovere primo dell’educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile al cuore e trarne profitto
Don Bosco
Il quadro storico-normativo entro cui si inserisce l’istituto della
messa alla prova viene a delinearsi attorno al tema della pena e della
punizione, più esattamente attorno ad una precisa domanda di senso su
quale sia la giusta risposta da dare all’atto antigiuridico. Una domanda,
questa, che apre a molteplici orizzonti interpretativi come a molteplici
risposte, tanto che la si potrebbe definire una domanda in costante work
in progress, proprio perché oggetto di riflessione continua. Una domanda
che, senza dubbio, viene a configurarsi come il motore centrale della
risposta istituzionale a fronte della violazione di una norma: è, infatti,
alle posizioni assunte nel tempo in merito alla pena che conseguono le
diverse strategie politiche e giudiziarie adottate, avvicendatesi nel
tempo in una costante dialettica tra istanze repressive ed educative.
Il beneficio giuridico della messa alla prova rappresenta oggi una
delle risposte possibili a questa domanda, una risposta, considerata tra
le più innovative, che nel “punire” mette al centro il ragazzo, dandogli
credito, scommettendo dunque sul suo futuro. Elemento questo di
straordinario valore, perché è proprio nel come viene vissuta la
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30
punizione dal ragazzo, che si gioca tutta la possibilità che essa sia
realmente funzionale ad un cambiamento significativo di vita.
Al riguardo, assumendo la prospettiva relazionale di Watzlawick,
secondo cui la comunicazione viaggia sempre sui due livelli
contenutistico e relazionale39, è interessante considerare un elemento
chiave: se infatti per quel che concerne i contenuti della punizione
questi possono rimanere invariati, ciò che cambia è invece il processo
relazionale che attiviamo. In altre parole si possono dire e fare le stesse
cose, ma porgerle in maniera del tutto diversa e “gli effetti pragmatici
di una comunicazione, cioè la modificazione del comportamento di chi
riceve la punizione, molto spesso sono determinati dal livello relazionale
piuttosto che da quello contenutistico”40. Ma nella prospettiva
relazionale i processi della punizione e dell’educazione sono inscindibili,
pertanto una punizione data unicamente per difendere la società dalla
pericolosità sociale del reo, è una punizione tesa a mettere in atto la
stessa modalità relazionale del giovane deviante che ha commesso un
reato per vendicarsi delle ingiustizie che ha subito dalla società: punirlo
e basta vuol dire, da parte della società, vendicarsi dell’ingiustizia
subita, esattamente come ha fatto lui, provocando una risposta del tipo
“più di prima”: l’adolescente delinque, riceve una condanna, diventa più
delinquente, riceve una condanna più esemplare, continua a delinquere
e così via, la condanna è una convalida, un rinforzo del comportamento
39
Il secondo assioma della comunicazione, enunciato da Paul Watzlawick, afferma che ogni atto comunicativo ha un
aspetto di o te uto, io di i fo azio e, e u aspetto di elazio e, he igua da lo stato e otivo e l i te zio e di iò he si vuole o u i a e. Ciò vuol di e he so o gli aspetti elazio ali, su ui si asa l alt o pe o p e de e il essaggio,
che chiariscono, confermano o disconfermano quanto espresso verbalmente. 40
M. Cavallo (a cura di), Pu i e Pe hé. L’espe ie za pu itiva i fa iglia, a s uola, i istituto, i t i u ale, i a e e: p ofili giuridici e psicologici, FrancoAngeli, Milano, 1993, p 58.
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31
deviante41. Non avendo alternative l’unica risposta possibile è “il più di
prima”, la cosiddetta escalation simmetrica.
Tutta la differenza tra punizione ed educazione si gioca, allora,
proprio nella possibilità di offrire un’alternativa del comportamento: sia
la punizione che l’educazione, infatti, mirano a generare un
cambiamento, una condotta diversa e più funzionale alle regole della
società. Ma l’educazione diventa punizione quando questo cambiamento
non è possibile nel contesto familiare e sociale, cioè quando nella storia
di vita di quel ragazzo non c’è la possibilità di cambiare42.
Le radici della devianza, allora, vanno attentamente considerate
perché è ad esse che bisogna rispondere.
E’ ciò che ribadisce l’art. 27 della Costituzione evidenziando che la
pena deve tendere alla rieducazione43, deve cioè garantire un
cambiamento, offrire, promuovere un’alternativa alla condotta
deviante. Ma l’alternativa è possibile solo in presenza di un contesto
educativo, se avulsa da esso infatti la punizione sarà vissuta come
un’ennesima violenza, perdendo ogni utilità. Ecco allora
l’indispensabilità di un contesto funzionale: solo in presenza di un
sistema di servizi che funzionano, che siano in grado di progettare,
seguire, determinare un cambiamento sistemico, è infatti possibile che
la punizione diventi educazione. La strada possibile, e potremmo dire
doverosa, obbligata, è ben indicata nelle parole del giudice Giampaolo
Meucci che invitava ad “educare nelle forme della giurisdizione”,
41
Ivi, p.71. 42
Ivi, p.73. 43
L A t. della Costituzione Italiana al comma 3 recita: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
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32
facendo in modo che la risposta da dare al minore autore di reato,
applicata secondo lo spirito Costituzionale, abbia implicita in sé, una
funzione educativa44: è, infatti, dal modo e dalla misura in cui si punisce
che dipendono gli effetti, ossia il cambiamento, che è il fine ultimo,
vero, della punizione.
“Si può dire che la punizione è come un farmaco - afferma la Cavallo
- che deve essere somministrato ad un ragazzo aggredito dal virus della
devianza sociale; ma come il farmaco, quando è utilizzato troppo tardi o
in dosi massicce e senza il controllo, e non è accompagnato da adeguate
terapie di sostegno, può avere effetti nefasti, addirittura letali, così la
punizione, quando inflitta troppo tardi oppure con durezza ed emotività,
avulsa da un progetto organico di recupero, lungi dal produrre il suo
effetto di cambiamento in positivo, non potrà che provocare più gravi,
probabilmente definitivi, atteggiamenti di reazione”45. Parole, queste
della giudice, che ribadiscono chiaramente e con forza quanto detto: in
ambito minorile la punizione non deve mai essere fine a se stessa, cioè
rispondente ad un’ottica meramente retributiva, ma deve essere sempre
adeguata alle esigenze del minore e finalizzata a produrre un
cambiamento in chi ne è destinatario, tenendo presente che gli effetti
positivi dipendono dal processo relazionale attivato ovvero dalla capacità
di far comprendere il senso della punizione al ragazzo, questo perché
solo se compresa essa sarà sentita non come un atto vendicativo della
44
Giampaolo Meucci (1919-1886), magistrato italiano, considerato il padre del diritto minorile in Italia, è stato per venti
anni presidente del Tribunale per i minorenni della Toscana. La sua opera più nota, I figli non sono nostri (1974), è
considerata una pietra angolare del rinnovamento della cultura giuridica italiana; scrisse, insieme a Mario Gozzini, il primo
manuale di educazione civica per contribuire alla formazione dei giovani quando la materia, anche per il suo impegno, fu
introdotta nei programmi scolastici; partecipò inoltre come i seg a te all espe ie za della “ uola di Ba ia a di do Milani. 45
M. Cavallo, Ragazzi di strada, cit., p. 117.
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33
società, ma giusta e, conseguentemente, potrà essere accettata e
vissuta in modo positivo. La punizione deve portare al recupero del
ragazzo e questo è possibile, innanzitutto, attraverso una risposta
adeguata alle sue esigenze, che sia capace di vincere lentamente tutte
le resistenze che egli stesso mette in atto “perché tanto non mi
cambiate”, fino a fargli sperimentare la possibilità di permettere a se
stesso di “essere diversamente”. In tal senso la messa alla prova appare
come la risposta più adeguata alle esigenze del soggetto in età evolutiva
proprio perché sollecita l’attivarsi di una risposta del e nel contesto
sociale. Bisogna certamente pretendere la riparazione ma questa, lungi
dal mutilare il ragazzo, come accade con il carcere che non risolve il
problema della devianza minorile, ma anzi lo amplifica, deve invece
metterlo in grado di riprendere la propria strada come ricostituito.
Questo è possibile solo se nel punire prevalgono strategie che puntino in
primis a comprendere il segnale di difficoltà personale espresso dall’atto
antigiuridico, per poi successivamente rispondervi con un intervento
costruito ad hoc. Un intervento in cui la ricerca di forme di punizione
adeguate ad una corretta funzione educativa nel momento della
giurisdizione, sia sempre accompagnata da risposte di aiuto che
accolgano i bisogni che hanno determinato quell’atto, nella convinzione
che una punizione con finalità esclusivamente repressive “può impedire
un disordine, ma difficilmente farà migliori i delinquenti”46 e che,
invece, è necessario che il contesto ponga in essere un intervento
46
San Giovanni Bosco, Memorie Biografiche, Elledici, Torino, 2005; ma anche P. Braido, Prevenire, non reprimere. Il
sistema educativo di Don Bosco, LAS, Roma, 2000.
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34
individualizzato che, mettendo al centro la persona, sappia far leva su
quel punto accessibile al bene che ogni individuo ha in sé.
2.1. La finalità della pena: excursus storico
La riflessione sui fondamenti della pena, in ogni tempo, è stata
attraversata dall’idea che la violazione delle norme giustifichi una
reazione volta a ricostituire l’ordine sociale minacciato dal reato che ne
mette a repentaglio la sua conservazione.
Nei primi tempi della storia dell’umanità fino al XVIII secolo la pena
rappresentò la reazione difensiva della società che, attraverso essa,
ricostituiva l’unità del proprio corpo sociale violata dal crimine
commesso. Il modello prevalente delle elaborazioni giuridiche pre-
illuministiche fu per lungo tempo quello retribuzionista che, seguendo la
massima del rendere male per male, privilegiava una risposta all’atto
deviante di tipo punitivo.
Michel Foucault47 mette in luce come nel sistema penale, dall’età
ellenistica in poi, si possano trovare un insieme di pratiche normative e
una serie di sistemi disciplinari distinti sul piano punitivo, che egli
descrive elencando quattro tipologie di esercizio del potere sul soggetto
deviante: società dell’esilio (società greca) in cui il colpevole di un reato
grave, il deviante, veniva bandito dalla città; società del riscatto
(società tedesche) ove il danno provocato veniva convertito in un debito
47
Paul-Michel Foucault, 1926-1984, sociologo, filosofo, psicologo e storico francese, ha analizzato la pena come sanzione
disciplinare inserita nei meccanismi di potere-sapere atti a controllare gli individui, evidenziando come tra il XVI e il XIX
sec. vi fu la messa a punto di tutto un insieme di procedure (di sorveglianza, esercizio, annotazioni, esami, registrazioni)
per controllare, misurare, addestrare gli individui, per renderli docili e utili nello stesso tempo, comportando la nascita
della osiddetta società disciplinare .
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35
da pagare; società del segno (società occidentali fino alla fine del
Medioevo) che prediligevano il supplizio in cui si esponeva, marchiava,
torturava il corpo del suppliziato; società della prigione (società
occidentali moderne) che, con le grandi riforme penali, iniziano ad
imprigionare, aprendo la strada alla nuova strategia formale che è la
detenzione48. Centrale, in questa descrizione, è proprio quest’ultimo
passaggio: dal modello punitivo dell’Ancien Régime a quello del
controllo della società moderna.
Nell’Ancien Régime, scrive Foucault, la pena rientrava in una più
ampia strategia di dominio e manifestava in maniera evidente il diritto
alla vendetta detenuto dal sovrano, il cui potere, temporaneamente
oscurato e offeso dal crimen maiestatis commesso, veniva esercitato sul
corpo stesso del condannato. Lo scopo del supplizio, in tal senso, era
innanzitutto quello della pubblicizzazione della dissimmetria esistente
fra il potere regio e i soggetti che violavano la legge: esso era una
manifestazione di forza del sovrano che riaffermava il proprio potere
punendo in modo esemplare e arbitrario, con una punizione corporale,
spettacolare, pubblica. La società dell’Ancien Régime non si poneva il
problema di prendere in carico il deviante né quello della sua
rieducazione, ma perseguiva lo scopo di ricostruire l’unità del corpo
sociale, spezzata dall’evento criminoso, con una punizione esemplare ed
efferata che, vendicando e ammonendo insieme, avesse anche una
funzione deterrente49.
48
M. Foucault, La società punitiva, trad. it., TraccEdizioni, Livorno, 1991, pp. 41-55 in A. Mariani, Foucault, per una
ge ealogia dell’edu azio e, Liguori Editore, Napoli, 2000, p.29-30. 49
M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1993, pp. 37-38.
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Nell’epoca moderna, segnata dalla rivoluzione industriale, il sistema
di diritto iniziò a mutare, umanizzandosi e mettendo da parte le forme
più cruente di punizione. Tra gli elementi che favorirono questo
passaggio, Foucault individua il dissenso popolare verso quelle brutali
pratiche, sfociato soventemente in vere agitazioni e divenuto, nella
seconda metà del XVIII secolo, endemico: oltre al popolo infatti,
cominciarono ad indignarsi filosofi, giuristi, teorici del diritto, ritenendo
necessario punire diversamente, con l’abolizione dello scontro fisico tra
il sovrano e il condannato. La necessità di un diverso tipo di punizione
appariva strettamente connessa al sistema industriale che si andava
affermando in quel periodo storico: le società industriali, infatti,
esprimevano sempre più la necessità di includere al proprio interno la
nuova categoria sociale che si era andata creando con
l’industrializzazione, quella della dégénérescence50, comprendente tutti
coloro che, non essendo inquadrati nel lavoro, costituivano la grande
famiglia indefinita e confusa degli anormali51, una massa informe e poco
gestibile di individui (soggetti inabili, donne sole con prole, vagabondi…).
In tal senso la diversità, intesa come anormalità, venne a legarsi
all’inoperosità, ciò perché, a differenza del soggetto che lavorava,
facilmente controllato e funzionale alla società in quanto produttivo,
coloro che si collocavano al di fuori del circuito lavorativo, incapaci di
integrarsi nella comunità, venivano considerati un costante pericolo per
50
A. Mariani, Fou ault, pe u a ge ealogia dell’edu azio e, op. cit., p.22. 51
Tale categoria venne formulata tramite una serie di tecnologie, dispositivi e meccanismi che Foucault ha studiato
att ave so t e ele e ti des ittivi: il ost o, l i dividuo da o egge e, l o a ista.
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l’ordinamento pubblico, in quanto portatori di disordine sociale52.
Progressivamente si va affermando un pensiero che vede nell’atto
antisociale non più un’offesa al potere del re ma un indebolimento del
contratto sociale: dunque non più un crimen maiestatis ma un crimen
societatis, in quanto ogni qualvolta che veniva commesso un crimine era
la società tutta ad essere coinvolta e in ragione di ciò la punizione
doveva essere più clemente in quanto essa, da un lato doveva riparare al
torto arrecato alla società, dall’altro doveva reinserire il trasgressore
all’interno di essa. Conseguentemente la pena non fu più considerata
come una vendetta personale del sovrano, ma come uno strumento di
difesa della società, la cui modalità esplicativa non era più quella di
colpire, segnare, marchiare il corpo, ma di agire in profondità,
attraverso esso, sull’anima del detenuto per normativizzarlo, ossia
convertirlo al rispetto delle norme e dei valori condivisi. Si affermò,
pertanto, la necessità di un potere non più esercitato dal sovrano ma
capace di esplicarsi attraverso pratiche di governo funzionali a
normalizzare53 l’anormale: il soggetto deviante non doveva essere
escluso con una punizione esemplare ma controllato, disciplinato,
moralizzato, corretto, attraverso pratiche di dominio. In altre parole, si
fece largo il principio che per perseguire il fine dell’ordine sociale non
fosse funzionale l’esercizio di un potere macrofisico, che si esplicava in
maniera forte, calandosi sulla società dall’alto e imprimendosi su di essa
52
M. Foucault, “to ia della follia ell’età lassi a, Rizzoli, Milano, 1992, p.52-53. 53
Nella sua ricerca Foucault si orienta sempre più verso lo studio dei processi di normalizzazione, cioè delle varie forme
t a ite ui il pote e ha te tato, ell O ide te ode o, di o t olla e gli i dividui e i lo o o pi, ello sfo zo di o te ere
tutte le forme di devianza rispetto ad una norma costituita; il processo di normalizzazione può essere inteso come un
processo che segue il cammino inverso rispetto a quello della devianza: è cioè un percorso che conduce il soggetto
dall esse e out all esse e i ovve o i se ito i uello he il centro ideologico e culturale di una data società; non è un
processo necessariamente violento, ma si esprime convincendo i soggetti della giustezza del comportamento da seguire.
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con modalità atte ad escludere dal tessuto sociale in maniera
spettacolare. Risultava invece essere più utile, in quanto più valido in
chiave economica, l’esercizio di un potere che regolamentasse le
condotte dei soggetti agendo in maniera microfisica, ossia innervando la
vita di ogni singolo individuo, penetrandola dal basso in maniera
capillare, un potere ubiquitario, dunque, capace di agire in maniera
pervasiva, quasi invisibile, esplicandosi con una modalità di interventi
tesi a categorizzare e omologare il soggetto all’interno di un sistema di
valori, in modo tale che questi potesse essere disciplinato, produttivo e
integrato: per la società moderna era più vantaggioso rendere
“fruttuosa” la devianza attraverso meccanismi di inclusione, che
allontanarla da sé con punizioni efferate.
In questo quadro la pedagogia diviene uno dei saperi chiave dello
Stato in quanto legata alla formazione della soggettività: il sapere
pedagogico plasma il soggetto attraverso pratiche di normativizzazione e
di interiorizzazione di norme e regole. L’educazione viene, quindi, a
porsi come un dispositivo di potere che, attraverso una serie di saperi,
imprimendosi direttamente sul corpo dei soggetti, ne regola e conduce
le condotte, stabilendo a priori ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò
che è normale e ciò che non lo è.
Nella lettura offerta da Foucault, la nascente classe media trovava
poco conveniente un sistema penale arbitrario e violento, preferendo
invece una maggiore efficacia che, rifuggendo dalla spettacolarizzazione
della punizione, potesse garantire un sistema più efficiente, razionale e
capillare di controllo delle classi subalterne. La differenziazione tra
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punizione esemplare e disciplinamento, che aveva portato all’affermarsi
del concetto di rieducazione e di riabilitazione, comportò, col mutare
delle funzioni della pena, la conseguente trasformazione delle modalità
di esecuzione della medesima: il carcere, che nel sistema penale
dell’Ancien Régime ricopriva una posizione marginale fungendo solo da
passaggio per il supplizio, divenne, nell’età moderna, uno dei numerosi
strumenti atti ad alimentare il potere disciplinare degli Stati che,
manipolando e forgiando l’individuo, lo rendevano luogo cardine del
nuovo sistema di controllo formale, idoneo a controllare e a riabilitare,
sostituendosi, di fatto, alle pene corporali, misure queste non più atte a
raggiungere gli scopi del nuovo assetto sociale54.
Quest’epocale mutamento di prospettiva comportò il passaggio di
attenzione dall’atto deviante al soggetto deviante portando al graduale
emergere di una nuova consapevolezza scientifica costruita intorno alla
categorizzazione patologica del soggetto anormale: le pratiche
finalizzate al trattamento della diversità e della devianza si andarono
centrando sempre più sulla personalità individuale, con l’obiettivo della
normalizzazione del soggetto deviante. Tale processo richiedeva
l’organizzazione di un sistema sanzionatorio nuovo, volto più alla
correzione che alla semplice repressione e che, proprio in ragione di ciò,
presupponeva l’apporto delle scienze umane al fine di fornire gli
strumenti necessari per poter misurare e valutare le distanze dei casi
devianti dalla norma stabilita55. Si affermò, pertanto, un intervento di
tipo riabilitativo e rieducativo, funzionale al controllo e al reinserimento
54
M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit. 55
Ivi, pp.194-212.
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nel tessuto sociale56, ove le basi scientifiche per lo studio degli individui
e per il perfezionamento delle strategie di sorveglianza furono offerte da
diverse discipline, soprattutto afferenti le scienze umane: si diffuse l’uso
di saperi in grado di indagare la personalità del deviante e di spiegarne il
comportamento inquadrandolo in una categoria, solo in tal modo si
rendeva possibile curare quella che era considerata sempre più una
malattia sociale. Conseguentemente anche la giustizia punitiva cambiò
l’intero rituale penale. Lo spostamento dell’interesse dall’analisi dei
reati allo studio dei soggetti criminali necessitava di un ampliamento
delle competenze scientifiche utilizzate, pertanto dall’istruttoria fino
alla sentenza vengono introdotte nuove pratiche e nuovi soggetti
extragiuridici: non si giudicano più soltanto i delitti, bensì altre variabili
che riguardano il carattere, la storia e l’ambiente familiare
dell’individuo. Mutamento, questo, che comporta l’entrata in scena di
esperti quali psicologi, psichiatri, criminologi, medici, assistenti sociali,
educatori, tutte figure professionali, interessate alla certificazione di
una normalità morale, comportamentale, psichica, che affiancheranno
sempre più il giudice nel suo lavoro con considerazioni in merito alla
pericolosità sociale del soggetto deviante. Nel processo si poté assistere
all’ingresso della perizia psichiatrica che analizzando la biografia del
soggetto ne indagava la personalità in relazione all’atto compiuto57.
Figure centrali nel percorso di cambiamento del sistema delle pene
furono Cesare Beccaria e Jeremy Bentham58. Entrambi sostenevano che il
56
P. Barone, Pedagogia della marginalità e della devianza, Guerini Scientifica, Milano, 2011, p.25-26. 57
A. Mariani, Fou ault, pe u a ge ealogia dell’edu azio e, op. it., p.37-38. 58
Cesare Beccaria (1738–1794), giurista,filosofo, economista e letterato italiano, figura di spicco dell'Illuminismo, fu
auto e del testo Dei delitti e delle pene i ui p i ipi ispi e a o la teo ia della s uola Classi a del Di itto pe ale
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sistema delle pene andasse radicalmente rivisto: il primo come teorico
del diritto si sforzò di formulare un progetto di addolcimento delle pene,
il secondo cercò di teorizzare una diversa organizzazione degli spazi
deputati all’esecuzione della pena. Cesare Beccaria nella sua opera Dei
delitti e delle pene proponeva un ideale moderno di diritto penale,
introducendo concetti come la proporzionalità delle pene e l’abolizione
della pena di morte, in chiara opposizione alle tendenze repressive
dell’Ancien Régime: la punizione non doveva più essere crudele,
inumana e degradante, bensì dolce, moderata e proporzionale al crimine
commesso.
Con le funzioni della pena, naturalmente, si trasformarono anche le
modalità di esecuzione della medesima: i primi progetti di prigione in
senso moderno risalgono al Panopticon (“che vede tutto”) di Bentham,
con cui il giurista inglese ipotizzò un metodo di sorveglianza totale sui
corpi dei detenuti, progettando tecniche architettoniche che
consentissero ad un unico guardiano di sorvegliare tutti i prigionieri in
ogni momento. La struttura carceraria ideata da Bentham aveva lo scopo
di educare all’onestà i criminali attraverso l’autocontrollo del detenuto
stesso sul quale agiva la pressione disciplinante del sentirsi controllato in
ogni momento. Dopo anni di questo trattamento, secondo Bentham, il
retto comportamento “imposto” sarebbe entrato nella mente dei
prigionieri come unico modo di comportarsi possibile, modificando così
indelebilmente il loro carattere. Proprio per queste sue caratteristiche il
Panopticon divenne l’emblema dell’onnipresenza del potere nella
italiano; Jeremy Bentham (1748- , filosofo e giu ista i glese, fu l ideato e di u uovo tipo di p igio e he hiamò
Pa opti o (1791).
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società contemporanea, tanto che Foucault nel descrivere il nuovo modo
di punire della società del XVIII secolo lo definisce appunto
“panoptismo”, sottolineando il passaggio dall’attenzione al corpo del
condannato a quella verso la sua anima come necessario per la creazione
di una società disciplinata. Questo nuovo tipo di società, per
sopravvivere ed impostare i propri valori, necessitava di strutture quali
gli istituti penitenziari che sorvegliassero ed educassero i prigionieri59.
A partire dall’Illuminismo si ha, dunque, un approccio differente al
crimine ed alla pena, congiuntamente all’affermarsi dell’ideologia
liberale le cui idee daranno vita alla Scuola Classica del Diritto Penale
Italiano60, sulla scorta del pensiero di Beccaria che, ritenendo l’uomo
capace di intendere e di volere, evidenziava la necessità di una pena
scritta, certa e proporzionata al reato commesso spingendo il legislatore
a bandire le pene più crudeli ed infamanti e a limitare la pena di
morte61, che fino all’avvento del sistema carcerario era stata lo
strumento punitivo maggiormente impiegato. La pena, infatti, secondo il
pensiero del giurista italiano, ha un maggiore effetto deterrente se le
persone sanno a cosa andranno incontro, qualora violino i precetti penali
59
M. Barbagli, A. Colombo, E. Savona, Sociologia della devianza, op. cit., pp. 249-250. 60
Sulla scorta delle dottrine illuministiche di Cesare Beccaria si sviluppò nella seconda metà del 1700 la Scuola Classica del
Diritto Penale italiano, che con il suo maggiore esponente Francesco Carrara, contribuì all'affermazione – attraverso
l'ispirazione garantista da essa espressa - di nuovi e importanti principi. La teoria che è alla base della Scuola Classica
muove dal postulato del libero arbitrio, da cui deriva la preclusione di ogni ricerca sulle condizioni mentali, morali e
familiari del reo. Il diritto penale era fondato sulla responsabilità morale. Conseguenza di questi presupposti è una
concezione della giustizia che attribuisce alla pena una funzione esclusivamente retributiva. La gravità del reato
costituisce l'unico criterio in base al quale vengono stabilite le pene, le quali, pur nella loro durezza, non possono essere
attuate in condizioni disumane o mediante supplizi corporali, esse do tese a edi e e il eo, olt e he a pu i lo. E asse te l idea di p eve zio e. Nell'a ito spe ifi o della giustizia i o ile il suo appo to ha igua dato es lusiva e te la questione dell'imputabilità del minore e della sua capacità di intendere e di volere. 61
La pe a di o te ve à pa zial e te a olita dal Codi e )a a delli del a isog e à atte de e l e a azio e della Ca ta Costituzio ale del he a olse il p i ipio di u a izzazio e della pe a sa ito ell a t. , pe vede la a olita
per tutti i reati comuni e militari commessi in tempo di pace; la pena di morte rimase però nel Codice penale militare di
guerra fino al 1994 anno in cui fu sostituita con l'ergastolo. Nel 2007, infine, fu approvata una legge costituzionale che
modificò l'art. 27 della Costituzione, introducendo il divieto assoluto di utilizzare la pena di morte nell'ordinamento
penale italiano.
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a prescindere dalla severità della sanzione62. Quest’approccio al crimine
concentrava l’attenzione esclusivamente sul fatto-reato, frutto della
libera volontà del soggetto, considerando totalmente irrilevante la
personalità del reo e reputando pertanto inutile ogni ricerca sulle
condizioni mentali, morali e familiari dello stesso.
Fu solo nella seconda metà dell’Ottocento che, con l’affermarsi del
Positivismo e del metodo scientifico si sviluppò un modo di studiare il
crimine atto a focalizzare la sua attenzione non più sul reato ma sulla
personalità del reo, dando vita alla Scuola Positiva del Diritto Penale
Italiano63. I teorici di tale scuola, in primis Cesare Lombroso, partendo
dal postulato di una concezione deterministica della natura umana,
consideravano l’azione criminale quale frutto di un impulso irrefrenabile
rivelatore di una personalità socialmente pericolosa, cui conseguiva la
necessità di una pena che non fosse retributiva ma che avesse la finalità
di proteggere la società e di recuperare il reo. Una pena dunque non più
certa ma individualizzata, indeterminata e utile alla rieducazione del
condannato, non proporzionata alla gravità del fatto ma alla pericolosità
sociale.
La cultura moderna è stata molto influenzata dalla scuola positiva e
ciò ha portato il legislatore a porre molta attenzione alla personalità
dell’autore del reato, cosicché attualmente il diritto penale italiano si
62
Ivi, p. 245. 63
Sul finire del secolo, affondando le proprie radici culturali nel positivismo metodologico, alcuni intellettuali (quali
Lombroso, Ferri, Garofalo) iniziarono l'esperienza della Scuola Positiva che, in contrapposizione al razionalismo illuminista
della Scuola Classica, affermò la supremazia dell'indagine sperimentale e quindi del metodo induttivo sugli astratti giudizi
di colpevolezza. La fiducia nelle scienze portò Cesare Lombroso a ritenere "che si potesse studiare l'uomo, l'individuo che
delinque con strumentazioni derivate da altre scienze dell'uomo", inaugurando l'antropologia criminale e l'indirizzo
individualistico dello studio della criminalità che condizionò notevolmente sia lo sviluppo del diritto penale, sia gli indirizzi
in tema di trattamento dei delinquenti.
Nell'ambito specifico della giustizia penale il suo apporto ha riguardato soprattutto il concetto di pericolosità sociale e
l appli azio e delle isu e di si u ezza.
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basa sul dualismo responsabilità morale-pericolosità sociale che trova la
sua affermazione nella c.d. Terza Scuola, una corrente di pensiero che,
cercando una mediazione tra i citati principi propri delle due scuole
precedenti, diede vita al cosiddetto sistema del doppio binario, base del
Codice Penale del 193064, ove sistema retributivo e sistema preventivo
coesistono affiancando alla pena retributiva le misure di sicurezza e
perseguendo, in tal modo sia la finalità punitiva, cioè l’esigenza di
applicare sanzioni, sia quella preventiva ossia l’intervento rieducativo.
Al concetto di imputabilità si affianca quello di pericolosità sociale,
legato all’esigenza di difesa sociale nei confronti di un comportamento
criminoso posto in essere da un soggetto non imputabile per capacità di
intendere e di volere65.
Fu, dunque, a partire dalle grandi trasformazioni sociali del XVIII
secolo che alla funzione retributiva della pena66, volta a riaffermare
l’autorità dello Stato negata dal delitto con una sanzione proporzionata
alla gravità dei fatti, si affiancarono le funzioni di prevenzione generale,
per cui la pena deve avere efficacia deterrente nei confronti della
collettività, attraverso la riaffermazione forte della norma violata che
distolga la generalità dei consociati dal commettere reati con la
minaccia di sanzioni67, e di prevenzione speciale, in virtù della quale la
64
I Codici Rocco del 1930, di diritto e procedura penale, tuttora vigenti, rappresentarono un momento tecnicamente
rilevante di compromesso e di equilibrio tra le opposte istanze della Scuola Classica e della Scuola Positiva. Con essi,
infatti, venne a delinearsi una netta distinzione tra i soggetti che erano da considerarsi in condizioni di "normalità
biologica e psichica" e quelli che erano in condizioni valutate di "non normalità biologica e psichica": per i primi di cui era
presunto il libero arbitrio e, quindi, l'imputabilità, la pena assolveva ad una funzione soprattutto retributiva; ai secondi,
invece, cui non era negato il libero arbitrio e per i quali l'imputabilità doveva essere provata, la pena, sotto forma di
misura di sicurezza, acquisiva funzioni terapeutiche e di difesa sociale. 65
D. Izzo, A. Manucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit. 66
La pena retributiva presenta i seguenti caratteri: afflittività, intesa come privazione di un bene; responsabilità penale
personale; proporzionalità della pena; determinatezza della pena; inderogabilità della pena. 67
Nel nostro sistema penale il giudizio basato sulla previsione di u a delittuosità futu a può o po ta e l adozio e di misure di sicurezza o misure alternative alla detenzione.
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pena deve assumere una funzione risocializzativa, ossia “tendere alla
rieducazione del condannato”, come impone la Costituzione Italiana
all’art. 27.
In sintesi, dunque, attualmente nel nostro Paese la reazione
dell’ordinamento giuridico a fronte della violazione di una norma penale,
secondo quanto sancito dal citato articolo costituzionale, deve tendere
ad un duplice obiettivo: quello della difesa sociale attraverso una
sanzione repressiva e quello del recupero sociale del reo.
2.2. Verso un nuovo processo penale minorile: il D.P.R.448/88
Il sistema penale minorile rappresenta il risultato di un lungo
cammino che ha visto la progressiva, seppur lenta, affermazione del
principio del favor minoris, conquista recente, cui grande impulso fu
dato soprattutto dalla Carta Costituzionale del 1948, che, pur non
prevedendo una disciplina specifica per i minori, operò una “rivoluzione
copernicana” nel modo d’intendere la condizione minorile, che costituirà
la base di un complessivo sistema di promozione dei diritti del minore,
considerato nella sua condizione di soggetto in formazione e ritenuto
meritevole di protezione68.
Il sistema penale minorile può, quindi, essere visto come il frutto del
processo di maturazione della coscienza civile che, nel tempo, è andata
68
L evoluzio e del o etto di i o e ha visto il le to passaggio dal o etto o a isti o di i us ha e s , ossia, incapace di compiere atti di atu a pat i o iale, al ode o o etto di di itto del fa iullo: da u i iziale atteggia e to di egazio e e i diffe e za pe la i o e età si g adual e te giu ti all affe azio e della spe ifi ità e dig ità di essa. Il minore, visto in passato come soggetto debole e oggetto dei diritti degli adulti, viene oggi considerato quale persona
titolare in concreto di diritti soggettivi perfetti, autonomi, azionabili, membro a tutti gli effetti della collettività sociale e
soggetto capace di graduale inserime to i essa. Co l affe azio e dei di itti dei i o i, di pa i passo, si affe ato ed evoluto il di itto del i o e, he po e a fo da e to della o dizio e giu idi a del i o e l esige za di p otezio e e tutela.
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riconoscendo la specificità della condizione del minore inteso come
persona umana da tutelare nelle sue fondamentali esigenze evolutive
dell’identità personale, cui la politica penale ha tentato di adeguarsi
costruendo un sistema differenziato di diritto penale che tende alla
tutela dei diritti dei minori, primo fra tutti il diritto all'educazione.
E’ nell’Ottocento, col nascere della borghesia, che comincia a farsi
sempre più vivo l’interesse verso il minore: nel ceto medio il bambino
assume un posto di rilievo e l’educazione diviene sempre più
specializzata e attenta alle prime tappe evolutive dell’uomo. Tutto il XIX
secolo, permeato dallo spirito scientifico proprio del Positivismo, è
attraversato da un interesse educativo e pedagogico per l’infanzia
“traviata”, da cui scaturì l’idea che al ragazzo che avesse commesso un
reato andasse offerta quell’educazione che non aveva avuto in famiglia.
Tuttavia, nonostante l’affermarsi di tali principi, l’esigenza di controllo
e di disciplinamento emersa con il capitalismo, continuava a
ripercuotersi nelle pratiche formative atte a trattare la devianza
minorile, cosicché il destino dei minori “discoli” continuerà ancora a
sovrapporsi a quello degli adulti emarginati: l’atteggiamento verso
l’infanzia abbandonata restava segnato dal giudizio intorno alla sua
pericolosità sociale, il che determinò ancora il prevalere di istanze
protettive nei confronti della società e non del minore. Infatti, in quello
stesso periodo, fecero la loro comparsa le prime istituzioni minorili che
si proponevano di affrontare il problema dell’aumento dei minori
vagabondi, abbandonati, incontrollati e socialmente pericolosi. Queste,
preoccupandosi soprattutto di porre in essere un’azione moralizzatrice e
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di controllo sociale, tentarono anche un intervento specifico nei
confronti dei minori, separandoli e differenziandoli, sia fisicamente che
nei trattamenti, dagli adulti69.
Accadde, pertanto, che nel corso di tutto l'Ottocento l'attenzione
rivolta ai minori mise in rilievo forti contraddizioni e inconciliabili
ambiguità: da una parte, infatti, il Positivismo proponeva come
necessaria la conoscenza scientifica del bambino e tutto quanto relativo
all’educazione, con l’obiettivo della tutela, della promozione, della
protezione dei giovani; dall’altra parte, invece, il forte controllo
sull’infanzia rendeva gli interventi sui minori estremamente punitivi e
unicamente funzionali alla correzione, introducendo in ambito penale
istituti fino ad allora sconosciuti, con misure coercitive e correzionali
derivanti da una concezione dell’infanzia come un’età subalterna,
dipendente dall’autorità di coloro che erano preposti all’educazione. Il
controllo sociale continuava ad essere l’obiettivo prioritario, con la
conseguenza che la categoria educativa della repressione informava
ancora ampiamente la prassi formativa, in un sistema ove il castigo era
considerato lo strumento privilegiato, indispensabile e necessario del
formare: si puniva per correggere, si puniva per educare70.
Bisognerà attendere il secolo scorso per scorgere i segni di una
moderna concezione dell’infanzia volta alla tutela del minore, foriera di
un approccio pedagogico più adeguato ed intenzionale che, liberandosi
dal pregiudizio moralistico e da istanze repressive, cominciasse ad
affrontare i fenomeni della devianza e della marginalità attraverso
69
http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/wp-content/uploads/2010/09/Salvati_Giustizia-Minorile.pdf 70
Ibidem.
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paradigmi interpretativi più attenti alla specificità del minore. Si faceva
largo, infatti, il principio secondo cui mettere insieme adulti e minori
potesse rafforzare un’identità deviante e con esso appariva sempre più
chiara la necessità di separare il sistema penale dei minorenni da quello
degli adulti attraverso una differenziazione degli interventi. Crebbe
lentamente l’attenzione verso la persona umana e i diritti dell’uomo,
risultando ormai intollerabili le condanne eccessivamente severe,
l’esecuzione di pene detentive in condizioni di promiscuità e l’evidente
inadeguatezza degli interventi penali nei confronti dei minorenni. In
risposta a queste situazioni problematiche, gli studi antropologici e
sociologici favorirono la creazione negli Stati Uniti del Child-saving
movement, il quale diede vita ad un vero e proprio movimento di
opinione che spinse verso la creazione di una Commissione, da cui derivò
l'idea della istituzione di un Tribunale speciale per l'infanzia, idea che si
concretizzò a Chicago nel 1899 con l’istituzione della prima Juvenile
Court, di marcata impronta paternalistica, in quanto il giudice,
assumendo il ruolo del “buon padre di famiglia”, aveva il compito di
osservare il minore e di disporre circa la sua educazione o correzione.
Al successo americano fece eco negli anni successivi un analogo
sviluppo europeo, cosicché tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del XX
secolo fecero la loro comparsa, prima nel mondo anglosassone e
progressivamente nel resto d’Europa, i primi Tribunali per i Minorenni,
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organi giudiziari che si occupavano esclusivamente dei soggetti di minore
età71.
Rispetto a quanto si è verificato nelle altre nazioni europee ed
extraeuropee, in Italia l’introduzione di una giurisdizione specializzata si
è avuta relativamente tardi. Il primo passo in tale direzione risale al
progetto Quarta-Vacca del 1908, ma solo nel 1934 con il R.D.L. 140472 fu
istituito il Tribunale per i Minorenni quale organo di decisione autonomo,
rispetto agli altri tribunali penali e civili, e specializzato in relazione alle
peculiarità della condizione minorile73, cui furono attribuite competenze
penali, civili e amministrative. Tale introduzione è espressione del
riconoscimento delle peculiari esigenze educative dei minori e della
necessità di un trattamento differenziato rispetto a quello degli adulti
nella procedura penale e nell’esecuzione di pene e misure74. Seppur
lentamente, la risposta giudiziaria alla devianza ed alla delinquenza
minorile cominciava ad essere frutto di una giustizia che andava sempre
più sensibilizzandosi verso la specificità propria della minore età. Questo
percorso graduale evolutosi nel tempo vide l'’intervento giudiziario
71
Nel 1895 venne inaugurata la Juvenile Court di Birmingham e nel 1908 tali istituzioni divennero obbligatorie in
Inghilterra, in Scozia ed in Irlanda con il Children Act, un vero e proprio statuto per i minori il quale, tra l'altro, oltre a
prevedere che nessun ragazzo minore di sedici anni potesse essere condannato al carcere, abolì anche quasi del tutto la
pena di morte per i minori. Leggi simili vennero promulgate anche in Francia e in Belgio nel 1912 e, dopo il Congresso
internazionale del Tribunale per i Minorenni, tenutosi a Parigi nel 1913, giurisdizioni speciali per minorenni furono create
anche in Olanda (nel 1921) ed in Germania (leggi del 1922 e 1923). 72
R.D.L. 20 Luglio 1934, n. 1404, Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni, convertito in legge, con
modificazioni, dalla L. 27 maggio 1935, n. 835. 73
IL T.M. è un organo giudiziario ordinario, specializzato, a composizione mista: la specializzazione è assicurata dalla
presenza in sede decisionale e, in molti casi a he ist utto ia, di u ittadi o e e e ito dell'assiste za so iale, s elto tra i ulto i di iologia, di psi hiat ia, di a t opologia i i ale, di pedagogia , ossia di u giudi e o o a io espe to i
ate ia edu ativa a a to a due agist ati togati: l i te dis ipli a ietà della o posizio e vie e a o figu a si p op io come funzionale a ga a ti e la o pete za p ofessio ale i hiesta pe u a e i a ie a adeguata l i te esse del i o e; successivamente la legge 888/1956 porterà a due il numero dei componenti onorari (un uomo e una donna); anche la
prevalenza del rito camerale va letta quale segno di specializzazione. 74
Gli scopi del decreto del 1934 furono così riassunti: "specializzare il giudice minorile nella forma più completa e più
ampia; indirizzare risolutamente la funzione punitiva verso finalità del riadattamento del minorenne; organizzare un
sistema di prevenzione della delinquenza minorile con la rieducazione dei traviati; rendere possibile ai minori che
delinquirono, o che furono ritenuti semplicemente traviati, il ritorno alla vita sociale senza che alcuno possa ad essi
opporre la qualifica dei precedenti trascorsi".
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passare da un’iniziale fase centrata sulla punizione e la pena detentiva,
ad una successiva orientata all’assistenza, ad un terzo orientamento
centrato sul trattamento75.
Nella prima fase, dall’istituzione del Tribunale per i Minorenni agli
anni ’50, prevalse il modello punitivo - repressivo, proprio della scuola
classica, mirato essenzialmente alla punizione del reo, al controllo
sociale e alla sicurezza dei cittadini, concretizzatosi nell’assoluta
prevalenza di risposte istituzionali poiché la funzione di controllo e di
contenimento della devianza passava sempre per l’inserimento in
un’istituzione76, in quanto l’idea di fondo era che la devianza fosse una
scelta di carattere ideologico - morale, e pertanto richiedesse in risposta
interventi correttivi attuabili solo attraverso una presa in carico totale in
strutture separate. Tuttavia vi fu anche una maggiore attenzione alle
peculiari esigenze dei minorenni nell’area penale: la modifica della
fascia di minori imputabili, con l’innalzamento dei limiti di età minimi
(dai 9 ai 14 anni) e massimi (dai 14 ai 18), la sostituzione della categoria
del discernimento con quella della capacità di intendere e di volere,
stabilite dai Codici Rocco del 1930, l’istituzione del Tribunale per i
Minorenni e la previsione di nuovi istituti e norme per l’applicazione
delle misure penali e amministrative del 193477, possono essere
75
D. Izzo, A. Mannucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit., p. 247. 76
Ivi, p.248. 77
Con il RDL 1404/34 il legislatore in materia penale a pliò l a ito di applicazione sia del perdono giudiziale (già
i t odotto dall a t. dei Codi i ‘o o , p evede do e l appli azio e i aso di pe a dete tiva o supe io e a due a i (art.19), sia della sospensione condizionale della pena concedibile ai minori nel caso di pena concretamente applicabile
non superiore a tre anni (art.20); divenne possibile, poi, secondo la previsione dell'art. 21, che durante l'esecuzione, fosse
ordinata la liberazione condizionale del minore in qualunque momento e qualsiasi fosse la misura della pena; in materia
amministrativa fu, i ve e, ileva te l i t oduzio e di misure di correzione se o do ua to sa ito dall a t. ivolto ai
minori di anni 18 che per abitudini contratte dava prova di traviamento ed appariva bisognoso di correzione morale; in tal
aso il giudi e poteva o di a e l i te a e to del i o e i istituto pe o ige di; tali isu e te deva o ad i t odu e un controllo sociale rafforzato sulla devianza, caratterizzato da forme di coazione legale; inoltre, il trattamento non aveva
una durata prestabilita: terminava solo quando il soggetto non appariva più "bisognevole di correzione" o al compimento
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considerate come le prime le tappe di una nuova fase della giustizia
minorile e una prima, cauta integrazione della competenza medica con
quella delle scienze psicosociali78. In particolare, con l’introduzione
della competenza amministrativa, veniva a delinearsi un sistema di
risposta al disadattamento ed alla devianza caratterizzato da alcuni
elementi peculiari. Innanzitutto l’applicazione di tali misure non era
legata alla commissione di un reato, ma al manifestarsi di
comportamenti difformi dalla normalità79, considerati, solo in ragione di
ciò, prodronimici alla delinquenza. In secondo luogo l’intervento era
fondato su valutazioni di opportunità e non sul principio di legalità,
motivo per cui le misure applicate non avevano una durata prestabilita,
ma proseguivano “sino a quando ce n’è bisogno”, con il solo limite della
maggiore età. Infine tali misure erano gestite dall’amministrazione
centrale dello Stato80.
Una seconda fase della giustizia minorile, dagli anni cinquanta fino
alla metà degli anni ’60, fu invece orientata al modello dell’assistenza,
che recependo i principi della scuola positiva e incentrando l’attenzione
sulla personalità del minore, privilegiò un intervento di tipo assistenziale
terapeutico. Si affermava la tendenza a guardare oltre il reato,
considerato come espressione sintomatica di un disagio interpersonale e
familiare, cui conseguiva la possibilità di un intervento di prevenzione.
della maggiore età. Tali isu e, o siste ti i izial e te ella sola asseg azio e dei t aviati ai ifo ato i pe o ige di si modificano e arricchiscono a seguito della legge n. del fissa dosi elle due atego ie del ollo a e to i case di rieducazione o istituti medico-psico-pedagogi i e dell affida e to al se vizio so iale i o ile. 78
G. De Leo, P. Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, cit., pp. 45-46. 79
Co po ta e ti defi iti p i a o e t avia e to el ‘.D.L. . / , poi o e i egola ità della o dotta dalla legge 888/56. Attualmente si tende ad inquadrarli nella categoria della devianza, sebbene tale termine non sia stato
ancora recepito in testi legislativi. 80
M. Cavallo (a cura di), Pu i e Pe hé. L’espe ie za pu itiva i fa iglia, a s uola, i istituto, i t i u ale, i a e e: p ofili
giuridici e psicologici, cit., pp. 115-116.
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E’ espressione di questa tendenza la legge n. 888 del 1956 che innova
profondamente la competenza amministrativa, detta altrimenti
"rieducazione", sostituendo il concetto di “traviamento” con quello di
“irregolarità per condotta o per carattere” e incentrandola su un doppio
ordine di misure: l’affidamento al servizio sociale e il collocamento in
casa di rieducazione81. Tuttavia l’esito di questo intervento si è rivelato
estremamente selettivo e discriminante in termini di classe sociale e di
marginalità, di processi di criminalizzazione della diversità e della
devianza giovanile, tant’è vero che dopo poco tempo questo sistema è
entrato in crisi, sotto la spinta dell’esigenza di rompere questo schema
rigido fondato sulla “separatezza”, determinando il passaggio alla fase
successiva centrata sul trattamento scientifico: la risposta alla devianza
doveva essere individualizzata, adeguata alla personalità del minore e
alla sua fase evolutiva e, soprattutto, consentire il confronto fra questi e
le norme proprie della società in cui è inserito82.
Agli inizi degli anni settanta cominciarono a diffondersi nuove teorie
che posero l'attenzione sugli effetti negativi dei processi istituzionali: si
faceva largo sempre più la percezione che la devianza non è né un
traviamento morale, né una malattia da curare in strutture separate
dalla società, da più parti veniva sostenuta la necessità di una de-
istituzionalizzazione, gli strumenti amministrativi iniziavano a perdere
d'importanza, il carcere viene visto come un elemento negativo,
81
La legge 25 luglio 1956 n. 888, Modificazioni al regio decreto legge 20 luglio 1934, n.1404, odifi a do l a t. del ‘DL , sostituis e, i ate ia a i ist ativa, il o etto di traviamento o uello di irregolarità per condotta o per
a atte e , introduce nuovi istituti meno contenitivi sul piano fisico adottando misure più rispondenti alla rieducazione
del minore quali l'affidamento al servizio sociale e il collocamento in casa di rieducazione, assegna a tutti gli uffici del
servizio sociale compiti di controllo e di sostegno del minore e facoltà di creare rapporti con la famiglia, sottolineando la
correlazione tra cause di disadattamento e carenze familiari. 82
D. Izzo, A. Mannucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit., p.248.
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criminogeno, incapace di realizzare la finalità risocializzativa e di
recupero del minore, la priorità diventa prevenire nel e sul contesto
sociale.
Frutto di queste contestazioni fu il D.P.R. n.616 del 1977, che segnò
un ulteriore passo verso la de-carcerizzazione minorile: esso infatti sancì
il superamento dell’istituzionalizzazione del minore deviante, con la
chiusura delle case di correzione e con la diffusione delle comunità83;
inoltre, in senso più ampio, accolse la tendenza a ricorrere all’istituzione
per i soli casi a rilevanza penale. Si tratta di una prima importante
chiarificazione normativa tesa a distinguere il sistema penale da quello
degli interventi educativo assistenziali84. Si riconosce la necessità di
creare condizioni di accoglienza dei minori in grado di superare la
spersonalizzazione tipica del ricovero nelle grandi strutture, diffondendo
una cultura dell’accoglienza in comunità a dimensione familiare, capace
di svolgere le funzioni di assistenza e di educazione dei minori
all’interno di relazioni significative con le figure adulte e attraverso una
progettualità educativa individualizzata (PEI). Gli anni ’70, dunque, sono
quelli che vedono il diffondersi delle prime comunità di questo tipo, ma
fu durante gli anni’80 che si poté assistere al superamento del concetto
di protezione dell’infanzia, con l’introduzione del più ampio concetto di
“tutela”, foriero di un intervento, che al taglio educativo affiancava,
privilegiandolo, quello tutelare, inteso come integrazione tra gli aspetti
protettivi e quelli di valutazione delle future prospettive di vita del
83
Il DPR 616 del 1977 inoltre prevede il trasferimento agli Enti Locali delle funzioni educative fino a quel momento
ese itate da o ga i statali o da istituzio i dipe de ti dall a i ist azio e della giustizia: i p ati a ve go o att i uiti ai
Comuni i compiti di attuare gli interventi rieducativi ed assistenziali. 84
G. De Leo, Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, cit., p.51.
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minore85. L’intervento educativo, dunque, si apre alla prospettiva del
futuro del minore in una visione progettuale.
Tuttavia, nonostante questo progressivo riconoscimento del favor
minoris, il sistema è stato per lungo tempo manchevole di una risposta
giudiziaria alla devianza minorile che distinguesse il trattamento dei
maggiorenni da quello dei soggetti di minore età, considerati per lo più
“adulti particolari”86. Tale mancanza fu gradualmente superata grazie
alla svolta epocale nel modo d’intendere la condizione minorile,
realizzata dalla Costituzione, che ha permesso in seguito alla
giurisprudenza costituzionale di elaborare il principio del preminente
interesse del minore, secondo cui, gli interessi di ogni altro soggetto
coinvolto in un rapporto con questi devono essere sempre subordinati
alla tutela dell’interesse del minore. Il sistema di garanzie costituzionali
in favore del minore non è limitato alle disposizioni inserite tra i principi
fondamentali della Repubblica, in particolare degli artt. 2-387, ma si
completa con le previsioni di cui agli artt. 30-31 Cost.88, base della
tutela della gioventù e dell’infanzia nel nostro ordinamento, che,
anziché delineare forme episodiche di tutela in favore di soggetti
85
Dal pu to di vista legislativo l atte zio e al o etto di tutela t ova riscontro nella legge 184/83 che, ribadendo il diritto
del i o e ad esse e edu ato ell a ito della p op ia fa iglia a t. , dete i a a he u a t asfo azio e del fe o e o dell a oglie za dei i o i: l allo ta a e to o avvie e più elle situazio i i ui le diffi oltà fa ilia i so o soltanto di tipo economico, ma in tutte quelle situazioni in cui viene riscontrata una situazione di grande pregiudizio per il
i o e. Le o u ità so o osì hia ate ad i te ve i e se p e più i situazio i est e e , legate esse zial e te a fenomeni di maltrattamento intrafamiliare nelle sue varie forme. 86
G. F. Ricci, D. Resico, Pedagogia della devianza, op. cit., p. 169. 87
In particolare, l’a t. della Costituzio e, i o os e do e ga a te do i di itti i viola ili dell uo o, sa is e il di itto di ogni essere umano, a prescindere dalla maturità psicofisica raggiunta, a realizzare pienamente la propria personalità e
l’a t. Cost., impegnando la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno
sviluppo della persona umana, afferma, tra gli altri, il diritto del minore ad avere le necessarie occasioni di sviluppo per
una completa realizzazione della sua persona. 88
L’a t. Cost. afferma che la Repubblica protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a
tale scopo, mentre l’a t. Cost. riconosce la tutela della salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della
collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. I principi affermati in tali articoli e relativi al rapporto genitori-figli
hanno poi trovato attuazione con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha comportato una modifica nella
disciplina della patria potestà, sostituita dalla potestà dei genitori e concepita non più come diritto, bensì, in una
p ospettiva plu alisti a, o e fu zio e ell i te esse dei figli, vale a di e o e assu zio e di espo sa ilità ei lo o confronti.
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istituzionalmente deboli, si pongono quali elementi costitutivi di una
strategia di intervento legislativo in cui il minore è riconosciuto titolare
di personalissimi diritti in quanto soggetto in formazione e il favor
minoris si concretizza nella promozione di tali diritti89.
Da più parti veniva ribadita la necessità di una riforma in materia
penale minorile, ma purtroppo, ancora oggi il nostro sistema penale non
prevede forme di punizione diverse per maggiorenni e minorenni, l’unica
specificità è che la sanzione può essere diminuita fino ad un terzo
rispetto alla pena edittale. Questa grave lacuna è stata in parte colmata
con la riforma del sistema processuale penale attuatasi il 22 settembre
1988 con l’emanazione del d.p.r. n. 448, intitolato “Approvazione delle
disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”, con il
quale è stato varato quello che viene definito il Codice di Procedura
Penale per i Minorenni (c.p.p.m.), entrato in vigore nel 198990: in esso
infatti sono contenute “disposizioni” avente carattere speciale rispetto a
quelle del c.p.p., in quanto, tenendo conto delle particolari esigenze del
minore, cercano di ridurre il più possibile gli effetti stigmatizzanti del
processo per far diventare anche quest’ultimo uno strumento di crescita
rispondente alle finalità rieducative della giustizia minorile91.
89
http://www.cde.unict.it/sites/default/files/Quaderno_47_dicembre_2012.pdf 90
Il d.p.r. 22 settembre 1988, entrato in vigore con D. L.vo n. 272 del 24 ottobre 1989, (recante le norme di attuazione, di
coordinamento e di transizione del DPR 448/88), consta di soli 41 articoli tesi a garantire al minorenne non solo un proprio
giudi e spe ializzato, a a he u suo p op io p o esso , egolato da o e dive se da uelle p eviste pe il maggiorenne, perché tagliato sulla sua personalità e sulle esigenze del suo iter evolutivo, ispirate al principio della
iduzio e del da o , fi alizzato ad attiva e tutte le fo e possi ili di i te ve to pe evita e il is hio di u a possi ile e
irreversibile compromissione del rapporto minore - società. 91
Ciò si evi e dalla disposizio e o te uta ell a t. o ma 1, in cui si evidenzia che nel procedimento a carico di
minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di
procedura penale. Tali disposizioni sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del
minorenne.
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Il nuovo codice di procedura penale minorile disegna
intenzionalmente un processo su misura del minore, in cui il fine
rieducativo prevale nettamente sulle esigenze di difesa sociale, mentre
l’attenzione e l’azione dell’ordinamento vengono spostate chiaramente
dal fatto reato alla persona: la pena perde quasi completamente il
carattere di castigo a favore dei fini di prevenzione ed educazione92.
Le disposizioni contenute nel D.P.R. n. 448/88, recependo tra l’altro
pienamente le indicazioni delle direttive degli organismi internazionali,
segnano una svolta giuridica e culturale fondamentale ed esprimono
l’attuale atteggiamento di politica penale minorile. L’orientamento
dell’ultimo ventennio, infatti, su questa scia, si è indirizzato sempre più
ad una restituzione al sociale del problema della devianza, poiché è nel
contesto ambientale che il minorenne può trovare ed attivare le risorse
necessarie per orientare il proprio cammino93.
L’idea di fondo è quella di perseguire il fine del reinserimento
sociale, responsabilizzando il soggetto e promuovendo il suo recupero
senza ricorrere allo strumento detentivo, secondo il principio della de-
carcerizzazione. In questo mutamento di ottica ha trovato spazio il
modello ripartivo che, secondo i principi della ristorative justice,
considerando il reato prioritariamente nei termini del danno causato, si
pone come un modello di intervento sui conflitti caratterizzato dal
ricorso a strumenti che promuovono come opportuno e necessario il
coinvolgimento attivo di tutte le parti coinvolte nel reato: vittima,
agente e comunità, nella comune ricerca di strategie volte a riparare il
92
Ivi, p.170. 93
D. Izzo, A. Mannucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit., p.249.
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danno cagionato dal fatto delittuoso e la riconciliazione tra autore e
vittima94.
In quest’evoluzione, come già affermato, un ruolo fondamentale nel
sancire gli impegni degli Stati nei confronti dei minori autori di reato è
stato giocato dalla normativa internazionale ove la necessità della
specializzazione della disciplina penale minorile ha trovato ampio
riconoscimento. In riferimento a ciò, appare d’obbligo richiamare
almeno tre disposizioni in particolare: le Regole Minime per
l’amministrazione della giustizia minorile, cosiddette Regole di Pechino,
approvate dall’ONU nel 1985, che costituiscono la fonte più prossima alla
quale si è ispirato il nostro processo penale minorile95; la
Raccomandazione del Consiglio d’Europa, intitolata Le reazioni sociali
alla delinquenza minorile del 198796; la Convenzione Internazionale sui
diritti dell’infanzia, approvata a New York del 1989, che segna una
svolta radicale, non solo sul piano penale, ove delinea l’essenza del
processo penale minorile, indicando il ricorso al carcere come extrema
ratio, ma anche sull’intero sistema minorile in quanto stabilisce che, in
94
Ai p i ipi della giustizia ipa tiva ispi ato l istituto della sospensione del processo e messa alla prova in quanto volto
a promuovere la responsabilizzazione del reo mediante progetti pe so alizzati i ui l auto e di eato i o e e assu e impegni di comportamento e intraprende attività diverse che possono anche includere la mediazione e la riparazione nei
o f o ti delle pe so e offese dal eato ; i M. Cola ussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, FrancoAngeli Editore,
Milano, 2012, p.85. 95
Le C.d. Regole di Pechino, approvate dal VI Congresso Nazioni Unite il 29 novembre 1985, New York, stabiliscono le
Regole Mi i e pe l’a i ist azio e della giustizia i o ile, precisando come prospettiva fondamentale che gli Stati
sono tenuti, secondo i loro interessi generali, a tutelare il benessere del minore e della sua famiglia. Lo spirito innovativo
he le i fo a può esse e i t a iato i pa ti ola e ei segue ti a tt.: all a t. , ove è precisato che il sistema di giustizia
minorile deve avere per obiettivo la tutela del giovane ed assicurare che la misura adottata nei confronti del giovane sia
proporzionale alle circostanze del reato e all'autore dello stesso; all a t. i o so a isu e ext a-giudiziarie) in cui si
afferma che dovrebbe essere considerata l'opportunità, ove possibile, di trattare i casi dei giovani che delinquono senza
ricorrere al processo formale da parte dell'autorità competente; all a t. De isio e al te i e del giudizio) ove si legge
che l'autorità competente può concludere il giudizio mediante forme molto diversificate, consentendo una grande
flessibilità allo scopo di evitare per quanto possibile il collocamento in istituzione. Nella giustizia minorile tali Regole hanno
rappresentato un costante punto di riferimento per le scelte del legislatore. 96
Le Ra o a dazio i del Co siglio d’Eu opa n. 20 del 1987, occupandosi di risposte sociali alla delinquenza minorile,
dispongono che fin dove possibile il sistema penale deve lasciar spazio ad istituti riconducibili a forme di diversion e di
mediation, oppure, se non è possibile rinunciare a ricorrere al sistema penale, debbano essere individuate strategie
sanzionatorie che offrano alternative valide, praticabili e rieducative alla pena detentiva.
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tutti i casi in cui si ha a che fare con i minorenni, preminente
importanza va attribuita all’interesse del fanciullo97.
In particolare i primi due atti internazionali citati ribadiscono il
diritto del minore ad un suo proprio processo con tutte le garanzie,
facendo emergere un modello di giustizia minorile “agile e veloce,
pensato per un contesto istituzionale di forte presenza di servizi
educativi del territorio a cui fare ricorso in alternativa al giudizio”98, un
modello che afferma fortemente la finalità educativa e di recupero
dell’intervento penale minorile, sottolineando l’importanza di un
processo tagliato non sul reato ma sulla persona.
In linea con tali indicazioni, pienamente recepite, la riforma del
processo penale minorile basa le sue fondamenta su alcuni principi
peculiari, espressione dello spirito di cui essa è informata99.
Il principio di adeguatezza, in virtù del quale il processo, considerato
un evento delicato ed importante nella vita del giovane reo, persegue
l’obiettivo primario di applicare le norme tenendo presente le esigenze
educative del minorenne e di adeguare ogni intervento alla sua
personalità100. Viene ridimensionata notevolmente, sul piano valoriale, la
pretesa punitiva dello Stato, per lasciare spazio alla nuova funzione
educativa attribuita alla risposta giudiziaria, attuata attraverso
97
La Convenzione di New York fu app ovata il ove e del dall Asse lea Ge e ale delle Nazio i U ite: in essa,
i pa ti ola e all a t. , vi s olpita l esse za del p o esso pe ale i o ile; al o a e ita:gli Stati riconoscono a ogni
fanciullo sospettato, accusato o riconosciuto colpevole di reato penale il diritto a un trattamento tale da favorire il suo
se so della dig ità e del valo e pe so ale, he affo zi il suo ispetto pe i di itti dell’uo o e le li e tà fo da e tali e che
tenga conto della sua età nonché della necessità di facilitare il suo reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo
ost uttivo i se o a uest’ulti a. All a t. lett. a si evide zia i ve e he nessun fanciullo sia sottoposto a tortura o a
pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti per poi continuare nella lett. b) ove dispone che l’a esto, la dete zione
o l’i p igio a e to devo o ostitui e u p ovvedi e to di e t e a atio e ave e la du ata più eve possi ile. 98
L. Fadiga, Le origini del processo penale minorile: i lavori preparatori del dpr 448/1988, in rivista Diritto Minorile, n.
1/2009, p. 2. 99
http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/minori/imperial/cap2.htmm; ma anche G. Assante, P. Giannino, F. Mazziotti,
Manuale di diritto minorile, Laterza, Bari, 2000, p. 256-263. 100
Cfr. art.3 co.1, L. Delega n. 81/87; art.1 co.1, d.P.R.448/88.
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interventi finalizzati a recuperare il giovane al rispetto della legalità,
non attraverso la pena detentiva, bensì attraverso una serie di risposte
concrete, tese al reinserimento sociale piuttosto che all’esclusione101.
Ciò comporta l’impegno della legge e di tutti gli attori del processo a
tenere conto delle caratteristiche di personalità del ragazzo e delle sue
esigenze educative in termini di criteri fondamentali per operare scelte,
per prendere decisioni e attivare interventi in sede processuale.
L’adeguatezza, secondo quanto afferma Palomba, va intesa “come
criterio di individuazione della modalità di applicazione delle
disposizioni facenti parte del sistema normativo processuale penale
minorile”102, in conformità con la finalità educativa e responsabilizzante
del processo penale minorile. La pena viene pertanto comminata
secondo il criterio dell’individualizzazione, in forza del quale essa va
scelta tra le possibilità a disposizione del magistrato secondo il criterio
della gradualità degli interventi, per poter essere adeguata alle singole
necessità.
Il principio di minima offensività, basato sulla constatazione che il
processo può causare al soggetto di minore età delle sofferenze
indelebili, se non adattato alle esigenze della sua età, elemento questo
che ha indotto il legislatore a introdurre istituti processuali tendenti a
porre il minore fuori dal circuito penale in modo anticipato, proprio con
lo scopo di eliminare o ridurre al minimo ogni stimolazione negativa e
valorizzare quanto di positivo può essere rintracciato nell’evento
101
M. Colamussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, FrancoAngeli Editore, Milano, 2012, pp.48-49. 102
F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, Milano, 1991, p. 101.
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reato103. La strategia della riduzione del danno, nata nell’ambito dei
servizi per le tossicodipendenze, evidenzia senza dubbio un modo nuovo
per affrontare le situazioni di disagio e di devianza, spingendo verso la
realizzazione di interventi che coinvolgano attivamente la comunità
locale per evitare il rischio di una possibile e irreversibile
compromissione del rapporto minore-società: è proprio in base a questa
logica che, nel corso del processo minorile, viene richiesta la costante
collaborazione dei Servizi territoriali104.
Il principio di de-stigmatizzazione, riguardante l'identità sociale del
minore, che, sempre nella logica della minima offensività, si vuole
tutelare attraverso l'eliminazione di tutti quegli istituti che comportano
una stigmatizzazione ciò per evitare che l’entrata nel circuito penale
provochi nel minore un effetto traumatico105. Sono espressione di tale
principio gli istituti dell'irrilevanza del fatto e della messa alla prova,
che limitano il contatto del minore con il sistema penale. La logica
sottesa è quella di costruire un intervento penale che, come afferma
Isabella Mastropasqua, vada sempre più configurandosi non come “un
intervento meramente segregante e stigmatizzante, bensì teso al
recupero di quel processo educativo interrotto o deviato”106.
103
In particolare: la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art.27 c.p.p.m.), emessa quando l'ulteriore
corso del processo può arrecare pregiudizio alle esige ze edu ative del i o e; l istituto della messa alla prova (art.28
c.p.p.m.), che in caso di esito positivo della prova (art. 29 c.p.p.m.) evita al minore anche gli effetti stigmatizzanti di una
condanna penale. Inoltre, anche le misure cautelari (artt.19-23) devono essere attuate in modo da evitare il più possibile
al minore, i disagi e le sofferenze materiali e psicologiche, che possono derivare dalla loro applicazione, avendo cura di
non interrompere i processi educativi in corso. 104
G. Assante, P. Giannino, F. Mazziotti, Manuale di diritto minorile, op. cit., p. 257. 105
La giustizia minorile assume il concetto che il processo di etichettamento proprio delle istituzioni totali come il carcere,
può (secondo il pensiero di sociologi quali Goffman e Becker) po ta e il agazzo ad adegua si alle aspettative dell alt o favorendo in tal modo la costruzione di una personalità deviante. In particolare Matza ha sottolineato gli effetti
stigmatizzanti molto resistenti del carcere che possono produrre identità negative e indurre a scelte di vita delinquenziali. 106
I. Mastropasqua, I minori e la giustizia. Operatori e servizi dell'area penale, Liguori, Napoli, 1997, p. 32.
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Il principio di residualità della pena detentiva, secondo cui
l’intervento penale, ispirato dai principi della decarcerizzazione e della
depenalizzazione107, sia posto in essere secondo il criterio del “massimo
riduttivismo carcerario”, in forza del quale il ricorso alla detenzione, va
considerato come extrema ratio e giustificato solo da rilevanti
preoccupazioni di difesa sociale.
Quanto evidenziato mette in luce che la peculiarità propria del
processo penale minorile è quella di considerarsi parte integrante del più
generale processo educativo, quale occasione, quindi, per prospettare al
minore che ha commesso un reato, la possibilità di scelte diverse
offrendogli delle chance educative. “Si punta - sottolinea ancora la
Mastropasqua su un processo inteso come momento importante per fare
chiarezza insieme al minore, per aiutarlo ad interiorizzare le regole
fondamentali del vivere civile”108. Ecco perché il processo penale deve
innanzitutto considerare l’iter educativo - evolutivo che il minore sta
compiendo e calibrare gli interventi su di esso, tenendo presente che “il
processo educativo non può e non deve essere interrotto in quanto una
sua eventuale interruzione può confondere, nuocere o destabilizzare
definitivamente e in maniera irreversibile una personalità in via di
strutturazione”109.
Alla luce di ciò appare chiaro che adeguare gli interventi da porre in
essere, vuol dire che nell’ambito del processo è possibile e necessario 107
I progetti di riforma del sistema penale sono orientati verso una crescente limitazione della pena carceraria secondo
tre le linee guida: la depenalizzazione, la degiurisdizionalizzazione e la decarcerizzazione.
La depenalizzazione consiste nella rinunzia alla sanzione da parte dello Stato per comportamenti non più considerati
meritevoli di repressione e di censura. La degiurisdizionalizzazione consiste nello spostamento di competenza dal giudice
penale ad altro organo non giudiziario, per lo più amministrativo. La decarcerizzazione è la tendenza a realizzare le varie
ipotesi di riduttivismo della pena detentiva. 108
I. Mastropasqua, I minori e la giustizia. Operatori e servizi dell'area penale, op. cit., p. 32. 109
G. Assante, P. Giannino, F. Mazziotti, Manuale di diritto minorile, op. cit., p. 259.
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elaborare un progetto educativo che riempia di contenuti le esigenze
educative del minore, un progetto che sia valido per quel singolo minore
e che sia costruito tenendo conto dei suoi bisogni, delle sue potenzialità
e delle sue richieste110. Ciò implica necessariamente una forte
specializzazione, ossia “un’effettiva e specifica preparazione e
professionalità di tutti i soggetti istituzionali che operano nel processo
minorile”, secondo quanto affermato nella Relazione di
accompagnamento al decreto in oggetto, professionalità capaci di
mettere al centro il minorenne nel suo essere persona. Specializzazione
da intendersi pienamente in linea con la concezione del processo sottesa
alla riforma “quale occasione di intervento in ordine ad un soggetto il cui
fatto è indice di carenze educative e di disturbi evolutivi ed al quale non
interessa l’accertamento di un evento oggettivo e di una responsabilità
ma la situazione storica del minore e la sua presa in carico”111.
Il processo minorile pone, dunque, quale finalità ultima quella del
recupero e della promozione del minore, concentrando l’attenzione
“sempre meno all’accertamento di un fatto di reato e di una
responsabilità - come sottolinea il giurista Bricola - e sempre più a
ricostruire la storia, il presente ed il futuro, di una situazione del
minore”112, facendo propria, dunque, un’attenzione che sappia guardare
il percorso e non l’epilogo. Tale finalità è ben espressa anche dalle
parole di Carlo Alfredo Moro, che chiarisce come “la riforma sottolinea
con forza che il processo penale deve avere come suo obiettivo quello di
110
Ivi, p. 260. 111
F. Bricola, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Indice Pen.1989, p.338. 112
Ivi, p.340.
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realizzare una ripresa dell'itinerario educativo del minore, che il
compimento dell'atto criminale dimostra essersi interrotto o avere
deviato, ma prevede anche che lo stesso processo si articoli in modo tale
da poter contribuire allo svolgimento di questo itinerario, avendo esso
stesso valenze educative”113.
2.3. L’introduzione dell’art. 28 come forma di probation
L’istituto emblematico, rispetto alla connotazione educativa del
processo penale minorile, è la sospensione del processo con messa alla
prova, introdotto e disciplinato dagli artt. 28 e 29 del d.p.r. n. 448/88 e
dall’art. 27 D. Lgv n. 272 del 1989114.
Tale beneficio giuridico rappresenta, unitamente alla pronunzia di
irrilevanza del fatto, la principale innovazione operata nell’ambito del
processo penale minorile e consiste nella possibilità di rinunciare alla
celebrazione del processo quando il giudice abbia motivo di ritenere che
l’adozione di determinati tipi di intervento siano sufficienti a garantire il
ravvedimento del minore. La decisione si fonda su una prognosi positiva
che porta a escludere una devianza radicata, individuando un disagio
superabile attraverso un percorso educativo che prevale nei confronti
della sanzione penale115.
Tale istituto viene considerato dalla prevalente dottrina una forma
particolare di probation, istituto del diritto penale di origine anglo- 113
C. A. Moro, Manuale di diritto minorile, Zanichelli, Bologna, 2002, p. 483. 114
L a t. del D.Lgv. . / Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del decreto del Presidente della
Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni , riguarda
le modalità attuative della sospensione del processo e messa alla prova. 115
G. F. Ricci, D. Resico, Pedagogia della devianza. Fondamenti, ambiti, interventi, op. cit., p.172.
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americana116, che si viene a configurare come una particolare tecnica di
risposta al reato alternativa alla detenzione fondata su uno scambio fra
lo Stato ed il reo, ove il primo rinuncia alla sua pretesa punitiva in
cambio della dimostrazione, da parte del giovane di aver compreso il
disvalore del fatto reato da lui posto in essere e di non voler più tornare
a delinquere in futuro117.
Il probation è stato gradualmente recepito nell’ordinamento dei
singoli Stati, trovando pieno riconoscimento nella normativa
internazionale che, in diversi atti, ha sollecitato l’adozione di misure
alternative alla detenzione e al processo penale, riconoscendo un più
ampio margine di operatività a tutti gli interventi di diversion, atti a
promuovere un percorso alternativo a quello tradizionalmente
sanzionatorio di carattere retributivo. Gli organismi internazionali che
specificatamente si occupano della materia, come le Nazioni Unite e il
Consiglio d’Europa, da lunghi anni sostengono questa linea di pensiero
che ribadisce l’opportunità di articolare il sistema di difesa sociale con il
ricorso a misure differenziate, proporzionalmente alle esigenze di
controllo delle manifestazioni delinquenziali e a quelle di trattamento
dei loro autori. In particolare, le già citate Regole di Pechino prevedono
all’art.11 il ricorso a misure extra giudiziarie che, ponendo in essere
soluzioni di tipo ripartivo - restitutivo, diano la possibilità di evitare il 116
Nel sistema penale statunitense tale istituto sarebbe stato introdotto fin dalla prima metà del 1800, ma la sua
formalizzazione in legge avvenne nel 1876 nello Stato del Massachusetts e successivamente i I ghilte a. “i di e he la prima applicazione risalga all i iziativa di u alzolaio, u e to Joh A gustus, il uale el a Bosto vede do u
ise a ile atte de e il p o esso i u aula di giustizia, lo se tì affe a e he se avesse t ovato u a pe so a a i a avrebbe avuto la forza di comportarsi correttamente e con dignità. Credendo nella sua sincerità Angustus si offrì di
o upa si di lui ed otte e dal giudi e he l uo o o fosse o da ato alla p igio e. L espe i e to a dò e e e da allo a lo stesso alzolaio seguì olt e due ila pe so e; l espe ie za fu poi sa ita i legge el i F. Palo a, Il
sistema del nuovo processo penale minorile, op. cit. 117
M. Taraschi, Probation e comunità. Strumenti per una pedagogia della devianza, in AA.VV., Spunti di riflessione sulle
emergenze educative, Pensa Multimedia, Lecce, 2010, p. 135; ma anche A. Pulvirenti, Il giudizio e le impugnazioni in A.
Pennisi, (a cura di) La giustizia penale minorile: formazione, devianza, diritto e processo, Giuffrè, Milano, 2004, p.329.
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ricorso al processo formale, mentre all’art.18 viene sancita la possibilità
di “concludere il giudizio mediante forme molto diversificate”, laddove
la grande flessibilità prevista, risulta essere funzionale ad evitare quanto
più possibile il collocamento in istituzione. Nelle Raccomandazioni del
Consiglio d’Europa n. 20/1987, inoltre, viene indicato, quale possibile
strategia in materia penale minorile, il ricorso ad istituti riconducibili a
forme di diversion118 e di mediation119, tra cui appunto il probation.
Tali indicazioni sono andate concretizzandosi nei singoli Stati in
forme assai diversificate, tanto che, relativamente al probation, in
riferimento alle varie ipotesi attuative, è possibile individuarne quattro
diversi tipi, a seconda del momento in cui viene applicata la misura:
probation di polizia; probation giudiziale nella fase istruttoria; probation
giudiziale nella fase del giudizio con sospensione dell’esecuzione della
condanna; probation penitenziario.
Nella normativa italiana hanno trovato espressione le sole forme del
probation giudiziale, che, intervenendo nella fase del giudizio, ha un
effetto sospensivo–probatorio, rintracciabile nell’introduzione della
sospensione del processo e messa alla prova; e quella del probation
penitenziario, consistente in una modalità di esecuzione della pena,
118
La diversion è una particolare modalità di risposta al reato che comporta la sottrazione del minore dal circuito
giudizia io edia te p o edi e ti ext agiudiziali, a o p i a he o t o di lui ve ga ese itata fo al e te l azio e penale. La diversion si sostituisce alla pena ed al processo in favore di programmi di trattamento guidati da organizzazioni
indipendenti dal sistema giudiziario anche se le prescrizioni sono sempre imperative. In Italia non vi sono forme di
diversion, intesa in senso stretto, in quanto, differentemente dai Paesi di Common Law, il nostro ordinamento prevede
l o ligato ietà dell azio e pe ale sa ita dall a t. Cost. La mediation si colloca nel contesto della cosiddetta giustizia ripartiva, sviluppatasi nella prospettiva di una maggiore
attenzione alle vittime dei reati; il quadro è quello della composizione del conflitto, dove un terzo neutrale consente il
o f o to t a le pa ti; ell o di a e to italia o a a u a o a spe ifi a, a la ediazio e t ova spazi di legitti azio e el p o esso pe ale i o ile: ell appli azio e dell a t. , i fatti, il giudi e può i pa ti e p es izio i dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato. 119
Ivi, p.136.
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recepita nel nostro ordinamento con l’affidamento in prova al servizio
sociale, disciplinato dall’art. 47 dell’ordinamento penitenziario120.
In particolare, nel nostro ordinamento, l’istituto della messa alla
prova è ispirato al juvanile probation statunitense, che prevede
l’allontanamento del giovane delinquente dal sistema penale formale
“mettendolo alla prova” per un determinato periodo di tempo, in cui
dovrà comportarsi in maniera socialmente corretta. Durante il periodo di
prova il minore viene affiancato dalla figura del probation officer che
svolge funzioni di sostegno, di aiuto ma anche di controllo e di verifica
degli obiettivi imposti.
Questa forma di probation si presenta come una forma alternativa
alla detenzione e viene disposta dal giudice una volta accettata la
responsabilità del minore con una pronuncia di condanna121. Al riguardo
è interessante considerare che proprio in quest’elemento di differenza
con la modalità italiana, è possibile rintracciare la portata innovativa
della formula adottata dal nostro Paese anche rispetto agli altri Stati
europei. In essi, infatti, l’applicazione del probation è prevista
generalmente nella fase di esecuzione della pena, dunque
successivamente al processo e ad una sentenza di condanna divenuta
irrevocabile e, pertanto, applicandosi nella fase esecutiva della pena,
incide unicamente sulla quantità e sulla qualità della stessa.
120
Recentemente la Legge 28 aprile 2014, n. 67, Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di
riforma del sistema sanzionatorio, ha i t odotto l istituto della essa alla p ova el p o esso pe ale a a i o dei maggiorenni, così come è modificato il Codice di Rito al Titolo V BIS, rubricato Sospensione del procedimento con messa
alla prova. La sua attuazione tuttavia trova limiti di carattere oggettivo o può esse e o essa più di u a volta; ammessa solamente per i reati puniti con pena pecuniaria, ovvero, per i reati puniti con pena detentiva nel massimo non
superiore ad anni quattro) e di carattere soggettivo (non può essere concessa a colui che sia stato dichiarato delinquente
professionale, abituale ovvero per tendenza). 121
Nel processo minorile statunitense il momento della o da a isulta s isso da uello dell i ogazio e della sa zio e, nel lasso di tempo intercorrente tra le due udienze il probation officer deve investigare sulla vita del minore e sulle
caratteristiche del reato presentando al giudice un report il cui scopo è quello di fornire al giudice gli elementi in base ai
quali stabilire se concedere o meno il probation ed in quale forma.
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La messa alla prova introdotta nel processo penale minorile italiano
è, invece, una misura dalla cui applicazione deriva la sospensione del
processo che rende l’impatto con il sistema formale di giustizia minimo.
Tale istituto, infatti, qualificato dal c.p.p.m. un modo di definizione
anticipata del procedimento, viene da alcuni più propriamente definito
una fase processuale eventuale ed aperta, nel senso che, pur svolgendosi
sotto il controllo del giudice e dei servizi interessati, non trova alcuna
formale articolazione nelle aule di giustizia, se non nelle udienze di
deliberazione e di valutazione dell’esito122. In tal senso è possibile
affermare che il probation italiano può considerarsi una forma di
diversion, della quale recepisce alcune caratteristiche, rintracciabili nel
rendere possibile una rapida fuoriuscita del minore dall’iter processuale,
seppur successivamente all’esercizio formale dell’azione penale e
nell’affidamento del reo agli organi assistenziali.
La sospensione del procedimento penale con relativa messa alla
prova del minore, infatti, è accordata generalmente nella fase
dell’udienza preliminare, più raramente in quella dibattimentale, sulla
base di un giudizio prognostico relativo alle possibilità di reinserimento
sociale e di recupero del minore. Il giudice, infatti, come recita l’art. 28
al co. 1, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del
processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne
all'esito della prova. Durante il tempo della sospensione al giovane reo è
chiesto di impegnarsi in un processo di cambiamento, attraverso
opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno elaborate
122
M. Covelli, A. Di Marco, U. Pastore, Le possibilità definitorie nel processo penale minorile, op. cit., p 56; ma anche F.
Palomba, Il sistema del processo penale minorile, op. cit.
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dai Servizi minorili dell'amministrazione della giustizia cui egli viene
affidato, in collaborazione con i Servizi locali123.
Il ragazzo viene dunque “messo alla prova” attraverso prescrizioni
costruite sulla sua personalità, miranti a riprendere il percorso educativo
interrotto e promuovendo anche, ove possibile, la riparazione delle
conseguenze del reato e la conciliazione con la vittima124. A tali obblighi
il giovane dovrà attenersi, per evitare l’ulteriore prosieguo del processo
a suo carico e l’irrogazione della pena: la messa alla prova, infatti, in
caso di ripetute violazioni può essere revocata125.
La concessione di tale beneficio giuridico da parte del giudice è
subordinata ad accurati accertamenti sulla personalità del ragazzo,
come previsto all’art. 9 del c.p.p.m126, che vengono a porsi quale
esplicito presupposto applicativo della misura. Di notevole importanza,
infatti, risultano essere le risorse personali, familiari, sociali e
ambientali, nonché le caratteristiche della personalità del
minorenne127, attraverso le quali si può ipotizzare il suo recupero e
pianificare il progetto di messa alla prova, cui il ragazzo dovrà esprimere
il suo consenso e la sua accettazione.
123
Cfr. Art. 28 co. 2 d.p.r. 448/88. 124
Ibidem. 125
Cfr. Art. 28 co. 5 d.p.r. 448/88. 126
L a t. del d.p.r. 448/88 ribadisce: 1. Il pubblico ministero e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le
risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l'imputabilità e il grado di
responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali
provvedimenti civili. 2. Agli stessi fini il pubblico ministero e il giudice possono sempre assumere informazioni da persone
che abbiano avuto rapporti con il minorenne e sentire il parere di esperti, anche senza alcuna formalità. 127
Il concetto di personalità, general e te, si ife is e al o plesso delle disposizio i psi hi he dell uo o he si ifletto o sul modo di reagire alla situazione esterna, di perseguire gli interessi, di soddisfare i bisogni, di raggiungere i fini;
l o ga izzazio e di a i a degli aspetti og itivi, affettivi e volitivi dell uo o; l i sie e delle a atte isti he di ias u individuo quali si manifestano nelle modalità del suo vivere sociale, nelle sue interrelazioni con il contesto; essa
ostituis e l aspetto di a i o dell esiste za dell uo o. Il nostro sistema penale, tenendo conto sia del fatto reato che del
suo autore, considera la personalità del reo ma solo in relazione al fatto reato, non come valutazione indipendente dal
fatto stesso. L a e ta e to della espo sa ilità i dividualizzata deve tener conto della personalità del reo ma va sempre
riferita ad un fatto specifico. Nel minorenne la responsabilità coincide con la valutazione della maturità.
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Altro requisito fondamentale è infatti quello della consensualità al
progetto: quasi tutta la dottrina ritiene che senza il consenso del
minorenne la messa alla prova sarebbe destinata a un sicuro insuccesso
poiché esso ha un chiaro intento responsabilizzante, finalizzato
all’acquisizione di maggiore autostima da parte del ragazzo, nonché di
consapevolezza e impegno relativamente al percorso che egli si propone
di voler intraprendere.
Tale elemento, inoltre, unitamente alla confessione del reo, letta
quale segno tangibile dell’assunzione di responsabilità da parte di
quest’ultimo, è considerato un presupposto cosiddetto “tacito” per
l’applicazione della misura, non desumibile, cioè, dalle norme, ma
entrato a far parte della prassi. In particolare la capacità da parte del
soggetto di percepire il disvalore della condotta posta in essere appare
indispensabile affinché il soggetto possa aderire coscientemente al
progetto rendendosi disponibile ad intraprendere un percorso per la
rimozione delle cause, interne ed esterne, che lo hanno determinato alla
devianza.
A questi vanno poi ad aggiungersi i presupposti cosiddetti “impliciti”
nel dettato normativo, quali: la previsione sull’esito positivo della
misura; l’assunzione di responsabilità e la disponibilità a intraprendere
un percorso di cambiamento da parte del minorenne, intese queste
come condizioni in cui l’imputato, attraverso il riconoscimento
dell’antigiuridicità del fatto compiuto e delle sue conseguenze, può
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predisporsi all’assunzione di una responsabilità processuale, come
adesione alla misura, impegno nel progetto e nella riuscita128.
Circa l’applicabilità della misura, invece, è da rilevare che
nell'introdurre l'istituto il legislatore non ha reputato opportuno
predeterminare un limite massimo di gravità del reato al di sopra del
quale non consentirne l'applicazione. Scelta, questa, che evidenzia
l'aderenza alle tesi della Scuola positiva che, spostando la propria
attenzione dal fatto al soggetto, considera il delinquente nella sua
globale personalità bio-psichica: infatti nel prevedere la possibilità di
applicare la misura della messa alla prova anche nei confronti dei minori
autori dei reati più gravi, quali l'omicidio, il legislatore ha scelto di
adeguare la sanzione alla personalità del reo, prescindendo dalla
specifica configurazione dell’azione commessa. In altre parole ciò che
viene valutato dal giudice minorile non è l'evento criminoso, o presunto
tale, ma il carattere del minore: la messa alla prova, dunque, modifica
l'ambito di intervento dal versante giudiziario a quello educativo,
l'oggetto del giudizio dal fatto alla persona, il tempo del giudizio dal
passato remoto al presente e al futuro129 e ciò proprio in ragione del
fatto che dal punto di vista psicologico tale istituto si basa sulla
considerazione che il minore è in un'età evolutiva e quindi quello che fa
ha un significato diverso da quello che avrebbe per un adulto. Inoltre,
tenendo in considerazione gli aspetti peculiari dell’adolescenza si
assume il dato che l’esistenza del minore ha possibilità di cambiamento
maggiori rispetto a quelle, comunque sempre presenti, che ha un adulto,
128
A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, Carocci, Roma, 2007, p. 22 e pp. 142-145. 129
F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova, 1992, pp. 557-558.
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motivando in tal modo l’opportunità che la possibilità di disporre
l'istituto non sia legata a criteri rigidi, quali la tipologia del reato
commesso, quanto invece a criteri dinamici, come la personalità
dell'adolescente. Riguardo all’applicabilità della misura, è opportuno
sottolineare, inoltre, che il legislatore non ha posto neppure un limite
verso il basso, quindi, in teoria, la sospensione potrebbe essere stabilita
anche di fronte a reati molto modesti. In linea di principio dunque la
messa alla prova coprirebbe tutti i reati che non siano da considerare
socialmente irrilevanti.
In base a quanto detto si potrebbe facilmente concludere che in tal
modo si privilegia il ragazzo più deviante, in quanto, attraverso la
riuscita della prova, potrà ottenere l'estinzione del reato e potrà quindi
in futuro eventualmente godere del perdono giudiziale, rispetto a quello
meno deviante, che, una volta ottenuto il perdono giudiziale, non potrà
più godere di tale beneficio. Tuttavia al riguardo osserva giustamente
Dusi che la legge deve trattare in modo diseguale situazioni diverse, per
cui “proprio individuando uno spazio specifico e differenziato, che
riguarda la messa alla prova, rispetto a quello interessato dal perdono
giudiziale, si ottiene un intervento giudiziario che non viola il principio
di uguaglianza”130. In altre parole ad un ragazzo, pienamente integrato
nel mondo sociale, che commette un reato episodico, non dev'essere
chiesto di cambiare vita, è sufficiente ricordargli che ha sbagliato e che
non lo deve fare più. Diversamente se quello stesso reato è commesso da
un adolescente, il cui stile di vita è la causa di quel comportamento,
130
P. Dusi, Le risposte possibili al reato minorile, in Minori e giustizia, n. 3, 1993, pp.14-16.
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dev'essergli chiesto di cambiare vita e deve essergli data la possibilità di
farlo. Se ci riesce, dev'essere premiato per il difficile compito che ha
saputo portare a termine. Pertanto se i giudici ritengono che per un
ragazzo sia educativo avere delle attività da svolgere sotto il controllo di
alcuni operatori e, indirettamente, del tribunale, devono disporre la
messa alla prova, indipendentemente dal fatto che in altro processo per
lo stesso reato, ma per un diverso ragazzo, abbiano preso un altro
provvedimento.
I giudici quindi devono cercare di comprendere come ogni ragazzo
reagirà alle decisioni prese dal tribunale: per alcuni adolescenti il
perdono giudiziale è una routine, una specie di farsa che dimenticano
velocemente. In questi casi è importante adottare il provvedimento di
messa alla prova, per responsabilizzare gli adolescenti sottoponendoli,
nello stesso tempo, ad un controllo131.
In sintesi, quindi, l’applicabilità della misura non è compromessa né
dall’eventuale esistenza di precedenti giudiziari e penali né da
precedenti applicazioni, né dalla tipologia del reato, anche se le
numerose ricerche circa le caratteristiche dei minori messi alla prova
evidenziano una netta prevalenza di “primari”, cioè di ragazzi al primo
incontro con il sistema giudiziario penale minorile, per altro in larga
maggioranza italiani, di sesso maschile, di età compresa tra i 16 e i 18
anni, prevalentemente autori di reati quali il furto, le violazioni delle
131
Ibidem.
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leggi in materia di stupefacenti, la rapina, le lesioni personali volontarie,
come si evince dal grafico di seguito riportato relativo all’anno 2014132.
Grafico 1 – Reati a carico dei minori per i quali è stato emesso un provvedimento
di messa alla prova nell’anno 2014. Valori per 100 reati.
Per quel che concerne, invece, la durata del periodo di sospensione
del processo, essa viene decisa dal giudice contestualmente alla
concessione della misura e può variare da un periodo non superiore a tre
anni, quando si procede per reati per i quali è prevista la pena
dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni,
ad un periodo non superiore a un anno negli altri casi133. Una volta
trascorso tale periodo, il giudice, ai sensi dell’art. 29134, fissa una nuova
udienza per la valutazione finale, nella quale, dichiara con sentenza
l’estinzione del reato se, tenuto conto del comportamento del
132
http://www.giustiziaminorile.it 133
Cfr. art. 28 co. 2 d.p.r .448/88. 134
Art. 29 d.p.r.448/88: Dichiarazione di estinzione del reato per esito positivo della prova: decorso il periodo di
sospensione, il giudice fissa una nuova udienza nella quale dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del
comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità, ritiene che la prova abbia dato esito positivo.
Altrimenti provvede a norma degli articoli 32 e 33.
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minorenne e dell’evoluzione della sua personalità, ritenga che la prova
abbia dato esito positivo. In caso contrario l’attività processuale
riprenderà dal momento in cui è stata interrotta così come previsto dal
medesimo articolo 29.
In tale udienza i Servizi sociali avranno il compito di relazionare
sull’andamento complessivo della prova ed esprimere una propria
valutazione in merito.
Valutare un processo educativo non è cosa semplice, pertanto quello
della verifica finale è indubbiamente un momento delicato, in cui, come
afferma Palomba, è importante tener presente che “al ragazzo non si
chiede una prestazione di risultato ma di impegno nell’adeguamento al
progetto”. Conseguentemente i criteri di valutazione della prova
dovrebbero essere coerenti con un livello più propriamente educativo e
guardare soprattutto la motivazione al cambiamento, vero cuore del
progetto.
Proprio a tal fine si rendono opportune costanti verifiche in itinere
volte ad accertare il rispetto da parte del minore degli impegni presi ed
apportare eventuali rimodulazioni al programma. Inoltre i continui
confronti in cui al minore è richiesto di rendere conto agli adulti
favoriscono il controllo degli impulsi, aiutano a confrontarsi con la realtà
e ad assumersi responsabilità.
La valutazione finale, invece, riguarda la decisione circa l’esito
positivo o negativo della prova in cui il collegio deve procedere a
realizzare due tipi di accertamento. Il primo accertamento riguarda il
comportamento tenuto dal minore durante la prova. Non è richiesto al
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minore tanto una continua e totale osservanza dell'insieme delle
prescrizioni impostegli, quanto piuttosto un comportamento che evidenzi
la sua completa adesione al progetto e la profonda comprensione di
esso. Possono essere tollerate delle trasgressioni non gravi ed isolate, in
presenza delle quali la prova, se fatta continuare, può dare esito
positivo. In sostanza la prova sarebbe costituita da segmenti successivi,
oggetto di volta in volta di una verifica da parte dei servizi: se questi
ogni volta formulano una valutazione di proseguibilità, significa che la
prova procede progressivamente in modo positivo. Per cui al momento
dell'udienza fissata per la valutazione conclusiva non verranno
evidenziate eventuali sporadiche trasgressioni, ma solamente che la
prova sia proseguita, fatto che dimostra che sono mancati i presupposti
per la revoca della stessa.
In secondo luogo, dovrà essere accertata l'evoluzione della
personalità del minore avvenuta nel corso della prova: il minore deve
avere compreso le ragioni per le quali fu disposta la sospensione e deve
aver mantenuto costante il consenso prestato al momento
dell'accettazione del progetto. Solo in questo caso, infatti, la prova avrà
prodotto dei mutamenti in positivo nel minore, che possono fare ritenere
che essa abbia avuto esito positivo.
Se l'esito di questi due accertamenti è positivo, verrà pronunciata, in
sede di udienza preliminare, una sentenza di non luogo a procedere ai
sensi dell'articolo 425 del codice di procedura penale, o, in sede di
dibattimento, una sentenza di non doversi procedere ai sensi
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dell'articolo 531 di tale codice135. La sentenza così pronunciata non è
suscettibile di iscrizione nel casellario giudiziale (art. 14 del D.P.R. 448
del 1988), il che comporta la relativa estinzione dei reati ascritti al reo.
La sentenza di estinzione del reato è una pronuncia molto favorevole per
il minore in quanto il giudizio positivo sulla personalità del minore fa
perdere allo Stato ogni interesse alla punizione.
In termini educativi e di recupero la portata del beneficio appare
enorme in quanto al minore viene data sia la possibilità immediata di
riprendere il proprio cammino dopo l’evento reato impegnandosi
concretamente in un progetto teso a non interrompere i suoi processi di
crescita, ma anche quella di “uscire pulito” dal circuito penale. Ciò a
conferma della natura destigmatizzante propria del probation, che offre
al ragazzo l’opportunità di voltare realmente pagina senza dover fare i
conti con le conseguenze devastanti dell’etichettamento conseguente
alla condanna, di certa ripercussione negativa sulla costruzione del suo
futuro. Tuttavia è bene ribadire che la messa alla prova non si configura
quale misura clemenziale, in quanto la dichiarazione di estinzione del
reato, come detto, è subordinata alla verifica del conseguimento di
un’evoluzione nella personalità del minore, attraverso la sua adesione al
progetto di intervento, intesa come comprensione dello stesso e impegno
per il suo rispetto. Esso si configura piuttosto come istituto di natura
premiale, in quanto l'estinzione del reato è ancorata al raggiungimento
della risocializzazione del minore. Ciò a differenza delle formule del
perdono giudiziale e dell'irrilevanza del fatto ove la formula liberatoria
135
http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/Minori/adduci/cap2.htm#h3
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interviene in modo acritico e sulla base di circostanze inerenti al reato,
oggettive, come la quantità di pena prevista per il reato commesso, per
il perdono giudiziale, o la tenuità del fatto, per l'irrilevanza, o
soggettive, come l'occasionalità del comportamento, sempre per
l'irrilevanza del fatto. Invece l'estinzione del reato ai sensi dell'art. 29
avviene attraverso un processo personale e sociale di chiarificazione, con
cui il minore "si guadagna" la perdita dell'interesse del sistema penale
verso di lui136.
Significativa è a tal proposito l’analisi storica dei dati sull’esito della
prova relativamente agli anni 2003-2013: essa pone in evidenza come
circa l'80% delle prove abbia esito positivo, oscillando da un valore
minimo di 79,3%, rilevato nel 2005, a quello massimo di 84,7%, relativo
al 2012137.
Il riscontro statistico sugli esiti della misura in esame appare dunque
essere estremamente positivo, tuttavia è bene fare attenzione a non
confondere il successo processuale della prova con il successo di
carattere sociale in termini di recupero del minore deviante. Come
afferma la criminologa Scivoletto, infatti, bisogna distinguere fra il piano
formale e il piano sostanziale: da una parte esiste il successo puramente
formale della prova, che è quello che produce l'archiviazione del
fascicolo processuale senza lasciare traccia nel casellario giudiziale del
suo protagonista, dall'altra quello sostanziale, che produce un effettivo
mutamento nella condotta del reo, recuperandolo socialmente138.
136
F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, op. cit. 137
Cfr. http://www.giustiziaminorile.it/statistica/analisi_statistiche/sospensione_processo/Messa_Alla_Prova_2014.pdf 138
C. Scivoletto, Dopo dieci anni la probation minorile verso la conciliazione-riparazione?, in Minori Giustizia 2, 1999.
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Proprio intervenendo nel processo penale con una soluzione che,
coniugando la punizione con l'educazione, opera prevalentemente nel
terreno educativo - affermano al riguardo Colamussi e Mestitz -“significa
scommettere sul futuro remoto del giovane, perché quello prossimo è
garantito dall’effetto premiale della prova consistente nell’estinzione
del reato. La prognosi positiva sull’evoluzione della personalità del
minorenne pertanto, non si limita al periodo di prova trascorso, ma si
proietta nel futuro come prospettiva di radicale cambiamento e
abbandono definitivo della scelta deviante”139.
E’ proprio la prevenzione di recidiva a giustificare la rinuncia da
parte dello Stato all’esercizio della sua potestà punitiva in favore
dell’interesse prevalente alla risocializzazione del minorenne.
Numerosi sono stati gli studi per osservare tale fenomeno e i risultati
circa l’efficacia della messa alla prova sono incoraggianti: dalle diverse
ricerche svolte dalla Colamussi e dalla Mestitz sugli effetti a lungo
termine del trattamento ricevuto in sede giudiziaria da minorenni autori
di reato, emerge con evidenza che la recidiva da adulti risulta bassissima
nel gruppo degli ex minorenni trattati mediante l’istituto della messa
alla prova140. Risultati, questi, per altro confermati anche da uno studio
di recente pubblicazione realizzato dal Dipartimento per la Giustizia
Minorile, dal quale emerge chiaramente un più alto tasso di recidiva
stimata per i giovani che hanno sperimentato altre misure rispetto alla
messa alla prova, indipendentemente dalla lunghezza della stessa141. Tali
139
M. Colamussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, op. cit., pp.147-148. 140
Ivi, pp. 147-150. 141
A.A. V.V., I numeri pensati – La recidiva nei percorsi penali dei minori autori di reato. Quade i dell’Osse vato io sulla devianza minorile in Europa, Gangemi, Roma, 2013.
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studi consentono di evidenziare che l’efficacia di questa misura non
rimane circoscritta all’evento processuale, ma si estende in una
prospettiva longitudinale di lunga durata attestando un cambiamento
effettivo nella personalità del minore deviante.
Un’ultima considerazione va infine fatta sull’introduzione dell’art.28
d.p.r. 448/88 nel nostro ordinamento, che, almeno inizialmente, non è
stato accolto con particolari entusiasmi, ma, al contrario, è stato
contrassegnato da un diffidente avvio, come evidenziato dalla Mestitz142,
caratterizzato da numerose difficoltà e resistenze culminate nei dubbi di
costituzionalità espressi dal C.S.M., che definì l’art.28 un istituto
“potenzialmente devastante” cui bisognava “porre qualche limite” per
evitare il dilagare dell’eccessiva impunità del giovane delinquente. Tali
dubbi, per altro respinti dalla Corte Costituzionale, che definì invece
tale istituto come “l’innovazione più significativa e coraggiosa del nuovo
processo penale minorile”, evidenziavano comunque la presenza di una
corrente di pensiero ostile e diffidente, il cui indicatore concreto è
rintracciabile nel fatto che la messa alla prova non è mai veramente
decollata per lunghi anni: per tutta la prima metà degli anni novanta,
infatti, il trend applicativo nazionale è rimasto stabilmente
caratterizzato da notevole cautela, solo all’inizio degli anni 2000 i casi
risultano, in valori assoluti, più che raddoppiati rispetto al 1996143.
Dalla serie storica riportata di seguito nella tabella 1, inerente il
periodo dal 1992 al 2014, si evince un andamento crescente del numero
142
A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 73. 143
Ivi, pp.73-74.
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dei provvedimenti di sospensione del processo per messa alla prova: da
788 casi nel 1992 a 3.261 nel 2014.
In tutto questo periodo ci sono stati soltanto due momenti in cui il
dato ha presentato una diminuzione: il 2006, anno in cui era stato
emesso il provvedimento di indulto e l’ultimo anno in esame.
Quest’ultimo decremento è stato pari a -5,6% rispetto all’anno
precedente e può essere letto, per il momento, come un assestamento
fisiologico dopo un periodo abbastanza lungo di continui aumenti.
Tabella 1 - Provvedimenti di sospensione del processo e messa alla prova ai sensi dell’art.28 D.P.R. 448/88 negli anni dal 1992 al 2014. Valori assoluti e variazioni percentuali. ANNI Provvedimenti
di messa alla prova (art.28 D.P.R.448/88)
Variazioni %
ANNI Provvedimenti di messa alla prova (art.28 D.P.R.448/88)
Variazioni %
1992 788 - 2004 2.177 16,9%
1993 845 7,2% 2005 2.145 -1,5%
1994 826 -2,2% 2006 1.996 -6,9%
1995 740 -10,4% 2007 2.378 19,1%
1996 938 26,8% 2008 2.534 6,6%
1997 1.114 18,8% 2009 2.701 6,6%
1998 1.249 12,1% 2010 3.067 13,6%
1999 1.420 13,7% 2011 3.217 4,9%
2000 1.471 3,6% 2012 3.368 4,7%
2001 1.711 16,3% 2013 3.456 2,6%
2002 1.813 6,0% 2014 3.261 -5,6%
2003 1.863 2,8%
Tuttavia una lettura più appropriata in merito, potrà essere data
solo con l’osservazione dei dati degli anni successivi, per comprendere
se, invece, si sta assistendo ad un’inversione di tendenza
nell’andamento del fenomeno, in termini di applicazione di questo
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particolare provvedimento o, ancora più genericamente, in termini di
numero di minori nell’area penale.
A questo proposito, si può aggiungere che i dati dell’utenza dei
Servizi della Giustizia Minorile dell’anno 2014 hanno evidenziato una
diminuzione dei minori nei Servizi residenziali ed una sostanziale
stabilità dell’utenza in area penale esterna.
Tabella 2 - Provvedimenti di sospensione del processo e messa alla prova ai sensi
dell’art. 28 D.P.R. 448/88 negli anni dal 1992 al 2014. Valori assoluti e rapporti.
*n.d. = Dato non disponibile
Dalla tabella si evince inoltre che anche il tasso di applicazione del
provvedimento, ottenuto mettendo a confronto il numero dei
provvedimenti di messa alla prova con il numero complessivo dei
minorenni denunciati per i quali l’Autorità Giudiziaria ha iniziato
l’azione penale, è in costante crescita a conferma che l’aumento
Anni Minorenni denunciati per i quali è iniziata l’azione penale (a)
Provvedi-menti di art. 28(b)
Rapporti (b/a)
Anni Minorenni denunciati per i quali è iniziata l’azione penale (a)
Provvedi-menti di art.28 (b)
Rapporti (b/a)
1992 26.928 788 2,9% 2004 20.591 2.177 10,4%
1993 24.451 845 3,5% 2005 19.289 2.145 10,6%
1994 25.807 826 3,2% 2006 19.702 1.996 11,1%
1995 25.683 740 2,9% 2007 19.174 2.378 10,1%
1996 26.568 938 3,5% 2008 18.636 2.534 12,4%
1997 22.936 1.114 4,9% 2009 19.970 2.701 13,6%
1998 24.138 1.249 5,2% 2010 20.907 3.067 13,5%
1999 25.294 1.421 5,6% 2011 20.458 3.217 14,7%
2000 17.535 1.471 8,4% 2012 * n.d. 3.368 15,7%
2001 18.965 1.711 9,0% 2013 * n.d. 3.456 * n.d.
2002 18.935 1.813 9,6% 2014 * n.d. 3.261 * n.d.
2003 19.323 1.863 9,6% * n.d
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nell’applicazione della misura è effettivo e non è influenzato dal numero
dei minori che entrano nell’area penale.
Ma la portata rivoluzionaria dell’istituto in esame è espressa
chiaramente anche nella relazione al testo definitivo delle disposizioni
sul processo penale a carico di imputati minorenni, che definisce
“un’innovazione coraggiosa” quella contenuta nella lettera e) dell’art. 3
della legge 16-2-1987, n.81144 -Delega legislativa al Governo della
Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale-
ispiratrice dell’introduzione della prova in corso di giudizio nel processo
penale minorile, chiaramente funzionale all’evoluzione della personalità
del minorenne e alla valenza peculiare di giudizio penale
nell’accelerazione in positivo di tale evoluzione.
In tal senso è possibile affermare che l’art. 28 rappresenta la
risposta legislativa all’esigenza avvertita dai giudici minorili di porre in
essere interventi adeguati alla personalità del minore, con l’obiettivo di
indurre nel giovane cambiamenti positivi, per restituirlo alla società
evitando il ricorso alla misura detentiva, proprio nella consapevolezza
che il recupero del reo avviene più facilmente nel suo ambiente di vita
quotidiano che non attraverso la detenzione, che al contrario, ne
comporterebbe l'isolamento se non addirittura l’inserimento in un
contesto di “scuola della devianza” quale spesso è il carcere.
144
Tale articolo invita a disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato
secondo i principi generali del nuovo processo penale, con le modificazioni e integrazioni imposte dalle particolari
o dizio i psi ologi he del i o e, dalla sua atu ità e dalle esige ze della sua edu azio e o h dall attuazio e di alcuni criteri, individuati alla lettera e) nel dovere del giudice di valutare compiutamente la personalità del minore sotto
l’aspetto psi hi o, so iale e a ie tale, a he ai fi i dell’app ezza e to dei isultati degli i te ve ti di sosteg o disposti;
nella facoltà del giudice di sospendere il processo per un tempo determinato, nei casi suddetti; nella sospensione in tal
caso del corso della prescrizione.
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Volendo trarre delle conclusioni, la messa alla prova risulta essere
uno strumento legislativo straordinario, che si promette di creare
condizioni tali da agire sul comportamento del ragazzo “deviante”,
cercando di riportarlo all’interno delle regole sociali da cui si è
discostato, permettendogli di costruirsi una vita normale, lasciando nel
dimenticatoio la trasgressione effettuata.
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CAPITOLO TERZO
Il progetto di messa alla prova
Ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est145. Lucio Anneo Seneca
E’ il desiderio che crea ciò che è desiderabile, è il progetto che pone il fine.
Simone de Beauvoir
Lei è all'orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta dieci passi più in là.
Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare.
Edoardo Galeano
Cuore della messa alla prova è la dimensione progettuale.
La parola progettare dal latino pro-iectum, participio passato del
verbo proicere, composto da PRO avanti e JÀCERE gettare, letteralmente
traducibile con gettare avanti, indica, nella sua accezione più comune,
l’azione con cui si valuta una situazione presente nell’ottica del
cambiamento e dell’innovazione. E’ un verbo, dunque che rimanda a un
aspetto progressivo, in qualche modo previsionale perché, per gettare lo
sguardo in avanti bisogna prevedere e questo ci consente di disegnare
degli scenari futuri, cioè di immaginare qualcosa che ancora non c’è.
Quando progettiamo, immaginiamo, disegniamo, in qualche modo ci
creiamo dei modelli di un mondo futuro, di qualcosa che esiste solo in
potenza, quindi c’è certamente, nel progettare, una componente di
sguardo ottimista sulla realtà, uno sguardo capace di guardare avanti, di 145
Massima latina: Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuol approdare.
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lanciarsi avanti, di prospettare anche dei progressi, dei cambiamenti,
uno sguardo carico di speranza.
Una bella immagine definisce il progetto come un “sogno con delle
scadenze”, mettendo in tal modo insieme due aspetti apparentemente
antitetici: da una parte il registro del sogno, del desiderio, della
fantasia, della creatività e dall’altra l’aspetto concreto e terreno, delle
scadenze, del calendario, delle risorse di cui disponiamo, l’aspetto dei
vincoli della realtà. Un buon progetto, a mio avviso, deve riuscire a
mettere insieme questi due dati antitetici tenendo presente che ciò che
va gettato avanti è il presente del soggetto, visto sia nel suo essere ora,
nella realtà di ciò che è, ma anche e soprattutto nel suo poter essere,
nella possibilità di ciò che può diventare.
Il progetto si configura, allora come un’apertura di credito sul
futuro, sebbene al riguardo è opportuno sottolineare che rispetto al dato
del divenire dell’essere umano, quando parliamo di progettazione, in
ambito più strettamente pedagogico questa consiste nell’individuare le
modalità di questo divenire, così da poter intervenire causando
cambiamenti nella direzione dell’incremento di sviluppo umano del
soggetto. Il cuore del sapere pedagogico è proprio qui, nell’inestricabile
legame tra teoria e prassi da cui ha origine il duplice intento, conoscitivo
e trasformativo, di cui esso è costituito che dà vita ad un sapere ove ad
una dimensione di analisi dell’esistente si accompagna necessariamente
una dimensione progettuale volta alla sua modifica, che nasca nel
guardare la realtà che ci è dinanzi così com’è chiedendosi “cosa è
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possibile fare qui ed ora?”, “come posso intervenire per attuare un
cambiamento intenzionale?”
Il progetto educativo è, in questa chiave, lo strumento costruito per
agire sulla realtà osservata con l’intento di trasformarla, mantenendo lo
sguardo rivolto ad un futuro allo stesso tempo possibile ed utopico.
Naturalmente ciò richiede occhi attenti e competenti, capaci di guardare
oltre quello che già c’è, capaci di prospettare utopie: una sfida
affascinante ma anche una pratica quotidiana per chi si occupa di
educazione perché, come ci insegna Giovanni Maria Bertin, “l’utopia di
oggi, punto estremo del non ancora e dell’inattuale, è il possibile di
domani”.
L’utopia vale come direzione e non come meta precostituita da
raggiungere, porta con sé tutta l’incertezza del possibile, richiede agli
educatori una scelta di coraggio perché il possibile non offre garanzie
sulla realizzazione di quanto si progetta nel suo orizzonte146. Un possibile
orientamento da seguire, dunque, un possibile itinerario da costruire
avendo sempre e innanzitutto chiaro che la finalità di ogni intervento
educativo è porre in essere interventi che favoriscano l’emancipazione
del soggetto rendendolo capace di “guidare da solo la sua canoa”147.
Riportando l’attenzione sull’istituto della messa alla prova, quanto
detto aiuta a comprendere che la portata innovativa dell’art. 28 si gioca
in gran parte proprio nel come viene strutturato il progetto, nel possibile
che si ha il coraggio di mettere in campo: l’innovazione è nei suoi
contenuti e dunque nella capacità degli operatori di scommettere su ciò
146
G. M. Bertin, M. Contini, Educazione alla progettualità esistenziale, Armando Editore, Roma, 2004, pp.34-35. 147
R. Baden-Powell, Taccuino. Scritti sullo scoutismo 1907-1940, Edizioni scout Fiordaliso, Roma, 2009.
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che potrebbe essere, di essere flessibili e creativi in modo da poter
“cucire” un progetto “su misura” per quel particolare minore.
Al riguardo quello che mi appare importante mettere in risalto è che
l’elemento cui bisogna prestare attenzione e dar valore è proprio il
cammino del soggetto verso l’emancipazione: è il processo attivato e
posto in essere dal ragazzo che va osservato, evidenziato e valutato. Ciò
vuol dire che sarebbe un grave errore limitarsi a considerare solo il
prodotto finale, perché una tale valutazione non renderebbe giustizia
della complessità di ogni cammino di crescita. E’ necessario invece
volgere lo sguardo all’intero percorso, proprio in considerazione del
fatto che il protagonista del progetto di messa alla prova è un
adolescente, dunque un soggetto in età evolutiva, impegnato a crescere
verso la maturità.
E’ il come che fa la differenza: è il modo in cui il progetto viene
costruito prima e portato avanti poi, il vero punto cruciale cui porre
attenzione, da osservare, sollecitare, sostenere, valorizzare ed infine
valutare, non il mero risultato finale.
E’ questo il terreno su cui si gioca la scommessa del cambiamento.
Ancora una volta, a mio avviso, lo sguardo di chi osserva svolge un
ruolo fondamentale poiché pur in presenza di un vento favorevole
costituito dall’equipaggiamento dell’adolescente-marinaio, ossia dalle
sue risorse e capacità, ciò serve a ben poco se questi non sa verso quale
luogo dirigersi. Ecco allora che lo sguardo di chi osserva proprio in
quanto capace di vedere i punti di luce nelle crepe può scommettere su
di essi aiutando così l’adolescente-marinaio a non vagare senza meta ma
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ad orientarsi seguendo la bussola dei propri desideri per scegliere il
porto cui vuole approdare.
3.1. Un progetto orientato: senso e obiettivi
Nel processo penale minorile la dimensione educativa e pedagogica è
declinata al massimo grado nella dimensione progettuale intrinseca
all’art.28, che esprime bene il prioritario intento educativo finalizzato
alla prevenzione e non alla punizione.
Proprio a tal fine il d.p.r. 448/88, spostando l’attenzione del giudice
dall’accertamento del fatto alle caratteristiche personali del soggetto,
determina un’autolimitazione inevitabile del diritto penale per
concedere spazio ai Servizi minorili, Ministeriali e dell’Ente Locale148,
richiedendone espressamente la collaborazione per la piena attuazione
delle sue finalità: al fine di facilitare il reinserimento sociale ed
individuale del giovane reo, infatti, devono essere assicurati interventi di
sostegno orientati alla valorizzazione e al coinvolgimento delle diverse
risorse, istituzionali e non, presenti nel territorio.
È in questo ambito che assumono rilevanza i Servizi periferici annessi
al Dipartimento per la Giustizia Minorile149 che, in collaborazione con gli
148
Art.6 DPR 448/88 co. 1: In ogni stato e grado del procedimento l'autorità giudiziaria si avvale dei Servizi minorili
dell'amministrazione della giustizia. Si avvale altresì dei servizi di assistenza istituiti dagli enti locali. 149 Il Dipartimento per la Giustizia Minorile (D.G.M.) è uno dei quattro Dipartimenti del Ministero della Giustizia, esercita
la propria competenza in ordine alla tutela e alla protezione giuridica dei minori dai 14 ai 18 anni e, in particolare, su
quelli sottoposti a procedimento penale da parte dell' Autorità Giudiziaria minorile, esercitando detto mandato,
eventualmente, fino al compimento non più del 21° bensì del loro 25° anno d'età come disposto dal recente Decreto
Legge 26-06-2014 n.92, Art. 5: Modifiche all'art. 24D.Lvo.272/89.
Il D.G.M. opera attraverso 12 Centri Giustizia Minorile regionali e/o interregionali dai quali dipendono i seguenti Servizi
Minorili:
-n.29 Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (U.S.S.M.) i quali forniscono assistenza ai minorenni autori di reato in ogni
stato e grado del procedimento penale;essi inoltre raccolgono e forniscono elementi conoscitivi riguardanti il minorenne
soggetto a p o edi e to pe ale e ava za o ipotesi p ogettuali he o o o o alle de isio i dell Auto ità giudizia ia;
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Enti Locali e il Terzo settore, hanno ricevuto dalla nuova normativa
processuale un compito di fondamentale importanza. Essi infatti
elaborano le informazioni sulla personalità del ragazzo, sull'ambiente
familiare e sociale di riferimento e, di conseguenza, informano e
indirizzano le decisioni del magistrato sulle esigenze educative da
tutelare nel programma di recupero psicologico, pedagogico e sociale.
Il progetto di messa alla prova verte, infatti, su un preciso
programma trattamentale, elaborato in maniera specifica per ciascun
minore e basato sull'interazione dello stesso con le figure parentali
adulte di riferimento e con le risorse educative dell’ambiente di
provenienza.
Dall'articolo 27 disp. att. d.p.r. 448/88150 si deduce che, in via
ordinaria, la preparazione e presentazione del progetto dovrebbe
precedere la decisione del giudice relativa alla sospensione del processo,
ciò vuol dire che gli assistenti sociali dell’U.S.S.M. possono prepararlo in
base ad una scelta autonoma effettuata sulla base di una valutazione
che si fonda su una prima fase di osservazione e raccolta di informazioni.
È questa la fase informativa della relazione iniziale, quando il
giudice e i Servizi sociali minorili collaborano per ottenere un preciso
profilo del minore, cui segue poi una fase più propriamente operativa,
-n.26 Centri di Prima Accoglienza (C.P.A.) i quali ospitano i minorenni in stato di arresto, fermo o accompagnamento fino
all'udienza di convalida entro 96 ore, con la custodia della Polizia Penitenziaria e la presenza di una equipe che acquisisce
informazioni utili;
-n.17 Istituti Penali per i Minorenni (I.P.M.) che assicurano la detenzione per custodia cautelare o espiazione di pena;
-n.10 Comunità Ministeriali (12 fino al 2014) le quali assicurano l'esecuzione dei provvedimenti dell'Autorità giudiziaria, in
particolare il collocamento in comunità e le misure di sicurezza. 150
D.Lvo.272/89 - Art. 27 co.1: Il giudice provvede a norma dell'articolo 28 del decreto del Presidente della Repubblica 22
settembre 1988 n. 448, sulla base di un progetto di intervento elaborato dai servizi minorili dell'amministrazione della
giustizia, in collaborazione con i Servizi socio-assistenziali degli Enti locali.
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90
durante il corso della prova, con le attività previste dall'intervento,
nonché con quelle di controllo e sostegno del minore.
Si può affermare, pertanto, che chi decide sulla messa alla prova è il
giudice, ma gli elementi determinanti su cui il giudice si basa nel
prendere la decisione sono l’orientamento, le idee e soprattutto il lavoro
conoscitivo dell’U.S.S.M. sul minorenne, i progetti e i rapporti con gli
operatori sociali. Al riguardo la Mestitz osserva che proprio l’andamento
dei rapporti e le comunicazioni tra magistrati e Servizi sociali minorili si
configurano quali elementi determinanti la qualità dell’intervento
penale minorile151.
Ruolo nevralgico dunque quello ricoperto dai Servizi che si
configurano quali garanti della indispensabile mediazione tra giudice e
imputato. Essi sono inoltre deputati ad offrire al minore assistenza
psicologica e affettiva ma anche elementi di conoscenza volti a far
comprendere, allo stesso e alla sua famiglia, la natura e il significato
delle decisioni del giudice. Sono infine incaricati a raccogliere elementi
di conoscenza sulla realtà personale ed ambientale del minore funzionali
alla predisposizione di interventi quanto più rispondenti alle reali
esigenze di crescita del giovane assistito durante tutta la sua
permanenza nel circuito penale, nonché a valutare la motivazione al
cambiamento del ragazzo e ad accertarne la capacità o meno ad
adattarsi a un certo tipo di impegni.
Per quel che concerne più strettamente il programma, il già citato
art. 27 al comma 2 delinea un progetto di intervento articolato, che
151
A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 95.
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deve prevedere tra l'altro: a) le modalità di coinvolgimento del
minorenne e dei familiari; b) gli impegni specifici che il minorenne
assume; c) le modalità di partecipazione al progetto degli operatori; d)
le eventuali modalità di attuazione dirette a riparare le conseguenze
del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la vittima.
Se ne desume che l’art.27 orienta in maniera chiara la costruzione
del progetto di messa alla prova, ponendo fortemente l’accento sulla
dimensione del fare e promuovendo in tal modo progetti realizzati
intorno ad impegni normalizzanti in più direzioni, in cui il ragazzo è
chiamato a svolgere un ruolo attivo e responsabile. Al riguardo,
sottolinea la Mestitz, che tale “attenzione al fare”, non va
assolutamente disgiunta “dall’individuazione ed esplicitazione degli
obiettivi del progetto di messa alla prova, che non solo orientano
l’azione dei vari soggetti coinvolti, ma definiscono anche il senso
complessivo del percorso di messa alla prova, il cui scopo finale è quello
di indurre nel soggetto una positiva evoluzione della personalità”152.
In riferimento agli obiettivi del progetto, la dottrina ne evidenzia
alcuni, di carattere generale, considerati imprescindibili e che pertanto
riguardano tutti i minori sottoposti alla messa alla prova. Tra questi è
possibile individuare: lo sviluppo delle necessarie competenze relazionali
e sociali, al fine di evitare la ricaduta in percorsi devianti; il
rafforzamento della personalità del minore e della sua autostima
attraverso il superamento positivo dei singoli impegni del progetto; la
152
Ivi, p.151.
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responsabilizzazione e la riparazione rispetto al reato ed all’intera
vicenda penale.
Naturalmente tali obiettivi generali vanno poi declinati nei singoli
casi specifici e condivisi sia con il minore che con la famiglia. Ne
consegue che in ogni singolo progetto di messa alla prova gli obiettivi
generali devono essere tradotti in obiettivi individualizzati e calibrati
sulle effettive risorse personali e familiari. Operazione, questa,
indispensabile per non correre il rischio di costruire un bel progetto
rispondente a criteri formalmente validi, ma in concreto avulso dalla
realtà del minore, con obiettivi del tutto inadatti o fuori dalla portata
del ragazzo, proprio perché fondati su una scarsa e non realistica
conoscenza dello stesso153.
Altro elemento fondamentale per la buona riuscita del percorso è
spiegare con attenzione al minore il senso della misura e cosa ci si
attende, facendogli avvertire “il peso” del patto che autonomamente
intende siglare con la Giustizia. E’ infatti importante che il ragazzo,
comprenda con chiarezza che la messa alla prova è una misura penale ed
anche se nella fase della “prova” dal punto di vista giuridico questa
viene di fatto sospesa, ciò non lo autorizza a sentirsi “libero”
anticipatamente, né ad affrontare il percorso con superficialità, o peggio
ancora con disimpegno, considerando l’applicazione della misura una
mera convenienza dall’esito scontato. Per tale ragione appare opportuno
che, sia nella presentazione dell’articolo 28, sia durante il corso della
prova, venga fortemente ribadito al minore che le sue azioni restano
153
Ibidem.
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93
sottoposte al controllo dell’Autorità Giudiziaria Minorile, con cui ha
siglato il patto e cui dovrà “render conto” nell’udienza di valutazione
finale. Questo passaggio è estremamente importante e va esplicitato al
ragazzo con grande chiarezza, per evitare che non viva il progetto come
un’esperienza socio-educativa correlata a un percorso assistenziale
elaborato dai Servizi sociali territoriali, bensì come occasione di crescita
personale che gli garantisce, al tempo stesso, la positiva fuoriuscita dal
circuito penale.
Alla luce di quanto detto l’attuazione della messa alla prova sembra
muoversi su un doppio binario. Da una parte, infatti, l’impegno degli
operatori istituzionali deve andare nella direzione di un’attenta verifica
della motivazione del ragazzo, evitando di appoggiare una sua richiesta
di poter beneficiare dell’articolo 28 quando appare evidente che questa
non è mossa da una reale disponibilità al cambiamento ma da un mero
opportunismo in base al quale la messa alla prova è considerata la via
più semplice e più conveniente, dal punto di vista delle restrizioni cui si
è sottoposti, per uscire dal circuito penale. Dall’altra però l’impegno
degli operatori istituzionali consiste anche nel dare ad un ragazzo
fortemente motivato un’autentica occasione per poter realmente
crescere e ciò è possibile solo attraverso un progetto “ben fatto”: un
progetto non “cucito” su misura non permetterà al ragazzo, anche se
motivato, di aderirvi pienamente e questo margine, questa distanza, non
farà che ampliarsi durante il percorso, quando la fatica dell’impegno e le
fragilità personali e familiari faranno sentire il loro peso, col pericolo
che il giovane possa man mano perderne il senso.
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Assume, pertanto, particolare rilievo la fase di “co-costruzione” del
progetto con il minore, in cui coinvolgerlo e stimolarlo a partecipare
attivamente all’individuazione di obiettivi ed azioni necessarie al
perseguimento degli stessi154. Il tribunale deve negoziare con
l'adolescente il contenuto del progetto, il “patto in udienza” viene così
ad essere il frutto di una decisione presa di comune accordo in assenza
della quale la natura stessa della messa alla prova viene snaturata
perché il minore non è più chiamato a responsabilizzarsi
nell'adempimento di un impegno da lui consapevolmente assunto, ma si
limita a scegliere, tra due mali, la pena detentiva, che presumibilmente
gli verrà irrogata al termine del processo, e la messa alla prova, quello
minore. E’ opportuno, dunque, che, se si dovesse intravedere una
mancanza di disponibilità in tal senso o una certa apatia, questa vada
letta come un campanello di allarme in quanto andrà indubbiamente ad
inficiare l’elaborazione stessa del progetto o peggio ancora la sua
attuazione concreta.
Quanto detto pone in evidenza che il progetto elaborato debba
essere costruito con grande equilibrio, lasciando prevalere non tanto
l’ansia di “riempire”, quanto piuttosto l’attenzione affinché risponda a
caratteristiche ben precise, che la maggior parte della dottrina individua
nella ragionevolezza, nella consensualità, nell’adeguatezza, nella
praticabilità, nella concretezza, nella positività, nella flessibilità, nella
verificabilità155.
154
Ibidem. 155
Pe ua to igua da le a atte isti he della o se sualità, dell adeguatezza, p ati abilità e flessibilità si veda A. Mestitz,
Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 152; ma anche F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale
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Il programma deve infatti essere innanzitutto ragionevole nel senso
che il ragazzo deve comprenderlo ed accettarlo in quanto la
consensualità è essenziale per l’applicazione della misura: per questo
motivo il progetto deve proporre “cose nuove” che siano però alla
portata del minore, ossia che non si distacchino eccessivamente dalla
sua vita quotidiana, in modo tale possa accettarle e non viverle come
imposizioni o come un dovere. Proprio a tal fine è importante cercare di
non discostarsi troppo dalla vita abituale dell'adolescente, disponendo
prescrizioni tendenti al suo recupero, che risultino strumentali alla
verifica di una personalità in divenire e che permettano al ragazzo di
sperimentare un ventaglio di possibilità di vita diverse da quelle
conosciute ma al contempo non troppo distanti da sé.
Quanto scritto può sembrare un controsenso ma non lo è: bisogna
prospettare al minore attività non troppo distanti dalla sua realtà e dalla
sua capacità di comprensione di essa anche perché in tal caso verrebbero
avvertite come imposte, provocando nella migliore delle ipotesi
un’adesione formale, strumentale all’ottenimento del beneficio, ma è
importante al contempo non proporgli nemmeno attività troppo vicine,
tali da non essere sentite come nuove, come altro dalle proprie
abitudini. L’idea di fondo è che pian piano, anche passando attraverso
un’iniziale adesione formale, il ragazzo possa essere portato a tirar fuori
e sperimentare una parte più positiva di sé che possa sostenere la
minorile, op. cit., p. 435; riguardo alla concretezza, alla positività e alla verificabilità si veda R. Pozzar, Strategie e
opportunità, in Minori Giustizia, 1994, vol.3, p. 94.
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motivazione al cambiamento e aiutarlo a rendersi conto che può essere
in modi diversi da quelli cui era abituato156.
Altro criterio cui deve rispondere il progetto è quello di
adeguatezza, ossia essere confacente alla personalità del ragazzo, al
tipo di reato commesso, alle risorse che possono essere mobilitate.
Questo sia per favorire l’esito positivo della prova, sia per garantire un
reale impegno del ragazzo rispetto ai contenuti del progetto e non una
mera partecipazione formale.
Ulteriore caratteristica è che deve essere praticabile, con
l’esplicitazione chiara delle risorse che si intendono utilizzare nonché
dei processi che ci si propone di attivare, ma al tempo stesso flessibile
durante corso della prova, affinché possa modularsi in relazione ai
cambiamenti che emergono dal percorso; il programma infatti segue i
movimenti evolutivi del minore e la sua elaborazione non avviene
secondo un processo lineare che parte dall’analisi per poi dispiegarsi nel
fissare gli obiettivi, la metodologia d’intervento e l’individuazione delle
risorse; al contrario può richiedere, mano a mano che si procede,
aggiustamenti, cambiamenti, fino ad arrivare ad un progetto che sia
coerente nelle sue diverse parti.
Il progetto dev’essere poi concreto: cioè pronto per essere attivato
senza bisogno di alcuna specificazione; ad esempio non sarà sufficiente
prevedere che l’imputato dovrà svolgere un’attività di volontariato senza
specificarne congiuntamente la tipologia, il luogo, i tempi di impegno
del minore.
156
http://www.assistentisociali.org/carcere/presupposti_messa_alla_prova_II.htm
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97
Dev'essere inoltre positivo: è infatti opportuno che l’attenzione sia
rivolta non tanto ad indicare comportamenti dai quali il minore dovrà
astenersi, quanto piuttosto al dare indicazioni sui comportamenti da
tenere, dunque non prescrizioni di divieto ma esortazioni al fare.
Dev'essere infine verificabile nel suo sviluppo, nei percorsi più che
sugli esiti: sarà pertanto rilevante ad esempio l'essere andato
regolarmente a scuola e non l’essere promosso a fine anno.
E’ da considerare inoltre che un aspetto importante relativamente
alle risorse da attivare è il coinvolgimento della famiglia, elemento
considerato auspicabile per garantire l’incisività e la qualità del percorso
di cambiamento del ragazzo: il principio della co-costruzione dunque va
esteso anche alla famiglia quale risorsa potenzialmente attivabile.
La richiesta di responsabilizzazione del minore, infatti, non può che
passare attraverso la richiesta di responsabilizzazione del suo sistema di
appartenenza, non a caso infatti l’esperienza operativa ha dovuto
riconoscere la fragilità e talvolta il fallimento di progetti di messa alla
prova che facevano leva essenzialmente sul minore, trascurando il suo
nucleo familiare. Ciò probabilmente perché il ragazzo, in un momento di
vita già particolarmente delicato, si trovava a dover scegliere tra le
richieste del sistema giustizia e le richieste del sistema familiare che,
non avendo condiviso il “patto”, continuava a riproporre le stesse
logiche e dinamiche. E’ altresì vero che non sempre risulta esservi una
reale disponibilità al coinvolgimento e che la collaborazione è spesso
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permeata di diffidenza e puramente strumentale alla risoluzione dei
“guai giudiziari” del proprio congiunto157.
Tener fede a tali caratteristiche nell’elaborazione del progetto
permette di non cadere nell’errore di costruire programmi lontani dal
ragazzo, meramente prescrittivi, frutto di una prassi legata a modalità
applicative routinarie e pertanto non sentiti dal ragazzo come
opportunità di crescita e di cambiamento.
Quelli appena descritti sono i requisiti minimi del progetto su cui si
basa la prova, il cui obiettivo è, come detto, il recupero psicologico,
sociale e culturale del ragazzo, offrendogli un modello di conduzione di
vita alternativo rispetto a quello pregresso che possa modificare
abitudini, comportamenti, orari, compagnie, modalità relazionali del
ragazzo. In termini oggettivi, ciò si verifica con l'adeguarsi del
minorenne messo alla prova alle prescrizioni indicate. Mentre dal punto
di vista soggettivo è, invece, in gioco l'autopercezione che il soggetto ha
di sé, poiché dall'esito positivo della prova dipende l'acquisizione di
fiducia in se stesso da parte del ragazzo che, incoraggiato dal successo
ottenuto nell'adeguarsi alle prescrizioni impartitegli, è maggiormente
stimolato a tenere un comportamento corretto e responsabile.
Il possibile fallimento della prova inciderebbe in modo dannoso e
forse irrecuperabile sull'autostima e l’autopercezione che l'adolescente
ha di sé, pregiudicando non solo il risultato della messa alla prova, ma il
suo futuro destino di uomo e cittadino: infatti è come se egli dimostrasse
di essere indegno della fiducia accordatagli poiché incapace di adeguarsi
157
A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., pp.154-155.
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a quanto gli viene richiesto. Si rafforzerebbe in tal modo il senso di
inadeguatezza e la convinzione di non essere capace di costruire
alcunché di buono. Proprio in ragione di ciò è di vitale importanza che
nell'elaborazione del progetto non si trascurino mai le concrete
possibilità di adeguamento ad esso del minore, perché il fallimento della
prova ha ripercussioni notevoli sull'autostima che il ragazzo ha di sé e,
quindi, sul suo comportamento futuro158.
3.2. La costruzione del progetto: contenuti e gestione
Dopo aver individuato le principali caratteristiche del progetto di
messa alla prova, l’attenzione si sposta ora più strettamente sul
contenuto del progetto.
La costruzione di un progetto di messa alla prova comporta il passare
da un livello generale ad uno più decisamente organizzativo, che
permetta di convertire gli obiettivi del progetto in una sequenza di
compiti ed azioni. Ciò significa anche saper esplicitare ruoli, compiti e
impegni di ogni interlocutore come anche saperne definire i tempi159.
Il già citato art. 27, norma di riferimento in tal senso, elencante i
contenuti del progetto d’intervento, va dunque tradotto nel caso
concreto. Tuttavia è opportuno considerare che tale elencazione non
può certo essere ritenuta esaustiva, pertanto essa non ha carattere
tassativo bensì esemplificativo, come si evince dall’inciso “tra l’altro”
158
http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/minori/santoni/par2.htm 159
A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p.153.
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che precede l’elencazione. Si tratta di indicazioni legislative che devono
essere specificate al momento della redazione del progetto d’intervento.
Punto di partenza dovranno essere le modalità di coinvolgimento del
minore, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita, dal
momento che è proprio all’interno di questi contesti che è possibile
rintracciare il senso del disagio emerso per l’individuazione, ma anche la
rimozione delle cause della devianza, come anche le possibilità di una
sua costruttiva evoluzione. Tuttavia per quanto riguarda la previsione
relativa al nucleo familiare essa va considerata utile ma non conditio
sine qua non, poiché in quei casi dove il contesto socio familiare viene
ritenuto un ostacolo per il recupero del minore, proprio
l’allontanamento da tale ambiente viene considerata la migliore
soluzione, anche perché potrebbe essere proprio il contesto socio
familiare la fonte della devianza del minore160.
Inoltre, secondo quanto previsto dalla lettera b) dell’art.27, nel
progetto vanno poi indicati gli impegni che il minore assume. In
relazione a quest’aspetto vanno individuati impegni che dovranno essere
conformi alla personalità, alle esigenze ed alle capacità del minore;
nella loro individuazione inoltre occorre tener conto della gravità del
reato161. Pertanto possono essere considerati utili a tal fine impegni volti
a garantire al minore la scoperta di se stesso, la costruzione di un
corretto rapporto critico con gli adulti, la responsabilizzazione nel
rapporto con i coetanei, la costruzione di un percorso di autonomia e
160
E. Lanza, La sospe sio e del p o esso o essa alla p ova dell’i putato i o e e, Giuffrè, Milano, 2003, p.117. 161
P. Giannino, Il processo penale minorile, Cedam, Padova, 1997, p. 235.
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indipendenza162. Gli impegni specifici che il ragazzo assume dovranno
riguardare attività finalizzate allo sviluppo delle sue potenzialità, al
miglioramento del comportamento sociale, come anche alla riparazione
del danno provocato dal reato e la riparazione con la vittima.
Ulteriore elemento è evidenziato dalla previsione contenuta nella
lettera c) ove si dispone che vengano specificate le modalità di
partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e dell’ente
locale, atte a garantire il recupero del minore. In relazione a tale
previsione, compito dei Servizi è sia valutare le possibilità concrete
offerte dal territorio per l'attuazione dei progetti e le modalità di
collaborazione fra i diversi operatori, sia tenere il filo della rete di
rapporti costruita attorno al minore. I contenuti del progetto, infatti,
sono condizionati e vincolati all’effettiva disponibilità di risorse
concretamente attivabili, aspetto questo che purtroppo l’esperienza
operativa ha evidenziato essere un limite alla costruzione del programma
trattamentale, in quanto esiste una reale e forte difficoltà a reperire
risorse idonee che ostacola in taluni casi la possibilità di costruire
progetti creativi, ossia portatori di novità nella vita del ragazzo,
ingrediente questo indispensabile per metterlo in una condizione
potenziale di poter effettuare il tanto auspicato “salto di qualità”.
Elemento utile al ridurre gli effetti negativi di tale difficoltà, può
tuttavia essere considerato il lavoro di équipe, così come la
collaborazione tra i vari Enti che si occupano della gestione del progetto
di messa alla prova. La maggior parte dei progetti viene infatti elaborata
162
A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p.153.
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dall'USSM in collaborazione con altri partner quali le ASL, i Servizi Sociali
Territoriali ma soprattutto Enti del privato sociale, basti pensare che le
statistiche ufficiali, elaborate su base nazionale con riferimento all’anno
2014, evidenziano che nella gestione dei progetti di intervento su 3261
provvedimenti di Messa alla prova complessivi, solo 127 sono stati gestiti
esclusivamente dall’USSM. E’ inoltre interessante rilevare che la
partecipazione più attiva è quella del cosiddetto “privato sociale”,
coinvolto in 2746 progetti163. Al riguardo Colamussi e Mestitz osservano
che tale dato, per altro in costante crescita negli anni, possa essere
proprio motivato dalla difficoltà di reperire risorse adeguate
all’applicazione della misura, principale ostacolo operativo in merito,
che ha spinto sempre più gli operatori istituzionali ad “aprirsi”
all’esterno.
Si è andato così delineando il ruolo preponderante del privato
sociale, la cui presenza si è ormai sviluppata nelle prassi applicative
della messa alla prova, tanto da rappresentare un referente ufficioso ed
ufficiale non solo nella redazione del progetto ma anche nelle attività di
osservazione, trattamento e sostegno. Le attività offerte infatti sono
molteplici e spaziano dal volontariato alla socializzazione, dalla
formazione culturale e lavorativa all’animazione, dando così occasione al
giovane reo di scoprire nuove realtà, frequentare persone diverse,
confrontarsi con ambienti distanti dalla propria realtà socio-culturale,
opportunità, queste che rappresentano validi stimoli per la crescita e lo
sviluppo della sua personalità. Inoltre vi è da considerare che il
163
Cfr. Tabella 1.5 e 1.6 in www.giustiziaminorile.it: La sospensione del processo e messa alla prova – Analisi statistica –
anno 2014.
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coinvolgimento del privato sociale va letto anche quale segno della
partecipazione della comunità nella gestione delle risposte alternative
offerte dal sistema di giustizia minorile, elemento senz’altro positivo
nell’ottica di un cammino in direzione di una sempre maggiore capacità
da parte della società civile di farsi carico del problema della
devianza164.
Per quel che concerne in particolare i contenuti del progetto
relativamente agli impegni che il minore assume è possibile evidenziare
che le prescrizioni si riferiscono essenzialmente alle due realtà da lui
vissute: quella interiore, relativa alle motivazioni e all'impegno nelle
attività di risocializzazione; e quella esteriore, relativa alle sue relazioni
esterne negative, che ha sperimentato nel suo breve percorso di vita e
che lo hanno condotto alla devianza.
Le prime hanno il fine di ottenere che il ragazzo impari ad avere un
comportamento corretto e si configurano principalmente come
esortazioni al fare. Tra esse è possibile individuare, in primo luogo,
attività tendenti a rimuovere i punti di maggior disagio dell’imputato,
che devono servire a rimotivarlo, a metterlo alla prova con situazioni
concrete, come quelle relative all'impegno scolastico o a quello
lavorativo: per cui se egli frequenta la scuola gli viene chiesto di
impegnarsi nello studio, se lavora gli viene chiesto di continuare a farlo.
Se, poi, è escluso contemporaneamente dall'impegno scolastico e da
quello lavorativo è opportuno cercare per lui un'attività che gli piaccia e
che lo induca ad uscire dallo stato di disimpegno e di “mancanza di
164
M. Colamussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, op. cit., pp.133-134.
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progettualità”, che spesso è causa o concausa del comportamento
criminoso. Il progetto ha l’obiettivo di scuotere il ragazzo, deve incitarlo
a mettersi alla prova con impegni concreti, nello svolgimento dei quali
possa dimostrare a sé, prima che agli altri, le proprie capacità ed
acquistare stima in se stesso.
Si rende necessario in questo percorso un accompagnamento
costante, un sostegno educativo incessante volto a “puntellare” il
cammino nei momenti di criticità, eventualmente rinforzato da colloqui
con lo psicologo. E’ opportuno che i Servizi seguano il percorso del
ragazzo con verifiche costanti che permettano una rimodulazione
laddove necessaria, apportando modifiche al programma quando
l'adolescente incontra ostacoli psicologici o presenti nell'ambiente
sociale, che possono mettere a repentaglio il buon esito dell'intero
progetto educativo.
L’assistente sociale in primis, e tutte le figure adulte di riferimento
che a vario titolo prendono parte al progetto, devono fungere da guida e
da argine al tempo stesso, supportando il ragazzo, attraverso il dialogo
costante ed il confronto, affinché non smarrisca il senso del progetto né
la sua disponibilità ad esso. E’ infatti proprio tale disponibilità, intesa
come impegno e desiderio del ragazzo a utilizzare l’evento reato e il
progetto stesso quale occasione per guardare e sentire la propria vita in
modo diverso, che gli permette di mettersi in gioco in un percorso ove
possa sia scoprire e impiegare risorse e potenzialità, sia affrontare
carenze e fragilità. Ed è proprio questa disponibilità a mettersi in gioco
e a sentirsi in prova quella tensione interiore in grado sostenere
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l’impegno e la motivazione al fare, oltre al mero adempimento di un
compito, in direzione della crescita e della responsabilizzazione165,
ragione per cui va fortemente sostenuta.
Un aiuto al minore, in tal senso è certamente da considerarsi la
relazione che egli instaura con l’assistente sociale, unica figura deputata
a seguirlo per l’intera durata del percorso. La chiarezza, l’attenzione ai
percorsi, il dialogo, permetteranno al ragazzo di fidarsi e di lasciarsi
guidare. Naturalmente perché ciò accada è necessario che vi sia
competenza e attenzione da una parte ma anche apertura dall’altra.
Bisogna al riguardo considerare che l’obiettivo che accomuna tutti i
vertici osservativi istituzionali e professionali nel procedimento penale
minorile è l’attuazione della valenza educativa nell’applicazione della
norma. Il criterio definito “educativo”, previsto dal legislatore è teso al
ripristino delle potenzialità evolutive nella personalità in formazione e
rappresenta con ciò il nucleo fondante la tutela del minore che delinque
e il suo diritto alle condizioni che ne assicurino la crescita. Ciò è
possibile attraverso un supporto al processo maturativo dell’adolescente
antisociale che i servizi psico-socio-educativi possono rendere operativo
nella messa alla prova, con un approccio mirato ed individualizzato alle
specifiche esigenze riabilitative del singolo adolescente. Già i primi
colloqui possono in tal senso essere decisivi per l’aggancio relazionale
dell’adolescente deviante il cui bisogno è di ricreare con l’operatore le
condizioni di affidabilità, attendibilità e contenimento mentale166.
Bisogna tener presente che, come affermano Meltzer e Harris, “lo
165
A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 145. 166
D. W. Winnicott, La fa iglia e lo sviluppo dell’i dividuo, Armando, Roma, 1968.
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sviluppo del pensiero è legato alla modulazione della sofferenza
psichica, implicita in ogni crescita e in ogni sviluppo”167, ma proprio la
possibilità di sentire tale sofferenza condivisa, raccolta e capita
dall’operatore, consente e facilita la trasformazione di una relazione
nata in un contesto di controllo, coatto, in una relazione di aiuto allo
sviluppo. Naturalmente perché ciò accada è necessario un tempo, il
“tempo della relazione”: l’adolescente può aver bisogno, ad esempio, di
essere a lungo “cercato” con ripetute convocazioni mettendo per primo
“alla prova” la disponibilità dell’operatore e la sua motivazione ad
accoglierlo, oppure può mettere alla prova lo stesso setting con la
discontinuità della presenza, o con la riproposizione di vari agiti
all’interno dei colloqui che richiedono una decodifica puntuale di ogni
comunicazione preverbale, gestuale o motoria. La stessa carenza
motivazionale alla proposta di trattamento può essere rivisitata
dall’operatore con un apporto personale emozionalmente correttivo
fondato sulla capacità di guardare quel blocco come occasione di un
incontro che riconosca e liberi le potenzialità della crescita168.
Altro elemento di sostegno e accompagnamento del minore è da
considerarsi il supporto psicologico, ciò a prescindere dalle
caratteristiche cliniche dei ragazzi. Tale intervento, sottolinea la
Mestitz, non ha necessariamente un’accezione terapeutica, ma può
concretizzarsi in maniera più complessa e articolata, prevedendo diversi
167
D. Meltzer, M. Harris, Il ruolo educativo della famiglia. Un modello psicoanalitico dei processi di apprendimento, Centro
Scientifico Editore, Torino, 1986. 168
W. R. Bion, Una Teoria del pensiero, in Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 1979.
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livelli di attivazione, centrati sia sul ragazzo, che sulle interazioni tra i
vari attori coinvolti nel progetto.
Per quel che concerne il minore, l’intervento si configura come un
elemento di sostegno per il cambiamento, atto a sollecitare i compiti
evolutivi peculiari dell’adolescenza contestualizzandoli nell’ambito della
vicenda penale, ciò affinché l’esperienza della messa alla prova possa
essere l’occasione per attivare, potenziare e mantenere un nesso tra le
dimensioni del “fare”, del “sentire” e del “pensare”, al fine di evitare
che il progetto riproponga le scissioni tipiche di questa fase evolutiva.
Elemento chiave è la possibilità di un “ascolto competente” rispetto alle
esigenze e ai bisogni dell’adolescente, capace di riconoscere l’esistenza
del ragazzo nelle sue potenzialità e fragilità, di accoglierne il bisogno di
visibilità, di dar valore alle sue risorse, proteggendolo dal senso di
“nullità” e “incapacità”, spesso presente nel vissuto di questi
adolescenti.
Obiettivo del sostegno psicologico è, in sintesi,quello di costruire un
senso alla storia del ragazzo, al reato, al progetto, nella consapevolezza
che proprio la costruzione di senso garantisce il nesso tra il progetto di
messa alla prova e la vita stessa del ragazzo169. Ne consegue pertanto
che il coinvolgimento della famiglia sia da ricercare col massimo sforzo
al fine di evitare il rischio che il ragazzo compia dei passi in una
direzione, mentre il suo contesto di appartenenza, ove comunque si è
generato il disagio del minore, resti immobile, con il risultato di creare
una pericolosa scissione che non può che alimentare ulteriore confusione
169
Ivi, pp 155-156.
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e disagio. Naturalmente vi sono anche casi caratterizzati da
problematiche particolarmente gravi, per altro in aumento, ove è
necessario attivare veri e propri percorsi terapeutici.
Va purtroppo congiuntamente rilevato che l’importanza di porre in
essere un intervento di questo tipo, spesso si scontra con i vincoli della
realtà, ovvero con problemi organizzativi dettati dalla scarsità di risorse
e dall’esiguità del personale, come anche dall’enorme numero di
soggetti in carico all’USSM, numero che, per altro, sta risentendo anche
degli effetti delle recenti modifiche normative che hanno esteso la
competenza dei Servizi minorili fino al compimento dei 25 anni di età dei
cosiddetti “giovani adulti”170.
Altro elemento di difficoltà è infine la resistenza, non tanto del
minore, quanto soprattutto del suo contesto familiare, che agendo in tal
modo non fa che destabilizzare il cammino del giovane.
Punto essenziale, vale a dire obiettivo da non perdere mai di vista in
ogni impegno o attività del progetto, è che il minore seppur lentamente,
si fortifichi attraverso “pensieri e passi nuovi”, in modo tale da
“reggere” eventuali elementi destabilizzanti provenienti dal contesto
ambientale di appartenenza, sia durante il progetto che soprattutto
dopo la sua conclusione, per poter invece riallacciare il suo legame con
la società. E’ allora essenziale trovare modalità originali che permettano
170
Si tratta di ragazzi che hanno compiuto il reato da minorenni e che, secondo quanto previsto dalle disposizioni di
attuazio e del p o esso pe ale i o ile, i a go o i a i o ai “e vizi i o ili fi o all età di a i a t. D.Lgs. luglio 1989 n. 272). Tuttavia il recente art.5 del Decreto Legge 26 giugno 2014 n. 92, convertito con modificazioni in Legge
11 agosto 2014, n.117, odifi a l a t. este de do l ese uzio e dei p ovvedimenti limitativi della libertà personale
applicati ai minori dal 21° al 25° anno di età. Pertanto attualmente la competenza dei Servizi minorili è estesa fino al
compimento dei 25 anni.
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109
all’adolescente di riflettere sul fatto compiuto puntando in particolar
modo sullo svolgimento di attività che rinforzino la solidarietà sociale.
A tal fine la quasi totalità dei progetti di messa alla prova prevede
prescrizioni concernenti attività di volontariato: esse permettono al
ragazzo di eseguire una riparazione simbolica, poiché, commettendo il
reato, egli non ha danneggiato solo la vittima, ma tutta la collettività, la
quale viene idealmente risarcita attraverso lo svolgimento di attività
quali la cura di persone bisognose, la pulizia delle spiagge o dei giardini
pubblici, l’impegno in una mensa per le persone più svantaggiate e
qualsiasi altra attività di utilità sociale. L’obiettivo è quello di
sensibilizzare il giovane verso una determinata problematica sociale che
possa costituire un momento di sensibilizzazione, di concreta
maturazione e di effettiva responsabilizzazione.
Altro elemento cardine, funzionale ad un possibile recupero è
l’inserimento del ragazzo in un’attività occupazionale: infatti offrire una
fonte di reddito, sicura e non più illecita, dovrebbe favorirne la
fuoriuscita dal circuito deviante e la conseguente adesione a un nuovo
stile di vita, più regolare. Altra possibilità in tal senso è l’inserimento in
attività o progetti di apprendistato lavorativo, ossia corsi di formazione
che possano far sì che il giovane “impari facendo”. Occasioni, queste,
preziose nella misura in cui consentono un apprendimento concreto
legato ad un mestiere specifico, ma in un contesto “protetto” che
“prepara” il ragazzo al mondo del lavoro attraverso il rispetto
dell’orario, delle diverse mansioni, del gruppo di lavoro.
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110
Quanto detto in riferimento alle prescrizioni impartite dal giudice
nel provvedimento di messa alla prova, trova conferma nei dati
ufficiali171: dall’analisi dei 3261 provvedimenti emessi nel 2014, di
seguito riportata, emerge infatti, che la maggior parte di esse riguarda
le attività di volontariato e socialmente utili, rivolte alla comunità in
generale e non specificamente alla vittima del reato, seguono quelle
riguardanti le attività di studio e lavorativa.
Tabella 3 - Prescrizioni impartite ai minori messi alla prova ai sensi dell’art. 28
D.P.R. 448/88. Anno 2014.
Prescrizioni N. prescrizioni
Colloqui e sostegni educativi 3.246
Attività di volontariato e soc. utili 2.621
Attività di studio 1.475
Attività lavorativa 804
Permanenza in comunità 274
Attività sportiva 540
Orientamento formativo/lavoro 452
Attività di socializzazione 327
Conciliazione parte lesa 159
Invio all'Ufficio di mediazione 156
Risarcimento simbolico del danno 135
Frequenza in centro diurno 77
La tabella, mettendo in luce i principali elementi costituenti il
progetto di messa alla prova, evidenzia anche un dato importante
riguardante l’attività sportiva, reputata uno strumento educativo valido
soprattutto per trasmettere ai ragazzi l’importanza delle regole. Mentre
un dato senza dubbio ancora insoddisfacente risulta essere quello che
171
Cfr. Tabella 1.7 in www.giustiziaminorile.it : La sospensione del processo e messa alla prova – Analisi statistica – anno
2014.
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111
riguarda la possibilità della mediazione e della conciliazione con la parte
lesa.
In relazione a tale dato è utile ricordare che l’ultimo elemento
indicato dall’art. 27 alla lettera d) dispone che i Servizi debbano
individuare le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare
le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne
con la persona offesa, ma la tabella ne mette in luce la difficoltà
attuativa. In particolare la valorizzazione delle vittime, auspicata per
altro dalla recente Direttiva Europea172, in ambito minorile, trova il suo
unico spazio normativo proprio nell’istituto in esame nel preciso intento
di responsabilizzare il minore deviante e riconoscere maggiore dignità
alla vittima173. Al riguardo le modalità riparative-conciliatorie
principalmente praticate sono di vario tipo: risarcimenti simbolici,
versamenti ad enti caritatevoli di una somma proveniente dall’attività
lavorativa del soggetto, ma anche una lettera di scuse del reo alla
vittima, come pure un incontro di riconciliazione tra i soggetti coinvolti.
Questo tuttavia va adeguatamente ponderato e preparato tenendo conto
che non sempre la vittima esprime il suo consenso in tal senso e che la
partecipazione del minore ha spesso una natura strumentale, in quanto
le aspettative dell’imputato sono orientate, almeno inizialmente ad un
ritorno del risultato della mediazione nel procedimento penale che lo
vede coinvolto. Da più parti inoltre ne è stata evidenziata l’opportunità
solo per i reati di spessore leggero, per quei minori cioè che non hanno
172
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2012/29/UE, Recante norme minime in materia di diritti, assistenza e
protezione delle vittime di reato. 173
M. Colamussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, op. cit., pp.135.
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112
stabilmente assunto modelli devianti174. E’ importante, perciò, che
questa esperienza non sia presentata al minore e alla vittima come
passaggio decisivo del progetto, ma piuttosto come una fase eventuale,
volta esclusivamente a instaurare e favorire una reciproca conoscenza,
evidenziando, altresì, a entrambi questi soggetti, come l’esito positivo
del progetto dipenderà non dall’eventuale riappacificazione, ma
dall’essere riuscito il giovane a intraprendere uno stabile stile di vita
regolare. Condizione essenziale perché questa esperienza sortisca i suoi
effetti è che venga condotta da una figura terza, dotata di preparazione
specialistica e in assenza di tutte le altre figure strettamente
processuali.
Altro tipo di prescrizioni contenute nel progetto sono legate al reato
che l'adolescente ha commesso e all'ambiente sociale nel quale è
maturato l'evento criminoso, per cui accanto alle esortazioni al fare si
rende opportuno aggiungere una serie di obblighi e divieti, secondari,
ma, pur sempre, necessari per la tenuta complessiva del soggetto nei
confronti dell’intero progetto. In relazione a ciò si danno le opportune
indicazioni all'adolescente sui luoghi e le persone da frequentare, per
esempio, viene ordinato al ragazzo di non frequentare un locale dove
egli ha partecipato a una rissa, ciò in vista di una riqualificazione del suo
spazio affettivo e sociale e dell'orizzonte culturale a cui dovrà fare
riferimento in futuro. E’ da ritenere, infatti, che il soggetto che delinque
abbia una personalità segnata da una continua crisi d’identità che lo
rende bisognoso di un confronto costante, sia pure in termini oppositivi,
174
Appunti dal Convegno Dal di e al fa e a cura dei Servizi Minorili della Campania, Nisida, 29-05-2014.
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113
con regole certe. Ciò proprio in considerazione del fatto che la sua storia
personale è, spesso, segnata dall’assenza di validi punti di riferimento,
in grado di sostenerlo e contenerlo nel suo processo di crescita
personale. Da qui, la necessità di fissare tra le prescrizioni tutta una
serie di obblighi e divieti, di rispetto delle regole, sino a quel momento,
forse, non efficacemente gestiti in maniera matura e responsabile.
Da quanto detto, emerge chiaramente che non esiste un modello
unico e consolidato di programma, una sorta di progetto standard,
applicabile indistintamente a tutti: le prescrizioni devono essere
modellate a misura del ragazzo di cui ci si occupa e stabilite in modo da
risultare adatte alle particolari storie individuali, alle diverse personalità
e agli specifici momenti evolutivi dei singoli minorenni.
Risulta, pertanto, evidente che nell’elaborazione di un progetto di
messa alla prova gli operatori debbano ispirarsi alla flessibilità.
Peculiarità, questa, che offre ai medesimi la possibilità di sviluppare
iniziative e idee soprattutto per quanto riguarda gli aspetti educativi dei
progetti175. E’ questo lo spazio in cui, più che in ogni altro, l’operatore è
chiamato a creare, a “inventarsi cose nuove”.
L’innovazione dell’istituto in esame è, infatti, non solo nel dettato
normativo quanto soprattutto nei contenuti, nel “come” esso viene
attualizzato. Dunque il valore aggiunto che rende realmente innovativa
l’introduzione dell’istituto in esame è lo stile di chi elabora il progetto. I
progetti che si caratterizzano per una capacità creativa di proporre
attività originali e valide sotto il profilo educativo traggono origine da
175
A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 95-96.
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114
uno stile personale capace di abbandonare modalità routinarie,
scongiurando qualsiasi automatismo che mal si concilia con la pratica
educativa, per abbracciare piuttosto pratiche permeate di tensione
all’utopico, disposte ad inventare, a rischiare prescindendo dalle risorse
a disposizione, a dar fiducia, a mettersi in discussione.
Innovare vuol dire prendere a cuore la storia di quel particolare
ragazzo e provare a darvi una risposta adeguata nella direzione del
possibile e dell’utopico.
3.3. La messa alla prova in comunità: un’innovazione
nell’innovazione.
La tabella 3, precedentemente riportata, mette in luce un ulteriore
dato particolarmente significativo: quello riguardante la prescrizione di
permanere in una comunità per tutto il periodo di prova o solo per una
parte di essa, che nel 2014 è stata disposta in 274 provvedimenti sui
3261 art. 28 concessi176.
Tale dato impone uno spostamento di prospettiva verso una
particolare modalità attuativa dell’art.28: quella che prevede che il
progetto di messa alla prova possa attuarsi all’interno di una comunità
residenziale. Al riguardo, prima di entrare nel merito dell’argomento, è
opportuno soffermarsi previamente a considerare il ruolo che le
176
In riferimento a ciò è comunque bene ricordare che nei confronti di uno stesso soggetto possono essere disposti più
p ovvedi e ti di essa alla p ova el o so di u a o: i pa ti ola e i . p ovvedi e ti dell a o ha o riguardato 2.942 minori.
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115
comunità, pubbliche e del privato sociale, sono deputate a svolgere
nell’ambito del percorso penale minorile177.
Il processo penale minorile, come già evidenziato, si prefigge lo scopo
di coniugare l’esigenza di dare una risposta al reato con quella di
proteggere il percorso evolutivo di crescita dell’adolescente,
evitandogli, per quanto possibile, lo sradicamento dalle relazioni
affettive primarie e dal contesto naturale di socializzazione,
salvaguardandone le esigenze educative e di sviluppo. Per tale ragione è
previsto, tra i Servizi deputati alla risposta sanzionatoria connessa a
quella di non interrompere o di ristabilire i processi educativi, quello
della “Comunità”178.
La “Comunità” è uno dei Servizi Minorili della Giustizia previsti
dall’art. 8 D.Leg.vo. 272/89, finalizzato all’applicazione degli artt.18
comma 2, 18 bis, 22 e 36-37 del DPR 448/88. E’, inoltre, utilizzata,
anche senza riferimenti normativi espliciti, in associazione all’art. 28 del
DPR 448/88 ed agli artt. 47, 47 bis e 47 ter della legge 354/75179.
Può quindi esservi affidato il minore che si trovi in una delle seguenti
condizioni penali:
Arresto o fermo, ai sensi dell’art.18 comma 2, in attesa di
interrogatorio da parte del Pubblico Ministero;
177
Le comunità possono essere ministeriali oppure private, di varia tipologia (es. terapeutiche), gestite da associazioni e
oope ative o le uali ve go o stipulate o ve zio i. Le o u ità di etta e te gestite dall A i ist azio e della Giustizia minorile, sono attualmente dieci, dopo la recente chiusura della comunità pubblica Do Peppi o Dia a di
Napoli nel 2014 e di quella di Nisida el aggio ; uest ulti a tuttavia attual e te ope ativa o e Ce t o Diu o. 178
Ciò non toglie che in alcuni casi il ricorso al collocamento in comunità, proprio sulla scorta di opportunità educative,
ve ga disposto dall A.G.M. p o ede te pe o se ti e te po a ei allo ta a e ti del i o e da o testi fa ilia i e elazio ali p egiudizievoli, sia o l i te zio e di p ovo a e u a te po a ea dis o ti uità dall a ie te di vita
originario sia al fine di ristabilire corretti e più adeguati riferimenti valoriali e comportamentali. 179
Vademecum Operativo per le comunità del privato sociale a cura del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia
Minorile.
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116
Mancata consegna del minore alla famiglia da parte della Polizia
giudiziaria, per i minorenni accompagnati a seguito di flagranza,
ai sensi dell’art. 18 bis, co. 4;
Ripetute violazioni degli obblighi imposti dal Giudice nell’ambito
della misura cautelare della permanenza in casa, ai sensi
dell’art. 21, comma 5;
Applicazione della misura cautelare del collocamento in
comunità , ai sensi dell’art. 22;
Prescrizione nell’ambito della sospensione del processo e messa
alla prova con affido alla comunità per lo svolgimento delle
attività di osservazione, trattamento e sostegno, ai sensi
dell’art. 28 comma 2;
Applicazione della misura di sicurezza del riformatorio giudiziario
(eseguita nelle forme dell’art.22) ai sensi dell’art.36;
Misura alternativa alla detenzione (affidamento in prova al
Servizio Sociale), dopo la condanna definitiva ai sensi dell’art.47,
applicata in un numero ristretto di casi.
Il mandato istituzionale cui la Comunità, nel rispetto dei diritti
soggettivi dei minorenni, è chiamata a rispondere è duplice: assicurare
l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria nei confronti
degli adolescenti entrati nel circuito penale e garantire la sicurezza
sociale; restituire il minore al contesto sociale di appartenenza al
termine delle misure. Nel rispondere a tali fini istituzionali, gli obiettivi
che la Comunità persegue, in sinergia con gli altri Servizi (SST e USSM),
sono principalmente quelli di: attivare risorse personali-familiari-
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117
ambientali dei minorenni; rilevare le opportunità educative offerte dal
contesto di vita del ragazzo; attivare il sistema di interconnessione delle
risorse del territorio; predisporre un programma educativo
individualizzato; fornire all’A.G.M. competente valutazioni in merito
all’osservazione sulla personalità del minore; preparare le dimissioni del
minore.
Ne consegue che, proprio per il delicato ruolo che sono chiamate a
svolgere, le Comunità debbano possedere precisi requisiti strutturali.
Al riguardo è l’art. 10, comma 2, D.Leg.vo. 272/89 a disporre in
materia di organizzazione e gestione delle Comunità, indicando che esse
devono rispondere ai seguenti criteri:
Organizzazione di tipo familiare;
Presenza di operatori professionali di diverse discipline;
Presenza di minori non sottoposti a provvedimento penale180;
Capienza massima di dieci unità;
Attuazione di progetti educativi individualizzati;
Utilizzo delle risorse del territorio.
Le caratteristiche elencate pongono in evidenza in particolar modo il
principio dell’integrazione sotto il profilo dell’utenza, delle
professionalità e dell’iniziativa delle diverse Istituzioni.
L’utenza, infatti, deve essere “mista” e non eccessivamente
numerosa per consentire una conduzione ed un clima educativo fluido e
stimolante, oltreché un’organizzazione di tipo familiare. Su tale aspetto
180
Ciò ad eccezione delle comunità ministeriali, nelle quali vengono collocati esclusivamente ragazzi con una misura
penale.
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118
è tuttavia opportuno evidenziare che non tutti reputano tale elemento
una risorsa e il dibattito se sia meglio una comunità “penale” o “mista”
è ancora aperto.
Alcuni infatti sono del parere che un’utenza mista sia un fattore positivo
poiché permette ai ragazzi di confrontarsi con realtà differenti e di non
creare un “ghetto” o un “piccolo carcere” esclusivamente per i ragazzi
che hanno commesso un reato. Peraltro, come sostengono in molti, la
differenza tra percorsi di vita dei ragazzi interessati ad un procedimento
penale e dei ragazzi con procedimento civile è spesso “aleatoria”, nel
senso che frequentemente i problemi, le richieste e i percorsi di vita
degli adolescenti “civili” sono molto simili a quelli degli adolescenti
“penali” e richiedono la medesima attenzione, disponibilità e cura. Tutti
però concordano che è bene che i ragazzi in misura non siano la
maggioranza, in modo che sia più difficile la riproposizione di una
mentalità carceraria.
Non tutti sono però d’accordo sulle comunità miste, perché ritengono
che il “cattivo esempio” dei ragazzi con provvedimento penale possa
influenzare anche il comportamento dei ragazzi con provvedimento
civile, i quali a loro volta rischiano maggiormente di entrare nel circuito
penale.
Ma in realtà il problema principale è la difficoltà di gestione per le
diverse posizioni che questa “convivenza” comporta nell’organizzazione
e nella gestione della vita comunitaria. Infatti, le diverse misure con cui
un adolescente viene collocato in comunità corrispondono a differenti
gradi di libertà riguardanti soprattutto le uscite, il possesso e l’uso del
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119
telefonino, la possibilità di incontrare persone diverse dai familiari,
aspetto, questo che ricade inevitabilmente sia sulla gestione quotidiana
sia proprio sulla proposta educativa che non può non tener conto delle
esigenze giudiziarie di ciascuna misura, ciò a scapito dei minori non
sottoposti a provvedimento penale. Inoltre, proprio la presenza di minori
non sottoposti a misura penale potrebbe rendere più “morbido”
l’approccio anche ai ragazzi penali, cosa senz’altro non opportuna181.
Appare chiaro, da quanto detto che la questione non è semplice e
presenta in entrambe le posizioni nodi cui le comunità devono far fronte
nella ricerca di un non facile equilibrio nella quotidiana prassi della vita
comunitaria che si dispiega tra le esigenze giudiziarie e quelle
educative.
Per quanto riguarda invece il principio dell’integrazione sotto il
profilo organizzativo, tale caratteristica è richiesta tra operatori con
professionalità afferenti a diverse discipline e a differenti Istituzioni,
comprese quelle presenti sul territorio, al fine di utilizzare
razionalmente le risorse.
Inoltre, a tutela del minore, è previsto che le comunità debbano
essere “riconosciute o autorizzate dalla Regione competente per
territorio”. Per quel che concerne la Regione Campania, l’autorizzazione
e il controllo delle strutture sono attualmente disciplinate dal
Regolamento Regionale del 7 aprile 2014 n.4182.
181
M. Camonico (a cura di), Ragazzi Fuo i . Adoles e ti e pe o so pe ale. P ati he di a oglie za elle o u ità socioeducative, Comunità edizioni, Milano, 2009, pp 67 – 73. 182
Regolamento di attuazione della legge regionale 23 ottobre 2007, n.11 (Legge per la dignità e la cittadinanza sociale.
Attuazione della legge 8 novembre 2000, n. 328).
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120
Infine in riferimento alla frequenza del ricorso alla misura del
collocamento in comunità, è interessante considerare i dati ufficiali,
riportati nelle Tabelle 4 e 5.
Questi mettono in luce che negli ultimi anni la detenzione assume
sempre più per i minorenni carattere di residualità per lasciare spazio a
percorsi e risposte alternativi, sempre a carattere penale.
Congiuntamente si sta ricorrendo con frequenza crescente
all’applicazione della misura del collocamento in comunità. Questa
infatti non essendo caratterizzata dalla rigidità propria dell’Istituto
penale minorile, viene a configurarsi più propriamente come il luogo
dove si offrono al minore opportunità educative e di conoscenze diverse
dai suoi vissuti e gli si prospettano e indicano alternative alle sue scelte
devianti. La misura del collocamento in comunità, pertanto, proprio per
la sua capacità di contemperare le esigenze educative con quelle
contenitive di controllo, risulta essere quella che meglio interpreta la
natura cautelare del provvedimento restrittivo e la funzione educativa
che, in generale il rito minorile si propone di conseguire183, proprio per
questo tale misura è utilizzata non solo quale misura cautelare, ma
anche nell’ambito di altri provvedimenti giudiziari.
Dalle statistiche ufficiali si evince che i collocamenti nelle comunità
pubbliche e private disposti nell’anno 2014 sul territorio nazionale sono
stati 1.716. Il principale motivo (58%) è stato, come anche negli anni
passati, l’applicazione della specifica misura cautelare prevista
dall’art.22 del D.P.R. 448/88. In alcuni casi (23%) l’ingresso in comunità
183
M. Colamussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, op. cit., p. 152.
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121
è avvenuto a seguito della trasformazione dalla custodia cautelare
(art.23) nella misura meno afflittiva del collocamento in comunità o per
rientro dopo il periodo di aggravamento in I.P.M. disposto dal giudice.
Sono risultati poco frequenti i collocamenti come applicazione di misura
alternativa o di sicurezza. Infine un discreto numero di collocamenti in
comunità (14%) è stato disposto dal giudice nell’ambito di un
provvedimento di messa alla prova, dato che conferma il trend degli anni
precedenti184, come si evince dalla Tabella 4.
Come già evidenziato, l’istituto giuridico della sospensione del
procedimento e messa alla prova, essendo un percorso previsto in ambito
penale accompagnato da elementi di sostegno educativo, implica la
formulazione di un progetto di intervento da parte dei Servizi Minorili
affidatari del minore in collaborazione con quelli istituiti presso l’Ente
Locale. Elemento, questo, estremamente importante dal punto di vista
pedagogico, giacché consente e impone un’attenta valutazione del caso,
in tutte le sue dimensioni, nonché la scelta della strategia migliore
rispondente alle esigenze di crescita di quel particolare minore. Tuttavia
tale valutazione può rilevare situazioni particolarmente complesse ove,
pur essendo auspicabile e possibile la concessione dell’art. 28, vi siano
elementi che ne rendano difficile la sua concreta attuazione nel contesto
di appartenenza del minore. Inoltre, ricordando, come già evidenziato,
che la prova può essere disposta solo nei confronti di un minore
giudicato imputabile (in quanto capace di intendere e di volere) si
comprende quanto possa diventare complicato disporre una messa alla
184
www.giustiziaminorile.it/statistica/analisi_statistiche/sospensione_processo/Messa_Alla_Prova_2014.pdf
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122
prova in tutti quei casi in cui il soggetto, autore di reato, sia portatore di
problemi di ordine psicopatologico, che tuttavia non lo rendano
incapace, neppure parzialmente, di intendere e di volere185. In queste
particolari situazioni, che per svariati ordini di motivi vengono definite
“multiproblematiche”186, sempre nell’interesse del minore, può essere
ritenuta opportuna l’esecuzione della messa alla prova in ambito
comunitario. Questa particolare modalità applicativa dell’art. 28 non è
stata esplicitamente prevista dal legislatore, quanto piuttosto
sperimentata in itinere, suggerita dal concreto svolgersi dell’esperienza
e dalle molteplici e diverse situazioni che essa poneva innanzi. In tal
senso è possibile affermare che essa rappresenta certamente una valida
risorsa socio-educativa non solo per i ragazzi privi di un contesto
familiare adeguato, ma anche per quelli bisognosi di apprendere regole
ordinate di vita nonché per quelli portatori di problematiche specifiche.
Le motivazioni sottese a tale scelta sono da ricercare in una
valutazione della situazione complessiva del minore ove si evidenzi una
particolare fragilità personale e/o del suo contesto di vita, da cui
discende l’opportunità di scegliere una strategia che metta il ragazzo in
condizione di poter affrontare “la prova” con il supporto necessario. In
altre parole laddove si intravede la possibilità e la motivazione del
ragazzo ad impegnarsi in tale percorso ma si riscontrano nella sua storia
elementi tali che lascino presupporre che non sia in grado di affrontare
185
M. Taraschi, Probation e comunità. Strumenti per una pedagogia della devianza, op. cit., pp. 140-141. 186
E da o side a e a he he attual e te si assiste all e e ge e di u a fas ia di uovi ute ti , o posta da agazzi ultip o le ati i e o p o le ati he psi opatologi he he e t a o el siste a giudizia io. Nei asi i ui i si t ovi
di a zi a i o i he o etto o azio i devia ti e he ve go o defi iti ultip o le ati i , vale a di e o espe ie ze di tossicodipendenza o con disturbi psicologici e/o psi hiat i i, o o e valuta e l appli a ilità della essa alla p ova f . M. Taraschi, Probation e comunità, op. cit., p.141).
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123
nel proprio contesto di vita quel cammino, per non privarlo
dell’opportunità di beneficiare dell’art.28, è possibile ricorrere
all’attuazione del progetto in comunità. In tal senso si può dire che la
comunità viene a configurarsi come una sorta di “rete” che ha la
funzione di supportare il ragazzo, fornendogli quegli strumenti di cui sia
lui che il suo contesto di appartenenza appaiono sprovvisti, atti ad
affrontare con successo l’impegno della “prova”, arginandone eventuali
deviazioni dal percorso prefissato e sostenendolo quando in procinto di
cadere. Al riguardo appare opportuno sottolineare l’importanza del
coinvolgimento del minore, come anche della sua famiglia, cui vanno
presentate le motivazioni sottese a tale proposta, chiarificandone il
senso affinché possa comprendere ed aderire al progetto così formulato.
Appare inoltre importante sottolineare come anche l’elemento della
scelta della tipologia di comunità non vada trascurato: questa infatti
richiede un’attenta valutazione della personalità del ragazzo e delle sue
esigenze educative, in quanto un errore nella scelta della comunità può
pregiudicare il progetto già in fase iniziale. Appare importante e
coerente con l’obiettivo di costruire un progetto adeguato poter
modificare la scelta nel caso non risponda alle caratteristiche di
personalità del giovane187. La preparazione stessa del progetto è, in tale
modalità, condizionata dalla individuazione della struttura. Qualora la
comunità sia già stata individuata preliminarmente, o il minore è già
ospite di una struttura individuata per altra misura (frequentemente
187
A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 160.
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124
quella di cui all’art.22 DPR 448/88), la stesura del progetto vedrà la
partecipazione attiva dell’équipe della struttura prescelta.
Nel caso in cui il minore non sia già collocato in comunità l’A.S.
dell’U.S.S.M. unitamente all’A.S. del SST indicherà, dopo che il giudice
ha dato mandato per la valutazione ed eventuale elaborazione del
programma, la comunità con la quale si lavorerà per il programma che
verrà presentato all’udienza fissata per l’applicazione dell’art.28. In
quest’ultima ipotesi avviene solitamente che l’Autorità Giudiziaria
Minorile, prima di concedere il beneficio, incarica l’U.S.S.M. affinché,
nell’arco di un periodo di solito più o meno breve, individui un’idonea
comunità ed effettui una verifica di fattibilità del progetto di messa alla
prova.
Il progetto di messa alla prova in comunità richiede da parte
dell’U.S.S.M. l’esplicitazione di un intervento che sappia muoversi
competentemente nella rete dei servizi e delle risorse territoriali, ne
consegue che i progetti sono necessariamente condizionati dalle forme di
integrazione e dal tipo di scambi preesistenti fra le diverse
organizzazioni coinvolte (servizi / autorità giudiziaria / comunità). In
particolar modo il coinvolgimento dei Servizi Territoriali risulta
strategico anche per il reperimento delle risorse sul territorio.
Il progetto in comunità deve rispondere alle esigenze individuali
disposte nella messa alla prova, che non devono entrare in conflitto con
il progetto educativo della comunità ma integrarsi, allo scopo di
garantire al ragazzo un percorso di reale cambiamento e di rispetto della
sua individualità, all’interno comunque di un percorso penale. La
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125
comunità pertanto entra a pieno titolo nell’elaborazione del progetto di
messa alla prova, che non può prescindere dal progetto educativo
proprio della stessa struttura, ma nello stesso tempo non può coincidere
con il medesimo a scapito della peculiarità e delle esigenze di sviluppo
del ragazzo. Questo richiede flessibilità da parte della struttura
comunitaria, con la quale è necessario costruire e condividere un
programma personalizzato e calibrato alle effettive risorse/fragilità del
ragazzo, teso a perseguire obiettivi condivisi e coerenti con il percorso
penale in atto. Contestualmente la comunità diventa soggetto/oggetto di
azioni di sostegno/monitoraggio da parte dell’U.S.S.M. e del S.S.T., che
svolgono una funzione di raccordo e decodifica delle istanze del sistema
“ragazzo-famiglia-comunità”188.
Il progetto in comunità, inoltre dovrà includere, oltre ai contenuti
già precedentemente illustrati comuni ad ogni progetto di messa alla
prova, le modalità di raggiungimento dei luoghi presso cui si tengono le
attività e gli eventuali spazi di autonomia e responsabilizzazione previsti
(uscite dalla comunità senza l’educatore, permessi periodici di rientro in
famiglia, etc.)189. Tuttavia nella stesura del programma è bene tener
presente che la “vita comunitaria” può già considerarsi una “prova” per
il ragazzo, nel senso che in questo contesto il minore è impegnato in un
faticoso lavoro di investimento su di sé. Pertanto la dimensione della
riparazione, che rappresenta comunque un elemento qualificante del
percorso, viene in questi casi veicolata nell’ambito delle attività
188
Ibidem. 189
Vademecum Operativo per le comunità del privato sociale a cura del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia
Minorile.
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126
educative previste dalla comunità che inevitabilmente richiedono livelli
di impegno a favore della collettività.
Nel periodo di espletamento della prova i Servizi Minorili della
Giustizia svolgono un ruolo determinante di osservazione, di
trattamento, di sostegno e di controllo. Medesime funzioni, in accordo
con l’U.S.S.M., riveste l’équipe della comunità: tutti coloro che hanno in
carico il minore, infatti, devono coadiuvare il giovane nella risoluzione
dei problemi quotidiani e svolgere attività di controllo per valutare
costantemente il rispetto di ciò che è stato concordato nel progetto;
devono, infine, informare il Giudice che ha disposto la messa alla prova
con relazioni periodiche e la redazione, al termine della prova, di una
relazione finale conclusiva.
Tuttavia è opportuno osservare che non tutti considerano positivamente
lo svolgimento della prova in comunità, in quanto proprio questo
elemento “annullerebbe” il senso della prova che per essere realmente
tale dovrebbe essere fatta nel contesto di vita del ragazzo, nel suo
ambiente (famiglia, quartiere, vita di tutti i giorni), perché è solo lì che
“lo si prova” realmente, lì dove si è generato il percorso deviante e dove
poi ritornerà a vivere. Tutti i progetti vanno agiti e sperimentati sul
territorio, in comunità invece il ragazzo non può dare realmente prova
che ha recuperato un comportamento e una vita regolare: in tal senso
quest’aspetto rappresenta una grossa contraddizione190.
Per quel che concerne, invece, l’aspetto più propriamente
normativo, come detto è, questa, una modalità operativa non prevista
190
M. Camonico (a cura di), Ragazzi Fuo i . Adoles e ti e pe o so pe ale. P ati he di a oglie za elle o u ità so io educative, op. cit. , pp 81-82.
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127
esplicitamente dal legislatore, ma il cui utilizzo risulta essere opportuno
e necessario per fornire una risposta adeguata a situazioni
particolarmente complesse. Essa però dal punto di vista normativo
risulta di fatto essere una “forzatura” o quanto meno “un’anomalia”,
infatti se da un lato in udienza il minore viene dichiarato “libero”, in
seguito alla sospensione del processo, dall’altro lo stesso viene di fatto
“ristretto” perché collocato in comunità.
Tale considerazione rimanda inoltre ad un altro punto critico: quello
relativo alla concreta modalità applicativa di tale prassi. Infatti in
assenza di un riferimento normativo esplicito si pone il problema di
dover individuare la formula con cui “consentire” il collocamento in
comunità, punto sul quale non vi è ancora una formula unica applicata in
egual modo sul territorio nazionale: attualmente i diversi Centri di
Giustizia Minorile scelgono la formula che reputano più adatta a
sciogliere il nodo in questione.
Il CGM di Bologna, ad esempio, dal punto di vista amministrativo
assimila la messa alla prova in comunità alle misure penali propriamente
dette, facendosi carico delle spese di soggiorno del collocamento in
comunità, così come accade ad esempio, per la misura cautelare di cui
all’art. 22 del DPR 448/88.
Altra invece è la gestione da parte del CGM di Napoli, ove con
l’applicazione dell’art. 28 viene disposta, congiuntamente ad esso,
l’applicazione della misura amministrativa del collocamento in Comunità
in via di urgenza ex art.25 R.D.L. 1404/34, disciplinante le misure
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128
applicabili ai minori irregolari per condotta o per carattere191. In tal
caso, pertanto la “prova di irregolarità della condotta e del carattere”,
chiaramente manifestata dall’evento reato, nonché dalla valutazione
dalla situazione personale, familiare e socio-ambientale del ragazzo,
diviene il presupposto che consentendo l’applicazione del citato art. 25,
permette di uscire dall’empasse normativo. L’applicazione del suddetto
articolo, comportando l’apertura di una procedura amministrativa la cui
gestione è a carico di altro Giudice, implica la fuoriuscita del minore
dall’area penale dal punto di vista amministrativo/economico,
rimandando l’onere economico relativo alla permanenza in comunità al
Comune di appartenenza del minore, pur restando il CGM a tutti gli
effetti l’organo di riferimento (unitamente all’USSM e all’AGM) cui
comunicare tutto ciò che concerne l’andamento della prova.
Ciò che appare opportuno sottolineare, inoltre, è che l’apertura
della procedura amministrativa ex art.25 R.D. 1404/34, di fatto
comporta la coesistenza di un procedimento parallelo a quello penale
ove sono chiamati a decidere altri giudici, togati ed onorari, che in
merito alla permanenza in comunità possono anche esprimere
valutazioni altre rispetto a quanto valutato dall’equipe interistituzionale
comprendente i referenti dell’USSM, del SST e della comunità stessa.
Può, in altre parole, verificarsi la circostanza che il minore pur avendo
191
Misure applicabili ai minori irregolari per condotta o per carattere: Quando un minore degli anni 18 dà manifeste prove
di irregolarità della condotta o del carattere, il procuratore della Repubblica, l'ufficio di servizio sociale minorile, i genitori,
il tutore, gli organismi di educazione, di protezione e di assistenza dell'infanzia e dell'adolescenza, possono riferire i fatti al
Tribunale per i minorenni, il quale, a mezzo di uno dei suoi componenti all'uopo designato dal presidente, esplica
approfondite indagini sulla personalità del minore, e dispone con decreto motivato una delle seguenti misure:
1) affidamento del minore al servizio sociale minorile;
2) collocamento in una casa di rieducazione od in un istituto medico-psico-pedagogico. Il provvedimento è deliberato in
Camera di consiglio con l'intervento del minore, dell'esercente la patria potestà o la tutela, sentito il pubblico ministero.
Nel procedimento è consentita l'assistenza del difensore. Le spese di affidamento o di ricovero, da anticiparsi dall'Erario,
sono a carico dei genitori. In mancanza dei genitori sono tenuti a rimborsare tali rette gli esercenti la tutela, quando il
patrimonio del minore lo consente (Articolo così sostituito dalla l. 25 luglio 1956, n. 888.)
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129
concluso il progetto di messa alla prova con esito positivo, debba
continuare il percorso in comunità perché il Giudice competente, o
anche l’equipe interistituzionale stessa, non reputi ancora opportuno il
rientro in famiglia. Decisione che, anche se opportuna e necessaria,
potrebbe non essere compresa dal minore, per il quale la sua
permanenza in comunità resta legata esclusivamente al reato commesso
e conseguentemente al circuito penale. Oppure, ancora, può accadere
che il Sevizio Territoriale competente, ente erogatore, spinga per un
rientro a casa del minore durante il corso della prova, cosa possibile ed
anzi auspicabile, a patto però che i motivi di tale decisione siano legati
al bene del minore, all’andamento del suo percorso, agli obiettivi
evolutivi raggiunti, e non ascrivibili meramente a fattori di ordine
economico.
Queste considerazioni mettono in luce alcune criticità, senz’altro
riconducibili ad una prassi di nascita recente, dunque una prassi che va
definendosi in itinere e che va scontrandosi anche con l’annoso problema
delle spese di soggiorno in comunità. In ogni caso è possibile affermare
che tale prassi rappresenta “un’innovazione nell’innovazione”, ossia una
modalità applicativa senza dubbio innovativa nata sul campo,
nell’applicazione dell’art.28, già definito da più parti “un’innovazione
coraggiosa”. Un’innovazione dunque nata “dal basso” cioè dal concreto
svolgersi dei progetti, proprio con l’intento di poter meglio andare
incontro alle molteplici esigenze che la variegata realtà dell’utenza
penale minorile pone innanzi, secondo il già citato principio della
flessibilità.
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130
La serie storica riportata nella Tabella 4 inerente il periodo dal 2003
al 2014, sul territorio nazionale, mette in evidenza un andamento
crescente del numero dei provvedimenti di sospensione del processo per
messa alla prova da svolgersi in una struttura residenziale: tale numero
infatti è passato dai 153 del 2003 ai 274 del 2014192.
Tabella 4 - Dati su base nazionale
Anni Ingressi in IPM
Collocamenti in comunità
(esclusi i trasferimenti)
Provvedimenti di art. 28.
Collocamenti in
Comunità per art.
28.
2003 1.581 1.423 1.863 153
2004 1.594 1.806 2.177 188
2005 1.489 1.926 2.145 274
2006 1.362 1772 1.996 268
2007 1.337 1896 2.378 241
2008 1.347 1965 2.534 253
2009 1.222 1825 2.701 269
2010 1.172 1821 3.067 296
2011 1.246 1926 3.217 269
2012 1.252 2038 3.368 292
2013 1.201 1894 3.456 271
2014 992 1716 3.261 274
Ma ciò che appare significativo sottolineare è, non tanto il numero in
termini assoluti dei provvedimenti di messa alla prova da svolgersi in una
struttura residenziale, che appare comunque complessivamente esiguo,
quanto piuttosto il progressivo utilizzo di tale formula, sia a livello
nazionale che campano. Infatti anche la serie storica riportata nella
Tabella 5 evidenzia come presso il CGM di Napoli nel periodo dal 2003 al
2014 sia stato in costante aumento il numero dei provvedimenti di art.28
192
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131
emessi e come nell’ultimo decennio si stia facendo largo questa formula.
Solo il dato relativo agli ultimi due anni in esame indica un decremento,
ma tale diminuzione può essere letta, per il momento, come un
assestamento fisiologico dopo un periodo abbastanza lungo di continui,
seppur minimi aumenti. Saranno i dati dei prossimi anni ad indicare se ci
si trova dinanzi ad un inversione di tendenza
Tabella 5 – Dati CGM Napoli
Anni Ingressi in IPM (Airola e Nisida)
Collocamenti in comunità
Provvedimenti di art. 28
Collocamenti in Comunità per
art. 28
2003 267 213 119 1
2004 249 231 152 0
2005 250 218 106 0
2006 135 314 157 10
2007 271 357 166 14
2008 261 306 201 12
2009 305 375 297 15
2010 242 392 434 18
2011 236 376 506 27
2012 235 390 258 28
2013 235 360 504 18
2014 196 252 606 19
Ulteriore conferma del consolidarsi di tale prassi e del fatto che essa
non è, oggi, considerata un’eccezione sporadica quanto piuttosto una
possibile risposta alle esigenze del giovane reo, è rintracciabile anche
nei modelli prestampati utilizzati dall’A.G.M. per disporre il
provvedimento in oggetto. Infatti fino al 2012, come si evince dalla
Figura 1, è presente nel modello la sola dicitura della “revoca della
misura cautelare in corso”, mentre l’applicazione della misura
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132
amministrativa del collocamento in comunità, come si può vedere, è
successivamente aggiunta manualmente, segno che non era prevista.
Figura 1 – Modello prestampato M.A.P
Dal 2013 invece, la formula con cui si applica la misura
amministrativa del collocamento in comunità è parte integrante del
modello prestampato, come si evince dalla Figura 2.
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133
Figura 2 – Modello prestampato MAP nuovo
Ciò a conferma di una prassi ormai riconosciuta ed entrata a far
parte a tutti gli effetti del ventaglio di possibilità da poter offrire al
giovane reo per meglio rispondere alle sue esigenze educative e di
crescita.
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134
PARTE SECONDA
DALLA TEORIA ALLA PRATICA: LA MESSA ALLA PROVA NELLA COMUNITA’
“C.ED.RO.”
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135
CAPITOLO QUARTO
L’Esperienza della Comunità Alloggio “C.ED.RO.”
Bisognerebbe essere filosofo, teologo, grande conoscitore dell’animo umano e santo,
per essere un perfetto educatore. P. Annibale Maria Di Francia
Là dove vi è la sfida di un ragazzo o di una ragazza che cresce,
vi sia un adulto a raccogliere la sfida. D. W. Winnicott
“Comunità educativa” e “pedagogia difranciana193”: sono questi i
poli intorno ai quali ruota la riflessione dei paragrafi seguenti, il cui
comune denominatore è l’intervento educativo con minori in situazioni
di difficoltà.
La comunità educativa per minori è, infatti, una struttura
residenziale a carattere comunitario, che accoglie minori con situazioni
di disagio personale e\o familiare pregiudizievoli per la loro serena
crescita psicofisica e la loro realizzazione. La comunità ha come finalità
primaria quella di accogliere il minore, impostando uno specifico lavoro
affinché possa sentirsi accettato, ascoltato e compreso.
193
Co tale te i e si fa ife i e to all ope a di “a t A i ale Ma ia Di F a ia Messi a, -1927), presbitero
fondatore, nel 1897 della Congregazione dei Padri Rogazionisti e delle Figlie del Divino Zelo, che dedicò la sua vita
all apostolato ve so gli ulti i. E t ato el alfa ato ua tie e Avig o e della ittà di Messi a e ve uto a o tatto o la pove tà ed il deg ado di uella po zio e di esse a a do ata , o p ese su ito l i po ta za di dedi a si alla
ede zio e o ale dei più pi oli, i ade do he tra tutte le opere sante, quella di salvare i teneri fanciulli è
santissima (A.M. Di Francia, Scritti, vol. 61, p.197). E fu proprio il sentire fortemente la responsabilità per quella
moltitudine ad ispi a lo a asa e tutta la sua ope a sul o a do di Gesù la esse olta, gli ope ai po hi; p egate (rogate, i lati o il pad o e della esse pe h a di ope ai ella sua esse . Il rogate, ossia la preghiera per le
vo azio i uesto il a is a dell o dine da lui fondato), era dunque percepito in funzione del servizio agli ultimi, questo
i fatti il o pito degli ope ai della esse .
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136
Punto centrale dell’agire della comunità diventa l’adattamento
dell’intervento individualizzato di tutela del minore all’interno di un
progetto globale di comunità più specificamente educativo e che, come
tale, meglio si adegua ad una fase successiva del processo d’intervento,
tendente a sostenere una funzione di sostituzione/integrazione alla
famiglia di origine.
Con il termine “comunità”, pertanto, si sottolinea che occuparsi dei
minori non significa soltanto fornire le cure indispensabili alla
sopravvivenza, ma favorire e sostenere il valore di un modus vivendi,
ancor prima che modus operandi, ossia di uno stile fondato
sull’accoglienza e la cura, intese quale clima e musica di fondo sulle cui
note promuovere un approccio centrato sulle relazioni interpersonali, il
cui elemento cardine viene ad essere proprio la figura dell’educatore,
strumento della relazione educativa.
E’ allora essenziale che l’educatore per poter essere educatore,
risponda a domande esistenziali che sempre dovrebbero essere alla base
di ogni riflessione pedagogica. Al riguardo mi appaiono significative le
parole di Pierre Durrande, filosofo, formatore di educatori, quando
afferma che “l’educatore porta in se stesso e semina nel terreno sociale,
che funziona come cassa di risonanza per gli altri, l’interrogativo che lo
assilla: Che cosa significa essere uomini? Chi è l’uomo? Interrogativo che
in lui non è mera speculazione ma responsabilità”194.
Responsabilità, certo! Perché la risposta a quelle domande pone
ciascun uomo di fronte a delle scelte, scelte da cui discende il proprio
194
P. Durrande, L’a te di edu a e alla vita, Edizioni Qiqajon, Magnano, 2012.
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137
modo di essere, dunque di fare. “Le questioni del che cosa siamo e del
chi siamo sono inseparabili”, continua Durrande, “in ognuna vi è un
cammino di conoscenza, ma al cuore di entrambe c'è il mistero di un
incontro”195.
L’esperienza di educatrice in una comunità educativa rogazionista
ha, fin dai primi giorni, stimolato la mia curiosità rispetto al pensiero
ispiratore della proposta educativa della struttura, spingendomi a
chiedermi a quale idea pedagogica si ispirasse: quale responsabilità si
era assunto padre Annibale nell’opera educativa da lui fondata?
La risposta mi viene dalle sue stesse parole, laddove, riferendosi alle
“folle abbandonate”, scrive: “io ho compreso altamente i miei obblighi,
la mia responsabilità…”196, quale assunzione di impegno nei confronti di
uomini e donne, inquadrati all’interno di una teoria esistenziale cristiana
nella quale il limite, la disarmonia, la fragilità, in qualsiasi forma esse si
esprimano nell’individuo (disabilità fisica, psicologica, emotiva, povertà,
marginalità…), non hanno l’ultima parola, ma sono percepite come
occasione di crescita: nella visione evangelica infatti, toccare il limite
può portare al cambiamento, è il limite, la disarmonia, che permette di
mettere in discussione gli schemi strutturati e favorire un processo di
evoluzione197.
Quelle “folle abbandonate” rappresentavano un bisogno e a quel
bisogno egli ha tentato di dare una risposta con un’opera educativa che,
pur rivolgendosi a tutti “gli ultimi”, si dedicava particolarmente ai
195 L. Russo, Quale futuro per la pedagogia difranciana, in La pedagogia di Annibale Maria Di Francia e le nuove sfide
educative, Atti del 1° Convegno internazionale 2014, Quaderni di Studi Rogazionisti, Roma, 2014, p.116. 196
A. M. Di Francia, Gli Orfani, Principi generali, in Scritti, Archivio della Postulazione dei Rogazionisti, Roma, p.277. 197
L. Russo, Quale futuro per la pedagogia difranciana, op.cit., p.116.
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138
fanciulli. Padre Annibale, infatti era mosso dalla convinzione che “non vi
sono esseri maggiormente esposti ai pericoli come gli orfani”.
La responsabilità assunta dal presbitero siciliano dinanzi a bambini e
adolescenti in situazioni di difficoltà, fu allora, a mio avviso, quella di
raccogliere la sfida della loro crescita, pretendendo immensa cura per
quei minori che si trovavano in una situazione incresciosa di
deprivazione. Una cura basata soprattutto su un clima permeato di
“amore e calore umano”, ingredienti indispensabili per far loro
“riacquistare un po’ di fiducia nella vita che li ha già provati con il
dolore”. In questo clima, di accoglienza e affettività, “bisogna che
l’educazione rigeneri e moralizzi” perché “ammassare dei ragazzi per
cibarli e lasciarli vegetare, non è impiantare una casa di educazione, non
è mutare le sorti”198: questa l’idea di educazione elaborata dal padre
che anticipa l’attuale concetto di comunità. “Bisogna cibarli (…), mutare
le sorti (…), preparare l’avvenire (…), l’educazione deve rigenerare (…),
l’istruzione deve rendere possibile il guadagno onesto del pane (…)”: un
progetto educativo, questo da lui proposto, che punta all’emancipazione
del soggetto attraverso un percorso di sostegno che richiama quello che
anni dopo verrà sancito dalla legge 149/2001 che afferma la necessità
“che ai fanciulli in una condizione di deprivazione di famiglia vengano
garantiti: mantenimento, educazione, istruzione in un clima di
affettività”199.
198
T. Tusino, Non disse mai no, Edizioni Paoline, Roma, 1967. 199
Legge 149/2001, Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozio e e dell’affida e to dei minori», nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile.
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139
Ecco allora che dietro la frase di padre Annibale “bisognerebbe
essere filosofo, teologo, grande conoscitore del cuore umano e santo,
per essere perfetto educatore”, si avverte quanto egli desse importanza
alla formazione dell’educatore ad ampio raggio, sostenendo l’importanza
di saper stabilire “buone relazioni di puro e santo affetto”, convinto che
l’incontro, quello autentico, con persone significative possa fare la
differenza, mettendo in discussione certi schemi comportamentali e
promuovendo un cambiamento. Proprio in ragione di ciò in più pagine
ribadisce che “dipende tutto dalla qualità degli educatori” e sottolinea
la qualità degli strumenti: la qualità dell’educatore e la qualità della
relazione, affinché l’incontro ancor prima delle tecniche, possa
promuovere il cambiamento200.
Molto vicine appaiono le indicazioni di Annibale Maria a quelle di
Piero Bertolini, laddove questi definisce l’educatore come un
“perturbatore strategicamente orientato che offrendo informazioni e
provocazioni faccia leva sui processi autogenerativi di rinnovamento
dello stesso ragazzo”201. Il pedagogista torinese delinea, con tali parole,
l’immagine di un educatore non assimilabile ad un contenitore o ad un
airbag che montato sul ragazzo si apre per prevenire o attutire scontri,
conflitti, difficoltà, quanto piuttosto a quella di un elemento che rompa
lo status quo: un perturbatore, consapevole dei suoi processi emozionali,
innanzitutto, ma anche bravo esploratore di quello degli altri; un
facilitatore di esperienze emozionali nuove, creative, diverse; capace di
ampliare il repertorio cognitivo, comportamentale, espressivo del
200
L. Russo, Quale futuro per la pedagogia difranciana, op.cit., p.119. 201
P. Bertolini, L. Baronia, Ragazzi Difficili, op. cit.
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140
ragazzo, sfruttando quella quotidianità dalla quale i ragazzi vengono,
che è poi quella alla quale verranno lasciati. Pertanto, secondo questa
prospettiva l’educatore non è colui che protegge e regolamenta il
comportamento, ma è colui che mette in discussione i significati e lo
schema di comportamento che il ragazzo fin dalla nascita si è dato, a
causa della sua storia particolare. E’ colui che mostra un’alternativa,
una possibilità di scelta diversa: ciò significa far sperimentare al ragazzo
che si può stare nella propria storia in un modo diverso rispetto a quello
che si è acquisito nel corso del tempo e nella propria famiglia; ciò
significa favorirne l’emancipazione ispirando passi nuovi e stimolando la
capacità di scegliere202.
Questa l’idea, attualissima, alla base del progetto educativo di padre
Annibale, questa l’idea che ancora oggi guida e ispira l’intervento
educativo nelle case rogazioniste. Negli scritti del padre, è possibile poi
individuare tutti quegli strumenti educativi pratici che ancora oggi
utilizziamo nel nostro fare educazione: il buon esempio, la cura della
salute, il rinforzo positivo, il tratto amorevole, lo studio, il lavoro. Il
tutto, vale la pena sottolinearlo, ricordando sempre che a nulla vale
utilizzare queste tecniche se alla base non vi è un adulto pronto ad
assumersi la responsabilità di raccogliere la sfida di un ragazzo che
cresce.
202
L. Russo, Quale futuro per la pedagogia difranciana, op.cit., p.117.
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4.1. Presentazione della comunità alloggio “C.ED.RO.”
La comunità alloggio “C.ED.RO” (Comunità Educativa Rogazionista)
pur essendo nata nel 2004, affonda le sue radici storiche nella lunga
esperienza della Congregazione dei Padri Rogazionisti, che nel 1947
diede vita nella città di Napoli all’Orfanotrofio Antoniano, istituto di
carattere educativo assistenziale, sito nel quartiere dei Colli Aminei.
Il modello educativo di quegli anni era, come già evidenziato, quello
delle istituzioni chiuse, secondo i principi dell’assistenzialismo: un
modello proprio di strutture di grandi dimensioni con un numero enorme
di bambini e ragazzi, ove venivano posti in essere interventi di aiuto
standardizzati e per questo spersonalizzati, dunque destinati ad
assolvere principalmente funzioni di assistenza, ossia di custodia e
accudimento materiale, a discapito della soggettività.
Tuttavia anche in quegli anni, l’opera educativa Rogazionista, pur
risentendo dell’impostazione pedagogica del tempo, si caratterizzava
per la particolare attenzione data alla relazione e all’azione educativa.
P. Annibale infatti, era fermamente convinto che “l’educatore è lo
specchio in cui si modellano i ragazzi” e aveva indicato nel sistema
preventivo di don Bosco203, basato su religione, ragione e amorevolezza,
il metodo più idoneo per educare i giovani ed è a questi principi che da
sempre si è ispirata, e ancora oggi si ispira, l’azione educativa dei
Rogazionisti.
Naturalmente la vita, la natura e l’impostazione dell’Istituto
Antoniano, andarono evolvendosi negli anni, adeguandosi ai grandi
203
Il sistema preventivo diffe is e ed i o t asto o uello ep essivo e o uello pe issivo . Il suo fo da e to l a o e, he pe edu a e si t adu e i a o evolezza, appo to pe so ale, p ese za osta te o l edu a do.
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mutamenti di fine secolo. Nella seconda metà del ‘900 si assiste, infatti
ad una lenta e graduale frantumazione del processo di
istituzionalizzazione che ha aperto il varco ad una progressiva
trasformazione degli istituti in comunità.
Fu la legge 184/83, Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei
minori, ad aprire la strada: pur affermando preliminarmente il diritto
fondamentale del minore di essere educato nell’ambito della propria
famiglia, contemplava diverse possibilità di intervento in caso di
inadeguatezza del contesto familiare204. Tale legge, ponendo al centro
l’interesse del minore, sancisce la necessità di interventi improntati al
principio della tutela, atti a ricercare la migliore risposta possibile alla
situazione di disagio del minore o della sua famiglia, attivando per
questo tutte le risorse possibili, istituzionali e non, e contemplando solo
come estrema ratio il ricorso all’istituto assistenziale. Tra i possibili
interventi la legge prevede quello della comunità di tipo familiare,
laddove non sia possibile o opportuno l’immediato affidamento ad una
famiglia o ad una singola persona. Nel medesimo articolo della legge si
richiama l’attenzione sul carattere di temporaneità dell’affidamento205.
La legge 184/83 diede così l’avvio ad un processo di cambiamento
dal quale l’Istituto Antoniano di Napoli non fu escluso. Sebbene lo stile
204
E oppo tu o tuttavia i o da e he u a possi ile i ido eità della fa iglia d o igi e ad alleva e, ist ui e ed edu a e il p op io figlio e a già stata p evista dall a t. C.C he e ita: quando il minore è moralmente o materialmente
abbandonato o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per
alt i otivi i apa i di p ovvede e all’edu azio e di lui, la pu li a auto ità, a ezzo degli o ga i di p otezio e dell’i fa zia, lo colloca in luogo sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione; ed ancor
p i a dai ostitue ti ell a t. della ost a Costituzio e, ove si affe a il p i ipio pe ui ei casi di incapacità dei
genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. 205
Legge 184/83 Art.2: Il minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad
un'altra famiglia, possibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare, al fine di
assicurargli il mantenimento, l'educazione e l'istruzione. Ove non sia possibile un conveniente affidamento familiare, è
consentito il ricovero del minore in un istituto di assistenza pubblico o privato, da realizzarsi di preferenza nell'ambito della
regione di residenza del minore stesso.
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educativo proprio dei Padri Rogazionisti, basato sulle indicazioni del
Padre fondatore, fosse già proiettato verso una dimensione più
propriamente di accoglienza e cura, era necessario un maggiore
adeguamento: così già agli inizi degli anni ’90, l’Istituto Antoniano,
aveva abbandonato la logica assistenzialistica dando vita ad una
comunità educativa di dimensioni contenute, che si proponeva di essere
un sistema aperto alla logica del lavoro in rete, fondato su più
professionalità integrate e basato su approcci educativi atti a mettere al
centro la soggettività e l’unicità della persona.
Successivamente la legge quadro 149/2001, stabilì in maniera
decisiva la chiusura degli istituti entro il 31 dicembre 2006 per far posto
a “comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da
rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia”. Si diede così
avvio in maniera definitiva al processo di de-istituzionalizzazione che ha
visto il passaggio dal modello dell'assistenza a quello dell'accoglienza: da
grandi istituti a piccole comunità di tipo familiare che devono rispondere
a specifici requisiti opportunamente predisposti dalla legge.
Congiuntamente la legge n. 328 del 2000, Legge quadro per la
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali206
stabiliva, nel quadro normativo nazionale, i requisiti minimi strutturali e
funzionali atti a rendere efficaci ed efficienti i nuovi modelli operativi
psico-socio-educativi. Tale legge è stata recepita nella Regione
206
“ opo della legge uad o sull assiste za . / uello di ealizza e un sistema integrato di interventi e servizi
sociali che, attraverso politiche sociali universalistiche, persegue i seguenti obiettivi: garantire la qualità della vita;
assicurare pari opportunità; rimuovere le discriminazioni; prevenire, eliminare o ridurre le condizioni di bisogno e di
disagio degli individui e delle famiglie derivanti da: disabilità inadeguatezza del reddito difficoltà sociali condizioni di non
autonomia. Il sistema si dice i teg ato perché nella realizzazione delle reti di servizi coinvolge sia soggetti del pubblico
che del privato. Altre sue caratteristiche fondamentali sono il coordinamento degli interventi assistenziali con quelli
sa ita i e l i po ta za data al livello te ito iale di zo a.
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Campania dalla Legge Regionale n.11/2007, Legge per la dignità e la
cittadinanza sociale. Attuazione della legge 8 novembre 2000, n. 328,
cui ha fatto seguito nel 2009 il Regolamento Regionale n.16,
disciplinante le procedure, le condizioni, i requisiti comuni ed i criteri di
qualità per l'esercizio dei servizi del sistema integrato degli interventi e
dei servizi sociali, recentemente abrogato dall’entrata in vigore, il 29
Aprile 2014, del nuovo Regolamento Regionale n.4/2014 di Attuazione
della legge regionale n.11/2007, in materia di autorizzazione e
accreditamento dei servizi residenziali, semiresidenziali, territoriali e
domiciliari. Tale regolamento prevede in un dettagliato catalogo le
diverse tipologie di Servizi residenziali e semiresidenziali207.
La Comunità alloggio, secondo quanto indicato nel Regolamento
Regionale n. 4/14, è un servizio educativo residenziale a carattere
comunitario, caratterizzato dalla convivenza di un gruppo di adolescenti
in numero massimo di 8 e di età compresa tra i 13 e i 18 anni, con la
presenza di operatori professionali che assumono la funzione di adulti di
riferimento. La comunità alloggio assicura, nell’arco delle 24h per tutto
l’anno, accoglienza e cura dei giovani, costante azione educativa,
assistenza e tutela, gestione della quotidianità, attività socio educative
volte ad un adeguato sviluppo dell’autonomia individuale,
coinvolgimento dei giovani in tutte le attività di espletamento della vita
quotidiana come momento a forte valenza educativa, inserimento in
attività formative e di lavoro, stesura di progetti educativi
207
Per quel che concerne le strutture di accoglienza residenziali per minori il suddetto regolamento prevede: Comunità di
pronta e transitoria accoglienza; Casa famiglia; Comunità educativa a dimensione familiare; Comunità alloggio; Gruppo
Appartamento. Cfr. Catalogo dei servizi residenziali, semiresidenziali, territoriali e domiciliari di cui al Regolamento di
attuazione della L.R. 11/2007.
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individualizzati, gestione delle emergenze, socializzazione e animazione.
L’equipe che opera nel servizio mette in atto azioni volte a dare risposta
ai bisogni dei minori, alla realizzazione del piano individuale, al rientro
nei propri contesti familiari, ovvero alla realizzazione di programmi di
affido o di adozione. La permanenza degli ospiti può essere estesa fino al
compimento del 21° anno di età limitatamente ai casi per i quali si
rende necessario il completamento del percorso educativo e di recupero.
La comunità alloggio può inoltre ospitare minori sottoposti alle
misure di cui al DPR 448/88 o minori diversamente abili nei limiti del
quaranta per cento della ricettività massima ovvero per quel che
concerne i minori in area penale può ospitarne in un numero massimo di
3 (tra questi ovviamente non vengono considerati i minori in art. 28 in
quanto tale collocamento, come già evidenziato, nella Regione
Campania avviene in misura amministrativa).
Ma l’aspetto cui il Regolamento citato presta maggiore attenzione è
quello delle figure professionali208, aspetto su cui il sistema appare oggi
sempre più attento e selettivo, segno questo di un’attenzione che si è
evoluta in senso qualitativo e che manifesta la volontà di sgombrare il
settore da una certa tendenza, cui si è assistito negli anni passati,
all’improvvisazione e alla superficialità, dettata in taluni casi dalla
convinzione che ogni adulto in quanto tale è un educatore. Pensiero
208
Al riguardo la Comunità Alloggio deve prevedere la seguente dotazione organica: un coordinatore in possesso di laurea
agist ale i psi ologia o i so iologia, i s ie ze dell edu azio e, i s ie ze della fo azio e, i s ie ze dei se vizi so iali,
o equipollenti, con esperienza di almeno un anno nel settore dei servizi sociali, o in alternativa, in possesso di esperienza
almeno quinquennale nel settore dei servizi sociali; figure professionali di III livello, quali educatore professionale laureato
in scienze dell'educazione/formazione oppure psicologo oppure assistente sociale; figure professionali di II livello, con
formazione specifica su tematiche educative e psicopedagogiche relative all'età evolutiva, nonché sulla mediazione
culturale, se presenti minori stranieri (es. qualifiche OPI , OSA). Il servizio deve prevedere, durante le ore diurne, la
presenza di almeno un operatore (II o III livello) ogni 4 minori presenti e, durante le ore notturne, la presenza di almeno
un operatore (II o III livello). Di tali figure il 60% deve essere di II livello e il 40% di III livello. Sono previste poi altre figure
fu zio ali all attuazio e del p ogetto edu ativo della o u ità.
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questo senz’altro apprezzabile ma che si scontra con una realtà, quella
dei minori in difficoltà, che necessità di competenza e interventi
qualificati che non possono assolutamente essere improntati ad un mero
sentimento paternalistico. Certo, è chiaro che non basta un
organigramma perfetto per assicurare un intervento educativo adeguato
ed efficace, ma quanto meno ne è il presupposto e il punto di partenza.
Da quanto detto si evince come nel tempo si sia rinforzato il sistema
di controllo e vigilanza di quanti nelle diverse modalità operano nel
sociale. Ciò per garantire una maggiore qualità del servizio offerto,
attraverso il rispetto di requisiti che non sono meramente strutturali,
quanto volti soprattutto a garantire la presenza di personale
specializzato operante nel settore.
E’ dunque a questi requisiti che oggi risponde l’opera educativa
Rogazionista: la struttura Antoniana, con la chiusura dell’istituto ancor
prima dei termini di legge, vide l’apertura nell’ottobre del 2004 della
Comunità Alloggio “C.ED.RO”, Comunità EDucativa ROgazionista, con
un’utenza, in linea col target fino ad allora accolto, prettamente
dell’area civile e amministrativa. Il passaggio dal vecchio modello
dell’istituto a quello della comunità naturalmente, seppur sancito da una
data precisa, fu di graduale adeguamento e vide il progressivo e deciso
affermarsi di un modus operandi improntato alla costruzione di un clima
di famiglia: dalla scelta del mobilio, alle feste di compleanno, dalla
gestione del tempo ordinario a quella del tempo straordinario, dal
momento dei pasti ai momenti di vita comunitaria. Il tutto sulla base di
una relazione educativa che veniva, con sempre maggiore
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consapevolezza, competenza e responsabilità, a fondarsi sulla
dimensione della cura, declinata in tutte le sue forme nella convinzione
che “sono i legami che si creano tra le persone che permettono di
ricostruire il tessuto della nostra vita quando per diversi motivi viene
strappato, consumato”209.
Il progetto che ha portato all’apertura della comunità “C.ED.RO.”210
è nato dalla consapevolezza che la regione Campania, detiene a livello
nazionale il più elevato tasso di disagio e di devianza giovanile, un triste
primato aggravato dalla trasformazione dello Stato Sociale che sta
attraversando il nostro paese, nel panorama di una società svuotata di
valori umani e culturali in cui la logica della sopraffazione e del profitto
colpisce con più facilità le fasce più deboli ed esposte a rischio di
esclusione e di devianza. Infatti la quasi totalità dei ragazzi cosiddetti "a
rischio" proviene da un'area estremamente anonima e degradata, dove il
disagio giovanile è solo un aspetto, forse il più drammatico, di un
contesto caratterizzato da una qualità della vita estremamente povera
economicamente, socialmente, culturalmente. Questi ragazzi attraverso
i loro bisogni pongono delle domande che chiamano in causa
direttamente la società civile e i suoi sottosistemi: la famiglia, la scuola,
il mondo del lavoro. I problemi legati alla questione minorile in questo
quadro sono mutati in qualità e rilevanza dando vita ad una nuova
complessità che richiede inevitabilmente una nuova cultura
dell'intervento sociale: non più interventi a pioggia ma progetti globali e
209
http://www.anep.it/anep/allegati/file/CNCA___parliamo_ancora_di_comunita%60-dicembre%202012.pdf 210
Per le pagine che seguono cfr. Studi Rogazionisti n.104, Edizione privata della Congregazione dei Rogazionisti, Roma,
; a a he Co u ità Alloggio CED‘O dei ‘ogazio isti, Progetto educativo, carta dei servizi e regolamento CEDRO,
Napoli, 2014.
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mirati (prevenzione, promozione, sostegno e recupero) basati
sull'utilizzo sinergico delle risorse, sulla mobilitazione reale delle forze
sociali e istituzionali (enti locali, sindacati, ministeri competenti,
imprenditori, associazionismo laico e cattolico ecc.) che
necessariamente devono essere coinvolte come soggetti attivi e stabili
nella realizzazione degli obiettivi di un progetto d'intervento sociale.
A Napoli e nella sua provincia, la complessità delle dinamiche socio-
economiche, hanno determinando due realtà socio-culturali che
rappresentano bene la dicotomia fatta di realtà sovrapposte: quella
legale e produttiva e quella illegale e marginale. Ed è in questa seconda
realtà, dove è fortemente presente la disgregazione familiare, la
disoccupazione, l'urbanizzazione selvaggia e la presenza di una
criminalità sempre più arrogante e violenta, che la dimensione di rischio
si trasforma in una realtà comportamentale ed in uno stile di vita
deviante a cui aderiscono moltissimi giovani. Una realtà ove elemento di
sicura incidenza negativa è il ruolo della famiglia troppo spesso lasciata
sola nelle difficoltà educative, ed in questo, inevitabilmente, molte
responsabilità ricadono sulla scuola che sempre di più si caratterizza
come agenzia primaria di socializzazione e formazione lontana dai
bisogni concreti di crescita e di sostegno di questi adolescenti. Una
scuola incapace di proporre una cultura e modelli di riferimenti
alternativi alla strada, una scuola, quella della realtà campana, che
detiene il più alto livello d'evasione, dispersione e mortalità scolastica.
In queste condizioni la famiglia è essa stessa incapace di svolgere un
ruolo pedagogicamente autorevole, mirato a facilitare modelli di
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progettualità che vadano oltre la logica della marginalità. Ciò porta il
minore a vivere la propria esperienza nella contraddizione e nel
contrasto tra due culture: quella del lavoro e della legalità proposto
dalla società civile e quella della subcultura dell'illegalità, della devianza
e della criminalità organizzata, sempre più spesso legata all'ambiente
socio-familiare d'origine.
E' in questa dimensione schizofrenica della vita quotidiana che
moltissimi adolescenti sono costretti a vivere ed è in questo contesto che
è andato evolvendosi nel tempo il progetto educativo proposto dalla
comunità “C.ED.RO”. In particolare, con riferimento all’utenza,
l’innalzamento dell’età dei minori ospitabili rispetto al passato,
congiuntamente alla situazione di “rischio” crescente che si osservava
anche negli adolescenti dell’area amministrativa accolti, provenienti per
lo più dalla zona di Poggioreale e di Secondigliano - Scampia, ha portato
negli ultimi anni ad un’ulteriore apertura al territorio che a partire dal
2009 si è concretizzata con l’accoglienza anche dei ragazzi provenienti
dall’area penale, divenendo così, a tutti gli effetti, una comunità di
utenza “mista”. Naturalmente l’esperienza in tal senso è stata graduale,
scegliendo di accogliere fino a metà del 2011 un solo minore in misura
penale su otto, nella consapevolezza di dover necessariamente ampliare
la “cassetta degli attrezzi” per fronteggiare le esigenze di un’utenza così
particolare. L’approccio graduale ha favorito l’acquisizione della
competenza necessaria per far fronte a questa nuova scommessa,
permettendo congiuntamente l’ampliamento della rete per operare in
tale ambito (in particolar modo i rapporti con l’U.S.S.M.).
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In questo quadro la comunità si propone di poter rappresentare per il
ragazzo un’alternativa, una possibilità, un'esperienza di vita nuova,
costruita sulla responsabilità, sulla corresponsabilità e sul rispetto delle
relazioni umane, su cui costruire modelli comportamentali e riferimenti
positivi e integranti. Ciò attraverso un'offerta educativa capace di
valorizzare quelle potenzialità, troppo spesso espresse in azioni
negative, e di consentire un processo di riflessione e di elaborazione
critica delle esperienze personali che possa portare il giovane a scegliere
valori alternativi e progettualmente diversi rispetto a quelli proposti
dalla strada. La dimensione del piccolo gruppo, la struttura organizzata
secondo il modello familiare, il clima scandito secondo ritmi e regole di
vita più ordinate, la condivisione di beni, spazi, problemi, sono da
considerarsi, dal punto di vista pedagogico, tutti aspetti positivi della
struttura comunitaria per soggetti a rischio di devianza.
La comunità “C.ED.RO”, facendo propri tali aspetti, si ispira,
secondo le linee guida del Padre fondatore, ad un modello di intervento
relazionale centrato sulla persona, sui bisogni, sulle esigenze, sui diritti
e sul rispetto dell’individualità dell’altro. Un modello in cui con un
lavoro di rete, un’accurata progettazione e valutazione del progetto
educativo, diventano possibili interventi improntati alla flessibilità e alla
elasticità organizzativa, in modo da poter rispondere ai cambiamenti
evolutivi di ogni minore.
La relazione costituisce il perno attorno a cui ruota l’intervento di
comunità, il luogo dell’accettazione dell’altro per quello che l’altro è,
della comprensione, della costruzione di legami saldi e significativi,
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venendo a configurarsi di fatto come lo strumento che il minore può
utilizzare nel processo di cambiamento.
A fondamento di tale proposta educativa, differentemente dal
modello dell’Istituto, vi è il lavoro d’equipe, distinta in due diverse
tipologie, equipe educativa ed equipe socio-psico-pedagogica, vera base
e motore del lavoro educativo, più ancora una conditio sine qua non.
Proprio per tale motivo, prima di presentare in maniera più dettagliata il
progetto educativo della comunità “C.ED.RO”, appare opportuno
soffermarsi a considerare più da vicino il significato e la funzione di tale
elemento all’interno della struttura con l’intento di sottolinearne
l’essenzialità e la centralità in essa rivestita, in ragione della
convinzione e della consapevolezza che nessun intervento educativo può
essere portato avanti singolarmente.
L’equipe educativa, costituita dai cinque educatori operanti
all’interno della comunità e dal coordinatore, si occupa della
programmazione e verifica delle attività e della verifica in itinere dei
PEI. Si riunisce due volte al mese con l’equipe socio-psico-pedagogica,
per la verifica dell'andamento della Comunità, dunque dei singoli
percorsi dei ragazzi: le problematiche emerse vengono affrontate da un
punto di vista sia organizzativo che sostanziale, individuando e
scegliendo le strategie e gli strumenti più idonei per porre in essere un
intervento educativo quanto più rispondente alle esigenze del minore.
L’equipe socio-psico-pedagogica, composta dall’equipe educativa,
dalla psicologa e dall’assistente sociale, ha la funzione di sostenere il
quotidiano lavoro educativo svolto dagli operatori e ciò sia attraverso la
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supervisione educativa, atta a mettere in luce e lavorare sulle dinamiche
relazionali e personali dei singoli operatori, sia attraverso incontri ad hoc
centrati su specifiche metodologie di intervento.
Fondamentale importanza riveste la supervisione educativa quale
dimensione necessaria per condividere e orientare l’esperienza degli
operatori e aumentare l'efficacia e l'efficienza degli interventi. Tale
strumento è pensato e attivato per aiutare i singoli educatori a gestire
sempre meglio gli elementi di complessità che caratterizzano
l’intervento educativo e l’agire quotidiano nella relazione educativa. In
quest’ottica il tempo della supervisione è finalizzato a far emergere e
dialogare tra loro le diverse rappresentazioni degli eventi comunicativi
che costituiscono l’intervento educativo, proprie dei singoli operatori,
coinvolti nella gestione dell’intervento. La supervisione è pensata e
vissuta come un tempo privilegiato in cui i singoli operatori possono
mettere insieme le diverse rappresentazioni per costruire un punto di
vista soggettivo dell’equipe, pensata come soggetto plurale. Durante la
supervisione “si fa ricerca”, “si guarda”, “ci si guarda”, “si esplora la
realtà” di cui si fa parte per vedere cosa è accaduto da diverse
angolazioni, favorendo in tal modo la costruzione di nuovi e più
funzionali accordi ed incontri tra i componenti della stessa. La
supervisione, fornendo agli operatori la possibilità di "processare" la
propria esperienza e lavorando congiuntamente sull’analisi e la
rielaborazione dei propri vissuti emotivi consente uno “svuotamento” ed
una “rigenerazione” delle energie e si configura come un momento
significativo di formazione e sviluppo professionale. I meccanismi di
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supervisione, inoltre, realizzano elementi preventivi rispetto al burn-
out211 degli operatori e, più in generale, costituiscono una forma di
tutela indispensabile per la loro salute e, di conseguenza, anche per
quella delle persone con le quali si trovano a dover svolgere la loro
azione212.
E’ questo intenso, costante, faticoso lavoro d’equipe che sorregge e
progetta l’essere comunità, partendo dal presupposto che non basta
l’accostamento dei due concetti “comunità” e “minori” per produrre
un’organizzazione sociale innovativa e significativa rispetto ai problemi
in gioco: è necessario progettare la loro messa in relazione. Da qui si
comprende l’importanza di un progetto educativo di comunità, che
evidenzi gli aspetti qualificanti e lo stile della presa in carico realizzata,
cui facciano riferimento i singoli progetti educativi personalizzati. E’
infatti proprio la progettazione, la realizzazione e la verifica empirica
degli interventi individualizzati a sostegno dei minori in difficoltà, a
segnare la linea di confine tra l’istituto e la comunità educativa, tra il
“vecchio” e il “nuovo”.
211
Il burn out, letteralmente bruciare fuori, è una sindrome da stress lavorativo, caratterizzata da esaurimento emotivo,
irrequietezza, apatia, depersonalizzazione e senso di frustrazione, frequente soprattutto nelle professioni ad elevata
implicazione relazionale. Tale si d o e dete i a il ollo dell ope ato e ispetto alle aspettative de iva ti dall attività professionale; indica il suo cedimento a livello fisiologico, psicologico e comportamentale; si manifesta quando il soggetto
o ies e più a fa f o te alle i hieste, i te e ed este e, elative all attività svolta, vale a di e o ies e a ealizzare i
p op i o iettivi e a ispo de e alle ista ze dell organizzazione in cui lavora in maniera soddisfacente e gratificante. I livelli
di st ess dive ta o, ui di, o più gesti ili, il e di e to dell i dividuo vie e o p o esso e le ipe ussio i sulla qualità della prestazione appaiono evidenti. Può essere p eve uta e o t astata o u effi a e supe visio e e da u a costante formazione. 212
In particolare gli ambiti ed i contenuti di lavoro della supervisione sono così distinti:
-la supervisione psicologica si interroga rispetto al vissuto individuale o collettivo dell espe ie za ope ativa, indipendentemente dalla sua collocazione nella cornice della dimensione progettuale;
-la supervisione pedagogica, invece, ha lo scopo di favorire la lettura pedagogica dei fatti educativi. In particolare, è una
supervisione finalizzata a: individuare e sciogliere alcune situazioni intoppo che non consentono, a una prima analisi,
l auspi ato p o ede e del p ogetto; evidenziare il senso dell agi e educativo del singolo e dell equipe: ovvero il cosa si fa in
modo pedagogicamente fondato, cosa accade, cosa si fa accadere e come, nel qui ed ora dell azio e edu ativa, io scoprire l edu azio e pe sata, a he laddove o se a esse vi pe sie o, e s op i e la p ati a edu ativa a he laddove non sembra esservi pratica educativa; favorire il o f o to t a le di hia azio i d i te ti edu ativi e gli effetti edu ativi, quando tra i due momenti sembra esistere uno discrepanza.
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E’ proprio quest’ottica progettuale che motiva e orienta la vita
quotidiana della comunità e dei suoi protagonisti, educatori e ragazzi,
puntando a promuovere il valore della dimensione comunitaria,
attraverso un approccio centrato sulle relazioni, con l’obiettivo di
costruire un'alleanza emotiva e di lavoro tra operatori e ragazzi ospiti, in
un processo di educazione e di riparazione dei danni subiti negli
ambienti di provenienza. Certo, far vivere “sotto lo stesso tetto” un
gruppo di adolescenti provenienti da percorsi difficili e portatori di
specifiche problematiche, può sembrare una scommessa persa perché
ripropone il criterio del “ghetto” o peggio ancora perché rappresenta il
rischio, da non correre, di veder riproposti all’interno i modelli devianti
appresi in strada.
Ma il nodo si gioca tutto proprio nel senso del “mettere insieme”.
Significativo, al riguardo, appare il punto di vista di Barbanotti e
Iacobino che pone in evidenza come l’educativa di comunità si fondi “su
un apparente paradosso: accomunare individualità problematiche non
costituisce di per sé un moltiplicatore delle problematiche di ciascuno,
ma, al contrario, è possibile puntare sulla vita di gruppo come
opportunità, per i singoli, di apprendimento sociale e comunicativo e di
sperimentazione emozionale-affettiva”213.
Su questo apparente paradosso si gioca la scommessa della comunità
alloggio “C.ED.RO”.
213
G. Barbanotti, P. Iacobino, Comunità per minori. Pratiche educative e valutazione degli interventi, Carocci, Roma, 1998.
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4.2. Il progetto educativo e il P.E.I
La “C.ED.RO.”214 è una comunità alloggio, autorizzata al
funzionamento secondo il Regolamento Regionale n. 4/14: accoglie un
numero massimo di otto minori dell'area penale e civile, di sesso
maschile e di età compresa tra gli 13 e i 18 anni. I ragazzi, italiani e
stranieri, sono inseriti sia dal CGM in misura penale, sia dai SSTT, quindi
in misura amministrativa o civile. Vi è anche la disponibilità ad
accogliere minori in situazioni di emergenza. Nelle altre circostanze è
previsto un iter per l’inserimento che prevede il coinvolgimento del
minore e della famiglia insieme al servizio sociale di riferimento nelle
fasi di accoglienza e permanenza nella struttura.
L’incontro con la comunità si caratterizza per l'offerta di
un’esperienza di vita comunitaria regolata da norme chiare e visibili,
improntate al rispetto delle persone e delle cose. Tali regole
opportunamente sintetizzate in un regolamento interno, vengono
presentate ai ragazzi e alle loro famiglie al momento dell’ingresso: al
giovane viene poi chiesto anche di firmare il documento, quale gesto che
simbolizza l’assunzione di responsabilità rispetto a quanto condiviso e
l’impegno a rispettarlo.
La conduzione della struttura è di tipo familiare e il modello
operativo è di tipo valoriale: la comunità intende porsi quale “spazio
educativo”, ove l’integrazione del minore si realizza attraverso il
linguaggio, la presenza (in termini di coinvolgimento) e la reciprocità
214
Per le pagine che seguono cfr. Studi Rogazionisti n. 104, Edizione privata della Congregazione dei Rogazionisti, Roma,
; a a he Co u ità Alloggio CED‘O dei ‘ogazio isti, Progetto educativo, carta dei servizi e regolamento CEDRO,
Napoli, 2014 e Progetto educativo rogazionista, Congregazione dei Padri Rogazionisti, Roma, 1998.
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(nel senso del continuo interagire) che implicano la capacità di
trasformare l’errore, l’insuccesso, in elementi di crescita e non in
legittimazione di uno status215. All’interno di tale spazio educativo i
giovani ospiti possono cominciare a sperimentare un nuovo contesto di
sviluppo al cui interno vengono proposte attività pedagogiche e
psicosociali.
In questo progetto di crescita e di responsabilizzazione del minore la
strategia d’intervento della comunità si basa, laddove possibile, sul
pieno coinvolgimento della famiglia per contenere le ricadute delle crisi
intra-familiari sul minore, quindi evitare che il nucleo familiare resti
immobile al processo di crescita intrapreso dal minore e sostenere la
famiglia nell’acquisizione di nuove motivazioni.
Altro obiettivo fondamentale del progetto è quello di far acquisire al
minore il maggior grado di autostima, responsabilità e autonomia
personale attraverso un approccio di tipo maieutico ed attivo con
l’attenzione posta sui processi e sul farsi dell’esperienza piuttosto che
sul prodotto: è il “come” l’aspetto realmente rilevante.
Contribuire alla formazione di un’identità personale; facilitare la
comunicazione e la socializzazione; sviluppare il senso del dovere e
dell’impegno per il proprio lavoro e promuovere la capacità di
autogestire la propria vita secondo criteri di rispetto per gli altri, di
onestà e di legalità. Educare alla relazione e ai rapporti interpersonali
tra pari e con il mondo adulto.
Questi gli obiettivi cui tende l’azione educativa della comunità.
215
L. Trisciuzzi, C. Fratini, M. A. Galanti, Manuale di pedagogia speciale, Laterza, Roma-Bari, 1996.
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Per quel che concerne invece più strettamente l’organizzazione
dell’accoglienza, essa è regolata secondo un iter in cui possiamo
distinguere quattro fasi: accoglienza, osservazione e orientamento;
realizzazione del progetto educativo individualizzato; dimissioni.
Tali fasi sono concepite sempre elasticamente, nel rispetto delle
storie individuali, vissute in continuo dialogo con la famiglia d’origine e
tutti gli altri referenti del progetto educativo individualizzato.
Il primo momento è quello dell’accoglienza, decisa dal responsabile,
dopo avere sentito il parere dell'equipe socio-psico-pedagogica e
dell’equipe educativa. In questa fase il nuovo ospite viene inserito
gradualmente nella vita della comunità con un accompagnamento
attento e costante, affinché possa sentirsi accolto e possa familiarizzare
con l’ambiente. Le prime osservazioni, i colloqui, la documentazione
cartacea e la conoscenza personale del nuovo arrivato costituiranno la
base fondamentale per l’elaborazione del PEI.
Segue poi una fase di osservazione e orientamento, con cui inizia il
percorso di integrazione vero e proprio in comunità. Man mano che il
ragazzo si inserisce nei ritmi quotidiani della vita comunitaria,
l’attenzione degli operatori sarà rivolta agli aspetti motivazionali,
comportamentali, attitudinali e relazionali del minore, attraverso
un’osservazione sistematica, strutturata con specifici protocolli.
Un’osservazione che sarà reciproca e che orienterà ciascun protagonista
del dialogo educativo nella definizione del progetto educativo
individuale.
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158
Dopo un opportuno tempo di osservazione si procede con la stesura
del Progetto Educativo Individuale: strumento operativo che concretizza
l’intenzionalità propria di ogni intervento che voglia dirsi “educativo”. Il
PEI è infatti utilizzato per rispondere al criterio di personalizzazione
degli interventi attraverso la stesura di un percorso, individualizzato e
strutturato che parta dai reali bisogni di ciascun ragazzo e che miri a
favorirne una crescita armonica. Consente, inoltre, all'equipe educativa
un approccio comune e sempre concordato alle problematiche del
minore, per un intervento che sia sempre progettuale e mai improvvisato
dai singoli educatori. Il PEI rappresenta la declinazione degli obiettivi
generali, fissati nel complessivo progetto di presa in carico della
comunità, in base alle esigenze e alle caratteristiche del singolo ragazzo.
Attraverso un’osservazione attenta si cerca di dare una “lettura” ai
bisogni del ragazzo e di immaginarne l’evoluzione possibile
predisponendo un percorso a lui rispondente, che prevede anche i
programmi di intervento psico-pedagogici. Non esiste uno schema
unitario per la costruzione dei PEI, ma al di là delle configurazioni
possibili, in esso vanno previsti: l’anamnesi personale e familiare
finalizzata a individuare problemi, risorse, difficoltà e potenzialità; gli
obiettivi a lungo termine e quelli a medio e breve termine, di crescita,
personalizzati e possibili, adeguati al tempo previsto di permanenza se
conosciuto; gli strumenti operativi, interni ed esterni alla struttura
residenziale, per raggiungere gli obiettivi stabiliti; un’efficace sistema di
verifica, sia in itinere per consentire la rimodulazione necessaria che
finale del progetto medesimo.
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159
Concretamente esso viene redatto dagli educatori referenti dei vari
minori, rivisto collettivamente dall'équipe psico-pedagogica e
successivamente condiviso con il referente istituzionale del Sevizio
Sociale competente. Viene poi aggiornato ogni sei mesi, oltre che allo
scadere dei termini stabiliti per il raggiungimento degli obiettivi,
effettuando una revisione dei risultati raggiunti e di quelli ancora da
raggiungere nei tre ambiti della vita quotidiana del minore: autonomia,
rapporto con se stesso e con gli altri, scuola e attività formative.
Appare opportuno sottolineare che per non perderne l’efficacia, il
PEI debba essere realmente verificabile, evitando obiettivi
eccessivamente generici e pertanto non misurabili. Inoltre proprio al fine
di rendere il minore protagonista della propria crescita, gli obiettivi
vengono condivisi con i ragazzi e, quando possibile, con i loro familiari,
comunicando i macro-obiettivi e concordando insieme gli strumenti e i
micro-obiettivi. Ove possibile, è importante ottenere l’adesione
sostanziale del minore e della sua famiglia al progetto attraverso la
costruzione di un processo motivazionale, come processo cognitivo e
emotivo, al fine di favorire soluzioni che restituiscano al ragazzo un
percorso di vita “normalizzato”: infatti solo se il minore riuscirà a
maturare una motivazione al cambiamento potrà realmente iniziare un
nuovo percorso di vita all’interno di un contesto sano e significativo,
come può essere quello della comunità216.
Appare evidente che la messa a punto di questa operazione è un
lavoro delicato e complesso poiché si tratta di tradurre bisogni, desideri
216
F. Ricci, D. Resico, Pedagogia della devianza, op. cit., p. 200.
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160
e domande, attraverso una faticosa attività simbolica, in un progetto
realistico e concreto, incentrato sul “bene del minore”. Complessità che
si gioca tutta nella consapevolezza che per decidere qual è il bene del
minore ci si basa su ipotesi, opzioni, scelte, sempre esposte al rischio
dell’incerto, del non compreso, dell’errore, del fallimento, in una
costante dialettica che richiede la capacità di guardare “ciò che è” e
congiuntamente immaginare “ciò che potrebbe essere”, ossia di avere
uno sguardo che sappia mettere insieme reale e possibile.
Infine il percorso si chiude con un accompagnamento post-comunità:
le dimissioni infatti non segnano la fine di ogni rapporto del ragazzo con
essa in quanto viene posta in essere quella che Ricci e Resico definiscono
una “sorta di supervisione pedagogica del soggetto”217: gli operatori
della comunità si occupano di attivare tutti quei contatti (territorio di
appartenenza, scuola, risorse familiari, agenzie socio-educative
pubbliche e private) che favoriscano il rientro del minore nel proprio
ambiente e ne valorizzino le spinte motivazionali, le competenze a
livello di autostima e le ricchezze attitudinali che, si spera, egli abbia
individuato o ritrovato in comunità.
E’ un aspetto importante del percorso questo appena delineato
poiché la protezione rispetto ai fattori di rischio appare fondamentale
per garantire alla persona la possibilità di proseguire il proprio percorso
di vita sapendo che nelle situazioni di difficoltà è ancora necessario
avere dei punti di riferimento e di contatto con figure significative.
217
Ivi, p. 204.
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161
Infine per quel che riguarda l’intero iter descritto, è opportuno
evidenziare che la musica di fondo dei singoli progetti e momenti del
percorso, ovvero dell’intervento educativo, è la stessa vita comunitaria
che si svolge nella quotidianità, strutturandosi sul principio
dell’attenzione alla soggettività di ciascuno e ai suoi bisogni.
Un metodo di intervento, questo illustrato, che mira a
“normalizzare” i ritmi di vita del ragazzo e soprattutto a fornire dei
riferimenti valoriali da utilizzare come spazio di riflessione in grado di
aiutarlo a rielaborare il proprio vissuto. In questo processo di
“normalizzazione” il minore non deve essere “svuotato” come un
contenitore e riempito con valori avulsi dalla sua realtà.
Bisogna pertanto partire dal riconoscimento del suo vissuto e del suo
“modello operativo interno”218 per avviare una fattibile esperienza di
crescita e integrazione sociale. Nelle fasi di approccio relazionale sono
utilizzati tratti culturali propri dei ragazzi: il forte senso della famiglia,
dell'amicizia e dell'appartenenza al contesto territoriale. Questi tratti
lungo il percorso di socializzazione proposto dalla comunità vengono
rielaborati e affiancati da specifici universi valoriali offerti
dall’esperienza comunitaria quali: l'onestà, la solidarietà, la
disponibilità, la condivisione, il lavoro, la corresponsabilità, la
partecipazione e la responsabilità individuale. Al ragazzo viene offerto
un ventaglio di opportunità miranti alla realizzazione di un processo di
218
Il MOI odello ope ativo i te o , se o do la teo ia dell atta a e to, la app ese tazio e e tale delle elazio i, ossia il modo di essere che ciascun individuo utilizza nelle interazioni quotidiane; tale schema si struttura nei primi mesi di
vita in base al tipo di attaccamento instaurato con il caregiver. Gli studi al riguardo evidenziano che i soggetti devianti
elaborano una rappresentazione di se stessi come persone non degne di essere amate, risultato di una relazione primaria
incapace di trasmettere fiducia, protezione, contenimento.
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risocializzazione attraverso il quale elaborare possibili itinerari utili al
superamento del pregresso stile di vita.
L’idea di fondo è proporre strade alternative a quelle da lui già
percorse, che possano ispirare un desiderio di cambiamento o almeno
consentire una possibilità di scelta. In altri termini “si tratta di rendere
la comunità un contesto capace di offrire o proporre un coinvolgimento
del minore all’interno di attività che rispondano al suo bisogno
fondamentale di diventare adulto e di uscire dal sistema che lo porta ad
identificarsi con un meccanismo deviante”219.
Sulla base di quanto detto la proposta educativa della comunità
“C.ED.RO.” si articola in moduli d’intervento che prevedono sia attività
interne che esterne.
Le attività interne mirano alla gestione e all’organizzazione
quotidiana degli spazi e dei tempi comunitari: in casa si curano
soprattutto la formazione (cercando un’integrazione con le istituzioni
che ricrei, anche attraverso percorsi alternativi e personalizzati, un
rapporto positivo e sano con la scuola e lo studio), il momento del
dopocena e le attività finalizzate alla crescita integrale dei minori
accolti, anche attraverso il coinvolgimento di volontari. Si organizzano
attività di recupero scolastico, corsi di alfabetizzazione, sostegno e
orientamento psicologico, focus-group periodici su tematiche varie
scelte ad hoc. Sono previste, inoltre, diverse attività laboratoriali
(manualità-attività di piccola professionalizzazione oggettistica, pittura,
giardinaggio, cucina e panificazione, pasticceria, espressione), intese
219
Ivi, p. 194.
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163
quale spazio per recuperare il saper fare, per educare all’espressività,
all’impegno, al coinvolgimento emotivo, per consentire di sperimentare
cose nuove ma anche di sentirsi capaci, per suscitare la nascita di
interessi, per allenare alla cooperazione, per lavorare sull’autostima,
per favorire la creatività.
Le attività esterne sono gestite in rapporto al tempo libero e, con
l’intento di favorire forti momenti di socializzazione, vengono
organizzati incontri con associazioni territoriali, gite, visite guidate,
cineforum. Grande importanza viene anche data alle attività sportive
(calcio, nuoto, boxe), alle attività ricreative, ma soprattutto a quelle
attività “straordinarie” che hanno una valenza formativa particolare e
con cui si cerca di stimolare la curiosità dei minori verso il mondo. Sono
attività mirate di vario tipo, che si aprono anche alla collaborazione con
altre associazioni (Agesci, Apan, (R)esistenza, Legambiente, Scugnizzi,
OcchiAperti), improntate al valore della legalità, del servizio, della
scoperta della natura e del territorio in cui viviamo e che hanno la
funzione di permettere ai ragazzi di scoprire se stessi e i propri limiti,
ma anche di conoscere mondi altri dai loro.
Nella logica della casa aperta e di una vita il più possibile vicina allo
stile familiare si favorisce la partecipazione dei minori ospiti alle attività
e alle iniziative presenti sul territorio, l’instaurarsi di rapporti di
amicizia con coetanei compagni di scuola e con famiglie amiche della
comunità.
Coerentemente con tale progetto educativo da sempre si è teso a
instaurare corretti rapporti di collaborazione tra la struttura residenziale
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164
e la rete dei servizi, con gli enti locali competenti, con le varie agenzie
di educazione e socializzazione, nella convinzione che la comunità è uno
dei “nodi” della rete di interventi, azioni ed opportunità di crescita e
sviluppo individuale e sociale per il soggetto accolto.
Infine un aspetto importante che merita un approfondimento
adeguato è la funzione del già citato Progetto Educativo Individualizzato,
per quel che concerne i minori dell’area penale.
A seguito di quanto prescritto dall’Autorità Giudiziaria e,
richiamando la Circolare D.G.M. 16 giugno 2004, prot. n. 19259, la
formulazione del PEI avviene attraverso: l’utilizzazione delle
informazioni raccolte; la valutazione delle abilità, delle risorse e delle
potenzialità del minore; l’utilizzazione delle risorse interne ed esterne
alla comunità; l’osservazione partecipata del comportamento, al fine di
realizzare un lavoro educativo che si ponga obiettivi di cambiamento
concretamente raggiungibili.
Secondo quanto indicato esso inoltre deve esplicitare: gli obiettivi a
lungo termine e quelli a medio e breve termine; le attività – e fra queste
eventualmente anche quelle finalizzate al raggiungimento di obiettivi
quali la riparazione delle conseguenze del reato e la riconciliazione con
la vittima – che impegneranno il minore per perseguire gli obiettivi
individuati; le modalità con le quali si realizzeranno le attività stabilite;
l’integrazione con le risorse presenti sul territorio; le fasi e le modalità
di verifica intermedia e finale, utili per relazionare all’Autorità
Giudiziaria; i ruoli dei diversi attori (Servizi, Comunità, famiglia,
individuazione dell’educatore di riferimento del minore, ecc…) coinvolti
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con il minore nell’attuazione del progetto; le modalità di comunicazione
e di interazione fra i vari attori e tra questi ed il minore.
E’ inoltre opportuno che sia concordato con il minore e con la
famiglia, per perseguire lo specifico obiettivo di: far acquisire al minore
consapevolezza e responsabilizzazione rispetto alla misura restrittiva
della libertà personale; definire gli interventi da attuare e le esperienze
formative, educative e lavorative da proporre al minore, al fine di
assicurargli le condizioni per un normale processo di crescita che
promuova l’assolvimento dei compiti evolutivi e la responsabilizzazione
rispetto alla società; partecipare, con i Servizi preposti, alla promozione
degli interventi da attuare per modificare il contesto familiare ed
ambientale in vista del suo rientro con chiara indicazione delle
prospettive, fasi e tempi per il reinserimento del minore nel suo
ambiente di vita, oppure definire altre soluzioni in rapporto alla
condizione del minore.
Proprio in quest’ottica il P.E.I., non deve essere considerato uno
strumento rigido e statico, deve essere verificato e, se necessario,
ridefinito in itinere, adattandolo ai mutamenti intervenuti nella
situazione personale e familiare del minore. Nel suo svolgersi bisogna poi
puntare ad accrescere le competenze del ragazzo e sostenerlo nel
proseguire il progetto avviato (inserimento lavorativo, scolastico, di
formazione lavoro ecc.) durante la permanenza in Comunità, verso un
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166
concreto progetto di vita futura, usufruendo anche dei servizi del
territorio in grado di dare supporto al nuovo progetto di vita220.
Appare infine rilevante inquadrare il PEI nel più ampio discorso del
garantire tutela al minore accolto in comunità residenziale, finalità che
presuppone la necessità di definire con chiarezza il sistema di
corresponsabilità tra i diversi soggetti coinvolti nel progetto educativo,
quali Istituzioni pubbliche, Servizio sociale, contesto sociale e comunità
educativa, affinché si possa superare il limite dell’autoreferenzialità,
della distanza progettuale e, soprattutto, della delega de-
responsabilizzante. È dunque necessario ribadire la centralità del
Servizio sociale territoriale, tenuto a garantire protezione e tutela per
tutti i minori, nella predisposizione di un “progetto quadro o progetto
globale” a favore del minore accolto in comunità e della sua famiglia, in
riferimento al quale è conseguentemente pensato e definito il “progetto
educativo individualizzato” di competenza della comunità.
In quest’ottica appare evidente che anche la relazione con la
Magistratura minorile debba collocarsi in un sistema di corresponsabilità
che tenda a sostenere e riconoscere il fondamentale ruolo educativo
della comunità, anche laddove l’inserimento del ragazzo sia applicativo
di misura penale ex D.P.R. 448/88 e, dunque, richieda necessariamente
la definizione di un possibile e sostenibile equilibrio progettuale tra
“relazione educativa” e “funzione di controllo”.
Il P.E.I. individua dei vincoli precisi rispetto al “cosa” deve essere
fatto (tempi, modalità di verifica, attori coinvolti) lasciando maggiore
220
Vademecum Operativo per le comunità del privato sociale a cura del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia
Minorile.
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flessibilità rispetto al “come” deve essere fatto, in ragione delle singole
specificità dei Servizi sociali del territorio e della comunità, individua
inoltre dei requisiti standard che possono essere anche ulteriormente
implementati.
Il P.E.I. si basa su un’ottica sistemico-relazionale ed ecologica, con
l’obiettivo della costruzione e condivisione di un progetto di vita che sia
realmente tale. E’ un progetto che promuove la corresponsabilità,
mettendo assieme figure professionali diverse ed anche un’occasione per
superare i diversi “specialismi” e specificità di intervento professionale e
creare aree di sapere condivise e di apprendimento reciproco. Se
adeguatamente valorizzato è strumento che ci porta a poter effettuare
una adeguata valutazione diagnostica e prognostica della situazione e
l’esame di fattibilità del progetto stesso, in relazione ad ipotesi iniziali
che sicuramente in corso d’opera si sono modificate e quindi necessitano
di essere esplicitate e ricondivise costantemente. La sfida è condividere
i cambiamenti, le evoluzioni, le involuzioni, far circolare le informazioni
e trovare anche gli spazi e i luoghi, per fare i modo che tutti coloro che
hanno responsabilità decisionali (famiglia d’origine inclusa) possano
avere un quadro sufficientemente chiaro di ciò che sta avvenendo, e
concorrere in modo adeguato alla definizione di interventi e strategie
progettuali.
Tuttavia accanto a tali punti di forza, convivono anche elementi di
criticità. Innanzitutto come purtroppo accade per altri ambiti, la
costruzione di questo tipo di progetto spesso rimane solo sulla carta;
alcuni Servizi sociali, e di conseguenza le strutture residenziali ad essi
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168
agganciate dal singolo progetto, non elaborano nessun PEI. D’altra parte
un PEI elaborato solo all’interno della comunità perde molto del suo
valore, rimane interno e non ha nessuna valenza di sistema.
Infine va considerato che anche a favore dei ragazzi “del penale”
sarebbe opportuno venisse formulato uno specifico P.E.I. da parte
dell’USSM in collaborazione con il Servizio sociale dell’ente locale al fine
di garantire un progetto individuale in grado di comprendere aspetti ed
obiettivi anche al di là del “fatto penale”221. Nella prassi però, in alcune
regioni, come la Campania, il P.E.I. non è previsto per i minori dell’area
penale: in questi casi il P.E.I. di un minore sottoposto a provvedimento
dell’Autorità Giudiziaria risulta essere l’applicazione rigida di quanto
schematicamente indicato nell’Ordinanza emessa dal Tribunale per i
Minorenni a cui, sia l’USSM che i Servizi Sociali Territoriali si attengono
per il periodo limitato al tempo del provvedimento penale. Il fatto che il
P.E.I. non sia esplicitamente previsto, non vuol dire però
automaticamente che non si faccia in nessun caso: per i minori in art.22,
per esempio è la comunità a provvedere alla sua stesura e l’U.S.S.M. pur
non partecipando alla realizzazione del documento, ne è comunque
firmatario; è chiaro che in tali casi un forte limite è rappresentato
dall’incertezza del tempo di permanenza del minore in struttura.
Un po’ diverso è invece il discorso per i minori in messa alla prova:
infatti in questi casi lo specifico progetto su cui si fonda la prova stessa,
coincide di fatto con il PEI, firmato congiuntamente dall’U.S.S.M e dal
S.S.T.
221
C.N.C.A., Parliamo ancora di comunità, Gruppo ad hoc Nazionale – Infanzia, Adolescenza e famiglie, 2012, p. 30-33.
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4.3. Ri-tessere il quotidiano
La comunità di accoglienza è, sulla base di quanto detto, un sistema
di relazioni, un contesto capace di offrire ai ragazzi accolti una relazione
attenta, specifica, significativa, calda, in cui riconoscersi e nella quale
riconoscere adulti disponibili a mettersi in discussione e a mettersi e
rimettersi in gioco nel quotidiano, adulti capaci di accoglierli, di
prendersi cura di loro per far fronte al forte bisogno di essere
contenuti222 e di ricevere fiducia, di cui sono portatori.
Musica di fondo degli interventi educativi nella comunità “C.ED.RO.”
è, dunque, la ricerca appassionata e continuamente rinnovata della
dimensione relazionale che sostiene il sistema di corresponsabilità tra i
soggetti in gioco e che si esprime nella cura del clima e della vita
comunitaria, in un agire costituito da piccole cose alla cui base vi è la
responsabilità, quale fondamento di cura dell’altro223.
Coerentemente con quanto detto un’importante pista di lavoro
praticata al “C.ED.RO.” consiste innanzitutto nell'alimentare la fiducia,
base della relazione educativa. Tale operazione è tuttavia estremamente
delicata poiché fondata su un meccanismo a doppio binario: perché gli
educatori possano dare fiducia ai ragazzi è, infatti, necessario che i
ragazzi abbiano fiducia in loro e si riconoscano all'interno di una
relazione di scambio fiduciario. Operazione, questa, complessa e mai
222
Il contenimento, nella sua accezione più positiva del tener dentro, darsi tempo, sentire, rimanda alla possibilità per gli
ope ato i di fa si a i o del vissuto dell alt o, pe pote off ire una restituzione diversa, un punto di vista altro. Concetto di
at i e psi oa aliti a Wi i ott o e e i se so più ge e ale la apa ità dell adulto di a oglie e, i te p eta e ed elaborare le emozioni espresse dal bambino. 223
La u a pe l’alt o e l essere-per-l’alt o so o due p esupposti fo da e tali di og i dis o so pedagogi o. La u a ui i tesa el se so heidegge ia o: la u a fa pa te del ost o esse e gettati el o do e fo da og i o upazio e dell uo o, i ua to el suo fo da e to l Esse e dell Esse i Cu a ; e o segue he l uo o si p e de u a pe h Cu a. La u a , du ue, i tesa i se so o tologi o ed esiste ziale, des ive l uo o o e elazio e di p ossi ità e di i o t o o le ose e o l alt o: og i osa della vita esa possi ile dalla u a, i uesto se so la u a i g esso el
o do della elazio e o l alt o, i o t o o l alte ità.
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170
scontata per chi proviene da situazioni familiari disfunzionali e non ha
avuto dalle figure adulte di riferimento sufficiente care224. L’alimentare
la fiducia è, pertanto, un’operazione che va costruita con pazienza,
gradualità, rispetto dei tempi, ripetizione di gesti: è la quotidiana
ritualità che permette il riconoscimento e l'appartenenza comune alla
stessa esperienza e che apre alla possibilità di affidarsi all’altro. Il
susseguirsi di tante piccole abitudini, procedure, situazioni vissute
insieme, consente, a ragazzo ed educatore, di scambiarsi delle cose,
realizzando la co-appartenenza, ossia quell’esperienza comune che fa
diventare reciprocamente noti. Ciò permette la costruzione di una storia
comune e favorisce la condivisione dei ricordi che di sovente viene
verbalizzata dai ragazzi con frasi quali “ti ricordi quella volta che….”225.
Un “ti ricordi…?” che ha il sapore della familiarità, della reciprocità e
che, non a caso, spesso viene rimarcato dal gruppo al momento di un
nuovo ingresso, ove l’ultimo arrivato viene guardato con diffidenza dai
già residenti, che con queste espressioni sottolineano la distanza tra
“lui” e “noi”. Distanza che naturalmente andrà riducendosi col passare
del tempo, ossia col susseguirsi di nuove esperienze comuni includenti
anche il nuovo ragazzo.
224
La teo ia dell’atta a e to descrive le modalità attraverso le quali il bambino impara a soddisfare il suo bisogno di
accudimento e di protezione; questo soddisfacimento porta ad instaurare una relazione significativa con le sue figure
adulte di ife i e to; i ase alla ualità dell atta a e to il a i o sviluppe à u a p op ia odalità di elazio a si o il proprio contesto di vita MOI . La ualità della a e p i a ia i ide sulla possi ilità di st uttu a e atta a e ti si u i e di o segue za st ategie di auto egolazio e e otiva: u a a e po o a ude te, po o se si ile o del tutto asse te determinerà nel bambino la costruzione di un MOI che non permetterà di instaurare relazioni positive, comportando una
forte difficoltà nella gestione del proprio mondo emozionale e una rappresentazione di se stessi come persone incapaci di
dare e ricevere fiducia. 225
Il ricordare rimanda all aspetto pe ettivo – esteti o della elazio e: i fatti l e ozio e he p ovo a il i o do evo a u a memoria, che può essere positiva o negativa; ciò vuol dire che dacché le cose sono inanimate, prendono vita quando
nascono nel nostro mondo ed è su ciò che ha vita nel nostro mondo che poi si basa il senso del ricordo. Con tale
ope azio e l edu ato e e l edu a do, i o da do ual osa e ip o a e te l u o dell alt o, passa o dall esse e in-formi
all ave e u a forma.
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Come insegna la volpe al piccolo principe, nel noto libro di De Saint-
Exupery, la relazione non nasce da sé né si improvvisa, è il rito che crea
la quotidianità ed è la quotidianità che permette l’appartenenza e il
riconoscimento.
La “gestione della quotidianità” e la “pedagogia delle piccole cose”:
sono questi i due elementi principali che determinano in concreto il dare
e avere fiducia nel contesto della comunità “C.ED.RO.", utilizzando la
modalità del fare insieme ai ragazzi, con la possibilità anche di stupirli
sia giocando, divertendosi insieme ad esempio con una partita a calcio
balilla, dunque condividendo con loro quello che sanno già fare, sia
anche facendo con loro cose che non fanno mai o che non sanno fare, sia
infine inventandosi esperienze nuove.
Il fare con infatti crea un “ponte”: il ragazzo e l'adulto, sono
collegati da un “oggetto mediatore”, come afferma Andrea Canevaro,
vale a dire da un'esperienza che consente loro di raccontarsi, quindi di
“scambiarsi delle cose”, oltre che di sperimentarsi nel saper fare e
imparare cose nuove226.
Non bisogna pensare, tuttavia, che tutto quanto esposto finora abbia
bisogno di chissà quali programmi, strutture, strumenti, materiale.
Questo perché, come in parte già evidenziato, in una comunità (famiglia,
scuola, casa-famiglia) la vita si svolge rotolandosi in minuti di esperienze
piccole, di relazioni ripetitive, di ritmi, di sequenze, di rituali: è l’arte
della tessitura del quotidiano, un’arte basata su “stimoli
226
Aa. Vv., La quotidiana relazione con bambini in difficoltà, Supplemento al nr. 10/2009 di Animazione Sociale, Torino,
2009, p.61.
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elettrodeboli”227, ossia su piccoli, costanti e delicati input di intensità
minima che, secondo la legge della gradualità, lentamente e senza mai
forzare, sono in grado di promuovere un effetto più grande ossia
“perturbare”, “sconvolgere”, nel senso etimologico di far volgere lo
sguardo diversamente. Solo così è possibile ispirare un movimento che
origina dall’interno e che proprio per questo è l’unico che può smuovere
il ragazzo dai suoi schemi abituali e determinare una modificazione dei
comportamenti, dunque un reale cambiamento.
I ragazzi accolti in comunità, tutti, amministrativi o penali che siano,
hanno generalmente alle loro spalle un vissuto contrassegnato da forme
di deprivazione228 e/o di maltrattamento229, vale a dire da un tessuto
quotidiano frammentario e poco accudente, caratterizzato da
un’esperienza relazionale con il mondo degli adulti debole e insicura. Ne
consegue che la principale funzione del lavoro educativo in comunità non
può essere quella di tessere il quotidiano quanto piuttosto quella di
ripararlo, aiutando il ragazzo a percepire il suo valore attraverso un
paziente lavoro di ri-tessitura del tessuto di quotidianità, con tutto
quello che questa comporta di relazioni ed emozioni, azioni e significati,
incontri e scambi.
227
Concetto tratto da appunti del corso P eu o-Psico-“o a , P. Spoladore, Usiogope, S.Maria di Sala (Ve), 2014. 228
I contributi della psicopatologia classica mettono in luce che la deprivazione può comportare un disturbo reattivo
dell'attaccamento i cui sintomi principali sono: mancanza di capacità di dare e ricevere affetto, comportamenti aggressivi,
disturbi nel contatto visivo e nel linguaggio, bugie e furti, forti tendenze antisociali, mancanza di amicizie o rapporti
significativi stabili, consistenti problemi di controllo. Il disturbo è dovuto alla mancanza di un attaccamento primario a
seguito del rifiuto e della separazione dalla madre: un rifiuto che può verificarsi e permanere anche quando la madre è
fisicamente presente, ma la relazione con il figlio è caratterizzata dal fallimento iniziale di qualsiasi capacità empatica e di
contenimento. 229
I bambini e gli adolescenti che hanno subito maltrattamento (fisico o psicologico) o trascuratezza presentano problemi
scolastici e nell'apprendimento connessi a ritardi dello sviluppo intellettivo; difficoltà sociali ed emozionali, comprensive
di ostilità, forte impulsività, aggressività, passività; bassa stima di sé, ridotta sensibilità emozionale, mancanza di fiducia
negli altri, dipendenza e, nel lungo periodo, esiti nella devianza e nella psicopatologia conclamata.
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La comunità si pone, dunque, quale luogo di sviluppo di molteplici
relazioni, qualificate tutte dal fatto di inscriversi nell’arte di inventare
la vita di ogni giorno, fermo restando che il quotidiano è per eccellenza
il luogo generatore del senso stesso della vita. Certo, ciò ad alcune
condizioni, visto che per questi ragazzi il quotidiano è stato luogo
distruttore del senso, ragione per cui oggi sta aumentando nei diversi
ambiti disciplinari e professionali la consapevolezza che i ragazzi in
difficoltà hanno estremo bisogno di una “terapia del quotidiano”, prima
ancora che di una “terapia nel quotidiano”, una terapia che ri-tessendo
sia restitutrice di senso230.
Ri-tessere il quotidiano vuol dire innanzitutto partire dalle sue
dimensioni portanti: lo spazio e il tempo, all’interno delle quali si
strutturano routine e regole231. L’agire nella condivisione di spazi e
tempi di vita quotidiana è il tratto distintivo di ogni intervento
educativo, sia esso tutelare, ripartivo o preventivo, perché costituisce il
senso profondo dell’accoglienza: non si tratta più solo di vivere, ma
insieme di dare significato alle cose che si vivono. Gli adolescenti accolti
in comunità sono, infatti, spesso incapaci di attribuire un significato alle
loro esperienze e, di conseguenza, guardare con fiducia al futuro.
E’ proprio in questo quadro, dentro la trama delle azioni quotidiane,
che si gioca la funzione relazionale dell’educatore, accompagnandoli nel
fare esperienze di valore, quali occasioni in cui aiutarli a ricercare un
ordine per tutti i loro vissuti e attribuire un senso alle cose che si fanno
tutti i giorni. Pratica, questa descritta, possibile solo se si è capaci di
230
Aa. Vv., La quotidiana relazione con bambini in difficoltà, op. cit., p.79. 231
F. Emiliani, P. Bastianoni, Una normale solitudine, Carocci editore, Roma, 1998, p 77.
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comprendere il valore profondo del “fare con” e dello “stare nella
relazione” assumendone il dato di fatica che inevitabilmente essa porta
con sé, nonché di vedere in tutto questo l’opportunità di stimolare
conoscenza, di promuovere cambiamento, di favorire la crescita: è
seguendo il percorso pensieri - emozioni - azioni, che tutto questo
diventa quotidiano, fluido, prezioso.
La vita quotidiana in comunità viene, in tal modo, a svolgere una
funzione “riparativa” rispetto a tutte le pregresse situazioni di
deprivazione e/o maltrattamento da cui provengono i ragazzi accolti.
Riparazione che è possibile ricreando un “ambiente terapeutico”232 che
recuperi, ricostruisca ed attualizzi le primarie funzioni strutturanti
fallite, riparando da precoci fallimenti ambientali.
E’ sulla base di tali assunti che si dispiega l'organizzazione della vita
quotidiana, nella comunità “C.ED.RO.”, con tempi e ritmi tipici di ogni
vita familiare, centrata sulla responsabilizzazione dei ragazzi nei
confronti di se stessi, degli altri e dell’ambiente.
L’intento è quello di formare dei soggetti attivi, di promuovere le
capacità del singolo, la propria autostima e la capacità di vivere
responsabilmente la vita nella società. Tali presupposti vengono tradotti
in azioni concrete che inducono il minore a riconoscere le proprie
risorse, a sperimentare le proprie capacità e ad interiorizzare quindi
norme e valori, favorendo il suo inserimento nella trama del tessuto
232
L idea di "ambiente terapeutico globale" (Winnicott, 1965; Bettelheim, 1950; Redl e Wineman, 1951) sottolinea
l i po ta za della vita quotidiana come luogo "pensato" nella sua globalità per realizzare l'intervento riparativo e
terapeutico, rifiutando la separazione fra un setting "a parte" deputato all'intervento psicoterapico. Su questo punto il
o t i uto di B u o Bettelhei i po ta te e i ovativo: La te apia o si svolge es lusiva e te i particolari
momenti della giornata incontrando in un setting particolare una persona diversa da quelle abituali: al contrario,
chiunque fa parte della comunità esercita un ruolo terapeutico, che è diverso in funzione del ruolo ma non è strutturato
gerarchi a e te pe i po ta za . Il o etto di te apeuti o vuole sottolineare, in maniera specifica, la possibilità
dell a ie te di p o uove e ileva ti p o essi di a ia e to.
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sociale come un individuo responsabile e consapevole delle proprie
azioni. In questo senso è di fondamentale importanza la partecipazione
diretta, nei limiti delle possibilità di ciascuno dei ragazzi accolti, alla
gestione e al funzionamento della comunità: collaborazione nei lavori
domestici, responsabilizzazione e coinvolgimento nelle piccole e grandi
decisioni quotidiane.
Al riguardo è, tuttavia, opportuno non dimenticare che
generalmente gli adolescenti che giungono in comunità, in particolar
modo quelli devianti, proprio sulla base di quanto già detto, non
riescono a far fronte ai compiti della vita quotidiana senza divenire “un
inestricabile groviglio di pulsioni”233 e tra gli impulsi che essi non sanno
padroneggiare, spicca, indipendentemente dalla storia di ognuno, un
sentimento di sfiducia, di rabbia, di odio nei confronti di tutto e di tutti:
non sono capaci di far fronte alla paura, alla frustrazione, all’angoscia o
all’insicurezza senza cadere in forme di aggressività né di reagire in
modo positivo ai sensi di colpa che hanno per tali comportamenti.
Di fronte a questa sfida educativa soltanto un programma di
intervento realizzato in un ambiente curato e costruito ad hoc, può
sperare di ottenere risultati significativi, nella convinzione che, come
sostiene Palmonari, “la persona non si costruisce né si ricostruisce
prescindendo dall’ambiente in cui vive”234. E’ proprio assumendo tale
prospettiva e rispondendo al criterio di “familiarità” suggerito già a fine
‘800 da padre Annibale, che all’interno della comunità si è cercato di
233
F. Redl, D. Wineman, Bambini che odiano. Tecniche di trattamento del bambino aggressivo, Vol. 2, Boringhieri Editore, Torino,
1974. 234
A. Palmonari, Psi ologia dell’adoles e za, op. it.
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creare un ambiente di vita in cui ogni elemento dello spazio fisico e
sociale risulti curato, in modo da poter stabilire una continuità tra i
valori a cui la comunità si ispira e gli elementi ambientali, con la
consapevolezza che ciò che crea realmente la dimensione di “casa” è
senza dubbio la possibilità di sentirsela propria.
La consapevolezza dell’influenza dell’ambiente circostante sulla
costruzione e sulla percezione del sé, richiama ad un forte e motivato
impegno morale e professionale gli adulti: le persone a cui è rivolta la
cura sono al centro e, all’interno di un’atmosfera familiare, gli operatori
condividono emotivamente ogni evento. Per una comunità educativa,
infatti, l'essere casa è il risultato di un processo che si costruisce di volta
in volta con ogni nuovo ragazzo e che inizia progettando un luogo
accogliente, pensato per promuovere la quotidianità e la normalità delle
azioni e delle relazioni235. La struttura fisica, oltre che tutti i rapporti
sociali che in essa si sviluppano, ha quindi una valenza “terapeutica”
finalizzata a far sentire il soggetto “a casa sua”: una casa luminosa,
colorata e curata, degli oggetti di gusto in essa, uno spazio che lasci
liberi e che possa essere personalizzato.
L’idea di “ambiente terapeutico globale”, permette di costruire una
dimensione di vita quotidiana come luogo “pensato” nella sua globalità:
così come lo spazio fisico, anche ogni dettaglio dello spazio sociale è
considerato importante. Inoltre tutti i momenti della giornata hanno
rilevanza terapeutica, pertanto, sono in primo piano tutti i momenti di
relazione e di incontro, in particolare l’accoglienza, e poi a seguire tutti
235
C.N.C.A., Parliamo ancora di comunità, Gruppo ad hoc Nazionale – Infanzia, Adolescenza e famiglie, 2012, p.33.
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gli altri momenti di interazione con i responsabili, con gli operatori, con
il personale delle pulizie e della cucina.
All’interno di un tale ambiente la vita quotidiana degli ospiti può
svolgersi sulla base di attività gratificanti, coinvolgenti e che sollecitino
l’apprendimento, in collaborazione con gli adulti, nel rispetto di regole e
abitudini condivise. Le piccole cose della quotidianità, il farle insieme,
dunque determinano in concreto il dare e avere fiducia, il che vuol dire
accompagnamento, presenza, scambio.
Gli educatori sono così in grado di ispirare e promuovere una
modificazione dei comportamenti tramite il semplice vivere insieme la
giornata, la vicinanza, il contatto e il coinvolgimento in un rapporto
basato sull'interessamento e su gesti che hanno profondamente a che
fare con l’aver cura, ma prima ancora con l’avere a cuore.
Gesti ove i tre momenti della cognizione, dell’emotività e
dell’azione risultano essere indisgiungibili, così come messo in luce da
Paolo Fabbri in una delle più significative definizioni della cura, definita
dal semiologo come “qualcosa tra cognizione e passione che è seguita da
un fare, si conclude nell’azione. Curarsi di qualcuno, significa starci
attenti, interessarsene, ma nello stesso tempo essere pronti a fare,
passare all’azione. E’ quel nodo essenziale che lega la cognizione e la
passione alle azioni”236.
La cura implica, dunque, immediatamente un passaggio all’azione e
alla prassi che scongiura il rischio di arrestarsi all’astrattezza di un puro
principio morale. Ma per essere realmente tale, una relazione di cura
236
P. Fabbri, Abbozzi per una finzione della cura, in P. Donghi e L. Preta, (a cura di) In principio era la cura, Laterza, Bari-
Roma, 1995, p. 29.
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deve sempre, necessariamente, essere animata da quell’avere a cuore,
senza cui rischia di ricadere nel puro assistenzialismo.
E’ ispirata da quest’essenza, che l'azione strutturante della vita
quotidiana, riconosciuta e prevedibile, rende possibile la coordinazione
delle interazioni tramite azioni abitudinarie, ossia azioni dotate di senso
per tutti i partecipanti e rilevanti sul piano psicologico per la loro
funzione di supporto alla costruzione dell’ambiente comunitario.
Il fatto poi che i minori vivano in gruppo permette loro di coltivare
forme di sicurezza emotiva anche nei momenti in cui essi sono portati ad
abbandonarsi a comportamenti di regressione e di ritiro dall'ambiente. In
pratica, si tende a programmare le attività giornaliere orientandole al
progressivo arricchimento e consolidamento del sé di ciascuno degli
ospiti, con l'obiettivo di renderli capaci di non farsi più trascinare in
scariche incontrollate di pulsioni aggressive, ma di affrontare le prove
della vita con sempre maggiore competenza e da protagonisti.
Un ambiente che si proponga obiettivi “terapeutici” oltre ad uno
spazio fisico atto a favorire l’instaurarsi di un’atmosfera rassicurante per
coloro che vi abitano, utilizza anche il tempo e i ritmi del quotidiano per
garantire le condizioni necessarie a innescare processi di cambiamento e
crescita237.
Quella del tempo è, in realtà, una dimensione che appare
particolarmente destrutturata negli adolescenti accolti: accade infatti di
sovente che i ragazzi in comunità presentino, al loro ingresso, una
concezione temporale distorta, nella quale sono molto frequenti
237
F. Emiliani, P. Bastianoni, Una normale solitudine, op. cit., p.81.
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l’inversione notte-giorno e l’assoluta sregolatezza degli orari dei pasti.
Più in generale le loro giornate, oltre ad essere vissute all’insegna della
casualità e della non programmazione, risultano essere contraddistinte
dall’assenza di scansioni regolari, di continuità nel rapporto di cura, di
comunicazione di gesti, di scambio verbale, in altre parole dall’assenza
dell’adulto. L’ambiente comunitario si propone di intervenire su questa
dimensione, attraverso l’organizzazione di una giornata-tipo nella quale
sono previste ed indicate le attività quotidiane, poiché “rendere
ripetitivi i comportamenti inglobandoli in routine consolidate”, come
scrivono Emiliani e Bastianoni, “costituisce una strategia
comportamentale che permette d’immagazzinare i significati sociali in
un bagaglio di conoscenze noto e dato per scontato”238.
Lo scopo è dunque quello di definire dei ritmi che possano essere
progressivamente interiorizzati dagli ospiti, in virtù della dimensione
rassicurante propria della ripetitività. La comunità rivolge la sua
attenzione proprio alla vita quotidiana perché “la quotidianità protetta”
implica ripetitività, prevedibilità, familiarità e rassicurazione; è inoltre
facilmente riconoscibile ed è rappresentabile a livello mentale.
Tutte le comunità si danno regole, tutte strutturano la quotidianità
in routine239 (il pranzo, la cena, i tempi delle attività, l’andare a letto,
la sveglia, etc.), operazione questa funzionale a creare un ordine nella
giornata, prestando attenzione a che questi momenti dell’azione
ripetuta e ritualizzata diventino il luogo della negoziazione e della
238
Ivi, p.82. 239
Le routines hanno la funzione pratica di elemento organizzatore dello stile di vita familiare, diventano rituali quando
oltre a ciò forniscono u a app ese tazio e si oli a dell ide tità fa ilia e. I rituali sono infatti interazioni sociali
schematizzate che includono una prescrizione di ruoli, u att i uzio e di significati; ricorrono in tempi e luoghi prevedibili,
forniscono all i dividuo u se so di ide tità all i te o di u più a pio g uppo.
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condivisione di significati. Il rischio è infatti quello di eccedere in tal
senso e cadere nell’errore di predisporre una scansione temporale rigida
e omologante, tipica delle istituzioni totali: la strutturazione del tempo
in comunità non deve risultare opprimente ma essere sempre rispettosa
dei tempi personali, mai frenetica e alienante come nei “vecchi istituti”.
Questo tempo quotidiano è gestito con la predisposizione di una
giornata-tipo ed è costellato da momenti importanti, ai quali i ragazzi
lentamente imparano a dare valore, come i pranzi e le cene insieme, le
feste di compleanno, le gite, le occasioni speciali, piccoli riti condivisi in
cui prende progressivamente corpo la relazione con gli educatori e con
gli altri ragazzi. La struttura fondamentalmente costante della giornata,
unita alla turnazione programmata degli operatori sui sette giorni, ha la
funzione di consentire ai ragazzi di assumere un ritmo di vita consono
all’età, e nello stesso tempo ha una funzione rassicurante in merito alle
angosce che potrebbero essere legate all’incertezza del futuro240.
Preoccupazione, questa, che i ragazzi, lasciano emergere chiaramente
con domande ricorrenti, talvolta assillanti, di varia natura, da quelle
volte a sapere “quale operatore verrà dopo e poi domani” a quelle
relative al chiedere continua conferma dell’orario di un particolare
impegno, e così via: domande che denotano chiaramente il bisogno di
regolarità temporale e rassicurazione in tal senso. Al riguardo è utile
anche osservare la differenza tra chi vive in comunità da più tempo, e gli
ultimi arrivati: i primi infatti, appaiono senza dubbio più sicuri e
240
Ivi, p. 83.
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autonomi nella gestione della propria giornata, senza la necessità di
chiedere costantemente conferma di quanto accadrà.
Appare inoltre importante sottolineare come il tempo in comunità
debba, a lungo termine, avere anche una funzione emancipante,
aiutando i ragazzi a liberarsi da una percezione esclusiva dell’hic et
nunc, caratterizzata da comportamenti consumistici, ma anche dalla
smania del “tutto e subito” che sovente li rende incapaci di aspettare,
ma ancor prima di accettare che esista anche il tempo dell’attesa.
Altro fondamentale principio organizzatore del quotidiano è la
regola, che orienta i comportamenti dei singoli e del gruppo.
Regola fondamentale per chi vive nella comunità “C.ED.RO.” è il
profondo rispetto delle persone e delle cose: la cura dell’igiene
personale, il rispetto degli orari, la partecipazione attiva alla vita
domestica, l’uso corretto e moderato di radio, televisione e computer, e
così via, sono aspetti di questo assunto fondamentale. I ragazzi sono
inoltre chiamati a discutere assieme agli educatori alcune regole
specifiche, perché ognuno abbia la possibilità di responsabilizzarsi e di
vivere le norme senza subirle, in un percorso di reale interiorizzazione.
Ma in particolar modo nel regolamento, si sottolinea con decisone
che il principio del rispetto reciproco non consente in nessun caso di
giustificare il ricorso a forme di violenza, siano esse fisiche o verbali. Al
riguardo è tuttavia opportuno tener presente che i comportamenti
violenti sono molto comuni nel repertorio dei “bambini che odiano”: è
pertanto fondamentale assumere questo dato, senza però darli per
scontati, ma mettendoli in discussione, sanzionandoli e soprattutto
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aiutando i ragazzi a sperimentare altre modalità relazionali più valide e
più adeguate.
Per quel che concerne la sanzione, è importante sottolineare che si
cerca di utilizzare la “punizione” come strumento costruttivo,
esplicitandone il significato al ragazzo e facendo attenzione al livello
comunicativo ad essa sotteso, cui è strettamente connesso il valore
educativo di cui è portatrice. E’ fondamentale, infatti, che il ragazzo ne
comprenda il senso: solo così essa potrà essere occasione di riflessione
ed eventualmente di modificazione del comportamento. Ciò è vero per
tutti gli ospiti, ma in particolar modo per i ragazzi provenienti dall’area
penale, con i quali è senza dubbio necessario prestare una maggiore
attenzione in tal senso, proprio in ragione del loro rapporto con le regole
già palesemente non adeguato.
Rilevante è, al riguardo, la coerenza nel far rispettare le regole,
prestando attenzione a che tutti gli adulti della casa operino con lo
stesso “metro”. Tale elemento appare particolarmente importante in
quanto gli adolescenti accolti in comunità, soprattutto quelli devianti,
sia per il particolare momento evolutivo rappresentato dall’adolescenza,
sia per la storia che hanno alle spalle, generalmente non hanno
introiettato in maniera adeguata né il senso della regola, intesa proprio
come limite alla condotta e come contenitore per dare sicurezza, nè il
suo conseguente rispetto. Pertanto è necessario insistere su tale aspetto
riducendo al minimo le occasioni di incoerenza nella gestione da parte
degli adulti, consapevoli dell’estrema dannosità di modalità ambivalenti,
che non consentono al ragazzo di avere una chiarezza né dunque di
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distinguere “ciò che è possibile fare” da “ciò che non va fatto”, col
rischio enorme che il suo rapporto con la regola, ed in particolar modo
con le norme giuridiche che, se proviene dall’area penale, ha già violato,
resti immutato. In tal senso anche le eccezioni vanno centellinate e
opportunamente motivate e chiarificate, per non creare precedenti
facilmente strumentalizzabili dai ragazzi.
Per quel che riguarda, invece, più nel concreto la natura della
sanzioni praticate, l’idea generale è quella di proporre ai ragazzi
occasioni di riparazione costruttiva, proporzionate all’accaduto,
finalizzate a ripristinare gli oggetti (o le relazioni) danneggiate in
qualche scatto d’ira, evitando così un eccessivo senso di colpa: ad un
ragazzo che ha sfondato la porta della propria stanza con un pugno,
viene chiesto di risistemarla, aiutato dall’educatore, con un intervento
di falegnameria e verniciatura, lavoro che oltre a riparare
concretamente il danno rende il suo autore anche più attento e
responsabile rispetto alla conservazione della porta stessa. Altri esempi
di sanzioni utilizzate di fronte alla trasgressione, sempre come segnali di
attenzione e possibilità riparatoria, sono i turni supplementari di pulizia
cucina o la riduzione dell’orario di uscita se l’infrazione riguarda un
ritardo nel rientro.
Appare evidente, da quanto fin qui detto, che questa preziosa ri-
tessitura del quotidiano, ruota attorno alla figura degli educatori ed alla
modalità con cui essa si dispiega.
Al riguardo, Bastianoni ed Emiliani, sostengono che la funzione svolta
dagli adulti può essere ricondotta ai concetti di frame e scaffolding,
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propri della prospettiva interattivo-costruzionista241 che individuano
come indispensabile per uno sviluppo normale, la funzione di sostegno
che l’adulto deve fornire al bambino e all’adolescente perché questi sia
in grado di elaborare una conoscenza di sé e del mondo. Coerentemente
con tale prospettiva il lavoro educativo svolto al “C.ED.RO.” punta a
offrire ai ragazzi sostegno nel lavoro di definizione e ridefinizione di sé,
realizzando un frame e uno scaffolding, attraverso l’affiancamento,
l’accompagnamento, la costruzione di routines da interiorizzare, la
condivisione della vita quotidiana, la rielaborazione delle esperienze.
“Supporto” e “impalcatura” andranno poi progressivamente tolti, per
lasciare ai giovani spazi di sempre maggiore autonomia.
Questa fondamentale funzione si articola in altre più specifiche, tra
queste le più significative poste in essere sono: la costruzione di una
storia comune; la cura personale; il supporto all’apprendimento; giocare
e divertirsi insieme; il sostegno emotivo.
Riparare il tessuto liso, sfilacciato, zeppo di toppe e buchi, del
pesante quotidiano da cui provengono gli adolescenti in difficoltà,
appare, alla luce di quanto detto un’operazione complessa e preziosa,
articolata in molteplici micro azioni e attenzioni. Ma è proprio questa
capacità di tessere nuovamente, di ri-tessere, a rappresentare la novità
relazionale dell’intervento in comunità, in netta discontinuità con
l’ambiente d’origine e in tensione verso la definizione di un futuro
diverso. L’ambiente della comunità non può che essere espressione di
241
I concetti di scaffolding (supporto) e di frame (impalcatura) nella prospettiva interattivo - costruzionista riguardano le
fu zio i di st uttu azio e he l adulto o pie ei o f o ti del p o esso di ost uzio e della o os e za da pa te del a i o e si ife is o o all espe ie za di etta e o eta he uest ulti o fa dell i te azio e o l adulto. Cf F. E iliani,
P. Bastianoni, Una normale solitudine, op. cit. p.87-88.
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questa tensione al cambiamento, resa visibile dalla cura degli ambienti,
dalla qualità e dall’attenzione alla cura personale e alla cucina, dal
benessere della vita quotidiana, dalla possibilità di frequentare nuovi
amici e nuove situazioni e di essere impegnati in attività diverse e
stimolanti in grado di attivare nuovi canali di espressione personale e di
esplicitare vissuti emozionali diversi.
Una ri-tessitura che trova, dunque, nella dimensione fondante della
cura quel filo resistente e nuovo attraverso cui si fa relazione d’aiuto,
atta a riportare l’altro al suo progetto esistenziale.
Ritessitura che appare pertanto un’impellente “emergenza”
educativa, profondamente legata con quell’avere a cuore che, come
sottolineato nel celebre libro di Leo Buscaglia, rende l’amore e dunque
anche l’educazione quel processo graduale e privo di forzature col quale
“ti riconduco dolcemente a te stesso”242.
242
L. Buscaglia, Vivere, amare, capirsi, Arnoldo Mondadori, Milano, 1982, p.29.
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CAPITOLO QUINTO
Il Progetto di Messa alla Prova nella comunità “C.ED.RO”: analisi di un caso
Andare incontro alle persone nel loro mondo. Milton Erickson
Se continui a fare quello che hai
sempre fatto, continuerai ad ottenere ciò che hai sempre avuto.
Warren G. Bennis
Un uomo vide Nasruddin che cercava qualcosa per terra davanti a
casa. “Cosa hai perso, Mullah?” - gli chiese. - “La chiave.” - rispose
Mullah. Si misero tutti e due in ginocchio a cercarla. Dopo un po’ l’uomo
chiese: “Dove ti è caduta esattamente?” - “In casa.” - “Ma allora perché
la cerchi qui?” - “Perché c’è più luce che dentro casa”243.
Questo breve racconto mi torna spesso in mente quando sento che
mi sfugge qualcosa, quando “i conti non tornano”. Accade infatti che
talvolta, come Nasruddin, cerco quel “qualcosa”, la risposta ad una
domanda, la soluzione ad un problema, la chiave d’accesso al mondo
interiore di uno dei “miei” ragazzi, nei luoghi sbagliati, ossia in quei
luoghi scontati, già visti, comodi, luoghi troppo lontani da quello che è il
centro, il cuore del problema, per poter trovare realmente qualcosa.
E’ la cura della relazione educativa, dello stare continuamente
“sulle barricate”, esposti a correnti d’aria emozionali molto forti, che
243
Cfr. Asha Phillips, 1999, Saying No. Wh it’s i po ta t fo ou a d ou hild, ed. Faber and Faber Limited; Nasruddin è
il protagonista di una lunghissima serie di racconti della tradizione Sufi, calato a volte nella parte dell'idiota o dello
sciocco, altre volte in quella di un grande saggio. Il racconto è tratto dal grande classico Salaman e Absal, opera di Abdur-
Rahman ]ami, mistico del XV secolo.
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talvolta può generare una certa “pigrizia mentale”, una resistenza
interiore a fare uno sforzo in più, proprio per la consapevolezza della
fatica che questo comporta. Fatica che è propria di ogni relazione
educativa, che l’educatore è chiamato ad assumersi tutta e che di tanto
in tanto può suggerire soluzioni comode che tante volte portano a
tentare di comprendere un ragazzo, le sue sfide, le sue provocazioni, i
suoi errori, le sue urla o i suoi silenzi, attraverso le proprie lenti,
cercando risposte nel proprio mondo, dunque nel posto sbagliato o
semplicemente in quello più comodo, quello in cui c’è più luce.
Ma un adolescente in difficoltà, un ragazzo cui viene chiesto di
sostenere un percorso di messa alla prova in comunità, ha bisogno
innanzitutto di trovare nel luogo che lo ospita un adulto che sia disposto
ad incontrarlo realmente, a stargli accanto attentamente e a mettere in
gioco ogni risorsa per promuoverne la crescita, come di dar valore a cose
che non hanno più valore, proponendo la riscoperta di dimensioni quasi
“banali”. Ha bisogno di un adulto capace di eliminare dal suo
vocabolario le parole “sempre” e “mai” che troppe volte riducono ogni
comportamento in uno scettico e mortale “tanto sei sempre il solito” o
“non ne combini mai una giusta”, frasi che non promuovono, ma
chiudono ogni possibilità di dialogo e di fiducia.
Da tali considerazioni emerge chiaramente anche l’urgenza
impellente di fare attenzione alle parole: ha un suono diverso dire ad un
ragazzo “questa volta l’hai combinata grossa ma ti ricordi quando……?”,
ha il suono della fiducia, di chi cerca il punto positivo su cui fare forza
per attivare tutte le risorse possibili.
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Appare allora necessario, nell’agire educativo, innanzitutto
contenere i rischi di riduzionismo e di facili soluzioni, mantenendo alta
la consapevolezza del carattere ternario della relazione educativa
richiamato con chiarezza da Paulo Freire che ne “La pedagogia degli
oppressi” scrive:
Attraverso il dialogo si verifica il superamento da cui emerge un dato nuovo: non
più edu ato e dell edu a do, o più edu a do dell edu ato e, a edu ato e/edu a do o edu a do/edu ato e. I tal odo l edu ato e o solo olui he edu a, a olui he, e t e edu a, edu ato el dialogo o l edu ando, il quale a
sua volta, mentre è educato, anche educa. Ambedue così diventano soggetti del
processo in cui crescono insieme e in cui gli argomenti di autorità non hanno più valore;
in cui, per essere funzionalmente autorità, bisogna essere con la libertà e non contro di
essa. A questo punto nessuno educa nessuno, e neppure se stesso: gli uomini si educano
in comunione, attraverso la mediazione del mondo244
.
Spesso leggendo questo passo ci si sofferma sul tema del dialogo e
dell’autorità funzionale, tralasciando, a mio avviso, un aspetto decisivo:
il dialogo educativo non è composto solo da due elementi (l’educatore e
l’educando), ma ve ne è sempre un terzo che Freire chiama “mediazione
del mondo”: l’educazione chiede sempre un bene da cercare insieme, un
contesto da condividere, un “oggetto” su cui operare. Ogni volta che si
isola uno degli elementi della struttura ternaria, il processo educativo è
destinato a chiudersi in sé e a diventare sterile così come l’educatore è
destinato a compiere una ricerca autoreferenziale concentrata sul fare
congetture e ipotesi perdendo di vista la realtà dell’altro. Porsi in
un’ottica ternaria significa infatti chiedersi: In riferimento a che cosa
sto costruendo la relazione? Per quale bene? Attraverso la condivisione
di quali esperienze? 245
244
P. Freire, Pedagogia degli oppressi, EGA, Torino, 2002, p.69. 245
Aa. Vv., La quotidiana relazione con bambini in difficoltà, op. cit., p.108.
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E’ un’ottica che apre al tema delle possibili modalità e direzioni di
lavoro. Modalità aperte a cercare quello che “non troviamo” o che
“abbiamo perso” andando incontro all’altro “nel suo mondo”, rischiando
anche di allontanarci molto dai nostri schemi, dai posti dove c’è “più
luce”, in una parola da quello che noi consideriamo “il centro”. La
strada per stare attentamente accanto agli adolescenti in difficoltà è
una strada che va percorsa necessariamente in direzione del margine.
La visione dell’impegno educativo come impresa comune e della
dinamica educativa come fatto intrinsecamente “ternario” ci sollecita
dunque a cercare e costruire relazioni significative secondo la logica
dell’apertura, un’apertura che riguarda sia il processo educativo in
quanto tale, sia le sue finalità, in quanto educare significa non
semplicemente “custodire” ma rendere le persone capaci di “abitare il
mondo” con responsabilità e libertà, ossia promuoverne la crescita in
maniera globale.
Promuovere. Ecco un’altra parola chiave, insita nel dna di ogni
processo educativo. Tale termine composto, da PRO e MOVERE, presenta
infatti in sé due valenze semantiche: muovere a favore e muovere
avanti, indicando in tal modo lo spingere in una direzione che abbia una
significatività. Il processo educativo, pertanto, si configura come un
percorso ove ogni input dato deve essere fortemente orientato in un
senso che consenta al soggetto di avanzare verso una direzione ben
precisa. Attivare un processo educativo vuol dire, in altre parole, avviare
il soggetto verso un percorso di autoscoperta, di autoaccettazione e di
autoprogettazione che possa consentirgli di costruire il proprio sé. Un
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percorso di cui va valutato l’itinerario, ossia quello che il soggetto ha
messo in campo, la sua tensione interiore e non certamente il mero
prodotto finale, un percorso ove l’errore, la défaillance, non sia
demonizzato ma considerato una possibilità di crescita.
L’errore in termini educativi, rappresenta un’interruzione che porta
in sé la possibilità di vedere e comprendere e può essere considerato un
incidente critico che offre un contributo positivo al cambiamento. Come
tale, quindi, l’errore è necessario in ogni processo di crescita, perché
consente al soggetto di avviarsi all’autonomia, di trarsi fuori dalla
propria difficoltà, di emanciparsi, dalla propria situazione, fine ultimo di
ogni processo educativo. Il problema non sorge nel riconoscere un
errore, dicendo “ho sbagliato”, quanto piuttosto nell’affermare “io
sbaglio sempre”, dunque assolutizzando e giudicando.
Il valore aggiunto di un progetto di messa alla prova in comunità è
dato, a mio avviso, proprio dalla possibilità di fare un percorso di
emancipazione costellato da incontri autentici, dalla possibilità di
incontrare adulti che abbiano desiderio e capacità di accompagnare il
ragazzo in quel piccolo, ma in quel momento fondamentale, tratto di
strada, perché è un “pezzetto” che se ben progettato può fare la
differenza.
L’obiettivo non è “salvare”, mai! Il “salvare”, come l’imporre, è
un’azione a senso unico, un trainare con forza che, seppur con le
migliori intenzioni, non produce un cambiamento reale perché è un
movimento che viene unicamente dall’esterno. Il senso è invece quello
di ex ducere, di trarre fuori, per fare insieme un tratto del percorso in
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un tempo e in uno spazio definiti, con lo scopo di portare l’altro a darsi
una diversa possibilità di essere, poiché educare, come già detto,
implica la possibilità di avere un progetto e di condividerlo, un progetto
che non sia uno strumento tecnico, freddo e neutrale, ma una possibilità
concreta e viva, che si configuri come la risposta alla domanda: “che
futuro può avere Achille, Simone, Mariano…, vista la sua storia? Qual è la
cosa migliore per lui?”
Il progetto è una storia il cui esito è incerto, ma che ci consente di
sperare. Presuppone infatti un futuro verso cui tendere e senza il quale
non è possibile progettare e quindi educare: l’educazione non esiste se
non c’è un futuro da ipotizzare, ma deve ancorarsi al passato, alla
memoria, alla storia di ogni ragazzo per dare un senso e un significato a
ciò che egli è adesso, per attribuire valore a un percorso anche doloroso.
Ogni cambiamento non può mai essere imposto ma va negoziato
continuamente, tenendo presente che per ogni individuo ogni
cambiamento è fonte di fatica e di dolore. Qualunque azione educativa,
proprio perché invita, induce al cambiamento, porta con sé sempre un
primo momento di crisi profonda comportando una reazione di resistenza
forte, ciò anche perché il ragazzo ha già acquisito l’idea di essere
diventato grande e ciò vuol dire che ha già i suoi punti fermi per cui, di
fronte all’intervento educativo, può esservi una forte resistenza.
In questo quadro, compito dell’educatore è “leggere” ciò che accade
e darvi un senso e una risposta, mostrare alternative, cercare di
smuovere il ragazzo dal continuare a fare e rifare ciò che ha sempre
fatto, percorrendo e ripercorrendo sempre le stesse strade ed ottenendo
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in tal modo sempre le stesse cose. Decisivo diventa allora il suo ruolo, a
patto che accetti e dia valore al lavorare per tessere trame di
quotidianità, consapevole che è la cura la risposta ai bisogni della vita
quotidiana dell’altro, in quanto ci rende capaci di dirigere la nostra
attenzione “verso ciò che non siamo capaci di vedere ma che è sotto i
nostri occhi”. È la manifestazione di una sensibilità per i dettagli, per il
particolare, che consente di svelare e di dare importanza a ciò che in
genere viene trascurato, vale a dire a quel microcosmo di bisogni,
aspettative, legami che tendiamo a dimenticare, a relegare in una zona
di opacità e di invisibilità, nonostante che essi formino il tessuto
quotidiano della vita di ognuno246.
Cercare la chiave nel posto giusto, vuol dire allora, saper guardare
diversamente, sapersi porre all’altezza degli occhi, saper leggere ciò che
accade senza pregiudizi cercando di “mettersi nelle scarpe” dei vari
Achille, Ciro, Emanuele…, andandogli incontro nel loro mondo, perchè è
nel loro mondo che va costruita quella progettualità in grado di “tenerli”
nei loro confini e dunque capace di tranquillizzarli.
5.1. Analisi di un caso: anamnesi e progetto
Simone247, 15 anni, giunge nella comunità “C.ED.RO.” pochi giorni
dopo l’arresto, sottoposto alla misura cautelare del collocamento in
comunità ex art. 22 dpr 448/88, per concorso in vari reati di furto e
246
E. Pulcini, Cu a di sé, u a dell’alt o, in Thaumàzein, numero 1, 2013, p.95. 247
I riferimenti del caso, il progetto e le diverse relazioni riportate sono parte della documentazione propria della
Co u ità CED‘O , o la sola o issio e dei eali dati del i o e he possa o o se ti e il i o os i e to. Simone è
pertanto un nome di fantasia.
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tentato furto (e con altre denuncie a piede libero per reati della stessa
specie).
Dopo pochi giorni dal suo arrivo, il ragazzo si rende responsabile di un
furto all’interno della comunità, per il quale l’A.G. dispone un
provvedimento di aggravamento della misura cautelare di giorni 30
presso l’I.P.M. di Nisida. Al termine di tale periodo Simone fa rientro
presso la struttura, tuttavia dopo sole poche settimane dal suo ritorno, il
minore si rende responsabile di un nuovo furto, ancora perpetrato ai
danni della comunità, reato per il quale viene denunciato alle Forze
dell’Ordine.
Si viene così a delineare, fin dall’inizio, un quadro che appare
particolarmente compromesso e di difficile gestione soprattutto perché
si era di fronte ad un ragazzo che appariva essere non pienamente
consapevole della propria posizione giuridica e che mostrava anche
rispetto all'inserimento in comunità enorme difficoltà nella
comprensione del senso e delle regole della vita comunitaria, nonché
una tendenza a reiterare i reati di cui imputato. Ciò nonostante la
misura del collocamento in comunità, meno afflittiva del carcere,
appariva senz’altro la più idonea per dare al ragazzo la possibilità di
attivare processi di crescita.
Complessivamente infatti Simone si presentava come un ragazzo
socievole, dall’indole estroversa e vivace, ma molto immaturo e
infantile, fortemente deprivato e privo delle basilari norme di
convivenza, palesando, anche nel contesto di vita comunitario, una
grande difficoltà nella comprensione di quanto gli veniva richiesto.
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Tuttavia, stando ad una osservazione più attenta, appariva evidente che
tali comportamenti erano da ascrivere non tanto ad una forma di
oppositività o ad un agire consapevolmente scelto, quanto piuttosto ad
una difficoltà reale e concreta del ragazzo a comprendere il senso della
regola e del limite, nonché della gravità dei propri gesti e delle possibili
conseguenze degli stessi: Simone appariva come un “animaletto”,
completamente privo delle basilari e più semplici nozioni del vivere
civile, condizione che si manifestava con comportamenti quali il
mangiare senza l’uso delle posate o il considerare cosa normale fare la
doccia alle tre del mattino, ma più in generale apparendo
completamente in balia di se stesso e dei suoi bisogni più istintuali.
Come già evidenziato, nel percorso complesso e faticoso
dell’adolescenza, in cui il minore evolve verso la costituzione soggettiva
della propria identità, il reato va decodificato quale “sintomo”
espressione di una sofferenza profonda, un segnale che Winnicott248
descrive come un “SOS” lanciato verso l’ambiente affinché questo
risponda e si occupi di lui. Da qui l’importanza di cogliere la specifica
valenza comunicativa del tipo di reato, che si rivela sempre correlato al
trauma subito, o alla sofferenza psichica annidata all’interno della
famiglia, e di collocarne la ricerca del significato nella storia affettiva,
familiare e sociale del singolo adolescente. Il procedimento penale
minorile, nella sua prioritaria valenza educativo/riabilitativa, può
attivare le condizioni per cogliere quell’SOS adolescenziale sotteso al
comportamento antisociale, in una fase della vita particolarmente
248
D. W. Winnicott, Dal luogo delle origini, op. cit., pp.89-90.
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difficile, ma altrettanto dinamica, con la finalità di introdurre nel
processo di sviluppo mentale del minore quei correttivi che possano
meglio orientarne la successiva evoluzione nel contesto familiare e
sociale che lo caratterizza.
Ciò è possibile attraverso la presa in carico psico-sociale, prezioso
strumento di conoscenza sia del disagio osservato nell’adolescente, che
delle figure genitoriali e, più in generale, del nucleo familiare, nella
consapevolezza che la famiglia dell’adolescente antisociale, ovvero
dell’adolescente in difficoltà è sempre anch’essa una famiglia in
difficoltà.
A tal fine l’intervento psico-sociale dovrebbe essere finalizzato
all’assunzione, da parte degli operatori, della “funzione pensante”,
intesa come “capacità di istituire legami tra circostanze e fatti
apparentemente casuali, per evincerne il significato emotivo, vale a dire
di senso, fino ad allora negato”249. Se l’operatore riesce ad instaurare
una relazione autenticamente recettiva possono emergere nuclei
incistati nella storia individuale e familiare: nodi affettivi problematici,
esperienze emotive “mentalmente” indigerite, trasmesse
inconsapevolmente e quindi vissute dall’adolescente nella solitudine.
Operazione questa che risulta fondamentale alla luce del fatto che non si
può cogliere il reale significato simbolico del reato adolescenziale se non
lo si inscrive nel tessuto vivo delle relazioni affettive trascorse ed
attuali. I vissuti emotivi di cui il reato è intriso appaiono infatti
complementari o concordanti con gli stessi vissuti emotivi genitoriali: è
249
M. Chessa, M. Gasparini, Ricostruzione del mito familiare nel minorenne autore di reato, in Giustizia Penale Minorile
n.6, 2011, pp. 341-346.
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una sorta di patto silente di cui il reato può tentare di rovesciare le sorti
o, al contrario, può confermarne l’ineluttabilità se non ne viene accolta
la richiesta di aiuto, muta di parole, ma “gridata” con l’azione.
In ragione di quanto detto appare evidente che non rispondere in
maniera adeguata all’appello intrinseco nella manifestazione deviante
equivale ad orientare il sintomo trasgressivo in “organizzatore” della
personalità futura, precludendo ogni possibilità di recupero. Al contrario
agganciare l’adolescente significa raggiungerlo all’interno delle
dinamiche familiari profondamente attive nella relazione. Significa
quindi accogliere anche le difficoltà genitoriali e sostenerne
l’evoluzione, così da “consentire l’effetto di una doppia terapia,
giacché, quando diamo una mano ai genitori ad essere di aiuto ai propri
figli, in realtà sono i genitori stessi che noi aiutiamo”250.
Per questo è importante, sia per il minore imputato che per il suo
contesto familiare, saper porre in essere un intervento psico-sociale che
consenta di trasformare la relazione, nata in un contesto di controllo
nell’ambito del procedimento penale, in una relazione di aiuto che da
una parte sappia accogliere e capire il disagio maturativo sotteso
all’agito deviante, dall’altra si ponga a sostegno delle funzioni
genitoriali. Sono le risultanze di tali complesse elaborazioni psichiche
che rendono possibile il graduale sviluppo di una nuova responsabilità
nell’adolescente rispetto alle proprie azioni antisociali. Egli può, a quel
punto, imparare a pensare al significato dei propri agiti con strumenti
250
Ibidem.
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nuovi e più sofisticati che gli consentano di rispondere alle difficoltà con
il pensiero, piuttosto che con l’ottusità dell’azione251.
Al riguardo appare opportuno considerare la rilevanza che gli aspetti
evidenziati circa il contesto familiare assumono nel valutare la reale
fattibilità di una messa alla prova da svolgersi in comunità. In relazione
alla concessione dell’art.28, infatti, la scelta di non far tornare
immediatamente il ragazzo nel territorio di appartenenza è legata ad
una valutazione ove da una parte emerga una chiara inidoneità della
famiglia d’origine che rende inopportuno il rientro del minore, ma
dall’altra riscontri congiuntamente in essa la presenza di risorse su cui
lavorare: è questa infatti la conditio sine qua non per la concessione
dell’articolo 28, in quanto in assenza di risorse non è possibile attivare
alcun progetto.
La messa alla prova in comunità, pertanto, persegue il duplice
obiettivo di porre in essere un intervento atto ad attivare le risorse
esistenti sia con e per il ragazzo che con e per la sua famiglia.
Particolarmente importante, appare inoltre la chiarificazione del
senso del proseguimento del percorso in comunità in misura
amministrativa nonché delle motivazioni per le quali si propenda per tale
scelta: fondamentale è infatti far comprendere all’intero nucleo che in
quel momento il ragazzo non riuscirebbe a fare un percorso in un altro
modo, e dunque la permanenza in comunità non va letta come una
punizione ma come un modo per sostenere e attivare le risorse presenti,
per un tempo determinato, al termine del quale il ragazzo farà rientro in
251
Ibidem.
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famiglia. Al riguardo è interessante considerare che costruire una buona
relazione con il nucleo del minore e mantenere una comunicazione
efficace e adeguata che gradualmente prepari il terreno e costruisca il
percorso da fare, è fondamentale in quanto funzionale ad una maggiore
collaborazione e responsabilizzazione dei familiari, perseguendo
l’intento di far camminare l’intero nucleo nella stessa direzione: senza
la collaborazione della famiglia, infatti, il progetto posto in essere
rischia di risultare mancante di una componente essenziale, col rischio di
creare una discrepanza di input, di modelli e stili educativi che non
farebbe altro che confondere il minore e quindi rendere più incerto il
suo cammino, soprattutto all’uscita dalla comunità.
L’anamnesi familiare del caso analizzato mette in luce che Simone
proviene da un nucleo familiare seguito già da diversi anni dal S.S.T. per
le problematiche comportamentali e scolastiche manifestate dal minore,
ma già precedentemente sarebbe stato segnalato per una situazione di
degrado e di disagio economico, di maltrattamento e anche per presunti
episodi di abusi sessuali perpetrati da parte del padre del minore, sulla
figlia della seconda moglie, nata da una precedente relazione.
Il nucleo familiare vive in un alloggio di edilizia popolare, locato in
una zona benestante dell’area cittadina, contesto che la madre del
ragazzo definisce molto ostile ed emarginante, ed è composto dalla
coppia genitoriale e da 2 figli di cui Simone è il primogenito. Entrambi i
genitori hanno però alle spalle un precedente matrimonio e una figlia,
pertanto Simone ha due sorelle maggiori, una figlia del padre, l’altra
figlia della madre; entrambe vivono altrove. Il padre del minore, 59
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anni, precedentemente arrestato per furto e detenuto presso il carcere
di Poggioreale per alcuni mesi, era, al momento dell’arresto del minore,
agli arresti domiciliari. La madre, 39 anni, non svolgeva alcuna attività
lavorativa, ma veniva descritta dai servizi come una donna poco
affidabile e frequente alle relazioni extra coniugali nonché
all’abbandono del tetto coniugale.
Dal punto strutturale e relazionale questa famiglia appariva
evidentemente molto debole a causa delle problematiche personali dei
genitori il cui modo di agire appariva estremamente istintuale e poco
“ragionato” e le cui relazioni sembravano decisamente conflittuali,
delegittimanti e caotiche: di fatto, entrambi davano l’impressione di non
essere in grado di esercitare con competenza i loro ruoli genitoriali e
porsi come riferimento positivo per i figli, mostrandosi “sconclusionati”,
poco accudenti, eccessivamente permissivi ed estremamente tolleranti
nei confronti degli atteggiamenti devianti di Simone, che peraltro
riferiva con disinvoltura di essere stato avviato al furto proprio dal padre
e dalla sorella maggiore. Simone riproponeva così una mentalità in base
alla quale l’appropriarsi di cose altrui, per bisogno o semplicemente per
il desiderio di possedere, veniva considerata una cosa assolutamente
normale, quasi dovuta. Crescendo il ragazzo tendeva sempre più a
riproporre la “caoticità” esperita in famiglia e la mancanza di un
abitudine ad un agire ragionato, come suo modo di essere e di porsi,
divenendo di fatto sempre più oppositivo e ribelle con i genitori e
sottraendosi facilmente ai loro richiami. Egli sostanzialmente non
riconosceva il loro ruolo di guida, assumendo nel tempo uno stile di vita
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disimpegnato e irregolare, senza nessun tipo di controllo da parte dei
propri congiunti.
Fin dalle prime osservazioni, infatti, Simone dà l’impressione di vivere
in una dimensione priva di regole e di rispetto, dove gli adulti non
riescono ad interpretare i suoi bisogni e a costruire con lui una relazione
educativa significativa, una dimensione in cui veniva considerato
assolutamente normale, in linea con i vissuti e gli agiti familiari,
soddisfare i propri bisogni nell’immediato del loro presentarsi, incapace,
perché non abituato, di discernerne l’opportunità, di rimandarne
l’eventuale soddisfacimento, come di valutarne le conseguenze.
Naturalmente le prime difficoltà emergono chiaramente nel contesto
scolastico che il minore non sembra in grado di affrontare: la scuola
segnala ripetutamente le difficoltà scolastiche di Simone e la necessità
di interventi centrati sull’acquisizione di comportamenti corretti e sulla
capacità di relazioni interpersonali rispettose, nonché sul migliorare la
sua capacità di apprendimento in classe. Il servizio di neuropsichiatria
infantile, opportunamente coinvolto, evidenzia un quadro estremamente
deprivato e povero di strumenti, indicando la necessità di un sostegno
scolastico. A 12 anni Simone viene descritto dal Servizio educativo, che
lo segue sia a scuola che a domicilio, come un “piccolo selvaggio” senza
regole di vita familiari o sociali, incapace di entrare in relazione con i
compagni e con gli adulti: confonde i ruoli dando ordini e facendo
richieste del tutto inappropriate alle insegnanti, non è in grado di stare
seduto nel banco durante le lezioni, non è in grado di seguire le attività
didattiche, disturbando i compagni. Si pensa allora ad un tutoraggio che,
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con la presenza di un’educatrice a casa nelle ore pomeridiane, possa
supportarlo maggiormente, ma nonostante il sostegno educativo la
situazione permane problematica anche perché i genitori accettano solo
verbalmente l’intervento educativo, ostacolandone di fatto lo svolgersi.
Il padre, anche in presenza dell’operatrice delegittima spesso il ruolo
delle istituzioni e svaluta l’efficacia del loro operato.
E’ in questo quadro complessivo che si inseriscono i vari reati imputati
al ragazzo al momento del suo ingresso in comunità, 12 per l’esattezza,
tutti piccoli furti e tentati furti, oltre le varie denunce a piede libero
sempre per reati della stessa specie. Un quadro ove tutto appariva
essere dettato meramente dal caso, essendo totalmente assente la
benché minima capacità progettuale, anche solo in ordine alla gestione
delle piccole cose quotidiane. Un quadro che evidenzia in sintesi un
contesto di appartenenza contrassegnato da deprivazione culturale,
economica, da una affettività del tutto istintiva, ma anche, in linea con
realtà familiare, la presenza di una personalità fortemente destrutturata
frutto di una precoce esposizione a condizioni di vita di deprivazione e di
marginalità sociale che avevano condizionato i percorsi e le esperienze
di crescita ed evoluzione personale del ragazzo, non favorendo lo
sviluppo di possibili condizioni di serenità e tranquillità atte a facilitare
l’acquisizione di conoscenze e l’accrescimento di competenze e abilità,
oltre alla più serena espressione di proprie capacità che potesse agire da
sostegno alla stima di sé e all’esperienza di efficacia personale.
Il percorso del minore in comunità ha inizio in questo quadro
estremamente complesso e compromesso che, unitamente alla condotta
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irregolare mostrata ripetutamente nell’immediato da Simone, aveva
portato gli operatori a ipotizzare un limitato margine di intervento nei
suoi confronti. Il ragazzo, infatti, appariva esuberante e socievole ma
anche orientato da un forte bisogno di autoaffermazione che, rispetto
alle condizioni critiche e problematiche a cui era stato esposto,
sembrava essersi tradotto in una difficoltà di regolazione degli impulsi,
in una tendenza all’agito e alla necessità di sottrarsi a qualsiasi forma di
controllo, contenimento, regola. Tale caratteristica, tuttavia, ad una
osservazione più attenta, sembrava essere dettata da una difficoltà reale
ad entrare in una riflessione più profonda atta ad aiutarlo a calibrare i
suoi atteggiamenti e le sue reazioni, spesso spropositate e fuori dal suo
stesso controllo. Tuttavia ci si è resi conto immediatamente che, proprio
quel suo essere così “infantile”, quel suo essere privo di “input” chiari,
poteva rappresentare se non una risorsa, quanto meno una chiave di
accesso al suo mondo. Simone, appariva un po’ come Pinocchio, pieno di
buoni propositi che però non riusciva a concretizzare, necessitando,
proprio come il burattino, di un “grillo parlante”, di una confrontazione
costante che gli ricordasse continuamente come comportarsi e lo
conducesse pian piano in una riflessione più profonda: un lavoro lento e
paziente che permettesse di far acquisire al ragazzo “nuove abitudini
comportamentali”, attraverso cui Simone ha cominciato a manifestare
dispiacere e pentimento rispetto ai propri agiti, stabilendo lentamente
con gli operatori relazioni di fiducia, considerandoli figure di riferimento
importanti, mostrandosi bisognoso di contenimento e disponibile al
confronto, ricercando lui stesso momenti di dialogo.
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Nel valutare la situazione complessiva del ragazzo per progettarne un
intervento ad hoc, gli operatori della comunità e dei Servizi Minorili, in
un prezioso e costante lavoro sinergico, sono stati concordi nel ritenere
valida l’opportunità della messa prova e nel cominciare a lavorare col
minore e la sua famiglia in tal senso. Simone infatti lentamente andava
assumendo comportamenti sempre più rispondenti allo stile di vita
comunitaria e, sebbene nel suo percorso si alternassero momenti di
grande slancio ad altrettanti di fatica e criticità, se ne ravvisava
comunque lo sforzo a recepire e far propri i diversi input. Tuttavia la
particolare complessità della situazione familiare, la cui inidoneità era
palese, non rendeva ipotizzabile un rientro del minore sul territorio,
anche perché con 12 furti sulle spalle era ormai, nel “quartiere bene”
ove viveva, “etichettato”, elemento che non avrebbe certamente
giocato a suo favore. Ciò nonostante, visto l’impegno che, seppur con
grandi difficoltà, il ragazzo manifestava, non si è reputato neppure
opportuno privare il ragazzo della possibilità di beneficiare dell’art. 28,
considerato dall’equipe la strategia migliore per consentirne il recupero.
Pertanto si è prospettato all’intero nucleo la possibilità di una messa alla
prova da svolgersi in comunità, cercando di far comprendere loro che il
collocamento in comunità non andava letto come un allontanamento
punitivo ma come una possibilità di crescita, un sostegno per portare
avanti un progetto atto ad attivare le risorse familiari esistenti e
lavorare sui punti deboli del ragazzo, “rafforzandolo” al fine di
consentirne il ritorno sul territorio con basi più salde.
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Congiuntamente tale formula appariva valida perché consentiva anche
di poter lavorare con la famiglia, che appariva disponibile ma
estremamente bisognosa di supporto, in modo tale che il reato del figlio
potesse essere un’occasione, una possibilità di crescita anche per loro.
Elemento, questo evidenziato, tra l’altro funzionale a far sì che il minore
potesse tornare sul territorio di appartenenza con una “testa diversa”
trovandovi congiuntamente anche una “famiglia diversa”, un po’ più
matura con una coppia genitoriale più capace di gestire se stessa e i
propri figli. Non avrebbe avuto senso proporre al ragazzo un percorso
finalizzato al cambiamento se poi la famiglia, in cui prima o poi sarebbe
tornato, rimaneva immobile.
Al riguardo, nella relazione per l’eventuale richiesta di art. 28
all’A.G., redatta dall’equipe interistituzionale, comprendente i referenti
dell’USSM e della Comunità, si legge:
I elazio e al p og a a di essa alla p ova, stato spiegato al i o e il sig ifi ato e gli impegni che ne derivano e dai colloqui effettuati, Simone sembra aver recepito il
se so di tale eve tuale pe o so, o p e de do sia l a tigiu idi ità del fatto eato compiuto che la valenza personale ed educativa di tale eventuale opportunità,
mostrando la propria disponibilità i tal se so. L e uipe i e ito all eve tuale pe o so di messa alla prova, ritiene che sussistano tutti gli elementi per la sua attuazione. Va
inoltre segnalato, che la particolare situazione familiare, rende opportuno che Simone
possa sperimentarsi in tale percorso permanendo in comunità, a completamento del
percorso di crescita, di motivazione e responsabilizzazione, già in corso, ma che ancora,
però, pare bisognoso di ulteriore rafforzamento con figure di riferimento significative,
che possano essere un valido supporto educativo in grado di sostenerlo e confrontarlo
osta te e te o ollo ui di hia ifi azio e, i pa ti ola e o side a do l asse za di figu e di ife i e to e di o te i e to ell i te o o testo fa ilia e. Questa e uipe, collabora con il SST che segue il nucleo familiare del minore ed ha attuato interventi di
sostegno alla genitorialità e concorda, vista la complessità del caso, al permanere del
minore in comunità con misura amministrativa.
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Pe ta to ell eve tualità dell appli azio e dell a t. , uest e uipe, o p e de te i efe e ti della o u ità, i efe e ti istituzio ali dell Uffi io di “e vizio “o iale Mi o ile
presso il T.M. di Napoli, ha strutturato un programma che si articola concretamente nei
seguenti punti:
Permanenza in comunità: il ragazzo ha mostrato disponibilità in tal senso,
oglie do e l oppo tu ità.
Percorso scolastico per il conseguimento della licenza media: il giovane frequenta il
corso di studio volto a conseguire la licenza media presso Centro territoriale
Permane te dell Istituto Co p e sivo “tatale Casa ova , dal lu edì al ve e dì dalle ore 16.00 alle ore 20.00; il agazzo i olt e o ti ua l attiva di studio i o u ità, affiancato da un tutor che lo segue in maniera personalizzata il mercoledì ed il
venerdì dalle 10.00 alle 12.00.
Attività di volontariato: martedì e la domenica mattina, dalle 10.00 alle 13.00 presso
la mensa Caritas della parrocchia di S. Antonio di Padova alla Pineta.
Colloqui psicologici: spe ifi a e te ife iti all ela o azio e del eato e all evoluzio e dei rapporti intra-familiari.
Attività sportive, ricreative e laboratoriali: il ragazzo pratica il calcio, tre volte a
setti a a, p esso la s uola al io attiva ell o ato io della pa o hia adia e te la comunità; partecipa inoltre alle attività laboratoriali di pasticceria/panificazione e
a ualità he si svolgo o all i te o della st uttu a ei te pi o pati ili o l attività di studio.
Soluzione Conciliativa: verrà curata dal preposto Ufficio, Simone si è reso disponibile
ad incontrare la P.O.
Inserimento in gruppi del territorio (oratorio, associazionismo, parrocchia) per
ampliare la propria rete amicale.
Rientri in famiglia: un fine settimana al mese, da concordare di volta in volta con
il ““T.
In udienza il Giudice dispone per Simone la sospensione del processo e
la messa alla prova da svolgersi in comunità, per un tempo di 18 mesi. La
posizione giuridica del giovane reo passava così, dopo sette mesi
dall’arresto, dall’art. 22 all’art. 28: Simone iniziava di fatto a scrivere
un’altra pagina del suo percorso, in cui era chiamato ad una maggiore
responsabilizzazione proprio perché “più libero”.
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5.2. Analisi di un caso: percorso e ruolo della comunità
Il progetto di messa alla prova è, come detto, un percorso riabilitativo
rispetto ad un fatto di natura penale, un percorso dunque di
consapevolezza ed impegno. Non è un progetto qualsiasi, proprio perché
costituito da paletti molto chiari, ma può essere considerato un po’
come un binario su cui viaggia il cammino del ragazzo durante il periodo
di prova, con le sue fermate e le sue possibili variazioni di direzione.
Percorrerlo è tuttavia cosa nient’affatto semplice e scontata.
Una prima difficoltà sperimentata nel cammino di Simone è costituita
dal fatto che per quanto il ragazzo avesse scelto liberamente di
affrontare il percorso di messa alla prova è indubbio che questa scelta
possa essere stata dettata anche dalla allettante “convenienza” insita
nel beneficio in esame: per tale motivo, può accadere che dopo soli
pochi giorni dall’udienza ci si trovi dinanzi a un ragazzo la cui
motivazione al cambiamento sembra essere più formale che sostanziale,
cosa che nel caso di Simone si è tradotta in un atteggiamento oscillante
tra la l’adagiarsi, il pretendere e il sentirsi costretto. Tale elemento
tuttavia non è stato motivo di chiusura o irrigidimento da parte degli
operatori: questi consapevoli del fatto di trovarsi dinanzi ad una
situazione piuttosto comune, semplicemente l’hanno assunta quale dato
di realtà su cui lavorare, con l’obiettivo di fare in modo che, attraverso
il percorso stesso, l’adesione del ragazzo al progetto diventasse
gradualmente sempre più sostanziale e dunque che i passi di
cambiamento fossero sempre meno imposti e necessitanti di un controllo
e sempre più concreti e spontanei. Al riguardo è utile considerare che la
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differenza in tal senso è data anche da quanto il progetto riesca a far
sperimentare al ragazzo cose diverse da quelle per lui solite, in grado di
incuriosirlo, gratificarlo e suscitare domande.
Altro elemento di difficoltà in questo percorso è rintracciabile nel
fattore “tempo”. Il percorso di messa alla prova in comunità ha, in
genere, una durata di almeno 12 mesi, 18 per Simone, con un successivo
prolungamento di 12 mesi a seguito delle altre denunce a piede libero:
un tempo che ad un adolescente appare infinito e che alla lunga ha
comportato in Simone stanchezza e demotivazione.
Tuttavia anche tale problematicità è piuttosto comune: accade spesso
infatti di osservare che i ragazzi facciano maggiore fatica proprio nella
parte finale del percorso, mostrandosi di fatto incapaci di impegnarsi
oltre un certo grado, talvolta anche col rischio di qualche pericolosa
“caduta”. Ma i “gradini si scendono sempre uno alla volta, mai tutti
insieme”: difficilmente un ragazzo “esploderà” all’improvviso, vi sono
tanti piccoli segnali che indicano che ha imboccato una strada in discesa
che lo porterà quanto prima ad una rovinosa caduta. Questo elemento
rappresenta tuttavia un vantaggio: i segnali possono essere letti, la
caduta può essere prevista e dunque evitata con un’attenta e costante
azione di osservazione e monitoraggio da parte degli adulti di
riferimento, che permetta di porre in essere un immediato intervento
volto a sostenere e motivare il ragazzo ed eventualmente a rimodulare il
progetto qualora se ne dovesse ravvisare la necessità, ma anche di
comprendere quando il ragazzo realmente non riesce a dare oltre perché
proprio non ce la fa. Bisogna inoltre che i ragazzi abbiano sempre chiaro
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che il cambiamento sarà valutato in base all’adesione e all’impegno
nelle attività del progetto nonché in base all’atteggiamento complessivo
che dovrà sempre più distaccarsi da modalità “penali”: in comunità
l’adolescente ha il compito di apprendere ed agire quella responsabilità
che fino a quel momento non ha ancora interiorizzato, sperimentandosi
in un clima di famiglia sano e accogliente, che possa soddisfare il bisogno
di appartenenza e di riconoscimento.
Continuamente è stato necessario riportare Simone alla sua realtà,
alla sua scelta di voler cambiar vita, manifestata con la richiesta di
essere messo alla prova e, dunque, al fatto che il progetto era “suo” e
che aveva il compito di dimostrare la sua reale volontà di uscire da una
“mentalità penale” e di aderire ad un valore di vita diverso.
Continuamente si è ripercorso insieme a lui il cammino fatto,
valorizzando i numerosi passi in avanti e gli obiettivi raggiunti,
evidenziando le sue capacità. Continuamente si è cercato di fargli
acquisire “abitudini di vita” diverse, di fargli vivere progetti e attività
atte sperimentare il suo “essere capace” anche senza ricorrere alla
violenza, alla sopraffazione, all’inganno, consapevoli del fatto che alla
base dei suoi agiti e dei suoi atteggiamenti provocatori vi era proprio il
“non sentirsi capace”.
Punto centrale e nevralgico nel percorso comunitario è infatti proprio
il fare in modo che i ragazzi si sentano capaci e percepiscano il loro
valore, di contro all'autosvalutazione che rappresenta uno dei loro più
forti vissuti di fondo, che li porta ad essere certi che “non valgo, dunque
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non merito di essere amato” e di conseguenza a reagire con rabbia e
violenza a questa certezza che si portano dentro.
Per poter perseguire al meglio tale obiettivo si sono susseguite
numerose riunioni d’equipe volte a verificare l’andamento del percorso e
a stabilire linee guida comuni e condivise, messe poi in atto dagli
educatori: rispondere ai bisogni di accudimento e contenimento di
Simone mantenendo chiarezza, fermezza, congruenza, attenzione;
puntare a coinvolgerlo in attività atte a fargli sperimentare e valorizzare
le sue capacità; tessere e ritessere continuamente il suo quotidiano
dandogli fiducia e riconoscendogli il diritto a sbagliare come occasione di
crescita; tessere e ritessere il suo quotidiano per ricomporre il suo
essere frammentato e far sì che lentamente potesse percepirsi in modo
diverso.
Ecco allora che il compito della comunità, al riguardo, è proprio
quello di puntare ad un cambiamento di mentalità attraverso un fare che
renda i ragazzi protagonisti consentendogli di sperimentare il loro essere
capaci di fare delle cose, ed anche bene, consapevoli che la scommessa
più profonda è che riescano a tirare fuori la possibilità di sentirsi ed
essere diversi, soprattutto quando sono con i loro pari, senza temere di
essere una voce fuori dal coro: è questa la molla capace di provocare un
salto di qualità.
Altra difficoltà è poi quella che il ragazzo fuoriuscendo di fatto dalla
condizione “ristretta” della misura cautelare, sia portato a non sentirsi
più in debito con la giustizia.
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Simone, come molti altri prima di lui, dopo pochi minuti dal termine
dell’udienza, ancora tra le aule del Tribunale, chiede di poter usare il
telefonino tutto il giorno e di poter uscire il pomeriggio stesso. Di fatto,
con l’udienza in cui viene disposto l’art.28, si passa da una posizione
giuridica che prevede per il ragazzo restrizioni significative quali il non
poter avere contatti con l’esterno tramite telefonini e computer, il poter
ricevere visite, generalmente per due ore a settimana, solo dai familiari
stretti (genitori e fratelli), il non poter uscire da solo ma sempre
accompagnato da un operatore con opportuna autorizzazione dell’A.G. e
una rara concessione di un rientro a casa per poche ore previa
autorizzazione, ad una misura amministrativa ove tutte queste
restrizioni cadono improvvisamente.
E’ allora importante, soprattutto quando il ragazzo continua il suo
percorso in comunità, fargli comprendere innanzitutto che anche se gli
verranno concesse le uscite e l’uso del telefonino, ciò sarà sempre
concordato con gli operatori, così come, in quanto ospite della
comunità, è sempre tenuto al rispetto delle regole della vita
comunitaria, anzi lo è più di prima perché con il percorso di messa alla
prova inizia il tempo in cui è chiamato a dimostrare qualcosa ed è ancora
sottoposto ad un procedimento penale, il cui prosieguo o meno verrà
deciso nell’udienza già fissata dall’A.G.
Il passaggio dalla misura cautelare del collocamento in comunità alla
messa alla prova in comunità rappresenta, dunque, un momento
estremamente delicato che richiede grande attenzione da parte degli
operatori “nell’allargare” le maglie strette della “restrizione” con quella
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gradualità necessaria a far sì che il ragazzo capisca con chiarezza la
propria posizione e non si senta già arrivato ad un traguardo: gli va fatto
comprendere infatti che una prima importante tappa del suo percorso
penale è stata certamente raggiunta, ma anche che questa è in realtà un
punto di partenza e non di arrivo.
Accade spesso infatti che i ragazzi tendano a ritenere sufficiente
l’impegno fin lì mostrato, palesando in merito a ciò una confusione
verbalizzata con un’espressione frequentemente ripetuta: “Ti ricordi
quando ero penale?”. Una frase, questa, che racchiude e sintetizza la
principale difficoltà di gestione di un percorso di messa alla prova:
quella di far comprendere al ragazzo che aver avuto la possibilità di
beneficiare dell’art.28 non deve tradursi in un sentirsi anticipatamente
libero né tantomeno in diritto di tirare i remi in barca o peggio ancora,
di avanzare pretese come un qualcosa di dovuto “per legge”; deve bensì
concretizzarsi in una tensione interiore, in un cammino fatto di passi e
conquiste graduali da meritarsi giorno per giorno attraverso i fatti.
Tale frase rimanda alla necessità di attuare concessioni graduali e
continuamente risignificate, affinché il ragazzo abbia sempre chiaro che
non ha finito il suo percorso, sul cui andamento per altro l’A.G. andrà
periodicamente aggiornata. Il pericolo enorme è quello che si lasci
andare sempre più divenendo sempre meno gestibile, col rischio ultimo
di inficiare l’intero cammino proprio in dirittura di arrivo.
Bisogna allora porre grande attenzione nell’osservare sia il fare
concreto del ragazzo, sia soprattutto il come procede, cercando di
rimodulare e puntellare il percorso con un sostegno adeguato, quando
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necessario, ma soprattutto cercando di cucire costantemente il progetto
su di lui, ascoltando ciò che ha da dire, cercando risorse nuove,
inventando cose nuove, assecondando quando possibile le sue attitudini.
Importante per una comunità che voglia andare incontro ai ragazzi è
poter usufruire di una rete di risorse spendibili con i suoi ospiti:
associazioni che propongano corsi di formazione per specifici mestieri
quali il pizzaiolo, il pasticciere, il cuoco; datori di lavoro disponibili a far
fare percorsi di apprendistato lavorativo o ancor meglio a dar lavoro ai
ragazzi del penale; associazioni di volontariato con cui condividere
progetti attraverso cui far “respirare” un’altra aria ai ragazzi, un’aria
diversa fatta di condivisione, di solidarietà di legalità.
La vita comunitaria fa da collante, dà supporto al percorso, ma il
ragazzo deve sperimentarsi fuori, nel contesto sociale.
Per tali motivi l’equipe della comunità “CEDRO” si adopera col
massimo impegno nel collaborare con associazioni, cooperative, datori di
lavoro, realtà di volontariato, costruendo una fitta rete di partner che
possano ampliare al massimo grado le possibilità di poter offrire un
ampio ventaglio di scelta al ragazzo.
In particolar modo nel caso di Simone, vista la lunga durata della
messa alla prova, si è potuto progettare un percorso graduale ed
estremamente ricco di proposte: si è puntato innanzitutto al recupero
della scolarizzazione stessa ed al conseguimento della licenza media
scegliendo di non prepararlo come privatista, ma facendogli frequentare
la scuola serale e supportandolo nello studio con l’aiuto di un volontario;
altra esperienza fondamentale che ha impegnato il ragazzo fin dal suo
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ingresso in comunità è stata quella del volontariato, articolata in
proposte diverse: alcune costanti, quali l’impegno presso la mensa
Caritas adiacente la comunità; altre circoscritte nel tempo, come la
partecipazione ai Campi Estivi Libera organizzati dall’Associazione
(R)esistenza al Fondo Rustico Lamberti sito in Chiaiano, articolata in tre
giorni a settimana per la durata di due mesi. Esperienza questa intensa,
ove si sono alternati momenti di lavoro nei campi ad altri di formazione
alla legalità, con testimonianze ed attività varie, il tutto col valore
aggiunto della condivisione con un gruppo di coetanei provenienti da
tutt’Italia. Si è inoltre proposto al ragazzo la partecipazione ad eventi
spot organizzati da svariate associazioni, aventi l’obiettivo di
sensibilizzare al tema della diversità e di promuovere una cittadinanza
attiva attraverso eventi di vario tipo. Esperienze queste che lentamente
hanno aperto un mondo nuovo a Simone che, dapprima si è mostrato
scettico e pigro nella partecipazione esprimendo più volte, con un
incredulo “ma chi glielo fa fare?”, la sua reale difficoltà a comprendere
la motivazione che spingesse tante persone a spendere il proprio tempo
per gli altri gratuitamente; per poi lentamente cominciarne ad
apprezzare il valore, ma soprattutto a provare piacere nel compiere
gesti gratuiti, affermando in più di un’occasione di andare a dormire
contento “perché mi sento che così mi sono guadagnato la giornata, ma
bene, senza fare guai”. Espressione questa, come tante altre, che mette
in luce come il desiderio di bene, presente in ciascun individuo, possa
attraverso piccole cose emergere con semplicità e immediatezza,
prevalendo su tutto il resto. Al riguardo appare inoltre utile sottolineare
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che l’équipe della comunità “CEDRO” crede molto nel valore del
volontariato, sia in quanto strumento di riparazione del danno
perpetrato alla società compiendo il reato, ma anche perché capace di
portare i ragazzi, soprattutto quando svolto con un gruppo di pari, a
scoprire che esistono altri modi di intendere e spendere la vita e quindi
funzionale al potersi dare una diversa possibilità.
Trascorsi i primi 12 mesi di messa alla prova si è cominciato a far
sperimentare al ragazzo esperienze formative volte a fargli acquisire
competenze specifiche con l’obiettivo di successive esperienze
lavorative. Elementi, questi, su cui con Simone si è potuto lavorare con
gradualità, ma che nel caso di ragazzi più grandi dovrebbero essere
prioritari, per permetter loro di tornare a casa con un lavoro o
quantomeno con competenze spendibili in tal senso: è questa senz’altro
la vera alternativa che gli si possa offrire per evitare davvero il rischio di
una recidiva. Al riguardo appare opportuno evidenziare che una grave
difficoltà nel proporre percorsi formativi e/o lavorativi agli adolescenti
ospiti in comunità è oggi rappresentato dall’abolizione dei corsi di
qualifica superiore triennali, conseguibili fino a qualche anno fa presso i
vari Istituti Professionali, primo fra tutti quello del settore alberghiero.
Un problema perché l’esistenza oggi dei soli corsi quinquennali, è un
grave danno alla fascia più debole della popolazione in quanto taglia
fuori tutti quei ragazzi che non se la sentono di impegnarsi in un
percorso quinquennale ma che probabilmente non volendo abbandonare
la scuola e desiderando di formarsi per un mestiere specifico, avrebbero
scelto un percorso più breve. La ripercussione dell’abolizione delle
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qualifiche sul lavoro di recupero e di reinserimento sociale dei minori è
enorme, anche perché l’obbligo scolastico impone la frequenza, ma di
fatto è palesemente controproducente o quantomeno sterile far
frequentare ad un ragazzo una scuola che non vuole fare e lascerà
appena possibile; d’altro canto non lo si può nemmeno mandare a
lavorare, se non con 10 anni di scolarizzazione; ecco che spesso gli
operatori si trovano in un’empasse di difficile soluzione, ma soprattutto
con un’offerta formativa da proporre al minore estremamente ridotta.
Nel caso di Simone è stato in realtà più semplice districarsi, perché
vista la sua situazione di partenza, la sua età e la lunghezza del suo
percorso, si è potuto procedere lentamente: la preparazione alla licenza
media ha avuto la durata di due anni; inoltre il CGM, proprio per
migliorare la qualità delle proposte formative offerte ai ragazzi dell’area
penale, è partner di diversi progetti, per cui di fatto per i soli ragazzi
dell’area penale vi sono numerose possibilità.
Al riguardo appare interessante mettere in luce il valore delle
numerose realtà operanti nel cosiddetto privato sociale, senza le quali
ben poche sarebbero le proposte possibili, sia lavorative che formative.
Particolarmente prezioso è stato, infatti, nel percorso di Simone,
l’inserimento nel progetto “Finchè c’è pizza…c’è speranza” realizzato,
in protocollo d’intesa con l’USSM, dall’Associazione Scugnizzi,
un’associazione senza fini di lucro, operante nel centro storico cittadino,
che si propone di promuovere attività finalizzate al recupero di più alti
livelli di legalità attraverso la promozione della conoscenza di arti e
mestieri nella prospettiva di potenziali sbocchi professionali. Tale
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progetto, nasce dall’esperienza effettuata presso l’IPM di Nisida della
scuola permanente per pizzaiolo, ove l’associazione è riuscita a creare
un ponte tra l’IPM ed il mondo dell’imprenditoria, con l’obiettivo di
consentire anche ai ragazzi dell’area penale esterna di imparare il
mestiere di pizzaiolo. Nell’ambito del percorso di formazione, Simone,
oltre ad acquisire le competenze necessarie a svolgere il suddetto
mestiere, è stato coinvolto in un’attività di volontariato che consisteva
nel servire le pizze preparate dai corsisti alle persone disagiate, nella
medesima struttura, la “pizzeria dell’impossibile.”
In riferimento a quanto detto è utile sottolineare che inserire un
ragazzo in una qualsiasi attività esterna alla comunità richiede un
maggior lavoro per la stessa, essendo necessario un costante dialogo tra
gli adulti di riferimento del minore, educatore, ass. soc., ed i
responsabili dei diversi progetti, per monitorarne l’andamento ed
intervenire nei momenti di fatica del ragazzo. In particolare Simone, in
tutti i contesti in cui veniva inserito, mostrava da una parte
immediatezza e facilità nel relazionarsi ma dall’altra appariva incapace
di comprendere quale fosse il suo posto e il limite da non valicare:
difficoltà questa che ha rappresentato il principale e più faticoso
elemento da fronteggiare e su cui intervenire per aiutarlo in un percorso
di maturazione e crescita personale; difficoltà che rispecchiava
chiaramente l’assenza di confini e limiti nella sua famiglia d’origine.
Proprio al fine di sostenere al meglio il ragazzo, si è reputato
opportuno far effettuare dalla psicologa della comunità una serie di
colloqui clinici di inquadramento e valutazione del suo livello di sviluppo
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psico-affettivo, che consentissero di approfondirne gli aspetti della
personalità per poter porre in essere interventi quanto più rispondenti
alle sue esigenze. Nel corso di tali incontri Simone si è sempre
dimostrato accomodante e volenteroso, pronto a collaborare, come a
volere ribadire la sua buona volontà ed il suo desiderio di cambiamento.
Tuttavia più volte nell’ambito dei colloqui e delle prove svolte il ragazzo
ha manifestato la sua difficoltà a comprendere realmente il senso del
lavoro che andava svolgendo ed il nesso con l’intero percorso svolto in
comunità. Complessivamente emergeva la presenza di una fragilità
dell’assetto cognitivo, che sembrava attestarsi su un livello operativo-
concreto, tipico di una fase antecedente dello sviluppo, senza pertanto
riuscire ad accedere alla fase dell’astrazione e della rappresentazione
simbolica che consente all’individuo di immaginare le conseguenze
future e/o a lungo termine delle proprie azioni, nonché di generalizzare
e ragionare per categorie. Anche l’affettività era espressa in maniera
talvolta immatura ed infantile, non essendo adeguatamente strutturati
gli strumenti razionali che ne consentono la gestione ed il controllo. Il
controllo degli impulsi, degli stati emozionali e dei vissuti è perciò più
faticoso e problematico per Simone che necessita di continue
confrontazioni e feedback per acquisire la costanza degli impegni e degli
obiettivi, cioè per orientarsi e ricentrarsi sul compito, che, altrimenti,
viene facilmente perso di vista. In altre parole si era dinanzi ad un
bambino di 10-11 anni nel corpo di un adolescente di 15-16 anni.
Questo dato è stato particolarmente utile agli operatori in quanto con
l’aiuto della psicologa si è potuto concordare una serie di strategie atte
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ad interagire al meglio col ragazzo cercando di comprenderne i limiti,
senza penalizzarlo e di lavorare sul miglioramento dell’autostima
valorizzandone le risorse anche attraverso le numerose attività
laboratoriali interne alla struttura. Si inoltre reputato opportuno
centrare successivi colloqui sulla rielaborazione dei reati, sul controllo
degli impulsi e sulla gestione della rabbia, in un percorso strutturato ad
hoc dall’USSM e dal CGM.
Inoltre, in considerazione del fatto che il quadro emerso appariva
fortemente legato alle dinamiche di vita familiare, una costante
attenzione è stata data al rapporto con i genitori con cui sono stati
effettuati incontri periodici, sia con i soli referenti della comunità che
congiuntamente ai Servizi, ciò sia per coinvolgerli costantemente nel
percorso del figlio, sia per sostenerli nello sviluppo di una genitorialità
più consapevole. La gestione con la famiglia costituisce, non di rado, la
parte più difficile del lavoro: spesso infatti ci si trova dinanzi a famiglie
che, superato il momento di apertura iniziale, cambiano poi
atteggiamento durante il percorso, “allargando” anch’esse le pretese
come i figli; oppure famiglie che mantengono un atteggiamento
ambiguo, apparentemente in linea con quanto proposto dalla comunità,
ma in realtà pienamente collusivo con i figli, che di fatto “rema contro”
la proposta educativa della comunità.
In particolare, con i genitori di Simone si è strutturato un percorso di
incontri proprio al fine di “tirarli dentro” il cammino del ragazzo, dando
loro soprattutto uno spazio di ascolto ma anche indicazioni concrete
sulla gestione del minore e più in generale della vita familiare.
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Naturalmente un ruolo importante in tal senso è stato svolto anche dai
SSTT che hanno strutturato una serie di interventi atti migliorare il
complessivo stile di vita del nucleo, non ultimo inserendo il padre del
minore, una volta terminato il periodo di detenzione, in un progetto
lavorativo. I genitori di Simone, nei limiti delle loro capacità, si sono
mostrati collaborativi cercando di ascoltare i suggerimenti e le
indicazioni degli operatori seppur con momenti di ambiguità e
confusione, opportunamente ripresi dagli operatori.
A quasi due anni dal suo ingresso in comunità nonostante la
problematicità del caso, la complessità della gestione e i numerosi alti e
bassi, numerosi erano i passi fatti da Simone, come evidenziato nella
relazione elaborata dall’equipe interistituzionale per l’Udienza
conclusiva di valutazione della messa alla prova in cui così veniva
sintetizzato e valutato il suo percorso:
Nel o so di uesto pe iodo di pe a e za i o u ità, “i o e ha si u a e te fatto dei passi in avanti. Infatti sostenuto dagli operatori e da un percorso rispondente alle
sue esigenze, nel tempo è riuscito, seppur con momenti di fatica, a maturare una
maggiore riflessività sui propri agiti e a comprenderne meglio le difficoltà.
Possiamo dire, pertanto, che Simone, alternando momenti di completa adesione ad altri
di opposizione, ha risposto positivamente a ciò che gli è stato proposto. In generale il
suo comportamento è dunque apparso gradualmente più collaborativo e rispondente
alle regole della vita comunitaria, pertanto si può affermare che il periodo trascorso in
comunità sia servito ad avviare un processo di riflessione in Simone sui propri agiti e
sull assu zio e di o po ta e ti adeguati. Co plessiva e te uest e uipe itie e he al u i o iettivi sia o stati aggiu ti, tuttavia il ragazzo presenta un quadro estremamente complesso e compromesso, che rende il
percorso intrapreso estremamente lento e problematico. Negli ultimi mesi si è potuto
rilevare nel minore il desiderio di migliorare se stesso e di dimostrare un maggiore
impegno nelle attività svolte. Ciò ha determinato una diversa adesione al suo progetto
che lo vede oggi più consapevole e propositivo. Il ragazzo, riesce a cogliere il percorso
fatto come opportunità, così come le competenze apprese come qualcosa di fruibile in
futuro.
Pe ua to detto, l e uipe s ive te itie e he il pe o so di essa alla prova può
ite e si o luso positiva e te.
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La prima lunga parte del percorso di Simone si era conclusa con esito
positivo, ma il periodo di messa alla prova non era ancora terminato: a
causa del prolungamento avuto in itinere per ulteriori quattro furti,
iniziava una seconda parte della “prova”, che fin dall’inizio è apparsa
particolarmente problematica per la stanchezza e l’insofferenza che
man mano andava emergendo nel ragazzo. La sua impulsività, la
tendenza alla provocazione, al non riuscire a stare nei suoi confini,
gradualmente sembravano nuovamente in aumento, concretizzandosi in
un progressivo susseguirsi di episodi di gravità crescente: ritardi nei
rientri, impegno discontinuo nelle attività interne, bugie, tendenza a
contestare continuamente le regole comunitarie, rifiuto a proseguire il
secondo step del corso per pizzaioli e cosa più grave, il coinvolgimento
in una rissa.
Più in generale, dopo l’esito positivo avuto in udienza, Simone
sembrava essersi “seduto”, sentendosi probabilmente già “arrivato al
traguardo”, ponendo in essere un atteggiamento complessivo tendente
ad adagiarsi su quanto fatto ma anche a riproporre in comunità le stesse
modalità comportamentali vissute nella propria casa d’origine.
Gli elementi riportati evidenziavano chiaramente che ci si trovava di
fronte ad una pericolosa fase regressiva e non ad una delle comuni
“crisi” che normalmente ci si trova a fronteggiare in un percorso di
messa alla prova e che generalmente vengono gestite in accordo con i
Servizi, con convocazioni atte a fare il punto della situazione, a
ricordare al ragazzo il senso del beneficio concessogli e i rischi di una
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eventuale revoca con interventi restrittivi della libertà concessa e
incontri con la famiglia.
Tuttavia ad una lettura più attenta balza agli occhi, nel racconto di
questo percorso, la mancanza di convocazioni intermedie da parte
dell’AG che forse in un caso così lungo e complesso avrebbero potuto far
sentire al ragazzo il “peso” del suo “essere penale” e sostenere il lavoro
degli operatori, educatori e assistenti sociali, spesso lasciati totalmente
soli.
Così come altra grande assenza è stata quella del suo avvocato
difensore, poco interessato alle sorti del suo assistito, tanto da non
presentarsi mai in comunità per incontrarlo, parlando tramite i genitori
del minore e alimentando, come spesso accade, fantasie improbabili di
rientri in famiglia imminenti. Una presenza che invece può essere
realmente significativa, soprattutto se l’avvocato, in possesso, non solo
degli irrinunciabili strumenti tecnico-giuridici, ma di una specifica
competenza nell'ambito del sapere psicologico, in generale, e delle
problematiche dell'età evolutiva, faccia realmente propria la funzione
sociale del suo ruolo focalizzando l’attenzione sul minore, sulla persona
e sulla tutela delle relazioni familiari. Nel processo penale minorile,
infatti, al difensore, oltre alla capacità di assistenza legale, si richiede
una peculiare capacità di intervenire sul giovane per consentirgli di
comprendere la valenza non solo tecnica, ma anche pedagogica delle
situazioni processuali e per aiutarlo a comprendere meglio ciò che
accade. L’avvocato è spesso, almeno inizialmente, l’unica figura di cui il
minore si fida, l’unica che ascolta, l’unica che non è considerata un
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“nemico”, proprio per questo può rivelarsi una presenza preziosa nel
lavoro di recupero del minore. Nell’esperienza della comunità “CEDRO”,
fortunatamente, diversi sono stati i casi in cui il legale di fiducia si è
rivelato un alleato prezioso che ha sostenuto il lavoro degli operatori.
Purtroppo ciò non è accaduto nel percorso di Simone.
La mutata situazione e le nuove problematicità emerse hanno,
necessariamente, spinto gli operatori ad interrogarsi su quale strategia
potesse essere realmente proficua per il ragazzo. L’impressione era che
in quel momento il ragazzo avesse dato tutto ciò che poteva dare e
forse, in quel percorso, anche la comunità.
Nella relazione di aggiornamento, redatta dopo qualche mese,
successivamente all’equipe di verifica,si legge:
Possia o dire che durante questo periodo Simone ha alternato momenti di completa
adesione ad altri più oppositivi e di difficile gestione. Nonostante ciò, ha risposto
positivamente ad alcune proposte educative raggiungendo, seppur in maniera limitata,
alcuni obiettivi uali il o segui e to della li e za edia e l attestato di f e ue za al corso pizzaioli. Purtroppo il quadro personale e sociale di partenza del minore è apparso
sin da subito estremamente compromesso: la sua sembra essere una difficoltà reale ad
entrare in una riflessione più profonda che lo aiuti a calibrare i suoi atteggiamenti e le
sue reazioni spesso spropositate e dettate da forte impulsività.
Il programma educativo elaborato e di volta in volta modificato ed integrato ha avuto
come obiettivo quello di permettergli di maturare una maggiore riflessività ed un
maggiore controllo di sé e delle sue emozioni. Tuttavia, i risultati raggiunti faticosamente
i uesti esi ha o su ito delle eg essio i, a he piuttosto sig ifi ative, ell ulti o periodo.
Ciò o osta te l a da e to dell ulti o pe iodo ha ost etto gli ope ato i s ive ti a ivede e gli o iettivi del pe o so e a valuta e l effi a ia degli i te ve ti posti i esse e i
questi mesi.
Simone, da qualche mese non è interessato a nessuna attività proposta e, molto
fati osa e te, gli ope ato i ies o o a fa lo pa te ipa e agli i peg i sta iliti. … Possiamo dire dunque, che negli ultimi tempi si è chiaramente manifestata una
progressiva demotivazione che ha portato il ragazzo ad assumere un comportamento
costantemente provocatorio e irrispettoso nei confronti di chiunque, atteggiamento che
è diventato, oramai da tempo, il suo normale modo di porsi. Il giovane esprime
chiaramente la sua intenzione di ritornare a casa e sembra sentire il peso della vita
scandita da impegni e regole della Comunità.
Per questo motivo, il programma è stato rivisto prevedendo anche dei rientri a casa più
f e ue ti p op io pe li ita e l appa e te sta hezza del agazzo e a do di ost ui e con lui una prospettiva alte ativa alla o u ità.
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L’equipe interistituzionale ha valutato che continuando su quella
strada si sarebbe velocemente arrivati necessariamente alla richiesta di
revoca dell’art.28, tuttavia, vista la complessiva positività dei 21 mesi
già trascorsi di messa alla prova e la convinzione che una revoca non
avrebbe realmente aiutato il ragazzo, si è cercato di immaginare strade
alternative per tentare di invertire nuovamente la rotta.
Si è cominciato così ad ipotizzare un percorso di rientro graduale sul
territorio, per provare a dare nuova linfa al percorso, ma si poneva
innanzitutto la necessità di far sperimentare il ragazzo in un percorso
lavorativo.
I primi tentativi in tal senso, fatti nel settore della ristorazione
proprio in virtù dei corsi frequentati, sono stati fallimentari proprio per
l’insofferenza di Simone: l’impulsività del ragazzo, la sua esuberanza, la
sua “risposta facile”, necessitavano di un approccio al lavoro che fosse
un po’ come una palestra ove allenarsi per apprendere come ci si
comporta. Nonostante le competenze nel settore culinario, infatti, il
ragazzo non sembrava ancora pronto per poter essere inserito in un
contesto strutturato quale quello di una pizzeria o di un ristorante,
pertanto ci si è orientati verso altre possibilità, optando per
l’inserimento presso l’azienda di autodemolizione “Trincar”, sita in
Villaricca (Na). Tale scelta è stata motivata dalla necessità di poter
inserire Simone in una situazione “protetta”: ossia presso un datore di
lavoro che comprendesse e capisse che accogliere un “minore a rischio di
devianza” vuol dire dargli una possibilità, ma anche che tale possibilità
va costruita in un dialogo costante con i suoi referenti istituzionali e che
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bisogna avere nella sua gestione una flessibilità che lo avvii al senso del
lavoro e dell’impegno ma che sappia anche comprenderne le frequenti
defaillance. Il titolare di tale azienda, mostrando una sensibile
attenzione al problema della devianza minorile, si è reso disponibile
all’inserimento di ragazzi dell’area penale e nel tempo si è rivelato una
preziosa risorsa per la comunità “CEDRO”, nella gestione dei percorsi dei
ragazzi in area penale e nel dar loro una chance. Ad oggi, infatti, i primi
tre ragazzi inseriti hanno un contratto di lavoro, hanno terminato
positivamente il percorso in comunità, sono rientrati definitivamente a
casa e sono realmente soddisfatti di aver avuto la possibilità di
riscattarsi. Un quarto ha appena iniziato ed è ancora in comunità per
terminare il percorso di messa alla prova.
Tale scelta si è rivelata proficua e ad oggi Simone continua il suo
percorso, seppur col passo incerto di chi appare in procinto di cadere.
Si è progettato un graduale rientro sul territorio ma l’insofferenza, la
fatica, lo scoraggiamento che il ragazzo ancora manifesta, unitamente
ad una chiusura che lo rende sempre più sfuggente, inducono gli
operatori ad essere vigili e a tenere alta l’attenzione.
Vigilanza che vuol dire essenzialmente che nel mentre accadono le
cose l’educatore c’è, è lì, è presente ed è pronto a provarle tutte per
“tenere” e contenere il ragazzo in una dimensione progettuale.
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5.3. L’educatore: il senso di una presenza
Qua do i po go di f o te ad u a pe so a, posso o side a la da due pu ti di vista: posso tener conto della sua realtà, di ciò che è; ma posso anche fare attenzione a ciò
che può diventare.
I og i pe so a esiste u io p ofo do he hiede u ge te e te di esse e ealizzato. Amare una persona significa mettersi al servizio di questo io per aiutarlo a realizzarsi.
Amare vuol di e hia a e l alt o all esiste za, fa lo vive e, fa lo esse e di più. Ma hi sa uali so o i li iti dell alt o?
Pe a a e isog a allo a da e edito all alt o e gua da lo o spe a za. Il li guaggio dell a o e o la di ost azio e a la fede. Chi non ha il se so del iste o, dell avve tu a, del is hio, o può a a e! 252
Simone, il suo sguardo, il suo smarrimento, la sua frammentazione, la
sua esuberanza, il suo desiderio di essere migliore, il suo bisogno di
essere riconosciuto, accolto e amato.
Simone, una storia tra tante, una storia unica e irripetibile, una storia
come tante, come troppe.
Simone, semplicemente un adolescente in difficoltà, da accompagnare
per un piccolo tratto di strada cercando di fare il possibile affinché quel
“pezzetto” possa fare la differenza.
Simone, il suo percorso e la consapevolezza che, in una messa alla
prova in comunità, l’elemento che ha in sé la possibilità di determinare
una differenza è la presenza dell’educatore.
L’educatore, il senso di una presenza che trova il suo significato più
profondo e vero nella parola stessa da cui ha origine: ex-ducere,
“condurre fuori da”, un verbo che rimanda allo spostarsi da un luogo ad
un altro, all’idea di un viaggio, di un cammino; una presenza che dunque
deve favorire il movimento.
252
E. Fromm, Avere o essere?, Mondadori Editore, Milano, 2001.
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226
L’educatore, il senso di una presenza che si declina nell’abitare la
relazione, nello srotolarsi dei minuti, delle ore del tessuto quotidiano, in
una dinamica alimentata da un’istanza di libertà che permetta
all’educando di ascoltarsi, di dar spazio al suo sentire, di liberarsi
dall’“addestramento ricevuto”, di far emergere la propria natura, di
scoprire i talenti avuti in dono per potersi muovere nel mondo perché
l’educazione, come scrive Cosimo Laneve, “è innanzitutto prendere
coscienza della strutturazione del proprio io: essere consapevoli di
quello che si è, quindi di ciò che si accetta o si rifiuta di sé in
riferimento a quei valori che attestano la propria umanità; significa, poi,
affrancarsi dalla chiusura nei dati della natura, liberarsi dai lacci di un
imprinting culturale non scelto, andare oltre i propri limiti culturali (…),
elevarsi rispetto a se stessi e, quindi, progettarsi in funzione di quei
significati che appaiono congrui con il proprio sé, con il proprio essere
persona”253; è dunque un percorso di autoscoperta, di autoaccettazione
e di autoprogettazione che consente di costruire il proprio sé.
L’educatore, una presenza che nella storia di Simone si è declinata
innanzitutto nell’accoglierlo, nel contenerlo nei suoi frequenti scatti
d’ira che lo spingevano a rifiutare tutto, nel farlo rientrare dolcemente
in se stesso attraverso la vicinanza e l’affetto, nel gioire con lui dei suoi
successi, nel cancellare la sillaba “im” dalla parola “impossibile”, da lui
ripetuta continuamente nella convinzione di non essere in grado di poter
imparare a fare e ad essere diversamente, nel dargli fiducia, sempre, nel
“convincerlo” ogni giorno che ce la poteva fare, nel non arrendersi né
253
C. Laneve, Manuale di Didattica generale, La Scuola, Brescia, 2011, p.52.
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spaventarsi quando la parte più distruttiva veniva fuori facendo di tutto
per farsi allontanare. Perché è questo che cercava di fare Simone, come
tanti adolescenti in difficoltà: dimostrare a se stesso di non valere nulla,
di non meritare nulla, di essere talmente sbagliato che nessuno riusciva
a stargli accanto, né tantomeno volergli bene; un vissuto troppo forte da
cui sembrava possibile difendersi solo continuando a percorrere quella
strada di prevaricazione e violenza che lo aveva condotto fin lì, non
esistevano alternative.
Bisogna sempre tener presente che proprio per i vissuti che hanno alle
spalle, tutti i ragazzi che giungono in comunità hanno un vuoto affettivo
enorme accompagnato da una forte svalutazione di sè, dunque tutti
hanno bisogno innanzitutto di sentirsi visti e riconosciuti, di essere
ascoltati, compresi, amati e ciò è possibile solo all'interno di una
relazione educativa, realmente significativa, che restituisca loro un
immagine positiva di se stessi.
Soprattutto nella prima fase dell’accoglienza in struttura, agli adulti
impegnati nella relazione educativa è richiesta la capacità di
contenimento emotivo dei ragazzi garantendo loro la possibilità di
manifestare le proprie emozioni ricevendo un adeguato sostegno. Non è
facile perché gli adolescenti fanno di tutto per essere scostanti, per
scatenare nell’altro un senso di fastidio, con il loro modo di parlare, di
vestire, di comportarsi, di essere pettinati; fanno di tutto per farsi dire:
“vattene via, sei inadeguato, non voglio più vederti, non me ne importa
niente di te.” Ma è l’adulto che deve raggiungere l’adolescente,
soprattutto quando tira fuori la sua parte peggiore, non il contrario.
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L’educatore deve fare attenzione a non mettersi mai sullo stesso piano
del ragazzo, entrare in simmetria con lui, comportandosi come un suo
pari: un simile atteggiamento provoca il danno enorme di perdere il
ragazzo e di lasciarlo scivolare via nei suoi vuoti. Al contrario è proprio lì
in quel vuoto, in quel non senso, in quella distruttività che l’educatore
deve tirar fuori tutta la sua capacità di abitare la relazione, di saperci
stare dentro e resistere dimostrandogli che “non lo molla”, che è lì che
lo tiene, che non ha timore di affrontare insieme a lui le sue paure, il
suo dolore, la sua rabbia, la sua storia.
Un’importante funzione educativa è allora anche quella di mediare fra
questa parte “scostante” che con disprezzo e sfrontatezza urla
all’educatore “puoi fare quello che vuoi ma tanto è inutile: non mi
cambi!”, e la realtà del ragazzo, andando oltre quello che si vede e
scavando più in profondità delle manifestazioni superficiali. E ciò è
possibile se si tiene sempre presente che l’adolescente è un ‘immaturo’
e che l’immaturità in questa fase della vita è “elemento essenziale della
sanità dell’adolescenza”, dunque non un problema ma “una parte
preziosa della scena del ragazzo”254. Il vero problema lo si ha invece se
gli adulti abdicano, in tal caso, infatti “l’adolescente diventa adulto
prematuramente ed attraverso un processo falso” 255.
Questo il pericolo da scongiurare: l’educatore deve esserci.
“La ribellione adolescenziale, scrive Winnicott, deve essere raccolta,
deve esserle data realtà attraverso un atto di confronto personale. (…) Il
confronto appartiene ad un arginare che è non vendicativo, privo di
254
D. W. Winnicott, Gioco e Realtà, Armando Editore, Roma, 2004, p.242. 255
Ibidem.
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229
spirito di ritorsione, ma che ha la propria forza”256. Raccogliere la sfida
di un ragazzo che cresce “non è necessariamente una cosa gradevole”,
afferma lo psicoanalista inglese, ma se questo è chiaro a chi educa allora
anche l’ottica con cui si leggono certi comportamenti ed atteggiamenti
può cambiare assumendo una chiave di lettura che getta la luce non solo
sui problemi, su ciò che è sbagliato, su ciò che manca, ma anche e
soprattutto su ciò che c’è, su ciò che è da valorizzare, sulle risorse che
l’adolescente ha per affrontare le difficoltà che gli si pongono davanti
nel corso della sua crescita.
E’ con l’esserci, con la presenza costante nel tempo, col farlo sentire
a casa nello spazio della relazione che Simone è pian piano venuto fuori,
si è sentito al sicuro, dandosi il permesso di “rallentare” la sua corsa
verso l’essere adulto, vivendo la sua età in maniera più sana.
Altro elemento da tener presente inoltre è che anche i genitori hanno
bisogno a loro volta di essere accolti e capiti, al fine di rivisitare,
condividendola e rielaborandola, la storia di vita familiare. Sono genitori
difficili da raggiungere perché feriti nel proprio ego dalle difficoltà
evolutive dei figli, che per difendersi dal senso di inadeguatezza
banalizzano o viceversa drammatizzano, ma che invece necessitano di
essere accompagnati nella decodifica del significato simbolico e
comunicativo dell’azione antisociale, nella quale il figlio esprime la sua
richiesta di aiuto. È necessario che l’educatore riesca a strutturare
anche con loro una relazione contenitiva ove non cerchi di sostituirli, ma
al contrario costruisca una motivazione alla rielaborazione della storia
256 Ivi, pp. 247-248.
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relazionale con il figlio, valorizzando la disponibilità a porsi come
insostituibili alleati nell’attuazione del percorso riabilitativo257.
Naturalmente non è cosa semplice: non di rado ci si trova ad interagire
con famiglie chiuse, strutturate, diffidenti, portatrici di una mentalità
già segnata da storie di carcere, di droga, di violenza, invischiate in un
sistema che fa della prevaricazione, dell’illegalità e della forza fisica il
suo pane quotidiano, che guardano al sistema dei Servizi minorili come
un nemico da cui difendersi. Sono nuclei con cui si fa più fatica e spesso
molte energie vanno sprecate nel tentativo di arginarne le modalità
invadenti con cui investono la comunità.
In ogni caso, punto centrale è sempre partire proprio
dall’accettazione, quale indispensabile premessa di ogni possibile
cambiamento, per portare il minore e la sua famiglia a comprendere che
certamente è avvenuto qualcosa che porta con sé conseguenze forti,
l’evento reato appunto, ma che quell’errore non segna la fine: per
quanto doloroso esso sia, può comunque e sempre divenire motore di un
possibile cambiamento, ciò a patto che i soggetti in gioco siano disposti a
“rimboccarsi le maniche” e ad aprirsi ad un atteggiamento che trova la
sua forza nel tentativo di provare ad apprendere sempre qualcosa
dall’esperienza. In tal senso l’intervento educativo deve puntare a far
leva ed affinare quella capacità di essere resiliente258 che ogni individuo
ha in sé e che permette di trasformare un’esperienza dolorosa in
257
Aa. Vv, Il Trattamento dei Minori sottoposti a messa alla prova: griglia per i Servizi Psico-Sociali, in Cassazione Penale n.
05, Giuffrè Editore, Milano, 2012, pp. 1927 -1928. 258
Il termine resilienza deriva dal latino resalio, saltare, rimbalzare, utilizzato in fisica per descrivere l attitudi e di u corpo a resistere ad un urto; in ingegneria per indicare la proprietà meccanica che possiede un materiale di sopportare
sforzi applicati bruscamente, senza rompersi; in campo pedagogico indica la capacità di far fronte, resistere, rialzarsi e
uscire positivamente dalle defaillances con una motivazione ed una energia rinnovata.
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apprendimento, inteso come la capacità di acquisire delle abilità e
competenze utili al miglioramento della qualità di vita e
all’organizzazione di un percorso autonomo259.
Simone e l’educatore, il mistero di un incontro con tutto il suo carico
di ricchezza e di incertezza, con tutta la fatica e la bellezza di entrare in
relazione, di scambiarsi delle cose. Proprio questo è infatti il significato
del termine relazione: “legame di scambio di qualcosa” tra due persone,
scambio che nella relazione educativa diviene qualcosa di più. Questa
infatti, ricorda Cambi, “non è una semplice relazione” poiché “passa
anche e soprattutto attraverso il legame psicologico, personale tra i due
soggetti in gioco, disposti asimmetricamente, predefiniti da un ruolo
preciso proprio in tale rapporto, ma anche posti faccia a faccia nella loro
individualità, con la loro personalità e le strutture che la governano e la
identificano. Soggetti che sono in particolare contrassegnati – proprio
nella relazione interpersonale che vivono nel proprio ruolo – come
fondative di esso – dalle dinamiche affettive le quali entrano a far parte,
appunto, del ruolo ma che anche vanno controllate attraverso una serie
di procedure interpretative, tematizzate e tenute sotto controllo”260.
L’educazione è infatti sempre contemporaneamente un’attività
pedagogicamente intenzionale e un’attività istintiva che necessita di
un’alfabetizzazione emozionale che consenta di controllare i sentimenti
rispettandone l’esistenza. La relazione educativa è una relazione
asimmetrica, bi-direzionale, perturbatrice, che necessita di competenze
259
E. Vinci, La dèfaillance come potenziale formativo, in C. Laneve (a cura di), Nuovi o izzo ti dell’edu azio e, Carocci,
Roma, 2008, p. 241. 260 F. Cambi, Mente e affetti ell’edu azio e o te po a ea, Armando, Roma, 1996, p. 124.
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specifiche che consentano all’educatore di essere in grado di proporre
soluzioni adeguate e risposte complesse e diversificate, ma è anche una
relazione “sentimentale”, costituita di emozione e affetto, capace di
“toccare”, di “emozionare”.
Si ha un vero processo educativo solo se c’è un “emozionamento” che
consente di toccare l’altro. E questo accade perchè “solo ciò che
dall’esterno entra nell’intimo, ciò che non viene solo conosciuto dai
sensi o dall’intelligenza, ma tocca il cuore e l’animo, questo solo cresce
in esso ed è un vero mezzo formativo. Ma se è davvero tale, se viene
realmente a strutturarsi nell’anima, cessa di essere un semplice mezzo
materiale, comincia ad agire direttamente, formando, educando,
aiutando l’anima a raggiungere quella configurazione che è stata
prevista per essa”261.
Si apprendono dunque solo le cose che si amano; solo ciò che “tocca”,
che “emoziona” viene realmente conosciuto, interiorizzato e fatto
proprio. Solo toccandone l’animo, l'educatore può ispirare l'altro in un
cammino verso il cambiamento possibile, nella consapevolezza che
continuamente va negoziato perché comporta sempre un momento di
crisi profonda che provoca resistenza.
E' la fatica della relazione, dello stare nella relazione.
Fatica che stanca, sfibra, sfinisce; ma che anche stimola, arricchisce.
Fatica che l'educatore è chiamato ad assumersi tutta, proprio per la
responsabilità che ha nell'aver “addomesticato” l'altro.
261
E. Stein, La donna - il suo compito secondo al natura e la grazia, Città Nuova Editrice, Roma, 1987, p. 135.
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Appare fondamentale, proprio nelle difficoltà che il lavoro educativo
comporta, riuscire sempre e comunque a sentirsi responsabili della vita
che si sta accompagnando, ad ispirarne i passi per invitare a guardare
oltre, a sognare, a desiderare ed osare. Ispirare attraverso la bellezza,
unico elemento, capace di muovere realmente i passi dell'uomo
facendolo entrare in risonanza con le parti migliori di se stesso.
Bellezza che “tira su” e stimola a tirare fuori il meglio di sé, a vedere
il bello di sé, a dare valore a ciò che si è, a riconoscere il valore della
vita come armonia, come relazione, come riconoscimento reciproco.
Ecco allora l'importanza di un'educazione che promuova, tenda, si
ispiri al bello e, attraverso parole vive e vitali, trasmetta vita e sia
capace di far amare.
“Le parole insegnano, gli esempi trascinano. scriveva Sant’Agostino -
Solo i fatti danno credibilità alle parole”. Per educare alla bellezza
autentica è necessario che l'educatore, affianchi ai propri occhi e alle
proprie parole, la passione e il proprio esempio, piccolo ma concreto,
che attesti che in lui la persona e le parole coincidono: con la sua
persona dimostra infatti quali valori garantisce e che cosa rende umano
l'uomo.
Per fare questo non occorrono grandi gesti ma è necessario fare
memoria di sé, ricordarsi di come si era a quell’età per meglio
comprendere senza giudicare e vivere la relazione affrancandola dal
binomio “giusto-sbagliato”, dal mero “ti sei comportato bene o male”,
centrandola invece su un più profondo “come stai? come ti senti quando
accade questo, quando fai così?”. E’ indispensabile prestare attenzione a
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che la relazione si sviluppi su uno stare insieme profondamente
agganciato al far sperimentare esperienze capaci di far vivere, con
fermezza e col sorriso, la possibilità di sentirsi bene con se stessi, di far
assaporare il gusto della gioia quale frutto della propria crescita
personale, stimolandoli a riconoscere e dare ascolto a quella voce
interiore propria di ciascun individuo che sa cosa è bene e fa star bene e
cosa è male e fa star male, cosa è vitale e cosa mortale.
Tuttavia bisogna ricordare che la relazione educativa in una comunità
di minori è anche e soprattutto una relazione complessa, intensa,
difficile, faticosa, continuamente esposta a intemperie di varia natura.
La comunità è investita dalla responsabilità di prendere in carico
educativamente le storie dei ragazzi entrati nel circuito penale, per poi
restituirli al contesto di provenienza. La presa in carico delle storie dei
ragazzi richiede la costruzione di relazioni educative, caratterizzate da
vicinanza e continuità. Si tratta di ri-costruire, a partire dal quotidiano
delle relazioni, occasioni e possibilità di cambiamento e di crescita,
rispondendo al bisogno primo dell’adolescente di incontrare
propriamente una comunità di persone, in cui trovare e ritrovarsi,
riconoscere e riconoscersi, sperimentare e sperimentarsi.
L’educare è sempre un’esperienza relazionale.
Tuttavia prendere in carico educativamente le storie dei ragazzi è
cosa tutt’altro che semplice e mai scontata. Le storie di cui i ragazzi
sono portatori sono intrise di sofferenza, di rabbia, di abbandoni, che
spesso portano i ragazzi ad esprimere forti emozioni con il
comportamento attraverso modalità che evidenziano aggressività,
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235
ipereccitazione, silenziosità. In questo contesto gli educatori sono
fortemente esposti, “segnati dalla preoccupazione, dalla paura, a volte
da un terrore nascosto di non essere capaci di contenere, anche
fisicamente, tali spinte fortemente caratterizzate da pulsioni
omicide”262. Ciò senza considerare che con i minori di area penale si
aggiunge anche la difficoltà di dover coniugare le istanze di libertà
proprie di ogni processo educativo con le necessarie funzioni di
controllo: due movimenti opposti che talvolta stridono fortemente
provocando ulteriori tensioni e problematicità.
“L’educatore è punto di riferimento per il giovane, è oggetto di amore
e odio”263, sentimenti ambivalenti e contrastanti che nel farsi della
relazione fanno sentire tutto il loro peso. Amore in quanto il ragazzo
sente che l’educatore è presente lì per lui, per prendersi cura dei suoi
bisogni, per sostenerlo nelle difficoltà, per aiutarlo a “tirar fuori” il
meglio; sente che si occupa e preoccupa per lui, che non è lì solo per
lavoro inteso come dovere, ma perché crede in quel lavoro e crede in
lui; sente la sua vicinanza, la sua partecipazione, il suo interesse, la sua
attenzione. I ragazzi sono vigili, attenti, non sfugge loro la cura con cui
si fanno le cose, ed anche se talvolta la loro rabbia li porta ad ostentare
indifferenza e disprezzo, sono i primi che poi sanno affermare “con te
sto tranquillo, se ti chiedo qualcosa so che basta dirtelo una volta sola,
perché non ti dimentichi”, una delle tante semplici frasi che però lascia
comprendere quanto osservino l’adulto, talvolta anche mettendolo alla
prova per “prenderne le misure”.
262
C. Kaneklin, A. Orsenigo, Il lavoro di comunità, La Nuova Italia scientifica, Roma, 1992, p.86. 263
P. Danza, Lavorare come educatore in comunità educativa tra implicazione e formazione; in http://www.counsellor.it/
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Ma accanto a questo slancio convivono anche sentimenti di odio verso
l’educatore: l’adolescente è diffidente verso quell’adulto che a fine
turno va via e lo lascia ad un altro, che “parla bene ma che ne sa dei
problemi veri”; ha paura che, come gli altri adulti della sua vita, lo
abbandonerà quando avrà bisogno di lui, pertanto meglio non legarsi,
non aprirsi, non affidarsi, solo “far finta di accontentarlo” dicendogli
quello che vuole sentirsi dire. E’ un “nemico”, è una guardia carceraria
che vuole imporre regole e fa la spia all’assistente sociale e al giudice,
fa parte del sistema che lo “tiene chiuso”, con lui meglio cercare di
“fare buon viso a cattivo gioco”.
L’educatore si trova a far fronte a tutto questo groviglio di emozioni
contrastanti, uno scoglio enorme da superare, reso più ostico dalla non
naturalità del luogo e del rapporto che si cerca di instaurare: la
comunità, infatti è un prodotto artificiale, nel senso che è una soluzione
ad hoc per ricostruire un luogo favorevole alla costruzione di relazioni
significative, capaci di promuovere cambiamenti e contenere disagi. Allo
stesso modo anche la relazione con l’educatore è artificiale: ovvero non
si crea da sé, ma è intenzionale, procurata con mezzi e strategie a volte
molto raffinati, che viene studiata a lungo sia nel momento del contatto
che durante tutte le fasi della sua evoluzione.
Questa non naturalità è una circostanza che va sempre tenuta in
considerazione, soprattutto dal punto di vista dei ragazzi che d’altro
canto la relazione non la ricercano, per lo meno non in maniera
esplicita. Hanno certamente altri modi per richiedere attenzione, per
esempio “alzando il tiro”, rompendo e facendo rumore, esibendo corpi
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massacrati da tatuaggi, rispondendo male o non rispondendo affatto,
fuggendo, rinchiudendosi, urlando, andando male a scuola, etc. Ma
Simone, come gli altri, non è andato di sua spontanea volontà da un
educatore a dire: “Ciao, sono Simone e ho bisogno di aiuto”. E’
l’educatore che intenzionalmente si muove verso il ragazzo, presentato
o segnalato da altri servizi. “Loro”, i protagonisti, non richiedono
esplicitamente di essere seguiti, presi in carico, aiutati, mai. “Sono
queste situazioni quelle in cui i ragazzi non chiedono esplicitamente
niente, ma che richiedono all’educatore di mettere in campo e utilizzare
specifiche abilità inerenti al lavoro professionale educativo”264, perché
se per l’educatore instaurare una relazione è fin dall’inizio importante,
altrettanto non lo è per loro.
Una comunità è, inizialmente e inevitabilmente per un ragazzo che
arriva, uno spazio anonimo, una realtà nella quale, a seguito delle sue
scelte, paga come prezzo la perdita della libertà. Gli educatori possono
declinare questa restrizione come un cammino verso una maggiore
autonomia e consapevolezza di sé e degli altri, ma vi è sempre il rischio
che essa rimanga per il ragazzo un non-luogo: la dicotomia tra
restrizione e autonomia è forte e l’educatore deve cercare di
stemperarla “tirandosi dentro” il ragazzo nel costruire insieme a lui e
agli altri la “sua” comunità.
Simone non è giunto in comunità di sua spontanea volontà, questo
l’educatore deve averlo ben chiaro ed assumere pertanto innanzitutto il
compito di accompagnarlo nel modificare il significato che all’inizio
264
M. Longhi, Nelle vie della città per aiutare ragazzi e ragazze a crescere, in Polis n. 82, Venezia, 2002, pag.28.
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aveva attribuito al suo essere ospite nella struttura, ponendosi nella sua
prospettiva: Simone ripeteva che “stava chiuso” perché “doveva
scontare la pena”, per lui non vi era differenza tra comunità e carcere.
Questo il punto da cui partire per condurlo verso una diversa percezione
del senso del suo stare in comunità: è infatti solo quando il ragazzo
percepisce la comunità come una risorsa a sua disposizione e non più
come il luogo che “lo tiene chiuso”, che si concede il permesso di vivere
quel tempo e quello spazio come una opportunità; e solo allora il suo
passo cambia, aprendosi anche all’eventualità di una rielaborazione
dell’evento reato e più in generale della trasgressione, intesa come
superamento di un confine, prima ancora che come reato.
Un punto questo nevralgico nel percorso di adolescenti provenienti
dall’area penale che sovente sembrano non comprendere che il reato
commesso, prima ancora di essere rilevante sul piano giuridico, è l’esito
di un’invasione dello spazio vitale di un’altra persona. Al riguardo
peculiare compito degli operatori è proprio quello di accompagnare il
ragazzo nel riconoscimento dei confini propri e altrui, attraverso uno
spazio, quello comunitario, in cui la trasgressione diventa risorsa per un
confronto tra operatori e ragazzi e tra i minori fra loro.
Punto centrale del lavoro educativo in comunità è lavorare sul senso
di appartenenza e di riconoscimento, elementi costitutivi dell’identità
personale, e ciò è possibile coniugando la parte comportamentale, atta a
dare alla comunità un ordine, un assetto, un programma, alla parte
relazionale, fatta di accoglienza e normatività. L’azione educativa, nel
contesto comunitario, si realizza precipuamente attraverso la
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molteplicità dei processi relazionali e comunicativi tra le persone che la
vivono, ove in circolarità, insieme alla dimensione del “fare” delle cose
viene proposta anche quella del “pensare”, favorendo la rielaborazione
delle esperienze e la costruzione di significati condivisi.
L’educatore deve dunque prestare attenzione a non sbilanciarsi su un
fare concentrato maggiormente sulla sfera del comportamento, nella
convinzione che agendo su tale aspetto il ragazzo possa modificare i
propri agiti, deve invece aver sempre chiaro che l’aspetto relazionale sia
quello più rilevante e che le due parti debbano procedere
congiuntamente. Il rischio è quello di farsi sbilanciare da pressioni e
richieste che finiscono con l’ancorare il senso del percorso del ragazzo
ad un discorso centrato sui risultati, sul comportamento, sul “prodotto
finale”.
Ma “l’educativo” vero prescinde da questo perché guarda all’essere e
non al fare.
L’educativo è lo spazio del cambiamento, che permette all’educatore
di non soffermarsi sul mero dato comportamentale, di non rimanere
schiacciato nella sola dimensione del fare, rischio sempre presente,
nell’impellente emergenza che sbilancia richiedendo incessantemente
azioni e interventi: è l’educativo che permette di sapersi fermare e
interporre il riflettere, il sentire, il leggere ciò che accade, al fare
frenetico.
E’ l’elemento educativo che permette all’educatore di centrarsi sulla
relazione quale spazio in cui i soggetti coinvolti riflettono e si scambiano
emozioni, modelli, informazioni inducendo cambiamenti sulle rispettive
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identità, consapevole che strumento della relazione educativa è lui
stesso con i suoi punti di forza e la sua fragilità, lui stesso nella sua
persona, nel suo agire con responsabilità ed intenzionalità educativa.
“Nemo dat quod non habet”265, non si educa se non attraverso la
messa in gioco personale, il coinvolgimento che non significa
improvvisazione, né istinto, né imposizione delle proprie idee, quanto
piuttosto disponibilità a sedersi “sulle braci ardenti di ciò che sente”,
per portare avanti un lavoro su sé perché la relazione coinvolge ma va
controllata. Al riguardo è indispensabile che l’educatore si renda conto e
accetti di essere “implicato”, piegato dentro, la relazione educativa con
proprie emozioni, vissuti storici, fantasie, aspettative, facendo
attenzione ad essere sempre “altro” rispetto al soggetto in educazione,
restando saldo e sereno dinanzi a quanto agisce, anche talvolta verso di
lui, senza farsi agganciare e trascinare dentro tale dinamica, nella
consapevolezza che il seme che si sta gettando non sempre darà i frutti
sperati e che la scelta del ragazzo non è nelle sue mani. L’eccessiva
immedesimazione, il sostituirsi all’altro è infatti un atteggiamento
estremamente pericoloso la cui deriva è l’onnipotenza, ossia il pensare
di poter salvare l’altro, di cambiarlo secondo ciò che si ha in mente,
rischio forte che l’educatore corre e a cui si accompagna la frustrazione
nel constare che non si ha il potere creduto sul ragazzo.
In tale prospettiva, il lavoro in comunità è sempre
contemporaneamente lavoro con l’utente e lavoro con se stesso, con le
dinamiche emotivo-relazionali che l’operatività genera nell’educatore.
265
Massima latina: Nessuno può dare ciò che non ha.
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241
L’educatore, infatti, “sperimenta il fenomeno dell’implicazione come
modo di essere. Si può non averne consapevolezza ma, lo si voglia o no,
si è sempre in una situazione originaria e costitutiva di implicazione”266.
Tali considerazioni spingono a considerare essenziale la formazione
permanente dell’educatore: formazione intesa come tensione interiore
ad un maggior essere, formazione che lo aiuti ad essere consapevole di
quello che “gli fa” la relazione con l’utente. L’educatore è esposto alle
relazioni con ragazzi e colleghi con tutta la sua storia e il suo presente,
sono pertanto necessarie situazioni strutturate di formazione
permanente che consolidino “l’impianto organizzativo della comunità e
sostengano lo sviluppo della professionalità degli operatori” perché “non
servono eroi, anzi sono generalmente dannosi”267.
“Ciò che caratterizza un vero rapporto educativo è la passione e il
desiderio di chi educa, poiché nella passione e nella dedizione che egli
mette nella sua azione educativa sta la radice della persuasività della
sua azione, la possibilità di suscitare il desiderio del più giovane. Il
desiderio, la passione di chi educa coinvolge, contagia, si trasmette
anche a chi è educato”268. E’ su questo terreno che si gioca la credibilità
dell’educatore e dunque la possibilità di ispirare un cambiamento.
E’ compito degli educatori spargere semi di gioia, di curiosità, di bene
e coltivare poi i piccoli frutti che nascono nel tempo vissuto insieme,
favorendo una visione della vita da protagonisti, stimolando la curiosità
dei ragazzi nella direzione di interessi nuovi ed arricchenti. Occorre
266
M. Giordano, Il dialogo inespresso, Micella, Lecce, 1992. 267
C. Kaneklin, A. Orsenigo, Il lavoro di comunità, op. cit., p.155. 268
G Gili, Quando un prof è credibile? http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2011/2/24/SCUOLA-Quando-un-
prof-e-credibile-/152759/
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evitare che le esperienze vissute si riducano a qualche foto da guardare
ogni tanto o ad un mero “ti ricordi?”, bisogna fare in modo che diventino
punto di partenza per costruire altro, per un ulteriore passo in avanti,
bisogna tenerle vive, utilizzando gli elementi emersi, ricollegandoli alla
vita quotidiana in una continua ricerca ed esplicitazione di senso.
Progressivamente, durante il loro percorso, deve risultare sempre più
chiaro anche ai ragazzi che, nonostante le apparenze, tutto quanto fatto
vivere converge nel progetto educativo di ciascuno di loro, favorendo il
raggiungimento degli obiettivi in esso contenuti.
Sempre a proposito di semi, compito degli educatori è poi saperli
travasare nel terreno della quotidianità per farli crescere, facendo in
modo che la sua presenza non sia più necessaria. L’educatore deve saper
modificare se stesso nella relazione, deve sapersi nascondere
progressivamente, affiche il minore possa divenire protagonista della
propria crescita, avendo chiaro che il suo intervento ha un tempo
definito e momentaneo. Solo così l’opera dell’educatore si connota come
educazione all’autonomia, alla responsabilità, alla libertà.
Dare credito, guardare con fiducia, credere profondamente in quel
che potrebbe essere, in quello che l'altro può diventare.
Far amare, far muovere verso il bene, il bello, il vero, la gioia,
ricordando sempre che ogni processo educativo è un'apertura di credito
verso il futuro.
Rimboccarsi le maniche con fermezza ma anche sempre col sorriso
per quell’io che chiede urgentemente di essere realizzato.
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CONCLUSIONI
La fessura è un punto pregiato di luce e di illuminazione
dove l’occhio e la mente spesso vedono solo una crepa e un punto debole.
Ogni fessura è uno spiraglio che la vita stessa si concede per concederci vita e luce269
Paolo Spoladore
Creare movimento è l'antidoto ad ogni forma di paralisi.
Concludere.
Mai come in quest’occasione mi appare stridente il suono di questa
parola.
Mariano, Simone, Emanuele, Achille…, nell’accingermi a scrivere le
ultime pagine di questo lavoro ho davanti a me i loro occhi, il loro passo
incerto, i loro desideri.
Ripercorro lentamente nella mia mente il percorso di ognuno di loro,
le fatiche, gli imprevisti, le cadute, ma soprattutto riassaporo la gioia
del percorrere insieme quel piccolo tratto di strada in cui i nostri
cammini si sono incrociati, lo slancio del gettarvi il cuore.
Mi appare chiaro che “tirare le somme” non è cosa facile.
Non lo è mai quando si tratta di percorsi, di relazioni, di pratiche
educative, di “crepe nel muro”, di passi fatti.
Non lo è mai quando si lavora sul disagio, sulla marginalità.
269 P. Spoladore, Felice Via, Usiogope, Noventa Padovana, 2009, p.7.
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E allora primo punto fermo di questa riflessione conclusiva è proprio
assumere l’esistenza di una zona non misurabile di incertezza quale
elemento costitutivo dell’agire educativo che si srotola nella tessitura
del quotidiano: l’azione educativa è caratterizzata dall’imponderabile e
non può che manifestarsi attraverso un movimento di ricerca continua
animato da ipotesi, verifiche, domande di senso, tentativi ed errori.
Includere questo fenomeno inevitabile quando si ha a che fare con la
dinamica della vita stessa, significa essere capaci di “fare un salto in
avanti” sottraendosi alla spinta obbligante della politica del controllo e
all’illusione di poter assoggettare il processo educativo attraverso
strumenti e modelli da cui ci attendiamo affidabilità e valutazione delle
nostre azioni secondo l’ottica dell’errore e del prodotto finale.
Assumere tale prospettiva quale sfondo dell’agire educativo vuol dire
altresì liberarsi dall’ansia del risultato e con umiltà e semplicità
centrarsi su sé e sulla propria capacità di fare la propria parte, nel
proprio ruolo, al meglio possibile.
Questo a mio avviso il motore da cui prende avvio ogni altro spunto
di riflessione più “tecnico”, perché profondamente agganciato ad una
spinta interiore che porta il “soggetto educante”, indipendentemente
dal ruolo che ricopre, ad avere una visione di insieme e una cura che si
declinano in un accompagnamento robusto e competente.
Partendo da tale considerazione e provando a sintetizzare gli
elementi salienti concernenti l’applicazione del beneficio della messa
alla prova da svolgersi presso una struttura residenziale emerge in primo
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luogo che il valore aggiunto di una messa alla prova in comunità è
innanzitutto la comunità stessa.
Può sembrare banale e ridondante affermarlo ma credo fortemente
che il primo aspetto da ribadire sia proprio il richiamare l’attenzione sul
ruolo della comunità e dunque sulle motivazioni che inducono gli
operatori a propendere per tale soluzione.
Come evidenziato nelle pagine precedenti il beneficio giuridico
dell’art. 28 dopo un diffidente avvio è entrato a pieno titolo nella prassi
operativa degli interventi con i minorenni interessati da procedimenti
penali. Nello svolgersi dell’esperienza nell’ultimo decennio si è fatta poi
largo l’ulteriore possibilità, seppur non esplicitamente prevista dal
legislatore, di prevedere che la prova possa essere svolta in comunità:
un’“innovazione nell’innovazione” dunque, sempre più sperimentata ci
dicono i dati ufficiali, nata “dal basso”, cioè dalla concreta esperienza
dei progetti di prova proprio con l’intento di poter andare incontro alle
molteplici esigenze che la variegata realtà dell’utenza penale minorile
pone innanzi in maniera sempre più puntuale ed efficace.
Al riguardo dal lavoro svolto emerge chiaramente che la comunità
rappresenta una valida risorsa socio-educativa in tutti quei casi ove la
situazione complessiva del minore risulta essere caratterizzata da una
particolare fragilità personale e/o del suo contesto di vita: da qui
discende l’opportunità di scegliere una strategia che metta il ragazzo in
condizione di poter affrontare “la prova” con il sostegno necessario. In
tal senso si può dire che la comunità viene a configurarsi come una sorta
di “rete” che ha la funzione di supportare il ragazzo, fornendogli quegli
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strumenti di cui sia lui che il suo contesto di appartenenza appaiono
sprovvisti, atti ad affrontare con successo l’impegno della “prova”,
arginandone eventuali deviazioni dal percorso prefissato e sostenendolo
quando in procinto di cadere. In relazione alla concessione dell’art. 28,
infatti, la scelta di non far tornare immediatamente il ragazzo nel
territorio di appartenenza è legata ad una valutazione ove da una parte
emerga una chiara inidoneità della famiglia d’origine che rende
inopportuno il rientro del minore, ma dall’altra si riscontri
congiuntamente in essa la presenza di risorse su cui lavorare in assenza
delle quali invece non è possibile attivare alcun progetto.
La messa alla prova in comunità, pertanto, persegue il duplice
obiettivo di porre in essere un intervento atto ad attivare le risorse
esistenti sia con e per il ragazzo che con e per la sua famiglia.
Punto centrale del collocamento in comunità è l’affidamento in vista
di un progetto, elemento che fa della comunità “una misura in cui
l’aspetto del sostegno risulta prevalente rispetto a quello di controllo, in
cui il ragazzo è chiamato ad un elevato grado di partecipazione
consapevole, in cui non si tratta di ‘non fare’, ma al contrario di
impegnarsi a ‘fare’ nel rispetto del progetto”270.
L’aspetto di coinvolgimento e responsabilità invita i ragazzi a uscire
da una situazione di pigrizia e di mancanza di progetto per la propria
vita ed è proprio questo lo scopo della messa alla prova: superare il
rischio di passività e di non intenzionalità del ragazzo coinvolgendolo nel
percorso di recupero. A tal fine risultano indispensabili i collegamenti
270
M. Lion, M.T. Spagnoletti, Collocamento in comunità, in Esperienze di Giustizia Minorile 1-2, 1995, p. 137.
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della comunità con l’esterno nell’ottica di un progetto che fa perno sulla
responsabilizzazione attiva dei giovani ospiti. Per evitare che i ragazzi
restino “chiusi” in comunità occorre che ci siano legami con centri,
risorse, aggregazioni, iniziative che si possano frequentare. In caso
contrario se non viene vissuta pienamente la dimensione “dell’esterno”
si rischia che il ragazzo rimanga chiuso in una comunità-carcere e lo
stesso concetto di responsabilità risulterebbe limitato all’adesione alle
regole interne della struttura.
L’elemento delle risorse è senz’altro un valore nella costruzione dei
percorsi tuttavia dall’esperienza si evince che su tale aspetto il tessuto
sociale risulta spesso deficitario con la conseguenza che nella prassi è di
fatto estremamente faticoso reperirle.
Le difficoltà in tal senso sono molteplici: i Servizi territoriali, perno
della rete sul territorio, in alcune realtà sono inesistenti e le comunità
faticano a coinvolgerli sia durante la permanenza in struttura che nel
progettarne il rientro sul territorio; l’attuale organizzazione scolastica
non semplifica l’inserimento in percorsi di studio alternativi più fruibili e
utili per ragazzi in difficoltà; l’inserimento lavorativo risente sia della
più generale crisi economica nazionale che delle normative in materia
che, seppur con lo scopo di tutelare il minore, finiscono in taluni casi per
scoraggiare il datore di lavoro disponibile nel prendere a lavorare con sé
il ragazzo.
E’ da evidenziare tuttavia che numerosi sono i progetti messi in
campo finalizzati allo svolgimento di attività specifiche per brevi
periodi. Tale potenziale tuttavia rischia spesso di andare sprecato
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perché molte attività restano “chiuse” in se stesse dando l’impressione
che troppo spesso le diverse parti del sistema lavorino scollegate tra
loro. Bisognerebbe fare attenzione a non abusare della progettazione per
non correre il rischio che in questo “fare” incessante si perda di vista il
ragazzo. Alcune attività infatti, anche molto belle, rischiano di essere
figlie di una visione adultocentrica che, seppur con le migliori intenzioni,
fatica poi nella pratica ad agganciare realmente il ragazzo.
Sarebbe auspicabile che Regione Campania, Assessorato alle
Politiche Sociali e Giustizia Minorile concertassero strategie condivise
partendo dai tanti spunti degli “addetti ai lavori” che continuamente
emergono nei vari convegni, seminari e tavole rotonde. Ciò da una parte
per rendere più organico e intenzionale quello che già c’è, dall’altra per
progettare, per co-costruire quello che manca mettendo realmente il
ragazzo al centro nella consapevolezza che la co-costruzione, l’apertura,
il lavorare in sinergia comportano certamente uno sforzo ed un lavoro in
più per chi opera ma rappresentano il vero valore aggiunto
dell’intervento con una ricaduta positiva in termini di efficacia ed
efficienza del processo.
Un ultimo inciso relativamente alle risorse merita l'aspetto
economico. E’ da evidenziare infatti che gli annosi ritardi e la mancanza
di pagamenti incidono non poco sulla vita della comunità, rendendo più
difficile il mantenere alta la qualità del servizio offerto: l’avere a
disposizione meno denaro si traduce infatti nel concreto in un minor
numero di operatori, in personale meno competente, in un alto turn
over, in minori spese a favore dei ragazzi, in un’offerta di attività più
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limitata ove viene meno in primis tutto ciò che è “extra” e che permette
di personalizzare realmente il progetto.
Al di là delle criticità esposte è tuttavia possibile affermare che la
messa alla prova in comunità rappresenti un’opportunità utile ad
ampliare e completare il ventaglio di possibili strategie d’intervento con
i minori dell’area penale nonché consentirne una maggiore incisività
poiché l’azione educativa viene portata avanti agendo congiuntamente
sia sul piano individuale, con il PEI, che sulla dimensione di gruppo,
attraverso il progetto di vita comunitario. Tale elemento risulta essere
particolarmente significativo in quanto considerare l'adolescente
dell'area penale esclusivamente nella sua dimensione di azione
individuale può essere reputato in realtà una sorta di "errore semantico":
l'adolescente infatti generalmente si manifesta ed agisce in gruppo, i
reati sono quasi sempre commessi in una dimensione di gruppo o
comunque in collegamento con altri. Pertanto se si vuole realmente
smuovere qualcosa bisogna certamente intervenire con progetti
individualizzati ma anche congiuntamente con progetti di gruppo perché
è nel gruppo che il ragazzo agisce maggiormente la devianza, i primi da
soli rischiano di agire su un solo livello. In tal senso la preziosità
dell’intervento comunitario è precipuamente anche quella di agire su
entrambe le dimensioni.
Sempre per quel che concerne l’intervento comunitario appare
inoltre indispensabile sottolineare la necessità del non perdere mai di
vista l’obiettivo della responsabilizzazione e dell'autonomia del minore:
la comunità infatti potrebbe incorrere nel rischio di fungere da freno nel
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percorso del ragazzo, in quanto questi nel contesto comunitario è
protetto, sostenuto e guidato. Tale aspetto è senz’altro necessario e
valido nelle prime fasi della prova ma se si vuole realmente raggiungere
una maggiore e vera responsabilizzazione bisogna puntare a creare
quelle condizioni affinché il percorso di prova iniziato in comunità possa
poi concludersi a casa perché è sul territorio che il ragazzo dovrà tornare
e le condizioni non si creano da un giorno all’altro ma vanno costruite, in
sinergia con i Servizi, dando possibilmente il tempo al ragazzo di
provarsi anche in questo senso.
Strettamente connesso a tale aspetto, un altro elemento che non va
sottovalutato è il fattore tempo: bisogna porre grande attenzione nella
sua gestione tenendo presente che il ragazzo, soprattutto in un percorso
lungo, rischia di maturare una stanchezza che si manifesta con una
progressiva perdita di stimoli e che va prevenuta, arginata e monitorata
attraverso una costante ed efficace rimodulazione in itinere del
progetto.
Non va dimenticato infine che gran parte della prova del ragazzo
passa attraverso le persone che incontra sul suo cammino: la qualità
dell’intervento educativo della comunità dipende sostanzialmente dagli
educatori. E’ nelle loro mani la capacità di scegliere se creare spazi di
crescita altri o riempire il proprio “turno” con attività anche ben
strutturate ma non calate sull’unicità di quel particolare quotidiano, col
rischio che non siano accattivanti per il ragazzo.
E’ dunque sulla qualità dell’educatore che si basa la qualità
dell’intervento educativo: sulla sua capacità di essere strumento della
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relazione educativa, di abitarla, di giocarsi in essa con tutto ciò che è,
con tutta la sua capacità di saper essere in quel tempo dato ciò di cui
quel particolare ragazzo ha bisogno, con tutta la sua capacità di
guardare l’insieme e far vivere un tempo significativo percependo lo
stato d’animo dei ragazzi e i loro bisogni. Solo così l’esperienza della
comunità risulterà essere nuova e significativa per i ragazzi e solo ciò
che è innovativo, accattivante, bello è in grado di penetrare più a fondo
smuovendo da quella passività che blocca ogni movimento evolutivo.
Lavorare sul cambiamento per un educatore vuol dire agganciarsi a
qualsiasi motivazione il ragazzo offra, lavorando a partire da questa sulla
sua capacità di orientare la vita e le sue scelte e spingendolo ad uscire
da quell’immobilità che troppo spesso fa guardare senza vedere, fa
camminare senza muoversi, fa percorrere strade obbligate che
ripropongono incessantemente la mortale logica del “così è” e “così sarà
sempre”, la logica dell'addestramento che porta alla paralisi.
Creare movimento è l'antidoto!
Creare movimento è innanzitutto avere uno sguardo vigile e proporre
strade alternative, strade che promuovano un cambiamento
significativo, intenzionale, autentico e reale, ispirando i passi dell'uomo
attraverso la bellezza.
E' la bellezza che muove i passi dell'uomo facendolo entrare in
risonanza con le parti migliori di se stesso, stimolandolo a maturare un
pensiero ed un agire consapevole intimamente legato all'etica.
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E' la bellezza che induce a lasciarsi guidare nei propri comportamenti
da valori pienamente e propriamente umani.
La bruttezza, ossia la disuguaglianza, la mancanza di diritti,
l'illegalità, l'egoismo, è incompatibile con la dignità della persona
affermata dalla nostra Costituzione.
La bellezza va coltivata, scoperta laddove celata, riconosciuta,
ispirata, condivisa, agita costruendo attorno a noi legami sociali, diritti,
opportunità, praticando l'attenzione per gli altri a partire dai più deboli
e dai più fragili, facendoci artefici di giustizia sociale.
E' questo l'elemento da cui partire per favorire il movimento: la
scoperta della bellezza come tensione interiore ad essere migliori e a
creare un mondo migliore o almeno a non smettere di desiderarlo mai!
Il mondo ha bisogno di gente che semini gioia e bene il più possibile.
Il mondo ha bisogno di gente che ami ciò che fa.
Quella “gente” è ciascuno di noi!
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D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 - Attuazione della delega di cui all'art. 1
della L. 22 luglio 1975, n. 382.
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processo penale a carico di imputati minorenni. Legge 25 luglio 1956, n. 888 - Modificazioni al Regio decreto legge 20
luglio 1934, n.1404.
Legge 4 maggio 1983, n.184 - Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori.
Legge 16 febbraio 1987, n.81 - Delega legislativa al Governo della
Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale.
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realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. Legge 28 marzo 2001, n.149 - Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n.184,
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al titolo VIII del libro primo del codice civile.
Legge Regionale 23 ottobre 2007, n. 11 - Legge per la dignità e la
cittadinanza sociale. Attuazione della legge 8 novembre 2000, n. 328.
Legge 28 aprile 2014, n. 67 - Deleghe al Governo in materia di pene
detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio.
Raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 20 del 1987- Le reazioni
sociali alla delinquenza minorile.
R.D.L. 20 Luglio 1934, n. 1404 - Istituzione e funzionamento del
tribunale per i minorenni, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 27 maggio 1935, n. 835. Regolamento Regionale 7 aprile 2014, n.4 - Attuazione della legge
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Ringraziare è il Sorriso della Vita….. Essere grati, sempre, dinanzi ad ogni evento permette di cogliere la
preziosità di ciò che è senza mai dare nulla per scontato. Essere grati favorisce l’accettazione, apre il cuore e lo spirito al
canto, allarga alla gioia.
Il mio Grazie denso di Gioia e di Sorrisi a chi incrociando il mio cammino mi ha donato una traccia di sé rendendo la mia strada più ricca, leggera, piena, gioiosa, densa,
sorridente, intensa, luminosa…
Saretta, Diego, Monja, Pippo, Carmela, Becio, Assunta, Marco, Ilaria, Felice, Caterina, Antonio, Isabella, Paolo, Martina,
Lorenzo, Anna, Mariano, Rosario, Aurora, Gigi, Valentina, Sasi, Alessio, Giulia, Gianpaolo, Enza, Darietto, Chiara, Michele, Marcella, Fulvio, Manuela, Marcello, Alessandra, Achille,
Alfonso, Gabriella, Emanuele, Francesca, Luca, Silvia, Peppe, Valerio, Raffaele, Maria, Massimo, Teresa, Ciro, Floriana,
Simone, Lucia, Fabio, Annamaria, Claudio, Elena, Stefano, Susy, Walter, Giuliana, Pasquale, Filomena, Zef, Rita, Domenico, Antonella, Vincenzo, Fulvia, Gennaro, Maurizio, Stefania,
Vittorio, Giovanni, Tiziana, DonPa e tutta la famiglia Usiogope che sempre mi fa sentire e tornare a casa ricordandomi che
“chi Ama non Teme” e che
“dalla Bellezza dei nostri Desideri dipende la Bellezza della nostra Vita”