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Universita’ degli Studi Suor Orsola Benincasa - Napoli Universita’ degli Studi Suor Orsola Benincasa - Napoli Università degli Studi Suor Orsola Benincasa FACOLTA' DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE CORSO DI LAUREA SCIENZE DELL’EDUCAZIONE TESI DI LAUREA IN PEDAGOGIA DELLA DEVIANZA E DELLA MARGINALITA’ IL PROGETTO DI MESSA ALLA PROVA IN COMUNITA’: L’ESPERIENZA DELLA COMUNITA’ “C.ED.RO.” Relatore Candidato Ch.ma Prof.ssa Margherita Musello Silvia Ferrante Matricola 001000738 Anno Accademico 2014- 2015

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Universita’ degli Studi Suor Orsola Benincasa − Napoli

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Università degli Studi

Suor Orsola Benincasa

FACOLTA' DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE

CORSO DI LAUREA

SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

TESI DI LAUREA

IN

PEDAGOGIA DELLA DEVIANZA E DELLA

MARGINALITA’

IL PROGETTO DI MESSA ALLA PROVA

IN COMUNITA’: L’ESPERIENZA DELLA COMUNITA’

“C.ED.RO.”

Relatore Candidato

Ch.ma Prof.ssa

Margherita Musello

Silvia Ferrante

Matricola 001000738

Anno Accademico 2014- 2015

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2

E’ la Bellezza che attrae. E’ la Bellezza che stende

il suo manto su tutte le cose e rivela la potenza e la forza

di ciò che è, della Realtà. E’ la Bellezza

che semina Amore. Non esiste Amore che

non semini Bellezza. E’ la Bellezza

che seduce senza ingannare, che incanta senza bloccare.

E’ la Bellezza che conduce il gioco della vita.

Paolo Spoladore Il Bel Pastore

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3

A chi mi ha donato la vita. A chi mi ha aiutata a ricordare e a ritrovare

la bellezza dei miei desideri e il movimento regale della vita. A chi ha sorriso e pianto con me.

Con il cuore grato e sorridente, la certezza che ne vale sempre la pena,

l’intenzione di non fermare il ritmo dei miei passi, la consapevolezza che il segreto è nel ‘come’e nelle piccole cose,

il desiderio di innamorarmi ogni giorno ancora e ancora dell’amore!

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4

INDICE

INTRODUZIONE .................................................................... 6

PARTE PRIMA

LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO E MESSA ALLA PROVA:

I PROTAGONISTI, Il QUADRO STORICO-NORMATIVO, IL PROGETTO .... 11

CAPITOLO PRIMO - I PROTAGONISTI: ADOLESCENTI IN DIFFICOLTA’ 12

1.1. Disagio, Devianza, Delinquenza ..................................... 15

1.2. Adolescenza e Devianza .............................................. 19

1.3. Chi è il giovane deviante ............................................ 24

CAPITOLO SECONDO - IL QUADRO STORICO-NORMATIVO ............. 29

2.1. La finalità della pena: excursus storico ........................... 34

2.2. Verso un nuovo processo penale minorile: il D.P.R.448/88 .... 45

2.3. L’introduzione dell’art. 28 come forma di probation ........... 63

CAPITOLO TERZO - IL PROGETTO DI MESSA ALLA PROVA ............. 84

3.1. Un progetto orientato: senso e obiettivi .......................... 88

3.2. La costruzione del progetto: contenuti e gestione .............. 99

3.3. La messa alla prova in comunità: un’innovazione

nell’innovazione. .......................................................... 114

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5

PARTE SECONDA

DALLA TEORIA ALLA PRATICA:

LA MESSA ALLA PROVA NELLA COMUNITA’ “C.ED.RO.” ................ 134

CAPITOLO QUARTO - L’ESPERIENZA DELLA COMUNITA’ ALLOGGIO

“C.ED.RO.” ................................................................... 135

4.1. Presentazione della comunità alloggio “C.ED.RO.” ............. 141

4.2. Il progetto educativo e il P.E.I ..................................... 155

4.3. Ri-tessere il quotidiano ............................................. 169

CAPITOLO QUINTO - IL PROGETTO DI MESSA ALLA PROVA NELLA

COMUNITA“C.ED.RO”: ANALISI DI UN CASO ............................ 186

5.1. Analisi di un caso: anamnesi e progetto .......................... 192

5.2. Analisi di un caso: percorso e ruolo della comunità ............ 206

5.3. L’educatore: il senso di una presenza ............................ 225

CONCLUSIONI ................................................................... 243

BIBLIOGRAFIA ................................................................... 253

SITOGRAFIA ..................................................................... 260

RIFERIMENTI NORMATIVI ...................................................... 261

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INTRODUZIONE

Per far divenire Realtà un grande Sogno il primo requisito è una grande capacità di Sognare;

il secondo è la Perseveranza: una Fede nel Sogno. Hans Seyle

Fare piccole cose con grande amore. Madre Teresa di Calcutta

“Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven, per vedere se

posso ritornare al mio mondo e alla mia razza e sabato far dire a Rino: ‘Il

priore non riceve, perché sta ascoltando un disco…’. Volevo anche

scrivere sulla porta: ‘I don’t care più’. Ma invece ‘Me ne care’ ancora

molto”1.

Nell’introdurre il mio lavoro di tesi mi riaffiorano alla mente le tante

sere in cui sulla strada di casa, di ritorno dalla comunità ove lavoro, ho

avuto nel cuore questa lettera di don Milani. Ripenso ai tanti momenti in

cui ho avuto voglia di scrivere sulla porta “I don’t care più!” e agli

altrettanti in cui ho poi sentito fortemente che invece l’avere a cuore, la

spinta al servizio è in me troppo più forte di qualsiasi fatica o momento

buio e che al di là di ogni dubbio o timore di non farcela mi

accompagnava saldamente la certezza che ne vale sempre la pena e che

“me ne care ancora molto”, sempre!

La scelta di trattare il ruolo che una comunità residenziale è

chiamata a svolgere con i minori accolti è motivata dal desiderio di

rielaborare e organizzare una serie di riflessioni maturate durante il mio

1 Don Lorenzo Milani, Lettera a Francuccio Gesualdi. 4 aprile 1967, in. M. Gesualdi ( a cura di), Lettere di Don Lorenzo

Milani priore di Barbiana, Arnoldo Mondadori, Milano, 1970.

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percorso personale e lavorativo che mi vede da tanti anni impegnata sul

fronte della “strada” in situazioni di marginalità e degrado sociale, a

stretto contatto con quei bambini ed adolescenti “vivaci” comunemente

definiti “minori a rischio”, con le loro problematiche, i loro vissuti, le

loro emozioni, i loro contesti di vita. E' stato ed è ogni giorno un

percorso intenso, costellato di incontri, volti, sorrisi, occhi, emozioni,

interrogativi, confronti, domande di senso; un percorso orientato dalla

sete di conoscenza, dal desiderio di esserci, di fare la mia parte al

meglio, di andare sempre più a fondo; un percorso reso possibile, nelle

sue innumerevoli difficoltà, da soste in itinere e da luoghi in grado di

rispondere ad una continua necessità di formazione.

In particolare, nella presente tesi, l’attenzione è focalizzata sul

ruolo della comunità e dunque dell’educatore relativamente ai casi di

applicazione del beneficio giuridico previsto dall’art. 28 D.P.R. 448/88,

sospensione del processo e messa alla prova, in quelle circostanze in cui

tale misura viene disposta, congiuntamente ad un collocamento in

Comunità.

Oggetto peculiare del lavoro è, dunque, non l’intera utenza penale

minorile inviata in comunità, né l’intero percorso processuale del minore

che fa ingresso nel circuito penale, ma esclusivamente il ruolo che la

comunità è chiamata a svolgere con quei minorenni cui viene concesso il

beneficio giuridico della messa alla prova che il giudice stabilisce debba

svolgersi presso una comunità educativa.

Tale interesse nasce dalla personale esperienza lavorativa presso la

comunità alloggio “C.ED.RO.” che mi ha permesso di maturare la

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considerazione che il collocamento in comunità sembra rappresentare un

sistema di risposta nel tempo sempre più utilizzato dall’Autorità

Giudiziaria, non solo quale misura cautelare (art. 22 DPR 448/88), ma

anche nell’ambito di altri provvedimenti giudiziari quali appunto

l’applicazione dell’art. 28 da svolgersi presso una struttura residenziale,

proprio in ragione della capacità della stessa di contemperare le

esigenze educative di progettazione socio-psico-trattamentale con quelle

contenitive e di controllo.

Partendo da tale considerazione il lavoro svolto si propone di essere

una riflessione sull’applicazione del beneficio della messa alla prova con

particolare riferimento al senso della dimensione progettuale ed alla sua

realizzazione in un percorso comunitario, per comprenderne la reale

opportunità e provare a valutarne l’effettiva efficacia.

A tal fine si è reputato opportuno organizzare questo elaborato in

due percorsi: uno di analisi teorica e l’altro di ricerca empirica.

La prima parte, articolata in tre capitoli, ha come punto di partenza

il mettere al centro i protagonisti, ovvero gli adolescenti in difficoltà:

nel primo capitolo viene pertanto trattato il tema dell’adolescenza con

particolare riferimento all’aspetto della devianza e della trasgressione.

Tuttavia la messa a fuoco del percorso in comunità del minore

sottoposto a procedimento penale non può prescindere da un breve

richiamo al contesto legislativo - normativo di riferimento. A tal fine il

secondo capitolo tratta l’evoluzione storica della funzione della pena per

giungere alla nascita di un modello di giustizia minorile la cui pietra

miliare è rappresentata dalla riforma del sistema processuale penale

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attuatasi il 22 settembre 1988 con l’emanazione del d.p.r. n. 448,

intitolato “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico

di imputati minorenni”, con il quale è stato varato quello che viene

definito il Codice di Procedura Penale per i Minorenni (c.p.p.m.), entrato

in vigore nel 1989: in esso infatti sono contenute “disposizioni” avente

carattere speciale rispetto a quelle del c.p.p., in quanto, tenendo conto

delle particolari esigenze del minore, cercano di ridurre il più possibile

gli effetti stigmatizzanti del processo per far diventare anche

quest’ultimo uno strumento di crescita rispondente alle finalità

rieducative della giustizia minorile.

L’istituto emblematico rispetto alla connotazione educativa del

processo penale minorile è la sospensione del processo con messa alla

prova, introdotto e disciplinato dagli artt. 28 e 29 del d.p.r. n. 448/88 e

dall’art. 27 D.Lgv n.272 del 1989. Tale beneficio giuridico rappresenta la

principale innovazione operata nell’ambito del processo penale minorile

e consiste nella possibilità di rinunciare alla celebrazione del processo

quando il giudice abbia motivo di ritenere che l’adozione di determinati

tipi di intervento siano sufficienti a garantire il ravvedimento del

minore. In particolar modo nel terzo capitolo, incentrato sul progetto di

messa alla prova, si è cercato di mettere in luce anche il ruolo e la

funzione che la comunità è chiamata a svolgere con il minore nel suo

percorso di messa alla prova, evidenziando la necessità di un lavoro

congiunto e sinergico con gli operatori istituzionali dei Servizi Ministeriali

e Territoriali, ma anche con le associazioni locali e le risorse lavorative

coinvolte nel progetto così come con la famiglia del minore stesso.

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10

Il secondo percorso, sviluppato nel quarto e nel quinto capitolo, trae

origine dalla pratica e si sviluppa attorno alla narrazione dell’esperienza

della comunità alloggio “C.ED.RO”. In particolar modo il quarto capitolo

è incentrato sulla presentazione della comunità con particolare

riferimento ai minori di area penale ed allo stile di vite comunitario;

mentre il quinto muovendo dall’analisi di un caso specifico, vuole essere

una riflessione volta sia ad evidenziare il ruolo svolto nel percorso del

minore dall’educatore sia a mettere in luce i punti critici e i punti di

forza di tale modalità applicativa del beneficio giuridico in oggetto.

Per portare avanti tale lavoro gli strumenti di cui ci si è avvalsi sono:

1. Dati statistici concernenti il numero degli art. 28 disposti sia in

Campania che su base nazionale nell’arco del periodo che va dal

2003 al 2014 ed il numero di quanti di questi ultimi sono stati

applicati con l’apertura della procedura amministrativa del

collocamento in comunità.

2. Colloqui con operatori della comunità “C.ED.RO.” e dell’U.S.S.M.

di Napoli.

3. Analisi di un caso concreto tratto dall’esperienza della Comunità

“C.ED.RO”.

Nello spirito di un cammino sempre aperto, il desiderio di fondo che

anima l’intero lavoro è quello di provare a rintracciare nell’esperienza

quegli ingredienti necessari a far divenire Realtà un grande Sogno.

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PARTE PRIMA

LA SOSPENSIONE DEL PROCESSO E MESSA ALLA PROVA:

I PROTAGONISTI, Il QUADRO STORICO-NORMATIVO, IL PROGETTO

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CAPITOLO PRIMO

I Protagonisti: adolescenti in difficoltà

C’è una crepa in ogni cosa, ma è da lì che entra la luce.

Leonard Cohen

Dite: E' faticoso frequentare i bambini. Avete ragione.

Poi aggiungete: Perché bisogna mettersi al loro livello, abbassarsi, inclinarsi, curvarsi, farsi piccoli.

Ora avete torto. Non è questo che più stanca.

E’ piuttosto il fatto di essere obbligati a innalzarsi fino all'altezza dei loro sentimenti.

Tirarsi, allungarsi, alzarsi sulla punta dei piedi. Per non ferirli.

Janusz Korczak

I protagonisti, ossia coloro che beneficiano dell’istituto giuridico

della sospensione del processo e messa alla prova2, costituiscono una

peculiare fascia dell’intera utenza penale minorile, che a sua volta

comprende quei minorenni3 che, avendo commesso un reato, risultano

essere imputabili4 e dunque punibili.

2 Istituto giuridico introdotto e disciplinato dagli artt. 28 e 29 D.P.‘. sette e . e dall a t. D.Lgv. .

del 1989. 3 Per il Codice Civile italiano è minorenne ogni persona che non ha ancora acquisito la maggiore età, fissata dall a t. al

compimento del diciottesimo anno. Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia

stabilita una età diversa. Il minore di anni diciotto pertanto non ha capacità di agire: può essere cioè titolare di diritti, ma

non può esercitarli da solo necessitando in forza di ciò di un rappresentante legale. 4 L a t. .p. sta ilis e he nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in

cui lo ha commesso, non era imputabile. Al secondo comma poi precisa che è imputabile chi ha la capacità di intendere e

volere. La colpevolezza, presuppone quindi la sussistenza, al momento della commissione del fatto illecito, della capacità

di i te de e il disvalo e so iale dell azio e o piuta e della apa ità di li e a autodete i azio e esiste do ad i pulsi interni ed a sollecitazioni esterne del soggetto.

Gli artt. 97 e 98 c.p. prevedono rispettivamente che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non

aveva compiuto i quattordici anni e che è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i

quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e volere; ma la pena è diminuita. Tale capacità

per i minori si identifica con il concetto di atu ità .

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Sono quei ragazzi cui generalmente ci si riferisce definendoli “i

difficili”, appellativo che tante volte mi appare più un’accusa,

un’etichetta che suscita timore e crea distanza, che un dato di realtà da

accogliere e da cui partire. Ma uno sguardo più attento e mosso dal

desiderio di andare oltre, è uno sguardo capace di porsi all’altezza degli

occhi dei tanti “difficili” incontrati lungo il proprio cammino, uno

sguardo che, abbandonando lenti di osservazione volte unicamente ad

analizzarli solo come problema, con definizioni che evidenziano più ciò

che manca che elementi positivi, sia invece capace di utilizzare lenti che

permettano innanzitutto di vederli realmente.

E’ uno sguardo che si alimenta di un desiderio di visione più ampia

che porti a leggere il fenomeno della criminalità minorile alla luce di

quella difficoltà, di quella “crepa nel muro”, da cui hanno origine i

fenomeni del disagio, del disadattamento, della devianza.

“Non esistono ragazzi nati sbagliati – affermò in un intervento

sull’Istituto Penale Minorile (I.P.M.) di Nisida Eduardo De Filippo -ognuno

è frutto delle situazioni che per caso segnano le nostre esperienze. Un

ragazzo sbagliato è figlio di opportunità che non gli sono state date”.

Queste incisive parole aiutano il mio sguardo a volgersi diversamente: i

minorenni che entrano nel circuito penale prima di essere ragazzi

difficili, sono innanzitutto adolescenti in difficoltà, in grande difficoltà.

“Un giovane bisogna educarlo non distruggerlo. Sono convinto che se

si opera con energia, amore e fiducia in questi ragazzi molto si può

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ottenere da loro”5, afferma ancora De Filippo, delineando, con queste

parole, una possibile strada da percorrere: la difficoltà va letta per poter

cogliere, a partire da essa, le possibilità di cambiamento.

Appare dunque di vitale importanza prestare attenzione al segnale

comunicativo di cui è portatore l’atto deviante. Significativo è, a tal

proposito, il punto di vista di Winnicott che parla della delinquenza

“come segno di speranza”6, un‘espressione forte, che fa storcere il naso

per quanto appare stridente: che speranza può mai esserci nella

commissione di un atto che sembra piuttosto scandire la fine di un

percorso?

C’è speranza se c’è un inizio!

E ciò è possibile se l’atto antisociale viene colto nella sua

dimensione di richiesta di aiuto: esso è un “SOS” inviato dal ragazzo, SOS

che, per sua essenza, esige una risposta adeguata alla cui base vi sia una

buona comunicazione. Se questa viene a mancare, infatti, il ragazzo sarà

portato a indurirsi e la chiusura renderà estremamente difficile la

possibilità di cogliere nell’atto deviante la dimensione della speranza,

dimensione che invece porta a riconoscervi un segno capace di

comunicare la fragilità ad esso sottesa e gettarvi luce. In ogni atto

antisociale, afferma il medico inglese, “vi è una causa iniziale,

strutturatasi come una malattia, che precedentemente ha portato quel

ragazzo ad essere un bambino deprivato”7. In altre parole, c’è sempre

5 Dalla prima interpellanza parlamentare, in data 23 marzo 1982, del senatore a vita Eduardo De Filippo che nella sua

attività parlamentare si è sempre adoperato per il miglioramento delle condizioni dei minorenni reclusi negli istituti di

pe a i o ile; la sua p i a i te pella za fu p op io sulla p o le ati a situazio e dei giova i dell istituto Fila gie i di Napoli; http://www.senatoperiragazzi.it/media/Documenti/italiani/fascicolodefilippoweb.pdf 6 D. W. Winnicott, Dal luogo delle origini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1990, pp.89-90.

7 Ibidem.

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un senso in ciò che è accaduto sebbene spesso questo tipo di causa

finisca poi con l’andare perduta.

La speranza allora è riuscire a cogliere quel senso e aiutare il

ragazzo a ripartire da lì. Una risposta educativa e sociale al fenomeno

della delinquenza minorile che voglia porsi in termini di significatività,

deve essere capace di partire dalla difficoltà, per riuscire a leggerla,

abitarla, comprenderla, di accogliere la crepa nel muro per poter

seguire la scia della luce.

1.1. Disagio, Devianza, Delinquenza

Parlare dell’utenza, ossia del minorenne che fa ingresso nel circuito

penale, rende innanzitutto necessario distinguere concettualmente

alcuni termini quali: disagio, disadattamento, devianza, delinquenza.

Tali termini, infatti, strettamente correlati fra loro, si prestano ad

ambiguità interpretative e di conseguenza ad un loro frequente utilizzo

improprio come sinonimi.

Il disagio è una condizione esistenziale legata ad una percezione

soggettiva di malessere, esso è qualcosa che si sente, ma non

necessariamente si vede8, è dunque una sensazione di origine interna

secondo la quale tra sé e l’esterno c’è una situazione di disequilibrio che

dà luogo ad una condizione umana di profonda sofferenza esistenziale in

cui l’individuo si sente inadatto in determinate situazioni (disagio da

ambiente) oppure inadatto in ogni condizione (disagio di vivere).

8

L. Regoliosi, La prevenzione del disagio giovanile, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1994, p.20.

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16

Il disadattamento è un concetto molto vicino al disagio ma se ne

differenzia in quanto “si esprime oggettivamente come relazione

disturbata con uno specifico ambiente”9 ed è frutto dell’incapacità di un

individuo ad adeguarsi alle richieste sociali.

Un’accezione particolare assume il disagio giovanile, venendosi a

collocare tra i due concetti esposti: con quest’espressione, infatti, si fa

riferimento ad una situazione esistenziale in cui il giovane sperimenta

una forma di sofferenza in conseguenza del suo mancato adattamento

alle condizioni che caratterizzano la vita sociale e che può investire una

serie di contesti della vita di relazione esprimendosi in una pluralità di

modi che vanno dalle manifestazioni più eclatanti di auto distruzione

(suicidi, droga) ad altre più indirette ma non meno rilevanti.

La devianza è, invece, secondo la definizione che ne dà De Leo, una

“categoria socio-psicologica che fa riferimento a tutte le forme evidenti

ed evidenziate di trasgressione alle norme e alle regole rilevanti di uno

specifico contesto di rapporti interpersonali e sociali”10. Tale definizione

ne mette in luce due elementi peculiari: il primo elemento è quello che

presenta la devianza quale categoria caratterizzata dalla problematicità

che viene a prodursi sul piano sociale, proprio in quanto si configura

come “scostamento o trasgressione rispetto a tutto ciò che costituisce la

ragione e la base di un ordinamento sociale”11, dunque come violazione

delle norme penali, sociali, morali e di costume. La devianza non è una

proprietà di certi atti o comportamenti, ma una qualità che deriva dalle

9 Ibidem.

10 G. De Leo, P. Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, Carocci, Roma, 1999, pp.17-18.

11 D. Izzo, A. Manucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, ETS, Pisa, 2003, p.99.

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risposte, dalle definizioni e dai significati attribuiti a questi dai membri

di una collettività12. La devianza è, in tal senso, il prodotto di una

definizione culturale, essa è un concetto sociale e non giuridico perché

riflette il giudizio che viene formulato dal tessuto sociale nei confronti di

alcune condotte, configurandosi, di fatto, come il comportamento non

conforme rispetto alle aspettative diffuse del sistema culturale in un

determinato gruppo sociale. Ciò rimanda alla relatività quale sua

peculiare caratteristica: la devianza varia nel tempo e nello spazio,

perché dipende dal momento storico e dal contesto sociale in cui viene

osservato il fenomeno13.

Il secondo elemento messo in luce da De Leo, invece, descrive la

devianza come una categoria psicologica, che “si esprime attraverso

comportamenti il cui significato spesso sfugge ai tentativi di

comprensione anche per le caratteristiche di apparente imprevedibilità

o, al contrario, di determinata pianificazione che li connotano”14. Quello

della dimensione psicologica è certamente un aspetto da tenere in

grande considerazione se si vuole privilegiare un approccio che cerchi

innanzitutto di cogliere il segnale comunicativo dell’atto deviante nel hic

et nunc in cui esso si manifesta con uno sguardo capace di una lettura a

360°.

La delinquenza, infine, comprende tutte quelle condotte criminali

che si connotano per l’alto grado di pericolosità sociale e la previa

qualificazione legislativa del comportamento come reato.

12

M. Barbagli, A. Colombo, E. Savona, Sociologia della devianza, Il Mulino, Bologna, 2003, p. 17. 13

Ivi, p.113. 14

G. De Leo, P. Patrizi, Psicologia della devianza, Carocci, Roma, 2002, p.7.

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E’ bene sottolineare che non bisogna confondere e accomunare

devianza e criminalità in un’unica categoria concettuale, in quanto solo

una piccola parte degli atti devianti costituisce reato, anzi per maggior

chiarezza si può affermare che “la devianza si pone nei confronti della

delinquenza in rapporto di genere a specie”15, nel senso che, se è vero

che il delinquente è anche un deviante, è altrettanto certo che un

deviante non è necessariamente un delinquente. Ma è altresì vero che la

devianza non è altro dalla criminalità in quanto “entrambe le realtà

hanno un intrinseco valore normativo: criminale è quel comportamento

che ponendosi come condotta deviante rispetto alle norme sociali viene

sanzionato anche sul piano giuridico”16.

A tal proposito, riprendendo quanto affermato da Durkheim, appare

rilevante ribadire che anche il reato, seppur connotato di maggiore

normatività rispetto ad atti antisociali che si configurano come violazioni

più lievi, non è una categoria data per via naturale, ma è anch’esso da

intendersi come una categoria relativa in quanto, pur violando una

specifica norma del codice penale, si configura come quella condotta

che mina gravemente la coscienza collettiva di una società in un

momento storico specifico17. Il reato, quindi, presuppone una condotta

che viola i valori fondanti di un consorzio sociale tanto da rendere

necessaria una risposta punitiva. Determinante è quindi secondo il

sociologo francese la reazione della coscienza collettiva: in altri termini,

non bisogna dire “che un atto urta la coscienza comune perché è

15

M. Cavallo, Ragazzi di strada. Voci e testimonianze dal carcere minorile, Paravia Scriptorium, Torino, 1999, p.9. 16

D. Izzo, A. Manucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit., p.113. 17

La coscienza collettiva defi ita o e l i sie e delle ede ze e dei se ti e ti o u i alla edia dei e i della stessa so ietà i E. Du khei , La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano, 1996, p. 103.

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19

criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo

biasimiamo perché è reato ma è reato perché lo biasimiamo”18. Il reato

nega i sentimenti collettivi, questi vengono tuttavia riaffermati per

mezzo della sanzione penale. Il reato, dunque, non determina la pena in

via diretta ma solo indirettamente stimolando i sentimenti collettivi che

generano la reazione.

In sintesi si può affermare che il confine tra devianza e delinquenza

è segnato da una linea precisa in quanto è definito dalle norme penali, al

contrario del confine tra disagio e devianza che appare più incerto e

sfumato.

I fenomeni di disagio, disadattamento, devianza, delinquenza, pur

manifestandosi in forme assai diverse tra loro, vanno pedagogicamente

interpretati secondo una successione che implica una crescente

problematicità, intendendoli come il susseguirsi di fasi che vanno da un

più o meno accentuato malessere del giovane a un dichiarato conflitto

sociale.

Senza dubbio il disagio rappresenta un campanello di allarme che, se

ignorato o trattato con risposte inadeguate, può sfociare in

comportamenti di maggiore gravità e pericolosità sociale.

1.2. Adolescenza e Devianza

La devianza minorile può essere definita come un fenomeno che

riguarda quegli adolescenti le cui condotte risultano dissonanti rispetto a

18

Ivi, p. 101.

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20

un certo modello di competenza sociale e che per questo evidenziano la

diversità di chi le agisce rispetto agli altri19. A tale dissonanza è

associato solitamente un giudizio di valore, da parte della collettività,

che connota negativamente quella modalità d’azione e il suo autore, per

cui il comportamento deviante diventa qualcosa da prevenire,

reprimere, controllare.

Il fenomeno della devianza va assumendo una posizione peculiare

all'interno della condizione adolescenziale in quanto lo sviluppo

adolescenziale è una fase critica della formazione dell’essere umano,

una fase di profonda trasformazione caratterizzata da crisi e conflitti, in

cui forme di disagio sembrano essere inevitabili: così studiare

l’adolescenza vuol dire inevitabilmente studiare il disagio giovanile nella

sua accezione più ampia.

Etimologicamente la parola “adolescenza” deriva dal latino

adolescere che significa “crescere verso la maturità”: l’adolescente

cresce verso l’essere adulto, percorso questo connotato da forte

instabilità ed incertezza per ciò che “non è ancora”. Proprio l’incertezza

è indicata da Veggetti Finzi e Battistin come l’elemento che meglio

definisce questo periodo di vita: incerto il modo d’agire degli

adolescenti, incerti i ruoli genitoriali, incerti i valori di riferimento,

incerti i confini temporali dell’adolescenza, incerta anche la chiave di

lettura psicologica possibile20.

19

P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Firenze, 1993,

p.10. 20

S. Vegetti Finzi, A.M. Battistin, L’età i e ta, Mondadori, Milano, 2000.

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21

Ma l’adolescenza non è solo l’età dell’instabilità, della crisi e dei

conflitti, i più recenti contributi di ricerca hanno rivisto questa modalità

interpretativa tradizionale introducendo il concetto, oggi focale, di

“compiti di sviluppo”21. Tale nozione, mutuata dalla teoria di Havigurst,

indica “un compito che si presenta in un determinato periodo della vita

di un individuo e la cui buona risoluzione conduce alla felicità e al

successo nell’affrontare i problemi successivi, mentre il fallimento di

fronte ad esso conduce all’infelicità, alla disapprovazione da parte della

società e a difficoltà di fronte ai compiti che si presentano in seguito”22.

Il superamento di tali compiti può, quindi, incidere

considerevolmente nella costruzione dell’identità personale e sociale

dell’adolescente. Al contrario, la mancata risoluzione comporta gravi

difficoltà per lo sviluppo successivo: risposte non adattive, associate alle

crisi evolutive adolescenziali, possono dar luogo a diverse

problematiche, anche se è bene sottolineare che non è il problema o la

difficoltà in sé a segnare la storia evolutiva del soggetto, ma le

caratteristiche stesse del percorso, le possibilità che il soggetto ha di

trovare risorse esterne o interne che lo aiutino ad affrontare le singole

situazioni problematiche23. Palmonari indica in particolare la ricerca

dell’indipendenza quale elemento costante e specifico di questi compiti,

nell’assolvimento dei quali centrale è il meccanismo di formazione

21

A. Palmonari, Psi ologia dell’adoles e za, Il Mulino, Bologna, 1993. 22

R. J. Havigurst, Human development and education, Longmans, New York, 1953. I pa ti ola e l auto e stila u a lista di compiti di sviluppo elencandoli come segue: instaurare relazioni nuove e più mature con coetanei di entrambi i sessi;

acquisire un ruolo sociale femminile o maschile; accettare il proprio corpo e usarlo in modo efficace; conseguire

l i dipe de za e otiva dai ge ito i e da alt i adulti; aggiu ge e la si u ezza di i dipe de za e o o i a; o ie ta si ve so e prepararsi per una occupazione o professione; prepararsi al matrimonio e alla vita familiare; sviluppare competenze

intellettuali e conoscenze necessarie per la competenza civica; desiderare e acquisire un comportamento socialmente

responsabile: acquisire un sistema di valori ed una coscienza etica come guida al proprio comportamento. 23

Aa. Vv., Il lavoro di strada, Quaderni di animazione e formazione, Gruppo Abele, Torino, 1995, p. 37.

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22

dell’ideale dell’Io e della conseguente costruzione della propria identità,

attraverso identificazioni alternative a quelle genitoriali, passando anche

attraverso l’utilizzazione della dimensione del gruppo dei pari24.

Si rappresenta così l’adolescenza come una fase acuta in cui,

drammaticamente e improvvisamente, il soggetto è investito

dall’urgenza di riadattare se stesso alle molteplici aspettative sociali e

evolutive ed ai compiti sociali che gli vengono richiesti. Ciò causa una

forte instabilità che si manifesta sovente con una ricerca di

comprensione che tuttavia può passare anche attraverso forme di

trasgressione e atteggiamenti oppositivi25.

Per l’adolescente l’azione, il compiere atti, è la forma di espressione

privilegiata di conflitti e tensioni, la maniera più diretta di scaricare

l’angoscia. Tali “agiti”26, possono assumere la forma di comportamenti

devianti27, e anche se non sempre arrivano ad essere veri e propri atti

delinquenziali, sono comunque espressione di un malessere del percorso

evolutivo di crescita dell'adolescente e di carenze nell'ambito del suo

microsistema sociale28. In questa prospettiva, considerando anche che in

questo percorso verso l’autonomia non tutti i comportamenti

dell’adolescente possano ritenersi il frutto di una pura scelta individuale

che non risenta delle influenze del mondo esterno, tali fenomeni devono

essere analizzati in un senso multidimensionale, che sappia tenere in

debita considerazione la famiglia, la classe scolastica ed il gruppo dei

24

A. Palmonari, Gli adolescenti, Il Mulino, Bologna, 2001. 25

http://www.iprs.it/docs/disagio%20adolescenti.pdf 26

Gli agiti so o atti i pulsivi spesso o u a o po e te agg essiva. 27

Le forme agite che si configurano come forme di devianza sono molteplici: la violenza contro gli altri o contro se stessi,

il bullismo, le fughe, le dipendenze, il suicidio, gli atti delinquenziali; ma anche il rifiuto della scuola, la guida temeraria, le

devianze sessuali. 28

D. Izzo, A. Manucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit., p. 233.

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23

coetanei in rapporto al più ampio contesto delle norme culturali, dei

valori dominanti e dello sviluppo economico che caratterizzano una

società in un dato momento storico29.

In particolare, per quel che concerne la trasgressività, Maggiolini e

Riva affermano che essa “è una caratteristica universale

dell’adolescenza, età in cui il rapporto con le regole educative e sociali

viene rivisto e di norma messo in discussione; per questo è difficile

capire fino a che punto può essere considerata espressione di un

desiderio di crescita e di maggiore autonomia e quando, invece, è

segnale di un disagio individuale, familiare o sociale”30.

Il comportamento antisociale costituisce in genere un episodio

transitorio ma in alcuni casi esso può rappresentare la prima fase di un

processo il cui esito è quello della stabilizzazione della devianza31.

E’ pertanto importante distinguere i comportamenti a rischio, il cui

motore d’azione è soprattutto l’esplorazione e la ricerca dell’identità,

dalla condotta deviante, che rientra invece in un pattern più

consapevole e determinato, il cui motore d’azione è il disagio o la

difficoltà adattiva: forza fisica, aggressività, sfida all’autorità,

opposizione sono metodi per ottenere un riconoscimento che non trova

spazio in altre dimensioni che presuppongono la fiducia in se stessi ed

una capacità relazionale adeguata32. I comportamenti di trasgressione

delle norme e delle regole, vengono così a configurarsi come funzionali

all’affermare una propria autonomia, indipendenza e capacità di

29

http://www.giustiziaminorile.it/rsi/studi/gruppiadolescenti.pdf, p.13. 30

A. Maggiolini, E. Riva, Adolescenti trasgressivi: le azioni devianti e le risposte degli adulti, FrancoAngeli, Milano, 1999. 31

G. De Leo, La devianza minorile, Carocci, Roma, 1998. 32

G. F. Ricci, D. Resico, Pedagogia della devianza, FrancoAngeli, Milano, 2010, p. 183.

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24

decisione. Il desiderio di mettere alla prova le proprie possibilità fisiche

e psichiche spinge spesso gli adolescenti ad attuare comportamenti

estremi: si tratta di una sfida con se stessi per dimostrare di esserci e di

essere forte33.

Ciò significa che un adolescente può delinquere con più facilità di un

adulto, ma anche che non può essere ritenuto un delinquente solo per

questa esperienza.

1.3. Chi è il giovane deviante

Nell’età adolescenziale tutti i ragazzi attraversano una fase difficile

che può anche indurli a commettere un reato, ma senza dubbio quei

ragazzi che appartengono ad un ambiente familiare multiproblematico,

disgregato o degradato, corrono il rischio di una crisi adolescenziale più

forte degli altri coetanei, che incide maggiormente e più incisivamente

sul loro processo di crescita.

Volendo provare ad analizzare il “chi è” del giovane deviante, si può

affermare che nella maggioranza dei casi egli vive in città e in zone

degradate, proviene da famiglie disgregate o disfunzionali con cui ha un

rapporto relazionale compromesso, vive un grave disagio economico ed è

di bassa scolarità34.

Le analisi del fenomeno dal 1970 in poi evidenziano le stesse

caratteristiche, mettendo in luce come esso si manifesti spesso in

condizioni di marginalità sociale e individuale, mentre ciò che cambia,

33

G. De Leo, P. Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, cit.

34 M. Cavallo, Ragazzi di strada. Voci e testimonianze dal carcere minorile, op. cit., p.14.

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25

è, invece, il comportamento sociale dei giovani: si è di fronte a forme di

devianza non più legate solo al soddisfacimento dei bisogni materiali, ma

collegate a quel diffuso senso di disagio culturale che caratterizza il

tempo attuale. La devianza ha così assunto caratteristiche che non la

limitano più a una classe o a un gruppo sociale o ad una sub-cultura, ma

essa coinvolge oggi tutti quelli che si vedono rifiutati dal contesto

sociale nel quale vivono o che non riescono ad essere se stessi. Un rifiuto

che si manifesta spesso sotto forma di patologie giovanili di tipo

esistenziale e di comportamenti devianti.

Nell’analisi della delinquenza minorile è, pertanto, necessario

considerare non solo la condotta e la personalità del ragazzo, ma anche

tutte le interrelazioni tra l’autore della condotta e il contesto sociale

allargato. E’ importante, afferma la giudice Cavallo, “osservare come un

ragazzo può manifestare un comportamento deviante o commettere un

reato, e come può diventare un delinquente”35. Si è di fronte, infatti, a

due fenomeni diversi: molti ragazzi possono commettere, in un momento

della loro storia, atti devianti o veri e propri reati, ma non

necessariamente diventano poi delinquenti: quell’atto, infatti, seppur

espressione di disagio, può rimanere singolo senza strutturarsi in una

condotta deviante vera e propria, espressione di un malessere più

strutturato.

Quanto detto pone una riflessione sul fatto che un ragazzo può

percorrere una carriera criminale come spinto da una serie concatenata

di azioni e reazioni poste in essere dal suo circuito familiare, attraverso

35

Ivi, p. 11.

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26

l’abbandono, la trascuratezza, la disattenzione; dal suo contesto

scolastico, attraverso rifiuti, sospensioni ed allontanamenti; dal gruppo

dei pari, attraverso l’imitazione, la derisione, lo scherno perché “non ha

il coraggio di…”; dal suo quartiere, attraverso l’etichettamento;

dall’istituzione, attraverso una risposta non adeguata.

I processi di base secondo i quali si producono il disagio, la devianza

e la delinquenza nel mondo giovanile sono molto complessi, perché vi

concorrono molteplici fattori di ordine sociale e psicologico, variamente

interagenti fra loro. E’ perciò difficile definire schemi nei quali

incasellare le tipologie di comportamenti e i processi evolutivi che li

inducono. Dall’esperienza è tuttavia possibile ricavare un modello

dell’universo minorile configurandolo come una struttura costituita da

quattro strati concentrici: normalità, disagio, devianza, delinquenza.

Lo strato esterno è costituito dall’insieme dei ragazzi che

comunemente definiamo normali, la cui condotta risponde a parametri

comportamentali generalmente accettati dal contesto sociale in cui sono

inseriti e vivono.

Lo strato adiacente, immediatamente più interno, è costituito

dall’area del disagio, ossia da quei ragazzi portatori di quel malessere

diffuso che porta a non sentirsi adatti e che si manifesta con segni quali

l’isolamento, la reattività, l’opposizione, la difficoltà nei processi di

apprendimento e di socializzazione.

Continuando verso l’interno, lo strato successivo è costituito

dall’insieme dei ragazzi che gravitano nell’area della devianza, i cui

comportamenti si allontanano dalla norma sociale ma non si configurano

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ancora come reato; i sintomi possono essere: l’abbandono scolastico, la

fuga da casa, la violenza e la prevaricazione diffusa, l’uso di droghe, la

frequentazione di un gruppo dalla condotta irregolare.

Infine, l’ultimo strato è costituito dall’insieme dei ragazzi che nel

loro complesso esprimono l’area della delinquenza, caratterizzata, cioè,

da condotte che configurano reato, perché violano una norma del codice

penale.

Un elemento fondamentale messo in luce da questo modello è che i

passaggi avvengono solo fra strati adiacenti: ne consegue che

praticamente tutti i minori che entrano nell’area penale hanno

attraversato le aree del disagio e della devianza senza aver ricevuto

risposte adeguate.

La delinquenza è il risultato di un percorso personale involutivo che

si manifesta dapprima con il disagio, poi con il disadattamento e la

devianza.

L’atto antigiuridico non si manifesta in maniera casuale ma è frutto

di una difficoltà non letta, a cui non è stata data una risposta adeguata,

una difficoltà che è cresciuta pian piano alimentandosi di fattori

deficitari individuali, familiari, ambientali e sociali. Tale percorso

scandito da tappe progressive può essere paragonato alla corsa di un

treno su un preciso binario con stazioni fatte di azioni, reazioni,

sopraffazioni, prima che colui che viaggia diventi un delinquente. Questo

binario potrà portare fino al capolinea, dove il passeggero troverà il

carcere, se nelle stazioni intermedie non ci sarà qualcuno che lo

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28

convincerà a scendere e a cambiare percorso36. Naturalmente ciò non

vuol dire che i ragazzi dei contesti a rischio siano inesorabilmente

destinati a questo percorso fatale con il carcere al capolinea, quello

decritto non è un percorso ineluttabile, tuttavia quanto detto mette in

rilievo, con forza, l’importanza e l’essenzialità dell’intervento della

scuola, dei servizi socio-educativi dell’Ente locale e del volontariato nei

contesti dominati dalla criminalità organizzata o laddove vi siano

famiglie disfunzionali e multiproblematiche, intervento che si configura

come essenziale perché, ponendosi come riferimento significativo e

forte, evita il possibile aggancio da parte della criminalità37.

In particolare, scrive ancora la Cavallo, “la risposta sociale al primo

atto deviante che segnala il disagio e la sofferenza di un ragazzo, assume

una specifica rilevanza e significatività nella costruzione o meno di una

personalità deviante”38.

Ne consegue che la collettività, le politiche sociali e la politica

giudiziaria concorrono fortemente a ridurre o ad accrescere il rischio di

devianza, massima attenzione è pertanto richiesta alle agenzie di

controllo sociale nei confronti di tutti i minori, soggetti deboli per

definizione e in particolare nei confronti di quelli in situazione di

difficoltà.

36

Ivi, pp. 11-13. 37

Ivi, p. 63. 38

Ivi, p. 13.

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29

CAPITOLO SECONDO

Il quadro storico-normativo

In ogni giovane, anche il più disgraziato, vi è un punto accessibile al bene

e dovere primo dell’educatore è di cercare questo punto, questa corda sensibile al cuore e trarne profitto

Don Bosco

Il quadro storico-normativo entro cui si inserisce l’istituto della

messa alla prova viene a delinearsi attorno al tema della pena e della

punizione, più esattamente attorno ad una precisa domanda di senso su

quale sia la giusta risposta da dare all’atto antigiuridico. Una domanda,

questa, che apre a molteplici orizzonti interpretativi come a molteplici

risposte, tanto che la si potrebbe definire una domanda in costante work

in progress, proprio perché oggetto di riflessione continua. Una domanda

che, senza dubbio, viene a configurarsi come il motore centrale della

risposta istituzionale a fronte della violazione di una norma: è, infatti,

alle posizioni assunte nel tempo in merito alla pena che conseguono le

diverse strategie politiche e giudiziarie adottate, avvicendatesi nel

tempo in una costante dialettica tra istanze repressive ed educative.

Il beneficio giuridico della messa alla prova rappresenta oggi una

delle risposte possibili a questa domanda, una risposta, considerata tra

le più innovative, che nel “punire” mette al centro il ragazzo, dandogli

credito, scommettendo dunque sul suo futuro. Elemento questo di

straordinario valore, perché è proprio nel come viene vissuta la

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30

punizione dal ragazzo, che si gioca tutta la possibilità che essa sia

realmente funzionale ad un cambiamento significativo di vita.

Al riguardo, assumendo la prospettiva relazionale di Watzlawick,

secondo cui la comunicazione viaggia sempre sui due livelli

contenutistico e relazionale39, è interessante considerare un elemento

chiave: se infatti per quel che concerne i contenuti della punizione

questi possono rimanere invariati, ciò che cambia è invece il processo

relazionale che attiviamo. In altre parole si possono dire e fare le stesse

cose, ma porgerle in maniera del tutto diversa e “gli effetti pragmatici

di una comunicazione, cioè la modificazione del comportamento di chi

riceve la punizione, molto spesso sono determinati dal livello relazionale

piuttosto che da quello contenutistico”40. Ma nella prospettiva

relazionale i processi della punizione e dell’educazione sono inscindibili,

pertanto una punizione data unicamente per difendere la società dalla

pericolosità sociale del reo, è una punizione tesa a mettere in atto la

stessa modalità relazionale del giovane deviante che ha commesso un

reato per vendicarsi delle ingiustizie che ha subito dalla società: punirlo

e basta vuol dire, da parte della società, vendicarsi dell’ingiustizia

subita, esattamente come ha fatto lui, provocando una risposta del tipo

“più di prima”: l’adolescente delinque, riceve una condanna, diventa più

delinquente, riceve una condanna più esemplare, continua a delinquere

e così via, la condanna è una convalida, un rinforzo del comportamento

39

Il secondo assioma della comunicazione, enunciato da Paul Watzlawick, afferma che ogni atto comunicativo ha un

aspetto di o te uto, io di i fo azio e, e u aspetto di elazio e, he igua da lo stato e otivo e l i te zio e di iò he si vuole o u i a e. Ciò vuol di e he so o gli aspetti elazio ali, su ui si asa l alt o pe o p e de e il essaggio,

che chiariscono, confermano o disconfermano quanto espresso verbalmente. 40

M. Cavallo (a cura di), Pu i e Pe hé. L’espe ie za pu itiva i fa iglia, a s uola, i istituto, i t i u ale, i a e e: p ofili giuridici e psicologici, FrancoAngeli, Milano, 1993, p 58.

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31

deviante41. Non avendo alternative l’unica risposta possibile è “il più di

prima”, la cosiddetta escalation simmetrica.

Tutta la differenza tra punizione ed educazione si gioca, allora,

proprio nella possibilità di offrire un’alternativa del comportamento: sia

la punizione che l’educazione, infatti, mirano a generare un

cambiamento, una condotta diversa e più funzionale alle regole della

società. Ma l’educazione diventa punizione quando questo cambiamento

non è possibile nel contesto familiare e sociale, cioè quando nella storia

di vita di quel ragazzo non c’è la possibilità di cambiare42.

Le radici della devianza, allora, vanno attentamente considerate

perché è ad esse che bisogna rispondere.

E’ ciò che ribadisce l’art. 27 della Costituzione evidenziando che la

pena deve tendere alla rieducazione43, deve cioè garantire un

cambiamento, offrire, promuovere un’alternativa alla condotta

deviante. Ma l’alternativa è possibile solo in presenza di un contesto

educativo, se avulsa da esso infatti la punizione sarà vissuta come

un’ennesima violenza, perdendo ogni utilità. Ecco allora

l’indispensabilità di un contesto funzionale: solo in presenza di un

sistema di servizi che funzionano, che siano in grado di progettare,

seguire, determinare un cambiamento sistemico, è infatti possibile che

la punizione diventi educazione. La strada possibile, e potremmo dire

doverosa, obbligata, è ben indicata nelle parole del giudice Giampaolo

Meucci che invitava ad “educare nelle forme della giurisdizione”,

41

Ivi, p.71. 42

Ivi, p.73. 43

L A t. della Costituzione Italiana al comma 3 recita: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di

umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

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32

facendo in modo che la risposta da dare al minore autore di reato,

applicata secondo lo spirito Costituzionale, abbia implicita in sé, una

funzione educativa44: è, infatti, dal modo e dalla misura in cui si punisce

che dipendono gli effetti, ossia il cambiamento, che è il fine ultimo,

vero, della punizione.

“Si può dire che la punizione è come un farmaco - afferma la Cavallo

- che deve essere somministrato ad un ragazzo aggredito dal virus della

devianza sociale; ma come il farmaco, quando è utilizzato troppo tardi o

in dosi massicce e senza il controllo, e non è accompagnato da adeguate

terapie di sostegno, può avere effetti nefasti, addirittura letali, così la

punizione, quando inflitta troppo tardi oppure con durezza ed emotività,

avulsa da un progetto organico di recupero, lungi dal produrre il suo

effetto di cambiamento in positivo, non potrà che provocare più gravi,

probabilmente definitivi, atteggiamenti di reazione”45. Parole, queste

della giudice, che ribadiscono chiaramente e con forza quanto detto: in

ambito minorile la punizione non deve mai essere fine a se stessa, cioè

rispondente ad un’ottica meramente retributiva, ma deve essere sempre

adeguata alle esigenze del minore e finalizzata a produrre un

cambiamento in chi ne è destinatario, tenendo presente che gli effetti

positivi dipendono dal processo relazionale attivato ovvero dalla capacità

di far comprendere il senso della punizione al ragazzo, questo perché

solo se compresa essa sarà sentita non come un atto vendicativo della

44

Giampaolo Meucci (1919-1886), magistrato italiano, considerato il padre del diritto minorile in Italia, è stato per venti

anni presidente del Tribunale per i minorenni della Toscana. La sua opera più nota, I figli non sono nostri (1974), è

considerata una pietra angolare del rinnovamento della cultura giuridica italiana; scrisse, insieme a Mario Gozzini, il primo

manuale di educazione civica per contribuire alla formazione dei giovani quando la materia, anche per il suo impegno, fu

introdotta nei programmi scolastici; partecipò inoltre come i seg a te all espe ie za della “ uola di Ba ia a di do Milani. 45

M. Cavallo, Ragazzi di strada, cit., p. 117.

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società, ma giusta e, conseguentemente, potrà essere accettata e

vissuta in modo positivo. La punizione deve portare al recupero del

ragazzo e questo è possibile, innanzitutto, attraverso una risposta

adeguata alle sue esigenze, che sia capace di vincere lentamente tutte

le resistenze che egli stesso mette in atto “perché tanto non mi

cambiate”, fino a fargli sperimentare la possibilità di permettere a se

stesso di “essere diversamente”. In tal senso la messa alla prova appare

come la risposta più adeguata alle esigenze del soggetto in età evolutiva

proprio perché sollecita l’attivarsi di una risposta del e nel contesto

sociale. Bisogna certamente pretendere la riparazione ma questa, lungi

dal mutilare il ragazzo, come accade con il carcere che non risolve il

problema della devianza minorile, ma anzi lo amplifica, deve invece

metterlo in grado di riprendere la propria strada come ricostituito.

Questo è possibile solo se nel punire prevalgono strategie che puntino in

primis a comprendere il segnale di difficoltà personale espresso dall’atto

antigiuridico, per poi successivamente rispondervi con un intervento

costruito ad hoc. Un intervento in cui la ricerca di forme di punizione

adeguate ad una corretta funzione educativa nel momento della

giurisdizione, sia sempre accompagnata da risposte di aiuto che

accolgano i bisogni che hanno determinato quell’atto, nella convinzione

che una punizione con finalità esclusivamente repressive “può impedire

un disordine, ma difficilmente farà migliori i delinquenti”46 e che,

invece, è necessario che il contesto ponga in essere un intervento

46

San Giovanni Bosco, Memorie Biografiche, Elledici, Torino, 2005; ma anche P. Braido, Prevenire, non reprimere. Il

sistema educativo di Don Bosco, LAS, Roma, 2000.

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individualizzato che, mettendo al centro la persona, sappia far leva su

quel punto accessibile al bene che ogni individuo ha in sé.

2.1. La finalità della pena: excursus storico

La riflessione sui fondamenti della pena, in ogni tempo, è stata

attraversata dall’idea che la violazione delle norme giustifichi una

reazione volta a ricostituire l’ordine sociale minacciato dal reato che ne

mette a repentaglio la sua conservazione.

Nei primi tempi della storia dell’umanità fino al XVIII secolo la pena

rappresentò la reazione difensiva della società che, attraverso essa,

ricostituiva l’unità del proprio corpo sociale violata dal crimine

commesso. Il modello prevalente delle elaborazioni giuridiche pre-

illuministiche fu per lungo tempo quello retribuzionista che, seguendo la

massima del rendere male per male, privilegiava una risposta all’atto

deviante di tipo punitivo.

Michel Foucault47 mette in luce come nel sistema penale, dall’età

ellenistica in poi, si possano trovare un insieme di pratiche normative e

una serie di sistemi disciplinari distinti sul piano punitivo, che egli

descrive elencando quattro tipologie di esercizio del potere sul soggetto

deviante: società dell’esilio (società greca) in cui il colpevole di un reato

grave, il deviante, veniva bandito dalla città; società del riscatto

(società tedesche) ove il danno provocato veniva convertito in un debito

47

Paul-Michel Foucault, 1926-1984, sociologo, filosofo, psicologo e storico francese, ha analizzato la pena come sanzione

disciplinare inserita nei meccanismi di potere-sapere atti a controllare gli individui, evidenziando come tra il XVI e il XIX

sec. vi fu la messa a punto di tutto un insieme di procedure (di sorveglianza, esercizio, annotazioni, esami, registrazioni)

per controllare, misurare, addestrare gli individui, per renderli docili e utili nello stesso tempo, comportando la nascita

della osiddetta società disciplinare .

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da pagare; società del segno (società occidentali fino alla fine del

Medioevo) che prediligevano il supplizio in cui si esponeva, marchiava,

torturava il corpo del suppliziato; società della prigione (società

occidentali moderne) che, con le grandi riforme penali, iniziano ad

imprigionare, aprendo la strada alla nuova strategia formale che è la

detenzione48. Centrale, in questa descrizione, è proprio quest’ultimo

passaggio: dal modello punitivo dell’Ancien Régime a quello del

controllo della società moderna.

Nell’Ancien Régime, scrive Foucault, la pena rientrava in una più

ampia strategia di dominio e manifestava in maniera evidente il diritto

alla vendetta detenuto dal sovrano, il cui potere, temporaneamente

oscurato e offeso dal crimen maiestatis commesso, veniva esercitato sul

corpo stesso del condannato. Lo scopo del supplizio, in tal senso, era

innanzitutto quello della pubblicizzazione della dissimmetria esistente

fra il potere regio e i soggetti che violavano la legge: esso era una

manifestazione di forza del sovrano che riaffermava il proprio potere

punendo in modo esemplare e arbitrario, con una punizione corporale,

spettacolare, pubblica. La società dell’Ancien Régime non si poneva il

problema di prendere in carico il deviante né quello della sua

rieducazione, ma perseguiva lo scopo di ricostruire l’unità del corpo

sociale, spezzata dall’evento criminoso, con una punizione esemplare ed

efferata che, vendicando e ammonendo insieme, avesse anche una

funzione deterrente49.

48

M. Foucault, La società punitiva, trad. it., TraccEdizioni, Livorno, 1991, pp. 41-55 in A. Mariani, Foucault, per una

ge ealogia dell’edu azio e, Liguori Editore, Napoli, 2000, p.29-30. 49

M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1993, pp. 37-38.

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Nell’epoca moderna, segnata dalla rivoluzione industriale, il sistema

di diritto iniziò a mutare, umanizzandosi e mettendo da parte le forme

più cruente di punizione. Tra gli elementi che favorirono questo

passaggio, Foucault individua il dissenso popolare verso quelle brutali

pratiche, sfociato soventemente in vere agitazioni e divenuto, nella

seconda metà del XVIII secolo, endemico: oltre al popolo infatti,

cominciarono ad indignarsi filosofi, giuristi, teorici del diritto, ritenendo

necessario punire diversamente, con l’abolizione dello scontro fisico tra

il sovrano e il condannato. La necessità di un diverso tipo di punizione

appariva strettamente connessa al sistema industriale che si andava

affermando in quel periodo storico: le società industriali, infatti,

esprimevano sempre più la necessità di includere al proprio interno la

nuova categoria sociale che si era andata creando con

l’industrializzazione, quella della dégénérescence50, comprendente tutti

coloro che, non essendo inquadrati nel lavoro, costituivano la grande

famiglia indefinita e confusa degli anormali51, una massa informe e poco

gestibile di individui (soggetti inabili, donne sole con prole, vagabondi…).

In tal senso la diversità, intesa come anormalità, venne a legarsi

all’inoperosità, ciò perché, a differenza del soggetto che lavorava,

facilmente controllato e funzionale alla società in quanto produttivo,

coloro che si collocavano al di fuori del circuito lavorativo, incapaci di

integrarsi nella comunità, venivano considerati un costante pericolo per

50

A. Mariani, Fou ault, pe u a ge ealogia dell’edu azio e, op. cit., p.22. 51

Tale categoria venne formulata tramite una serie di tecnologie, dispositivi e meccanismi che Foucault ha studiato

att ave so t e ele e ti des ittivi: il ost o, l i dividuo da o egge e, l o a ista.

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l’ordinamento pubblico, in quanto portatori di disordine sociale52.

Progressivamente si va affermando un pensiero che vede nell’atto

antisociale non più un’offesa al potere del re ma un indebolimento del

contratto sociale: dunque non più un crimen maiestatis ma un crimen

societatis, in quanto ogni qualvolta che veniva commesso un crimine era

la società tutta ad essere coinvolta e in ragione di ciò la punizione

doveva essere più clemente in quanto essa, da un lato doveva riparare al

torto arrecato alla società, dall’altro doveva reinserire il trasgressore

all’interno di essa. Conseguentemente la pena non fu più considerata

come una vendetta personale del sovrano, ma come uno strumento di

difesa della società, la cui modalità esplicativa non era più quella di

colpire, segnare, marchiare il corpo, ma di agire in profondità,

attraverso esso, sull’anima del detenuto per normativizzarlo, ossia

convertirlo al rispetto delle norme e dei valori condivisi. Si affermò,

pertanto, la necessità di un potere non più esercitato dal sovrano ma

capace di esplicarsi attraverso pratiche di governo funzionali a

normalizzare53 l’anormale: il soggetto deviante non doveva essere

escluso con una punizione esemplare ma controllato, disciplinato,

moralizzato, corretto, attraverso pratiche di dominio. In altre parole, si

fece largo il principio che per perseguire il fine dell’ordine sociale non

fosse funzionale l’esercizio di un potere macrofisico, che si esplicava in

maniera forte, calandosi sulla società dall’alto e imprimendosi su di essa

52

M. Foucault, “to ia della follia ell’età lassi a, Rizzoli, Milano, 1992, p.52-53. 53

Nella sua ricerca Foucault si orienta sempre più verso lo studio dei processi di normalizzazione, cioè delle varie forme

t a ite ui il pote e ha te tato, ell O ide te ode o, di o t olla e gli i dividui e i lo o o pi, ello sfo zo di o te ere

tutte le forme di devianza rispetto ad una norma costituita; il processo di normalizzazione può essere inteso come un

processo che segue il cammino inverso rispetto a quello della devianza: è cioè un percorso che conduce il soggetto

dall esse e out all esse e i ovve o i se ito i uello he il centro ideologico e culturale di una data società; non è un

processo necessariamente violento, ma si esprime convincendo i soggetti della giustezza del comportamento da seguire.

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con modalità atte ad escludere dal tessuto sociale in maniera

spettacolare. Risultava invece essere più utile, in quanto più valido in

chiave economica, l’esercizio di un potere che regolamentasse le

condotte dei soggetti agendo in maniera microfisica, ossia innervando la

vita di ogni singolo individuo, penetrandola dal basso in maniera

capillare, un potere ubiquitario, dunque, capace di agire in maniera

pervasiva, quasi invisibile, esplicandosi con una modalità di interventi

tesi a categorizzare e omologare il soggetto all’interno di un sistema di

valori, in modo tale che questi potesse essere disciplinato, produttivo e

integrato: per la società moderna era più vantaggioso rendere

“fruttuosa” la devianza attraverso meccanismi di inclusione, che

allontanarla da sé con punizioni efferate.

In questo quadro la pedagogia diviene uno dei saperi chiave dello

Stato in quanto legata alla formazione della soggettività: il sapere

pedagogico plasma il soggetto attraverso pratiche di normativizzazione e

di interiorizzazione di norme e regole. L’educazione viene, quindi, a

porsi come un dispositivo di potere che, attraverso una serie di saperi,

imprimendosi direttamente sul corpo dei soggetti, ne regola e conduce

le condotte, stabilendo a priori ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò

che è normale e ciò che non lo è.

Nella lettura offerta da Foucault, la nascente classe media trovava

poco conveniente un sistema penale arbitrario e violento, preferendo

invece una maggiore efficacia che, rifuggendo dalla spettacolarizzazione

della punizione, potesse garantire un sistema più efficiente, razionale e

capillare di controllo delle classi subalterne. La differenziazione tra

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punizione esemplare e disciplinamento, che aveva portato all’affermarsi

del concetto di rieducazione e di riabilitazione, comportò, col mutare

delle funzioni della pena, la conseguente trasformazione delle modalità

di esecuzione della medesima: il carcere, che nel sistema penale

dell’Ancien Régime ricopriva una posizione marginale fungendo solo da

passaggio per il supplizio, divenne, nell’età moderna, uno dei numerosi

strumenti atti ad alimentare il potere disciplinare degli Stati che,

manipolando e forgiando l’individuo, lo rendevano luogo cardine del

nuovo sistema di controllo formale, idoneo a controllare e a riabilitare,

sostituendosi, di fatto, alle pene corporali, misure queste non più atte a

raggiungere gli scopi del nuovo assetto sociale54.

Quest’epocale mutamento di prospettiva comportò il passaggio di

attenzione dall’atto deviante al soggetto deviante portando al graduale

emergere di una nuova consapevolezza scientifica costruita intorno alla

categorizzazione patologica del soggetto anormale: le pratiche

finalizzate al trattamento della diversità e della devianza si andarono

centrando sempre più sulla personalità individuale, con l’obiettivo della

normalizzazione del soggetto deviante. Tale processo richiedeva

l’organizzazione di un sistema sanzionatorio nuovo, volto più alla

correzione che alla semplice repressione e che, proprio in ragione di ciò,

presupponeva l’apporto delle scienze umane al fine di fornire gli

strumenti necessari per poter misurare e valutare le distanze dei casi

devianti dalla norma stabilita55. Si affermò, pertanto, un intervento di

tipo riabilitativo e rieducativo, funzionale al controllo e al reinserimento

54

M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit. 55

Ivi, pp.194-212.

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nel tessuto sociale56, ove le basi scientifiche per lo studio degli individui

e per il perfezionamento delle strategie di sorveglianza furono offerte da

diverse discipline, soprattutto afferenti le scienze umane: si diffuse l’uso

di saperi in grado di indagare la personalità del deviante e di spiegarne il

comportamento inquadrandolo in una categoria, solo in tal modo si

rendeva possibile curare quella che era considerata sempre più una

malattia sociale. Conseguentemente anche la giustizia punitiva cambiò

l’intero rituale penale. Lo spostamento dell’interesse dall’analisi dei

reati allo studio dei soggetti criminali necessitava di un ampliamento

delle competenze scientifiche utilizzate, pertanto dall’istruttoria fino

alla sentenza vengono introdotte nuove pratiche e nuovi soggetti

extragiuridici: non si giudicano più soltanto i delitti, bensì altre variabili

che riguardano il carattere, la storia e l’ambiente familiare

dell’individuo. Mutamento, questo, che comporta l’entrata in scena di

esperti quali psicologi, psichiatri, criminologi, medici, assistenti sociali,

educatori, tutte figure professionali, interessate alla certificazione di

una normalità morale, comportamentale, psichica, che affiancheranno

sempre più il giudice nel suo lavoro con considerazioni in merito alla

pericolosità sociale del soggetto deviante. Nel processo si poté assistere

all’ingresso della perizia psichiatrica che analizzando la biografia del

soggetto ne indagava la personalità in relazione all’atto compiuto57.

Figure centrali nel percorso di cambiamento del sistema delle pene

furono Cesare Beccaria e Jeremy Bentham58. Entrambi sostenevano che il

56

P. Barone, Pedagogia della marginalità e della devianza, Guerini Scientifica, Milano, 2011, p.25-26. 57

A. Mariani, Fou ault, pe u a ge ealogia dell’edu azio e, op. it., p.37-38. 58

Cesare Beccaria (1738–1794), giurista,filosofo, economista e letterato italiano, figura di spicco dell'Illuminismo, fu

auto e del testo Dei delitti e delle pene i ui p i ipi ispi e a o la teo ia della s uola Classi a del Di itto pe ale

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sistema delle pene andasse radicalmente rivisto: il primo come teorico

del diritto si sforzò di formulare un progetto di addolcimento delle pene,

il secondo cercò di teorizzare una diversa organizzazione degli spazi

deputati all’esecuzione della pena. Cesare Beccaria nella sua opera Dei

delitti e delle pene proponeva un ideale moderno di diritto penale,

introducendo concetti come la proporzionalità delle pene e l’abolizione

della pena di morte, in chiara opposizione alle tendenze repressive

dell’Ancien Régime: la punizione non doveva più essere crudele,

inumana e degradante, bensì dolce, moderata e proporzionale al crimine

commesso.

Con le funzioni della pena, naturalmente, si trasformarono anche le

modalità di esecuzione della medesima: i primi progetti di prigione in

senso moderno risalgono al Panopticon (“che vede tutto”) di Bentham,

con cui il giurista inglese ipotizzò un metodo di sorveglianza totale sui

corpi dei detenuti, progettando tecniche architettoniche che

consentissero ad un unico guardiano di sorvegliare tutti i prigionieri in

ogni momento. La struttura carceraria ideata da Bentham aveva lo scopo

di educare all’onestà i criminali attraverso l’autocontrollo del detenuto

stesso sul quale agiva la pressione disciplinante del sentirsi controllato in

ogni momento. Dopo anni di questo trattamento, secondo Bentham, il

retto comportamento “imposto” sarebbe entrato nella mente dei

prigionieri come unico modo di comportarsi possibile, modificando così

indelebilmente il loro carattere. Proprio per queste sue caratteristiche il

Panopticon divenne l’emblema dell’onnipresenza del potere nella

italiano; Jeremy Bentham (1748- , filosofo e giu ista i glese, fu l ideato e di u uovo tipo di p igio e he hiamò

Pa opti o (1791).

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società contemporanea, tanto che Foucault nel descrivere il nuovo modo

di punire della società del XVIII secolo lo definisce appunto

“panoptismo”, sottolineando il passaggio dall’attenzione al corpo del

condannato a quella verso la sua anima come necessario per la creazione

di una società disciplinata. Questo nuovo tipo di società, per

sopravvivere ed impostare i propri valori, necessitava di strutture quali

gli istituti penitenziari che sorvegliassero ed educassero i prigionieri59.

A partire dall’Illuminismo si ha, dunque, un approccio differente al

crimine ed alla pena, congiuntamente all’affermarsi dell’ideologia

liberale le cui idee daranno vita alla Scuola Classica del Diritto Penale

Italiano60, sulla scorta del pensiero di Beccaria che, ritenendo l’uomo

capace di intendere e di volere, evidenziava la necessità di una pena

scritta, certa e proporzionata al reato commesso spingendo il legislatore

a bandire le pene più crudeli ed infamanti e a limitare la pena di

morte61, che fino all’avvento del sistema carcerario era stata lo

strumento punitivo maggiormente impiegato. La pena, infatti, secondo il

pensiero del giurista italiano, ha un maggiore effetto deterrente se le

persone sanno a cosa andranno incontro, qualora violino i precetti penali

59

M. Barbagli, A. Colombo, E. Savona, Sociologia della devianza, op. cit., pp. 249-250. 60

Sulla scorta delle dottrine illuministiche di Cesare Beccaria si sviluppò nella seconda metà del 1700 la Scuola Classica del

Diritto Penale italiano, che con il suo maggiore esponente Francesco Carrara, contribuì all'affermazione – attraverso

l'ispirazione garantista da essa espressa - di nuovi e importanti principi. La teoria che è alla base della Scuola Classica

muove dal postulato del libero arbitrio, da cui deriva la preclusione di ogni ricerca sulle condizioni mentali, morali e

familiari del reo. Il diritto penale era fondato sulla responsabilità morale. Conseguenza di questi presupposti è una

concezione della giustizia che attribuisce alla pena una funzione esclusivamente retributiva. La gravità del reato

costituisce l'unico criterio in base al quale vengono stabilite le pene, le quali, pur nella loro durezza, non possono essere

attuate in condizioni disumane o mediante supplizi corporali, esse do tese a edi e e il eo, olt e he a pu i lo. E asse te l idea di p eve zio e. Nell'a ito spe ifi o della giustizia i o ile il suo appo to ha igua dato es lusiva e te la questione dell'imputabilità del minore e della sua capacità di intendere e di volere. 61

La pe a di o te ve à pa zial e te a olita dal Codi e )a a delli del a isog e à atte de e l e a azio e della Ca ta Costituzio ale del he a olse il p i ipio di u a izzazio e della pe a sa ito ell a t. , pe vede la a olita

per tutti i reati comuni e militari commessi in tempo di pace; la pena di morte rimase però nel Codice penale militare di

guerra fino al 1994 anno in cui fu sostituita con l'ergastolo. Nel 2007, infine, fu approvata una legge costituzionale che

modificò l'art. 27 della Costituzione, introducendo il divieto assoluto di utilizzare la pena di morte nell'ordinamento

penale italiano.

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a prescindere dalla severità della sanzione62. Quest’approccio al crimine

concentrava l’attenzione esclusivamente sul fatto-reato, frutto della

libera volontà del soggetto, considerando totalmente irrilevante la

personalità del reo e reputando pertanto inutile ogni ricerca sulle

condizioni mentali, morali e familiari dello stesso.

Fu solo nella seconda metà dell’Ottocento che, con l’affermarsi del

Positivismo e del metodo scientifico si sviluppò un modo di studiare il

crimine atto a focalizzare la sua attenzione non più sul reato ma sulla

personalità del reo, dando vita alla Scuola Positiva del Diritto Penale

Italiano63. I teorici di tale scuola, in primis Cesare Lombroso, partendo

dal postulato di una concezione deterministica della natura umana,

consideravano l’azione criminale quale frutto di un impulso irrefrenabile

rivelatore di una personalità socialmente pericolosa, cui conseguiva la

necessità di una pena che non fosse retributiva ma che avesse la finalità

di proteggere la società e di recuperare il reo. Una pena dunque non più

certa ma individualizzata, indeterminata e utile alla rieducazione del

condannato, non proporzionata alla gravità del fatto ma alla pericolosità

sociale.

La cultura moderna è stata molto influenzata dalla scuola positiva e

ciò ha portato il legislatore a porre molta attenzione alla personalità

dell’autore del reato, cosicché attualmente il diritto penale italiano si

62

Ivi, p. 245. 63

Sul finire del secolo, affondando le proprie radici culturali nel positivismo metodologico, alcuni intellettuali (quali

Lombroso, Ferri, Garofalo) iniziarono l'esperienza della Scuola Positiva che, in contrapposizione al razionalismo illuminista

della Scuola Classica, affermò la supremazia dell'indagine sperimentale e quindi del metodo induttivo sugli astratti giudizi

di colpevolezza. La fiducia nelle scienze portò Cesare Lombroso a ritenere "che si potesse studiare l'uomo, l'individuo che

delinque con strumentazioni derivate da altre scienze dell'uomo", inaugurando l'antropologia criminale e l'indirizzo

individualistico dello studio della criminalità che condizionò notevolmente sia lo sviluppo del diritto penale, sia gli indirizzi

in tema di trattamento dei delinquenti.

Nell'ambito specifico della giustizia penale il suo apporto ha riguardato soprattutto il concetto di pericolosità sociale e

l appli azio e delle isu e di si u ezza.

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44

basa sul dualismo responsabilità morale-pericolosità sociale che trova la

sua affermazione nella c.d. Terza Scuola, una corrente di pensiero che,

cercando una mediazione tra i citati principi propri delle due scuole

precedenti, diede vita al cosiddetto sistema del doppio binario, base del

Codice Penale del 193064, ove sistema retributivo e sistema preventivo

coesistono affiancando alla pena retributiva le misure di sicurezza e

perseguendo, in tal modo sia la finalità punitiva, cioè l’esigenza di

applicare sanzioni, sia quella preventiva ossia l’intervento rieducativo.

Al concetto di imputabilità si affianca quello di pericolosità sociale,

legato all’esigenza di difesa sociale nei confronti di un comportamento

criminoso posto in essere da un soggetto non imputabile per capacità di

intendere e di volere65.

Fu, dunque, a partire dalle grandi trasformazioni sociali del XVIII

secolo che alla funzione retributiva della pena66, volta a riaffermare

l’autorità dello Stato negata dal delitto con una sanzione proporzionata

alla gravità dei fatti, si affiancarono le funzioni di prevenzione generale,

per cui la pena deve avere efficacia deterrente nei confronti della

collettività, attraverso la riaffermazione forte della norma violata che

distolga la generalità dei consociati dal commettere reati con la

minaccia di sanzioni67, e di prevenzione speciale, in virtù della quale la

64

I Codici Rocco del 1930, di diritto e procedura penale, tuttora vigenti, rappresentarono un momento tecnicamente

rilevante di compromesso e di equilibrio tra le opposte istanze della Scuola Classica e della Scuola Positiva. Con essi,

infatti, venne a delinearsi una netta distinzione tra i soggetti che erano da considerarsi in condizioni di "normalità

biologica e psichica" e quelli che erano in condizioni valutate di "non normalità biologica e psichica": per i primi di cui era

presunto il libero arbitrio e, quindi, l'imputabilità, la pena assolveva ad una funzione soprattutto retributiva; ai secondi,

invece, cui non era negato il libero arbitrio e per i quali l'imputabilità doveva essere provata, la pena, sotto forma di

misura di sicurezza, acquisiva funzioni terapeutiche e di difesa sociale. 65

D. Izzo, A. Manucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit. 66

La pena retributiva presenta i seguenti caratteri: afflittività, intesa come privazione di un bene; responsabilità penale

personale; proporzionalità della pena; determinatezza della pena; inderogabilità della pena. 67

Nel nostro sistema penale il giudizio basato sulla previsione di u a delittuosità futu a può o po ta e l adozio e di misure di sicurezza o misure alternative alla detenzione.

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pena deve assumere una funzione risocializzativa, ossia “tendere alla

rieducazione del condannato”, come impone la Costituzione Italiana

all’art. 27.

In sintesi, dunque, attualmente nel nostro Paese la reazione

dell’ordinamento giuridico a fronte della violazione di una norma penale,

secondo quanto sancito dal citato articolo costituzionale, deve tendere

ad un duplice obiettivo: quello della difesa sociale attraverso una

sanzione repressiva e quello del recupero sociale del reo.

2.2. Verso un nuovo processo penale minorile: il D.P.R.448/88

Il sistema penale minorile rappresenta il risultato di un lungo

cammino che ha visto la progressiva, seppur lenta, affermazione del

principio del favor minoris, conquista recente, cui grande impulso fu

dato soprattutto dalla Carta Costituzionale del 1948, che, pur non

prevedendo una disciplina specifica per i minori, operò una “rivoluzione

copernicana” nel modo d’intendere la condizione minorile, che costituirà

la base di un complessivo sistema di promozione dei diritti del minore,

considerato nella sua condizione di soggetto in formazione e ritenuto

meritevole di protezione68.

Il sistema penale minorile può, quindi, essere visto come il frutto del

processo di maturazione della coscienza civile che, nel tempo, è andata

68

L evoluzio e del o etto di i o e ha visto il le to passaggio dal o etto o a isti o di i us ha e s , ossia, incapace di compiere atti di atu a pat i o iale, al ode o o etto di di itto del fa iullo: da u i iziale atteggia e to di egazio e e i diffe e za pe la i o e età si g adual e te giu ti all affe azio e della spe ifi ità e dig ità di essa. Il minore, visto in passato come soggetto debole e oggetto dei diritti degli adulti, viene oggi considerato quale persona

titolare in concreto di diritti soggettivi perfetti, autonomi, azionabili, membro a tutti gli effetti della collettività sociale e

soggetto capace di graduale inserime to i essa. Co l affe azio e dei di itti dei i o i, di pa i passo, si affe ato ed evoluto il di itto del i o e, he po e a fo da e to della o dizio e giu idi a del i o e l esige za di p otezio e e tutela.

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riconoscendo la specificità della condizione del minore inteso come

persona umana da tutelare nelle sue fondamentali esigenze evolutive

dell’identità personale, cui la politica penale ha tentato di adeguarsi

costruendo un sistema differenziato di diritto penale che tende alla

tutela dei diritti dei minori, primo fra tutti il diritto all'educazione.

E’ nell’Ottocento, col nascere della borghesia, che comincia a farsi

sempre più vivo l’interesse verso il minore: nel ceto medio il bambino

assume un posto di rilievo e l’educazione diviene sempre più

specializzata e attenta alle prime tappe evolutive dell’uomo. Tutto il XIX

secolo, permeato dallo spirito scientifico proprio del Positivismo, è

attraversato da un interesse educativo e pedagogico per l’infanzia

“traviata”, da cui scaturì l’idea che al ragazzo che avesse commesso un

reato andasse offerta quell’educazione che non aveva avuto in famiglia.

Tuttavia, nonostante l’affermarsi di tali principi, l’esigenza di controllo

e di disciplinamento emersa con il capitalismo, continuava a

ripercuotersi nelle pratiche formative atte a trattare la devianza

minorile, cosicché il destino dei minori “discoli” continuerà ancora a

sovrapporsi a quello degli adulti emarginati: l’atteggiamento verso

l’infanzia abbandonata restava segnato dal giudizio intorno alla sua

pericolosità sociale, il che determinò ancora il prevalere di istanze

protettive nei confronti della società e non del minore. Infatti, in quello

stesso periodo, fecero la loro comparsa le prime istituzioni minorili che

si proponevano di affrontare il problema dell’aumento dei minori

vagabondi, abbandonati, incontrollati e socialmente pericolosi. Queste,

preoccupandosi soprattutto di porre in essere un’azione moralizzatrice e

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di controllo sociale, tentarono anche un intervento specifico nei

confronti dei minori, separandoli e differenziandoli, sia fisicamente che

nei trattamenti, dagli adulti69.

Accadde, pertanto, che nel corso di tutto l'Ottocento l'attenzione

rivolta ai minori mise in rilievo forti contraddizioni e inconciliabili

ambiguità: da una parte, infatti, il Positivismo proponeva come

necessaria la conoscenza scientifica del bambino e tutto quanto relativo

all’educazione, con l’obiettivo della tutela, della promozione, della

protezione dei giovani; dall’altra parte, invece, il forte controllo

sull’infanzia rendeva gli interventi sui minori estremamente punitivi e

unicamente funzionali alla correzione, introducendo in ambito penale

istituti fino ad allora sconosciuti, con misure coercitive e correzionali

derivanti da una concezione dell’infanzia come un’età subalterna,

dipendente dall’autorità di coloro che erano preposti all’educazione. Il

controllo sociale continuava ad essere l’obiettivo prioritario, con la

conseguenza che la categoria educativa della repressione informava

ancora ampiamente la prassi formativa, in un sistema ove il castigo era

considerato lo strumento privilegiato, indispensabile e necessario del

formare: si puniva per correggere, si puniva per educare70.

Bisognerà attendere il secolo scorso per scorgere i segni di una

moderna concezione dell’infanzia volta alla tutela del minore, foriera di

un approccio pedagogico più adeguato ed intenzionale che, liberandosi

dal pregiudizio moralistico e da istanze repressive, cominciasse ad

affrontare i fenomeni della devianza e della marginalità attraverso

69

http://www.amministrazioneincammino.luiss.it/wp-content/uploads/2010/09/Salvati_Giustizia-Minorile.pdf 70

Ibidem.

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paradigmi interpretativi più attenti alla specificità del minore. Si faceva

largo, infatti, il principio secondo cui mettere insieme adulti e minori

potesse rafforzare un’identità deviante e con esso appariva sempre più

chiara la necessità di separare il sistema penale dei minorenni da quello

degli adulti attraverso una differenziazione degli interventi. Crebbe

lentamente l’attenzione verso la persona umana e i diritti dell’uomo,

risultando ormai intollerabili le condanne eccessivamente severe,

l’esecuzione di pene detentive in condizioni di promiscuità e l’evidente

inadeguatezza degli interventi penali nei confronti dei minorenni. In

risposta a queste situazioni problematiche, gli studi antropologici e

sociologici favorirono la creazione negli Stati Uniti del Child-saving

movement, il quale diede vita ad un vero e proprio movimento di

opinione che spinse verso la creazione di una Commissione, da cui derivò

l'idea della istituzione di un Tribunale speciale per l'infanzia, idea che si

concretizzò a Chicago nel 1899 con l’istituzione della prima Juvenile

Court, di marcata impronta paternalistica, in quanto il giudice,

assumendo il ruolo del “buon padre di famiglia”, aveva il compito di

osservare il minore e di disporre circa la sua educazione o correzione.

Al successo americano fece eco negli anni successivi un analogo

sviluppo europeo, cosicché tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del XX

secolo fecero la loro comparsa, prima nel mondo anglosassone e

progressivamente nel resto d’Europa, i primi Tribunali per i Minorenni,

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organi giudiziari che si occupavano esclusivamente dei soggetti di minore

età71.

Rispetto a quanto si è verificato nelle altre nazioni europee ed

extraeuropee, in Italia l’introduzione di una giurisdizione specializzata si

è avuta relativamente tardi. Il primo passo in tale direzione risale al

progetto Quarta-Vacca del 1908, ma solo nel 1934 con il R.D.L. 140472 fu

istituito il Tribunale per i Minorenni quale organo di decisione autonomo,

rispetto agli altri tribunali penali e civili, e specializzato in relazione alle

peculiarità della condizione minorile73, cui furono attribuite competenze

penali, civili e amministrative. Tale introduzione è espressione del

riconoscimento delle peculiari esigenze educative dei minori e della

necessità di un trattamento differenziato rispetto a quello degli adulti

nella procedura penale e nell’esecuzione di pene e misure74. Seppur

lentamente, la risposta giudiziaria alla devianza ed alla delinquenza

minorile cominciava ad essere frutto di una giustizia che andava sempre

più sensibilizzandosi verso la specificità propria della minore età. Questo

percorso graduale evolutosi nel tempo vide l'’intervento giudiziario

71

Nel 1895 venne inaugurata la Juvenile Court di Birmingham e nel 1908 tali istituzioni divennero obbligatorie in

Inghilterra, in Scozia ed in Irlanda con il Children Act, un vero e proprio statuto per i minori il quale, tra l'altro, oltre a

prevedere che nessun ragazzo minore di sedici anni potesse essere condannato al carcere, abolì anche quasi del tutto la

pena di morte per i minori. Leggi simili vennero promulgate anche in Francia e in Belgio nel 1912 e, dopo il Congresso

internazionale del Tribunale per i Minorenni, tenutosi a Parigi nel 1913, giurisdizioni speciali per minorenni furono create

anche in Olanda (nel 1921) ed in Germania (leggi del 1922 e 1923). 72

R.D.L. 20 Luglio 1934, n. 1404, Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni, convertito in legge, con

modificazioni, dalla L. 27 maggio 1935, n. 835. 73

IL T.M. è un organo giudiziario ordinario, specializzato, a composizione mista: la specializzazione è assicurata dalla

presenza in sede decisionale e, in molti casi a he ist utto ia, di u ittadi o e e e ito dell'assiste za so iale, s elto tra i ulto i di iologia, di psi hiat ia, di a t opologia i i ale, di pedagogia , ossia di u giudi e o o a io espe to i

ate ia edu ativa a a to a due agist ati togati: l i te dis ipli a ietà della o posizio e vie e a o figu a si p op io come funzionale a ga a ti e la o pete za p ofessio ale i hiesta pe u a e i a ie a adeguata l i te esse del i o e; successivamente la legge 888/1956 porterà a due il numero dei componenti onorari (un uomo e una donna); anche la

prevalenza del rito camerale va letta quale segno di specializzazione. 74

Gli scopi del decreto del 1934 furono così riassunti: "specializzare il giudice minorile nella forma più completa e più

ampia; indirizzare risolutamente la funzione punitiva verso finalità del riadattamento del minorenne; organizzare un

sistema di prevenzione della delinquenza minorile con la rieducazione dei traviati; rendere possibile ai minori che

delinquirono, o che furono ritenuti semplicemente traviati, il ritorno alla vita sociale senza che alcuno possa ad essi

opporre la qualifica dei precedenti trascorsi".

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passare da un’iniziale fase centrata sulla punizione e la pena detentiva,

ad una successiva orientata all’assistenza, ad un terzo orientamento

centrato sul trattamento75.

Nella prima fase, dall’istituzione del Tribunale per i Minorenni agli

anni ’50, prevalse il modello punitivo - repressivo, proprio della scuola

classica, mirato essenzialmente alla punizione del reo, al controllo

sociale e alla sicurezza dei cittadini, concretizzatosi nell’assoluta

prevalenza di risposte istituzionali poiché la funzione di controllo e di

contenimento della devianza passava sempre per l’inserimento in

un’istituzione76, in quanto l’idea di fondo era che la devianza fosse una

scelta di carattere ideologico - morale, e pertanto richiedesse in risposta

interventi correttivi attuabili solo attraverso una presa in carico totale in

strutture separate. Tuttavia vi fu anche una maggiore attenzione alle

peculiari esigenze dei minorenni nell’area penale: la modifica della

fascia di minori imputabili, con l’innalzamento dei limiti di età minimi

(dai 9 ai 14 anni) e massimi (dai 14 ai 18), la sostituzione della categoria

del discernimento con quella della capacità di intendere e di volere,

stabilite dai Codici Rocco del 1930, l’istituzione del Tribunale per i

Minorenni e la previsione di nuovi istituti e norme per l’applicazione

delle misure penali e amministrative del 193477, possono essere

75

D. Izzo, A. Mannucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit., p. 247. 76

Ivi, p.248. 77

Con il RDL 1404/34 il legislatore in materia penale a pliò l a ito di applicazione sia del perdono giudiziale (già

i t odotto dall a t. dei Codi i ‘o o , p evede do e l appli azio e i aso di pe a dete tiva o supe io e a due a i (art.19), sia della sospensione condizionale della pena concedibile ai minori nel caso di pena concretamente applicabile

non superiore a tre anni (art.20); divenne possibile, poi, secondo la previsione dell'art. 21, che durante l'esecuzione, fosse

ordinata la liberazione condizionale del minore in qualunque momento e qualsiasi fosse la misura della pena; in materia

amministrativa fu, i ve e, ileva te l i t oduzio e di misure di correzione se o do ua to sa ito dall a t. ivolto ai

minori di anni 18 che per abitudini contratte dava prova di traviamento ed appariva bisognoso di correzione morale; in tal

aso il giudi e poteva o di a e l i te a e to del i o e i istituto pe o ige di; tali isu e te deva o ad i t odu e un controllo sociale rafforzato sulla devianza, caratterizzato da forme di coazione legale; inoltre, il trattamento non aveva

una durata prestabilita: terminava solo quando il soggetto non appariva più "bisognevole di correzione" o al compimento

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considerate come le prime le tappe di una nuova fase della giustizia

minorile e una prima, cauta integrazione della competenza medica con

quella delle scienze psicosociali78. In particolare, con l’introduzione

della competenza amministrativa, veniva a delinearsi un sistema di

risposta al disadattamento ed alla devianza caratterizzato da alcuni

elementi peculiari. Innanzitutto l’applicazione di tali misure non era

legata alla commissione di un reato, ma al manifestarsi di

comportamenti difformi dalla normalità79, considerati, solo in ragione di

ciò, prodronimici alla delinquenza. In secondo luogo l’intervento era

fondato su valutazioni di opportunità e non sul principio di legalità,

motivo per cui le misure applicate non avevano una durata prestabilita,

ma proseguivano “sino a quando ce n’è bisogno”, con il solo limite della

maggiore età. Infine tali misure erano gestite dall’amministrazione

centrale dello Stato80.

Una seconda fase della giustizia minorile, dagli anni cinquanta fino

alla metà degli anni ’60, fu invece orientata al modello dell’assistenza,

che recependo i principi della scuola positiva e incentrando l’attenzione

sulla personalità del minore, privilegiò un intervento di tipo assistenziale

terapeutico. Si affermava la tendenza a guardare oltre il reato,

considerato come espressione sintomatica di un disagio interpersonale e

familiare, cui conseguiva la possibilità di un intervento di prevenzione.

della maggiore età. Tali isu e, o siste ti i izial e te ella sola asseg azio e dei t aviati ai ifo ato i pe o ige di si modificano e arricchiscono a seguito della legge n. del fissa dosi elle due atego ie del ollo a e to i case di rieducazione o istituti medico-psico-pedagogi i e dell affida e to al se vizio so iale i o ile. 78

G. De Leo, P. Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, cit., pp. 45-46. 79

Co po ta e ti defi iti p i a o e t avia e to el ‘.D.L. . / , poi o e i egola ità della o dotta dalla legge 888/56. Attualmente si tende ad inquadrarli nella categoria della devianza, sebbene tale termine non sia stato

ancora recepito in testi legislativi. 80

M. Cavallo (a cura di), Pu i e Pe hé. L’espe ie za pu itiva i fa iglia, a s uola, i istituto, i t i u ale, i a e e: p ofili

giuridici e psicologici, cit., pp. 115-116.

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E’ espressione di questa tendenza la legge n. 888 del 1956 che innova

profondamente la competenza amministrativa, detta altrimenti

"rieducazione", sostituendo il concetto di “traviamento” con quello di

“irregolarità per condotta o per carattere” e incentrandola su un doppio

ordine di misure: l’affidamento al servizio sociale e il collocamento in

casa di rieducazione81. Tuttavia l’esito di questo intervento si è rivelato

estremamente selettivo e discriminante in termini di classe sociale e di

marginalità, di processi di criminalizzazione della diversità e della

devianza giovanile, tant’è vero che dopo poco tempo questo sistema è

entrato in crisi, sotto la spinta dell’esigenza di rompere questo schema

rigido fondato sulla “separatezza”, determinando il passaggio alla fase

successiva centrata sul trattamento scientifico: la risposta alla devianza

doveva essere individualizzata, adeguata alla personalità del minore e

alla sua fase evolutiva e, soprattutto, consentire il confronto fra questi e

le norme proprie della società in cui è inserito82.

Agli inizi degli anni settanta cominciarono a diffondersi nuove teorie

che posero l'attenzione sugli effetti negativi dei processi istituzionali: si

faceva largo sempre più la percezione che la devianza non è né un

traviamento morale, né una malattia da curare in strutture separate

dalla società, da più parti veniva sostenuta la necessità di una de-

istituzionalizzazione, gli strumenti amministrativi iniziavano a perdere

d'importanza, il carcere viene visto come un elemento negativo,

81

La legge 25 luglio 1956 n. 888, Modificazioni al regio decreto legge 20 luglio 1934, n.1404, odifi a do l a t. del ‘DL , sostituis e, i ate ia a i ist ativa, il o etto di traviamento o uello di irregolarità per condotta o per

a atte e , introduce nuovi istituti meno contenitivi sul piano fisico adottando misure più rispondenti alla rieducazione

del minore quali l'affidamento al servizio sociale e il collocamento in casa di rieducazione, assegna a tutti gli uffici del

servizio sociale compiti di controllo e di sostegno del minore e facoltà di creare rapporti con la famiglia, sottolineando la

correlazione tra cause di disadattamento e carenze familiari. 82

D. Izzo, A. Mannucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit., p.248.

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criminogeno, incapace di realizzare la finalità risocializzativa e di

recupero del minore, la priorità diventa prevenire nel e sul contesto

sociale.

Frutto di queste contestazioni fu il D.P.R. n.616 del 1977, che segnò

un ulteriore passo verso la de-carcerizzazione minorile: esso infatti sancì

il superamento dell’istituzionalizzazione del minore deviante, con la

chiusura delle case di correzione e con la diffusione delle comunità83;

inoltre, in senso più ampio, accolse la tendenza a ricorrere all’istituzione

per i soli casi a rilevanza penale. Si tratta di una prima importante

chiarificazione normativa tesa a distinguere il sistema penale da quello

degli interventi educativo assistenziali84. Si riconosce la necessità di

creare condizioni di accoglienza dei minori in grado di superare la

spersonalizzazione tipica del ricovero nelle grandi strutture, diffondendo

una cultura dell’accoglienza in comunità a dimensione familiare, capace

di svolgere le funzioni di assistenza e di educazione dei minori

all’interno di relazioni significative con le figure adulte e attraverso una

progettualità educativa individualizzata (PEI). Gli anni ’70, dunque, sono

quelli che vedono il diffondersi delle prime comunità di questo tipo, ma

fu durante gli anni’80 che si poté assistere al superamento del concetto

di protezione dell’infanzia, con l’introduzione del più ampio concetto di

“tutela”, foriero di un intervento, che al taglio educativo affiancava,

privilegiandolo, quello tutelare, inteso come integrazione tra gli aspetti

protettivi e quelli di valutazione delle future prospettive di vita del

83

Il DPR 616 del 1977 inoltre prevede il trasferimento agli Enti Locali delle funzioni educative fino a quel momento

ese itate da o ga i statali o da istituzio i dipe de ti dall a i ist azio e della giustizia: i p ati a ve go o att i uiti ai

Comuni i compiti di attuare gli interventi rieducativi ed assistenziali. 84

G. De Leo, Patrizi, Trattare con adolescenti devianti, cit., p.51.

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minore85. L’intervento educativo, dunque, si apre alla prospettiva del

futuro del minore in una visione progettuale.

Tuttavia, nonostante questo progressivo riconoscimento del favor

minoris, il sistema è stato per lungo tempo manchevole di una risposta

giudiziaria alla devianza minorile che distinguesse il trattamento dei

maggiorenni da quello dei soggetti di minore età, considerati per lo più

“adulti particolari”86. Tale mancanza fu gradualmente superata grazie

alla svolta epocale nel modo d’intendere la condizione minorile,

realizzata dalla Costituzione, che ha permesso in seguito alla

giurisprudenza costituzionale di elaborare il principio del preminente

interesse del minore, secondo cui, gli interessi di ogni altro soggetto

coinvolto in un rapporto con questi devono essere sempre subordinati

alla tutela dell’interesse del minore. Il sistema di garanzie costituzionali

in favore del minore non è limitato alle disposizioni inserite tra i principi

fondamentali della Repubblica, in particolare degli artt. 2-387, ma si

completa con le previsioni di cui agli artt. 30-31 Cost.88, base della

tutela della gioventù e dell’infanzia nel nostro ordinamento, che,

anziché delineare forme episodiche di tutela in favore di soggetti

85

Dal pu to di vista legislativo l atte zio e al o etto di tutela t ova riscontro nella legge 184/83 che, ribadendo il diritto

del i o e ad esse e edu ato ell a ito della p op ia fa iglia a t. , dete i a a he u a t asfo azio e del fe o e o dell a oglie za dei i o i: l allo ta a e to o avvie e più elle situazio i i ui le diffi oltà fa ilia i so o soltanto di tipo economico, ma in tutte quelle situazioni in cui viene riscontrata una situazione di grande pregiudizio per il

i o e. Le o u ità so o osì hia ate ad i te ve i e se p e più i situazio i est e e , legate esse zial e te a fenomeni di maltrattamento intrafamiliare nelle sue varie forme. 86

G. F. Ricci, D. Resico, Pedagogia della devianza, op. cit., p. 169. 87

In particolare, l’a t. della Costituzio e, i o os e do e ga a te do i di itti i viola ili dell uo o, sa is e il di itto di ogni essere umano, a prescindere dalla maturità psicofisica raggiunta, a realizzare pienamente la propria personalità e

l’a t. Cost., impegnando la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno

sviluppo della persona umana, afferma, tra gli altri, il diritto del minore ad avere le necessarie occasioni di sviluppo per

una completa realizzazione della sua persona. 88

L’a t. Cost. afferma che la Repubblica protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a

tale scopo, mentre l’a t. Cost. riconosce la tutela della salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della

collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. I principi affermati in tali articoli e relativi al rapporto genitori-figli

hanno poi trovato attuazione con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha comportato una modifica nella

disciplina della patria potestà, sostituita dalla potestà dei genitori e concepita non più come diritto, bensì, in una

p ospettiva plu alisti a, o e fu zio e ell i te esse dei figli, vale a di e o e assu zio e di espo sa ilità ei lo o confronti.

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istituzionalmente deboli, si pongono quali elementi costitutivi di una

strategia di intervento legislativo in cui il minore è riconosciuto titolare

di personalissimi diritti in quanto soggetto in formazione e il favor

minoris si concretizza nella promozione di tali diritti89.

Da più parti veniva ribadita la necessità di una riforma in materia

penale minorile, ma purtroppo, ancora oggi il nostro sistema penale non

prevede forme di punizione diverse per maggiorenni e minorenni, l’unica

specificità è che la sanzione può essere diminuita fino ad un terzo

rispetto alla pena edittale. Questa grave lacuna è stata in parte colmata

con la riforma del sistema processuale penale attuatasi il 22 settembre

1988 con l’emanazione del d.p.r. n. 448, intitolato “Approvazione delle

disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”, con il

quale è stato varato quello che viene definito il Codice di Procedura

Penale per i Minorenni (c.p.p.m.), entrato in vigore nel 198990: in esso

infatti sono contenute “disposizioni” avente carattere speciale rispetto a

quelle del c.p.p., in quanto, tenendo conto delle particolari esigenze del

minore, cercano di ridurre il più possibile gli effetti stigmatizzanti del

processo per far diventare anche quest’ultimo uno strumento di crescita

rispondente alle finalità rieducative della giustizia minorile91.

89

http://www.cde.unict.it/sites/default/files/Quaderno_47_dicembre_2012.pdf 90

Il d.p.r. 22 settembre 1988, entrato in vigore con D. L.vo n. 272 del 24 ottobre 1989, (recante le norme di attuazione, di

coordinamento e di transizione del DPR 448/88), consta di soli 41 articoli tesi a garantire al minorenne non solo un proprio

giudi e spe ializzato, a a he u suo p op io p o esso , egolato da o e dive se da uelle p eviste pe il maggiorenne, perché tagliato sulla sua personalità e sulle esigenze del suo iter evolutivo, ispirate al principio della

iduzio e del da o , fi alizzato ad attiva e tutte le fo e possi ili di i te ve to pe evita e il is hio di u a possi ile e

irreversibile compromissione del rapporto minore - società. 91

Ciò si evi e dalla disposizio e o te uta ell a t. o ma 1, in cui si evidenzia che nel procedimento a carico di

minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di

procedura penale. Tali disposizioni sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del

minorenne.

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Il nuovo codice di procedura penale minorile disegna

intenzionalmente un processo su misura del minore, in cui il fine

rieducativo prevale nettamente sulle esigenze di difesa sociale, mentre

l’attenzione e l’azione dell’ordinamento vengono spostate chiaramente

dal fatto reato alla persona: la pena perde quasi completamente il

carattere di castigo a favore dei fini di prevenzione ed educazione92.

Le disposizioni contenute nel D.P.R. n. 448/88, recependo tra l’altro

pienamente le indicazioni delle direttive degli organismi internazionali,

segnano una svolta giuridica e culturale fondamentale ed esprimono

l’attuale atteggiamento di politica penale minorile. L’orientamento

dell’ultimo ventennio, infatti, su questa scia, si è indirizzato sempre più

ad una restituzione al sociale del problema della devianza, poiché è nel

contesto ambientale che il minorenne può trovare ed attivare le risorse

necessarie per orientare il proprio cammino93.

L’idea di fondo è quella di perseguire il fine del reinserimento

sociale, responsabilizzando il soggetto e promuovendo il suo recupero

senza ricorrere allo strumento detentivo, secondo il principio della de-

carcerizzazione. In questo mutamento di ottica ha trovato spazio il

modello ripartivo che, secondo i principi della ristorative justice,

considerando il reato prioritariamente nei termini del danno causato, si

pone come un modello di intervento sui conflitti caratterizzato dal

ricorso a strumenti che promuovono come opportuno e necessario il

coinvolgimento attivo di tutte le parti coinvolte nel reato: vittima,

agente e comunità, nella comune ricerca di strategie volte a riparare il

92

Ivi, p.170. 93

D. Izzo, A. Mannucci, M. R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, op. cit., p.249.

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danno cagionato dal fatto delittuoso e la riconciliazione tra autore e

vittima94.

In quest’evoluzione, come già affermato, un ruolo fondamentale nel

sancire gli impegni degli Stati nei confronti dei minori autori di reato è

stato giocato dalla normativa internazionale ove la necessità della

specializzazione della disciplina penale minorile ha trovato ampio

riconoscimento. In riferimento a ciò, appare d’obbligo richiamare

almeno tre disposizioni in particolare: le Regole Minime per

l’amministrazione della giustizia minorile, cosiddette Regole di Pechino,

approvate dall’ONU nel 1985, che costituiscono la fonte più prossima alla

quale si è ispirato il nostro processo penale minorile95; la

Raccomandazione del Consiglio d’Europa, intitolata Le reazioni sociali

alla delinquenza minorile del 198796; la Convenzione Internazionale sui

diritti dell’infanzia, approvata a New York del 1989, che segna una

svolta radicale, non solo sul piano penale, ove delinea l’essenza del

processo penale minorile, indicando il ricorso al carcere come extrema

ratio, ma anche sull’intero sistema minorile in quanto stabilisce che, in

94

Ai p i ipi della giustizia ipa tiva ispi ato l istituto della sospensione del processo e messa alla prova in quanto volto

a promuovere la responsabilizzazione del reo mediante progetti pe so alizzati i ui l auto e di eato i o e e assu e impegni di comportamento e intraprende attività diverse che possono anche includere la mediazione e la riparazione nei

o f o ti delle pe so e offese dal eato ; i M. Cola ussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, FrancoAngeli Editore,

Milano, 2012, p.85. 95

Le C.d. Regole di Pechino, approvate dal VI Congresso Nazioni Unite il 29 novembre 1985, New York, stabiliscono le

Regole Mi i e pe l’a i ist azio e della giustizia i o ile, precisando come prospettiva fondamentale che gli Stati

sono tenuti, secondo i loro interessi generali, a tutelare il benessere del minore e della sua famiglia. Lo spirito innovativo

he le i fo a può esse e i t a iato i pa ti ola e ei segue ti a tt.: all a t. , ove è precisato che il sistema di giustizia

minorile deve avere per obiettivo la tutela del giovane ed assicurare che la misura adottata nei confronti del giovane sia

proporzionale alle circostanze del reato e all'autore dello stesso; all a t. i o so a isu e ext a-giudiziarie) in cui si

afferma che dovrebbe essere considerata l'opportunità, ove possibile, di trattare i casi dei giovani che delinquono senza

ricorrere al processo formale da parte dell'autorità competente; all a t. De isio e al te i e del giudizio) ove si legge

che l'autorità competente può concludere il giudizio mediante forme molto diversificate, consentendo una grande

flessibilità allo scopo di evitare per quanto possibile il collocamento in istituzione. Nella giustizia minorile tali Regole hanno

rappresentato un costante punto di riferimento per le scelte del legislatore. 96

Le Ra o a dazio i del Co siglio d’Eu opa n. 20 del 1987, occupandosi di risposte sociali alla delinquenza minorile,

dispongono che fin dove possibile il sistema penale deve lasciar spazio ad istituti riconducibili a forme di diversion e di

mediation, oppure, se non è possibile rinunciare a ricorrere al sistema penale, debbano essere individuate strategie

sanzionatorie che offrano alternative valide, praticabili e rieducative alla pena detentiva.

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tutti i casi in cui si ha a che fare con i minorenni, preminente

importanza va attribuita all’interesse del fanciullo97.

In particolare i primi due atti internazionali citati ribadiscono il

diritto del minore ad un suo proprio processo con tutte le garanzie,

facendo emergere un modello di giustizia minorile “agile e veloce,

pensato per un contesto istituzionale di forte presenza di servizi

educativi del territorio a cui fare ricorso in alternativa al giudizio”98, un

modello che afferma fortemente la finalità educativa e di recupero

dell’intervento penale minorile, sottolineando l’importanza di un

processo tagliato non sul reato ma sulla persona.

In linea con tali indicazioni, pienamente recepite, la riforma del

processo penale minorile basa le sue fondamenta su alcuni principi

peculiari, espressione dello spirito di cui essa è informata99.

Il principio di adeguatezza, in virtù del quale il processo, considerato

un evento delicato ed importante nella vita del giovane reo, persegue

l’obiettivo primario di applicare le norme tenendo presente le esigenze

educative del minorenne e di adeguare ogni intervento alla sua

personalità100. Viene ridimensionata notevolmente, sul piano valoriale, la

pretesa punitiva dello Stato, per lasciare spazio alla nuova funzione

educativa attribuita alla risposta giudiziaria, attuata attraverso

97

La Convenzione di New York fu app ovata il ove e del dall Asse lea Ge e ale delle Nazio i U ite: in essa,

i pa ti ola e all a t. , vi s olpita l esse za del p o esso pe ale i o ile; al o a e ita:gli Stati riconoscono a ogni

fanciullo sospettato, accusato o riconosciuto colpevole di reato penale il diritto a un trattamento tale da favorire il suo

se so della dig ità e del valo e pe so ale, he affo zi il suo ispetto pe i di itti dell’uo o e le li e tà fo da e tali e che

tenga conto della sua età nonché della necessità di facilitare il suo reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo

ost uttivo i se o a uest’ulti a. All a t. lett. a si evide zia i ve e he nessun fanciullo sia sottoposto a tortura o a

pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti per poi continuare nella lett. b) ove dispone che l’a esto, la dete zione

o l’i p igio a e to devo o ostitui e u p ovvedi e to di e t e a atio e ave e la du ata più eve possi ile. 98

L. Fadiga, Le origini del processo penale minorile: i lavori preparatori del dpr 448/1988, in rivista Diritto Minorile, n.

1/2009, p. 2. 99

http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/minori/imperial/cap2.htmm; ma anche G. Assante, P. Giannino, F. Mazziotti,

Manuale di diritto minorile, Laterza, Bari, 2000, p. 256-263. 100

Cfr. art.3 co.1, L. Delega n. 81/87; art.1 co.1, d.P.R.448/88.

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interventi finalizzati a recuperare il giovane al rispetto della legalità,

non attraverso la pena detentiva, bensì attraverso una serie di risposte

concrete, tese al reinserimento sociale piuttosto che all’esclusione101.

Ciò comporta l’impegno della legge e di tutti gli attori del processo a

tenere conto delle caratteristiche di personalità del ragazzo e delle sue

esigenze educative in termini di criteri fondamentali per operare scelte,

per prendere decisioni e attivare interventi in sede processuale.

L’adeguatezza, secondo quanto afferma Palomba, va intesa “come

criterio di individuazione della modalità di applicazione delle

disposizioni facenti parte del sistema normativo processuale penale

minorile”102, in conformità con la finalità educativa e responsabilizzante

del processo penale minorile. La pena viene pertanto comminata

secondo il criterio dell’individualizzazione, in forza del quale essa va

scelta tra le possibilità a disposizione del magistrato secondo il criterio

della gradualità degli interventi, per poter essere adeguata alle singole

necessità.

Il principio di minima offensività, basato sulla constatazione che il

processo può causare al soggetto di minore età delle sofferenze

indelebili, se non adattato alle esigenze della sua età, elemento questo

che ha indotto il legislatore a introdurre istituti processuali tendenti a

porre il minore fuori dal circuito penale in modo anticipato, proprio con

lo scopo di eliminare o ridurre al minimo ogni stimolazione negativa e

valorizzare quanto di positivo può essere rintracciato nell’evento

101

M. Colamussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, FrancoAngeli Editore, Milano, 2012, pp.48-49. 102

F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, Milano, 1991, p. 101.

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60

reato103. La strategia della riduzione del danno, nata nell’ambito dei

servizi per le tossicodipendenze, evidenzia senza dubbio un modo nuovo

per affrontare le situazioni di disagio e di devianza, spingendo verso la

realizzazione di interventi che coinvolgano attivamente la comunità

locale per evitare il rischio di una possibile e irreversibile

compromissione del rapporto minore-società: è proprio in base a questa

logica che, nel corso del processo minorile, viene richiesta la costante

collaborazione dei Servizi territoriali104.

Il principio di de-stigmatizzazione, riguardante l'identità sociale del

minore, che, sempre nella logica della minima offensività, si vuole

tutelare attraverso l'eliminazione di tutti quegli istituti che comportano

una stigmatizzazione ciò per evitare che l’entrata nel circuito penale

provochi nel minore un effetto traumatico105. Sono espressione di tale

principio gli istituti dell'irrilevanza del fatto e della messa alla prova,

che limitano il contatto del minore con il sistema penale. La logica

sottesa è quella di costruire un intervento penale che, come afferma

Isabella Mastropasqua, vada sempre più configurandosi non come “un

intervento meramente segregante e stigmatizzante, bensì teso al

recupero di quel processo educativo interrotto o deviato”106.

103

In particolare: la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art.27 c.p.p.m.), emessa quando l'ulteriore

corso del processo può arrecare pregiudizio alle esige ze edu ative del i o e; l istituto della messa alla prova (art.28

c.p.p.m.), che in caso di esito positivo della prova (art. 29 c.p.p.m.) evita al minore anche gli effetti stigmatizzanti di una

condanna penale. Inoltre, anche le misure cautelari (artt.19-23) devono essere attuate in modo da evitare il più possibile

al minore, i disagi e le sofferenze materiali e psicologiche, che possono derivare dalla loro applicazione, avendo cura di

non interrompere i processi educativi in corso. 104

G. Assante, P. Giannino, F. Mazziotti, Manuale di diritto minorile, op. cit., p. 257. 105

La giustizia minorile assume il concetto che il processo di etichettamento proprio delle istituzioni totali come il carcere,

può (secondo il pensiero di sociologi quali Goffman e Becker) po ta e il agazzo ad adegua si alle aspettative dell alt o favorendo in tal modo la costruzione di una personalità deviante. In particolare Matza ha sottolineato gli effetti

stigmatizzanti molto resistenti del carcere che possono produrre identità negative e indurre a scelte di vita delinquenziali. 106

I. Mastropasqua, I minori e la giustizia. Operatori e servizi dell'area penale, Liguori, Napoli, 1997, p. 32.

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Il principio di residualità della pena detentiva, secondo cui

l’intervento penale, ispirato dai principi della decarcerizzazione e della

depenalizzazione107, sia posto in essere secondo il criterio del “massimo

riduttivismo carcerario”, in forza del quale il ricorso alla detenzione, va

considerato come extrema ratio e giustificato solo da rilevanti

preoccupazioni di difesa sociale.

Quanto evidenziato mette in luce che la peculiarità propria del

processo penale minorile è quella di considerarsi parte integrante del più

generale processo educativo, quale occasione, quindi, per prospettare al

minore che ha commesso un reato, la possibilità di scelte diverse

offrendogli delle chance educative. “Si punta - sottolinea ancora la

Mastropasqua su un processo inteso come momento importante per fare

chiarezza insieme al minore, per aiutarlo ad interiorizzare le regole

fondamentali del vivere civile”108. Ecco perché il processo penale deve

innanzitutto considerare l’iter educativo - evolutivo che il minore sta

compiendo e calibrare gli interventi su di esso, tenendo presente che “il

processo educativo non può e non deve essere interrotto in quanto una

sua eventuale interruzione può confondere, nuocere o destabilizzare

definitivamente e in maniera irreversibile una personalità in via di

strutturazione”109.

Alla luce di ciò appare chiaro che adeguare gli interventi da porre in

essere, vuol dire che nell’ambito del processo è possibile e necessario 107

I progetti di riforma del sistema penale sono orientati verso una crescente limitazione della pena carceraria secondo

tre le linee guida: la depenalizzazione, la degiurisdizionalizzazione e la decarcerizzazione.

La depenalizzazione consiste nella rinunzia alla sanzione da parte dello Stato per comportamenti non più considerati

meritevoli di repressione e di censura. La degiurisdizionalizzazione consiste nello spostamento di competenza dal giudice

penale ad altro organo non giudiziario, per lo più amministrativo. La decarcerizzazione è la tendenza a realizzare le varie

ipotesi di riduttivismo della pena detentiva. 108

I. Mastropasqua, I minori e la giustizia. Operatori e servizi dell'area penale, op. cit., p. 32. 109

G. Assante, P. Giannino, F. Mazziotti, Manuale di diritto minorile, op. cit., p. 259.

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elaborare un progetto educativo che riempia di contenuti le esigenze

educative del minore, un progetto che sia valido per quel singolo minore

e che sia costruito tenendo conto dei suoi bisogni, delle sue potenzialità

e delle sue richieste110. Ciò implica necessariamente una forte

specializzazione, ossia “un’effettiva e specifica preparazione e

professionalità di tutti i soggetti istituzionali che operano nel processo

minorile”, secondo quanto affermato nella Relazione di

accompagnamento al decreto in oggetto, professionalità capaci di

mettere al centro il minorenne nel suo essere persona. Specializzazione

da intendersi pienamente in linea con la concezione del processo sottesa

alla riforma “quale occasione di intervento in ordine ad un soggetto il cui

fatto è indice di carenze educative e di disturbi evolutivi ed al quale non

interessa l’accertamento di un evento oggettivo e di una responsabilità

ma la situazione storica del minore e la sua presa in carico”111.

Il processo minorile pone, dunque, quale finalità ultima quella del

recupero e della promozione del minore, concentrando l’attenzione

“sempre meno all’accertamento di un fatto di reato e di una

responsabilità - come sottolinea il giurista Bricola - e sempre più a

ricostruire la storia, il presente ed il futuro, di una situazione del

minore”112, facendo propria, dunque, un’attenzione che sappia guardare

il percorso e non l’epilogo. Tale finalità è ben espressa anche dalle

parole di Carlo Alfredo Moro, che chiarisce come “la riforma sottolinea

con forza che il processo penale deve avere come suo obiettivo quello di

110

Ivi, p. 260. 111

F. Bricola, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Indice Pen.1989, p.338. 112

Ivi, p.340.

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realizzare una ripresa dell'itinerario educativo del minore, che il

compimento dell'atto criminale dimostra essersi interrotto o avere

deviato, ma prevede anche che lo stesso processo si articoli in modo tale

da poter contribuire allo svolgimento di questo itinerario, avendo esso

stesso valenze educative”113.

2.3. L’introduzione dell’art. 28 come forma di probation

L’istituto emblematico, rispetto alla connotazione educativa del

processo penale minorile, è la sospensione del processo con messa alla

prova, introdotto e disciplinato dagli artt. 28 e 29 del d.p.r. n. 448/88 e

dall’art. 27 D. Lgv n. 272 del 1989114.

Tale beneficio giuridico rappresenta, unitamente alla pronunzia di

irrilevanza del fatto, la principale innovazione operata nell’ambito del

processo penale minorile e consiste nella possibilità di rinunciare alla

celebrazione del processo quando il giudice abbia motivo di ritenere che

l’adozione di determinati tipi di intervento siano sufficienti a garantire il

ravvedimento del minore. La decisione si fonda su una prognosi positiva

che porta a escludere una devianza radicata, individuando un disagio

superabile attraverso un percorso educativo che prevale nei confronti

della sanzione penale115.

Tale istituto viene considerato dalla prevalente dottrina una forma

particolare di probation, istituto del diritto penale di origine anglo- 113

C. A. Moro, Manuale di diritto minorile, Zanichelli, Bologna, 2002, p. 483. 114

L a t. del D.Lgv. . / Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del decreto del Presidente della

Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, recante disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni , riguarda

le modalità attuative della sospensione del processo e messa alla prova. 115

G. F. Ricci, D. Resico, Pedagogia della devianza. Fondamenti, ambiti, interventi, op. cit., p.172.

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americana116, che si viene a configurare come una particolare tecnica di

risposta al reato alternativa alla detenzione fondata su uno scambio fra

lo Stato ed il reo, ove il primo rinuncia alla sua pretesa punitiva in

cambio della dimostrazione, da parte del giovane di aver compreso il

disvalore del fatto reato da lui posto in essere e di non voler più tornare

a delinquere in futuro117.

Il probation è stato gradualmente recepito nell’ordinamento dei

singoli Stati, trovando pieno riconoscimento nella normativa

internazionale che, in diversi atti, ha sollecitato l’adozione di misure

alternative alla detenzione e al processo penale, riconoscendo un più

ampio margine di operatività a tutti gli interventi di diversion, atti a

promuovere un percorso alternativo a quello tradizionalmente

sanzionatorio di carattere retributivo. Gli organismi internazionali che

specificatamente si occupano della materia, come le Nazioni Unite e il

Consiglio d’Europa, da lunghi anni sostengono questa linea di pensiero

che ribadisce l’opportunità di articolare il sistema di difesa sociale con il

ricorso a misure differenziate, proporzionalmente alle esigenze di

controllo delle manifestazioni delinquenziali e a quelle di trattamento

dei loro autori. In particolare, le già citate Regole di Pechino prevedono

all’art.11 il ricorso a misure extra giudiziarie che, ponendo in essere

soluzioni di tipo ripartivo - restitutivo, diano la possibilità di evitare il 116

Nel sistema penale statunitense tale istituto sarebbe stato introdotto fin dalla prima metà del 1800, ma la sua

formalizzazione in legge avvenne nel 1876 nello Stato del Massachusetts e successivamente i I ghilte a. “i di e he la prima applicazione risalga all i iziativa di u alzolaio, u e to Joh A gustus, il uale el a Bosto vede do u

ise a ile atte de e il p o esso i u aula di giustizia, lo se tì affe a e he se avesse t ovato u a pe so a a i a avrebbe avuto la forza di comportarsi correttamente e con dignità. Credendo nella sua sincerità Angustus si offrì di

o upa si di lui ed otte e dal giudi e he l uo o o fosse o da ato alla p igio e. L espe i e to a dò e e e da allo a lo stesso alzolaio seguì olt e due ila pe so e; l espe ie za fu poi sa ita i legge el i F. Palo a, Il

sistema del nuovo processo penale minorile, op. cit. 117

M. Taraschi, Probation e comunità. Strumenti per una pedagogia della devianza, in AA.VV., Spunti di riflessione sulle

emergenze educative, Pensa Multimedia, Lecce, 2010, p. 135; ma anche A. Pulvirenti, Il giudizio e le impugnazioni in A.

Pennisi, (a cura di) La giustizia penale minorile: formazione, devianza, diritto e processo, Giuffrè, Milano, 2004, p.329.

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ricorso al processo formale, mentre all’art.18 viene sancita la possibilità

di “concludere il giudizio mediante forme molto diversificate”, laddove

la grande flessibilità prevista, risulta essere funzionale ad evitare quanto

più possibile il collocamento in istituzione. Nelle Raccomandazioni del

Consiglio d’Europa n. 20/1987, inoltre, viene indicato, quale possibile

strategia in materia penale minorile, il ricorso ad istituti riconducibili a

forme di diversion118 e di mediation119, tra cui appunto il probation.

Tali indicazioni sono andate concretizzandosi nei singoli Stati in

forme assai diversificate, tanto che, relativamente al probation, in

riferimento alle varie ipotesi attuative, è possibile individuarne quattro

diversi tipi, a seconda del momento in cui viene applicata la misura:

probation di polizia; probation giudiziale nella fase istruttoria; probation

giudiziale nella fase del giudizio con sospensione dell’esecuzione della

condanna; probation penitenziario.

Nella normativa italiana hanno trovato espressione le sole forme del

probation giudiziale, che, intervenendo nella fase del giudizio, ha un

effetto sospensivo–probatorio, rintracciabile nell’introduzione della

sospensione del processo e messa alla prova; e quella del probation

penitenziario, consistente in una modalità di esecuzione della pena,

118

La diversion è una particolare modalità di risposta al reato che comporta la sottrazione del minore dal circuito

giudizia io edia te p o edi e ti ext agiudiziali, a o p i a he o t o di lui ve ga ese itata fo al e te l azio e penale. La diversion si sostituisce alla pena ed al processo in favore di programmi di trattamento guidati da organizzazioni

indipendenti dal sistema giudiziario anche se le prescrizioni sono sempre imperative. In Italia non vi sono forme di

diversion, intesa in senso stretto, in quanto, differentemente dai Paesi di Common Law, il nostro ordinamento prevede

l o ligato ietà dell azio e pe ale sa ita dall a t. Cost. La mediation si colloca nel contesto della cosiddetta giustizia ripartiva, sviluppatasi nella prospettiva di una maggiore

attenzione alle vittime dei reati; il quadro è quello della composizione del conflitto, dove un terzo neutrale consente il

o f o to t a le pa ti; ell o di a e to italia o a a u a o a spe ifi a, a la ediazio e t ova spazi di legitti azio e el p o esso pe ale i o ile: ell appli azio e dell a t. , i fatti, il giudi e può i pa ti e p es izio i dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato. 119

Ivi, p.136.

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recepita nel nostro ordinamento con l’affidamento in prova al servizio

sociale, disciplinato dall’art. 47 dell’ordinamento penitenziario120.

In particolare, nel nostro ordinamento, l’istituto della messa alla

prova è ispirato al juvanile probation statunitense, che prevede

l’allontanamento del giovane delinquente dal sistema penale formale

“mettendolo alla prova” per un determinato periodo di tempo, in cui

dovrà comportarsi in maniera socialmente corretta. Durante il periodo di

prova il minore viene affiancato dalla figura del probation officer che

svolge funzioni di sostegno, di aiuto ma anche di controllo e di verifica

degli obiettivi imposti.

Questa forma di probation si presenta come una forma alternativa

alla detenzione e viene disposta dal giudice una volta accettata la

responsabilità del minore con una pronuncia di condanna121. Al riguardo

è interessante considerare che proprio in quest’elemento di differenza

con la modalità italiana, è possibile rintracciare la portata innovativa

della formula adottata dal nostro Paese anche rispetto agli altri Stati

europei. In essi, infatti, l’applicazione del probation è prevista

generalmente nella fase di esecuzione della pena, dunque

successivamente al processo e ad una sentenza di condanna divenuta

irrevocabile e, pertanto, applicandosi nella fase esecutiva della pena,

incide unicamente sulla quantità e sulla qualità della stessa.

120

Recentemente la Legge 28 aprile 2014, n. 67, Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di

riforma del sistema sanzionatorio, ha i t odotto l istituto della essa alla p ova el p o esso pe ale a a i o dei maggiorenni, così come è modificato il Codice di Rito al Titolo V BIS, rubricato Sospensione del procedimento con messa

alla prova. La sua attuazione tuttavia trova limiti di carattere oggettivo o può esse e o essa più di u a volta; ammessa solamente per i reati puniti con pena pecuniaria, ovvero, per i reati puniti con pena detentiva nel massimo non

superiore ad anni quattro) e di carattere soggettivo (non può essere concessa a colui che sia stato dichiarato delinquente

professionale, abituale ovvero per tendenza). 121

Nel processo minorile statunitense il momento della o da a isulta s isso da uello dell i ogazio e della sa zio e, nel lasso di tempo intercorrente tra le due udienze il probation officer deve investigare sulla vita del minore e sulle

caratteristiche del reato presentando al giudice un report il cui scopo è quello di fornire al giudice gli elementi in base ai

quali stabilire se concedere o meno il probation ed in quale forma.

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La messa alla prova introdotta nel processo penale minorile italiano

è, invece, una misura dalla cui applicazione deriva la sospensione del

processo che rende l’impatto con il sistema formale di giustizia minimo.

Tale istituto, infatti, qualificato dal c.p.p.m. un modo di definizione

anticipata del procedimento, viene da alcuni più propriamente definito

una fase processuale eventuale ed aperta, nel senso che, pur svolgendosi

sotto il controllo del giudice e dei servizi interessati, non trova alcuna

formale articolazione nelle aule di giustizia, se non nelle udienze di

deliberazione e di valutazione dell’esito122. In tal senso è possibile

affermare che il probation italiano può considerarsi una forma di

diversion, della quale recepisce alcune caratteristiche, rintracciabili nel

rendere possibile una rapida fuoriuscita del minore dall’iter processuale,

seppur successivamente all’esercizio formale dell’azione penale e

nell’affidamento del reo agli organi assistenziali.

La sospensione del procedimento penale con relativa messa alla

prova del minore, infatti, è accordata generalmente nella fase

dell’udienza preliminare, più raramente in quella dibattimentale, sulla

base di un giudizio prognostico relativo alle possibilità di reinserimento

sociale e di recupero del minore. Il giudice, infatti, come recita l’art. 28

al co. 1, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del

processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne

all'esito della prova. Durante il tempo della sospensione al giovane reo è

chiesto di impegnarsi in un processo di cambiamento, attraverso

opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno elaborate

122

M. Covelli, A. Di Marco, U. Pastore, Le possibilità definitorie nel processo penale minorile, op. cit., p 56; ma anche F.

Palomba, Il sistema del processo penale minorile, op. cit.

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dai Servizi minorili dell'amministrazione della giustizia cui egli viene

affidato, in collaborazione con i Servizi locali123.

Il ragazzo viene dunque “messo alla prova” attraverso prescrizioni

costruite sulla sua personalità, miranti a riprendere il percorso educativo

interrotto e promuovendo anche, ove possibile, la riparazione delle

conseguenze del reato e la conciliazione con la vittima124. A tali obblighi

il giovane dovrà attenersi, per evitare l’ulteriore prosieguo del processo

a suo carico e l’irrogazione della pena: la messa alla prova, infatti, in

caso di ripetute violazioni può essere revocata125.

La concessione di tale beneficio giuridico da parte del giudice è

subordinata ad accurati accertamenti sulla personalità del ragazzo,

come previsto all’art. 9 del c.p.p.m126, che vengono a porsi quale

esplicito presupposto applicativo della misura. Di notevole importanza,

infatti, risultano essere le risorse personali, familiari, sociali e

ambientali, nonché le caratteristiche della personalità del

minorenne127, attraverso le quali si può ipotizzare il suo recupero e

pianificare il progetto di messa alla prova, cui il ragazzo dovrà esprimere

il suo consenso e la sua accettazione.

123

Cfr. Art. 28 co. 2 d.p.r. 448/88. 124

Ibidem. 125

Cfr. Art. 28 co. 5 d.p.r. 448/88. 126

L a t. del d.p.r. 448/88 ribadisce: 1. Il pubblico ministero e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le

risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l'imputabilità e il grado di

responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali

provvedimenti civili. 2. Agli stessi fini il pubblico ministero e il giudice possono sempre assumere informazioni da persone

che abbiano avuto rapporti con il minorenne e sentire il parere di esperti, anche senza alcuna formalità. 127

Il concetto di personalità, general e te, si ife is e al o plesso delle disposizio i psi hi he dell uo o he si ifletto o sul modo di reagire alla situazione esterna, di perseguire gli interessi, di soddisfare i bisogni, di raggiungere i fini;

l o ga izzazio e di a i a degli aspetti og itivi, affettivi e volitivi dell uo o; l i sie e delle a atte isti he di ias u individuo quali si manifestano nelle modalità del suo vivere sociale, nelle sue interrelazioni con il contesto; essa

ostituis e l aspetto di a i o dell esiste za dell uo o. Il nostro sistema penale, tenendo conto sia del fatto reato che del

suo autore, considera la personalità del reo ma solo in relazione al fatto reato, non come valutazione indipendente dal

fatto stesso. L a e ta e to della espo sa ilità i dividualizzata deve tener conto della personalità del reo ma va sempre

riferita ad un fatto specifico. Nel minorenne la responsabilità coincide con la valutazione della maturità.

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69

Altro requisito fondamentale è infatti quello della consensualità al

progetto: quasi tutta la dottrina ritiene che senza il consenso del

minorenne la messa alla prova sarebbe destinata a un sicuro insuccesso

poiché esso ha un chiaro intento responsabilizzante, finalizzato

all’acquisizione di maggiore autostima da parte del ragazzo, nonché di

consapevolezza e impegno relativamente al percorso che egli si propone

di voler intraprendere.

Tale elemento, inoltre, unitamente alla confessione del reo, letta

quale segno tangibile dell’assunzione di responsabilità da parte di

quest’ultimo, è considerato un presupposto cosiddetto “tacito” per

l’applicazione della misura, non desumibile, cioè, dalle norme, ma

entrato a far parte della prassi. In particolare la capacità da parte del

soggetto di percepire il disvalore della condotta posta in essere appare

indispensabile affinché il soggetto possa aderire coscientemente al

progetto rendendosi disponibile ad intraprendere un percorso per la

rimozione delle cause, interne ed esterne, che lo hanno determinato alla

devianza.

A questi vanno poi ad aggiungersi i presupposti cosiddetti “impliciti”

nel dettato normativo, quali: la previsione sull’esito positivo della

misura; l’assunzione di responsabilità e la disponibilità a intraprendere

un percorso di cambiamento da parte del minorenne, intese queste

come condizioni in cui l’imputato, attraverso il riconoscimento

dell’antigiuridicità del fatto compiuto e delle sue conseguenze, può

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predisporsi all’assunzione di una responsabilità processuale, come

adesione alla misura, impegno nel progetto e nella riuscita128.

Circa l’applicabilità della misura, invece, è da rilevare che

nell'introdurre l'istituto il legislatore non ha reputato opportuno

predeterminare un limite massimo di gravità del reato al di sopra del

quale non consentirne l'applicazione. Scelta, questa, che evidenzia

l'aderenza alle tesi della Scuola positiva che, spostando la propria

attenzione dal fatto al soggetto, considera il delinquente nella sua

globale personalità bio-psichica: infatti nel prevedere la possibilità di

applicare la misura della messa alla prova anche nei confronti dei minori

autori dei reati più gravi, quali l'omicidio, il legislatore ha scelto di

adeguare la sanzione alla personalità del reo, prescindendo dalla

specifica configurazione dell’azione commessa. In altre parole ciò che

viene valutato dal giudice minorile non è l'evento criminoso, o presunto

tale, ma il carattere del minore: la messa alla prova, dunque, modifica

l'ambito di intervento dal versante giudiziario a quello educativo,

l'oggetto del giudizio dal fatto alla persona, il tempo del giudizio dal

passato remoto al presente e al futuro129 e ciò proprio in ragione del

fatto che dal punto di vista psicologico tale istituto si basa sulla

considerazione che il minore è in un'età evolutiva e quindi quello che fa

ha un significato diverso da quello che avrebbe per un adulto. Inoltre,

tenendo in considerazione gli aspetti peculiari dell’adolescenza si

assume il dato che l’esistenza del minore ha possibilità di cambiamento

maggiori rispetto a quelle, comunque sempre presenti, che ha un adulto,

128

A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, Carocci, Roma, 2007, p. 22 e pp. 142-145. 129

F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova, 1992, pp. 557-558.

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motivando in tal modo l’opportunità che la possibilità di disporre

l'istituto non sia legata a criteri rigidi, quali la tipologia del reato

commesso, quanto invece a criteri dinamici, come la personalità

dell'adolescente. Riguardo all’applicabilità della misura, è opportuno

sottolineare, inoltre, che il legislatore non ha posto neppure un limite

verso il basso, quindi, in teoria, la sospensione potrebbe essere stabilita

anche di fronte a reati molto modesti. In linea di principio dunque la

messa alla prova coprirebbe tutti i reati che non siano da considerare

socialmente irrilevanti.

In base a quanto detto si potrebbe facilmente concludere che in tal

modo si privilegia il ragazzo più deviante, in quanto, attraverso la

riuscita della prova, potrà ottenere l'estinzione del reato e potrà quindi

in futuro eventualmente godere del perdono giudiziale, rispetto a quello

meno deviante, che, una volta ottenuto il perdono giudiziale, non potrà

più godere di tale beneficio. Tuttavia al riguardo osserva giustamente

Dusi che la legge deve trattare in modo diseguale situazioni diverse, per

cui “proprio individuando uno spazio specifico e differenziato, che

riguarda la messa alla prova, rispetto a quello interessato dal perdono

giudiziale, si ottiene un intervento giudiziario che non viola il principio

di uguaglianza”130. In altre parole ad un ragazzo, pienamente integrato

nel mondo sociale, che commette un reato episodico, non dev'essere

chiesto di cambiare vita, è sufficiente ricordargli che ha sbagliato e che

non lo deve fare più. Diversamente se quello stesso reato è commesso da

un adolescente, il cui stile di vita è la causa di quel comportamento,

130

P. Dusi, Le risposte possibili al reato minorile, in Minori e giustizia, n. 3, 1993, pp.14-16.

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dev'essergli chiesto di cambiare vita e deve essergli data la possibilità di

farlo. Se ci riesce, dev'essere premiato per il difficile compito che ha

saputo portare a termine. Pertanto se i giudici ritengono che per un

ragazzo sia educativo avere delle attività da svolgere sotto il controllo di

alcuni operatori e, indirettamente, del tribunale, devono disporre la

messa alla prova, indipendentemente dal fatto che in altro processo per

lo stesso reato, ma per un diverso ragazzo, abbiano preso un altro

provvedimento.

I giudici quindi devono cercare di comprendere come ogni ragazzo

reagirà alle decisioni prese dal tribunale: per alcuni adolescenti il

perdono giudiziale è una routine, una specie di farsa che dimenticano

velocemente. In questi casi è importante adottare il provvedimento di

messa alla prova, per responsabilizzare gli adolescenti sottoponendoli,

nello stesso tempo, ad un controllo131.

In sintesi, quindi, l’applicabilità della misura non è compromessa né

dall’eventuale esistenza di precedenti giudiziari e penali né da

precedenti applicazioni, né dalla tipologia del reato, anche se le

numerose ricerche circa le caratteristiche dei minori messi alla prova

evidenziano una netta prevalenza di “primari”, cioè di ragazzi al primo

incontro con il sistema giudiziario penale minorile, per altro in larga

maggioranza italiani, di sesso maschile, di età compresa tra i 16 e i 18

anni, prevalentemente autori di reati quali il furto, le violazioni delle

131

Ibidem.

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leggi in materia di stupefacenti, la rapina, le lesioni personali volontarie,

come si evince dal grafico di seguito riportato relativo all’anno 2014132.

Grafico 1 – Reati a carico dei minori per i quali è stato emesso un provvedimento

di messa alla prova nell’anno 2014. Valori per 100 reati.

Per quel che concerne, invece, la durata del periodo di sospensione

del processo, essa viene decisa dal giudice contestualmente alla

concessione della misura e può variare da un periodo non superiore a tre

anni, quando si procede per reati per i quali è prevista la pena

dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni,

ad un periodo non superiore a un anno negli altri casi133. Una volta

trascorso tale periodo, il giudice, ai sensi dell’art. 29134, fissa una nuova

udienza per la valutazione finale, nella quale, dichiara con sentenza

l’estinzione del reato se, tenuto conto del comportamento del

132

http://www.giustiziaminorile.it 133

Cfr. art. 28 co. 2 d.p.r .448/88. 134

Art. 29 d.p.r.448/88: Dichiarazione di estinzione del reato per esito positivo della prova: decorso il periodo di

sospensione, il giudice fissa una nuova udienza nella quale dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del

comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità, ritiene che la prova abbia dato esito positivo.

Altrimenti provvede a norma degli articoli 32 e 33.

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minorenne e dell’evoluzione della sua personalità, ritenga che la prova

abbia dato esito positivo. In caso contrario l’attività processuale

riprenderà dal momento in cui è stata interrotta così come previsto dal

medesimo articolo 29.

In tale udienza i Servizi sociali avranno il compito di relazionare

sull’andamento complessivo della prova ed esprimere una propria

valutazione in merito.

Valutare un processo educativo non è cosa semplice, pertanto quello

della verifica finale è indubbiamente un momento delicato, in cui, come

afferma Palomba, è importante tener presente che “al ragazzo non si

chiede una prestazione di risultato ma di impegno nell’adeguamento al

progetto”. Conseguentemente i criteri di valutazione della prova

dovrebbero essere coerenti con un livello più propriamente educativo e

guardare soprattutto la motivazione al cambiamento, vero cuore del

progetto.

Proprio a tal fine si rendono opportune costanti verifiche in itinere

volte ad accertare il rispetto da parte del minore degli impegni presi ed

apportare eventuali rimodulazioni al programma. Inoltre i continui

confronti in cui al minore è richiesto di rendere conto agli adulti

favoriscono il controllo degli impulsi, aiutano a confrontarsi con la realtà

e ad assumersi responsabilità.

La valutazione finale, invece, riguarda la decisione circa l’esito

positivo o negativo della prova in cui il collegio deve procedere a

realizzare due tipi di accertamento. Il primo accertamento riguarda il

comportamento tenuto dal minore durante la prova. Non è richiesto al

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minore tanto una continua e totale osservanza dell'insieme delle

prescrizioni impostegli, quanto piuttosto un comportamento che evidenzi

la sua completa adesione al progetto e la profonda comprensione di

esso. Possono essere tollerate delle trasgressioni non gravi ed isolate, in

presenza delle quali la prova, se fatta continuare, può dare esito

positivo. In sostanza la prova sarebbe costituita da segmenti successivi,

oggetto di volta in volta di una verifica da parte dei servizi: se questi

ogni volta formulano una valutazione di proseguibilità, significa che la

prova procede progressivamente in modo positivo. Per cui al momento

dell'udienza fissata per la valutazione conclusiva non verranno

evidenziate eventuali sporadiche trasgressioni, ma solamente che la

prova sia proseguita, fatto che dimostra che sono mancati i presupposti

per la revoca della stessa.

In secondo luogo, dovrà essere accertata l'evoluzione della

personalità del minore avvenuta nel corso della prova: il minore deve

avere compreso le ragioni per le quali fu disposta la sospensione e deve

aver mantenuto costante il consenso prestato al momento

dell'accettazione del progetto. Solo in questo caso, infatti, la prova avrà

prodotto dei mutamenti in positivo nel minore, che possono fare ritenere

che essa abbia avuto esito positivo.

Se l'esito di questi due accertamenti è positivo, verrà pronunciata, in

sede di udienza preliminare, una sentenza di non luogo a procedere ai

sensi dell'articolo 425 del codice di procedura penale, o, in sede di

dibattimento, una sentenza di non doversi procedere ai sensi

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dell'articolo 531 di tale codice135. La sentenza così pronunciata non è

suscettibile di iscrizione nel casellario giudiziale (art. 14 del D.P.R. 448

del 1988), il che comporta la relativa estinzione dei reati ascritti al reo.

La sentenza di estinzione del reato è una pronuncia molto favorevole per

il minore in quanto il giudizio positivo sulla personalità del minore fa

perdere allo Stato ogni interesse alla punizione.

In termini educativi e di recupero la portata del beneficio appare

enorme in quanto al minore viene data sia la possibilità immediata di

riprendere il proprio cammino dopo l’evento reato impegnandosi

concretamente in un progetto teso a non interrompere i suoi processi di

crescita, ma anche quella di “uscire pulito” dal circuito penale. Ciò a

conferma della natura destigmatizzante propria del probation, che offre

al ragazzo l’opportunità di voltare realmente pagina senza dover fare i

conti con le conseguenze devastanti dell’etichettamento conseguente

alla condanna, di certa ripercussione negativa sulla costruzione del suo

futuro. Tuttavia è bene ribadire che la messa alla prova non si configura

quale misura clemenziale, in quanto la dichiarazione di estinzione del

reato, come detto, è subordinata alla verifica del conseguimento di

un’evoluzione nella personalità del minore, attraverso la sua adesione al

progetto di intervento, intesa come comprensione dello stesso e impegno

per il suo rispetto. Esso si configura piuttosto come istituto di natura

premiale, in quanto l'estinzione del reato è ancorata al raggiungimento

della risocializzazione del minore. Ciò a differenza delle formule del

perdono giudiziale e dell'irrilevanza del fatto ove la formula liberatoria

135

http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/Minori/adduci/cap2.htm#h3

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77

interviene in modo acritico e sulla base di circostanze inerenti al reato,

oggettive, come la quantità di pena prevista per il reato commesso, per

il perdono giudiziale, o la tenuità del fatto, per l'irrilevanza, o

soggettive, come l'occasionalità del comportamento, sempre per

l'irrilevanza del fatto. Invece l'estinzione del reato ai sensi dell'art. 29

avviene attraverso un processo personale e sociale di chiarificazione, con

cui il minore "si guadagna" la perdita dell'interesse del sistema penale

verso di lui136.

Significativa è a tal proposito l’analisi storica dei dati sull’esito della

prova relativamente agli anni 2003-2013: essa pone in evidenza come

circa l'80% delle prove abbia esito positivo, oscillando da un valore

minimo di 79,3%, rilevato nel 2005, a quello massimo di 84,7%, relativo

al 2012137.

Il riscontro statistico sugli esiti della misura in esame appare dunque

essere estremamente positivo, tuttavia è bene fare attenzione a non

confondere il successo processuale della prova con il successo di

carattere sociale in termini di recupero del minore deviante. Come

afferma la criminologa Scivoletto, infatti, bisogna distinguere fra il piano

formale e il piano sostanziale: da una parte esiste il successo puramente

formale della prova, che è quello che produce l'archiviazione del

fascicolo processuale senza lasciare traccia nel casellario giudiziale del

suo protagonista, dall'altra quello sostanziale, che produce un effettivo

mutamento nella condotta del reo, recuperandolo socialmente138.

136

F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale minorile, op. cit. 137

Cfr. http://www.giustiziaminorile.it/statistica/analisi_statistiche/sospensione_processo/Messa_Alla_Prova_2014.pdf 138

C. Scivoletto, Dopo dieci anni la probation minorile verso la conciliazione-riparazione?, in Minori Giustizia 2, 1999.

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Proprio intervenendo nel processo penale con una soluzione che,

coniugando la punizione con l'educazione, opera prevalentemente nel

terreno educativo - affermano al riguardo Colamussi e Mestitz -“significa

scommettere sul futuro remoto del giovane, perché quello prossimo è

garantito dall’effetto premiale della prova consistente nell’estinzione

del reato. La prognosi positiva sull’evoluzione della personalità del

minorenne pertanto, non si limita al periodo di prova trascorso, ma si

proietta nel futuro come prospettiva di radicale cambiamento e

abbandono definitivo della scelta deviante”139.

E’ proprio la prevenzione di recidiva a giustificare la rinuncia da

parte dello Stato all’esercizio della sua potestà punitiva in favore

dell’interesse prevalente alla risocializzazione del minorenne.

Numerosi sono stati gli studi per osservare tale fenomeno e i risultati

circa l’efficacia della messa alla prova sono incoraggianti: dalle diverse

ricerche svolte dalla Colamussi e dalla Mestitz sugli effetti a lungo

termine del trattamento ricevuto in sede giudiziaria da minorenni autori

di reato, emerge con evidenza che la recidiva da adulti risulta bassissima

nel gruppo degli ex minorenni trattati mediante l’istituto della messa

alla prova140. Risultati, questi, per altro confermati anche da uno studio

di recente pubblicazione realizzato dal Dipartimento per la Giustizia

Minorile, dal quale emerge chiaramente un più alto tasso di recidiva

stimata per i giovani che hanno sperimentato altre misure rispetto alla

messa alla prova, indipendentemente dalla lunghezza della stessa141. Tali

139

M. Colamussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, op. cit., pp.147-148. 140

Ivi, pp. 147-150. 141

A.A. V.V., I numeri pensati – La recidiva nei percorsi penali dei minori autori di reato. Quade i dell’Osse vato io sulla devianza minorile in Europa, Gangemi, Roma, 2013.

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studi consentono di evidenziare che l’efficacia di questa misura non

rimane circoscritta all’evento processuale, ma si estende in una

prospettiva longitudinale di lunga durata attestando un cambiamento

effettivo nella personalità del minore deviante.

Un’ultima considerazione va infine fatta sull’introduzione dell’art.28

d.p.r. 448/88 nel nostro ordinamento, che, almeno inizialmente, non è

stato accolto con particolari entusiasmi, ma, al contrario, è stato

contrassegnato da un diffidente avvio, come evidenziato dalla Mestitz142,

caratterizzato da numerose difficoltà e resistenze culminate nei dubbi di

costituzionalità espressi dal C.S.M., che definì l’art.28 un istituto

“potenzialmente devastante” cui bisognava “porre qualche limite” per

evitare il dilagare dell’eccessiva impunità del giovane delinquente. Tali

dubbi, per altro respinti dalla Corte Costituzionale, che definì invece

tale istituto come “l’innovazione più significativa e coraggiosa del nuovo

processo penale minorile”, evidenziavano comunque la presenza di una

corrente di pensiero ostile e diffidente, il cui indicatore concreto è

rintracciabile nel fatto che la messa alla prova non è mai veramente

decollata per lunghi anni: per tutta la prima metà degli anni novanta,

infatti, il trend applicativo nazionale è rimasto stabilmente

caratterizzato da notevole cautela, solo all’inizio degli anni 2000 i casi

risultano, in valori assoluti, più che raddoppiati rispetto al 1996143.

Dalla serie storica riportata di seguito nella tabella 1, inerente il

periodo dal 1992 al 2014, si evince un andamento crescente del numero

142

A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 73. 143

Ivi, pp.73-74.

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dei provvedimenti di sospensione del processo per messa alla prova: da

788 casi nel 1992 a 3.261 nel 2014.

In tutto questo periodo ci sono stati soltanto due momenti in cui il

dato ha presentato una diminuzione: il 2006, anno in cui era stato

emesso il provvedimento di indulto e l’ultimo anno in esame.

Quest’ultimo decremento è stato pari a -5,6% rispetto all’anno

precedente e può essere letto, per il momento, come un assestamento

fisiologico dopo un periodo abbastanza lungo di continui aumenti.

Tabella 1 - Provvedimenti di sospensione del processo e messa alla prova ai sensi dell’art.28 D.P.R. 448/88 negli anni dal 1992 al 2014. Valori assoluti e variazioni percentuali. ANNI Provvedimenti

di messa alla prova (art.28 D.P.R.448/88)

Variazioni %

ANNI Provvedimenti di messa alla prova (art.28 D.P.R.448/88)

Variazioni %

1992 788 - 2004 2.177 16,9%

1993 845 7,2% 2005 2.145 -1,5%

1994 826 -2,2% 2006 1.996 -6,9%

1995 740 -10,4% 2007 2.378 19,1%

1996 938 26,8% 2008 2.534 6,6%

1997 1.114 18,8% 2009 2.701 6,6%

1998 1.249 12,1% 2010 3.067 13,6%

1999 1.420 13,7% 2011 3.217 4,9%

2000 1.471 3,6% 2012 3.368 4,7%

2001 1.711 16,3% 2013 3.456 2,6%

2002 1.813 6,0% 2014 3.261 -5,6%

2003 1.863 2,8%

Tuttavia una lettura più appropriata in merito, potrà essere data

solo con l’osservazione dei dati degli anni successivi, per comprendere

se, invece, si sta assistendo ad un’inversione di tendenza

nell’andamento del fenomeno, in termini di applicazione di questo

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particolare provvedimento o, ancora più genericamente, in termini di

numero di minori nell’area penale.

A questo proposito, si può aggiungere che i dati dell’utenza dei

Servizi della Giustizia Minorile dell’anno 2014 hanno evidenziato una

diminuzione dei minori nei Servizi residenziali ed una sostanziale

stabilità dell’utenza in area penale esterna.

Tabella 2 - Provvedimenti di sospensione del processo e messa alla prova ai sensi

dell’art. 28 D.P.R. 448/88 negli anni dal 1992 al 2014. Valori assoluti e rapporti.

*n.d. = Dato non disponibile

Dalla tabella si evince inoltre che anche il tasso di applicazione del

provvedimento, ottenuto mettendo a confronto il numero dei

provvedimenti di messa alla prova con il numero complessivo dei

minorenni denunciati per i quali l’Autorità Giudiziaria ha iniziato

l’azione penale, è in costante crescita a conferma che l’aumento

Anni Minorenni denunciati per i quali è iniziata l’azione penale (a)

Provvedi-menti di art. 28(b)

Rapporti (b/a)

Anni Minorenni denunciati per i quali è iniziata l’azione penale (a)

Provvedi-menti di art.28 (b)

Rapporti (b/a)

1992 26.928 788 2,9% 2004 20.591 2.177 10,4%

1993 24.451 845 3,5% 2005 19.289 2.145 10,6%

1994 25.807 826 3,2% 2006 19.702 1.996 11,1%

1995 25.683 740 2,9% 2007 19.174 2.378 10,1%

1996 26.568 938 3,5% 2008 18.636 2.534 12,4%

1997 22.936 1.114 4,9% 2009 19.970 2.701 13,6%

1998 24.138 1.249 5,2% 2010 20.907 3.067 13,5%

1999 25.294 1.421 5,6% 2011 20.458 3.217 14,7%

2000 17.535 1.471 8,4% 2012 * n.d. 3.368 15,7%

2001 18.965 1.711 9,0% 2013 * n.d. 3.456 * n.d.

2002 18.935 1.813 9,6% 2014 * n.d. 3.261 * n.d.

2003 19.323 1.863 9,6% * n.d

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nell’applicazione della misura è effettivo e non è influenzato dal numero

dei minori che entrano nell’area penale.

Ma la portata rivoluzionaria dell’istituto in esame è espressa

chiaramente anche nella relazione al testo definitivo delle disposizioni

sul processo penale a carico di imputati minorenni, che definisce

“un’innovazione coraggiosa” quella contenuta nella lettera e) dell’art. 3

della legge 16-2-1987, n.81144 -Delega legislativa al Governo della

Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale-

ispiratrice dell’introduzione della prova in corso di giudizio nel processo

penale minorile, chiaramente funzionale all’evoluzione della personalità

del minorenne e alla valenza peculiare di giudizio penale

nell’accelerazione in positivo di tale evoluzione.

In tal senso è possibile affermare che l’art. 28 rappresenta la

risposta legislativa all’esigenza avvertita dai giudici minorili di porre in

essere interventi adeguati alla personalità del minore, con l’obiettivo di

indurre nel giovane cambiamenti positivi, per restituirlo alla società

evitando il ricorso alla misura detentiva, proprio nella consapevolezza

che il recupero del reo avviene più facilmente nel suo ambiente di vita

quotidiano che non attraverso la detenzione, che al contrario, ne

comporterebbe l'isolamento se non addirittura l’inserimento in un

contesto di “scuola della devianza” quale spesso è il carcere.

144

Tale articolo invita a disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato

secondo i principi generali del nuovo processo penale, con le modificazioni e integrazioni imposte dalle particolari

o dizio i psi ologi he del i o e, dalla sua atu ità e dalle esige ze della sua edu azio e o h dall attuazio e di alcuni criteri, individuati alla lettera e) nel dovere del giudice di valutare compiutamente la personalità del minore sotto

l’aspetto psi hi o, so iale e a ie tale, a he ai fi i dell’app ezza e to dei isultati degli i te ve ti di sosteg o disposti;

nella facoltà del giudice di sospendere il processo per un tempo determinato, nei casi suddetti; nella sospensione in tal

caso del corso della prescrizione.

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Volendo trarre delle conclusioni, la messa alla prova risulta essere

uno strumento legislativo straordinario, che si promette di creare

condizioni tali da agire sul comportamento del ragazzo “deviante”,

cercando di riportarlo all’interno delle regole sociali da cui si è

discostato, permettendogli di costruirsi una vita normale, lasciando nel

dimenticatoio la trasgressione effettuata.

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CAPITOLO TERZO

Il progetto di messa alla prova

Ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est145. Lucio Anneo Seneca

E’ il desiderio che crea ciò che è desiderabile, è il progetto che pone il fine.

Simone de Beauvoir

Lei è all'orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta dieci passi più in là.

Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare.

Edoardo Galeano

Cuore della messa alla prova è la dimensione progettuale.

La parola progettare dal latino pro-iectum, participio passato del

verbo proicere, composto da PRO avanti e JÀCERE gettare, letteralmente

traducibile con gettare avanti, indica, nella sua accezione più comune,

l’azione con cui si valuta una situazione presente nell’ottica del

cambiamento e dell’innovazione. E’ un verbo, dunque che rimanda a un

aspetto progressivo, in qualche modo previsionale perché, per gettare lo

sguardo in avanti bisogna prevedere e questo ci consente di disegnare

degli scenari futuri, cioè di immaginare qualcosa che ancora non c’è.

Quando progettiamo, immaginiamo, disegniamo, in qualche modo ci

creiamo dei modelli di un mondo futuro, di qualcosa che esiste solo in

potenza, quindi c’è certamente, nel progettare, una componente di

sguardo ottimista sulla realtà, uno sguardo capace di guardare avanti, di 145

Massima latina: Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa a quale porto vuol approdare.

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lanciarsi avanti, di prospettare anche dei progressi, dei cambiamenti,

uno sguardo carico di speranza.

Una bella immagine definisce il progetto come un “sogno con delle

scadenze”, mettendo in tal modo insieme due aspetti apparentemente

antitetici: da una parte il registro del sogno, del desiderio, della

fantasia, della creatività e dall’altra l’aspetto concreto e terreno, delle

scadenze, del calendario, delle risorse di cui disponiamo, l’aspetto dei

vincoli della realtà. Un buon progetto, a mio avviso, deve riuscire a

mettere insieme questi due dati antitetici tenendo presente che ciò che

va gettato avanti è il presente del soggetto, visto sia nel suo essere ora,

nella realtà di ciò che è, ma anche e soprattutto nel suo poter essere,

nella possibilità di ciò che può diventare.

Il progetto si configura, allora come un’apertura di credito sul

futuro, sebbene al riguardo è opportuno sottolineare che rispetto al dato

del divenire dell’essere umano, quando parliamo di progettazione, in

ambito più strettamente pedagogico questa consiste nell’individuare le

modalità di questo divenire, così da poter intervenire causando

cambiamenti nella direzione dell’incremento di sviluppo umano del

soggetto. Il cuore del sapere pedagogico è proprio qui, nell’inestricabile

legame tra teoria e prassi da cui ha origine il duplice intento, conoscitivo

e trasformativo, di cui esso è costituito che dà vita ad un sapere ove ad

una dimensione di analisi dell’esistente si accompagna necessariamente

una dimensione progettuale volta alla sua modifica, che nasca nel

guardare la realtà che ci è dinanzi così com’è chiedendosi “cosa è

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possibile fare qui ed ora?”, “come posso intervenire per attuare un

cambiamento intenzionale?”

Il progetto educativo è, in questa chiave, lo strumento costruito per

agire sulla realtà osservata con l’intento di trasformarla, mantenendo lo

sguardo rivolto ad un futuro allo stesso tempo possibile ed utopico.

Naturalmente ciò richiede occhi attenti e competenti, capaci di guardare

oltre quello che già c’è, capaci di prospettare utopie: una sfida

affascinante ma anche una pratica quotidiana per chi si occupa di

educazione perché, come ci insegna Giovanni Maria Bertin, “l’utopia di

oggi, punto estremo del non ancora e dell’inattuale, è il possibile di

domani”.

L’utopia vale come direzione e non come meta precostituita da

raggiungere, porta con sé tutta l’incertezza del possibile, richiede agli

educatori una scelta di coraggio perché il possibile non offre garanzie

sulla realizzazione di quanto si progetta nel suo orizzonte146. Un possibile

orientamento da seguire, dunque, un possibile itinerario da costruire

avendo sempre e innanzitutto chiaro che la finalità di ogni intervento

educativo è porre in essere interventi che favoriscano l’emancipazione

del soggetto rendendolo capace di “guidare da solo la sua canoa”147.

Riportando l’attenzione sull’istituto della messa alla prova, quanto

detto aiuta a comprendere che la portata innovativa dell’art. 28 si gioca

in gran parte proprio nel come viene strutturato il progetto, nel possibile

che si ha il coraggio di mettere in campo: l’innovazione è nei suoi

contenuti e dunque nella capacità degli operatori di scommettere su ciò

146

G. M. Bertin, M. Contini, Educazione alla progettualità esistenziale, Armando Editore, Roma, 2004, pp.34-35. 147

R. Baden-Powell, Taccuino. Scritti sullo scoutismo 1907-1940, Edizioni scout Fiordaliso, Roma, 2009.

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che potrebbe essere, di essere flessibili e creativi in modo da poter

“cucire” un progetto “su misura” per quel particolare minore.

Al riguardo quello che mi appare importante mettere in risalto è che

l’elemento cui bisogna prestare attenzione e dar valore è proprio il

cammino del soggetto verso l’emancipazione: è il processo attivato e

posto in essere dal ragazzo che va osservato, evidenziato e valutato. Ciò

vuol dire che sarebbe un grave errore limitarsi a considerare solo il

prodotto finale, perché una tale valutazione non renderebbe giustizia

della complessità di ogni cammino di crescita. E’ necessario invece

volgere lo sguardo all’intero percorso, proprio in considerazione del

fatto che il protagonista del progetto di messa alla prova è un

adolescente, dunque un soggetto in età evolutiva, impegnato a crescere

verso la maturità.

E’ il come che fa la differenza: è il modo in cui il progetto viene

costruito prima e portato avanti poi, il vero punto cruciale cui porre

attenzione, da osservare, sollecitare, sostenere, valorizzare ed infine

valutare, non il mero risultato finale.

E’ questo il terreno su cui si gioca la scommessa del cambiamento.

Ancora una volta, a mio avviso, lo sguardo di chi osserva svolge un

ruolo fondamentale poiché pur in presenza di un vento favorevole

costituito dall’equipaggiamento dell’adolescente-marinaio, ossia dalle

sue risorse e capacità, ciò serve a ben poco se questi non sa verso quale

luogo dirigersi. Ecco allora che lo sguardo di chi osserva proprio in

quanto capace di vedere i punti di luce nelle crepe può scommettere su

di essi aiutando così l’adolescente-marinaio a non vagare senza meta ma

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ad orientarsi seguendo la bussola dei propri desideri per scegliere il

porto cui vuole approdare.

3.1. Un progetto orientato: senso e obiettivi

Nel processo penale minorile la dimensione educativa e pedagogica è

declinata al massimo grado nella dimensione progettuale intrinseca

all’art.28, che esprime bene il prioritario intento educativo finalizzato

alla prevenzione e non alla punizione.

Proprio a tal fine il d.p.r. 448/88, spostando l’attenzione del giudice

dall’accertamento del fatto alle caratteristiche personali del soggetto,

determina un’autolimitazione inevitabile del diritto penale per

concedere spazio ai Servizi minorili, Ministeriali e dell’Ente Locale148,

richiedendone espressamente la collaborazione per la piena attuazione

delle sue finalità: al fine di facilitare il reinserimento sociale ed

individuale del giovane reo, infatti, devono essere assicurati interventi di

sostegno orientati alla valorizzazione e al coinvolgimento delle diverse

risorse, istituzionali e non, presenti nel territorio.

È in questo ambito che assumono rilevanza i Servizi periferici annessi

al Dipartimento per la Giustizia Minorile149 che, in collaborazione con gli

148

Art.6 DPR 448/88 co. 1: In ogni stato e grado del procedimento l'autorità giudiziaria si avvale dei Servizi minorili

dell'amministrazione della giustizia. Si avvale altresì dei servizi di assistenza istituiti dagli enti locali. 149 Il Dipartimento per la Giustizia Minorile (D.G.M.) è uno dei quattro Dipartimenti del Ministero della Giustizia, esercita

la propria competenza in ordine alla tutela e alla protezione giuridica dei minori dai 14 ai 18 anni e, in particolare, su

quelli sottoposti a procedimento penale da parte dell' Autorità Giudiziaria minorile, esercitando detto mandato,

eventualmente, fino al compimento non più del 21° bensì del loro 25° anno d'età come disposto dal recente Decreto

Legge 26-06-2014 n.92, Art. 5: Modifiche all'art. 24D.Lvo.272/89.

Il D.G.M. opera attraverso 12 Centri Giustizia Minorile regionali e/o interregionali dai quali dipendono i seguenti Servizi

Minorili:

-n.29 Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni (U.S.S.M.) i quali forniscono assistenza ai minorenni autori di reato in ogni

stato e grado del procedimento penale;essi inoltre raccolgono e forniscono elementi conoscitivi riguardanti il minorenne

soggetto a p o edi e to pe ale e ava za o ipotesi p ogettuali he o o o o alle de isio i dell Auto ità giudizia ia;

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Enti Locali e il Terzo settore, hanno ricevuto dalla nuova normativa

processuale un compito di fondamentale importanza. Essi infatti

elaborano le informazioni sulla personalità del ragazzo, sull'ambiente

familiare e sociale di riferimento e, di conseguenza, informano e

indirizzano le decisioni del magistrato sulle esigenze educative da

tutelare nel programma di recupero psicologico, pedagogico e sociale.

Il progetto di messa alla prova verte, infatti, su un preciso

programma trattamentale, elaborato in maniera specifica per ciascun

minore e basato sull'interazione dello stesso con le figure parentali

adulte di riferimento e con le risorse educative dell’ambiente di

provenienza.

Dall'articolo 27 disp. att. d.p.r. 448/88150 si deduce che, in via

ordinaria, la preparazione e presentazione del progetto dovrebbe

precedere la decisione del giudice relativa alla sospensione del processo,

ciò vuol dire che gli assistenti sociali dell’U.S.S.M. possono prepararlo in

base ad una scelta autonoma effettuata sulla base di una valutazione

che si fonda su una prima fase di osservazione e raccolta di informazioni.

È questa la fase informativa della relazione iniziale, quando il

giudice e i Servizi sociali minorili collaborano per ottenere un preciso

profilo del minore, cui segue poi una fase più propriamente operativa,

-n.26 Centri di Prima Accoglienza (C.P.A.) i quali ospitano i minorenni in stato di arresto, fermo o accompagnamento fino

all'udienza di convalida entro 96 ore, con la custodia della Polizia Penitenziaria e la presenza di una equipe che acquisisce

informazioni utili;

-n.17 Istituti Penali per i Minorenni (I.P.M.) che assicurano la detenzione per custodia cautelare o espiazione di pena;

-n.10 Comunità Ministeriali (12 fino al 2014) le quali assicurano l'esecuzione dei provvedimenti dell'Autorità giudiziaria, in

particolare il collocamento in comunità e le misure di sicurezza. 150

D.Lvo.272/89 - Art. 27 co.1: Il giudice provvede a norma dell'articolo 28 del decreto del Presidente della Repubblica 22

settembre 1988 n. 448, sulla base di un progetto di intervento elaborato dai servizi minorili dell'amministrazione della

giustizia, in collaborazione con i Servizi socio-assistenziali degli Enti locali.

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durante il corso della prova, con le attività previste dall'intervento,

nonché con quelle di controllo e sostegno del minore.

Si può affermare, pertanto, che chi decide sulla messa alla prova è il

giudice, ma gli elementi determinanti su cui il giudice si basa nel

prendere la decisione sono l’orientamento, le idee e soprattutto il lavoro

conoscitivo dell’U.S.S.M. sul minorenne, i progetti e i rapporti con gli

operatori sociali. Al riguardo la Mestitz osserva che proprio l’andamento

dei rapporti e le comunicazioni tra magistrati e Servizi sociali minorili si

configurano quali elementi determinanti la qualità dell’intervento

penale minorile151.

Ruolo nevralgico dunque quello ricoperto dai Servizi che si

configurano quali garanti della indispensabile mediazione tra giudice e

imputato. Essi sono inoltre deputati ad offrire al minore assistenza

psicologica e affettiva ma anche elementi di conoscenza volti a far

comprendere, allo stesso e alla sua famiglia, la natura e il significato

delle decisioni del giudice. Sono infine incaricati a raccogliere elementi

di conoscenza sulla realtà personale ed ambientale del minore funzionali

alla predisposizione di interventi quanto più rispondenti alle reali

esigenze di crescita del giovane assistito durante tutta la sua

permanenza nel circuito penale, nonché a valutare la motivazione al

cambiamento del ragazzo e ad accertarne la capacità o meno ad

adattarsi a un certo tipo di impegni.

Per quel che concerne più strettamente il programma, il già citato

art. 27 al comma 2 delinea un progetto di intervento articolato, che

151

A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 95.

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deve prevedere tra l'altro: a) le modalità di coinvolgimento del

minorenne e dei familiari; b) gli impegni specifici che il minorenne

assume; c) le modalità di partecipazione al progetto degli operatori; d)

le eventuali modalità di attuazione dirette a riparare le conseguenze

del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la vittima.

Se ne desume che l’art.27 orienta in maniera chiara la costruzione

del progetto di messa alla prova, ponendo fortemente l’accento sulla

dimensione del fare e promuovendo in tal modo progetti realizzati

intorno ad impegni normalizzanti in più direzioni, in cui il ragazzo è

chiamato a svolgere un ruolo attivo e responsabile. Al riguardo,

sottolinea la Mestitz, che tale “attenzione al fare”, non va

assolutamente disgiunta “dall’individuazione ed esplicitazione degli

obiettivi del progetto di messa alla prova, che non solo orientano

l’azione dei vari soggetti coinvolti, ma definiscono anche il senso

complessivo del percorso di messa alla prova, il cui scopo finale è quello

di indurre nel soggetto una positiva evoluzione della personalità”152.

In riferimento agli obiettivi del progetto, la dottrina ne evidenzia

alcuni, di carattere generale, considerati imprescindibili e che pertanto

riguardano tutti i minori sottoposti alla messa alla prova. Tra questi è

possibile individuare: lo sviluppo delle necessarie competenze relazionali

e sociali, al fine di evitare la ricaduta in percorsi devianti; il

rafforzamento della personalità del minore e della sua autostima

attraverso il superamento positivo dei singoli impegni del progetto; la

152

Ivi, p.151.

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responsabilizzazione e la riparazione rispetto al reato ed all’intera

vicenda penale.

Naturalmente tali obiettivi generali vanno poi declinati nei singoli

casi specifici e condivisi sia con il minore che con la famiglia. Ne

consegue che in ogni singolo progetto di messa alla prova gli obiettivi

generali devono essere tradotti in obiettivi individualizzati e calibrati

sulle effettive risorse personali e familiari. Operazione, questa,

indispensabile per non correre il rischio di costruire un bel progetto

rispondente a criteri formalmente validi, ma in concreto avulso dalla

realtà del minore, con obiettivi del tutto inadatti o fuori dalla portata

del ragazzo, proprio perché fondati su una scarsa e non realistica

conoscenza dello stesso153.

Altro elemento fondamentale per la buona riuscita del percorso è

spiegare con attenzione al minore il senso della misura e cosa ci si

attende, facendogli avvertire “il peso” del patto che autonomamente

intende siglare con la Giustizia. E’ infatti importante che il ragazzo,

comprenda con chiarezza che la messa alla prova è una misura penale ed

anche se nella fase della “prova” dal punto di vista giuridico questa

viene di fatto sospesa, ciò non lo autorizza a sentirsi “libero”

anticipatamente, né ad affrontare il percorso con superficialità, o peggio

ancora con disimpegno, considerando l’applicazione della misura una

mera convenienza dall’esito scontato. Per tale ragione appare opportuno

che, sia nella presentazione dell’articolo 28, sia durante il corso della

prova, venga fortemente ribadito al minore che le sue azioni restano

153

Ibidem.

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sottoposte al controllo dell’Autorità Giudiziaria Minorile, con cui ha

siglato il patto e cui dovrà “render conto” nell’udienza di valutazione

finale. Questo passaggio è estremamente importante e va esplicitato al

ragazzo con grande chiarezza, per evitare che non viva il progetto come

un’esperienza socio-educativa correlata a un percorso assistenziale

elaborato dai Servizi sociali territoriali, bensì come occasione di crescita

personale che gli garantisce, al tempo stesso, la positiva fuoriuscita dal

circuito penale.

Alla luce di quanto detto l’attuazione della messa alla prova sembra

muoversi su un doppio binario. Da una parte, infatti, l’impegno degli

operatori istituzionali deve andare nella direzione di un’attenta verifica

della motivazione del ragazzo, evitando di appoggiare una sua richiesta

di poter beneficiare dell’articolo 28 quando appare evidente che questa

non è mossa da una reale disponibilità al cambiamento ma da un mero

opportunismo in base al quale la messa alla prova è considerata la via

più semplice e più conveniente, dal punto di vista delle restrizioni cui si

è sottoposti, per uscire dal circuito penale. Dall’altra però l’impegno

degli operatori istituzionali consiste anche nel dare ad un ragazzo

fortemente motivato un’autentica occasione per poter realmente

crescere e ciò è possibile solo attraverso un progetto “ben fatto”: un

progetto non “cucito” su misura non permetterà al ragazzo, anche se

motivato, di aderirvi pienamente e questo margine, questa distanza, non

farà che ampliarsi durante il percorso, quando la fatica dell’impegno e le

fragilità personali e familiari faranno sentire il loro peso, col pericolo

che il giovane possa man mano perderne il senso.

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Assume, pertanto, particolare rilievo la fase di “co-costruzione” del

progetto con il minore, in cui coinvolgerlo e stimolarlo a partecipare

attivamente all’individuazione di obiettivi ed azioni necessarie al

perseguimento degli stessi154. Il tribunale deve negoziare con

l'adolescente il contenuto del progetto, il “patto in udienza” viene così

ad essere il frutto di una decisione presa di comune accordo in assenza

della quale la natura stessa della messa alla prova viene snaturata

perché il minore non è più chiamato a responsabilizzarsi

nell'adempimento di un impegno da lui consapevolmente assunto, ma si

limita a scegliere, tra due mali, la pena detentiva, che presumibilmente

gli verrà irrogata al termine del processo, e la messa alla prova, quello

minore. E’ opportuno, dunque, che, se si dovesse intravedere una

mancanza di disponibilità in tal senso o una certa apatia, questa vada

letta come un campanello di allarme in quanto andrà indubbiamente ad

inficiare l’elaborazione stessa del progetto o peggio ancora la sua

attuazione concreta.

Quanto detto pone in evidenza che il progetto elaborato debba

essere costruito con grande equilibrio, lasciando prevalere non tanto

l’ansia di “riempire”, quanto piuttosto l’attenzione affinché risponda a

caratteristiche ben precise, che la maggior parte della dottrina individua

nella ragionevolezza, nella consensualità, nell’adeguatezza, nella

praticabilità, nella concretezza, nella positività, nella flessibilità, nella

verificabilità155.

154

Ibidem. 155

Pe ua to igua da le a atte isti he della o se sualità, dell adeguatezza, p ati abilità e flessibilità si veda A. Mestitz,

Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 152; ma anche F. Palomba, Il sistema del nuovo processo penale

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Il programma deve infatti essere innanzitutto ragionevole nel senso

che il ragazzo deve comprenderlo ed accettarlo in quanto la

consensualità è essenziale per l’applicazione della misura: per questo

motivo il progetto deve proporre “cose nuove” che siano però alla

portata del minore, ossia che non si distacchino eccessivamente dalla

sua vita quotidiana, in modo tale possa accettarle e non viverle come

imposizioni o come un dovere. Proprio a tal fine è importante cercare di

non discostarsi troppo dalla vita abituale dell'adolescente, disponendo

prescrizioni tendenti al suo recupero, che risultino strumentali alla

verifica di una personalità in divenire e che permettano al ragazzo di

sperimentare un ventaglio di possibilità di vita diverse da quelle

conosciute ma al contempo non troppo distanti da sé.

Quanto scritto può sembrare un controsenso ma non lo è: bisogna

prospettare al minore attività non troppo distanti dalla sua realtà e dalla

sua capacità di comprensione di essa anche perché in tal caso verrebbero

avvertite come imposte, provocando nella migliore delle ipotesi

un’adesione formale, strumentale all’ottenimento del beneficio, ma è

importante al contempo non proporgli nemmeno attività troppo vicine,

tali da non essere sentite come nuove, come altro dalle proprie

abitudini. L’idea di fondo è che pian piano, anche passando attraverso

un’iniziale adesione formale, il ragazzo possa essere portato a tirar fuori

e sperimentare una parte più positiva di sé che possa sostenere la

minorile, op. cit., p. 435; riguardo alla concretezza, alla positività e alla verificabilità si veda R. Pozzar, Strategie e

opportunità, in Minori Giustizia, 1994, vol.3, p. 94.

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motivazione al cambiamento e aiutarlo a rendersi conto che può essere

in modi diversi da quelli cui era abituato156.

Altro criterio cui deve rispondere il progetto è quello di

adeguatezza, ossia essere confacente alla personalità del ragazzo, al

tipo di reato commesso, alle risorse che possono essere mobilitate.

Questo sia per favorire l’esito positivo della prova, sia per garantire un

reale impegno del ragazzo rispetto ai contenuti del progetto e non una

mera partecipazione formale.

Ulteriore caratteristica è che deve essere praticabile, con

l’esplicitazione chiara delle risorse che si intendono utilizzare nonché

dei processi che ci si propone di attivare, ma al tempo stesso flessibile

durante corso della prova, affinché possa modularsi in relazione ai

cambiamenti che emergono dal percorso; il programma infatti segue i

movimenti evolutivi del minore e la sua elaborazione non avviene

secondo un processo lineare che parte dall’analisi per poi dispiegarsi nel

fissare gli obiettivi, la metodologia d’intervento e l’individuazione delle

risorse; al contrario può richiedere, mano a mano che si procede,

aggiustamenti, cambiamenti, fino ad arrivare ad un progetto che sia

coerente nelle sue diverse parti.

Il progetto dev’essere poi concreto: cioè pronto per essere attivato

senza bisogno di alcuna specificazione; ad esempio non sarà sufficiente

prevedere che l’imputato dovrà svolgere un’attività di volontariato senza

specificarne congiuntamente la tipologia, il luogo, i tempi di impegno

del minore.

156

http://www.assistentisociali.org/carcere/presupposti_messa_alla_prova_II.htm

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Dev'essere inoltre positivo: è infatti opportuno che l’attenzione sia

rivolta non tanto ad indicare comportamenti dai quali il minore dovrà

astenersi, quanto piuttosto al dare indicazioni sui comportamenti da

tenere, dunque non prescrizioni di divieto ma esortazioni al fare.

Dev'essere infine verificabile nel suo sviluppo, nei percorsi più che

sugli esiti: sarà pertanto rilevante ad esempio l'essere andato

regolarmente a scuola e non l’essere promosso a fine anno.

E’ da considerare inoltre che un aspetto importante relativamente

alle risorse da attivare è il coinvolgimento della famiglia, elemento

considerato auspicabile per garantire l’incisività e la qualità del percorso

di cambiamento del ragazzo: il principio della co-costruzione dunque va

esteso anche alla famiglia quale risorsa potenzialmente attivabile.

La richiesta di responsabilizzazione del minore, infatti, non può che

passare attraverso la richiesta di responsabilizzazione del suo sistema di

appartenenza, non a caso infatti l’esperienza operativa ha dovuto

riconoscere la fragilità e talvolta il fallimento di progetti di messa alla

prova che facevano leva essenzialmente sul minore, trascurando il suo

nucleo familiare. Ciò probabilmente perché il ragazzo, in un momento di

vita già particolarmente delicato, si trovava a dover scegliere tra le

richieste del sistema giustizia e le richieste del sistema familiare che,

non avendo condiviso il “patto”, continuava a riproporre le stesse

logiche e dinamiche. E’ altresì vero che non sempre risulta esservi una

reale disponibilità al coinvolgimento e che la collaborazione è spesso

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permeata di diffidenza e puramente strumentale alla risoluzione dei

“guai giudiziari” del proprio congiunto157.

Tener fede a tali caratteristiche nell’elaborazione del progetto

permette di non cadere nell’errore di costruire programmi lontani dal

ragazzo, meramente prescrittivi, frutto di una prassi legata a modalità

applicative routinarie e pertanto non sentiti dal ragazzo come

opportunità di crescita e di cambiamento.

Quelli appena descritti sono i requisiti minimi del progetto su cui si

basa la prova, il cui obiettivo è, come detto, il recupero psicologico,

sociale e culturale del ragazzo, offrendogli un modello di conduzione di

vita alternativo rispetto a quello pregresso che possa modificare

abitudini, comportamenti, orari, compagnie, modalità relazionali del

ragazzo. In termini oggettivi, ciò si verifica con l'adeguarsi del

minorenne messo alla prova alle prescrizioni indicate. Mentre dal punto

di vista soggettivo è, invece, in gioco l'autopercezione che il soggetto ha

di sé, poiché dall'esito positivo della prova dipende l'acquisizione di

fiducia in se stesso da parte del ragazzo che, incoraggiato dal successo

ottenuto nell'adeguarsi alle prescrizioni impartitegli, è maggiormente

stimolato a tenere un comportamento corretto e responsabile.

Il possibile fallimento della prova inciderebbe in modo dannoso e

forse irrecuperabile sull'autostima e l’autopercezione che l'adolescente

ha di sé, pregiudicando non solo il risultato della messa alla prova, ma il

suo futuro destino di uomo e cittadino: infatti è come se egli dimostrasse

di essere indegno della fiducia accordatagli poiché incapace di adeguarsi

157

A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., pp.154-155.

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a quanto gli viene richiesto. Si rafforzerebbe in tal modo il senso di

inadeguatezza e la convinzione di non essere capace di costruire

alcunché di buono. Proprio in ragione di ciò è di vitale importanza che

nell'elaborazione del progetto non si trascurino mai le concrete

possibilità di adeguamento ad esso del minore, perché il fallimento della

prova ha ripercussioni notevoli sull'autostima che il ragazzo ha di sé e,

quindi, sul suo comportamento futuro158.

3.2. La costruzione del progetto: contenuti e gestione

Dopo aver individuato le principali caratteristiche del progetto di

messa alla prova, l’attenzione si sposta ora più strettamente sul

contenuto del progetto.

La costruzione di un progetto di messa alla prova comporta il passare

da un livello generale ad uno più decisamente organizzativo, che

permetta di convertire gli obiettivi del progetto in una sequenza di

compiti ed azioni. Ciò significa anche saper esplicitare ruoli, compiti e

impegni di ogni interlocutore come anche saperne definire i tempi159.

Il già citato art. 27, norma di riferimento in tal senso, elencante i

contenuti del progetto d’intervento, va dunque tradotto nel caso

concreto. Tuttavia è opportuno considerare che tale elencazione non

può certo essere ritenuta esaustiva, pertanto essa non ha carattere

tassativo bensì esemplificativo, come si evince dall’inciso “tra l’altro”

158

http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/minori/santoni/par2.htm 159

A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p.153.

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che precede l’elencazione. Si tratta di indicazioni legislative che devono

essere specificate al momento della redazione del progetto d’intervento.

Punto di partenza dovranno essere le modalità di coinvolgimento del

minore, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita, dal

momento che è proprio all’interno di questi contesti che è possibile

rintracciare il senso del disagio emerso per l’individuazione, ma anche la

rimozione delle cause della devianza, come anche le possibilità di una

sua costruttiva evoluzione. Tuttavia per quanto riguarda la previsione

relativa al nucleo familiare essa va considerata utile ma non conditio

sine qua non, poiché in quei casi dove il contesto socio familiare viene

ritenuto un ostacolo per il recupero del minore, proprio

l’allontanamento da tale ambiente viene considerata la migliore

soluzione, anche perché potrebbe essere proprio il contesto socio

familiare la fonte della devianza del minore160.

Inoltre, secondo quanto previsto dalla lettera b) dell’art.27, nel

progetto vanno poi indicati gli impegni che il minore assume. In

relazione a quest’aspetto vanno individuati impegni che dovranno essere

conformi alla personalità, alle esigenze ed alle capacità del minore;

nella loro individuazione inoltre occorre tener conto della gravità del

reato161. Pertanto possono essere considerati utili a tal fine impegni volti

a garantire al minore la scoperta di se stesso, la costruzione di un

corretto rapporto critico con gli adulti, la responsabilizzazione nel

rapporto con i coetanei, la costruzione di un percorso di autonomia e

160

E. Lanza, La sospe sio e del p o esso o essa alla p ova dell’i putato i o e e, Giuffrè, Milano, 2003, p.117. 161

P. Giannino, Il processo penale minorile, Cedam, Padova, 1997, p. 235.

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indipendenza162. Gli impegni specifici che il ragazzo assume dovranno

riguardare attività finalizzate allo sviluppo delle sue potenzialità, al

miglioramento del comportamento sociale, come anche alla riparazione

del danno provocato dal reato e la riparazione con la vittima.

Ulteriore elemento è evidenziato dalla previsione contenuta nella

lettera c) ove si dispone che vengano specificate le modalità di

partecipazione al progetto degli operatori della giustizia e dell’ente

locale, atte a garantire il recupero del minore. In relazione a tale

previsione, compito dei Servizi è sia valutare le possibilità concrete

offerte dal territorio per l'attuazione dei progetti e le modalità di

collaborazione fra i diversi operatori, sia tenere il filo della rete di

rapporti costruita attorno al minore. I contenuti del progetto, infatti,

sono condizionati e vincolati all’effettiva disponibilità di risorse

concretamente attivabili, aspetto questo che purtroppo l’esperienza

operativa ha evidenziato essere un limite alla costruzione del programma

trattamentale, in quanto esiste una reale e forte difficoltà a reperire

risorse idonee che ostacola in taluni casi la possibilità di costruire

progetti creativi, ossia portatori di novità nella vita del ragazzo,

ingrediente questo indispensabile per metterlo in una condizione

potenziale di poter effettuare il tanto auspicato “salto di qualità”.

Elemento utile al ridurre gli effetti negativi di tale difficoltà, può

tuttavia essere considerato il lavoro di équipe, così come la

collaborazione tra i vari Enti che si occupano della gestione del progetto

di messa alla prova. La maggior parte dei progetti viene infatti elaborata

162

A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p.153.

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dall'USSM in collaborazione con altri partner quali le ASL, i Servizi Sociali

Territoriali ma soprattutto Enti del privato sociale, basti pensare che le

statistiche ufficiali, elaborate su base nazionale con riferimento all’anno

2014, evidenziano che nella gestione dei progetti di intervento su 3261

provvedimenti di Messa alla prova complessivi, solo 127 sono stati gestiti

esclusivamente dall’USSM. E’ inoltre interessante rilevare che la

partecipazione più attiva è quella del cosiddetto “privato sociale”,

coinvolto in 2746 progetti163. Al riguardo Colamussi e Mestitz osservano

che tale dato, per altro in costante crescita negli anni, possa essere

proprio motivato dalla difficoltà di reperire risorse adeguate

all’applicazione della misura, principale ostacolo operativo in merito,

che ha spinto sempre più gli operatori istituzionali ad “aprirsi”

all’esterno.

Si è andato così delineando il ruolo preponderante del privato

sociale, la cui presenza si è ormai sviluppata nelle prassi applicative

della messa alla prova, tanto da rappresentare un referente ufficioso ed

ufficiale non solo nella redazione del progetto ma anche nelle attività di

osservazione, trattamento e sostegno. Le attività offerte infatti sono

molteplici e spaziano dal volontariato alla socializzazione, dalla

formazione culturale e lavorativa all’animazione, dando così occasione al

giovane reo di scoprire nuove realtà, frequentare persone diverse,

confrontarsi con ambienti distanti dalla propria realtà socio-culturale,

opportunità, queste che rappresentano validi stimoli per la crescita e lo

sviluppo della sua personalità. Inoltre vi è da considerare che il

163

Cfr. Tabella 1.5 e 1.6 in www.giustiziaminorile.it: La sospensione del processo e messa alla prova – Analisi statistica –

anno 2014.

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coinvolgimento del privato sociale va letto anche quale segno della

partecipazione della comunità nella gestione delle risposte alternative

offerte dal sistema di giustizia minorile, elemento senz’altro positivo

nell’ottica di un cammino in direzione di una sempre maggiore capacità

da parte della società civile di farsi carico del problema della

devianza164.

Per quel che concerne in particolare i contenuti del progetto

relativamente agli impegni che il minore assume è possibile evidenziare

che le prescrizioni si riferiscono essenzialmente alle due realtà da lui

vissute: quella interiore, relativa alle motivazioni e all'impegno nelle

attività di risocializzazione; e quella esteriore, relativa alle sue relazioni

esterne negative, che ha sperimentato nel suo breve percorso di vita e

che lo hanno condotto alla devianza.

Le prime hanno il fine di ottenere che il ragazzo impari ad avere un

comportamento corretto e si configurano principalmente come

esortazioni al fare. Tra esse è possibile individuare, in primo luogo,

attività tendenti a rimuovere i punti di maggior disagio dell’imputato,

che devono servire a rimotivarlo, a metterlo alla prova con situazioni

concrete, come quelle relative all'impegno scolastico o a quello

lavorativo: per cui se egli frequenta la scuola gli viene chiesto di

impegnarsi nello studio, se lavora gli viene chiesto di continuare a farlo.

Se, poi, è escluso contemporaneamente dall'impegno scolastico e da

quello lavorativo è opportuno cercare per lui un'attività che gli piaccia e

che lo induca ad uscire dallo stato di disimpegno e di “mancanza di

164

M. Colamussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, op. cit., pp.133-134.

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progettualità”, che spesso è causa o concausa del comportamento

criminoso. Il progetto ha l’obiettivo di scuotere il ragazzo, deve incitarlo

a mettersi alla prova con impegni concreti, nello svolgimento dei quali

possa dimostrare a sé, prima che agli altri, le proprie capacità ed

acquistare stima in se stesso.

Si rende necessario in questo percorso un accompagnamento

costante, un sostegno educativo incessante volto a “puntellare” il

cammino nei momenti di criticità, eventualmente rinforzato da colloqui

con lo psicologo. E’ opportuno che i Servizi seguano il percorso del

ragazzo con verifiche costanti che permettano una rimodulazione

laddove necessaria, apportando modifiche al programma quando

l'adolescente incontra ostacoli psicologici o presenti nell'ambiente

sociale, che possono mettere a repentaglio il buon esito dell'intero

progetto educativo.

L’assistente sociale in primis, e tutte le figure adulte di riferimento

che a vario titolo prendono parte al progetto, devono fungere da guida e

da argine al tempo stesso, supportando il ragazzo, attraverso il dialogo

costante ed il confronto, affinché non smarrisca il senso del progetto né

la sua disponibilità ad esso. E’ infatti proprio tale disponibilità, intesa

come impegno e desiderio del ragazzo a utilizzare l’evento reato e il

progetto stesso quale occasione per guardare e sentire la propria vita in

modo diverso, che gli permette di mettersi in gioco in un percorso ove

possa sia scoprire e impiegare risorse e potenzialità, sia affrontare

carenze e fragilità. Ed è proprio questa disponibilità a mettersi in gioco

e a sentirsi in prova quella tensione interiore in grado sostenere

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l’impegno e la motivazione al fare, oltre al mero adempimento di un

compito, in direzione della crescita e della responsabilizzazione165,

ragione per cui va fortemente sostenuta.

Un aiuto al minore, in tal senso è certamente da considerarsi la

relazione che egli instaura con l’assistente sociale, unica figura deputata

a seguirlo per l’intera durata del percorso. La chiarezza, l’attenzione ai

percorsi, il dialogo, permetteranno al ragazzo di fidarsi e di lasciarsi

guidare. Naturalmente perché ciò accada è necessario che vi sia

competenza e attenzione da una parte ma anche apertura dall’altra.

Bisogna al riguardo considerare che l’obiettivo che accomuna tutti i

vertici osservativi istituzionali e professionali nel procedimento penale

minorile è l’attuazione della valenza educativa nell’applicazione della

norma. Il criterio definito “educativo”, previsto dal legislatore è teso al

ripristino delle potenzialità evolutive nella personalità in formazione e

rappresenta con ciò il nucleo fondante la tutela del minore che delinque

e il suo diritto alle condizioni che ne assicurino la crescita. Ciò è

possibile attraverso un supporto al processo maturativo dell’adolescente

antisociale che i servizi psico-socio-educativi possono rendere operativo

nella messa alla prova, con un approccio mirato ed individualizzato alle

specifiche esigenze riabilitative del singolo adolescente. Già i primi

colloqui possono in tal senso essere decisivi per l’aggancio relazionale

dell’adolescente deviante il cui bisogno è di ricreare con l’operatore le

condizioni di affidabilità, attendibilità e contenimento mentale166.

Bisogna tener presente che, come affermano Meltzer e Harris, “lo

165

A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 145. 166

D. W. Winnicott, La fa iglia e lo sviluppo dell’i dividuo, Armando, Roma, 1968.

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106

sviluppo del pensiero è legato alla modulazione della sofferenza

psichica, implicita in ogni crescita e in ogni sviluppo”167, ma proprio la

possibilità di sentire tale sofferenza condivisa, raccolta e capita

dall’operatore, consente e facilita la trasformazione di una relazione

nata in un contesto di controllo, coatto, in una relazione di aiuto allo

sviluppo. Naturalmente perché ciò accada è necessario un tempo, il

“tempo della relazione”: l’adolescente può aver bisogno, ad esempio, di

essere a lungo “cercato” con ripetute convocazioni mettendo per primo

“alla prova” la disponibilità dell’operatore e la sua motivazione ad

accoglierlo, oppure può mettere alla prova lo stesso setting con la

discontinuità della presenza, o con la riproposizione di vari agiti

all’interno dei colloqui che richiedono una decodifica puntuale di ogni

comunicazione preverbale, gestuale o motoria. La stessa carenza

motivazionale alla proposta di trattamento può essere rivisitata

dall’operatore con un apporto personale emozionalmente correttivo

fondato sulla capacità di guardare quel blocco come occasione di un

incontro che riconosca e liberi le potenzialità della crescita168.

Altro elemento di sostegno e accompagnamento del minore è da

considerarsi il supporto psicologico, ciò a prescindere dalle

caratteristiche cliniche dei ragazzi. Tale intervento, sottolinea la

Mestitz, non ha necessariamente un’accezione terapeutica, ma può

concretizzarsi in maniera più complessa e articolata, prevedendo diversi

167

D. Meltzer, M. Harris, Il ruolo educativo della famiglia. Un modello psicoanalitico dei processi di apprendimento, Centro

Scientifico Editore, Torino, 1986. 168

W. R. Bion, Una Teoria del pensiero, in Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 1979.

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livelli di attivazione, centrati sia sul ragazzo, che sulle interazioni tra i

vari attori coinvolti nel progetto.

Per quel che concerne il minore, l’intervento si configura come un

elemento di sostegno per il cambiamento, atto a sollecitare i compiti

evolutivi peculiari dell’adolescenza contestualizzandoli nell’ambito della

vicenda penale, ciò affinché l’esperienza della messa alla prova possa

essere l’occasione per attivare, potenziare e mantenere un nesso tra le

dimensioni del “fare”, del “sentire” e del “pensare”, al fine di evitare

che il progetto riproponga le scissioni tipiche di questa fase evolutiva.

Elemento chiave è la possibilità di un “ascolto competente” rispetto alle

esigenze e ai bisogni dell’adolescente, capace di riconoscere l’esistenza

del ragazzo nelle sue potenzialità e fragilità, di accoglierne il bisogno di

visibilità, di dar valore alle sue risorse, proteggendolo dal senso di

“nullità” e “incapacità”, spesso presente nel vissuto di questi

adolescenti.

Obiettivo del sostegno psicologico è, in sintesi,quello di costruire un

senso alla storia del ragazzo, al reato, al progetto, nella consapevolezza

che proprio la costruzione di senso garantisce il nesso tra il progetto di

messa alla prova e la vita stessa del ragazzo169. Ne consegue pertanto

che il coinvolgimento della famiglia sia da ricercare col massimo sforzo

al fine di evitare il rischio che il ragazzo compia dei passi in una

direzione, mentre il suo contesto di appartenenza, ove comunque si è

generato il disagio del minore, resti immobile, con il risultato di creare

una pericolosa scissione che non può che alimentare ulteriore confusione

169

Ivi, pp 155-156.

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e disagio. Naturalmente vi sono anche casi caratterizzati da

problematiche particolarmente gravi, per altro in aumento, ove è

necessario attivare veri e propri percorsi terapeutici.

Va purtroppo congiuntamente rilevato che l’importanza di porre in

essere un intervento di questo tipo, spesso si scontra con i vincoli della

realtà, ovvero con problemi organizzativi dettati dalla scarsità di risorse

e dall’esiguità del personale, come anche dall’enorme numero di

soggetti in carico all’USSM, numero che, per altro, sta risentendo anche

degli effetti delle recenti modifiche normative che hanno esteso la

competenza dei Servizi minorili fino al compimento dei 25 anni di età dei

cosiddetti “giovani adulti”170.

Altro elemento di difficoltà è infine la resistenza, non tanto del

minore, quanto soprattutto del suo contesto familiare, che agendo in tal

modo non fa che destabilizzare il cammino del giovane.

Punto essenziale, vale a dire obiettivo da non perdere mai di vista in

ogni impegno o attività del progetto, è che il minore seppur lentamente,

si fortifichi attraverso “pensieri e passi nuovi”, in modo tale da

“reggere” eventuali elementi destabilizzanti provenienti dal contesto

ambientale di appartenenza, sia durante il progetto che soprattutto

dopo la sua conclusione, per poter invece riallacciare il suo legame con

la società. E’ allora essenziale trovare modalità originali che permettano

170

Si tratta di ragazzi che hanno compiuto il reato da minorenni e che, secondo quanto previsto dalle disposizioni di

attuazio e del p o esso pe ale i o ile, i a go o i a i o ai “e vizi i o ili fi o all età di a i a t. D.Lgs. luglio 1989 n. 272). Tuttavia il recente art.5 del Decreto Legge 26 giugno 2014 n. 92, convertito con modificazioni in Legge

11 agosto 2014, n.117, odifi a l a t. este de do l ese uzio e dei p ovvedimenti limitativi della libertà personale

applicati ai minori dal 21° al 25° anno di età. Pertanto attualmente la competenza dei Servizi minorili è estesa fino al

compimento dei 25 anni.

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all’adolescente di riflettere sul fatto compiuto puntando in particolar

modo sullo svolgimento di attività che rinforzino la solidarietà sociale.

A tal fine la quasi totalità dei progetti di messa alla prova prevede

prescrizioni concernenti attività di volontariato: esse permettono al

ragazzo di eseguire una riparazione simbolica, poiché, commettendo il

reato, egli non ha danneggiato solo la vittima, ma tutta la collettività, la

quale viene idealmente risarcita attraverso lo svolgimento di attività

quali la cura di persone bisognose, la pulizia delle spiagge o dei giardini

pubblici, l’impegno in una mensa per le persone più svantaggiate e

qualsiasi altra attività di utilità sociale. L’obiettivo è quello di

sensibilizzare il giovane verso una determinata problematica sociale che

possa costituire un momento di sensibilizzazione, di concreta

maturazione e di effettiva responsabilizzazione.

Altro elemento cardine, funzionale ad un possibile recupero è

l’inserimento del ragazzo in un’attività occupazionale: infatti offrire una

fonte di reddito, sicura e non più illecita, dovrebbe favorirne la

fuoriuscita dal circuito deviante e la conseguente adesione a un nuovo

stile di vita, più regolare. Altra possibilità in tal senso è l’inserimento in

attività o progetti di apprendistato lavorativo, ossia corsi di formazione

che possano far sì che il giovane “impari facendo”. Occasioni, queste,

preziose nella misura in cui consentono un apprendimento concreto

legato ad un mestiere specifico, ma in un contesto “protetto” che

“prepara” il ragazzo al mondo del lavoro attraverso il rispetto

dell’orario, delle diverse mansioni, del gruppo di lavoro.

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110

Quanto detto in riferimento alle prescrizioni impartite dal giudice

nel provvedimento di messa alla prova, trova conferma nei dati

ufficiali171: dall’analisi dei 3261 provvedimenti emessi nel 2014, di

seguito riportata, emerge infatti, che la maggior parte di esse riguarda

le attività di volontariato e socialmente utili, rivolte alla comunità in

generale e non specificamente alla vittima del reato, seguono quelle

riguardanti le attività di studio e lavorativa.

Tabella 3 - Prescrizioni impartite ai minori messi alla prova ai sensi dell’art. 28

D.P.R. 448/88. Anno 2014.

Prescrizioni N. prescrizioni

Colloqui e sostegni educativi 3.246

Attività di volontariato e soc. utili 2.621

Attività di studio 1.475

Attività lavorativa 804

Permanenza in comunità 274

Attività sportiva 540

Orientamento formativo/lavoro 452

Attività di socializzazione 327

Conciliazione parte lesa 159

Invio all'Ufficio di mediazione 156

Risarcimento simbolico del danno 135

Frequenza in centro diurno 77

La tabella, mettendo in luce i principali elementi costituenti il

progetto di messa alla prova, evidenzia anche un dato importante

riguardante l’attività sportiva, reputata uno strumento educativo valido

soprattutto per trasmettere ai ragazzi l’importanza delle regole. Mentre

un dato senza dubbio ancora insoddisfacente risulta essere quello che

171

Cfr. Tabella 1.7 in www.giustiziaminorile.it : La sospensione del processo e messa alla prova – Analisi statistica – anno

2014.

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111

riguarda la possibilità della mediazione e della conciliazione con la parte

lesa.

In relazione a tale dato è utile ricordare che l’ultimo elemento

indicato dall’art. 27 alla lettera d) dispone che i Servizi debbano

individuare le modalità di attuazione eventualmente dirette a riparare

le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne

con la persona offesa, ma la tabella ne mette in luce la difficoltà

attuativa. In particolare la valorizzazione delle vittime, auspicata per

altro dalla recente Direttiva Europea172, in ambito minorile, trova il suo

unico spazio normativo proprio nell’istituto in esame nel preciso intento

di responsabilizzare il minore deviante e riconoscere maggiore dignità

alla vittima173. Al riguardo le modalità riparative-conciliatorie

principalmente praticate sono di vario tipo: risarcimenti simbolici,

versamenti ad enti caritatevoli di una somma proveniente dall’attività

lavorativa del soggetto, ma anche una lettera di scuse del reo alla

vittima, come pure un incontro di riconciliazione tra i soggetti coinvolti.

Questo tuttavia va adeguatamente ponderato e preparato tenendo conto

che non sempre la vittima esprime il suo consenso in tal senso e che la

partecipazione del minore ha spesso una natura strumentale, in quanto

le aspettative dell’imputato sono orientate, almeno inizialmente ad un

ritorno del risultato della mediazione nel procedimento penale che lo

vede coinvolto. Da più parti inoltre ne è stata evidenziata l’opportunità

solo per i reati di spessore leggero, per quei minori cioè che non hanno

172

Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2012/29/UE, Recante norme minime in materia di diritti, assistenza e

protezione delle vittime di reato. 173

M. Colamussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, op. cit., pp.135.

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112

stabilmente assunto modelli devianti174. E’ importante, perciò, che

questa esperienza non sia presentata al minore e alla vittima come

passaggio decisivo del progetto, ma piuttosto come una fase eventuale,

volta esclusivamente a instaurare e favorire una reciproca conoscenza,

evidenziando, altresì, a entrambi questi soggetti, come l’esito positivo

del progetto dipenderà non dall’eventuale riappacificazione, ma

dall’essere riuscito il giovane a intraprendere uno stabile stile di vita

regolare. Condizione essenziale perché questa esperienza sortisca i suoi

effetti è che venga condotta da una figura terza, dotata di preparazione

specialistica e in assenza di tutte le altre figure strettamente

processuali.

Altro tipo di prescrizioni contenute nel progetto sono legate al reato

che l'adolescente ha commesso e all'ambiente sociale nel quale è

maturato l'evento criminoso, per cui accanto alle esortazioni al fare si

rende opportuno aggiungere una serie di obblighi e divieti, secondari,

ma, pur sempre, necessari per la tenuta complessiva del soggetto nei

confronti dell’intero progetto. In relazione a ciò si danno le opportune

indicazioni all'adolescente sui luoghi e le persone da frequentare, per

esempio, viene ordinato al ragazzo di non frequentare un locale dove

egli ha partecipato a una rissa, ciò in vista di una riqualificazione del suo

spazio affettivo e sociale e dell'orizzonte culturale a cui dovrà fare

riferimento in futuro. E’ da ritenere, infatti, che il soggetto che delinque

abbia una personalità segnata da una continua crisi d’identità che lo

rende bisognoso di un confronto costante, sia pure in termini oppositivi,

174

Appunti dal Convegno Dal di e al fa e a cura dei Servizi Minorili della Campania, Nisida, 29-05-2014.

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113

con regole certe. Ciò proprio in considerazione del fatto che la sua storia

personale è, spesso, segnata dall’assenza di validi punti di riferimento,

in grado di sostenerlo e contenerlo nel suo processo di crescita

personale. Da qui, la necessità di fissare tra le prescrizioni tutta una

serie di obblighi e divieti, di rispetto delle regole, sino a quel momento,

forse, non efficacemente gestiti in maniera matura e responsabile.

Da quanto detto, emerge chiaramente che non esiste un modello

unico e consolidato di programma, una sorta di progetto standard,

applicabile indistintamente a tutti: le prescrizioni devono essere

modellate a misura del ragazzo di cui ci si occupa e stabilite in modo da

risultare adatte alle particolari storie individuali, alle diverse personalità

e agli specifici momenti evolutivi dei singoli minorenni.

Risulta, pertanto, evidente che nell’elaborazione di un progetto di

messa alla prova gli operatori debbano ispirarsi alla flessibilità.

Peculiarità, questa, che offre ai medesimi la possibilità di sviluppare

iniziative e idee soprattutto per quanto riguarda gli aspetti educativi dei

progetti175. E’ questo lo spazio in cui, più che in ogni altro, l’operatore è

chiamato a creare, a “inventarsi cose nuove”.

L’innovazione dell’istituto in esame è, infatti, non solo nel dettato

normativo quanto soprattutto nei contenuti, nel “come” esso viene

attualizzato. Dunque il valore aggiunto che rende realmente innovativa

l’introduzione dell’istituto in esame è lo stile di chi elabora il progetto. I

progetti che si caratterizzano per una capacità creativa di proporre

attività originali e valide sotto il profilo educativo traggono origine da

175

A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 95-96.

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uno stile personale capace di abbandonare modalità routinarie,

scongiurando qualsiasi automatismo che mal si concilia con la pratica

educativa, per abbracciare piuttosto pratiche permeate di tensione

all’utopico, disposte ad inventare, a rischiare prescindendo dalle risorse

a disposizione, a dar fiducia, a mettersi in discussione.

Innovare vuol dire prendere a cuore la storia di quel particolare

ragazzo e provare a darvi una risposta adeguata nella direzione del

possibile e dell’utopico.

3.3. La messa alla prova in comunità: un’innovazione

nell’innovazione.

La tabella 3, precedentemente riportata, mette in luce un ulteriore

dato particolarmente significativo: quello riguardante la prescrizione di

permanere in una comunità per tutto il periodo di prova o solo per una

parte di essa, che nel 2014 è stata disposta in 274 provvedimenti sui

3261 art. 28 concessi176.

Tale dato impone uno spostamento di prospettiva verso una

particolare modalità attuativa dell’art.28: quella che prevede che il

progetto di messa alla prova possa attuarsi all’interno di una comunità

residenziale. Al riguardo, prima di entrare nel merito dell’argomento, è

opportuno soffermarsi previamente a considerare il ruolo che le

176

In riferimento a ciò è comunque bene ricordare che nei confronti di uno stesso soggetto possono essere disposti più

p ovvedi e ti di essa alla p ova el o so di u a o: i pa ti ola e i . p ovvedi e ti dell a o ha o riguardato 2.942 minori.

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115

comunità, pubbliche e del privato sociale, sono deputate a svolgere

nell’ambito del percorso penale minorile177.

Il processo penale minorile, come già evidenziato, si prefigge lo scopo

di coniugare l’esigenza di dare una risposta al reato con quella di

proteggere il percorso evolutivo di crescita dell’adolescente,

evitandogli, per quanto possibile, lo sradicamento dalle relazioni

affettive primarie e dal contesto naturale di socializzazione,

salvaguardandone le esigenze educative e di sviluppo. Per tale ragione è

previsto, tra i Servizi deputati alla risposta sanzionatoria connessa a

quella di non interrompere o di ristabilire i processi educativi, quello

della “Comunità”178.

La “Comunità” è uno dei Servizi Minorili della Giustizia previsti

dall’art. 8 D.Leg.vo. 272/89, finalizzato all’applicazione degli artt.18

comma 2, 18 bis, 22 e 36-37 del DPR 448/88. E’, inoltre, utilizzata,

anche senza riferimenti normativi espliciti, in associazione all’art. 28 del

DPR 448/88 ed agli artt. 47, 47 bis e 47 ter della legge 354/75179.

Può quindi esservi affidato il minore che si trovi in una delle seguenti

condizioni penali:

Arresto o fermo, ai sensi dell’art.18 comma 2, in attesa di

interrogatorio da parte del Pubblico Ministero;

177

Le comunità possono essere ministeriali oppure private, di varia tipologia (es. terapeutiche), gestite da associazioni e

oope ative o le uali ve go o stipulate o ve zio i. Le o u ità di etta e te gestite dall A i ist azio e della Giustizia minorile, sono attualmente dieci, dopo la recente chiusura della comunità pubblica Do Peppi o Dia a di

Napoli nel 2014 e di quella di Nisida el aggio ; uest ulti a tuttavia attual e te ope ativa o e Ce t o Diu o. 178

Ciò non toglie che in alcuni casi il ricorso al collocamento in comunità, proprio sulla scorta di opportunità educative,

ve ga disposto dall A.G.M. p o ede te pe o se ti e te po a ei allo ta a e ti del i o e da o testi fa ilia i e elazio ali p egiudizievoli, sia o l i te zio e di p ovo a e u a te po a ea dis o ti uità dall a ie te di vita

originario sia al fine di ristabilire corretti e più adeguati riferimenti valoriali e comportamentali. 179

Vademecum Operativo per le comunità del privato sociale a cura del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia

Minorile.

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116

Mancata consegna del minore alla famiglia da parte della Polizia

giudiziaria, per i minorenni accompagnati a seguito di flagranza,

ai sensi dell’art. 18 bis, co. 4;

Ripetute violazioni degli obblighi imposti dal Giudice nell’ambito

della misura cautelare della permanenza in casa, ai sensi

dell’art. 21, comma 5;

Applicazione della misura cautelare del collocamento in

comunità , ai sensi dell’art. 22;

Prescrizione nell’ambito della sospensione del processo e messa

alla prova con affido alla comunità per lo svolgimento delle

attività di osservazione, trattamento e sostegno, ai sensi

dell’art. 28 comma 2;

Applicazione della misura di sicurezza del riformatorio giudiziario

(eseguita nelle forme dell’art.22) ai sensi dell’art.36;

Misura alternativa alla detenzione (affidamento in prova al

Servizio Sociale), dopo la condanna definitiva ai sensi dell’art.47,

applicata in un numero ristretto di casi.

Il mandato istituzionale cui la Comunità, nel rispetto dei diritti

soggettivi dei minorenni, è chiamata a rispondere è duplice: assicurare

l’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria nei confronti

degli adolescenti entrati nel circuito penale e garantire la sicurezza

sociale; restituire il minore al contesto sociale di appartenenza al

termine delle misure. Nel rispondere a tali fini istituzionali, gli obiettivi

che la Comunità persegue, in sinergia con gli altri Servizi (SST e USSM),

sono principalmente quelli di: attivare risorse personali-familiari-

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117

ambientali dei minorenni; rilevare le opportunità educative offerte dal

contesto di vita del ragazzo; attivare il sistema di interconnessione delle

risorse del territorio; predisporre un programma educativo

individualizzato; fornire all’A.G.M. competente valutazioni in merito

all’osservazione sulla personalità del minore; preparare le dimissioni del

minore.

Ne consegue che, proprio per il delicato ruolo che sono chiamate a

svolgere, le Comunità debbano possedere precisi requisiti strutturali.

Al riguardo è l’art. 10, comma 2, D.Leg.vo. 272/89 a disporre in

materia di organizzazione e gestione delle Comunità, indicando che esse

devono rispondere ai seguenti criteri:

Organizzazione di tipo familiare;

Presenza di operatori professionali di diverse discipline;

Presenza di minori non sottoposti a provvedimento penale180;

Capienza massima di dieci unità;

Attuazione di progetti educativi individualizzati;

Utilizzo delle risorse del territorio.

Le caratteristiche elencate pongono in evidenza in particolar modo il

principio dell’integrazione sotto il profilo dell’utenza, delle

professionalità e dell’iniziativa delle diverse Istituzioni.

L’utenza, infatti, deve essere “mista” e non eccessivamente

numerosa per consentire una conduzione ed un clima educativo fluido e

stimolante, oltreché un’organizzazione di tipo familiare. Su tale aspetto

180

Ciò ad eccezione delle comunità ministeriali, nelle quali vengono collocati esclusivamente ragazzi con una misura

penale.

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118

è tuttavia opportuno evidenziare che non tutti reputano tale elemento

una risorsa e il dibattito se sia meglio una comunità “penale” o “mista”

è ancora aperto.

Alcuni infatti sono del parere che un’utenza mista sia un fattore positivo

poiché permette ai ragazzi di confrontarsi con realtà differenti e di non

creare un “ghetto” o un “piccolo carcere” esclusivamente per i ragazzi

che hanno commesso un reato. Peraltro, come sostengono in molti, la

differenza tra percorsi di vita dei ragazzi interessati ad un procedimento

penale e dei ragazzi con procedimento civile è spesso “aleatoria”, nel

senso che frequentemente i problemi, le richieste e i percorsi di vita

degli adolescenti “civili” sono molto simili a quelli degli adolescenti

“penali” e richiedono la medesima attenzione, disponibilità e cura. Tutti

però concordano che è bene che i ragazzi in misura non siano la

maggioranza, in modo che sia più difficile la riproposizione di una

mentalità carceraria.

Non tutti sono però d’accordo sulle comunità miste, perché ritengono

che il “cattivo esempio” dei ragazzi con provvedimento penale possa

influenzare anche il comportamento dei ragazzi con provvedimento

civile, i quali a loro volta rischiano maggiormente di entrare nel circuito

penale.

Ma in realtà il problema principale è la difficoltà di gestione per le

diverse posizioni che questa “convivenza” comporta nell’organizzazione

e nella gestione della vita comunitaria. Infatti, le diverse misure con cui

un adolescente viene collocato in comunità corrispondono a differenti

gradi di libertà riguardanti soprattutto le uscite, il possesso e l’uso del

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119

telefonino, la possibilità di incontrare persone diverse dai familiari,

aspetto, questo che ricade inevitabilmente sia sulla gestione quotidiana

sia proprio sulla proposta educativa che non può non tener conto delle

esigenze giudiziarie di ciascuna misura, ciò a scapito dei minori non

sottoposti a provvedimento penale. Inoltre, proprio la presenza di minori

non sottoposti a misura penale potrebbe rendere più “morbido”

l’approccio anche ai ragazzi penali, cosa senz’altro non opportuna181.

Appare chiaro, da quanto detto che la questione non è semplice e

presenta in entrambe le posizioni nodi cui le comunità devono far fronte

nella ricerca di un non facile equilibrio nella quotidiana prassi della vita

comunitaria che si dispiega tra le esigenze giudiziarie e quelle

educative.

Per quanto riguarda invece il principio dell’integrazione sotto il

profilo organizzativo, tale caratteristica è richiesta tra operatori con

professionalità afferenti a diverse discipline e a differenti Istituzioni,

comprese quelle presenti sul territorio, al fine di utilizzare

razionalmente le risorse.

Inoltre, a tutela del minore, è previsto che le comunità debbano

essere “riconosciute o autorizzate dalla Regione competente per

territorio”. Per quel che concerne la Regione Campania, l’autorizzazione

e il controllo delle strutture sono attualmente disciplinate dal

Regolamento Regionale del 7 aprile 2014 n.4182.

181

M. Camonico (a cura di), Ragazzi Fuo i . Adoles e ti e pe o so pe ale. P ati he di a oglie za elle o u ità socioeducative, Comunità edizioni, Milano, 2009, pp 67 – 73. 182

Regolamento di attuazione della legge regionale 23 ottobre 2007, n.11 (Legge per la dignità e la cittadinanza sociale.

Attuazione della legge 8 novembre 2000, n. 328).

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120

Infine in riferimento alla frequenza del ricorso alla misura del

collocamento in comunità, è interessante considerare i dati ufficiali,

riportati nelle Tabelle 4 e 5.

Questi mettono in luce che negli ultimi anni la detenzione assume

sempre più per i minorenni carattere di residualità per lasciare spazio a

percorsi e risposte alternativi, sempre a carattere penale.

Congiuntamente si sta ricorrendo con frequenza crescente

all’applicazione della misura del collocamento in comunità. Questa

infatti non essendo caratterizzata dalla rigidità propria dell’Istituto

penale minorile, viene a configurarsi più propriamente come il luogo

dove si offrono al minore opportunità educative e di conoscenze diverse

dai suoi vissuti e gli si prospettano e indicano alternative alle sue scelte

devianti. La misura del collocamento in comunità, pertanto, proprio per

la sua capacità di contemperare le esigenze educative con quelle

contenitive di controllo, risulta essere quella che meglio interpreta la

natura cautelare del provvedimento restrittivo e la funzione educativa

che, in generale il rito minorile si propone di conseguire183, proprio per

questo tale misura è utilizzata non solo quale misura cautelare, ma

anche nell’ambito di altri provvedimenti giudiziari.

Dalle statistiche ufficiali si evince che i collocamenti nelle comunità

pubbliche e private disposti nell’anno 2014 sul territorio nazionale sono

stati 1.716. Il principale motivo (58%) è stato, come anche negli anni

passati, l’applicazione della specifica misura cautelare prevista

dall’art.22 del D.P.R. 448/88. In alcuni casi (23%) l’ingresso in comunità

183

M. Colamussi, A. Mestitz, Devianza minorile e recidiva, op. cit., p. 152.

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121

è avvenuto a seguito della trasformazione dalla custodia cautelare

(art.23) nella misura meno afflittiva del collocamento in comunità o per

rientro dopo il periodo di aggravamento in I.P.M. disposto dal giudice.

Sono risultati poco frequenti i collocamenti come applicazione di misura

alternativa o di sicurezza. Infine un discreto numero di collocamenti in

comunità (14%) è stato disposto dal giudice nell’ambito di un

provvedimento di messa alla prova, dato che conferma il trend degli anni

precedenti184, come si evince dalla Tabella 4.

Come già evidenziato, l’istituto giuridico della sospensione del

procedimento e messa alla prova, essendo un percorso previsto in ambito

penale accompagnato da elementi di sostegno educativo, implica la

formulazione di un progetto di intervento da parte dei Servizi Minorili

affidatari del minore in collaborazione con quelli istituiti presso l’Ente

Locale. Elemento, questo, estremamente importante dal punto di vista

pedagogico, giacché consente e impone un’attenta valutazione del caso,

in tutte le sue dimensioni, nonché la scelta della strategia migliore

rispondente alle esigenze di crescita di quel particolare minore. Tuttavia

tale valutazione può rilevare situazioni particolarmente complesse ove,

pur essendo auspicabile e possibile la concessione dell’art. 28, vi siano

elementi che ne rendano difficile la sua concreta attuazione nel contesto

di appartenenza del minore. Inoltre, ricordando, come già evidenziato,

che la prova può essere disposta solo nei confronti di un minore

giudicato imputabile (in quanto capace di intendere e di volere) si

comprende quanto possa diventare complicato disporre una messa alla

184

www.giustiziaminorile.it/statistica/analisi_statistiche/sospensione_processo/Messa_Alla_Prova_2014.pdf

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prova in tutti quei casi in cui il soggetto, autore di reato, sia portatore di

problemi di ordine psicopatologico, che tuttavia non lo rendano

incapace, neppure parzialmente, di intendere e di volere185. In queste

particolari situazioni, che per svariati ordini di motivi vengono definite

“multiproblematiche”186, sempre nell’interesse del minore, può essere

ritenuta opportuna l’esecuzione della messa alla prova in ambito

comunitario. Questa particolare modalità applicativa dell’art. 28 non è

stata esplicitamente prevista dal legislatore, quanto piuttosto

sperimentata in itinere, suggerita dal concreto svolgersi dell’esperienza

e dalle molteplici e diverse situazioni che essa poneva innanzi. In tal

senso è possibile affermare che essa rappresenta certamente una valida

risorsa socio-educativa non solo per i ragazzi privi di un contesto

familiare adeguato, ma anche per quelli bisognosi di apprendere regole

ordinate di vita nonché per quelli portatori di problematiche specifiche.

Le motivazioni sottese a tale scelta sono da ricercare in una

valutazione della situazione complessiva del minore ove si evidenzi una

particolare fragilità personale e/o del suo contesto di vita, da cui

discende l’opportunità di scegliere una strategia che metta il ragazzo in

condizione di poter affrontare “la prova” con il supporto necessario. In

altre parole laddove si intravede la possibilità e la motivazione del

ragazzo ad impegnarsi in tale percorso ma si riscontrano nella sua storia

elementi tali che lascino presupporre che non sia in grado di affrontare

185

M. Taraschi, Probation e comunità. Strumenti per una pedagogia della devianza, op. cit., pp. 140-141. 186

E da o side a e a he he attual e te si assiste all e e ge e di u a fas ia di uovi ute ti , o posta da agazzi ultip o le ati i e o p o le ati he psi opatologi he he e t a o el siste a giudizia io. Nei asi i ui i si t ovi

di a zi a i o i he o etto o azio i devia ti e he ve go o defi iti ultip o le ati i , vale a di e o espe ie ze di tossicodipendenza o con disturbi psicologici e/o psi hiat i i, o o e valuta e l appli a ilità della essa alla p ova f . M. Taraschi, Probation e comunità, op. cit., p.141).

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nel proprio contesto di vita quel cammino, per non privarlo

dell’opportunità di beneficiare dell’art.28, è possibile ricorrere

all’attuazione del progetto in comunità. In tal senso si può dire che la

comunità viene a configurarsi come una sorta di “rete” che ha la

funzione di supportare il ragazzo, fornendogli quegli strumenti di cui sia

lui che il suo contesto di appartenenza appaiono sprovvisti, atti ad

affrontare con successo l’impegno della “prova”, arginandone eventuali

deviazioni dal percorso prefissato e sostenendolo quando in procinto di

cadere. Al riguardo appare opportuno sottolineare l’importanza del

coinvolgimento del minore, come anche della sua famiglia, cui vanno

presentate le motivazioni sottese a tale proposta, chiarificandone il

senso affinché possa comprendere ed aderire al progetto così formulato.

Appare inoltre importante sottolineare come anche l’elemento della

scelta della tipologia di comunità non vada trascurato: questa infatti

richiede un’attenta valutazione della personalità del ragazzo e delle sue

esigenze educative, in quanto un errore nella scelta della comunità può

pregiudicare il progetto già in fase iniziale. Appare importante e

coerente con l’obiettivo di costruire un progetto adeguato poter

modificare la scelta nel caso non risponda alle caratteristiche di

personalità del giovane187. La preparazione stessa del progetto è, in tale

modalità, condizionata dalla individuazione della struttura. Qualora la

comunità sia già stata individuata preliminarmente, o il minore è già

ospite di una struttura individuata per altra misura (frequentemente

187

A. Mestitz, Messa alla prova: tra innovazione e routine, op. cit., p. 160.

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quella di cui all’art.22 DPR 448/88), la stesura del progetto vedrà la

partecipazione attiva dell’équipe della struttura prescelta.

Nel caso in cui il minore non sia già collocato in comunità l’A.S.

dell’U.S.S.M. unitamente all’A.S. del SST indicherà, dopo che il giudice

ha dato mandato per la valutazione ed eventuale elaborazione del

programma, la comunità con la quale si lavorerà per il programma che

verrà presentato all’udienza fissata per l’applicazione dell’art.28. In

quest’ultima ipotesi avviene solitamente che l’Autorità Giudiziaria

Minorile, prima di concedere il beneficio, incarica l’U.S.S.M. affinché,

nell’arco di un periodo di solito più o meno breve, individui un’idonea

comunità ed effettui una verifica di fattibilità del progetto di messa alla

prova.

Il progetto di messa alla prova in comunità richiede da parte

dell’U.S.S.M. l’esplicitazione di un intervento che sappia muoversi

competentemente nella rete dei servizi e delle risorse territoriali, ne

consegue che i progetti sono necessariamente condizionati dalle forme di

integrazione e dal tipo di scambi preesistenti fra le diverse

organizzazioni coinvolte (servizi / autorità giudiziaria / comunità). In

particolar modo il coinvolgimento dei Servizi Territoriali risulta

strategico anche per il reperimento delle risorse sul territorio.

Il progetto in comunità deve rispondere alle esigenze individuali

disposte nella messa alla prova, che non devono entrare in conflitto con

il progetto educativo della comunità ma integrarsi, allo scopo di

garantire al ragazzo un percorso di reale cambiamento e di rispetto della

sua individualità, all’interno comunque di un percorso penale. La

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comunità pertanto entra a pieno titolo nell’elaborazione del progetto di

messa alla prova, che non può prescindere dal progetto educativo

proprio della stessa struttura, ma nello stesso tempo non può coincidere

con il medesimo a scapito della peculiarità e delle esigenze di sviluppo

del ragazzo. Questo richiede flessibilità da parte della struttura

comunitaria, con la quale è necessario costruire e condividere un

programma personalizzato e calibrato alle effettive risorse/fragilità del

ragazzo, teso a perseguire obiettivi condivisi e coerenti con il percorso

penale in atto. Contestualmente la comunità diventa soggetto/oggetto di

azioni di sostegno/monitoraggio da parte dell’U.S.S.M. e del S.S.T., che

svolgono una funzione di raccordo e decodifica delle istanze del sistema

“ragazzo-famiglia-comunità”188.

Il progetto in comunità, inoltre dovrà includere, oltre ai contenuti

già precedentemente illustrati comuni ad ogni progetto di messa alla

prova, le modalità di raggiungimento dei luoghi presso cui si tengono le

attività e gli eventuali spazi di autonomia e responsabilizzazione previsti

(uscite dalla comunità senza l’educatore, permessi periodici di rientro in

famiglia, etc.)189. Tuttavia nella stesura del programma è bene tener

presente che la “vita comunitaria” può già considerarsi una “prova” per

il ragazzo, nel senso che in questo contesto il minore è impegnato in un

faticoso lavoro di investimento su di sé. Pertanto la dimensione della

riparazione, che rappresenta comunque un elemento qualificante del

percorso, viene in questi casi veicolata nell’ambito delle attività

188

Ibidem. 189

Vademecum Operativo per le comunità del privato sociale a cura del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia

Minorile.

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126

educative previste dalla comunità che inevitabilmente richiedono livelli

di impegno a favore della collettività.

Nel periodo di espletamento della prova i Servizi Minorili della

Giustizia svolgono un ruolo determinante di osservazione, di

trattamento, di sostegno e di controllo. Medesime funzioni, in accordo

con l’U.S.S.M., riveste l’équipe della comunità: tutti coloro che hanno in

carico il minore, infatti, devono coadiuvare il giovane nella risoluzione

dei problemi quotidiani e svolgere attività di controllo per valutare

costantemente il rispetto di ciò che è stato concordato nel progetto;

devono, infine, informare il Giudice che ha disposto la messa alla prova

con relazioni periodiche e la redazione, al termine della prova, di una

relazione finale conclusiva.

Tuttavia è opportuno osservare che non tutti considerano positivamente

lo svolgimento della prova in comunità, in quanto proprio questo

elemento “annullerebbe” il senso della prova che per essere realmente

tale dovrebbe essere fatta nel contesto di vita del ragazzo, nel suo

ambiente (famiglia, quartiere, vita di tutti i giorni), perché è solo lì che

“lo si prova” realmente, lì dove si è generato il percorso deviante e dove

poi ritornerà a vivere. Tutti i progetti vanno agiti e sperimentati sul

territorio, in comunità invece il ragazzo non può dare realmente prova

che ha recuperato un comportamento e una vita regolare: in tal senso

quest’aspetto rappresenta una grossa contraddizione190.

Per quel che concerne, invece, l’aspetto più propriamente

normativo, come detto è, questa, una modalità operativa non prevista

190

M. Camonico (a cura di), Ragazzi Fuo i . Adoles e ti e pe o so pe ale. P ati he di a oglie za elle o u ità so io educative, op. cit. , pp 81-82.

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127

esplicitamente dal legislatore, ma il cui utilizzo risulta essere opportuno

e necessario per fornire una risposta adeguata a situazioni

particolarmente complesse. Essa però dal punto di vista normativo

risulta di fatto essere una “forzatura” o quanto meno “un’anomalia”,

infatti se da un lato in udienza il minore viene dichiarato “libero”, in

seguito alla sospensione del processo, dall’altro lo stesso viene di fatto

“ristretto” perché collocato in comunità.

Tale considerazione rimanda inoltre ad un altro punto critico: quello

relativo alla concreta modalità applicativa di tale prassi. Infatti in

assenza di un riferimento normativo esplicito si pone il problema di

dover individuare la formula con cui “consentire” il collocamento in

comunità, punto sul quale non vi è ancora una formula unica applicata in

egual modo sul territorio nazionale: attualmente i diversi Centri di

Giustizia Minorile scelgono la formula che reputano più adatta a

sciogliere il nodo in questione.

Il CGM di Bologna, ad esempio, dal punto di vista amministrativo

assimila la messa alla prova in comunità alle misure penali propriamente

dette, facendosi carico delle spese di soggiorno del collocamento in

comunità, così come accade ad esempio, per la misura cautelare di cui

all’art. 22 del DPR 448/88.

Altra invece è la gestione da parte del CGM di Napoli, ove con

l’applicazione dell’art. 28 viene disposta, congiuntamente ad esso,

l’applicazione della misura amministrativa del collocamento in Comunità

in via di urgenza ex art.25 R.D.L. 1404/34, disciplinante le misure

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applicabili ai minori irregolari per condotta o per carattere191. In tal

caso, pertanto la “prova di irregolarità della condotta e del carattere”,

chiaramente manifestata dall’evento reato, nonché dalla valutazione

dalla situazione personale, familiare e socio-ambientale del ragazzo,

diviene il presupposto che consentendo l’applicazione del citato art. 25,

permette di uscire dall’empasse normativo. L’applicazione del suddetto

articolo, comportando l’apertura di una procedura amministrativa la cui

gestione è a carico di altro Giudice, implica la fuoriuscita del minore

dall’area penale dal punto di vista amministrativo/economico,

rimandando l’onere economico relativo alla permanenza in comunità al

Comune di appartenenza del minore, pur restando il CGM a tutti gli

effetti l’organo di riferimento (unitamente all’USSM e all’AGM) cui

comunicare tutto ciò che concerne l’andamento della prova.

Ciò che appare opportuno sottolineare, inoltre, è che l’apertura

della procedura amministrativa ex art.25 R.D. 1404/34, di fatto

comporta la coesistenza di un procedimento parallelo a quello penale

ove sono chiamati a decidere altri giudici, togati ed onorari, che in

merito alla permanenza in comunità possono anche esprimere

valutazioni altre rispetto a quanto valutato dall’equipe interistituzionale

comprendente i referenti dell’USSM, del SST e della comunità stessa.

Può, in altre parole, verificarsi la circostanza che il minore pur avendo

191

Misure applicabili ai minori irregolari per condotta o per carattere: Quando un minore degli anni 18 dà manifeste prove

di irregolarità della condotta o del carattere, il procuratore della Repubblica, l'ufficio di servizio sociale minorile, i genitori,

il tutore, gli organismi di educazione, di protezione e di assistenza dell'infanzia e dell'adolescenza, possono riferire i fatti al

Tribunale per i minorenni, il quale, a mezzo di uno dei suoi componenti all'uopo designato dal presidente, esplica

approfondite indagini sulla personalità del minore, e dispone con decreto motivato una delle seguenti misure:

1) affidamento del minore al servizio sociale minorile;

2) collocamento in una casa di rieducazione od in un istituto medico-psico-pedagogico. Il provvedimento è deliberato in

Camera di consiglio con l'intervento del minore, dell'esercente la patria potestà o la tutela, sentito il pubblico ministero.

Nel procedimento è consentita l'assistenza del difensore. Le spese di affidamento o di ricovero, da anticiparsi dall'Erario,

sono a carico dei genitori. In mancanza dei genitori sono tenuti a rimborsare tali rette gli esercenti la tutela, quando il

patrimonio del minore lo consente (Articolo così sostituito dalla l. 25 luglio 1956, n. 888.)

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129

concluso il progetto di messa alla prova con esito positivo, debba

continuare il percorso in comunità perché il Giudice competente, o

anche l’equipe interistituzionale stessa, non reputi ancora opportuno il

rientro in famiglia. Decisione che, anche se opportuna e necessaria,

potrebbe non essere compresa dal minore, per il quale la sua

permanenza in comunità resta legata esclusivamente al reato commesso

e conseguentemente al circuito penale. Oppure, ancora, può accadere

che il Sevizio Territoriale competente, ente erogatore, spinga per un

rientro a casa del minore durante il corso della prova, cosa possibile ed

anzi auspicabile, a patto però che i motivi di tale decisione siano legati

al bene del minore, all’andamento del suo percorso, agli obiettivi

evolutivi raggiunti, e non ascrivibili meramente a fattori di ordine

economico.

Queste considerazioni mettono in luce alcune criticità, senz’altro

riconducibili ad una prassi di nascita recente, dunque una prassi che va

definendosi in itinere e che va scontrandosi anche con l’annoso problema

delle spese di soggiorno in comunità. In ogni caso è possibile affermare

che tale prassi rappresenta “un’innovazione nell’innovazione”, ossia una

modalità applicativa senza dubbio innovativa nata sul campo,

nell’applicazione dell’art.28, già definito da più parti “un’innovazione

coraggiosa”. Un’innovazione dunque nata “dal basso” cioè dal concreto

svolgersi dei progetti, proprio con l’intento di poter meglio andare

incontro alle molteplici esigenze che la variegata realtà dell’utenza

penale minorile pone innanzi, secondo il già citato principio della

flessibilità.

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130

La serie storica riportata nella Tabella 4 inerente il periodo dal 2003

al 2014, sul territorio nazionale, mette in evidenza un andamento

crescente del numero dei provvedimenti di sospensione del processo per

messa alla prova da svolgersi in una struttura residenziale: tale numero

infatti è passato dai 153 del 2003 ai 274 del 2014192.

Tabella 4 - Dati su base nazionale

Anni Ingressi in IPM

Collocamenti in comunità

(esclusi i trasferimenti)

Provvedimenti di art. 28.

Collocamenti in

Comunità per art.

28.

2003 1.581 1.423 1.863 153

2004 1.594 1.806 2.177 188

2005 1.489 1.926 2.145 274

2006 1.362 1772 1.996 268

2007 1.337 1896 2.378 241

2008 1.347 1965 2.534 253

2009 1.222 1825 2.701 269

2010 1.172 1821 3.067 296

2011 1.246 1926 3.217 269

2012 1.252 2038 3.368 292

2013 1.201 1894 3.456 271

2014 992 1716 3.261 274

Ma ciò che appare significativo sottolineare è, non tanto il numero in

termini assoluti dei provvedimenti di messa alla prova da svolgersi in una

struttura residenziale, che appare comunque complessivamente esiguo,

quanto piuttosto il progressivo utilizzo di tale formula, sia a livello

nazionale che campano. Infatti anche la serie storica riportata nella

Tabella 5 evidenzia come presso il CGM di Napoli nel periodo dal 2003 al

2014 sia stato in costante aumento il numero dei provvedimenti di art.28

192

http://www.giustiziaminorile.it/

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emessi e come nell’ultimo decennio si stia facendo largo questa formula.

Solo il dato relativo agli ultimi due anni in esame indica un decremento,

ma tale diminuzione può essere letta, per il momento, come un

assestamento fisiologico dopo un periodo abbastanza lungo di continui,

seppur minimi aumenti. Saranno i dati dei prossimi anni ad indicare se ci

si trova dinanzi ad un inversione di tendenza

Tabella 5 – Dati CGM Napoli

Anni Ingressi in IPM (Airola e Nisida)

Collocamenti in comunità

Provvedimenti di art. 28

Collocamenti in Comunità per

art. 28

2003 267 213 119 1

2004 249 231 152 0

2005 250 218 106 0

2006 135 314 157 10

2007 271 357 166 14

2008 261 306 201 12

2009 305 375 297 15

2010 242 392 434 18

2011 236 376 506 27

2012 235 390 258 28

2013 235 360 504 18

2014 196 252 606 19

Ulteriore conferma del consolidarsi di tale prassi e del fatto che essa

non è, oggi, considerata un’eccezione sporadica quanto piuttosto una

possibile risposta alle esigenze del giovane reo, è rintracciabile anche

nei modelli prestampati utilizzati dall’A.G.M. per disporre il

provvedimento in oggetto. Infatti fino al 2012, come si evince dalla

Figura 1, è presente nel modello la sola dicitura della “revoca della

misura cautelare in corso”, mentre l’applicazione della misura

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amministrativa del collocamento in comunità, come si può vedere, è

successivamente aggiunta manualmente, segno che non era prevista.

Figura 1 – Modello prestampato M.A.P

Dal 2013 invece, la formula con cui si applica la misura

amministrativa del collocamento in comunità è parte integrante del

modello prestampato, come si evince dalla Figura 2.

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133

Figura 2 – Modello prestampato MAP nuovo

Ciò a conferma di una prassi ormai riconosciuta ed entrata a far

parte a tutti gli effetti del ventaglio di possibilità da poter offrire al

giovane reo per meglio rispondere alle sue esigenze educative e di

crescita.

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PARTE SECONDA

DALLA TEORIA ALLA PRATICA: LA MESSA ALLA PROVA NELLA COMUNITA’

“C.ED.RO.”

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135

CAPITOLO QUARTO

L’Esperienza della Comunità Alloggio “C.ED.RO.”

Bisognerebbe essere filosofo, teologo, grande conoscitore dell’animo umano e santo,

per essere un perfetto educatore. P. Annibale Maria Di Francia

Là dove vi è la sfida di un ragazzo o di una ragazza che cresce,

vi sia un adulto a raccogliere la sfida. D. W. Winnicott

“Comunità educativa” e “pedagogia difranciana193”: sono questi i

poli intorno ai quali ruota la riflessione dei paragrafi seguenti, il cui

comune denominatore è l’intervento educativo con minori in situazioni

di difficoltà.

La comunità educativa per minori è, infatti, una struttura

residenziale a carattere comunitario, che accoglie minori con situazioni

di disagio personale e\o familiare pregiudizievoli per la loro serena

crescita psicofisica e la loro realizzazione. La comunità ha come finalità

primaria quella di accogliere il minore, impostando uno specifico lavoro

affinché possa sentirsi accettato, ascoltato e compreso.

193

Co tale te i e si fa ife i e to all ope a di “a t A i ale Ma ia Di F a ia Messi a, -1927), presbitero

fondatore, nel 1897 della Congregazione dei Padri Rogazionisti e delle Figlie del Divino Zelo, che dedicò la sua vita

all apostolato ve so gli ulti i. E t ato el alfa ato ua tie e Avig o e della ittà di Messi a e ve uto a o tatto o la pove tà ed il deg ado di uella po zio e di esse a a do ata , o p ese su ito l i po ta za di dedi a si alla

ede zio e o ale dei più pi oli, i ade do he tra tutte le opere sante, quella di salvare i teneri fanciulli è

santissima (A.M. Di Francia, Scritti, vol. 61, p.197). E fu proprio il sentire fortemente la responsabilità per quella

moltitudine ad ispi a lo a asa e tutta la sua ope a sul o a do di Gesù la esse olta, gli ope ai po hi; p egate (rogate, i lati o il pad o e della esse pe h a di ope ai ella sua esse . Il rogate, ossia la preghiera per le

vo azio i uesto il a is a dell o dine da lui fondato), era dunque percepito in funzione del servizio agli ultimi, questo

i fatti il o pito degli ope ai della esse .

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136

Punto centrale dell’agire della comunità diventa l’adattamento

dell’intervento individualizzato di tutela del minore all’interno di un

progetto globale di comunità più specificamente educativo e che, come

tale, meglio si adegua ad una fase successiva del processo d’intervento,

tendente a sostenere una funzione di sostituzione/integrazione alla

famiglia di origine.

Con il termine “comunità”, pertanto, si sottolinea che occuparsi dei

minori non significa soltanto fornire le cure indispensabili alla

sopravvivenza, ma favorire e sostenere il valore di un modus vivendi,

ancor prima che modus operandi, ossia di uno stile fondato

sull’accoglienza e la cura, intese quale clima e musica di fondo sulle cui

note promuovere un approccio centrato sulle relazioni interpersonali, il

cui elemento cardine viene ad essere proprio la figura dell’educatore,

strumento della relazione educativa.

E’ allora essenziale che l’educatore per poter essere educatore,

risponda a domande esistenziali che sempre dovrebbero essere alla base

di ogni riflessione pedagogica. Al riguardo mi appaiono significative le

parole di Pierre Durrande, filosofo, formatore di educatori, quando

afferma che “l’educatore porta in se stesso e semina nel terreno sociale,

che funziona come cassa di risonanza per gli altri, l’interrogativo che lo

assilla: Che cosa significa essere uomini? Chi è l’uomo? Interrogativo che

in lui non è mera speculazione ma responsabilità”194.

Responsabilità, certo! Perché la risposta a quelle domande pone

ciascun uomo di fronte a delle scelte, scelte da cui discende il proprio

194

P. Durrande, L’a te di edu a e alla vita, Edizioni Qiqajon, Magnano, 2012.

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modo di essere, dunque di fare. “Le questioni del che cosa siamo e del

chi siamo sono inseparabili”, continua Durrande, “in ognuna vi è un

cammino di conoscenza, ma al cuore di entrambe c'è il mistero di un

incontro”195.

L’esperienza di educatrice in una comunità educativa rogazionista

ha, fin dai primi giorni, stimolato la mia curiosità rispetto al pensiero

ispiratore della proposta educativa della struttura, spingendomi a

chiedermi a quale idea pedagogica si ispirasse: quale responsabilità si

era assunto padre Annibale nell’opera educativa da lui fondata?

La risposta mi viene dalle sue stesse parole, laddove, riferendosi alle

“folle abbandonate”, scrive: “io ho compreso altamente i miei obblighi,

la mia responsabilità…”196, quale assunzione di impegno nei confronti di

uomini e donne, inquadrati all’interno di una teoria esistenziale cristiana

nella quale il limite, la disarmonia, la fragilità, in qualsiasi forma esse si

esprimano nell’individuo (disabilità fisica, psicologica, emotiva, povertà,

marginalità…), non hanno l’ultima parola, ma sono percepite come

occasione di crescita: nella visione evangelica infatti, toccare il limite

può portare al cambiamento, è il limite, la disarmonia, che permette di

mettere in discussione gli schemi strutturati e favorire un processo di

evoluzione197.

Quelle “folle abbandonate” rappresentavano un bisogno e a quel

bisogno egli ha tentato di dare una risposta con un’opera educativa che,

pur rivolgendosi a tutti “gli ultimi”, si dedicava particolarmente ai

195 L. Russo, Quale futuro per la pedagogia difranciana, in La pedagogia di Annibale Maria Di Francia e le nuove sfide

educative, Atti del 1° Convegno internazionale 2014, Quaderni di Studi Rogazionisti, Roma, 2014, p.116. 196

A. M. Di Francia, Gli Orfani, Principi generali, in Scritti, Archivio della Postulazione dei Rogazionisti, Roma, p.277. 197

L. Russo, Quale futuro per la pedagogia difranciana, op.cit., p.116.

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fanciulli. Padre Annibale, infatti era mosso dalla convinzione che “non vi

sono esseri maggiormente esposti ai pericoli come gli orfani”.

La responsabilità assunta dal presbitero siciliano dinanzi a bambini e

adolescenti in situazioni di difficoltà, fu allora, a mio avviso, quella di

raccogliere la sfida della loro crescita, pretendendo immensa cura per

quei minori che si trovavano in una situazione incresciosa di

deprivazione. Una cura basata soprattutto su un clima permeato di

“amore e calore umano”, ingredienti indispensabili per far loro

“riacquistare un po’ di fiducia nella vita che li ha già provati con il

dolore”. In questo clima, di accoglienza e affettività, “bisogna che

l’educazione rigeneri e moralizzi” perché “ammassare dei ragazzi per

cibarli e lasciarli vegetare, non è impiantare una casa di educazione, non

è mutare le sorti”198: questa l’idea di educazione elaborata dal padre

che anticipa l’attuale concetto di comunità. “Bisogna cibarli (…), mutare

le sorti (…), preparare l’avvenire (…), l’educazione deve rigenerare (…),

l’istruzione deve rendere possibile il guadagno onesto del pane (…)”: un

progetto educativo, questo da lui proposto, che punta all’emancipazione

del soggetto attraverso un percorso di sostegno che richiama quello che

anni dopo verrà sancito dalla legge 149/2001 che afferma la necessità

“che ai fanciulli in una condizione di deprivazione di famiglia vengano

garantiti: mantenimento, educazione, istruzione in un clima di

affettività”199.

198

T. Tusino, Non disse mai no, Edizioni Paoline, Roma, 1967. 199

Legge 149/2001, Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante «Disciplina dell’adozio e e dell’affida e to dei minori», nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile.

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Ecco allora che dietro la frase di padre Annibale “bisognerebbe

essere filosofo, teologo, grande conoscitore del cuore umano e santo,

per essere perfetto educatore”, si avverte quanto egli desse importanza

alla formazione dell’educatore ad ampio raggio, sostenendo l’importanza

di saper stabilire “buone relazioni di puro e santo affetto”, convinto che

l’incontro, quello autentico, con persone significative possa fare la

differenza, mettendo in discussione certi schemi comportamentali e

promuovendo un cambiamento. Proprio in ragione di ciò in più pagine

ribadisce che “dipende tutto dalla qualità degli educatori” e sottolinea

la qualità degli strumenti: la qualità dell’educatore e la qualità della

relazione, affinché l’incontro ancor prima delle tecniche, possa

promuovere il cambiamento200.

Molto vicine appaiono le indicazioni di Annibale Maria a quelle di

Piero Bertolini, laddove questi definisce l’educatore come un

“perturbatore strategicamente orientato che offrendo informazioni e

provocazioni faccia leva sui processi autogenerativi di rinnovamento

dello stesso ragazzo”201. Il pedagogista torinese delinea, con tali parole,

l’immagine di un educatore non assimilabile ad un contenitore o ad un

airbag che montato sul ragazzo si apre per prevenire o attutire scontri,

conflitti, difficoltà, quanto piuttosto a quella di un elemento che rompa

lo status quo: un perturbatore, consapevole dei suoi processi emozionali,

innanzitutto, ma anche bravo esploratore di quello degli altri; un

facilitatore di esperienze emozionali nuove, creative, diverse; capace di

ampliare il repertorio cognitivo, comportamentale, espressivo del

200

L. Russo, Quale futuro per la pedagogia difranciana, op.cit., p.119. 201

P. Bertolini, L. Baronia, Ragazzi Difficili, op. cit.

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ragazzo, sfruttando quella quotidianità dalla quale i ragazzi vengono,

che è poi quella alla quale verranno lasciati. Pertanto, secondo questa

prospettiva l’educatore non è colui che protegge e regolamenta il

comportamento, ma è colui che mette in discussione i significati e lo

schema di comportamento che il ragazzo fin dalla nascita si è dato, a

causa della sua storia particolare. E’ colui che mostra un’alternativa,

una possibilità di scelta diversa: ciò significa far sperimentare al ragazzo

che si può stare nella propria storia in un modo diverso rispetto a quello

che si è acquisito nel corso del tempo e nella propria famiglia; ciò

significa favorirne l’emancipazione ispirando passi nuovi e stimolando la

capacità di scegliere202.

Questa l’idea, attualissima, alla base del progetto educativo di padre

Annibale, questa l’idea che ancora oggi guida e ispira l’intervento

educativo nelle case rogazioniste. Negli scritti del padre, è possibile poi

individuare tutti quegli strumenti educativi pratici che ancora oggi

utilizziamo nel nostro fare educazione: il buon esempio, la cura della

salute, il rinforzo positivo, il tratto amorevole, lo studio, il lavoro. Il

tutto, vale la pena sottolinearlo, ricordando sempre che a nulla vale

utilizzare queste tecniche se alla base non vi è un adulto pronto ad

assumersi la responsabilità di raccogliere la sfida di un ragazzo che

cresce.

202

L. Russo, Quale futuro per la pedagogia difranciana, op.cit., p.117.

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4.1. Presentazione della comunità alloggio “C.ED.RO.”

La comunità alloggio “C.ED.RO” (Comunità Educativa Rogazionista)

pur essendo nata nel 2004, affonda le sue radici storiche nella lunga

esperienza della Congregazione dei Padri Rogazionisti, che nel 1947

diede vita nella città di Napoli all’Orfanotrofio Antoniano, istituto di

carattere educativo assistenziale, sito nel quartiere dei Colli Aminei.

Il modello educativo di quegli anni era, come già evidenziato, quello

delle istituzioni chiuse, secondo i principi dell’assistenzialismo: un

modello proprio di strutture di grandi dimensioni con un numero enorme

di bambini e ragazzi, ove venivano posti in essere interventi di aiuto

standardizzati e per questo spersonalizzati, dunque destinati ad

assolvere principalmente funzioni di assistenza, ossia di custodia e

accudimento materiale, a discapito della soggettività.

Tuttavia anche in quegli anni, l’opera educativa Rogazionista, pur

risentendo dell’impostazione pedagogica del tempo, si caratterizzava

per la particolare attenzione data alla relazione e all’azione educativa.

P. Annibale infatti, era fermamente convinto che “l’educatore è lo

specchio in cui si modellano i ragazzi” e aveva indicato nel sistema

preventivo di don Bosco203, basato su religione, ragione e amorevolezza,

il metodo più idoneo per educare i giovani ed è a questi principi che da

sempre si è ispirata, e ancora oggi si ispira, l’azione educativa dei

Rogazionisti.

Naturalmente la vita, la natura e l’impostazione dell’Istituto

Antoniano, andarono evolvendosi negli anni, adeguandosi ai grandi

203

Il sistema preventivo diffe is e ed i o t asto o uello ep essivo e o uello pe issivo . Il suo fo da e to l a o e, he pe edu a e si t adu e i a o evolezza, appo to pe so ale, p ese za osta te o l edu a do.

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mutamenti di fine secolo. Nella seconda metà del ‘900 si assiste, infatti

ad una lenta e graduale frantumazione del processo di

istituzionalizzazione che ha aperto il varco ad una progressiva

trasformazione degli istituti in comunità.

Fu la legge 184/83, Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei

minori, ad aprire la strada: pur affermando preliminarmente il diritto

fondamentale del minore di essere educato nell’ambito della propria

famiglia, contemplava diverse possibilità di intervento in caso di

inadeguatezza del contesto familiare204. Tale legge, ponendo al centro

l’interesse del minore, sancisce la necessità di interventi improntati al

principio della tutela, atti a ricercare la migliore risposta possibile alla

situazione di disagio del minore o della sua famiglia, attivando per

questo tutte le risorse possibili, istituzionali e non, e contemplando solo

come estrema ratio il ricorso all’istituto assistenziale. Tra i possibili

interventi la legge prevede quello della comunità di tipo familiare,

laddove non sia possibile o opportuno l’immediato affidamento ad una

famiglia o ad una singola persona. Nel medesimo articolo della legge si

richiama l’attenzione sul carattere di temporaneità dell’affidamento205.

La legge 184/83 diede così l’avvio ad un processo di cambiamento

dal quale l’Istituto Antoniano di Napoli non fu escluso. Sebbene lo stile

204

E oppo tu o tuttavia i o da e he u a possi ile i ido eità della fa iglia d o igi e ad alleva e, ist ui e ed edu a e il p op io figlio e a già stata p evista dall a t. C.C he e ita: quando il minore è moralmente o materialmente

abbandonato o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per

alt i otivi i apa i di p ovvede e all’edu azio e di lui, la pu li a auto ità, a ezzo degli o ga i di p otezio e dell’i fa zia, lo colloca in luogo sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione; ed ancor

p i a dai ostitue ti ell a t. della ost a Costituzio e, ove si affe a il p i ipio pe ui ei casi di incapacità dei

genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. 205

Legge 184/83 Art.2: Il minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad

un'altra famiglia, possibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare, al fine di

assicurargli il mantenimento, l'educazione e l'istruzione. Ove non sia possibile un conveniente affidamento familiare, è

consentito il ricovero del minore in un istituto di assistenza pubblico o privato, da realizzarsi di preferenza nell'ambito della

regione di residenza del minore stesso.

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educativo proprio dei Padri Rogazionisti, basato sulle indicazioni del

Padre fondatore, fosse già proiettato verso una dimensione più

propriamente di accoglienza e cura, era necessario un maggiore

adeguamento: così già agli inizi degli anni ’90, l’Istituto Antoniano,

aveva abbandonato la logica assistenzialistica dando vita ad una

comunità educativa di dimensioni contenute, che si proponeva di essere

un sistema aperto alla logica del lavoro in rete, fondato su più

professionalità integrate e basato su approcci educativi atti a mettere al

centro la soggettività e l’unicità della persona.

Successivamente la legge quadro 149/2001, stabilì in maniera

decisiva la chiusura degli istituti entro il 31 dicembre 2006 per far posto

a “comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da

rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia”. Si diede così

avvio in maniera definitiva al processo di de-istituzionalizzazione che ha

visto il passaggio dal modello dell'assistenza a quello dell'accoglienza: da

grandi istituti a piccole comunità di tipo familiare che devono rispondere

a specifici requisiti opportunamente predisposti dalla legge.

Congiuntamente la legge n. 328 del 2000, Legge quadro per la

realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali206

stabiliva, nel quadro normativo nazionale, i requisiti minimi strutturali e

funzionali atti a rendere efficaci ed efficienti i nuovi modelli operativi

psico-socio-educativi. Tale legge è stata recepita nella Regione

206

“ opo della legge uad o sull assiste za . / uello di ealizza e un sistema integrato di interventi e servizi

sociali che, attraverso politiche sociali universalistiche, persegue i seguenti obiettivi: garantire la qualità della vita;

assicurare pari opportunità; rimuovere le discriminazioni; prevenire, eliminare o ridurre le condizioni di bisogno e di

disagio degli individui e delle famiglie derivanti da: disabilità inadeguatezza del reddito difficoltà sociali condizioni di non

autonomia. Il sistema si dice i teg ato perché nella realizzazione delle reti di servizi coinvolge sia soggetti del pubblico

che del privato. Altre sue caratteristiche fondamentali sono il coordinamento degli interventi assistenziali con quelli

sa ita i e l i po ta za data al livello te ito iale di zo a.

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Campania dalla Legge Regionale n.11/2007, Legge per la dignità e la

cittadinanza sociale. Attuazione della legge 8 novembre 2000, n. 328,

cui ha fatto seguito nel 2009 il Regolamento Regionale n.16,

disciplinante le procedure, le condizioni, i requisiti comuni ed i criteri di

qualità per l'esercizio dei servizi del sistema integrato degli interventi e

dei servizi sociali, recentemente abrogato dall’entrata in vigore, il 29

Aprile 2014, del nuovo Regolamento Regionale n.4/2014 di Attuazione

della legge regionale n.11/2007, in materia di autorizzazione e

accreditamento dei servizi residenziali, semiresidenziali, territoriali e

domiciliari. Tale regolamento prevede in un dettagliato catalogo le

diverse tipologie di Servizi residenziali e semiresidenziali207.

La Comunità alloggio, secondo quanto indicato nel Regolamento

Regionale n. 4/14, è un servizio educativo residenziale a carattere

comunitario, caratterizzato dalla convivenza di un gruppo di adolescenti

in numero massimo di 8 e di età compresa tra i 13 e i 18 anni, con la

presenza di operatori professionali che assumono la funzione di adulti di

riferimento. La comunità alloggio assicura, nell’arco delle 24h per tutto

l’anno, accoglienza e cura dei giovani, costante azione educativa,

assistenza e tutela, gestione della quotidianità, attività socio educative

volte ad un adeguato sviluppo dell’autonomia individuale,

coinvolgimento dei giovani in tutte le attività di espletamento della vita

quotidiana come momento a forte valenza educativa, inserimento in

attività formative e di lavoro, stesura di progetti educativi

207

Per quel che concerne le strutture di accoglienza residenziali per minori il suddetto regolamento prevede: Comunità di

pronta e transitoria accoglienza; Casa famiglia; Comunità educativa a dimensione familiare; Comunità alloggio; Gruppo

Appartamento. Cfr. Catalogo dei servizi residenziali, semiresidenziali, territoriali e domiciliari di cui al Regolamento di

attuazione della L.R. 11/2007.

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individualizzati, gestione delle emergenze, socializzazione e animazione.

L’equipe che opera nel servizio mette in atto azioni volte a dare risposta

ai bisogni dei minori, alla realizzazione del piano individuale, al rientro

nei propri contesti familiari, ovvero alla realizzazione di programmi di

affido o di adozione. La permanenza degli ospiti può essere estesa fino al

compimento del 21° anno di età limitatamente ai casi per i quali si

rende necessario il completamento del percorso educativo e di recupero.

La comunità alloggio può inoltre ospitare minori sottoposti alle

misure di cui al DPR 448/88 o minori diversamente abili nei limiti del

quaranta per cento della ricettività massima ovvero per quel che

concerne i minori in area penale può ospitarne in un numero massimo di

3 (tra questi ovviamente non vengono considerati i minori in art. 28 in

quanto tale collocamento, come già evidenziato, nella Regione

Campania avviene in misura amministrativa).

Ma l’aspetto cui il Regolamento citato presta maggiore attenzione è

quello delle figure professionali208, aspetto su cui il sistema appare oggi

sempre più attento e selettivo, segno questo di un’attenzione che si è

evoluta in senso qualitativo e che manifesta la volontà di sgombrare il

settore da una certa tendenza, cui si è assistito negli anni passati,

all’improvvisazione e alla superficialità, dettata in taluni casi dalla

convinzione che ogni adulto in quanto tale è un educatore. Pensiero

208

Al riguardo la Comunità Alloggio deve prevedere la seguente dotazione organica: un coordinatore in possesso di laurea

agist ale i psi ologia o i so iologia, i s ie ze dell edu azio e, i s ie ze della fo azio e, i s ie ze dei se vizi so iali,

o equipollenti, con esperienza di almeno un anno nel settore dei servizi sociali, o in alternativa, in possesso di esperienza

almeno quinquennale nel settore dei servizi sociali; figure professionali di III livello, quali educatore professionale laureato

in scienze dell'educazione/formazione oppure psicologo oppure assistente sociale; figure professionali di II livello, con

formazione specifica su tematiche educative e psicopedagogiche relative all'età evolutiva, nonché sulla mediazione

culturale, se presenti minori stranieri (es. qualifiche OPI , OSA). Il servizio deve prevedere, durante le ore diurne, la

presenza di almeno un operatore (II o III livello) ogni 4 minori presenti e, durante le ore notturne, la presenza di almeno

un operatore (II o III livello). Di tali figure il 60% deve essere di II livello e il 40% di III livello. Sono previste poi altre figure

fu zio ali all attuazio e del p ogetto edu ativo della o u ità.

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questo senz’altro apprezzabile ma che si scontra con una realtà, quella

dei minori in difficoltà, che necessità di competenza e interventi

qualificati che non possono assolutamente essere improntati ad un mero

sentimento paternalistico. Certo, è chiaro che non basta un

organigramma perfetto per assicurare un intervento educativo adeguato

ed efficace, ma quanto meno ne è il presupposto e il punto di partenza.

Da quanto detto si evince come nel tempo si sia rinforzato il sistema

di controllo e vigilanza di quanti nelle diverse modalità operano nel

sociale. Ciò per garantire una maggiore qualità del servizio offerto,

attraverso il rispetto di requisiti che non sono meramente strutturali,

quanto volti soprattutto a garantire la presenza di personale

specializzato operante nel settore.

E’ dunque a questi requisiti che oggi risponde l’opera educativa

Rogazionista: la struttura Antoniana, con la chiusura dell’istituto ancor

prima dei termini di legge, vide l’apertura nell’ottobre del 2004 della

Comunità Alloggio “C.ED.RO”, Comunità EDucativa ROgazionista, con

un’utenza, in linea col target fino ad allora accolto, prettamente

dell’area civile e amministrativa. Il passaggio dal vecchio modello

dell’istituto a quello della comunità naturalmente, seppur sancito da una

data precisa, fu di graduale adeguamento e vide il progressivo e deciso

affermarsi di un modus operandi improntato alla costruzione di un clima

di famiglia: dalla scelta del mobilio, alle feste di compleanno, dalla

gestione del tempo ordinario a quella del tempo straordinario, dal

momento dei pasti ai momenti di vita comunitaria. Il tutto sulla base di

una relazione educativa che veniva, con sempre maggiore

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consapevolezza, competenza e responsabilità, a fondarsi sulla

dimensione della cura, declinata in tutte le sue forme nella convinzione

che “sono i legami che si creano tra le persone che permettono di

ricostruire il tessuto della nostra vita quando per diversi motivi viene

strappato, consumato”209.

Il progetto che ha portato all’apertura della comunità “C.ED.RO.”210

è nato dalla consapevolezza che la regione Campania, detiene a livello

nazionale il più elevato tasso di disagio e di devianza giovanile, un triste

primato aggravato dalla trasformazione dello Stato Sociale che sta

attraversando il nostro paese, nel panorama di una società svuotata di

valori umani e culturali in cui la logica della sopraffazione e del profitto

colpisce con più facilità le fasce più deboli ed esposte a rischio di

esclusione e di devianza. Infatti la quasi totalità dei ragazzi cosiddetti "a

rischio" proviene da un'area estremamente anonima e degradata, dove il

disagio giovanile è solo un aspetto, forse il più drammatico, di un

contesto caratterizzato da una qualità della vita estremamente povera

economicamente, socialmente, culturalmente. Questi ragazzi attraverso

i loro bisogni pongono delle domande che chiamano in causa

direttamente la società civile e i suoi sottosistemi: la famiglia, la scuola,

il mondo del lavoro. I problemi legati alla questione minorile in questo

quadro sono mutati in qualità e rilevanza dando vita ad una nuova

complessità che richiede inevitabilmente una nuova cultura

dell'intervento sociale: non più interventi a pioggia ma progetti globali e

209

http://www.anep.it/anep/allegati/file/CNCA___parliamo_ancora_di_comunita%60-dicembre%202012.pdf 210

Per le pagine che seguono cfr. Studi Rogazionisti n.104, Edizione privata della Congregazione dei Rogazionisti, Roma,

; a a he Co u ità Alloggio CED‘O dei ‘ogazio isti, Progetto educativo, carta dei servizi e regolamento CEDRO,

Napoli, 2014.

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mirati (prevenzione, promozione, sostegno e recupero) basati

sull'utilizzo sinergico delle risorse, sulla mobilitazione reale delle forze

sociali e istituzionali (enti locali, sindacati, ministeri competenti,

imprenditori, associazionismo laico e cattolico ecc.) che

necessariamente devono essere coinvolte come soggetti attivi e stabili

nella realizzazione degli obiettivi di un progetto d'intervento sociale.

A Napoli e nella sua provincia, la complessità delle dinamiche socio-

economiche, hanno determinando due realtà socio-culturali che

rappresentano bene la dicotomia fatta di realtà sovrapposte: quella

legale e produttiva e quella illegale e marginale. Ed è in questa seconda

realtà, dove è fortemente presente la disgregazione familiare, la

disoccupazione, l'urbanizzazione selvaggia e la presenza di una

criminalità sempre più arrogante e violenta, che la dimensione di rischio

si trasforma in una realtà comportamentale ed in uno stile di vita

deviante a cui aderiscono moltissimi giovani. Una realtà ove elemento di

sicura incidenza negativa è il ruolo della famiglia troppo spesso lasciata

sola nelle difficoltà educative, ed in questo, inevitabilmente, molte

responsabilità ricadono sulla scuola che sempre di più si caratterizza

come agenzia primaria di socializzazione e formazione lontana dai

bisogni concreti di crescita e di sostegno di questi adolescenti. Una

scuola incapace di proporre una cultura e modelli di riferimenti

alternativi alla strada, una scuola, quella della realtà campana, che

detiene il più alto livello d'evasione, dispersione e mortalità scolastica.

In queste condizioni la famiglia è essa stessa incapace di svolgere un

ruolo pedagogicamente autorevole, mirato a facilitare modelli di

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progettualità che vadano oltre la logica della marginalità. Ciò porta il

minore a vivere la propria esperienza nella contraddizione e nel

contrasto tra due culture: quella del lavoro e della legalità proposto

dalla società civile e quella della subcultura dell'illegalità, della devianza

e della criminalità organizzata, sempre più spesso legata all'ambiente

socio-familiare d'origine.

E' in questa dimensione schizofrenica della vita quotidiana che

moltissimi adolescenti sono costretti a vivere ed è in questo contesto che

è andato evolvendosi nel tempo il progetto educativo proposto dalla

comunità “C.ED.RO”. In particolare, con riferimento all’utenza,

l’innalzamento dell’età dei minori ospitabili rispetto al passato,

congiuntamente alla situazione di “rischio” crescente che si osservava

anche negli adolescenti dell’area amministrativa accolti, provenienti per

lo più dalla zona di Poggioreale e di Secondigliano - Scampia, ha portato

negli ultimi anni ad un’ulteriore apertura al territorio che a partire dal

2009 si è concretizzata con l’accoglienza anche dei ragazzi provenienti

dall’area penale, divenendo così, a tutti gli effetti, una comunità di

utenza “mista”. Naturalmente l’esperienza in tal senso è stata graduale,

scegliendo di accogliere fino a metà del 2011 un solo minore in misura

penale su otto, nella consapevolezza di dover necessariamente ampliare

la “cassetta degli attrezzi” per fronteggiare le esigenze di un’utenza così

particolare. L’approccio graduale ha favorito l’acquisizione della

competenza necessaria per far fronte a questa nuova scommessa,

permettendo congiuntamente l’ampliamento della rete per operare in

tale ambito (in particolar modo i rapporti con l’U.S.S.M.).

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In questo quadro la comunità si propone di poter rappresentare per il

ragazzo un’alternativa, una possibilità, un'esperienza di vita nuova,

costruita sulla responsabilità, sulla corresponsabilità e sul rispetto delle

relazioni umane, su cui costruire modelli comportamentali e riferimenti

positivi e integranti. Ciò attraverso un'offerta educativa capace di

valorizzare quelle potenzialità, troppo spesso espresse in azioni

negative, e di consentire un processo di riflessione e di elaborazione

critica delle esperienze personali che possa portare il giovane a scegliere

valori alternativi e progettualmente diversi rispetto a quelli proposti

dalla strada. La dimensione del piccolo gruppo, la struttura organizzata

secondo il modello familiare, il clima scandito secondo ritmi e regole di

vita più ordinate, la condivisione di beni, spazi, problemi, sono da

considerarsi, dal punto di vista pedagogico, tutti aspetti positivi della

struttura comunitaria per soggetti a rischio di devianza.

La comunità “C.ED.RO”, facendo propri tali aspetti, si ispira,

secondo le linee guida del Padre fondatore, ad un modello di intervento

relazionale centrato sulla persona, sui bisogni, sulle esigenze, sui diritti

e sul rispetto dell’individualità dell’altro. Un modello in cui con un

lavoro di rete, un’accurata progettazione e valutazione del progetto

educativo, diventano possibili interventi improntati alla flessibilità e alla

elasticità organizzativa, in modo da poter rispondere ai cambiamenti

evolutivi di ogni minore.

La relazione costituisce il perno attorno a cui ruota l’intervento di

comunità, il luogo dell’accettazione dell’altro per quello che l’altro è,

della comprensione, della costruzione di legami saldi e significativi,

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venendo a configurarsi di fatto come lo strumento che il minore può

utilizzare nel processo di cambiamento.

A fondamento di tale proposta educativa, differentemente dal

modello dell’Istituto, vi è il lavoro d’equipe, distinta in due diverse

tipologie, equipe educativa ed equipe socio-psico-pedagogica, vera base

e motore del lavoro educativo, più ancora una conditio sine qua non.

Proprio per tale motivo, prima di presentare in maniera più dettagliata il

progetto educativo della comunità “C.ED.RO”, appare opportuno

soffermarsi a considerare più da vicino il significato e la funzione di tale

elemento all’interno della struttura con l’intento di sottolinearne

l’essenzialità e la centralità in essa rivestita, in ragione della

convinzione e della consapevolezza che nessun intervento educativo può

essere portato avanti singolarmente.

L’equipe educativa, costituita dai cinque educatori operanti

all’interno della comunità e dal coordinatore, si occupa della

programmazione e verifica delle attività e della verifica in itinere dei

PEI. Si riunisce due volte al mese con l’equipe socio-psico-pedagogica,

per la verifica dell'andamento della Comunità, dunque dei singoli

percorsi dei ragazzi: le problematiche emerse vengono affrontate da un

punto di vista sia organizzativo che sostanziale, individuando e

scegliendo le strategie e gli strumenti più idonei per porre in essere un

intervento educativo quanto più rispondente alle esigenze del minore.

L’equipe socio-psico-pedagogica, composta dall’equipe educativa,

dalla psicologa e dall’assistente sociale, ha la funzione di sostenere il

quotidiano lavoro educativo svolto dagli operatori e ciò sia attraverso la

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supervisione educativa, atta a mettere in luce e lavorare sulle dinamiche

relazionali e personali dei singoli operatori, sia attraverso incontri ad hoc

centrati su specifiche metodologie di intervento.

Fondamentale importanza riveste la supervisione educativa quale

dimensione necessaria per condividere e orientare l’esperienza degli

operatori e aumentare l'efficacia e l'efficienza degli interventi. Tale

strumento è pensato e attivato per aiutare i singoli educatori a gestire

sempre meglio gli elementi di complessità che caratterizzano

l’intervento educativo e l’agire quotidiano nella relazione educativa. In

quest’ottica il tempo della supervisione è finalizzato a far emergere e

dialogare tra loro le diverse rappresentazioni degli eventi comunicativi

che costituiscono l’intervento educativo, proprie dei singoli operatori,

coinvolti nella gestione dell’intervento. La supervisione è pensata e

vissuta come un tempo privilegiato in cui i singoli operatori possono

mettere insieme le diverse rappresentazioni per costruire un punto di

vista soggettivo dell’equipe, pensata come soggetto plurale. Durante la

supervisione “si fa ricerca”, “si guarda”, “ci si guarda”, “si esplora la

realtà” di cui si fa parte per vedere cosa è accaduto da diverse

angolazioni, favorendo in tal modo la costruzione di nuovi e più

funzionali accordi ed incontri tra i componenti della stessa. La

supervisione, fornendo agli operatori la possibilità di "processare" la

propria esperienza e lavorando congiuntamente sull’analisi e la

rielaborazione dei propri vissuti emotivi consente uno “svuotamento” ed

una “rigenerazione” delle energie e si configura come un momento

significativo di formazione e sviluppo professionale. I meccanismi di

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supervisione, inoltre, realizzano elementi preventivi rispetto al burn-

out211 degli operatori e, più in generale, costituiscono una forma di

tutela indispensabile per la loro salute e, di conseguenza, anche per

quella delle persone con le quali si trovano a dover svolgere la loro

azione212.

E’ questo intenso, costante, faticoso lavoro d’equipe che sorregge e

progetta l’essere comunità, partendo dal presupposto che non basta

l’accostamento dei due concetti “comunità” e “minori” per produrre

un’organizzazione sociale innovativa e significativa rispetto ai problemi

in gioco: è necessario progettare la loro messa in relazione. Da qui si

comprende l’importanza di un progetto educativo di comunità, che

evidenzi gli aspetti qualificanti e lo stile della presa in carico realizzata,

cui facciano riferimento i singoli progetti educativi personalizzati. E’

infatti proprio la progettazione, la realizzazione e la verifica empirica

degli interventi individualizzati a sostegno dei minori in difficoltà, a

segnare la linea di confine tra l’istituto e la comunità educativa, tra il

“vecchio” e il “nuovo”.

211

Il burn out, letteralmente bruciare fuori, è una sindrome da stress lavorativo, caratterizzata da esaurimento emotivo,

irrequietezza, apatia, depersonalizzazione e senso di frustrazione, frequente soprattutto nelle professioni ad elevata

implicazione relazionale. Tale si d o e dete i a il ollo dell ope ato e ispetto alle aspettative de iva ti dall attività professionale; indica il suo cedimento a livello fisiologico, psicologico e comportamentale; si manifesta quando il soggetto

o ies e più a fa f o te alle i hieste, i te e ed este e, elative all attività svolta, vale a di e o ies e a ealizzare i

p op i o iettivi e a ispo de e alle ista ze dell organizzazione in cui lavora in maniera soddisfacente e gratificante. I livelli

di st ess dive ta o, ui di, o più gesti ili, il e di e to dell i dividuo vie e o p o esso e le ipe ussio i sulla qualità della prestazione appaiono evidenti. Può essere p eve uta e o t astata o u effi a e supe visio e e da u a costante formazione. 212

In particolare gli ambiti ed i contenuti di lavoro della supervisione sono così distinti:

-la supervisione psicologica si interroga rispetto al vissuto individuale o collettivo dell espe ie za ope ativa, indipendentemente dalla sua collocazione nella cornice della dimensione progettuale;

-la supervisione pedagogica, invece, ha lo scopo di favorire la lettura pedagogica dei fatti educativi. In particolare, è una

supervisione finalizzata a: individuare e sciogliere alcune situazioni intoppo che non consentono, a una prima analisi,

l auspi ato p o ede e del p ogetto; evidenziare il senso dell agi e educativo del singolo e dell equipe: ovvero il cosa si fa in

modo pedagogicamente fondato, cosa accade, cosa si fa accadere e come, nel qui ed ora dell azio e edu ativa, io scoprire l edu azio e pe sata, a he laddove o se a esse vi pe sie o, e s op i e la p ati a edu ativa a he laddove non sembra esservi pratica educativa; favorire il o f o to t a le di hia azio i d i te ti edu ativi e gli effetti edu ativi, quando tra i due momenti sembra esistere uno discrepanza.

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E’ proprio quest’ottica progettuale che motiva e orienta la vita

quotidiana della comunità e dei suoi protagonisti, educatori e ragazzi,

puntando a promuovere il valore della dimensione comunitaria,

attraverso un approccio centrato sulle relazioni, con l’obiettivo di

costruire un'alleanza emotiva e di lavoro tra operatori e ragazzi ospiti, in

un processo di educazione e di riparazione dei danni subiti negli

ambienti di provenienza. Certo, far vivere “sotto lo stesso tetto” un

gruppo di adolescenti provenienti da percorsi difficili e portatori di

specifiche problematiche, può sembrare una scommessa persa perché

ripropone il criterio del “ghetto” o peggio ancora perché rappresenta il

rischio, da non correre, di veder riproposti all’interno i modelli devianti

appresi in strada.

Ma il nodo si gioca tutto proprio nel senso del “mettere insieme”.

Significativo, al riguardo, appare il punto di vista di Barbanotti e

Iacobino che pone in evidenza come l’educativa di comunità si fondi “su

un apparente paradosso: accomunare individualità problematiche non

costituisce di per sé un moltiplicatore delle problematiche di ciascuno,

ma, al contrario, è possibile puntare sulla vita di gruppo come

opportunità, per i singoli, di apprendimento sociale e comunicativo e di

sperimentazione emozionale-affettiva”213.

Su questo apparente paradosso si gioca la scommessa della comunità

alloggio “C.ED.RO”.

213

G. Barbanotti, P. Iacobino, Comunità per minori. Pratiche educative e valutazione degli interventi, Carocci, Roma, 1998.

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4.2. Il progetto educativo e il P.E.I

La “C.ED.RO.”214 è una comunità alloggio, autorizzata al

funzionamento secondo il Regolamento Regionale n. 4/14: accoglie un

numero massimo di otto minori dell'area penale e civile, di sesso

maschile e di età compresa tra gli 13 e i 18 anni. I ragazzi, italiani e

stranieri, sono inseriti sia dal CGM in misura penale, sia dai SSTT, quindi

in misura amministrativa o civile. Vi è anche la disponibilità ad

accogliere minori in situazioni di emergenza. Nelle altre circostanze è

previsto un iter per l’inserimento che prevede il coinvolgimento del

minore e della famiglia insieme al servizio sociale di riferimento nelle

fasi di accoglienza e permanenza nella struttura.

L’incontro con la comunità si caratterizza per l'offerta di

un’esperienza di vita comunitaria regolata da norme chiare e visibili,

improntate al rispetto delle persone e delle cose. Tali regole

opportunamente sintetizzate in un regolamento interno, vengono

presentate ai ragazzi e alle loro famiglie al momento dell’ingresso: al

giovane viene poi chiesto anche di firmare il documento, quale gesto che

simbolizza l’assunzione di responsabilità rispetto a quanto condiviso e

l’impegno a rispettarlo.

La conduzione della struttura è di tipo familiare e il modello

operativo è di tipo valoriale: la comunità intende porsi quale “spazio

educativo”, ove l’integrazione del minore si realizza attraverso il

linguaggio, la presenza (in termini di coinvolgimento) e la reciprocità

214

Per le pagine che seguono cfr. Studi Rogazionisti n. 104, Edizione privata della Congregazione dei Rogazionisti, Roma,

; a a he Co u ità Alloggio CED‘O dei ‘ogazio isti, Progetto educativo, carta dei servizi e regolamento CEDRO,

Napoli, 2014 e Progetto educativo rogazionista, Congregazione dei Padri Rogazionisti, Roma, 1998.

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(nel senso del continuo interagire) che implicano la capacità di

trasformare l’errore, l’insuccesso, in elementi di crescita e non in

legittimazione di uno status215. All’interno di tale spazio educativo i

giovani ospiti possono cominciare a sperimentare un nuovo contesto di

sviluppo al cui interno vengono proposte attività pedagogiche e

psicosociali.

In questo progetto di crescita e di responsabilizzazione del minore la

strategia d’intervento della comunità si basa, laddove possibile, sul

pieno coinvolgimento della famiglia per contenere le ricadute delle crisi

intra-familiari sul minore, quindi evitare che il nucleo familiare resti

immobile al processo di crescita intrapreso dal minore e sostenere la

famiglia nell’acquisizione di nuove motivazioni.

Altro obiettivo fondamentale del progetto è quello di far acquisire al

minore il maggior grado di autostima, responsabilità e autonomia

personale attraverso un approccio di tipo maieutico ed attivo con

l’attenzione posta sui processi e sul farsi dell’esperienza piuttosto che

sul prodotto: è il “come” l’aspetto realmente rilevante.

Contribuire alla formazione di un’identità personale; facilitare la

comunicazione e la socializzazione; sviluppare il senso del dovere e

dell’impegno per il proprio lavoro e promuovere la capacità di

autogestire la propria vita secondo criteri di rispetto per gli altri, di

onestà e di legalità. Educare alla relazione e ai rapporti interpersonali

tra pari e con il mondo adulto.

Questi gli obiettivi cui tende l’azione educativa della comunità.

215

L. Trisciuzzi, C. Fratini, M. A. Galanti, Manuale di pedagogia speciale, Laterza, Roma-Bari, 1996.

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Per quel che concerne invece più strettamente l’organizzazione

dell’accoglienza, essa è regolata secondo un iter in cui possiamo

distinguere quattro fasi: accoglienza, osservazione e orientamento;

realizzazione del progetto educativo individualizzato; dimissioni.

Tali fasi sono concepite sempre elasticamente, nel rispetto delle

storie individuali, vissute in continuo dialogo con la famiglia d’origine e

tutti gli altri referenti del progetto educativo individualizzato.

Il primo momento è quello dell’accoglienza, decisa dal responsabile,

dopo avere sentito il parere dell'equipe socio-psico-pedagogica e

dell’equipe educativa. In questa fase il nuovo ospite viene inserito

gradualmente nella vita della comunità con un accompagnamento

attento e costante, affinché possa sentirsi accolto e possa familiarizzare

con l’ambiente. Le prime osservazioni, i colloqui, la documentazione

cartacea e la conoscenza personale del nuovo arrivato costituiranno la

base fondamentale per l’elaborazione del PEI.

Segue poi una fase di osservazione e orientamento, con cui inizia il

percorso di integrazione vero e proprio in comunità. Man mano che il

ragazzo si inserisce nei ritmi quotidiani della vita comunitaria,

l’attenzione degli operatori sarà rivolta agli aspetti motivazionali,

comportamentali, attitudinali e relazionali del minore, attraverso

un’osservazione sistematica, strutturata con specifici protocolli.

Un’osservazione che sarà reciproca e che orienterà ciascun protagonista

del dialogo educativo nella definizione del progetto educativo

individuale.

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Dopo un opportuno tempo di osservazione si procede con la stesura

del Progetto Educativo Individuale: strumento operativo che concretizza

l’intenzionalità propria di ogni intervento che voglia dirsi “educativo”. Il

PEI è infatti utilizzato per rispondere al criterio di personalizzazione

degli interventi attraverso la stesura di un percorso, individualizzato e

strutturato che parta dai reali bisogni di ciascun ragazzo e che miri a

favorirne una crescita armonica. Consente, inoltre, all'equipe educativa

un approccio comune e sempre concordato alle problematiche del

minore, per un intervento che sia sempre progettuale e mai improvvisato

dai singoli educatori. Il PEI rappresenta la declinazione degli obiettivi

generali, fissati nel complessivo progetto di presa in carico della

comunità, in base alle esigenze e alle caratteristiche del singolo ragazzo.

Attraverso un’osservazione attenta si cerca di dare una “lettura” ai

bisogni del ragazzo e di immaginarne l’evoluzione possibile

predisponendo un percorso a lui rispondente, che prevede anche i

programmi di intervento psico-pedagogici. Non esiste uno schema

unitario per la costruzione dei PEI, ma al di là delle configurazioni

possibili, in esso vanno previsti: l’anamnesi personale e familiare

finalizzata a individuare problemi, risorse, difficoltà e potenzialità; gli

obiettivi a lungo termine e quelli a medio e breve termine, di crescita,

personalizzati e possibili, adeguati al tempo previsto di permanenza se

conosciuto; gli strumenti operativi, interni ed esterni alla struttura

residenziale, per raggiungere gli obiettivi stabiliti; un’efficace sistema di

verifica, sia in itinere per consentire la rimodulazione necessaria che

finale del progetto medesimo.

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Concretamente esso viene redatto dagli educatori referenti dei vari

minori, rivisto collettivamente dall'équipe psico-pedagogica e

successivamente condiviso con il referente istituzionale del Sevizio

Sociale competente. Viene poi aggiornato ogni sei mesi, oltre che allo

scadere dei termini stabiliti per il raggiungimento degli obiettivi,

effettuando una revisione dei risultati raggiunti e di quelli ancora da

raggiungere nei tre ambiti della vita quotidiana del minore: autonomia,

rapporto con se stesso e con gli altri, scuola e attività formative.

Appare opportuno sottolineare che per non perderne l’efficacia, il

PEI debba essere realmente verificabile, evitando obiettivi

eccessivamente generici e pertanto non misurabili. Inoltre proprio al fine

di rendere il minore protagonista della propria crescita, gli obiettivi

vengono condivisi con i ragazzi e, quando possibile, con i loro familiari,

comunicando i macro-obiettivi e concordando insieme gli strumenti e i

micro-obiettivi. Ove possibile, è importante ottenere l’adesione

sostanziale del minore e della sua famiglia al progetto attraverso la

costruzione di un processo motivazionale, come processo cognitivo e

emotivo, al fine di favorire soluzioni che restituiscano al ragazzo un

percorso di vita “normalizzato”: infatti solo se il minore riuscirà a

maturare una motivazione al cambiamento potrà realmente iniziare un

nuovo percorso di vita all’interno di un contesto sano e significativo,

come può essere quello della comunità216.

Appare evidente che la messa a punto di questa operazione è un

lavoro delicato e complesso poiché si tratta di tradurre bisogni, desideri

216

F. Ricci, D. Resico, Pedagogia della devianza, op. cit., p. 200.

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e domande, attraverso una faticosa attività simbolica, in un progetto

realistico e concreto, incentrato sul “bene del minore”. Complessità che

si gioca tutta nella consapevolezza che per decidere qual è il bene del

minore ci si basa su ipotesi, opzioni, scelte, sempre esposte al rischio

dell’incerto, del non compreso, dell’errore, del fallimento, in una

costante dialettica che richiede la capacità di guardare “ciò che è” e

congiuntamente immaginare “ciò che potrebbe essere”, ossia di avere

uno sguardo che sappia mettere insieme reale e possibile.

Infine il percorso si chiude con un accompagnamento post-comunità:

le dimissioni infatti non segnano la fine di ogni rapporto del ragazzo con

essa in quanto viene posta in essere quella che Ricci e Resico definiscono

una “sorta di supervisione pedagogica del soggetto”217: gli operatori

della comunità si occupano di attivare tutti quei contatti (territorio di

appartenenza, scuola, risorse familiari, agenzie socio-educative

pubbliche e private) che favoriscano il rientro del minore nel proprio

ambiente e ne valorizzino le spinte motivazionali, le competenze a

livello di autostima e le ricchezze attitudinali che, si spera, egli abbia

individuato o ritrovato in comunità.

E’ un aspetto importante del percorso questo appena delineato

poiché la protezione rispetto ai fattori di rischio appare fondamentale

per garantire alla persona la possibilità di proseguire il proprio percorso

di vita sapendo che nelle situazioni di difficoltà è ancora necessario

avere dei punti di riferimento e di contatto con figure significative.

217

Ivi, p. 204.

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Infine per quel che riguarda l’intero iter descritto, è opportuno

evidenziare che la musica di fondo dei singoli progetti e momenti del

percorso, ovvero dell’intervento educativo, è la stessa vita comunitaria

che si svolge nella quotidianità, strutturandosi sul principio

dell’attenzione alla soggettività di ciascuno e ai suoi bisogni.

Un metodo di intervento, questo illustrato, che mira a

“normalizzare” i ritmi di vita del ragazzo e soprattutto a fornire dei

riferimenti valoriali da utilizzare come spazio di riflessione in grado di

aiutarlo a rielaborare il proprio vissuto. In questo processo di

“normalizzazione” il minore non deve essere “svuotato” come un

contenitore e riempito con valori avulsi dalla sua realtà.

Bisogna pertanto partire dal riconoscimento del suo vissuto e del suo

“modello operativo interno”218 per avviare una fattibile esperienza di

crescita e integrazione sociale. Nelle fasi di approccio relazionale sono

utilizzati tratti culturali propri dei ragazzi: il forte senso della famiglia,

dell'amicizia e dell'appartenenza al contesto territoriale. Questi tratti

lungo il percorso di socializzazione proposto dalla comunità vengono

rielaborati e affiancati da specifici universi valoriali offerti

dall’esperienza comunitaria quali: l'onestà, la solidarietà, la

disponibilità, la condivisione, il lavoro, la corresponsabilità, la

partecipazione e la responsabilità individuale. Al ragazzo viene offerto

un ventaglio di opportunità miranti alla realizzazione di un processo di

218

Il MOI odello ope ativo i te o , se o do la teo ia dell atta a e to, la app ese tazio e e tale delle elazio i, ossia il modo di essere che ciascun individuo utilizza nelle interazioni quotidiane; tale schema si struttura nei primi mesi di

vita in base al tipo di attaccamento instaurato con il caregiver. Gli studi al riguardo evidenziano che i soggetti devianti

elaborano una rappresentazione di se stessi come persone non degne di essere amate, risultato di una relazione primaria

incapace di trasmettere fiducia, protezione, contenimento.

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risocializzazione attraverso il quale elaborare possibili itinerari utili al

superamento del pregresso stile di vita.

L’idea di fondo è proporre strade alternative a quelle da lui già

percorse, che possano ispirare un desiderio di cambiamento o almeno

consentire una possibilità di scelta. In altri termini “si tratta di rendere

la comunità un contesto capace di offrire o proporre un coinvolgimento

del minore all’interno di attività che rispondano al suo bisogno

fondamentale di diventare adulto e di uscire dal sistema che lo porta ad

identificarsi con un meccanismo deviante”219.

Sulla base di quanto detto la proposta educativa della comunità

“C.ED.RO.” si articola in moduli d’intervento che prevedono sia attività

interne che esterne.

Le attività interne mirano alla gestione e all’organizzazione

quotidiana degli spazi e dei tempi comunitari: in casa si curano

soprattutto la formazione (cercando un’integrazione con le istituzioni

che ricrei, anche attraverso percorsi alternativi e personalizzati, un

rapporto positivo e sano con la scuola e lo studio), il momento del

dopocena e le attività finalizzate alla crescita integrale dei minori

accolti, anche attraverso il coinvolgimento di volontari. Si organizzano

attività di recupero scolastico, corsi di alfabetizzazione, sostegno e

orientamento psicologico, focus-group periodici su tematiche varie

scelte ad hoc. Sono previste, inoltre, diverse attività laboratoriali

(manualità-attività di piccola professionalizzazione oggettistica, pittura,

giardinaggio, cucina e panificazione, pasticceria, espressione), intese

219

Ivi, p. 194.

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quale spazio per recuperare il saper fare, per educare all’espressività,

all’impegno, al coinvolgimento emotivo, per consentire di sperimentare

cose nuove ma anche di sentirsi capaci, per suscitare la nascita di

interessi, per allenare alla cooperazione, per lavorare sull’autostima,

per favorire la creatività.

Le attività esterne sono gestite in rapporto al tempo libero e, con

l’intento di favorire forti momenti di socializzazione, vengono

organizzati incontri con associazioni territoriali, gite, visite guidate,

cineforum. Grande importanza viene anche data alle attività sportive

(calcio, nuoto, boxe), alle attività ricreative, ma soprattutto a quelle

attività “straordinarie” che hanno una valenza formativa particolare e

con cui si cerca di stimolare la curiosità dei minori verso il mondo. Sono

attività mirate di vario tipo, che si aprono anche alla collaborazione con

altre associazioni (Agesci, Apan, (R)esistenza, Legambiente, Scugnizzi,

OcchiAperti), improntate al valore della legalità, del servizio, della

scoperta della natura e del territorio in cui viviamo e che hanno la

funzione di permettere ai ragazzi di scoprire se stessi e i propri limiti,

ma anche di conoscere mondi altri dai loro.

Nella logica della casa aperta e di una vita il più possibile vicina allo

stile familiare si favorisce la partecipazione dei minori ospiti alle attività

e alle iniziative presenti sul territorio, l’instaurarsi di rapporti di

amicizia con coetanei compagni di scuola e con famiglie amiche della

comunità.

Coerentemente con tale progetto educativo da sempre si è teso a

instaurare corretti rapporti di collaborazione tra la struttura residenziale

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e la rete dei servizi, con gli enti locali competenti, con le varie agenzie

di educazione e socializzazione, nella convinzione che la comunità è uno

dei “nodi” della rete di interventi, azioni ed opportunità di crescita e

sviluppo individuale e sociale per il soggetto accolto.

Infine un aspetto importante che merita un approfondimento

adeguato è la funzione del già citato Progetto Educativo Individualizzato,

per quel che concerne i minori dell’area penale.

A seguito di quanto prescritto dall’Autorità Giudiziaria e,

richiamando la Circolare D.G.M. 16 giugno 2004, prot. n. 19259, la

formulazione del PEI avviene attraverso: l’utilizzazione delle

informazioni raccolte; la valutazione delle abilità, delle risorse e delle

potenzialità del minore; l’utilizzazione delle risorse interne ed esterne

alla comunità; l’osservazione partecipata del comportamento, al fine di

realizzare un lavoro educativo che si ponga obiettivi di cambiamento

concretamente raggiungibili.

Secondo quanto indicato esso inoltre deve esplicitare: gli obiettivi a

lungo termine e quelli a medio e breve termine; le attività – e fra queste

eventualmente anche quelle finalizzate al raggiungimento di obiettivi

quali la riparazione delle conseguenze del reato e la riconciliazione con

la vittima – che impegneranno il minore per perseguire gli obiettivi

individuati; le modalità con le quali si realizzeranno le attività stabilite;

l’integrazione con le risorse presenti sul territorio; le fasi e le modalità

di verifica intermedia e finale, utili per relazionare all’Autorità

Giudiziaria; i ruoli dei diversi attori (Servizi, Comunità, famiglia,

individuazione dell’educatore di riferimento del minore, ecc…) coinvolti

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con il minore nell’attuazione del progetto; le modalità di comunicazione

e di interazione fra i vari attori e tra questi ed il minore.

E’ inoltre opportuno che sia concordato con il minore e con la

famiglia, per perseguire lo specifico obiettivo di: far acquisire al minore

consapevolezza e responsabilizzazione rispetto alla misura restrittiva

della libertà personale; definire gli interventi da attuare e le esperienze

formative, educative e lavorative da proporre al minore, al fine di

assicurargli le condizioni per un normale processo di crescita che

promuova l’assolvimento dei compiti evolutivi e la responsabilizzazione

rispetto alla società; partecipare, con i Servizi preposti, alla promozione

degli interventi da attuare per modificare il contesto familiare ed

ambientale in vista del suo rientro con chiara indicazione delle

prospettive, fasi e tempi per il reinserimento del minore nel suo

ambiente di vita, oppure definire altre soluzioni in rapporto alla

condizione del minore.

Proprio in quest’ottica il P.E.I., non deve essere considerato uno

strumento rigido e statico, deve essere verificato e, se necessario,

ridefinito in itinere, adattandolo ai mutamenti intervenuti nella

situazione personale e familiare del minore. Nel suo svolgersi bisogna poi

puntare ad accrescere le competenze del ragazzo e sostenerlo nel

proseguire il progetto avviato (inserimento lavorativo, scolastico, di

formazione lavoro ecc.) durante la permanenza in Comunità, verso un

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concreto progetto di vita futura, usufruendo anche dei servizi del

territorio in grado di dare supporto al nuovo progetto di vita220.

Appare infine rilevante inquadrare il PEI nel più ampio discorso del

garantire tutela al minore accolto in comunità residenziale, finalità che

presuppone la necessità di definire con chiarezza il sistema di

corresponsabilità tra i diversi soggetti coinvolti nel progetto educativo,

quali Istituzioni pubbliche, Servizio sociale, contesto sociale e comunità

educativa, affinché si possa superare il limite dell’autoreferenzialità,

della distanza progettuale e, soprattutto, della delega de-

responsabilizzante. È dunque necessario ribadire la centralità del

Servizio sociale territoriale, tenuto a garantire protezione e tutela per

tutti i minori, nella predisposizione di un “progetto quadro o progetto

globale” a favore del minore accolto in comunità e della sua famiglia, in

riferimento al quale è conseguentemente pensato e definito il “progetto

educativo individualizzato” di competenza della comunità.

In quest’ottica appare evidente che anche la relazione con la

Magistratura minorile debba collocarsi in un sistema di corresponsabilità

che tenda a sostenere e riconoscere il fondamentale ruolo educativo

della comunità, anche laddove l’inserimento del ragazzo sia applicativo

di misura penale ex D.P.R. 448/88 e, dunque, richieda necessariamente

la definizione di un possibile e sostenibile equilibrio progettuale tra

“relazione educativa” e “funzione di controllo”.

Il P.E.I. individua dei vincoli precisi rispetto al “cosa” deve essere

fatto (tempi, modalità di verifica, attori coinvolti) lasciando maggiore

220

Vademecum Operativo per le comunità del privato sociale a cura del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia

Minorile.

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flessibilità rispetto al “come” deve essere fatto, in ragione delle singole

specificità dei Servizi sociali del territorio e della comunità, individua

inoltre dei requisiti standard che possono essere anche ulteriormente

implementati.

Il P.E.I. si basa su un’ottica sistemico-relazionale ed ecologica, con

l’obiettivo della costruzione e condivisione di un progetto di vita che sia

realmente tale. E’ un progetto che promuove la corresponsabilità,

mettendo assieme figure professionali diverse ed anche un’occasione per

superare i diversi “specialismi” e specificità di intervento professionale e

creare aree di sapere condivise e di apprendimento reciproco. Se

adeguatamente valorizzato è strumento che ci porta a poter effettuare

una adeguata valutazione diagnostica e prognostica della situazione e

l’esame di fattibilità del progetto stesso, in relazione ad ipotesi iniziali

che sicuramente in corso d’opera si sono modificate e quindi necessitano

di essere esplicitate e ricondivise costantemente. La sfida è condividere

i cambiamenti, le evoluzioni, le involuzioni, far circolare le informazioni

e trovare anche gli spazi e i luoghi, per fare i modo che tutti coloro che

hanno responsabilità decisionali (famiglia d’origine inclusa) possano

avere un quadro sufficientemente chiaro di ciò che sta avvenendo, e

concorrere in modo adeguato alla definizione di interventi e strategie

progettuali.

Tuttavia accanto a tali punti di forza, convivono anche elementi di

criticità. Innanzitutto come purtroppo accade per altri ambiti, la

costruzione di questo tipo di progetto spesso rimane solo sulla carta;

alcuni Servizi sociali, e di conseguenza le strutture residenziali ad essi

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agganciate dal singolo progetto, non elaborano nessun PEI. D’altra parte

un PEI elaborato solo all’interno della comunità perde molto del suo

valore, rimane interno e non ha nessuna valenza di sistema.

Infine va considerato che anche a favore dei ragazzi “del penale”

sarebbe opportuno venisse formulato uno specifico P.E.I. da parte

dell’USSM in collaborazione con il Servizio sociale dell’ente locale al fine

di garantire un progetto individuale in grado di comprendere aspetti ed

obiettivi anche al di là del “fatto penale”221. Nella prassi però, in alcune

regioni, come la Campania, il P.E.I. non è previsto per i minori dell’area

penale: in questi casi il P.E.I. di un minore sottoposto a provvedimento

dell’Autorità Giudiziaria risulta essere l’applicazione rigida di quanto

schematicamente indicato nell’Ordinanza emessa dal Tribunale per i

Minorenni a cui, sia l’USSM che i Servizi Sociali Territoriali si attengono

per il periodo limitato al tempo del provvedimento penale. Il fatto che il

P.E.I. non sia esplicitamente previsto, non vuol dire però

automaticamente che non si faccia in nessun caso: per i minori in art.22,

per esempio è la comunità a provvedere alla sua stesura e l’U.S.S.M. pur

non partecipando alla realizzazione del documento, ne è comunque

firmatario; è chiaro che in tali casi un forte limite è rappresentato

dall’incertezza del tempo di permanenza del minore in struttura.

Un po’ diverso è invece il discorso per i minori in messa alla prova:

infatti in questi casi lo specifico progetto su cui si fonda la prova stessa,

coincide di fatto con il PEI, firmato congiuntamente dall’U.S.S.M e dal

S.S.T.

221

C.N.C.A., Parliamo ancora di comunità, Gruppo ad hoc Nazionale – Infanzia, Adolescenza e famiglie, 2012, p. 30-33.

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4.3. Ri-tessere il quotidiano

La comunità di accoglienza è, sulla base di quanto detto, un sistema

di relazioni, un contesto capace di offrire ai ragazzi accolti una relazione

attenta, specifica, significativa, calda, in cui riconoscersi e nella quale

riconoscere adulti disponibili a mettersi in discussione e a mettersi e

rimettersi in gioco nel quotidiano, adulti capaci di accoglierli, di

prendersi cura di loro per far fronte al forte bisogno di essere

contenuti222 e di ricevere fiducia, di cui sono portatori.

Musica di fondo degli interventi educativi nella comunità “C.ED.RO.”

è, dunque, la ricerca appassionata e continuamente rinnovata della

dimensione relazionale che sostiene il sistema di corresponsabilità tra i

soggetti in gioco e che si esprime nella cura del clima e della vita

comunitaria, in un agire costituito da piccole cose alla cui base vi è la

responsabilità, quale fondamento di cura dell’altro223.

Coerentemente con quanto detto un’importante pista di lavoro

praticata al “C.ED.RO.” consiste innanzitutto nell'alimentare la fiducia,

base della relazione educativa. Tale operazione è tuttavia estremamente

delicata poiché fondata su un meccanismo a doppio binario: perché gli

educatori possano dare fiducia ai ragazzi è, infatti, necessario che i

ragazzi abbiano fiducia in loro e si riconoscano all'interno di una

relazione di scambio fiduciario. Operazione, questa, complessa e mai

222

Il contenimento, nella sua accezione più positiva del tener dentro, darsi tempo, sentire, rimanda alla possibilità per gli

ope ato i di fa si a i o del vissuto dell alt o, pe pote off ire una restituzione diversa, un punto di vista altro. Concetto di

at i e psi oa aliti a Wi i ott o e e i se so più ge e ale la apa ità dell adulto di a oglie e, i te p eta e ed elaborare le emozioni espresse dal bambino. 223

La u a pe l’alt o e l essere-per-l’alt o so o due p esupposti fo da e tali di og i dis o so pedagogi o. La u a ui i tesa el se so heidegge ia o: la u a fa pa te del ost o esse e gettati el o do e fo da og i o upazio e dell uo o, i ua to el suo fo da e to l Esse e dell Esse i Cu a ; e o segue he l uo o si p e de u a pe h Cu a. La u a , du ue, i tesa i se so o tologi o ed esiste ziale, des ive l uo o o e elazio e di p ossi ità e di i o t o o le ose e o l alt o: og i osa della vita esa possi ile dalla u a, i uesto se so la u a i g esso el

o do della elazio e o l alt o, i o t o o l alte ità.

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scontata per chi proviene da situazioni familiari disfunzionali e non ha

avuto dalle figure adulte di riferimento sufficiente care224. L’alimentare

la fiducia è, pertanto, un’operazione che va costruita con pazienza,

gradualità, rispetto dei tempi, ripetizione di gesti: è la quotidiana

ritualità che permette il riconoscimento e l'appartenenza comune alla

stessa esperienza e che apre alla possibilità di affidarsi all’altro. Il

susseguirsi di tante piccole abitudini, procedure, situazioni vissute

insieme, consente, a ragazzo ed educatore, di scambiarsi delle cose,

realizzando la co-appartenenza, ossia quell’esperienza comune che fa

diventare reciprocamente noti. Ciò permette la costruzione di una storia

comune e favorisce la condivisione dei ricordi che di sovente viene

verbalizzata dai ragazzi con frasi quali “ti ricordi quella volta che….”225.

Un “ti ricordi…?” che ha il sapore della familiarità, della reciprocità e

che, non a caso, spesso viene rimarcato dal gruppo al momento di un

nuovo ingresso, ove l’ultimo arrivato viene guardato con diffidenza dai

già residenti, che con queste espressioni sottolineano la distanza tra

“lui” e “noi”. Distanza che naturalmente andrà riducendosi col passare

del tempo, ossia col susseguirsi di nuove esperienze comuni includenti

anche il nuovo ragazzo.

224

La teo ia dell’atta a e to descrive le modalità attraverso le quali il bambino impara a soddisfare il suo bisogno di

accudimento e di protezione; questo soddisfacimento porta ad instaurare una relazione significativa con le sue figure

adulte di ife i e to; i ase alla ualità dell atta a e to il a i o sviluppe à u a p op ia odalità di elazio a si o il proprio contesto di vita MOI . La ualità della a e p i a ia i ide sulla possi ilità di st uttu a e atta a e ti si u i e di o segue za st ategie di auto egolazio e e otiva: u a a e po o a ude te, po o se si ile o del tutto asse te determinerà nel bambino la costruzione di un MOI che non permetterà di instaurare relazioni positive, comportando una

forte difficoltà nella gestione del proprio mondo emozionale e una rappresentazione di se stessi come persone incapaci di

dare e ricevere fiducia. 225

Il ricordare rimanda all aspetto pe ettivo – esteti o della elazio e: i fatti l e ozio e he p ovo a il i o do evo a u a memoria, che può essere positiva o negativa; ciò vuol dire che dacché le cose sono inanimate, prendono vita quando

nascono nel nostro mondo ed è su ciò che ha vita nel nostro mondo che poi si basa il senso del ricordo. Con tale

ope azio e l edu ato e e l edu a do, i o da do ual osa e ip o a e te l u o dell alt o, passa o dall esse e in-formi

all ave e u a forma.

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Come insegna la volpe al piccolo principe, nel noto libro di De Saint-

Exupery, la relazione non nasce da sé né si improvvisa, è il rito che crea

la quotidianità ed è la quotidianità che permette l’appartenenza e il

riconoscimento.

La “gestione della quotidianità” e la “pedagogia delle piccole cose”:

sono questi i due elementi principali che determinano in concreto il dare

e avere fiducia nel contesto della comunità “C.ED.RO.", utilizzando la

modalità del fare insieme ai ragazzi, con la possibilità anche di stupirli

sia giocando, divertendosi insieme ad esempio con una partita a calcio

balilla, dunque condividendo con loro quello che sanno già fare, sia

anche facendo con loro cose che non fanno mai o che non sanno fare, sia

infine inventandosi esperienze nuove.

Il fare con infatti crea un “ponte”: il ragazzo e l'adulto, sono

collegati da un “oggetto mediatore”, come afferma Andrea Canevaro,

vale a dire da un'esperienza che consente loro di raccontarsi, quindi di

“scambiarsi delle cose”, oltre che di sperimentarsi nel saper fare e

imparare cose nuove226.

Non bisogna pensare, tuttavia, che tutto quanto esposto finora abbia

bisogno di chissà quali programmi, strutture, strumenti, materiale.

Questo perché, come in parte già evidenziato, in una comunità (famiglia,

scuola, casa-famiglia) la vita si svolge rotolandosi in minuti di esperienze

piccole, di relazioni ripetitive, di ritmi, di sequenze, di rituali: è l’arte

della tessitura del quotidiano, un’arte basata su “stimoli

226

Aa. Vv., La quotidiana relazione con bambini in difficoltà, Supplemento al nr. 10/2009 di Animazione Sociale, Torino,

2009, p.61.

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elettrodeboli”227, ossia su piccoli, costanti e delicati input di intensità

minima che, secondo la legge della gradualità, lentamente e senza mai

forzare, sono in grado di promuovere un effetto più grande ossia

“perturbare”, “sconvolgere”, nel senso etimologico di far volgere lo

sguardo diversamente. Solo così è possibile ispirare un movimento che

origina dall’interno e che proprio per questo è l’unico che può smuovere

il ragazzo dai suoi schemi abituali e determinare una modificazione dei

comportamenti, dunque un reale cambiamento.

I ragazzi accolti in comunità, tutti, amministrativi o penali che siano,

hanno generalmente alle loro spalle un vissuto contrassegnato da forme

di deprivazione228 e/o di maltrattamento229, vale a dire da un tessuto

quotidiano frammentario e poco accudente, caratterizzato da

un’esperienza relazionale con il mondo degli adulti debole e insicura. Ne

consegue che la principale funzione del lavoro educativo in comunità non

può essere quella di tessere il quotidiano quanto piuttosto quella di

ripararlo, aiutando il ragazzo a percepire il suo valore attraverso un

paziente lavoro di ri-tessitura del tessuto di quotidianità, con tutto

quello che questa comporta di relazioni ed emozioni, azioni e significati,

incontri e scambi.

227

Concetto tratto da appunti del corso P eu o-Psico-“o a , P. Spoladore, Usiogope, S.Maria di Sala (Ve), 2014. 228

I contributi della psicopatologia classica mettono in luce che la deprivazione può comportare un disturbo reattivo

dell'attaccamento i cui sintomi principali sono: mancanza di capacità di dare e ricevere affetto, comportamenti aggressivi,

disturbi nel contatto visivo e nel linguaggio, bugie e furti, forti tendenze antisociali, mancanza di amicizie o rapporti

significativi stabili, consistenti problemi di controllo. Il disturbo è dovuto alla mancanza di un attaccamento primario a

seguito del rifiuto e della separazione dalla madre: un rifiuto che può verificarsi e permanere anche quando la madre è

fisicamente presente, ma la relazione con il figlio è caratterizzata dal fallimento iniziale di qualsiasi capacità empatica e di

contenimento. 229

I bambini e gli adolescenti che hanno subito maltrattamento (fisico o psicologico) o trascuratezza presentano problemi

scolastici e nell'apprendimento connessi a ritardi dello sviluppo intellettivo; difficoltà sociali ed emozionali, comprensive

di ostilità, forte impulsività, aggressività, passività; bassa stima di sé, ridotta sensibilità emozionale, mancanza di fiducia

negli altri, dipendenza e, nel lungo periodo, esiti nella devianza e nella psicopatologia conclamata.

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La comunità si pone, dunque, quale luogo di sviluppo di molteplici

relazioni, qualificate tutte dal fatto di inscriversi nell’arte di inventare

la vita di ogni giorno, fermo restando che il quotidiano è per eccellenza

il luogo generatore del senso stesso della vita. Certo, ciò ad alcune

condizioni, visto che per questi ragazzi il quotidiano è stato luogo

distruttore del senso, ragione per cui oggi sta aumentando nei diversi

ambiti disciplinari e professionali la consapevolezza che i ragazzi in

difficoltà hanno estremo bisogno di una “terapia del quotidiano”, prima

ancora che di una “terapia nel quotidiano”, una terapia che ri-tessendo

sia restitutrice di senso230.

Ri-tessere il quotidiano vuol dire innanzitutto partire dalle sue

dimensioni portanti: lo spazio e il tempo, all’interno delle quali si

strutturano routine e regole231. L’agire nella condivisione di spazi e

tempi di vita quotidiana è il tratto distintivo di ogni intervento

educativo, sia esso tutelare, ripartivo o preventivo, perché costituisce il

senso profondo dell’accoglienza: non si tratta più solo di vivere, ma

insieme di dare significato alle cose che si vivono. Gli adolescenti accolti

in comunità sono, infatti, spesso incapaci di attribuire un significato alle

loro esperienze e, di conseguenza, guardare con fiducia al futuro.

E’ proprio in questo quadro, dentro la trama delle azioni quotidiane,

che si gioca la funzione relazionale dell’educatore, accompagnandoli nel

fare esperienze di valore, quali occasioni in cui aiutarli a ricercare un

ordine per tutti i loro vissuti e attribuire un senso alle cose che si fanno

tutti i giorni. Pratica, questa descritta, possibile solo se si è capaci di

230

Aa. Vv., La quotidiana relazione con bambini in difficoltà, op. cit., p.79. 231

F. Emiliani, P. Bastianoni, Una normale solitudine, Carocci editore, Roma, 1998, p 77.

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comprendere il valore profondo del “fare con” e dello “stare nella

relazione” assumendone il dato di fatica che inevitabilmente essa porta

con sé, nonché di vedere in tutto questo l’opportunità di stimolare

conoscenza, di promuovere cambiamento, di favorire la crescita: è

seguendo il percorso pensieri - emozioni - azioni, che tutto questo

diventa quotidiano, fluido, prezioso.

La vita quotidiana in comunità viene, in tal modo, a svolgere una

funzione “riparativa” rispetto a tutte le pregresse situazioni di

deprivazione e/o maltrattamento da cui provengono i ragazzi accolti.

Riparazione che è possibile ricreando un “ambiente terapeutico”232 che

recuperi, ricostruisca ed attualizzi le primarie funzioni strutturanti

fallite, riparando da precoci fallimenti ambientali.

E’ sulla base di tali assunti che si dispiega l'organizzazione della vita

quotidiana, nella comunità “C.ED.RO.”, con tempi e ritmi tipici di ogni

vita familiare, centrata sulla responsabilizzazione dei ragazzi nei

confronti di se stessi, degli altri e dell’ambiente.

L’intento è quello di formare dei soggetti attivi, di promuovere le

capacità del singolo, la propria autostima e la capacità di vivere

responsabilmente la vita nella società. Tali presupposti vengono tradotti

in azioni concrete che inducono il minore a riconoscere le proprie

risorse, a sperimentare le proprie capacità e ad interiorizzare quindi

norme e valori, favorendo il suo inserimento nella trama del tessuto

232

L idea di "ambiente terapeutico globale" (Winnicott, 1965; Bettelheim, 1950; Redl e Wineman, 1951) sottolinea

l i po ta za della vita quotidiana come luogo "pensato" nella sua globalità per realizzare l'intervento riparativo e

terapeutico, rifiutando la separazione fra un setting "a parte" deputato all'intervento psicoterapico. Su questo punto il

o t i uto di B u o Bettelhei i po ta te e i ovativo: La te apia o si svolge es lusiva e te i particolari

momenti della giornata incontrando in un setting particolare una persona diversa da quelle abituali: al contrario,

chiunque fa parte della comunità esercita un ruolo terapeutico, che è diverso in funzione del ruolo ma non è strutturato

gerarchi a e te pe i po ta za . Il o etto di te apeuti o vuole sottolineare, in maniera specifica, la possibilità

dell a ie te di p o uove e ileva ti p o essi di a ia e to.

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sociale come un individuo responsabile e consapevole delle proprie

azioni. In questo senso è di fondamentale importanza la partecipazione

diretta, nei limiti delle possibilità di ciascuno dei ragazzi accolti, alla

gestione e al funzionamento della comunità: collaborazione nei lavori

domestici, responsabilizzazione e coinvolgimento nelle piccole e grandi

decisioni quotidiane.

Al riguardo è, tuttavia, opportuno non dimenticare che

generalmente gli adolescenti che giungono in comunità, in particolar

modo quelli devianti, proprio sulla base di quanto già detto, non

riescono a far fronte ai compiti della vita quotidiana senza divenire “un

inestricabile groviglio di pulsioni”233 e tra gli impulsi che essi non sanno

padroneggiare, spicca, indipendentemente dalla storia di ognuno, un

sentimento di sfiducia, di rabbia, di odio nei confronti di tutto e di tutti:

non sono capaci di far fronte alla paura, alla frustrazione, all’angoscia o

all’insicurezza senza cadere in forme di aggressività né di reagire in

modo positivo ai sensi di colpa che hanno per tali comportamenti.

Di fronte a questa sfida educativa soltanto un programma di

intervento realizzato in un ambiente curato e costruito ad hoc, può

sperare di ottenere risultati significativi, nella convinzione che, come

sostiene Palmonari, “la persona non si costruisce né si ricostruisce

prescindendo dall’ambiente in cui vive”234. E’ proprio assumendo tale

prospettiva e rispondendo al criterio di “familiarità” suggerito già a fine

‘800 da padre Annibale, che all’interno della comunità si è cercato di

233

F. Redl, D. Wineman, Bambini che odiano. Tecniche di trattamento del bambino aggressivo, Vol. 2, Boringhieri Editore, Torino,

1974. 234

A. Palmonari, Psi ologia dell’adoles e za, op. it.

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creare un ambiente di vita in cui ogni elemento dello spazio fisico e

sociale risulti curato, in modo da poter stabilire una continuità tra i

valori a cui la comunità si ispira e gli elementi ambientali, con la

consapevolezza che ciò che crea realmente la dimensione di “casa” è

senza dubbio la possibilità di sentirsela propria.

La consapevolezza dell’influenza dell’ambiente circostante sulla

costruzione e sulla percezione del sé, richiama ad un forte e motivato

impegno morale e professionale gli adulti: le persone a cui è rivolta la

cura sono al centro e, all’interno di un’atmosfera familiare, gli operatori

condividono emotivamente ogni evento. Per una comunità educativa,

infatti, l'essere casa è il risultato di un processo che si costruisce di volta

in volta con ogni nuovo ragazzo e che inizia progettando un luogo

accogliente, pensato per promuovere la quotidianità e la normalità delle

azioni e delle relazioni235. La struttura fisica, oltre che tutti i rapporti

sociali che in essa si sviluppano, ha quindi una valenza “terapeutica”

finalizzata a far sentire il soggetto “a casa sua”: una casa luminosa,

colorata e curata, degli oggetti di gusto in essa, uno spazio che lasci

liberi e che possa essere personalizzato.

L’idea di “ambiente terapeutico globale”, permette di costruire una

dimensione di vita quotidiana come luogo “pensato” nella sua globalità:

così come lo spazio fisico, anche ogni dettaglio dello spazio sociale è

considerato importante. Inoltre tutti i momenti della giornata hanno

rilevanza terapeutica, pertanto, sono in primo piano tutti i momenti di

relazione e di incontro, in particolare l’accoglienza, e poi a seguire tutti

235

C.N.C.A., Parliamo ancora di comunità, Gruppo ad hoc Nazionale – Infanzia, Adolescenza e famiglie, 2012, p.33.

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gli altri momenti di interazione con i responsabili, con gli operatori, con

il personale delle pulizie e della cucina.

All’interno di un tale ambiente la vita quotidiana degli ospiti può

svolgersi sulla base di attività gratificanti, coinvolgenti e che sollecitino

l’apprendimento, in collaborazione con gli adulti, nel rispetto di regole e

abitudini condivise. Le piccole cose della quotidianità, il farle insieme,

dunque determinano in concreto il dare e avere fiducia, il che vuol dire

accompagnamento, presenza, scambio.

Gli educatori sono così in grado di ispirare e promuovere una

modificazione dei comportamenti tramite il semplice vivere insieme la

giornata, la vicinanza, il contatto e il coinvolgimento in un rapporto

basato sull'interessamento e su gesti che hanno profondamente a che

fare con l’aver cura, ma prima ancora con l’avere a cuore.

Gesti ove i tre momenti della cognizione, dell’emotività e

dell’azione risultano essere indisgiungibili, così come messo in luce da

Paolo Fabbri in una delle più significative definizioni della cura, definita

dal semiologo come “qualcosa tra cognizione e passione che è seguita da

un fare, si conclude nell’azione. Curarsi di qualcuno, significa starci

attenti, interessarsene, ma nello stesso tempo essere pronti a fare,

passare all’azione. E’ quel nodo essenziale che lega la cognizione e la

passione alle azioni”236.

La cura implica, dunque, immediatamente un passaggio all’azione e

alla prassi che scongiura il rischio di arrestarsi all’astrattezza di un puro

principio morale. Ma per essere realmente tale, una relazione di cura

236

P. Fabbri, Abbozzi per una finzione della cura, in P. Donghi e L. Preta, (a cura di) In principio era la cura, Laterza, Bari-

Roma, 1995, p. 29.

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deve sempre, necessariamente, essere animata da quell’avere a cuore,

senza cui rischia di ricadere nel puro assistenzialismo.

E’ ispirata da quest’essenza, che l'azione strutturante della vita

quotidiana, riconosciuta e prevedibile, rende possibile la coordinazione

delle interazioni tramite azioni abitudinarie, ossia azioni dotate di senso

per tutti i partecipanti e rilevanti sul piano psicologico per la loro

funzione di supporto alla costruzione dell’ambiente comunitario.

Il fatto poi che i minori vivano in gruppo permette loro di coltivare

forme di sicurezza emotiva anche nei momenti in cui essi sono portati ad

abbandonarsi a comportamenti di regressione e di ritiro dall'ambiente. In

pratica, si tende a programmare le attività giornaliere orientandole al

progressivo arricchimento e consolidamento del sé di ciascuno degli

ospiti, con l'obiettivo di renderli capaci di non farsi più trascinare in

scariche incontrollate di pulsioni aggressive, ma di affrontare le prove

della vita con sempre maggiore competenza e da protagonisti.

Un ambiente che si proponga obiettivi “terapeutici” oltre ad uno

spazio fisico atto a favorire l’instaurarsi di un’atmosfera rassicurante per

coloro che vi abitano, utilizza anche il tempo e i ritmi del quotidiano per

garantire le condizioni necessarie a innescare processi di cambiamento e

crescita237.

Quella del tempo è, in realtà, una dimensione che appare

particolarmente destrutturata negli adolescenti accolti: accade infatti di

sovente che i ragazzi in comunità presentino, al loro ingresso, una

concezione temporale distorta, nella quale sono molto frequenti

237

F. Emiliani, P. Bastianoni, Una normale solitudine, op. cit., p.81.

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l’inversione notte-giorno e l’assoluta sregolatezza degli orari dei pasti.

Più in generale le loro giornate, oltre ad essere vissute all’insegna della

casualità e della non programmazione, risultano essere contraddistinte

dall’assenza di scansioni regolari, di continuità nel rapporto di cura, di

comunicazione di gesti, di scambio verbale, in altre parole dall’assenza

dell’adulto. L’ambiente comunitario si propone di intervenire su questa

dimensione, attraverso l’organizzazione di una giornata-tipo nella quale

sono previste ed indicate le attività quotidiane, poiché “rendere

ripetitivi i comportamenti inglobandoli in routine consolidate”, come

scrivono Emiliani e Bastianoni, “costituisce una strategia

comportamentale che permette d’immagazzinare i significati sociali in

un bagaglio di conoscenze noto e dato per scontato”238.

Lo scopo è dunque quello di definire dei ritmi che possano essere

progressivamente interiorizzati dagli ospiti, in virtù della dimensione

rassicurante propria della ripetitività. La comunità rivolge la sua

attenzione proprio alla vita quotidiana perché “la quotidianità protetta”

implica ripetitività, prevedibilità, familiarità e rassicurazione; è inoltre

facilmente riconoscibile ed è rappresentabile a livello mentale.

Tutte le comunità si danno regole, tutte strutturano la quotidianità

in routine239 (il pranzo, la cena, i tempi delle attività, l’andare a letto,

la sveglia, etc.), operazione questa funzionale a creare un ordine nella

giornata, prestando attenzione a che questi momenti dell’azione

ripetuta e ritualizzata diventino il luogo della negoziazione e della

238

Ivi, p.82. 239

Le routines hanno la funzione pratica di elemento organizzatore dello stile di vita familiare, diventano rituali quando

oltre a ciò forniscono u a app ese tazio e si oli a dell ide tità fa ilia e. I rituali sono infatti interazioni sociali

schematizzate che includono una prescrizione di ruoli, u att i uzio e di significati; ricorrono in tempi e luoghi prevedibili,

forniscono all i dividuo u se so di ide tità all i te o di u più a pio g uppo.

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condivisione di significati. Il rischio è infatti quello di eccedere in tal

senso e cadere nell’errore di predisporre una scansione temporale rigida

e omologante, tipica delle istituzioni totali: la strutturazione del tempo

in comunità non deve risultare opprimente ma essere sempre rispettosa

dei tempi personali, mai frenetica e alienante come nei “vecchi istituti”.

Questo tempo quotidiano è gestito con la predisposizione di una

giornata-tipo ed è costellato da momenti importanti, ai quali i ragazzi

lentamente imparano a dare valore, come i pranzi e le cene insieme, le

feste di compleanno, le gite, le occasioni speciali, piccoli riti condivisi in

cui prende progressivamente corpo la relazione con gli educatori e con

gli altri ragazzi. La struttura fondamentalmente costante della giornata,

unita alla turnazione programmata degli operatori sui sette giorni, ha la

funzione di consentire ai ragazzi di assumere un ritmo di vita consono

all’età, e nello stesso tempo ha una funzione rassicurante in merito alle

angosce che potrebbero essere legate all’incertezza del futuro240.

Preoccupazione, questa, che i ragazzi, lasciano emergere chiaramente

con domande ricorrenti, talvolta assillanti, di varia natura, da quelle

volte a sapere “quale operatore verrà dopo e poi domani” a quelle

relative al chiedere continua conferma dell’orario di un particolare

impegno, e così via: domande che denotano chiaramente il bisogno di

regolarità temporale e rassicurazione in tal senso. Al riguardo è utile

anche osservare la differenza tra chi vive in comunità da più tempo, e gli

ultimi arrivati: i primi infatti, appaiono senza dubbio più sicuri e

240

Ivi, p. 83.

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autonomi nella gestione della propria giornata, senza la necessità di

chiedere costantemente conferma di quanto accadrà.

Appare inoltre importante sottolineare come il tempo in comunità

debba, a lungo termine, avere anche una funzione emancipante,

aiutando i ragazzi a liberarsi da una percezione esclusiva dell’hic et

nunc, caratterizzata da comportamenti consumistici, ma anche dalla

smania del “tutto e subito” che sovente li rende incapaci di aspettare,

ma ancor prima di accettare che esista anche il tempo dell’attesa.

Altro fondamentale principio organizzatore del quotidiano è la

regola, che orienta i comportamenti dei singoli e del gruppo.

Regola fondamentale per chi vive nella comunità “C.ED.RO.” è il

profondo rispetto delle persone e delle cose: la cura dell’igiene

personale, il rispetto degli orari, la partecipazione attiva alla vita

domestica, l’uso corretto e moderato di radio, televisione e computer, e

così via, sono aspetti di questo assunto fondamentale. I ragazzi sono

inoltre chiamati a discutere assieme agli educatori alcune regole

specifiche, perché ognuno abbia la possibilità di responsabilizzarsi e di

vivere le norme senza subirle, in un percorso di reale interiorizzazione.

Ma in particolar modo nel regolamento, si sottolinea con decisone

che il principio del rispetto reciproco non consente in nessun caso di

giustificare il ricorso a forme di violenza, siano esse fisiche o verbali. Al

riguardo è tuttavia opportuno tener presente che i comportamenti

violenti sono molto comuni nel repertorio dei “bambini che odiano”: è

pertanto fondamentale assumere questo dato, senza però darli per

scontati, ma mettendoli in discussione, sanzionandoli e soprattutto

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aiutando i ragazzi a sperimentare altre modalità relazionali più valide e

più adeguate.

Per quel che concerne la sanzione, è importante sottolineare che si

cerca di utilizzare la “punizione” come strumento costruttivo,

esplicitandone il significato al ragazzo e facendo attenzione al livello

comunicativo ad essa sotteso, cui è strettamente connesso il valore

educativo di cui è portatrice. E’ fondamentale, infatti, che il ragazzo ne

comprenda il senso: solo così essa potrà essere occasione di riflessione

ed eventualmente di modificazione del comportamento. Ciò è vero per

tutti gli ospiti, ma in particolar modo per i ragazzi provenienti dall’area

penale, con i quali è senza dubbio necessario prestare una maggiore

attenzione in tal senso, proprio in ragione del loro rapporto con le regole

già palesemente non adeguato.

Rilevante è, al riguardo, la coerenza nel far rispettare le regole,

prestando attenzione a che tutti gli adulti della casa operino con lo

stesso “metro”. Tale elemento appare particolarmente importante in

quanto gli adolescenti accolti in comunità, soprattutto quelli devianti,

sia per il particolare momento evolutivo rappresentato dall’adolescenza,

sia per la storia che hanno alle spalle, generalmente non hanno

introiettato in maniera adeguata né il senso della regola, intesa proprio

come limite alla condotta e come contenitore per dare sicurezza, nè il

suo conseguente rispetto. Pertanto è necessario insistere su tale aspetto

riducendo al minimo le occasioni di incoerenza nella gestione da parte

degli adulti, consapevoli dell’estrema dannosità di modalità ambivalenti,

che non consentono al ragazzo di avere una chiarezza né dunque di

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distinguere “ciò che è possibile fare” da “ciò che non va fatto”, col

rischio enorme che il suo rapporto con la regola, ed in particolar modo

con le norme giuridiche che, se proviene dall’area penale, ha già violato,

resti immutato. In tal senso anche le eccezioni vanno centellinate e

opportunamente motivate e chiarificate, per non creare precedenti

facilmente strumentalizzabili dai ragazzi.

Per quel che riguarda, invece, più nel concreto la natura della

sanzioni praticate, l’idea generale è quella di proporre ai ragazzi

occasioni di riparazione costruttiva, proporzionate all’accaduto,

finalizzate a ripristinare gli oggetti (o le relazioni) danneggiate in

qualche scatto d’ira, evitando così un eccessivo senso di colpa: ad un

ragazzo che ha sfondato la porta della propria stanza con un pugno,

viene chiesto di risistemarla, aiutato dall’educatore, con un intervento

di falegnameria e verniciatura, lavoro che oltre a riparare

concretamente il danno rende il suo autore anche più attento e

responsabile rispetto alla conservazione della porta stessa. Altri esempi

di sanzioni utilizzate di fronte alla trasgressione, sempre come segnali di

attenzione e possibilità riparatoria, sono i turni supplementari di pulizia

cucina o la riduzione dell’orario di uscita se l’infrazione riguarda un

ritardo nel rientro.

Appare evidente, da quanto fin qui detto, che questa preziosa ri-

tessitura del quotidiano, ruota attorno alla figura degli educatori ed alla

modalità con cui essa si dispiega.

Al riguardo, Bastianoni ed Emiliani, sostengono che la funzione svolta

dagli adulti può essere ricondotta ai concetti di frame e scaffolding,

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propri della prospettiva interattivo-costruzionista241 che individuano

come indispensabile per uno sviluppo normale, la funzione di sostegno

che l’adulto deve fornire al bambino e all’adolescente perché questi sia

in grado di elaborare una conoscenza di sé e del mondo. Coerentemente

con tale prospettiva il lavoro educativo svolto al “C.ED.RO.” punta a

offrire ai ragazzi sostegno nel lavoro di definizione e ridefinizione di sé,

realizzando un frame e uno scaffolding, attraverso l’affiancamento,

l’accompagnamento, la costruzione di routines da interiorizzare, la

condivisione della vita quotidiana, la rielaborazione delle esperienze.

“Supporto” e “impalcatura” andranno poi progressivamente tolti, per

lasciare ai giovani spazi di sempre maggiore autonomia.

Questa fondamentale funzione si articola in altre più specifiche, tra

queste le più significative poste in essere sono: la costruzione di una

storia comune; la cura personale; il supporto all’apprendimento; giocare

e divertirsi insieme; il sostegno emotivo.

Riparare il tessuto liso, sfilacciato, zeppo di toppe e buchi, del

pesante quotidiano da cui provengono gli adolescenti in difficoltà,

appare, alla luce di quanto detto un’operazione complessa e preziosa,

articolata in molteplici micro azioni e attenzioni. Ma è proprio questa

capacità di tessere nuovamente, di ri-tessere, a rappresentare la novità

relazionale dell’intervento in comunità, in netta discontinuità con

l’ambiente d’origine e in tensione verso la definizione di un futuro

diverso. L’ambiente della comunità non può che essere espressione di

241

I concetti di scaffolding (supporto) e di frame (impalcatura) nella prospettiva interattivo - costruzionista riguardano le

fu zio i di st uttu azio e he l adulto o pie ei o f o ti del p o esso di ost uzio e della o os e za da pa te del a i o e si ife is o o all espe ie za di etta e o eta he uest ulti o fa dell i te azio e o l adulto. Cf F. E iliani,

P. Bastianoni, Una normale solitudine, op. cit. p.87-88.

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questa tensione al cambiamento, resa visibile dalla cura degli ambienti,

dalla qualità e dall’attenzione alla cura personale e alla cucina, dal

benessere della vita quotidiana, dalla possibilità di frequentare nuovi

amici e nuove situazioni e di essere impegnati in attività diverse e

stimolanti in grado di attivare nuovi canali di espressione personale e di

esplicitare vissuti emozionali diversi.

Una ri-tessitura che trova, dunque, nella dimensione fondante della

cura quel filo resistente e nuovo attraverso cui si fa relazione d’aiuto,

atta a riportare l’altro al suo progetto esistenziale.

Ritessitura che appare pertanto un’impellente “emergenza”

educativa, profondamente legata con quell’avere a cuore che, come

sottolineato nel celebre libro di Leo Buscaglia, rende l’amore e dunque

anche l’educazione quel processo graduale e privo di forzature col quale

“ti riconduco dolcemente a te stesso”242.

242

L. Buscaglia, Vivere, amare, capirsi, Arnoldo Mondadori, Milano, 1982, p.29.

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CAPITOLO QUINTO

Il Progetto di Messa alla Prova nella comunità “C.ED.RO”: analisi di un caso

Andare incontro alle persone nel loro mondo. Milton Erickson

Se continui a fare quello che hai

sempre fatto, continuerai ad ottenere ciò che hai sempre avuto.

Warren G. Bennis

Un uomo vide Nasruddin che cercava qualcosa per terra davanti a

casa. “Cosa hai perso, Mullah?” - gli chiese. - “La chiave.” - rispose

Mullah. Si misero tutti e due in ginocchio a cercarla. Dopo un po’ l’uomo

chiese: “Dove ti è caduta esattamente?” - “In casa.” - “Ma allora perché

la cerchi qui?” - “Perché c’è più luce che dentro casa”243.

Questo breve racconto mi torna spesso in mente quando sento che

mi sfugge qualcosa, quando “i conti non tornano”. Accade infatti che

talvolta, come Nasruddin, cerco quel “qualcosa”, la risposta ad una

domanda, la soluzione ad un problema, la chiave d’accesso al mondo

interiore di uno dei “miei” ragazzi, nei luoghi sbagliati, ossia in quei

luoghi scontati, già visti, comodi, luoghi troppo lontani da quello che è il

centro, il cuore del problema, per poter trovare realmente qualcosa.

E’ la cura della relazione educativa, dello stare continuamente

“sulle barricate”, esposti a correnti d’aria emozionali molto forti, che

243

Cfr. Asha Phillips, 1999, Saying No. Wh it’s i po ta t fo ou a d ou hild, ed. Faber and Faber Limited; Nasruddin è

il protagonista di una lunghissima serie di racconti della tradizione Sufi, calato a volte nella parte dell'idiota o dello

sciocco, altre volte in quella di un grande saggio. Il racconto è tratto dal grande classico Salaman e Absal, opera di Abdur-

Rahman ]ami, mistico del XV secolo.

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talvolta può generare una certa “pigrizia mentale”, una resistenza

interiore a fare uno sforzo in più, proprio per la consapevolezza della

fatica che questo comporta. Fatica che è propria di ogni relazione

educativa, che l’educatore è chiamato ad assumersi tutta e che di tanto

in tanto può suggerire soluzioni comode che tante volte portano a

tentare di comprendere un ragazzo, le sue sfide, le sue provocazioni, i

suoi errori, le sue urla o i suoi silenzi, attraverso le proprie lenti,

cercando risposte nel proprio mondo, dunque nel posto sbagliato o

semplicemente in quello più comodo, quello in cui c’è più luce.

Ma un adolescente in difficoltà, un ragazzo cui viene chiesto di

sostenere un percorso di messa alla prova in comunità, ha bisogno

innanzitutto di trovare nel luogo che lo ospita un adulto che sia disposto

ad incontrarlo realmente, a stargli accanto attentamente e a mettere in

gioco ogni risorsa per promuoverne la crescita, come di dar valore a cose

che non hanno più valore, proponendo la riscoperta di dimensioni quasi

“banali”. Ha bisogno di un adulto capace di eliminare dal suo

vocabolario le parole “sempre” e “mai” che troppe volte riducono ogni

comportamento in uno scettico e mortale “tanto sei sempre il solito” o

“non ne combini mai una giusta”, frasi che non promuovono, ma

chiudono ogni possibilità di dialogo e di fiducia.

Da tali considerazioni emerge chiaramente anche l’urgenza

impellente di fare attenzione alle parole: ha un suono diverso dire ad un

ragazzo “questa volta l’hai combinata grossa ma ti ricordi quando……?”,

ha il suono della fiducia, di chi cerca il punto positivo su cui fare forza

per attivare tutte le risorse possibili.

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Appare allora necessario, nell’agire educativo, innanzitutto

contenere i rischi di riduzionismo e di facili soluzioni, mantenendo alta

la consapevolezza del carattere ternario della relazione educativa

richiamato con chiarezza da Paulo Freire che ne “La pedagogia degli

oppressi” scrive:

Attraverso il dialogo si verifica il superamento da cui emerge un dato nuovo: non

più edu ato e dell edu a do, o più edu a do dell edu ato e, a edu ato e/edu a do o edu a do/edu ato e. I tal odo l edu ato e o solo olui he edu a, a olui he, e t e edu a, edu ato el dialogo o l edu ando, il quale a

sua volta, mentre è educato, anche educa. Ambedue così diventano soggetti del

processo in cui crescono insieme e in cui gli argomenti di autorità non hanno più valore;

in cui, per essere funzionalmente autorità, bisogna essere con la libertà e non contro di

essa. A questo punto nessuno educa nessuno, e neppure se stesso: gli uomini si educano

in comunione, attraverso la mediazione del mondo244

.

Spesso leggendo questo passo ci si sofferma sul tema del dialogo e

dell’autorità funzionale, tralasciando, a mio avviso, un aspetto decisivo:

il dialogo educativo non è composto solo da due elementi (l’educatore e

l’educando), ma ve ne è sempre un terzo che Freire chiama “mediazione

del mondo”: l’educazione chiede sempre un bene da cercare insieme, un

contesto da condividere, un “oggetto” su cui operare. Ogni volta che si

isola uno degli elementi della struttura ternaria, il processo educativo è

destinato a chiudersi in sé e a diventare sterile così come l’educatore è

destinato a compiere una ricerca autoreferenziale concentrata sul fare

congetture e ipotesi perdendo di vista la realtà dell’altro. Porsi in

un’ottica ternaria significa infatti chiedersi: In riferimento a che cosa

sto costruendo la relazione? Per quale bene? Attraverso la condivisione

di quali esperienze? 245

244

P. Freire, Pedagogia degli oppressi, EGA, Torino, 2002, p.69. 245

Aa. Vv., La quotidiana relazione con bambini in difficoltà, op. cit., p.108.

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E’ un’ottica che apre al tema delle possibili modalità e direzioni di

lavoro. Modalità aperte a cercare quello che “non troviamo” o che

“abbiamo perso” andando incontro all’altro “nel suo mondo”, rischiando

anche di allontanarci molto dai nostri schemi, dai posti dove c’è “più

luce”, in una parola da quello che noi consideriamo “il centro”. La

strada per stare attentamente accanto agli adolescenti in difficoltà è

una strada che va percorsa necessariamente in direzione del margine.

La visione dell’impegno educativo come impresa comune e della

dinamica educativa come fatto intrinsecamente “ternario” ci sollecita

dunque a cercare e costruire relazioni significative secondo la logica

dell’apertura, un’apertura che riguarda sia il processo educativo in

quanto tale, sia le sue finalità, in quanto educare significa non

semplicemente “custodire” ma rendere le persone capaci di “abitare il

mondo” con responsabilità e libertà, ossia promuoverne la crescita in

maniera globale.

Promuovere. Ecco un’altra parola chiave, insita nel dna di ogni

processo educativo. Tale termine composto, da PRO e MOVERE, presenta

infatti in sé due valenze semantiche: muovere a favore e muovere

avanti, indicando in tal modo lo spingere in una direzione che abbia una

significatività. Il processo educativo, pertanto, si configura come un

percorso ove ogni input dato deve essere fortemente orientato in un

senso che consenta al soggetto di avanzare verso una direzione ben

precisa. Attivare un processo educativo vuol dire, in altre parole, avviare

il soggetto verso un percorso di autoscoperta, di autoaccettazione e di

autoprogettazione che possa consentirgli di costruire il proprio sé. Un

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percorso di cui va valutato l’itinerario, ossia quello che il soggetto ha

messo in campo, la sua tensione interiore e non certamente il mero

prodotto finale, un percorso ove l’errore, la défaillance, non sia

demonizzato ma considerato una possibilità di crescita.

L’errore in termini educativi, rappresenta un’interruzione che porta

in sé la possibilità di vedere e comprendere e può essere considerato un

incidente critico che offre un contributo positivo al cambiamento. Come

tale, quindi, l’errore è necessario in ogni processo di crescita, perché

consente al soggetto di avviarsi all’autonomia, di trarsi fuori dalla

propria difficoltà, di emanciparsi, dalla propria situazione, fine ultimo di

ogni processo educativo. Il problema non sorge nel riconoscere un

errore, dicendo “ho sbagliato”, quanto piuttosto nell’affermare “io

sbaglio sempre”, dunque assolutizzando e giudicando.

Il valore aggiunto di un progetto di messa alla prova in comunità è

dato, a mio avviso, proprio dalla possibilità di fare un percorso di

emancipazione costellato da incontri autentici, dalla possibilità di

incontrare adulti che abbiano desiderio e capacità di accompagnare il

ragazzo in quel piccolo, ma in quel momento fondamentale, tratto di

strada, perché è un “pezzetto” che se ben progettato può fare la

differenza.

L’obiettivo non è “salvare”, mai! Il “salvare”, come l’imporre, è

un’azione a senso unico, un trainare con forza che, seppur con le

migliori intenzioni, non produce un cambiamento reale perché è un

movimento che viene unicamente dall’esterno. Il senso è invece quello

di ex ducere, di trarre fuori, per fare insieme un tratto del percorso in

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un tempo e in uno spazio definiti, con lo scopo di portare l’altro a darsi

una diversa possibilità di essere, poiché educare, come già detto,

implica la possibilità di avere un progetto e di condividerlo, un progetto

che non sia uno strumento tecnico, freddo e neutrale, ma una possibilità

concreta e viva, che si configuri come la risposta alla domanda: “che

futuro può avere Achille, Simone, Mariano…, vista la sua storia? Qual è la

cosa migliore per lui?”

Il progetto è una storia il cui esito è incerto, ma che ci consente di

sperare. Presuppone infatti un futuro verso cui tendere e senza il quale

non è possibile progettare e quindi educare: l’educazione non esiste se

non c’è un futuro da ipotizzare, ma deve ancorarsi al passato, alla

memoria, alla storia di ogni ragazzo per dare un senso e un significato a

ciò che egli è adesso, per attribuire valore a un percorso anche doloroso.

Ogni cambiamento non può mai essere imposto ma va negoziato

continuamente, tenendo presente che per ogni individuo ogni

cambiamento è fonte di fatica e di dolore. Qualunque azione educativa,

proprio perché invita, induce al cambiamento, porta con sé sempre un

primo momento di crisi profonda comportando una reazione di resistenza

forte, ciò anche perché il ragazzo ha già acquisito l’idea di essere

diventato grande e ciò vuol dire che ha già i suoi punti fermi per cui, di

fronte all’intervento educativo, può esservi una forte resistenza.

In questo quadro, compito dell’educatore è “leggere” ciò che accade

e darvi un senso e una risposta, mostrare alternative, cercare di

smuovere il ragazzo dal continuare a fare e rifare ciò che ha sempre

fatto, percorrendo e ripercorrendo sempre le stesse strade ed ottenendo

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in tal modo sempre le stesse cose. Decisivo diventa allora il suo ruolo, a

patto che accetti e dia valore al lavorare per tessere trame di

quotidianità, consapevole che è la cura la risposta ai bisogni della vita

quotidiana dell’altro, in quanto ci rende capaci di dirigere la nostra

attenzione “verso ciò che non siamo capaci di vedere ma che è sotto i

nostri occhi”. È la manifestazione di una sensibilità per i dettagli, per il

particolare, che consente di svelare e di dare importanza a ciò che in

genere viene trascurato, vale a dire a quel microcosmo di bisogni,

aspettative, legami che tendiamo a dimenticare, a relegare in una zona

di opacità e di invisibilità, nonostante che essi formino il tessuto

quotidiano della vita di ognuno246.

Cercare la chiave nel posto giusto, vuol dire allora, saper guardare

diversamente, sapersi porre all’altezza degli occhi, saper leggere ciò che

accade senza pregiudizi cercando di “mettersi nelle scarpe” dei vari

Achille, Ciro, Emanuele…, andandogli incontro nel loro mondo, perchè è

nel loro mondo che va costruita quella progettualità in grado di “tenerli”

nei loro confini e dunque capace di tranquillizzarli.

5.1. Analisi di un caso: anamnesi e progetto

Simone247, 15 anni, giunge nella comunità “C.ED.RO.” pochi giorni

dopo l’arresto, sottoposto alla misura cautelare del collocamento in

comunità ex art. 22 dpr 448/88, per concorso in vari reati di furto e

246

E. Pulcini, Cu a di sé, u a dell’alt o, in Thaumàzein, numero 1, 2013, p.95. 247

I riferimenti del caso, il progetto e le diverse relazioni riportate sono parte della documentazione propria della

Co u ità CED‘O , o la sola o issio e dei eali dati del i o e he possa o o se ti e il i o os i e to. Simone è

pertanto un nome di fantasia.

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tentato furto (e con altre denuncie a piede libero per reati della stessa

specie).

Dopo pochi giorni dal suo arrivo, il ragazzo si rende responsabile di un

furto all’interno della comunità, per il quale l’A.G. dispone un

provvedimento di aggravamento della misura cautelare di giorni 30

presso l’I.P.M. di Nisida. Al termine di tale periodo Simone fa rientro

presso la struttura, tuttavia dopo sole poche settimane dal suo ritorno, il

minore si rende responsabile di un nuovo furto, ancora perpetrato ai

danni della comunità, reato per il quale viene denunciato alle Forze

dell’Ordine.

Si viene così a delineare, fin dall’inizio, un quadro che appare

particolarmente compromesso e di difficile gestione soprattutto perché

si era di fronte ad un ragazzo che appariva essere non pienamente

consapevole della propria posizione giuridica e che mostrava anche

rispetto all'inserimento in comunità enorme difficoltà nella

comprensione del senso e delle regole della vita comunitaria, nonché

una tendenza a reiterare i reati di cui imputato. Ciò nonostante la

misura del collocamento in comunità, meno afflittiva del carcere,

appariva senz’altro la più idonea per dare al ragazzo la possibilità di

attivare processi di crescita.

Complessivamente infatti Simone si presentava come un ragazzo

socievole, dall’indole estroversa e vivace, ma molto immaturo e

infantile, fortemente deprivato e privo delle basilari norme di

convivenza, palesando, anche nel contesto di vita comunitario, una

grande difficoltà nella comprensione di quanto gli veniva richiesto.

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Tuttavia, stando ad una osservazione più attenta, appariva evidente che

tali comportamenti erano da ascrivere non tanto ad una forma di

oppositività o ad un agire consapevolmente scelto, quanto piuttosto ad

una difficoltà reale e concreta del ragazzo a comprendere il senso della

regola e del limite, nonché della gravità dei propri gesti e delle possibili

conseguenze degli stessi: Simone appariva come un “animaletto”,

completamente privo delle basilari e più semplici nozioni del vivere

civile, condizione che si manifestava con comportamenti quali il

mangiare senza l’uso delle posate o il considerare cosa normale fare la

doccia alle tre del mattino, ma più in generale apparendo

completamente in balia di se stesso e dei suoi bisogni più istintuali.

Come già evidenziato, nel percorso complesso e faticoso

dell’adolescenza, in cui il minore evolve verso la costituzione soggettiva

della propria identità, il reato va decodificato quale “sintomo”

espressione di una sofferenza profonda, un segnale che Winnicott248

descrive come un “SOS” lanciato verso l’ambiente affinché questo

risponda e si occupi di lui. Da qui l’importanza di cogliere la specifica

valenza comunicativa del tipo di reato, che si rivela sempre correlato al

trauma subito, o alla sofferenza psichica annidata all’interno della

famiglia, e di collocarne la ricerca del significato nella storia affettiva,

familiare e sociale del singolo adolescente. Il procedimento penale

minorile, nella sua prioritaria valenza educativo/riabilitativa, può

attivare le condizioni per cogliere quell’SOS adolescenziale sotteso al

comportamento antisociale, in una fase della vita particolarmente

248

D. W. Winnicott, Dal luogo delle origini, op. cit., pp.89-90.

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difficile, ma altrettanto dinamica, con la finalità di introdurre nel

processo di sviluppo mentale del minore quei correttivi che possano

meglio orientarne la successiva evoluzione nel contesto familiare e

sociale che lo caratterizza.

Ciò è possibile attraverso la presa in carico psico-sociale, prezioso

strumento di conoscenza sia del disagio osservato nell’adolescente, che

delle figure genitoriali e, più in generale, del nucleo familiare, nella

consapevolezza che la famiglia dell’adolescente antisociale, ovvero

dell’adolescente in difficoltà è sempre anch’essa una famiglia in

difficoltà.

A tal fine l’intervento psico-sociale dovrebbe essere finalizzato

all’assunzione, da parte degli operatori, della “funzione pensante”,

intesa come “capacità di istituire legami tra circostanze e fatti

apparentemente casuali, per evincerne il significato emotivo, vale a dire

di senso, fino ad allora negato”249. Se l’operatore riesce ad instaurare

una relazione autenticamente recettiva possono emergere nuclei

incistati nella storia individuale e familiare: nodi affettivi problematici,

esperienze emotive “mentalmente” indigerite, trasmesse

inconsapevolmente e quindi vissute dall’adolescente nella solitudine.

Operazione questa che risulta fondamentale alla luce del fatto che non si

può cogliere il reale significato simbolico del reato adolescenziale se non

lo si inscrive nel tessuto vivo delle relazioni affettive trascorse ed

attuali. I vissuti emotivi di cui il reato è intriso appaiono infatti

complementari o concordanti con gli stessi vissuti emotivi genitoriali: è

249

M. Chessa, M. Gasparini, Ricostruzione del mito familiare nel minorenne autore di reato, in Giustizia Penale Minorile

n.6, 2011, pp. 341-346.

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una sorta di patto silente di cui il reato può tentare di rovesciare le sorti

o, al contrario, può confermarne l’ineluttabilità se non ne viene accolta

la richiesta di aiuto, muta di parole, ma “gridata” con l’azione.

In ragione di quanto detto appare evidente che non rispondere in

maniera adeguata all’appello intrinseco nella manifestazione deviante

equivale ad orientare il sintomo trasgressivo in “organizzatore” della

personalità futura, precludendo ogni possibilità di recupero. Al contrario

agganciare l’adolescente significa raggiungerlo all’interno delle

dinamiche familiari profondamente attive nella relazione. Significa

quindi accogliere anche le difficoltà genitoriali e sostenerne

l’evoluzione, così da “consentire l’effetto di una doppia terapia,

giacché, quando diamo una mano ai genitori ad essere di aiuto ai propri

figli, in realtà sono i genitori stessi che noi aiutiamo”250.

Per questo è importante, sia per il minore imputato che per il suo

contesto familiare, saper porre in essere un intervento psico-sociale che

consenta di trasformare la relazione, nata in un contesto di controllo

nell’ambito del procedimento penale, in una relazione di aiuto che da

una parte sappia accogliere e capire il disagio maturativo sotteso

all’agito deviante, dall’altra si ponga a sostegno delle funzioni

genitoriali. Sono le risultanze di tali complesse elaborazioni psichiche

che rendono possibile il graduale sviluppo di una nuova responsabilità

nell’adolescente rispetto alle proprie azioni antisociali. Egli può, a quel

punto, imparare a pensare al significato dei propri agiti con strumenti

250

Ibidem.

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nuovi e più sofisticati che gli consentano di rispondere alle difficoltà con

il pensiero, piuttosto che con l’ottusità dell’azione251.

Al riguardo appare opportuno considerare la rilevanza che gli aspetti

evidenziati circa il contesto familiare assumono nel valutare la reale

fattibilità di una messa alla prova da svolgersi in comunità. In relazione

alla concessione dell’art.28, infatti, la scelta di non far tornare

immediatamente il ragazzo nel territorio di appartenenza è legata ad

una valutazione ove da una parte emerga una chiara inidoneità della

famiglia d’origine che rende inopportuno il rientro del minore, ma

dall’altra riscontri congiuntamente in essa la presenza di risorse su cui

lavorare: è questa infatti la conditio sine qua non per la concessione

dell’articolo 28, in quanto in assenza di risorse non è possibile attivare

alcun progetto.

La messa alla prova in comunità, pertanto, persegue il duplice

obiettivo di porre in essere un intervento atto ad attivare le risorse

esistenti sia con e per il ragazzo che con e per la sua famiglia.

Particolarmente importante, appare inoltre la chiarificazione del

senso del proseguimento del percorso in comunità in misura

amministrativa nonché delle motivazioni per le quali si propenda per tale

scelta: fondamentale è infatti far comprendere all’intero nucleo che in

quel momento il ragazzo non riuscirebbe a fare un percorso in un altro

modo, e dunque la permanenza in comunità non va letta come una

punizione ma come un modo per sostenere e attivare le risorse presenti,

per un tempo determinato, al termine del quale il ragazzo farà rientro in

251

Ibidem.

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famiglia. Al riguardo è interessante considerare che costruire una buona

relazione con il nucleo del minore e mantenere una comunicazione

efficace e adeguata che gradualmente prepari il terreno e costruisca il

percorso da fare, è fondamentale in quanto funzionale ad una maggiore

collaborazione e responsabilizzazione dei familiari, perseguendo

l’intento di far camminare l’intero nucleo nella stessa direzione: senza

la collaborazione della famiglia, infatti, il progetto posto in essere

rischia di risultare mancante di una componente essenziale, col rischio di

creare una discrepanza di input, di modelli e stili educativi che non

farebbe altro che confondere il minore e quindi rendere più incerto il

suo cammino, soprattutto all’uscita dalla comunità.

L’anamnesi familiare del caso analizzato mette in luce che Simone

proviene da un nucleo familiare seguito già da diversi anni dal S.S.T. per

le problematiche comportamentali e scolastiche manifestate dal minore,

ma già precedentemente sarebbe stato segnalato per una situazione di

degrado e di disagio economico, di maltrattamento e anche per presunti

episodi di abusi sessuali perpetrati da parte del padre del minore, sulla

figlia della seconda moglie, nata da una precedente relazione.

Il nucleo familiare vive in un alloggio di edilizia popolare, locato in

una zona benestante dell’area cittadina, contesto che la madre del

ragazzo definisce molto ostile ed emarginante, ed è composto dalla

coppia genitoriale e da 2 figli di cui Simone è il primogenito. Entrambi i

genitori hanno però alle spalle un precedente matrimonio e una figlia,

pertanto Simone ha due sorelle maggiori, una figlia del padre, l’altra

figlia della madre; entrambe vivono altrove. Il padre del minore, 59

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anni, precedentemente arrestato per furto e detenuto presso il carcere

di Poggioreale per alcuni mesi, era, al momento dell’arresto del minore,

agli arresti domiciliari. La madre, 39 anni, non svolgeva alcuna attività

lavorativa, ma veniva descritta dai servizi come una donna poco

affidabile e frequente alle relazioni extra coniugali nonché

all’abbandono del tetto coniugale.

Dal punto strutturale e relazionale questa famiglia appariva

evidentemente molto debole a causa delle problematiche personali dei

genitori il cui modo di agire appariva estremamente istintuale e poco

“ragionato” e le cui relazioni sembravano decisamente conflittuali,

delegittimanti e caotiche: di fatto, entrambi davano l’impressione di non

essere in grado di esercitare con competenza i loro ruoli genitoriali e

porsi come riferimento positivo per i figli, mostrandosi “sconclusionati”,

poco accudenti, eccessivamente permissivi ed estremamente tolleranti

nei confronti degli atteggiamenti devianti di Simone, che peraltro

riferiva con disinvoltura di essere stato avviato al furto proprio dal padre

e dalla sorella maggiore. Simone riproponeva così una mentalità in base

alla quale l’appropriarsi di cose altrui, per bisogno o semplicemente per

il desiderio di possedere, veniva considerata una cosa assolutamente

normale, quasi dovuta. Crescendo il ragazzo tendeva sempre più a

riproporre la “caoticità” esperita in famiglia e la mancanza di un

abitudine ad un agire ragionato, come suo modo di essere e di porsi,

divenendo di fatto sempre più oppositivo e ribelle con i genitori e

sottraendosi facilmente ai loro richiami. Egli sostanzialmente non

riconosceva il loro ruolo di guida, assumendo nel tempo uno stile di vita

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disimpegnato e irregolare, senza nessun tipo di controllo da parte dei

propri congiunti.

Fin dalle prime osservazioni, infatti, Simone dà l’impressione di vivere

in una dimensione priva di regole e di rispetto, dove gli adulti non

riescono ad interpretare i suoi bisogni e a costruire con lui una relazione

educativa significativa, una dimensione in cui veniva considerato

assolutamente normale, in linea con i vissuti e gli agiti familiari,

soddisfare i propri bisogni nell’immediato del loro presentarsi, incapace,

perché non abituato, di discernerne l’opportunità, di rimandarne

l’eventuale soddisfacimento, come di valutarne le conseguenze.

Naturalmente le prime difficoltà emergono chiaramente nel contesto

scolastico che il minore non sembra in grado di affrontare: la scuola

segnala ripetutamente le difficoltà scolastiche di Simone e la necessità

di interventi centrati sull’acquisizione di comportamenti corretti e sulla

capacità di relazioni interpersonali rispettose, nonché sul migliorare la

sua capacità di apprendimento in classe. Il servizio di neuropsichiatria

infantile, opportunamente coinvolto, evidenzia un quadro estremamente

deprivato e povero di strumenti, indicando la necessità di un sostegno

scolastico. A 12 anni Simone viene descritto dal Servizio educativo, che

lo segue sia a scuola che a domicilio, come un “piccolo selvaggio” senza

regole di vita familiari o sociali, incapace di entrare in relazione con i

compagni e con gli adulti: confonde i ruoli dando ordini e facendo

richieste del tutto inappropriate alle insegnanti, non è in grado di stare

seduto nel banco durante le lezioni, non è in grado di seguire le attività

didattiche, disturbando i compagni. Si pensa allora ad un tutoraggio che,

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con la presenza di un’educatrice a casa nelle ore pomeridiane, possa

supportarlo maggiormente, ma nonostante il sostegno educativo la

situazione permane problematica anche perché i genitori accettano solo

verbalmente l’intervento educativo, ostacolandone di fatto lo svolgersi.

Il padre, anche in presenza dell’operatrice delegittima spesso il ruolo

delle istituzioni e svaluta l’efficacia del loro operato.

E’ in questo quadro complessivo che si inseriscono i vari reati imputati

al ragazzo al momento del suo ingresso in comunità, 12 per l’esattezza,

tutti piccoli furti e tentati furti, oltre le varie denunce a piede libero

sempre per reati della stessa specie. Un quadro ove tutto appariva

essere dettato meramente dal caso, essendo totalmente assente la

benché minima capacità progettuale, anche solo in ordine alla gestione

delle piccole cose quotidiane. Un quadro che evidenzia in sintesi un

contesto di appartenenza contrassegnato da deprivazione culturale,

economica, da una affettività del tutto istintiva, ma anche, in linea con

realtà familiare, la presenza di una personalità fortemente destrutturata

frutto di una precoce esposizione a condizioni di vita di deprivazione e di

marginalità sociale che avevano condizionato i percorsi e le esperienze

di crescita ed evoluzione personale del ragazzo, non favorendo lo

sviluppo di possibili condizioni di serenità e tranquillità atte a facilitare

l’acquisizione di conoscenze e l’accrescimento di competenze e abilità,

oltre alla più serena espressione di proprie capacità che potesse agire da

sostegno alla stima di sé e all’esperienza di efficacia personale.

Il percorso del minore in comunità ha inizio in questo quadro

estremamente complesso e compromesso che, unitamente alla condotta

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irregolare mostrata ripetutamente nell’immediato da Simone, aveva

portato gli operatori a ipotizzare un limitato margine di intervento nei

suoi confronti. Il ragazzo, infatti, appariva esuberante e socievole ma

anche orientato da un forte bisogno di autoaffermazione che, rispetto

alle condizioni critiche e problematiche a cui era stato esposto,

sembrava essersi tradotto in una difficoltà di regolazione degli impulsi,

in una tendenza all’agito e alla necessità di sottrarsi a qualsiasi forma di

controllo, contenimento, regola. Tale caratteristica, tuttavia, ad una

osservazione più attenta, sembrava essere dettata da una difficoltà reale

ad entrare in una riflessione più profonda atta ad aiutarlo a calibrare i

suoi atteggiamenti e le sue reazioni, spesso spropositate e fuori dal suo

stesso controllo. Tuttavia ci si è resi conto immediatamente che, proprio

quel suo essere così “infantile”, quel suo essere privo di “input” chiari,

poteva rappresentare se non una risorsa, quanto meno una chiave di

accesso al suo mondo. Simone, appariva un po’ come Pinocchio, pieno di

buoni propositi che però non riusciva a concretizzare, necessitando,

proprio come il burattino, di un “grillo parlante”, di una confrontazione

costante che gli ricordasse continuamente come comportarsi e lo

conducesse pian piano in una riflessione più profonda: un lavoro lento e

paziente che permettesse di far acquisire al ragazzo “nuove abitudini

comportamentali”, attraverso cui Simone ha cominciato a manifestare

dispiacere e pentimento rispetto ai propri agiti, stabilendo lentamente

con gli operatori relazioni di fiducia, considerandoli figure di riferimento

importanti, mostrandosi bisognoso di contenimento e disponibile al

confronto, ricercando lui stesso momenti di dialogo.

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Nel valutare la situazione complessiva del ragazzo per progettarne un

intervento ad hoc, gli operatori della comunità e dei Servizi Minorili, in

un prezioso e costante lavoro sinergico, sono stati concordi nel ritenere

valida l’opportunità della messa prova e nel cominciare a lavorare col

minore e la sua famiglia in tal senso. Simone infatti lentamente andava

assumendo comportamenti sempre più rispondenti allo stile di vita

comunitaria e, sebbene nel suo percorso si alternassero momenti di

grande slancio ad altrettanti di fatica e criticità, se ne ravvisava

comunque lo sforzo a recepire e far propri i diversi input. Tuttavia la

particolare complessità della situazione familiare, la cui inidoneità era

palese, non rendeva ipotizzabile un rientro del minore sul territorio,

anche perché con 12 furti sulle spalle era ormai, nel “quartiere bene”

ove viveva, “etichettato”, elemento che non avrebbe certamente

giocato a suo favore. Ciò nonostante, visto l’impegno che, seppur con

grandi difficoltà, il ragazzo manifestava, non si è reputato neppure

opportuno privare il ragazzo della possibilità di beneficiare dell’art. 28,

considerato dall’equipe la strategia migliore per consentirne il recupero.

Pertanto si è prospettato all’intero nucleo la possibilità di una messa alla

prova da svolgersi in comunità, cercando di far comprendere loro che il

collocamento in comunità non andava letto come un allontanamento

punitivo ma come una possibilità di crescita, un sostegno per portare

avanti un progetto atto ad attivare le risorse familiari esistenti e

lavorare sui punti deboli del ragazzo, “rafforzandolo” al fine di

consentirne il ritorno sul territorio con basi più salde.

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Congiuntamente tale formula appariva valida perché consentiva anche

di poter lavorare con la famiglia, che appariva disponibile ma

estremamente bisognosa di supporto, in modo tale che il reato del figlio

potesse essere un’occasione, una possibilità di crescita anche per loro.

Elemento, questo evidenziato, tra l’altro funzionale a far sì che il minore

potesse tornare sul territorio di appartenenza con una “testa diversa”

trovandovi congiuntamente anche una “famiglia diversa”, un po’ più

matura con una coppia genitoriale più capace di gestire se stessa e i

propri figli. Non avrebbe avuto senso proporre al ragazzo un percorso

finalizzato al cambiamento se poi la famiglia, in cui prima o poi sarebbe

tornato, rimaneva immobile.

Al riguardo, nella relazione per l’eventuale richiesta di art. 28

all’A.G., redatta dall’equipe interistituzionale, comprendente i referenti

dell’USSM e della Comunità, si legge:

I elazio e al p og a a di essa alla p ova, stato spiegato al i o e il sig ifi ato e gli impegni che ne derivano e dai colloqui effettuati, Simone sembra aver recepito il

se so di tale eve tuale pe o so, o p e de do sia l a tigiu idi ità del fatto eato compiuto che la valenza personale ed educativa di tale eventuale opportunità,

mostrando la propria disponibilità i tal se so. L e uipe i e ito all eve tuale pe o so di messa alla prova, ritiene che sussistano tutti gli elementi per la sua attuazione. Va

inoltre segnalato, che la particolare situazione familiare, rende opportuno che Simone

possa sperimentarsi in tale percorso permanendo in comunità, a completamento del

percorso di crescita, di motivazione e responsabilizzazione, già in corso, ma che ancora,

però, pare bisognoso di ulteriore rafforzamento con figure di riferimento significative,

che possano essere un valido supporto educativo in grado di sostenerlo e confrontarlo

osta te e te o ollo ui di hia ifi azio e, i pa ti ola e o side a do l asse za di figu e di ife i e to e di o te i e to ell i te o o testo fa ilia e. Questa e uipe, collabora con il SST che segue il nucleo familiare del minore ed ha attuato interventi di

sostegno alla genitorialità e concorda, vista la complessità del caso, al permanere del

minore in comunità con misura amministrativa.

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Pe ta to ell eve tualità dell appli azio e dell a t. , uest e uipe, o p e de te i efe e ti della o u ità, i efe e ti istituzio ali dell Uffi io di “e vizio “o iale Mi o ile

presso il T.M. di Napoli, ha strutturato un programma che si articola concretamente nei

seguenti punti:

Permanenza in comunità: il ragazzo ha mostrato disponibilità in tal senso,

oglie do e l oppo tu ità.

Percorso scolastico per il conseguimento della licenza media: il giovane frequenta il

corso di studio volto a conseguire la licenza media presso Centro territoriale

Permane te dell Istituto Co p e sivo “tatale Casa ova , dal lu edì al ve e dì dalle ore 16.00 alle ore 20.00; il agazzo i olt e o ti ua l attiva di studio i o u ità, affiancato da un tutor che lo segue in maniera personalizzata il mercoledì ed il

venerdì dalle 10.00 alle 12.00.

Attività di volontariato: martedì e la domenica mattina, dalle 10.00 alle 13.00 presso

la mensa Caritas della parrocchia di S. Antonio di Padova alla Pineta.

Colloqui psicologici: spe ifi a e te ife iti all ela o azio e del eato e all evoluzio e dei rapporti intra-familiari.

Attività sportive, ricreative e laboratoriali: il ragazzo pratica il calcio, tre volte a

setti a a, p esso la s uola al io attiva ell o ato io della pa o hia adia e te la comunità; partecipa inoltre alle attività laboratoriali di pasticceria/panificazione e

a ualità he si svolgo o all i te o della st uttu a ei te pi o pati ili o l attività di studio.

Soluzione Conciliativa: verrà curata dal preposto Ufficio, Simone si è reso disponibile

ad incontrare la P.O.

Inserimento in gruppi del territorio (oratorio, associazionismo, parrocchia) per

ampliare la propria rete amicale.

Rientri in famiglia: un fine settimana al mese, da concordare di volta in volta con

il ““T.

In udienza il Giudice dispone per Simone la sospensione del processo e

la messa alla prova da svolgersi in comunità, per un tempo di 18 mesi. La

posizione giuridica del giovane reo passava così, dopo sette mesi

dall’arresto, dall’art. 22 all’art. 28: Simone iniziava di fatto a scrivere

un’altra pagina del suo percorso, in cui era chiamato ad una maggiore

responsabilizzazione proprio perché “più libero”.

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5.2. Analisi di un caso: percorso e ruolo della comunità

Il progetto di messa alla prova è, come detto, un percorso riabilitativo

rispetto ad un fatto di natura penale, un percorso dunque di

consapevolezza ed impegno. Non è un progetto qualsiasi, proprio perché

costituito da paletti molto chiari, ma può essere considerato un po’

come un binario su cui viaggia il cammino del ragazzo durante il periodo

di prova, con le sue fermate e le sue possibili variazioni di direzione.

Percorrerlo è tuttavia cosa nient’affatto semplice e scontata.

Una prima difficoltà sperimentata nel cammino di Simone è costituita

dal fatto che per quanto il ragazzo avesse scelto liberamente di

affrontare il percorso di messa alla prova è indubbio che questa scelta

possa essere stata dettata anche dalla allettante “convenienza” insita

nel beneficio in esame: per tale motivo, può accadere che dopo soli

pochi giorni dall’udienza ci si trovi dinanzi a un ragazzo la cui

motivazione al cambiamento sembra essere più formale che sostanziale,

cosa che nel caso di Simone si è tradotta in un atteggiamento oscillante

tra la l’adagiarsi, il pretendere e il sentirsi costretto. Tale elemento

tuttavia non è stato motivo di chiusura o irrigidimento da parte degli

operatori: questi consapevoli del fatto di trovarsi dinanzi ad una

situazione piuttosto comune, semplicemente l’hanno assunta quale dato

di realtà su cui lavorare, con l’obiettivo di fare in modo che, attraverso

il percorso stesso, l’adesione del ragazzo al progetto diventasse

gradualmente sempre più sostanziale e dunque che i passi di

cambiamento fossero sempre meno imposti e necessitanti di un controllo

e sempre più concreti e spontanei. Al riguardo è utile considerare che la

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differenza in tal senso è data anche da quanto il progetto riesca a far

sperimentare al ragazzo cose diverse da quelle per lui solite, in grado di

incuriosirlo, gratificarlo e suscitare domande.

Altro elemento di difficoltà in questo percorso è rintracciabile nel

fattore “tempo”. Il percorso di messa alla prova in comunità ha, in

genere, una durata di almeno 12 mesi, 18 per Simone, con un successivo

prolungamento di 12 mesi a seguito delle altre denunce a piede libero:

un tempo che ad un adolescente appare infinito e che alla lunga ha

comportato in Simone stanchezza e demotivazione.

Tuttavia anche tale problematicità è piuttosto comune: accade spesso

infatti di osservare che i ragazzi facciano maggiore fatica proprio nella

parte finale del percorso, mostrandosi di fatto incapaci di impegnarsi

oltre un certo grado, talvolta anche col rischio di qualche pericolosa

“caduta”. Ma i “gradini si scendono sempre uno alla volta, mai tutti

insieme”: difficilmente un ragazzo “esploderà” all’improvviso, vi sono

tanti piccoli segnali che indicano che ha imboccato una strada in discesa

che lo porterà quanto prima ad una rovinosa caduta. Questo elemento

rappresenta tuttavia un vantaggio: i segnali possono essere letti, la

caduta può essere prevista e dunque evitata con un’attenta e costante

azione di osservazione e monitoraggio da parte degli adulti di

riferimento, che permetta di porre in essere un immediato intervento

volto a sostenere e motivare il ragazzo ed eventualmente a rimodulare il

progetto qualora se ne dovesse ravvisare la necessità, ma anche di

comprendere quando il ragazzo realmente non riesce a dare oltre perché

proprio non ce la fa. Bisogna inoltre che i ragazzi abbiano sempre chiaro

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che il cambiamento sarà valutato in base all’adesione e all’impegno

nelle attività del progetto nonché in base all’atteggiamento complessivo

che dovrà sempre più distaccarsi da modalità “penali”: in comunità

l’adolescente ha il compito di apprendere ed agire quella responsabilità

che fino a quel momento non ha ancora interiorizzato, sperimentandosi

in un clima di famiglia sano e accogliente, che possa soddisfare il bisogno

di appartenenza e di riconoscimento.

Continuamente è stato necessario riportare Simone alla sua realtà,

alla sua scelta di voler cambiar vita, manifestata con la richiesta di

essere messo alla prova e, dunque, al fatto che il progetto era “suo” e

che aveva il compito di dimostrare la sua reale volontà di uscire da una

“mentalità penale” e di aderire ad un valore di vita diverso.

Continuamente si è ripercorso insieme a lui il cammino fatto,

valorizzando i numerosi passi in avanti e gli obiettivi raggiunti,

evidenziando le sue capacità. Continuamente si è cercato di fargli

acquisire “abitudini di vita” diverse, di fargli vivere progetti e attività

atte sperimentare il suo “essere capace” anche senza ricorrere alla

violenza, alla sopraffazione, all’inganno, consapevoli del fatto che alla

base dei suoi agiti e dei suoi atteggiamenti provocatori vi era proprio il

“non sentirsi capace”.

Punto centrale e nevralgico nel percorso comunitario è infatti proprio

il fare in modo che i ragazzi si sentano capaci e percepiscano il loro

valore, di contro all'autosvalutazione che rappresenta uno dei loro più

forti vissuti di fondo, che li porta ad essere certi che “non valgo, dunque

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non merito di essere amato” e di conseguenza a reagire con rabbia e

violenza a questa certezza che si portano dentro.

Per poter perseguire al meglio tale obiettivo si sono susseguite

numerose riunioni d’equipe volte a verificare l’andamento del percorso e

a stabilire linee guida comuni e condivise, messe poi in atto dagli

educatori: rispondere ai bisogni di accudimento e contenimento di

Simone mantenendo chiarezza, fermezza, congruenza, attenzione;

puntare a coinvolgerlo in attività atte a fargli sperimentare e valorizzare

le sue capacità; tessere e ritessere continuamente il suo quotidiano

dandogli fiducia e riconoscendogli il diritto a sbagliare come occasione di

crescita; tessere e ritessere il suo quotidiano per ricomporre il suo

essere frammentato e far sì che lentamente potesse percepirsi in modo

diverso.

Ecco allora che il compito della comunità, al riguardo, è proprio

quello di puntare ad un cambiamento di mentalità attraverso un fare che

renda i ragazzi protagonisti consentendogli di sperimentare il loro essere

capaci di fare delle cose, ed anche bene, consapevoli che la scommessa

più profonda è che riescano a tirare fuori la possibilità di sentirsi ed

essere diversi, soprattutto quando sono con i loro pari, senza temere di

essere una voce fuori dal coro: è questa la molla capace di provocare un

salto di qualità.

Altra difficoltà è poi quella che il ragazzo fuoriuscendo di fatto dalla

condizione “ristretta” della misura cautelare, sia portato a non sentirsi

più in debito con la giustizia.

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Simone, come molti altri prima di lui, dopo pochi minuti dal termine

dell’udienza, ancora tra le aule del Tribunale, chiede di poter usare il

telefonino tutto il giorno e di poter uscire il pomeriggio stesso. Di fatto,

con l’udienza in cui viene disposto l’art.28, si passa da una posizione

giuridica che prevede per il ragazzo restrizioni significative quali il non

poter avere contatti con l’esterno tramite telefonini e computer, il poter

ricevere visite, generalmente per due ore a settimana, solo dai familiari

stretti (genitori e fratelli), il non poter uscire da solo ma sempre

accompagnato da un operatore con opportuna autorizzazione dell’A.G. e

una rara concessione di un rientro a casa per poche ore previa

autorizzazione, ad una misura amministrativa ove tutte queste

restrizioni cadono improvvisamente.

E’ allora importante, soprattutto quando il ragazzo continua il suo

percorso in comunità, fargli comprendere innanzitutto che anche se gli

verranno concesse le uscite e l’uso del telefonino, ciò sarà sempre

concordato con gli operatori, così come, in quanto ospite della

comunità, è sempre tenuto al rispetto delle regole della vita

comunitaria, anzi lo è più di prima perché con il percorso di messa alla

prova inizia il tempo in cui è chiamato a dimostrare qualcosa ed è ancora

sottoposto ad un procedimento penale, il cui prosieguo o meno verrà

deciso nell’udienza già fissata dall’A.G.

Il passaggio dalla misura cautelare del collocamento in comunità alla

messa alla prova in comunità rappresenta, dunque, un momento

estremamente delicato che richiede grande attenzione da parte degli

operatori “nell’allargare” le maglie strette della “restrizione” con quella

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gradualità necessaria a far sì che il ragazzo capisca con chiarezza la

propria posizione e non si senta già arrivato ad un traguardo: gli va fatto

comprendere infatti che una prima importante tappa del suo percorso

penale è stata certamente raggiunta, ma anche che questa è in realtà un

punto di partenza e non di arrivo.

Accade spesso infatti che i ragazzi tendano a ritenere sufficiente

l’impegno fin lì mostrato, palesando in merito a ciò una confusione

verbalizzata con un’espressione frequentemente ripetuta: “Ti ricordi

quando ero penale?”. Una frase, questa, che racchiude e sintetizza la

principale difficoltà di gestione di un percorso di messa alla prova:

quella di far comprendere al ragazzo che aver avuto la possibilità di

beneficiare dell’art.28 non deve tradursi in un sentirsi anticipatamente

libero né tantomeno in diritto di tirare i remi in barca o peggio ancora,

di avanzare pretese come un qualcosa di dovuto “per legge”; deve bensì

concretizzarsi in una tensione interiore, in un cammino fatto di passi e

conquiste graduali da meritarsi giorno per giorno attraverso i fatti.

Tale frase rimanda alla necessità di attuare concessioni graduali e

continuamente risignificate, affinché il ragazzo abbia sempre chiaro che

non ha finito il suo percorso, sul cui andamento per altro l’A.G. andrà

periodicamente aggiornata. Il pericolo enorme è quello che si lasci

andare sempre più divenendo sempre meno gestibile, col rischio ultimo

di inficiare l’intero cammino proprio in dirittura di arrivo.

Bisogna allora porre grande attenzione nell’osservare sia il fare

concreto del ragazzo, sia soprattutto il come procede, cercando di

rimodulare e puntellare il percorso con un sostegno adeguato, quando

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necessario, ma soprattutto cercando di cucire costantemente il progetto

su di lui, ascoltando ciò che ha da dire, cercando risorse nuove,

inventando cose nuove, assecondando quando possibile le sue attitudini.

Importante per una comunità che voglia andare incontro ai ragazzi è

poter usufruire di una rete di risorse spendibili con i suoi ospiti:

associazioni che propongano corsi di formazione per specifici mestieri

quali il pizzaiolo, il pasticciere, il cuoco; datori di lavoro disponibili a far

fare percorsi di apprendistato lavorativo o ancor meglio a dar lavoro ai

ragazzi del penale; associazioni di volontariato con cui condividere

progetti attraverso cui far “respirare” un’altra aria ai ragazzi, un’aria

diversa fatta di condivisione, di solidarietà di legalità.

La vita comunitaria fa da collante, dà supporto al percorso, ma il

ragazzo deve sperimentarsi fuori, nel contesto sociale.

Per tali motivi l’equipe della comunità “CEDRO” si adopera col

massimo impegno nel collaborare con associazioni, cooperative, datori di

lavoro, realtà di volontariato, costruendo una fitta rete di partner che

possano ampliare al massimo grado le possibilità di poter offrire un

ampio ventaglio di scelta al ragazzo.

In particolar modo nel caso di Simone, vista la lunga durata della

messa alla prova, si è potuto progettare un percorso graduale ed

estremamente ricco di proposte: si è puntato innanzitutto al recupero

della scolarizzazione stessa ed al conseguimento della licenza media

scegliendo di non prepararlo come privatista, ma facendogli frequentare

la scuola serale e supportandolo nello studio con l’aiuto di un volontario;

altra esperienza fondamentale che ha impegnato il ragazzo fin dal suo

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ingresso in comunità è stata quella del volontariato, articolata in

proposte diverse: alcune costanti, quali l’impegno presso la mensa

Caritas adiacente la comunità; altre circoscritte nel tempo, come la

partecipazione ai Campi Estivi Libera organizzati dall’Associazione

(R)esistenza al Fondo Rustico Lamberti sito in Chiaiano, articolata in tre

giorni a settimana per la durata di due mesi. Esperienza questa intensa,

ove si sono alternati momenti di lavoro nei campi ad altri di formazione

alla legalità, con testimonianze ed attività varie, il tutto col valore

aggiunto della condivisione con un gruppo di coetanei provenienti da

tutt’Italia. Si è inoltre proposto al ragazzo la partecipazione ad eventi

spot organizzati da svariate associazioni, aventi l’obiettivo di

sensibilizzare al tema della diversità e di promuovere una cittadinanza

attiva attraverso eventi di vario tipo. Esperienze queste che lentamente

hanno aperto un mondo nuovo a Simone che, dapprima si è mostrato

scettico e pigro nella partecipazione esprimendo più volte, con un

incredulo “ma chi glielo fa fare?”, la sua reale difficoltà a comprendere

la motivazione che spingesse tante persone a spendere il proprio tempo

per gli altri gratuitamente; per poi lentamente cominciarne ad

apprezzare il valore, ma soprattutto a provare piacere nel compiere

gesti gratuiti, affermando in più di un’occasione di andare a dormire

contento “perché mi sento che così mi sono guadagnato la giornata, ma

bene, senza fare guai”. Espressione questa, come tante altre, che mette

in luce come il desiderio di bene, presente in ciascun individuo, possa

attraverso piccole cose emergere con semplicità e immediatezza,

prevalendo su tutto il resto. Al riguardo appare inoltre utile sottolineare

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che l’équipe della comunità “CEDRO” crede molto nel valore del

volontariato, sia in quanto strumento di riparazione del danno

perpetrato alla società compiendo il reato, ma anche perché capace di

portare i ragazzi, soprattutto quando svolto con un gruppo di pari, a

scoprire che esistono altri modi di intendere e spendere la vita e quindi

funzionale al potersi dare una diversa possibilità.

Trascorsi i primi 12 mesi di messa alla prova si è cominciato a far

sperimentare al ragazzo esperienze formative volte a fargli acquisire

competenze specifiche con l’obiettivo di successive esperienze

lavorative. Elementi, questi, su cui con Simone si è potuto lavorare con

gradualità, ma che nel caso di ragazzi più grandi dovrebbero essere

prioritari, per permetter loro di tornare a casa con un lavoro o

quantomeno con competenze spendibili in tal senso: è questa senz’altro

la vera alternativa che gli si possa offrire per evitare davvero il rischio di

una recidiva. Al riguardo appare opportuno evidenziare che una grave

difficoltà nel proporre percorsi formativi e/o lavorativi agli adolescenti

ospiti in comunità è oggi rappresentato dall’abolizione dei corsi di

qualifica superiore triennali, conseguibili fino a qualche anno fa presso i

vari Istituti Professionali, primo fra tutti quello del settore alberghiero.

Un problema perché l’esistenza oggi dei soli corsi quinquennali, è un

grave danno alla fascia più debole della popolazione in quanto taglia

fuori tutti quei ragazzi che non se la sentono di impegnarsi in un

percorso quinquennale ma che probabilmente non volendo abbandonare

la scuola e desiderando di formarsi per un mestiere specifico, avrebbero

scelto un percorso più breve. La ripercussione dell’abolizione delle

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qualifiche sul lavoro di recupero e di reinserimento sociale dei minori è

enorme, anche perché l’obbligo scolastico impone la frequenza, ma di

fatto è palesemente controproducente o quantomeno sterile far

frequentare ad un ragazzo una scuola che non vuole fare e lascerà

appena possibile; d’altro canto non lo si può nemmeno mandare a

lavorare, se non con 10 anni di scolarizzazione; ecco che spesso gli

operatori si trovano in un’empasse di difficile soluzione, ma soprattutto

con un’offerta formativa da proporre al minore estremamente ridotta.

Nel caso di Simone è stato in realtà più semplice districarsi, perché

vista la sua situazione di partenza, la sua età e la lunghezza del suo

percorso, si è potuto procedere lentamente: la preparazione alla licenza

media ha avuto la durata di due anni; inoltre il CGM, proprio per

migliorare la qualità delle proposte formative offerte ai ragazzi dell’area

penale, è partner di diversi progetti, per cui di fatto per i soli ragazzi

dell’area penale vi sono numerose possibilità.

Al riguardo appare interessante mettere in luce il valore delle

numerose realtà operanti nel cosiddetto privato sociale, senza le quali

ben poche sarebbero le proposte possibili, sia lavorative che formative.

Particolarmente prezioso è stato, infatti, nel percorso di Simone,

l’inserimento nel progetto “Finchè c’è pizza…c’è speranza” realizzato,

in protocollo d’intesa con l’USSM, dall’Associazione Scugnizzi,

un’associazione senza fini di lucro, operante nel centro storico cittadino,

che si propone di promuovere attività finalizzate al recupero di più alti

livelli di legalità attraverso la promozione della conoscenza di arti e

mestieri nella prospettiva di potenziali sbocchi professionali. Tale

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progetto, nasce dall’esperienza effettuata presso l’IPM di Nisida della

scuola permanente per pizzaiolo, ove l’associazione è riuscita a creare

un ponte tra l’IPM ed il mondo dell’imprenditoria, con l’obiettivo di

consentire anche ai ragazzi dell’area penale esterna di imparare il

mestiere di pizzaiolo. Nell’ambito del percorso di formazione, Simone,

oltre ad acquisire le competenze necessarie a svolgere il suddetto

mestiere, è stato coinvolto in un’attività di volontariato che consisteva

nel servire le pizze preparate dai corsisti alle persone disagiate, nella

medesima struttura, la “pizzeria dell’impossibile.”

In riferimento a quanto detto è utile sottolineare che inserire un

ragazzo in una qualsiasi attività esterna alla comunità richiede un

maggior lavoro per la stessa, essendo necessario un costante dialogo tra

gli adulti di riferimento del minore, educatore, ass. soc., ed i

responsabili dei diversi progetti, per monitorarne l’andamento ed

intervenire nei momenti di fatica del ragazzo. In particolare Simone, in

tutti i contesti in cui veniva inserito, mostrava da una parte

immediatezza e facilità nel relazionarsi ma dall’altra appariva incapace

di comprendere quale fosse il suo posto e il limite da non valicare:

difficoltà questa che ha rappresentato il principale e più faticoso

elemento da fronteggiare e su cui intervenire per aiutarlo in un percorso

di maturazione e crescita personale; difficoltà che rispecchiava

chiaramente l’assenza di confini e limiti nella sua famiglia d’origine.

Proprio al fine di sostenere al meglio il ragazzo, si è reputato

opportuno far effettuare dalla psicologa della comunità una serie di

colloqui clinici di inquadramento e valutazione del suo livello di sviluppo

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psico-affettivo, che consentissero di approfondirne gli aspetti della

personalità per poter porre in essere interventi quanto più rispondenti

alle sue esigenze. Nel corso di tali incontri Simone si è sempre

dimostrato accomodante e volenteroso, pronto a collaborare, come a

volere ribadire la sua buona volontà ed il suo desiderio di cambiamento.

Tuttavia più volte nell’ambito dei colloqui e delle prove svolte il ragazzo

ha manifestato la sua difficoltà a comprendere realmente il senso del

lavoro che andava svolgendo ed il nesso con l’intero percorso svolto in

comunità. Complessivamente emergeva la presenza di una fragilità

dell’assetto cognitivo, che sembrava attestarsi su un livello operativo-

concreto, tipico di una fase antecedente dello sviluppo, senza pertanto

riuscire ad accedere alla fase dell’astrazione e della rappresentazione

simbolica che consente all’individuo di immaginare le conseguenze

future e/o a lungo termine delle proprie azioni, nonché di generalizzare

e ragionare per categorie. Anche l’affettività era espressa in maniera

talvolta immatura ed infantile, non essendo adeguatamente strutturati

gli strumenti razionali che ne consentono la gestione ed il controllo. Il

controllo degli impulsi, degli stati emozionali e dei vissuti è perciò più

faticoso e problematico per Simone che necessita di continue

confrontazioni e feedback per acquisire la costanza degli impegni e degli

obiettivi, cioè per orientarsi e ricentrarsi sul compito, che, altrimenti,

viene facilmente perso di vista. In altre parole si era dinanzi ad un

bambino di 10-11 anni nel corpo di un adolescente di 15-16 anni.

Questo dato è stato particolarmente utile agli operatori in quanto con

l’aiuto della psicologa si è potuto concordare una serie di strategie atte

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ad interagire al meglio col ragazzo cercando di comprenderne i limiti,

senza penalizzarlo e di lavorare sul miglioramento dell’autostima

valorizzandone le risorse anche attraverso le numerose attività

laboratoriali interne alla struttura. Si inoltre reputato opportuno

centrare successivi colloqui sulla rielaborazione dei reati, sul controllo

degli impulsi e sulla gestione della rabbia, in un percorso strutturato ad

hoc dall’USSM e dal CGM.

Inoltre, in considerazione del fatto che il quadro emerso appariva

fortemente legato alle dinamiche di vita familiare, una costante

attenzione è stata data al rapporto con i genitori con cui sono stati

effettuati incontri periodici, sia con i soli referenti della comunità che

congiuntamente ai Servizi, ciò sia per coinvolgerli costantemente nel

percorso del figlio, sia per sostenerli nello sviluppo di una genitorialità

più consapevole. La gestione con la famiglia costituisce, non di rado, la

parte più difficile del lavoro: spesso infatti ci si trova dinanzi a famiglie

che, superato il momento di apertura iniziale, cambiano poi

atteggiamento durante il percorso, “allargando” anch’esse le pretese

come i figli; oppure famiglie che mantengono un atteggiamento

ambiguo, apparentemente in linea con quanto proposto dalla comunità,

ma in realtà pienamente collusivo con i figli, che di fatto “rema contro”

la proposta educativa della comunità.

In particolare, con i genitori di Simone si è strutturato un percorso di

incontri proprio al fine di “tirarli dentro” il cammino del ragazzo, dando

loro soprattutto uno spazio di ascolto ma anche indicazioni concrete

sulla gestione del minore e più in generale della vita familiare.

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Naturalmente un ruolo importante in tal senso è stato svolto anche dai

SSTT che hanno strutturato una serie di interventi atti migliorare il

complessivo stile di vita del nucleo, non ultimo inserendo il padre del

minore, una volta terminato il periodo di detenzione, in un progetto

lavorativo. I genitori di Simone, nei limiti delle loro capacità, si sono

mostrati collaborativi cercando di ascoltare i suggerimenti e le

indicazioni degli operatori seppur con momenti di ambiguità e

confusione, opportunamente ripresi dagli operatori.

A quasi due anni dal suo ingresso in comunità nonostante la

problematicità del caso, la complessità della gestione e i numerosi alti e

bassi, numerosi erano i passi fatti da Simone, come evidenziato nella

relazione elaborata dall’equipe interistituzionale per l’Udienza

conclusiva di valutazione della messa alla prova in cui così veniva

sintetizzato e valutato il suo percorso:

Nel o so di uesto pe iodo di pe a e za i o u ità, “i o e ha si u a e te fatto dei passi in avanti. Infatti sostenuto dagli operatori e da un percorso rispondente alle

sue esigenze, nel tempo è riuscito, seppur con momenti di fatica, a maturare una

maggiore riflessività sui propri agiti e a comprenderne meglio le difficoltà.

Possiamo dire, pertanto, che Simone, alternando momenti di completa adesione ad altri

di opposizione, ha risposto positivamente a ciò che gli è stato proposto. In generale il

suo comportamento è dunque apparso gradualmente più collaborativo e rispondente

alle regole della vita comunitaria, pertanto si può affermare che il periodo trascorso in

comunità sia servito ad avviare un processo di riflessione in Simone sui propri agiti e

sull assu zio e di o po ta e ti adeguati. Co plessiva e te uest e uipe itie e he al u i o iettivi sia o stati aggiu ti, tuttavia il ragazzo presenta un quadro estremamente complesso e compromesso, che rende il

percorso intrapreso estremamente lento e problematico. Negli ultimi mesi si è potuto

rilevare nel minore il desiderio di migliorare se stesso e di dimostrare un maggiore

impegno nelle attività svolte. Ciò ha determinato una diversa adesione al suo progetto

che lo vede oggi più consapevole e propositivo. Il ragazzo, riesce a cogliere il percorso

fatto come opportunità, così come le competenze apprese come qualcosa di fruibile in

futuro.

Pe ua to detto, l e uipe s ive te itie e he il pe o so di essa alla prova può

ite e si o luso positiva e te.

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La prima lunga parte del percorso di Simone si era conclusa con esito

positivo, ma il periodo di messa alla prova non era ancora terminato: a

causa del prolungamento avuto in itinere per ulteriori quattro furti,

iniziava una seconda parte della “prova”, che fin dall’inizio è apparsa

particolarmente problematica per la stanchezza e l’insofferenza che

man mano andava emergendo nel ragazzo. La sua impulsività, la

tendenza alla provocazione, al non riuscire a stare nei suoi confini,

gradualmente sembravano nuovamente in aumento, concretizzandosi in

un progressivo susseguirsi di episodi di gravità crescente: ritardi nei

rientri, impegno discontinuo nelle attività interne, bugie, tendenza a

contestare continuamente le regole comunitarie, rifiuto a proseguire il

secondo step del corso per pizzaioli e cosa più grave, il coinvolgimento

in una rissa.

Più in generale, dopo l’esito positivo avuto in udienza, Simone

sembrava essersi “seduto”, sentendosi probabilmente già “arrivato al

traguardo”, ponendo in essere un atteggiamento complessivo tendente

ad adagiarsi su quanto fatto ma anche a riproporre in comunità le stesse

modalità comportamentali vissute nella propria casa d’origine.

Gli elementi riportati evidenziavano chiaramente che ci si trovava di

fronte ad una pericolosa fase regressiva e non ad una delle comuni

“crisi” che normalmente ci si trova a fronteggiare in un percorso di

messa alla prova e che generalmente vengono gestite in accordo con i

Servizi, con convocazioni atte a fare il punto della situazione, a

ricordare al ragazzo il senso del beneficio concessogli e i rischi di una

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eventuale revoca con interventi restrittivi della libertà concessa e

incontri con la famiglia.

Tuttavia ad una lettura più attenta balza agli occhi, nel racconto di

questo percorso, la mancanza di convocazioni intermedie da parte

dell’AG che forse in un caso così lungo e complesso avrebbero potuto far

sentire al ragazzo il “peso” del suo “essere penale” e sostenere il lavoro

degli operatori, educatori e assistenti sociali, spesso lasciati totalmente

soli.

Così come altra grande assenza è stata quella del suo avvocato

difensore, poco interessato alle sorti del suo assistito, tanto da non

presentarsi mai in comunità per incontrarlo, parlando tramite i genitori

del minore e alimentando, come spesso accade, fantasie improbabili di

rientri in famiglia imminenti. Una presenza che invece può essere

realmente significativa, soprattutto se l’avvocato, in possesso, non solo

degli irrinunciabili strumenti tecnico-giuridici, ma di una specifica

competenza nell'ambito del sapere psicologico, in generale, e delle

problematiche dell'età evolutiva, faccia realmente propria la funzione

sociale del suo ruolo focalizzando l’attenzione sul minore, sulla persona

e sulla tutela delle relazioni familiari. Nel processo penale minorile,

infatti, al difensore, oltre alla capacità di assistenza legale, si richiede

una peculiare capacità di intervenire sul giovane per consentirgli di

comprendere la valenza non solo tecnica, ma anche pedagogica delle

situazioni processuali e per aiutarlo a comprendere meglio ciò che

accade. L’avvocato è spesso, almeno inizialmente, l’unica figura di cui il

minore si fida, l’unica che ascolta, l’unica che non è considerata un

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“nemico”, proprio per questo può rivelarsi una presenza preziosa nel

lavoro di recupero del minore. Nell’esperienza della comunità “CEDRO”,

fortunatamente, diversi sono stati i casi in cui il legale di fiducia si è

rivelato un alleato prezioso che ha sostenuto il lavoro degli operatori.

Purtroppo ciò non è accaduto nel percorso di Simone.

La mutata situazione e le nuove problematicità emerse hanno,

necessariamente, spinto gli operatori ad interrogarsi su quale strategia

potesse essere realmente proficua per il ragazzo. L’impressione era che

in quel momento il ragazzo avesse dato tutto ciò che poteva dare e

forse, in quel percorso, anche la comunità.

Nella relazione di aggiornamento, redatta dopo qualche mese,

successivamente all’equipe di verifica,si legge:

Possia o dire che durante questo periodo Simone ha alternato momenti di completa

adesione ad altri più oppositivi e di difficile gestione. Nonostante ciò, ha risposto

positivamente ad alcune proposte educative raggiungendo, seppur in maniera limitata,

alcuni obiettivi uali il o segui e to della li e za edia e l attestato di f e ue za al corso pizzaioli. Purtroppo il quadro personale e sociale di partenza del minore è apparso

sin da subito estremamente compromesso: la sua sembra essere una difficoltà reale ad

entrare in una riflessione più profonda che lo aiuti a calibrare i suoi atteggiamenti e le

sue reazioni spesso spropositate e dettate da forte impulsività.

Il programma educativo elaborato e di volta in volta modificato ed integrato ha avuto

come obiettivo quello di permettergli di maturare una maggiore riflessività ed un

maggiore controllo di sé e delle sue emozioni. Tuttavia, i risultati raggiunti faticosamente

i uesti esi ha o su ito delle eg essio i, a he piuttosto sig ifi ative, ell ulti o periodo.

Ciò o osta te l a da e to dell ulti o pe iodo ha ost etto gli ope ato i s ive ti a ivede e gli o iettivi del pe o so e a valuta e l effi a ia degli i te ve ti posti i esse e i

questi mesi.

Simone, da qualche mese non è interessato a nessuna attività proposta e, molto

fati osa e te, gli ope ato i ies o o a fa lo pa te ipa e agli i peg i sta iliti. … Possiamo dire dunque, che negli ultimi tempi si è chiaramente manifestata una

progressiva demotivazione che ha portato il ragazzo ad assumere un comportamento

costantemente provocatorio e irrispettoso nei confronti di chiunque, atteggiamento che

è diventato, oramai da tempo, il suo normale modo di porsi. Il giovane esprime

chiaramente la sua intenzione di ritornare a casa e sembra sentire il peso della vita

scandita da impegni e regole della Comunità.

Per questo motivo, il programma è stato rivisto prevedendo anche dei rientri a casa più

f e ue ti p op io pe li ita e l appa e te sta hezza del agazzo e a do di ost ui e con lui una prospettiva alte ativa alla o u ità.

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L’equipe interistituzionale ha valutato che continuando su quella

strada si sarebbe velocemente arrivati necessariamente alla richiesta di

revoca dell’art.28, tuttavia, vista la complessiva positività dei 21 mesi

già trascorsi di messa alla prova e la convinzione che una revoca non

avrebbe realmente aiutato il ragazzo, si è cercato di immaginare strade

alternative per tentare di invertire nuovamente la rotta.

Si è cominciato così ad ipotizzare un percorso di rientro graduale sul

territorio, per provare a dare nuova linfa al percorso, ma si poneva

innanzitutto la necessità di far sperimentare il ragazzo in un percorso

lavorativo.

I primi tentativi in tal senso, fatti nel settore della ristorazione

proprio in virtù dei corsi frequentati, sono stati fallimentari proprio per

l’insofferenza di Simone: l’impulsività del ragazzo, la sua esuberanza, la

sua “risposta facile”, necessitavano di un approccio al lavoro che fosse

un po’ come una palestra ove allenarsi per apprendere come ci si

comporta. Nonostante le competenze nel settore culinario, infatti, il

ragazzo non sembrava ancora pronto per poter essere inserito in un

contesto strutturato quale quello di una pizzeria o di un ristorante,

pertanto ci si è orientati verso altre possibilità, optando per

l’inserimento presso l’azienda di autodemolizione “Trincar”, sita in

Villaricca (Na). Tale scelta è stata motivata dalla necessità di poter

inserire Simone in una situazione “protetta”: ossia presso un datore di

lavoro che comprendesse e capisse che accogliere un “minore a rischio di

devianza” vuol dire dargli una possibilità, ma anche che tale possibilità

va costruita in un dialogo costante con i suoi referenti istituzionali e che

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bisogna avere nella sua gestione una flessibilità che lo avvii al senso del

lavoro e dell’impegno ma che sappia anche comprenderne le frequenti

defaillance. Il titolare di tale azienda, mostrando una sensibile

attenzione al problema della devianza minorile, si è reso disponibile

all’inserimento di ragazzi dell’area penale e nel tempo si è rivelato una

preziosa risorsa per la comunità “CEDRO”, nella gestione dei percorsi dei

ragazzi in area penale e nel dar loro una chance. Ad oggi, infatti, i primi

tre ragazzi inseriti hanno un contratto di lavoro, hanno terminato

positivamente il percorso in comunità, sono rientrati definitivamente a

casa e sono realmente soddisfatti di aver avuto la possibilità di

riscattarsi. Un quarto ha appena iniziato ed è ancora in comunità per

terminare il percorso di messa alla prova.

Tale scelta si è rivelata proficua e ad oggi Simone continua il suo

percorso, seppur col passo incerto di chi appare in procinto di cadere.

Si è progettato un graduale rientro sul territorio ma l’insofferenza, la

fatica, lo scoraggiamento che il ragazzo ancora manifesta, unitamente

ad una chiusura che lo rende sempre più sfuggente, inducono gli

operatori ad essere vigili e a tenere alta l’attenzione.

Vigilanza che vuol dire essenzialmente che nel mentre accadono le

cose l’educatore c’è, è lì, è presente ed è pronto a provarle tutte per

“tenere” e contenere il ragazzo in una dimensione progettuale.

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5.3. L’educatore: il senso di una presenza

Qua do i po go di f o te ad u a pe so a, posso o side a la da due pu ti di vista: posso tener conto della sua realtà, di ciò che è; ma posso anche fare attenzione a ciò

che può diventare.

I og i pe so a esiste u io p ofo do he hiede u ge te e te di esse e ealizzato. Amare una persona significa mettersi al servizio di questo io per aiutarlo a realizzarsi.

Amare vuol di e hia a e l alt o all esiste za, fa lo vive e, fa lo esse e di più. Ma hi sa uali so o i li iti dell alt o?

Pe a a e isog a allo a da e edito all alt o e gua da lo o spe a za. Il li guaggio dell a o e o la di ost azio e a la fede. Chi non ha il se so del iste o, dell avve tu a, del is hio, o può a a e! 252

Simone, il suo sguardo, il suo smarrimento, la sua frammentazione, la

sua esuberanza, il suo desiderio di essere migliore, il suo bisogno di

essere riconosciuto, accolto e amato.

Simone, una storia tra tante, una storia unica e irripetibile, una storia

come tante, come troppe.

Simone, semplicemente un adolescente in difficoltà, da accompagnare

per un piccolo tratto di strada cercando di fare il possibile affinché quel

“pezzetto” possa fare la differenza.

Simone, il suo percorso e la consapevolezza che, in una messa alla

prova in comunità, l’elemento che ha in sé la possibilità di determinare

una differenza è la presenza dell’educatore.

L’educatore, il senso di una presenza che trova il suo significato più

profondo e vero nella parola stessa da cui ha origine: ex-ducere,

“condurre fuori da”, un verbo che rimanda allo spostarsi da un luogo ad

un altro, all’idea di un viaggio, di un cammino; una presenza che dunque

deve favorire il movimento.

252

E. Fromm, Avere o essere?, Mondadori Editore, Milano, 2001.

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L’educatore, il senso di una presenza che si declina nell’abitare la

relazione, nello srotolarsi dei minuti, delle ore del tessuto quotidiano, in

una dinamica alimentata da un’istanza di libertà che permetta

all’educando di ascoltarsi, di dar spazio al suo sentire, di liberarsi

dall’“addestramento ricevuto”, di far emergere la propria natura, di

scoprire i talenti avuti in dono per potersi muovere nel mondo perché

l’educazione, come scrive Cosimo Laneve, “è innanzitutto prendere

coscienza della strutturazione del proprio io: essere consapevoli di

quello che si è, quindi di ciò che si accetta o si rifiuta di sé in

riferimento a quei valori che attestano la propria umanità; significa, poi,

affrancarsi dalla chiusura nei dati della natura, liberarsi dai lacci di un

imprinting culturale non scelto, andare oltre i propri limiti culturali (…),

elevarsi rispetto a se stessi e, quindi, progettarsi in funzione di quei

significati che appaiono congrui con il proprio sé, con il proprio essere

persona”253; è dunque un percorso di autoscoperta, di autoaccettazione

e di autoprogettazione che consente di costruire il proprio sé.

L’educatore, una presenza che nella storia di Simone si è declinata

innanzitutto nell’accoglierlo, nel contenerlo nei suoi frequenti scatti

d’ira che lo spingevano a rifiutare tutto, nel farlo rientrare dolcemente

in se stesso attraverso la vicinanza e l’affetto, nel gioire con lui dei suoi

successi, nel cancellare la sillaba “im” dalla parola “impossibile”, da lui

ripetuta continuamente nella convinzione di non essere in grado di poter

imparare a fare e ad essere diversamente, nel dargli fiducia, sempre, nel

“convincerlo” ogni giorno che ce la poteva fare, nel non arrendersi né

253

C. Laneve, Manuale di Didattica generale, La Scuola, Brescia, 2011, p.52.

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spaventarsi quando la parte più distruttiva veniva fuori facendo di tutto

per farsi allontanare. Perché è questo che cercava di fare Simone, come

tanti adolescenti in difficoltà: dimostrare a se stesso di non valere nulla,

di non meritare nulla, di essere talmente sbagliato che nessuno riusciva

a stargli accanto, né tantomeno volergli bene; un vissuto troppo forte da

cui sembrava possibile difendersi solo continuando a percorrere quella

strada di prevaricazione e violenza che lo aveva condotto fin lì, non

esistevano alternative.

Bisogna sempre tener presente che proprio per i vissuti che hanno alle

spalle, tutti i ragazzi che giungono in comunità hanno un vuoto affettivo

enorme accompagnato da una forte svalutazione di sè, dunque tutti

hanno bisogno innanzitutto di sentirsi visti e riconosciuti, di essere

ascoltati, compresi, amati e ciò è possibile solo all'interno di una

relazione educativa, realmente significativa, che restituisca loro un

immagine positiva di se stessi.

Soprattutto nella prima fase dell’accoglienza in struttura, agli adulti

impegnati nella relazione educativa è richiesta la capacità di

contenimento emotivo dei ragazzi garantendo loro la possibilità di

manifestare le proprie emozioni ricevendo un adeguato sostegno. Non è

facile perché gli adolescenti fanno di tutto per essere scostanti, per

scatenare nell’altro un senso di fastidio, con il loro modo di parlare, di

vestire, di comportarsi, di essere pettinati; fanno di tutto per farsi dire:

“vattene via, sei inadeguato, non voglio più vederti, non me ne importa

niente di te.” Ma è l’adulto che deve raggiungere l’adolescente,

soprattutto quando tira fuori la sua parte peggiore, non il contrario.

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L’educatore deve fare attenzione a non mettersi mai sullo stesso piano

del ragazzo, entrare in simmetria con lui, comportandosi come un suo

pari: un simile atteggiamento provoca il danno enorme di perdere il

ragazzo e di lasciarlo scivolare via nei suoi vuoti. Al contrario è proprio lì

in quel vuoto, in quel non senso, in quella distruttività che l’educatore

deve tirar fuori tutta la sua capacità di abitare la relazione, di saperci

stare dentro e resistere dimostrandogli che “non lo molla”, che è lì che

lo tiene, che non ha timore di affrontare insieme a lui le sue paure, il

suo dolore, la sua rabbia, la sua storia.

Un’importante funzione educativa è allora anche quella di mediare fra

questa parte “scostante” che con disprezzo e sfrontatezza urla

all’educatore “puoi fare quello che vuoi ma tanto è inutile: non mi

cambi!”, e la realtà del ragazzo, andando oltre quello che si vede e

scavando più in profondità delle manifestazioni superficiali. E ciò è

possibile se si tiene sempre presente che l’adolescente è un ‘immaturo’

e che l’immaturità in questa fase della vita è “elemento essenziale della

sanità dell’adolescenza”, dunque non un problema ma “una parte

preziosa della scena del ragazzo”254. Il vero problema lo si ha invece se

gli adulti abdicano, in tal caso, infatti “l’adolescente diventa adulto

prematuramente ed attraverso un processo falso” 255.

Questo il pericolo da scongiurare: l’educatore deve esserci.

“La ribellione adolescenziale, scrive Winnicott, deve essere raccolta,

deve esserle data realtà attraverso un atto di confronto personale. (…) Il

confronto appartiene ad un arginare che è non vendicativo, privo di

254

D. W. Winnicott, Gioco e Realtà, Armando Editore, Roma, 2004, p.242. 255

Ibidem.

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spirito di ritorsione, ma che ha la propria forza”256. Raccogliere la sfida

di un ragazzo che cresce “non è necessariamente una cosa gradevole”,

afferma lo psicoanalista inglese, ma se questo è chiaro a chi educa allora

anche l’ottica con cui si leggono certi comportamenti ed atteggiamenti

può cambiare assumendo una chiave di lettura che getta la luce non solo

sui problemi, su ciò che è sbagliato, su ciò che manca, ma anche e

soprattutto su ciò che c’è, su ciò che è da valorizzare, sulle risorse che

l’adolescente ha per affrontare le difficoltà che gli si pongono davanti

nel corso della sua crescita.

E’ con l’esserci, con la presenza costante nel tempo, col farlo sentire

a casa nello spazio della relazione che Simone è pian piano venuto fuori,

si è sentito al sicuro, dandosi il permesso di “rallentare” la sua corsa

verso l’essere adulto, vivendo la sua età in maniera più sana.

Altro elemento da tener presente inoltre è che anche i genitori hanno

bisogno a loro volta di essere accolti e capiti, al fine di rivisitare,

condividendola e rielaborandola, la storia di vita familiare. Sono genitori

difficili da raggiungere perché feriti nel proprio ego dalle difficoltà

evolutive dei figli, che per difendersi dal senso di inadeguatezza

banalizzano o viceversa drammatizzano, ma che invece necessitano di

essere accompagnati nella decodifica del significato simbolico e

comunicativo dell’azione antisociale, nella quale il figlio esprime la sua

richiesta di aiuto. È necessario che l’educatore riesca a strutturare

anche con loro una relazione contenitiva ove non cerchi di sostituirli, ma

al contrario costruisca una motivazione alla rielaborazione della storia

256 Ivi, pp. 247-248.

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relazionale con il figlio, valorizzando la disponibilità a porsi come

insostituibili alleati nell’attuazione del percorso riabilitativo257.

Naturalmente non è cosa semplice: non di rado ci si trova ad interagire

con famiglie chiuse, strutturate, diffidenti, portatrici di una mentalità

già segnata da storie di carcere, di droga, di violenza, invischiate in un

sistema che fa della prevaricazione, dell’illegalità e della forza fisica il

suo pane quotidiano, che guardano al sistema dei Servizi minorili come

un nemico da cui difendersi. Sono nuclei con cui si fa più fatica e spesso

molte energie vanno sprecate nel tentativo di arginarne le modalità

invadenti con cui investono la comunità.

In ogni caso, punto centrale è sempre partire proprio

dall’accettazione, quale indispensabile premessa di ogni possibile

cambiamento, per portare il minore e la sua famiglia a comprendere che

certamente è avvenuto qualcosa che porta con sé conseguenze forti,

l’evento reato appunto, ma che quell’errore non segna la fine: per

quanto doloroso esso sia, può comunque e sempre divenire motore di un

possibile cambiamento, ciò a patto che i soggetti in gioco siano disposti a

“rimboccarsi le maniche” e ad aprirsi ad un atteggiamento che trova la

sua forza nel tentativo di provare ad apprendere sempre qualcosa

dall’esperienza. In tal senso l’intervento educativo deve puntare a far

leva ed affinare quella capacità di essere resiliente258 che ogni individuo

ha in sé e che permette di trasformare un’esperienza dolorosa in

257

Aa. Vv, Il Trattamento dei Minori sottoposti a messa alla prova: griglia per i Servizi Psico-Sociali, in Cassazione Penale n.

05, Giuffrè Editore, Milano, 2012, pp. 1927 -1928. 258

Il termine resilienza deriva dal latino resalio, saltare, rimbalzare, utilizzato in fisica per descrivere l attitudi e di u corpo a resistere ad un urto; in ingegneria per indicare la proprietà meccanica che possiede un materiale di sopportare

sforzi applicati bruscamente, senza rompersi; in campo pedagogico indica la capacità di far fronte, resistere, rialzarsi e

uscire positivamente dalle defaillances con una motivazione ed una energia rinnovata.

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apprendimento, inteso come la capacità di acquisire delle abilità e

competenze utili al miglioramento della qualità di vita e

all’organizzazione di un percorso autonomo259.

Simone e l’educatore, il mistero di un incontro con tutto il suo carico

di ricchezza e di incertezza, con tutta la fatica e la bellezza di entrare in

relazione, di scambiarsi delle cose. Proprio questo è infatti il significato

del termine relazione: “legame di scambio di qualcosa” tra due persone,

scambio che nella relazione educativa diviene qualcosa di più. Questa

infatti, ricorda Cambi, “non è una semplice relazione” poiché “passa

anche e soprattutto attraverso il legame psicologico, personale tra i due

soggetti in gioco, disposti asimmetricamente, predefiniti da un ruolo

preciso proprio in tale rapporto, ma anche posti faccia a faccia nella loro

individualità, con la loro personalità e le strutture che la governano e la

identificano. Soggetti che sono in particolare contrassegnati – proprio

nella relazione interpersonale che vivono nel proprio ruolo – come

fondative di esso – dalle dinamiche affettive le quali entrano a far parte,

appunto, del ruolo ma che anche vanno controllate attraverso una serie

di procedure interpretative, tematizzate e tenute sotto controllo”260.

L’educazione è infatti sempre contemporaneamente un’attività

pedagogicamente intenzionale e un’attività istintiva che necessita di

un’alfabetizzazione emozionale che consenta di controllare i sentimenti

rispettandone l’esistenza. La relazione educativa è una relazione

asimmetrica, bi-direzionale, perturbatrice, che necessita di competenze

259

E. Vinci, La dèfaillance come potenziale formativo, in C. Laneve (a cura di), Nuovi o izzo ti dell’edu azio e, Carocci,

Roma, 2008, p. 241. 260 F. Cambi, Mente e affetti ell’edu azio e o te po a ea, Armando, Roma, 1996, p. 124.

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specifiche che consentano all’educatore di essere in grado di proporre

soluzioni adeguate e risposte complesse e diversificate, ma è anche una

relazione “sentimentale”, costituita di emozione e affetto, capace di

“toccare”, di “emozionare”.

Si ha un vero processo educativo solo se c’è un “emozionamento” che

consente di toccare l’altro. E questo accade perchè “solo ciò che

dall’esterno entra nell’intimo, ciò che non viene solo conosciuto dai

sensi o dall’intelligenza, ma tocca il cuore e l’animo, questo solo cresce

in esso ed è un vero mezzo formativo. Ma se è davvero tale, se viene

realmente a strutturarsi nell’anima, cessa di essere un semplice mezzo

materiale, comincia ad agire direttamente, formando, educando,

aiutando l’anima a raggiungere quella configurazione che è stata

prevista per essa”261.

Si apprendono dunque solo le cose che si amano; solo ciò che “tocca”,

che “emoziona” viene realmente conosciuto, interiorizzato e fatto

proprio. Solo toccandone l’animo, l'educatore può ispirare l'altro in un

cammino verso il cambiamento possibile, nella consapevolezza che

continuamente va negoziato perché comporta sempre un momento di

crisi profonda che provoca resistenza.

E' la fatica della relazione, dello stare nella relazione.

Fatica che stanca, sfibra, sfinisce; ma che anche stimola, arricchisce.

Fatica che l'educatore è chiamato ad assumersi tutta, proprio per la

responsabilità che ha nell'aver “addomesticato” l'altro.

261

E. Stein, La donna - il suo compito secondo al natura e la grazia, Città Nuova Editrice, Roma, 1987, p. 135.

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Appare fondamentale, proprio nelle difficoltà che il lavoro educativo

comporta, riuscire sempre e comunque a sentirsi responsabili della vita

che si sta accompagnando, ad ispirarne i passi per invitare a guardare

oltre, a sognare, a desiderare ed osare. Ispirare attraverso la bellezza,

unico elemento, capace di muovere realmente i passi dell'uomo

facendolo entrare in risonanza con le parti migliori di se stesso.

Bellezza che “tira su” e stimola a tirare fuori il meglio di sé, a vedere

il bello di sé, a dare valore a ciò che si è, a riconoscere il valore della

vita come armonia, come relazione, come riconoscimento reciproco.

Ecco allora l'importanza di un'educazione che promuova, tenda, si

ispiri al bello e, attraverso parole vive e vitali, trasmetta vita e sia

capace di far amare.

“Le parole insegnano, gli esempi trascinano. scriveva Sant’Agostino -

Solo i fatti danno credibilità alle parole”. Per educare alla bellezza

autentica è necessario che l'educatore, affianchi ai propri occhi e alle

proprie parole, la passione e il proprio esempio, piccolo ma concreto,

che attesti che in lui la persona e le parole coincidono: con la sua

persona dimostra infatti quali valori garantisce e che cosa rende umano

l'uomo.

Per fare questo non occorrono grandi gesti ma è necessario fare

memoria di sé, ricordarsi di come si era a quell’età per meglio

comprendere senza giudicare e vivere la relazione affrancandola dal

binomio “giusto-sbagliato”, dal mero “ti sei comportato bene o male”,

centrandola invece su un più profondo “come stai? come ti senti quando

accade questo, quando fai così?”. E’ indispensabile prestare attenzione a

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che la relazione si sviluppi su uno stare insieme profondamente

agganciato al far sperimentare esperienze capaci di far vivere, con

fermezza e col sorriso, la possibilità di sentirsi bene con se stessi, di far

assaporare il gusto della gioia quale frutto della propria crescita

personale, stimolandoli a riconoscere e dare ascolto a quella voce

interiore propria di ciascun individuo che sa cosa è bene e fa star bene e

cosa è male e fa star male, cosa è vitale e cosa mortale.

Tuttavia bisogna ricordare che la relazione educativa in una comunità

di minori è anche e soprattutto una relazione complessa, intensa,

difficile, faticosa, continuamente esposta a intemperie di varia natura.

La comunità è investita dalla responsabilità di prendere in carico

educativamente le storie dei ragazzi entrati nel circuito penale, per poi

restituirli al contesto di provenienza. La presa in carico delle storie dei

ragazzi richiede la costruzione di relazioni educative, caratterizzate da

vicinanza e continuità. Si tratta di ri-costruire, a partire dal quotidiano

delle relazioni, occasioni e possibilità di cambiamento e di crescita,

rispondendo al bisogno primo dell’adolescente di incontrare

propriamente una comunità di persone, in cui trovare e ritrovarsi,

riconoscere e riconoscersi, sperimentare e sperimentarsi.

L’educare è sempre un’esperienza relazionale.

Tuttavia prendere in carico educativamente le storie dei ragazzi è

cosa tutt’altro che semplice e mai scontata. Le storie di cui i ragazzi

sono portatori sono intrise di sofferenza, di rabbia, di abbandoni, che

spesso portano i ragazzi ad esprimere forti emozioni con il

comportamento attraverso modalità che evidenziano aggressività,

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ipereccitazione, silenziosità. In questo contesto gli educatori sono

fortemente esposti, “segnati dalla preoccupazione, dalla paura, a volte

da un terrore nascosto di non essere capaci di contenere, anche

fisicamente, tali spinte fortemente caratterizzate da pulsioni

omicide”262. Ciò senza considerare che con i minori di area penale si

aggiunge anche la difficoltà di dover coniugare le istanze di libertà

proprie di ogni processo educativo con le necessarie funzioni di

controllo: due movimenti opposti che talvolta stridono fortemente

provocando ulteriori tensioni e problematicità.

“L’educatore è punto di riferimento per il giovane, è oggetto di amore

e odio”263, sentimenti ambivalenti e contrastanti che nel farsi della

relazione fanno sentire tutto il loro peso. Amore in quanto il ragazzo

sente che l’educatore è presente lì per lui, per prendersi cura dei suoi

bisogni, per sostenerlo nelle difficoltà, per aiutarlo a “tirar fuori” il

meglio; sente che si occupa e preoccupa per lui, che non è lì solo per

lavoro inteso come dovere, ma perché crede in quel lavoro e crede in

lui; sente la sua vicinanza, la sua partecipazione, il suo interesse, la sua

attenzione. I ragazzi sono vigili, attenti, non sfugge loro la cura con cui

si fanno le cose, ed anche se talvolta la loro rabbia li porta ad ostentare

indifferenza e disprezzo, sono i primi che poi sanno affermare “con te

sto tranquillo, se ti chiedo qualcosa so che basta dirtelo una volta sola,

perché non ti dimentichi”, una delle tante semplici frasi che però lascia

comprendere quanto osservino l’adulto, talvolta anche mettendolo alla

prova per “prenderne le misure”.

262

C. Kaneklin, A. Orsenigo, Il lavoro di comunità, La Nuova Italia scientifica, Roma, 1992, p.86. 263

P. Danza, Lavorare come educatore in comunità educativa tra implicazione e formazione; in http://www.counsellor.it/

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236

Ma accanto a questo slancio convivono anche sentimenti di odio verso

l’educatore: l’adolescente è diffidente verso quell’adulto che a fine

turno va via e lo lascia ad un altro, che “parla bene ma che ne sa dei

problemi veri”; ha paura che, come gli altri adulti della sua vita, lo

abbandonerà quando avrà bisogno di lui, pertanto meglio non legarsi,

non aprirsi, non affidarsi, solo “far finta di accontentarlo” dicendogli

quello che vuole sentirsi dire. E’ un “nemico”, è una guardia carceraria

che vuole imporre regole e fa la spia all’assistente sociale e al giudice,

fa parte del sistema che lo “tiene chiuso”, con lui meglio cercare di

“fare buon viso a cattivo gioco”.

L’educatore si trova a far fronte a tutto questo groviglio di emozioni

contrastanti, uno scoglio enorme da superare, reso più ostico dalla non

naturalità del luogo e del rapporto che si cerca di instaurare: la

comunità, infatti è un prodotto artificiale, nel senso che è una soluzione

ad hoc per ricostruire un luogo favorevole alla costruzione di relazioni

significative, capaci di promuovere cambiamenti e contenere disagi. Allo

stesso modo anche la relazione con l’educatore è artificiale: ovvero non

si crea da sé, ma è intenzionale, procurata con mezzi e strategie a volte

molto raffinati, che viene studiata a lungo sia nel momento del contatto

che durante tutte le fasi della sua evoluzione.

Questa non naturalità è una circostanza che va sempre tenuta in

considerazione, soprattutto dal punto di vista dei ragazzi che d’altro

canto la relazione non la ricercano, per lo meno non in maniera

esplicita. Hanno certamente altri modi per richiedere attenzione, per

esempio “alzando il tiro”, rompendo e facendo rumore, esibendo corpi

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massacrati da tatuaggi, rispondendo male o non rispondendo affatto,

fuggendo, rinchiudendosi, urlando, andando male a scuola, etc. Ma

Simone, come gli altri, non è andato di sua spontanea volontà da un

educatore a dire: “Ciao, sono Simone e ho bisogno di aiuto”. E’

l’educatore che intenzionalmente si muove verso il ragazzo, presentato

o segnalato da altri servizi. “Loro”, i protagonisti, non richiedono

esplicitamente di essere seguiti, presi in carico, aiutati, mai. “Sono

queste situazioni quelle in cui i ragazzi non chiedono esplicitamente

niente, ma che richiedono all’educatore di mettere in campo e utilizzare

specifiche abilità inerenti al lavoro professionale educativo”264, perché

se per l’educatore instaurare una relazione è fin dall’inizio importante,

altrettanto non lo è per loro.

Una comunità è, inizialmente e inevitabilmente per un ragazzo che

arriva, uno spazio anonimo, una realtà nella quale, a seguito delle sue

scelte, paga come prezzo la perdita della libertà. Gli educatori possono

declinare questa restrizione come un cammino verso una maggiore

autonomia e consapevolezza di sé e degli altri, ma vi è sempre il rischio

che essa rimanga per il ragazzo un non-luogo: la dicotomia tra

restrizione e autonomia è forte e l’educatore deve cercare di

stemperarla “tirandosi dentro” il ragazzo nel costruire insieme a lui e

agli altri la “sua” comunità.

Simone non è giunto in comunità di sua spontanea volontà, questo

l’educatore deve averlo ben chiaro ed assumere pertanto innanzitutto il

compito di accompagnarlo nel modificare il significato che all’inizio

264

M. Longhi, Nelle vie della città per aiutare ragazzi e ragazze a crescere, in Polis n. 82, Venezia, 2002, pag.28.

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238

aveva attribuito al suo essere ospite nella struttura, ponendosi nella sua

prospettiva: Simone ripeteva che “stava chiuso” perché “doveva

scontare la pena”, per lui non vi era differenza tra comunità e carcere.

Questo il punto da cui partire per condurlo verso una diversa percezione

del senso del suo stare in comunità: è infatti solo quando il ragazzo

percepisce la comunità come una risorsa a sua disposizione e non più

come il luogo che “lo tiene chiuso”, che si concede il permesso di vivere

quel tempo e quello spazio come una opportunità; e solo allora il suo

passo cambia, aprendosi anche all’eventualità di una rielaborazione

dell’evento reato e più in generale della trasgressione, intesa come

superamento di un confine, prima ancora che come reato.

Un punto questo nevralgico nel percorso di adolescenti provenienti

dall’area penale che sovente sembrano non comprendere che il reato

commesso, prima ancora di essere rilevante sul piano giuridico, è l’esito

di un’invasione dello spazio vitale di un’altra persona. Al riguardo

peculiare compito degli operatori è proprio quello di accompagnare il

ragazzo nel riconoscimento dei confini propri e altrui, attraverso uno

spazio, quello comunitario, in cui la trasgressione diventa risorsa per un

confronto tra operatori e ragazzi e tra i minori fra loro.

Punto centrale del lavoro educativo in comunità è lavorare sul senso

di appartenenza e di riconoscimento, elementi costitutivi dell’identità

personale, e ciò è possibile coniugando la parte comportamentale, atta a

dare alla comunità un ordine, un assetto, un programma, alla parte

relazionale, fatta di accoglienza e normatività. L’azione educativa, nel

contesto comunitario, si realizza precipuamente attraverso la

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molteplicità dei processi relazionali e comunicativi tra le persone che la

vivono, ove in circolarità, insieme alla dimensione del “fare” delle cose

viene proposta anche quella del “pensare”, favorendo la rielaborazione

delle esperienze e la costruzione di significati condivisi.

L’educatore deve dunque prestare attenzione a non sbilanciarsi su un

fare concentrato maggiormente sulla sfera del comportamento, nella

convinzione che agendo su tale aspetto il ragazzo possa modificare i

propri agiti, deve invece aver sempre chiaro che l’aspetto relazionale sia

quello più rilevante e che le due parti debbano procedere

congiuntamente. Il rischio è quello di farsi sbilanciare da pressioni e

richieste che finiscono con l’ancorare il senso del percorso del ragazzo

ad un discorso centrato sui risultati, sul comportamento, sul “prodotto

finale”.

Ma “l’educativo” vero prescinde da questo perché guarda all’essere e

non al fare.

L’educativo è lo spazio del cambiamento, che permette all’educatore

di non soffermarsi sul mero dato comportamentale, di non rimanere

schiacciato nella sola dimensione del fare, rischio sempre presente,

nell’impellente emergenza che sbilancia richiedendo incessantemente

azioni e interventi: è l’educativo che permette di sapersi fermare e

interporre il riflettere, il sentire, il leggere ciò che accade, al fare

frenetico.

E’ l’elemento educativo che permette all’educatore di centrarsi sulla

relazione quale spazio in cui i soggetti coinvolti riflettono e si scambiano

emozioni, modelli, informazioni inducendo cambiamenti sulle rispettive

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identità, consapevole che strumento della relazione educativa è lui

stesso con i suoi punti di forza e la sua fragilità, lui stesso nella sua

persona, nel suo agire con responsabilità ed intenzionalità educativa.

“Nemo dat quod non habet”265, non si educa se non attraverso la

messa in gioco personale, il coinvolgimento che non significa

improvvisazione, né istinto, né imposizione delle proprie idee, quanto

piuttosto disponibilità a sedersi “sulle braci ardenti di ciò che sente”,

per portare avanti un lavoro su sé perché la relazione coinvolge ma va

controllata. Al riguardo è indispensabile che l’educatore si renda conto e

accetti di essere “implicato”, piegato dentro, la relazione educativa con

proprie emozioni, vissuti storici, fantasie, aspettative, facendo

attenzione ad essere sempre “altro” rispetto al soggetto in educazione,

restando saldo e sereno dinanzi a quanto agisce, anche talvolta verso di

lui, senza farsi agganciare e trascinare dentro tale dinamica, nella

consapevolezza che il seme che si sta gettando non sempre darà i frutti

sperati e che la scelta del ragazzo non è nelle sue mani. L’eccessiva

immedesimazione, il sostituirsi all’altro è infatti un atteggiamento

estremamente pericoloso la cui deriva è l’onnipotenza, ossia il pensare

di poter salvare l’altro, di cambiarlo secondo ciò che si ha in mente,

rischio forte che l’educatore corre e a cui si accompagna la frustrazione

nel constare che non si ha il potere creduto sul ragazzo.

In tale prospettiva, il lavoro in comunità è sempre

contemporaneamente lavoro con l’utente e lavoro con se stesso, con le

dinamiche emotivo-relazionali che l’operatività genera nell’educatore.

265

Massima latina: Nessuno può dare ciò che non ha.

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241

L’educatore, infatti, “sperimenta il fenomeno dell’implicazione come

modo di essere. Si può non averne consapevolezza ma, lo si voglia o no,

si è sempre in una situazione originaria e costitutiva di implicazione”266.

Tali considerazioni spingono a considerare essenziale la formazione

permanente dell’educatore: formazione intesa come tensione interiore

ad un maggior essere, formazione che lo aiuti ad essere consapevole di

quello che “gli fa” la relazione con l’utente. L’educatore è esposto alle

relazioni con ragazzi e colleghi con tutta la sua storia e il suo presente,

sono pertanto necessarie situazioni strutturate di formazione

permanente che consolidino “l’impianto organizzativo della comunità e

sostengano lo sviluppo della professionalità degli operatori” perché “non

servono eroi, anzi sono generalmente dannosi”267.

“Ciò che caratterizza un vero rapporto educativo è la passione e il

desiderio di chi educa, poiché nella passione e nella dedizione che egli

mette nella sua azione educativa sta la radice della persuasività della

sua azione, la possibilità di suscitare il desiderio del più giovane. Il

desiderio, la passione di chi educa coinvolge, contagia, si trasmette

anche a chi è educato”268. E’ su questo terreno che si gioca la credibilità

dell’educatore e dunque la possibilità di ispirare un cambiamento.

E’ compito degli educatori spargere semi di gioia, di curiosità, di bene

e coltivare poi i piccoli frutti che nascono nel tempo vissuto insieme,

favorendo una visione della vita da protagonisti, stimolando la curiosità

dei ragazzi nella direzione di interessi nuovi ed arricchenti. Occorre

266

M. Giordano, Il dialogo inespresso, Micella, Lecce, 1992. 267

C. Kaneklin, A. Orsenigo, Il lavoro di comunità, op. cit., p.155. 268

G Gili, Quando un prof è credibile? http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2011/2/24/SCUOLA-Quando-un-

prof-e-credibile-/152759/

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242

evitare che le esperienze vissute si riducano a qualche foto da guardare

ogni tanto o ad un mero “ti ricordi?”, bisogna fare in modo che diventino

punto di partenza per costruire altro, per un ulteriore passo in avanti,

bisogna tenerle vive, utilizzando gli elementi emersi, ricollegandoli alla

vita quotidiana in una continua ricerca ed esplicitazione di senso.

Progressivamente, durante il loro percorso, deve risultare sempre più

chiaro anche ai ragazzi che, nonostante le apparenze, tutto quanto fatto

vivere converge nel progetto educativo di ciascuno di loro, favorendo il

raggiungimento degli obiettivi in esso contenuti.

Sempre a proposito di semi, compito degli educatori è poi saperli

travasare nel terreno della quotidianità per farli crescere, facendo in

modo che la sua presenza non sia più necessaria. L’educatore deve saper

modificare se stesso nella relazione, deve sapersi nascondere

progressivamente, affiche il minore possa divenire protagonista della

propria crescita, avendo chiaro che il suo intervento ha un tempo

definito e momentaneo. Solo così l’opera dell’educatore si connota come

educazione all’autonomia, alla responsabilità, alla libertà.

Dare credito, guardare con fiducia, credere profondamente in quel

che potrebbe essere, in quello che l'altro può diventare.

Far amare, far muovere verso il bene, il bello, il vero, la gioia,

ricordando sempre che ogni processo educativo è un'apertura di credito

verso il futuro.

Rimboccarsi le maniche con fermezza ma anche sempre col sorriso

per quell’io che chiede urgentemente di essere realizzato.

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243

CONCLUSIONI

La fessura è un punto pregiato di luce e di illuminazione

dove l’occhio e la mente spesso vedono solo una crepa e un punto debole.

Ogni fessura è uno spiraglio che la vita stessa si concede per concederci vita e luce269

Paolo Spoladore

Creare movimento è l'antidoto ad ogni forma di paralisi.

Concludere.

Mai come in quest’occasione mi appare stridente il suono di questa

parola.

Mariano, Simone, Emanuele, Achille…, nell’accingermi a scrivere le

ultime pagine di questo lavoro ho davanti a me i loro occhi, il loro passo

incerto, i loro desideri.

Ripercorro lentamente nella mia mente il percorso di ognuno di loro,

le fatiche, gli imprevisti, le cadute, ma soprattutto riassaporo la gioia

del percorrere insieme quel piccolo tratto di strada in cui i nostri

cammini si sono incrociati, lo slancio del gettarvi il cuore.

Mi appare chiaro che “tirare le somme” non è cosa facile.

Non lo è mai quando si tratta di percorsi, di relazioni, di pratiche

educative, di “crepe nel muro”, di passi fatti.

Non lo è mai quando si lavora sul disagio, sulla marginalità.

269 P. Spoladore, Felice Via, Usiogope, Noventa Padovana, 2009, p.7.

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244

E allora primo punto fermo di questa riflessione conclusiva è proprio

assumere l’esistenza di una zona non misurabile di incertezza quale

elemento costitutivo dell’agire educativo che si srotola nella tessitura

del quotidiano: l’azione educativa è caratterizzata dall’imponderabile e

non può che manifestarsi attraverso un movimento di ricerca continua

animato da ipotesi, verifiche, domande di senso, tentativi ed errori.

Includere questo fenomeno inevitabile quando si ha a che fare con la

dinamica della vita stessa, significa essere capaci di “fare un salto in

avanti” sottraendosi alla spinta obbligante della politica del controllo e

all’illusione di poter assoggettare il processo educativo attraverso

strumenti e modelli da cui ci attendiamo affidabilità e valutazione delle

nostre azioni secondo l’ottica dell’errore e del prodotto finale.

Assumere tale prospettiva quale sfondo dell’agire educativo vuol dire

altresì liberarsi dall’ansia del risultato e con umiltà e semplicità

centrarsi su sé e sulla propria capacità di fare la propria parte, nel

proprio ruolo, al meglio possibile.

Questo a mio avviso il motore da cui prende avvio ogni altro spunto

di riflessione più “tecnico”, perché profondamente agganciato ad una

spinta interiore che porta il “soggetto educante”, indipendentemente

dal ruolo che ricopre, ad avere una visione di insieme e una cura che si

declinano in un accompagnamento robusto e competente.

Partendo da tale considerazione e provando a sintetizzare gli

elementi salienti concernenti l’applicazione del beneficio della messa

alla prova da svolgersi presso una struttura residenziale emerge in primo

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245

luogo che il valore aggiunto di una messa alla prova in comunità è

innanzitutto la comunità stessa.

Può sembrare banale e ridondante affermarlo ma credo fortemente

che il primo aspetto da ribadire sia proprio il richiamare l’attenzione sul

ruolo della comunità e dunque sulle motivazioni che inducono gli

operatori a propendere per tale soluzione.

Come evidenziato nelle pagine precedenti il beneficio giuridico

dell’art. 28 dopo un diffidente avvio è entrato a pieno titolo nella prassi

operativa degli interventi con i minorenni interessati da procedimenti

penali. Nello svolgersi dell’esperienza nell’ultimo decennio si è fatta poi

largo l’ulteriore possibilità, seppur non esplicitamente prevista dal

legislatore, di prevedere che la prova possa essere svolta in comunità:

un’“innovazione nell’innovazione” dunque, sempre più sperimentata ci

dicono i dati ufficiali, nata “dal basso”, cioè dalla concreta esperienza

dei progetti di prova proprio con l’intento di poter andare incontro alle

molteplici esigenze che la variegata realtà dell’utenza penale minorile

pone innanzi in maniera sempre più puntuale ed efficace.

Al riguardo dal lavoro svolto emerge chiaramente che la comunità

rappresenta una valida risorsa socio-educativa in tutti quei casi ove la

situazione complessiva del minore risulta essere caratterizzata da una

particolare fragilità personale e/o del suo contesto di vita: da qui

discende l’opportunità di scegliere una strategia che metta il ragazzo in

condizione di poter affrontare “la prova” con il sostegno necessario. In

tal senso si può dire che la comunità viene a configurarsi come una sorta

di “rete” che ha la funzione di supportare il ragazzo, fornendogli quegli

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246

strumenti di cui sia lui che il suo contesto di appartenenza appaiono

sprovvisti, atti ad affrontare con successo l’impegno della “prova”,

arginandone eventuali deviazioni dal percorso prefissato e sostenendolo

quando in procinto di cadere. In relazione alla concessione dell’art. 28,

infatti, la scelta di non far tornare immediatamente il ragazzo nel

territorio di appartenenza è legata ad una valutazione ove da una parte

emerga una chiara inidoneità della famiglia d’origine che rende

inopportuno il rientro del minore, ma dall’altra si riscontri

congiuntamente in essa la presenza di risorse su cui lavorare in assenza

delle quali invece non è possibile attivare alcun progetto.

La messa alla prova in comunità, pertanto, persegue il duplice

obiettivo di porre in essere un intervento atto ad attivare le risorse

esistenti sia con e per il ragazzo che con e per la sua famiglia.

Punto centrale del collocamento in comunità è l’affidamento in vista

di un progetto, elemento che fa della comunità “una misura in cui

l’aspetto del sostegno risulta prevalente rispetto a quello di controllo, in

cui il ragazzo è chiamato ad un elevato grado di partecipazione

consapevole, in cui non si tratta di ‘non fare’, ma al contrario di

impegnarsi a ‘fare’ nel rispetto del progetto”270.

L’aspetto di coinvolgimento e responsabilità invita i ragazzi a uscire

da una situazione di pigrizia e di mancanza di progetto per la propria

vita ed è proprio questo lo scopo della messa alla prova: superare il

rischio di passività e di non intenzionalità del ragazzo coinvolgendolo nel

percorso di recupero. A tal fine risultano indispensabili i collegamenti

270

M. Lion, M.T. Spagnoletti, Collocamento in comunità, in Esperienze di Giustizia Minorile 1-2, 1995, p. 137.

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della comunità con l’esterno nell’ottica di un progetto che fa perno sulla

responsabilizzazione attiva dei giovani ospiti. Per evitare che i ragazzi

restino “chiusi” in comunità occorre che ci siano legami con centri,

risorse, aggregazioni, iniziative che si possano frequentare. In caso

contrario se non viene vissuta pienamente la dimensione “dell’esterno”

si rischia che il ragazzo rimanga chiuso in una comunità-carcere e lo

stesso concetto di responsabilità risulterebbe limitato all’adesione alle

regole interne della struttura.

L’elemento delle risorse è senz’altro un valore nella costruzione dei

percorsi tuttavia dall’esperienza si evince che su tale aspetto il tessuto

sociale risulta spesso deficitario con la conseguenza che nella prassi è di

fatto estremamente faticoso reperirle.

Le difficoltà in tal senso sono molteplici: i Servizi territoriali, perno

della rete sul territorio, in alcune realtà sono inesistenti e le comunità

faticano a coinvolgerli sia durante la permanenza in struttura che nel

progettarne il rientro sul territorio; l’attuale organizzazione scolastica

non semplifica l’inserimento in percorsi di studio alternativi più fruibili e

utili per ragazzi in difficoltà; l’inserimento lavorativo risente sia della

più generale crisi economica nazionale che delle normative in materia

che, seppur con lo scopo di tutelare il minore, finiscono in taluni casi per

scoraggiare il datore di lavoro disponibile nel prendere a lavorare con sé

il ragazzo.

E’ da evidenziare tuttavia che numerosi sono i progetti messi in

campo finalizzati allo svolgimento di attività specifiche per brevi

periodi. Tale potenziale tuttavia rischia spesso di andare sprecato

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perché molte attività restano “chiuse” in se stesse dando l’impressione

che troppo spesso le diverse parti del sistema lavorino scollegate tra

loro. Bisognerebbe fare attenzione a non abusare della progettazione per

non correre il rischio che in questo “fare” incessante si perda di vista il

ragazzo. Alcune attività infatti, anche molto belle, rischiano di essere

figlie di una visione adultocentrica che, seppur con le migliori intenzioni,

fatica poi nella pratica ad agganciare realmente il ragazzo.

Sarebbe auspicabile che Regione Campania, Assessorato alle

Politiche Sociali e Giustizia Minorile concertassero strategie condivise

partendo dai tanti spunti degli “addetti ai lavori” che continuamente

emergono nei vari convegni, seminari e tavole rotonde. Ciò da una parte

per rendere più organico e intenzionale quello che già c’è, dall’altra per

progettare, per co-costruire quello che manca mettendo realmente il

ragazzo al centro nella consapevolezza che la co-costruzione, l’apertura,

il lavorare in sinergia comportano certamente uno sforzo ed un lavoro in

più per chi opera ma rappresentano il vero valore aggiunto

dell’intervento con una ricaduta positiva in termini di efficacia ed

efficienza del processo.

Un ultimo inciso relativamente alle risorse merita l'aspetto

economico. E’ da evidenziare infatti che gli annosi ritardi e la mancanza

di pagamenti incidono non poco sulla vita della comunità, rendendo più

difficile il mantenere alta la qualità del servizio offerto: l’avere a

disposizione meno denaro si traduce infatti nel concreto in un minor

numero di operatori, in personale meno competente, in un alto turn

over, in minori spese a favore dei ragazzi, in un’offerta di attività più

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limitata ove viene meno in primis tutto ciò che è “extra” e che permette

di personalizzare realmente il progetto.

Al di là delle criticità esposte è tuttavia possibile affermare che la

messa alla prova in comunità rappresenti un’opportunità utile ad

ampliare e completare il ventaglio di possibili strategie d’intervento con

i minori dell’area penale nonché consentirne una maggiore incisività

poiché l’azione educativa viene portata avanti agendo congiuntamente

sia sul piano individuale, con il PEI, che sulla dimensione di gruppo,

attraverso il progetto di vita comunitario. Tale elemento risulta essere

particolarmente significativo in quanto considerare l'adolescente

dell'area penale esclusivamente nella sua dimensione di azione

individuale può essere reputato in realtà una sorta di "errore semantico":

l'adolescente infatti generalmente si manifesta ed agisce in gruppo, i

reati sono quasi sempre commessi in una dimensione di gruppo o

comunque in collegamento con altri. Pertanto se si vuole realmente

smuovere qualcosa bisogna certamente intervenire con progetti

individualizzati ma anche congiuntamente con progetti di gruppo perché

è nel gruppo che il ragazzo agisce maggiormente la devianza, i primi da

soli rischiano di agire su un solo livello. In tal senso la preziosità

dell’intervento comunitario è precipuamente anche quella di agire su

entrambe le dimensioni.

Sempre per quel che concerne l’intervento comunitario appare

inoltre indispensabile sottolineare la necessità del non perdere mai di

vista l’obiettivo della responsabilizzazione e dell'autonomia del minore:

la comunità infatti potrebbe incorrere nel rischio di fungere da freno nel

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percorso del ragazzo, in quanto questi nel contesto comunitario è

protetto, sostenuto e guidato. Tale aspetto è senz’altro necessario e

valido nelle prime fasi della prova ma se si vuole realmente raggiungere

una maggiore e vera responsabilizzazione bisogna puntare a creare

quelle condizioni affinché il percorso di prova iniziato in comunità possa

poi concludersi a casa perché è sul territorio che il ragazzo dovrà tornare

e le condizioni non si creano da un giorno all’altro ma vanno costruite, in

sinergia con i Servizi, dando possibilmente il tempo al ragazzo di

provarsi anche in questo senso.

Strettamente connesso a tale aspetto, un altro elemento che non va

sottovalutato è il fattore tempo: bisogna porre grande attenzione nella

sua gestione tenendo presente che il ragazzo, soprattutto in un percorso

lungo, rischia di maturare una stanchezza che si manifesta con una

progressiva perdita di stimoli e che va prevenuta, arginata e monitorata

attraverso una costante ed efficace rimodulazione in itinere del

progetto.

Non va dimenticato infine che gran parte della prova del ragazzo

passa attraverso le persone che incontra sul suo cammino: la qualità

dell’intervento educativo della comunità dipende sostanzialmente dagli

educatori. E’ nelle loro mani la capacità di scegliere se creare spazi di

crescita altri o riempire il proprio “turno” con attività anche ben

strutturate ma non calate sull’unicità di quel particolare quotidiano, col

rischio che non siano accattivanti per il ragazzo.

E’ dunque sulla qualità dell’educatore che si basa la qualità

dell’intervento educativo: sulla sua capacità di essere strumento della

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relazione educativa, di abitarla, di giocarsi in essa con tutto ciò che è,

con tutta la sua capacità di saper essere in quel tempo dato ciò di cui

quel particolare ragazzo ha bisogno, con tutta la sua capacità di

guardare l’insieme e far vivere un tempo significativo percependo lo

stato d’animo dei ragazzi e i loro bisogni. Solo così l’esperienza della

comunità risulterà essere nuova e significativa per i ragazzi e solo ciò

che è innovativo, accattivante, bello è in grado di penetrare più a fondo

smuovendo da quella passività che blocca ogni movimento evolutivo.

Lavorare sul cambiamento per un educatore vuol dire agganciarsi a

qualsiasi motivazione il ragazzo offra, lavorando a partire da questa sulla

sua capacità di orientare la vita e le sue scelte e spingendolo ad uscire

da quell’immobilità che troppo spesso fa guardare senza vedere, fa

camminare senza muoversi, fa percorrere strade obbligate che

ripropongono incessantemente la mortale logica del “così è” e “così sarà

sempre”, la logica dell'addestramento che porta alla paralisi.

Creare movimento è l'antidoto!

Creare movimento è innanzitutto avere uno sguardo vigile e proporre

strade alternative, strade che promuovano un cambiamento

significativo, intenzionale, autentico e reale, ispirando i passi dell'uomo

attraverso la bellezza.

E' la bellezza che muove i passi dell'uomo facendolo entrare in

risonanza con le parti migliori di se stesso, stimolandolo a maturare un

pensiero ed un agire consapevole intimamente legato all'etica.

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E' la bellezza che induce a lasciarsi guidare nei propri comportamenti

da valori pienamente e propriamente umani.

La bruttezza, ossia la disuguaglianza, la mancanza di diritti,

l'illegalità, l'egoismo, è incompatibile con la dignità della persona

affermata dalla nostra Costituzione.

La bellezza va coltivata, scoperta laddove celata, riconosciuta,

ispirata, condivisa, agita costruendo attorno a noi legami sociali, diritti,

opportunità, praticando l'attenzione per gli altri a partire dai più deboli

e dai più fragili, facendoci artefici di giustizia sociale.

E' questo l'elemento da cui partire per favorire il movimento: la

scoperta della bellezza come tensione interiore ad essere migliori e a

creare un mondo migliore o almeno a non smettere di desiderarlo mai!

Il mondo ha bisogno di gente che semini gioia e bene il più possibile.

Il mondo ha bisogno di gente che ami ciò che fa.

Quella “gente” è ciascuno di noi!

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D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448 - Approvazione delle disposizioni sul

processo penale a carico di imputati minorenni. Legge 25 luglio 1956, n. 888 - Modificazioni al Regio decreto legge 20

luglio 1934, n.1404.

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Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale.

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al titolo VIII del libro primo del codice civile.

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cittadinanza sociale. Attuazione della legge 8 novembre 2000, n. 328.

Legge 28 aprile 2014, n. 67 - Deleghe al Governo in materia di pene

detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio.

Raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 20 del 1987- Le reazioni

sociali alla delinquenza minorile.

R.D.L. 20 Luglio 1934, n. 1404 - Istituzione e funzionamento del

tribunale per i minorenni, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 27 maggio 1935, n. 835. Regolamento Regionale 7 aprile 2014, n.4 - Attuazione della legge

regionale 23 ottobre 2007, n.11 - Legge per la dignità e la cittadinanza

sociale. Attuazione della legge 8 novembre 2000, n. 328. Regole Minime sull’amministrazione della giustizia dei minori (c.d. Regole di Pechino) approvate dal VI Congresso Nazioni Unite il 29 novembre 1985, New York.

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Ringraziare è il Sorriso della Vita….. Essere grati, sempre, dinanzi ad ogni evento permette di cogliere la

preziosità di ciò che è senza mai dare nulla per scontato. Essere grati favorisce l’accettazione, apre il cuore e lo spirito al

canto, allarga alla gioia.

Il mio Grazie denso di Gioia e di Sorrisi a chi incrociando il mio cammino mi ha donato una traccia di sé rendendo la mia strada più ricca, leggera, piena, gioiosa, densa,

sorridente, intensa, luminosa…

Saretta, Diego, Monja, Pippo, Carmela, Becio, Assunta, Marco, Ilaria, Felice, Caterina, Antonio, Isabella, Paolo, Martina,

Lorenzo, Anna, Mariano, Rosario, Aurora, Gigi, Valentina, Sasi, Alessio, Giulia, Gianpaolo, Enza, Darietto, Chiara, Michele, Marcella, Fulvio, Manuela, Marcello, Alessandra, Achille,

Alfonso, Gabriella, Emanuele, Francesca, Luca, Silvia, Peppe, Valerio, Raffaele, Maria, Massimo, Teresa, Ciro, Floriana,

Simone, Lucia, Fabio, Annamaria, Claudio, Elena, Stefano, Susy, Walter, Giuliana, Pasquale, Filomena, Zef, Rita, Domenico, Antonella, Vincenzo, Fulvia, Gennaro, Maurizio, Stefania,

Vittorio, Giovanni, Tiziana, DonPa e tutta la famiglia Usiogope che sempre mi fa sentire e tornare a casa ricordandomi che

“chi Ama non Teme” e che

“dalla Bellezza dei nostri Desideri dipende la Bellezza della nostra Vita”