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HOMO FABER FORTUNAE SUAE Mi hai rotto le acque Bruno Liegibastonliegi Anno II_numero 09 Dicembre 2011

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Mi hai rotto le acque

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HOMO FABER FORTUNAE SUAEMi hai rotto le acque

Bruno Liegibastonliegi

Anno II_numero 09Dicembre 2011

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Direttore responsabileAmelia Beltramini

EditoreAps FaberVia Cimarosa, 26 - 20144 Milano

RedazioneLorenzo Aprigliano,Silvia Aprigliano,Alessandro Baggia,Bertone Biscaretti,Nicolò Cambiaso,Francesca Carta,Maddalena Cirla,Chiara Francavilla,Cecilia Foschi,Andrea Gavazzi,Giovanni Liva,Matteo de Mojana, Filippo Montalbetti,Eva Moriconi,Debora Peters,Alessandro Sarcinelli,Marcella Vezzoli,Orlando Vuono,Chiara Zancan

CollaboratoriGiacomo Cella,Matteo Legnani,Taddeo Mecozzi,Orlando Vuono,Francesca Ziggiotti

Corispondenti dall’esteroAnna Crosta,Giulio di Rosa,Chiara Francavilla,Erica Petrillo,Matilde Sponzilli

Progetto_graficoLorenzo Aprigliano[[email protected]]http://cargocollective.com/papalawrence

FotografiAnna Crosta,Paola Meloni

DisegnatoriStefano Santamato

CopertinaStefano Santamato

Questo giornale, con la sua massa di parole, è stato prodotto in qual-che decina d’ore da un gruppo di persone non infallibili, che la-vorano con pochi mezzi in una minuscola redazione e cercano di scoprire cosa è successo nel mon-do da persone che a volte sono riluttanti a parlare, altre volte op-pongono un deciso ostruzionismo.Tuttavia sarete sorpresi di scoprire che gli articoli qui presenti non sono frutto di compromessi coi proprietari e gli inserzionisti, in quanto stranamente né gli uni né gli altri esistono.[di David Randall da “Il giornalista quasi perfetto”]

[email protected]@fabergiornale.it

www.fabergiornale.it

RegistrazioneRegistrazione presso il Tribunale di Milano n. 576 del 5/11/2010

Anno IINumero 9

Centro StampaLoretoprint, la tipografia digitaleVia Andrea Costa, 7 - 20131 MilanoTel. 02 2870026 (r.a.)[[email protected]]

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Forse qualcuno di voi ci sta distrattamente camminando sopra, proprio mentre comincia a sfogliare queste pagine. Magari non ci pensa o non lo sa, ma sotto di lui c’è dell’acqua. Tanta acqua.In un modo o nell’altro, è sotto ogni casa, ogni strada ed ogni edificio della città. Il sottosuolo di Milano è una ragnatela di percorsi liquidi attraverso cui quello che oggi chiamiamo “l’oro blu” scorre e dilaga, perlopiù incontrollato.Da settimane vediamo volontari spalare nel fango in Liguria, Toscana, Piemonte, Calabria ma ci sentiamo al sicuro. La Lombardia è una terra umida, certo, ma piat-ta: cosa mai ci potrà franare addosso?Non sempre il pericolo viene da sopra, come ci racconta l’articolo di copertina di questo mese. Da dieci anni a questa parte i pozzi cadono in disuso, le piogge aumentano, le piene del Seveso, del Lambro e dell’Olona (che scorrono in buona parte sotto al territorio cittadino) sono sempre più frequenti. La falda cresce, ra-pidamente, e cambia le condizioni del sottosuolo: allaga le stazioni della metrò, le cantine e i box. Mina la solidità strutturale degli edifici, trasformando interi quar-tieri in zone a rischio.Siamo dei privilegiati a poter disporre di così tanta e ottima acqua - eppure, si sa, l’uomo è maestro nel trasformare le risorse di cui dispone in guai. Per ora può essere stata una questione di fortuna, ma dovrà diventare responsabilità. Uomo avvisato...

Nicolò Cambiaso

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Faber_indice

faber_Milano /5FALDA ACQUIFERA E COR-SI D'ACQUA NEL MILANESEdi Alessandro Sarcinelli faber_Dal mondo/22

VOCI DA CHI SI É FATTO ASCOLTAREdi Giovanni Liva

faber_Scienze/25SCIENCE FOR PEACE: LA TERZA CONFERENZA MONDIALEdi Eva Moriconi

faber_cultura/26DOSTOEVSKIJ COME SHAKESPEARE. TEATRO CLASSICO-CONTEMPORANEOdi Francesca Carta, Matteo de Mojanae Stefano Santamato

faber_Cultura/28RECENSIONE DEL LIBRO "CELLA 211" DI FRANCISCO PEREZ GANDULdi Marcella Vezzoli

faber_l’ultima parola/29PROSPETTIVAa cura di Silvia Aprigliano

faber_Milano/9IL COMUNE INCONTRA I CITTADINIdi Chiara Zancan

faber_Milano/12ANCA MI SUN DE MILANdi Debora Peters

faber_Milano/14MILANO CITTÁ CONPOCHI (POCHISSIMI)OSTELLI, MA QUALCOSA SI MUOVEdi Bertone Biscaretti

faber_galleria/17COMUNITÁ FILIPPINA A MILANOfotoreportage di Paola Meloni

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FALDA ACQUIFERA E CORSI D’ACQUA NEL MILANESE

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“A seguito degli impegni assunti si è quindi pro-ceduto ad effettuare in tempi assolutamente ri-stretti la presente prima proposta nella speranza, nonostante i tempi ridottissimi, di poter giungere ad un risultato concreto”. Cominciava così un documento sull’innalza-mento della falda milanese redatto insieme da Regione Lombardia, Provincia e Comune di Mi-lano, Atm e molti altri enti. Era il 1997, il proble-ma sembrava così grave che venne aperta un’u-nità di crisi e furono costruiti centinaia di pozzi per pompare l’acqua e abbassare il livello della falda. Agli inizi degli anni 2000 l’allarme rientrò, i pozzi entrarono in disuso, invecchiarono senza nessuna manutenzione e non si sentì più parlare di falda.A distanza di anni i risultati concreti di cui parla-va il documento sembrano non essere mai stati raggiunti. I dati della provincia sono eloquenti: se nel 2000 i pozzi pubblici in disuso erano 85, oggi sono 248. E la falda si sta innalzando in modo preoccupante: solo negli ultimi 3 anni a seconda delle zone è salita di 3-8 metri. Alla

diminuzione del pompaggio dovuto allo sman-tellamento di grandi aree industriali come Fiat e Falck si aggiunge il forte aumento delle preci-pitazioni sul territorio; anche le zone interessate rimangono le stesse: i problemi maggiori sono a Milano sud nei dintorni dell’ospedale San Pa-olo e tra Piola e Lambrate nella zona di Città-Studi. I punti più sensibili sono quelli ribassati: cantine, locali sotterranei, depositi di negozi e stazioni metropolitane; diversi parcheggi sotter-ranei da 6-7 piani risultano inutilizzabili perché allagati. È evidente che le soluzioni trovate una decina di anni fa sono state insufficienti. Gio-vanni Porto, consigliere dell’Ordine dei geologi della Lombardia ne è convinto: «Per risolvere il problema bisognerebbe uscire dall’emergenza e partire con un opera complessiva». Secondo Roberto Serra, responsabile del servizio idro-grafico di Arpa Lombardia, l’Agenzia regionale protezione ambientale, è fondamentale un buon lavoro di previsione. Sono stati elaborati modelli molto complessi che, in base alle precipitazioni e il pompaggio di acqua nel territorio, riescono

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INCHIESTA TRA PROGETTI MAI PARTITI,

FIUMI INQUINATI E UNA CLASSE POLITICA

POCO CORAGGIOSALA FALDA TORNA

A SALIREarticolo e foto di Alessandro Sarcinelli

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a prevedere l’andamento della falda, ma sono stati usati poco e male. Un esempio di cattiva progettazione e scarsa conoscenza del territorio riguarda la linea gialla della metropolitana: fra la progettazione e la realizzazione la situazione del sottosuolo è cambiata radicalmente senza che nessuno ne prendesse atto. I lavori, effettuati nell’acqua, hanno cambiato costi e tempi di co-struzione facendoli lievitare in modo esorbitante.La questione più importante rimane comunque come utilizzare l’acqua in eccesso. Le idee non mancano: in primo luogo, in molte zone della falda milanese l’acqua è di ottima qualità e quindi potrebbe essere utilizzata per uso idro-potabile; ciò aiuterebbe anche a invertire la tendenza che vede l’Italia primo consumatore di acqua mine-rale in bottiglia. Inoltre potrebbe essere usata per uso irriguo sia all’interno della città, nei parchi, sia nell’hinterland, nei campi. Infine un utilizzo geotermico rappresenterebbe un’ulteriore solu-zione. Nessuno di questi progetti però può risul-tare efficace senza un’attenta pianificazione alle spalle: sarebbero necessari studi approfonditi per

localizzare l’acqua sul territorio e conoscerne le qualità.Questi compiti spetterebbero alle amministra-zioni territoriali, Regione, Provincia e Comune attraverso il braccio operativo della metropolita-na milanese (MM) alla quale è affidata la gestio-ne di centinaia di pozzi. Ma Porto non sembra ottimista:«In un sistema che ha bisogno del con-senso ogni 5 minuti è difficile un piano generale di investimenti di questo tipo». Il lavoro è molto costoso e i benefici non sono apprezzabili a breve termine, ma nell’arco di 10 anni; è difficile che una giunta comunale, indipendentemente dal colore, decida di usare una parte del bilancio per il territorio. La dimostrazione è l’atteggiamento della giunta Moratti tra il 2006 e il 2010. L’ex sin-daco aveva chiesto alla sua amministrazione un piano di governance delle acque, uno dei punti strategici del programma. Erano arrivati centina-ia di progetti, ma solo alcuni sono partiti e senza una strategia unitaria. I geologi lombardi chiedo-no quindi alla nuova giunta di fare delle scelte a lungo termine perché non scegliere equivale a

non intervenire.

LE ACQUE SUPERFICIALISe la situazione della falda non è rassicurante anche i corsi d’acqua nel territorio milanese non godono di buona salute: le preoccupazioni mag-giori sono date dall’alto rischio di esondazioni e dall’elevato livello di inquinamento. Le eson-dazioni sono dovute al carattere torrentizio dei principali corsi d’acqua milanesi. Inoltre le scelte urbanistiche di molti comuni hanno peggiorato la situazione: il Seveso, per esempio, negli anni è stato cementificato in larghissimi tratti e quindi nei periodi di forti precipitazioni ha poco spazio per espandersi; per questo a Milano arriva una quantità d’acqua non sopportabile dai canali sot-terranei cittadini e i continui allagamenti sono la diretta conseguenza di questo fenomeno. Insie-me al Seveso altri corsi d’acqua esondano con regolarità: in particolare l’Olona crea disagi nella zona di Rho e Pero mentre il Lambro a Monza e dintorni. La principale opera a protezione delle inonda-

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na amministrazione si è mai presa l’impegno di rinnovarle. Le inevitabili perdite vanno perciò a inquinare i fiumi oltre che la falda acquifera. L’accumularsi di questi eventi ha sovraccaricato il lavoro dei depuratori, anch’essi spesso troppo vecchi per garantire un’efficienza adeguata. In cantiere c’è la modernizzazione dei depuratori esistenti e la creazione di nuovi impianti.I pareri degli esperti sull’efficacia di tutti que-sti interventi sono diversi. Se Serra si dice ab-bastanza soddisfatto di come viene gestita la situazione: «Il sistema funziona e infatti riesce a risolvere buona parte dei problemi. Gli allaga-menti a Milano sono dovuti alla limitata capacità di portare acqua all’interno della città. Ma que-sto è un limite fisico difficilmente superabile». Porto punta il dito contro le amministrazioni locali:«Purtroppo le leggi urbanistiche hanno lasciato ai comuni la libertà di fare quello che vo-levano e hanno cementificato ognuno pensando ai propri interessi. Ma sono proprio queste scelte a creare i problemi di sistema».

zioni è il canale scolmatore, costruito nel 1954 e ampliato nel 1980 per alleggerire le piene di Seveso e Olona. Tuttavia non basta a risolvere il problema; negli ultimi anni sono state progettate vasche di esondazione per permettere al fiume di straripare in modo controllato. La pessima qualità invece è dovuta principalmen-te a un fattore antropico: metà della popolazione lombarda è concentrata sul 10% del territorio re-gionale. Nicoletta Dotti, responsabile dell’Unità operativa acque dell’Arpa Lombardia sottolinea l’impatto degli insediamenti umani sull’ambien-te con una battuta:«Per migliorare la qualità dei fiumi bisognerebbe deportare un milione di abitanti». Alla densità del territorio si aggiunge l’abusivismo: durante le piene l’inquinamento aumenta per il materiale grossolano come lava-trici e materassi, e lo svuotamento del contenuto tossico delle cisterne. A peggiorare la situazione contribuisce il pessimo stato del sistema fogna-rio: le maggior parte delle tubature milanesi sono stato costruite negli anni ’50 e da allora nessu-

Su una questione però tutti sembrano d’accordo: appare impossibile raggiungere gli obbiettivi sul-la qualità dei fiumi, in particolare il Lambro, det-tati dall’Unione Europea con scadenza nel 2016.

IL FUTURODiverse sfide si presentano per Milano e provin-cia. A breve termine è necessario evitare che i cor-si d’acqua possano rovinare e o compromettere l’Expo del 2015: l’area scelta per l’evento è situata nella zona di Rho-Pero proprio dove negli ultimi anni l’Olona ha creato diversi problemi. Ma ben più importante è la sfida a lungo termine. Per evi-tare le catastrofi ambientali è necessario una pia-nificazione. Il progetto, qualunque esso sia, dovrà essere pluriennale e ad ampio raggio. La posta in gioco è alta, Porto ne è convinto: «Rischiamo di lasciare alle prossime generazioni due debiti: uno è il debito pubblico, l’altro è quello ambientale». La strada da percorrere è lunga.

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UN INCONTRO PIÙ GENERALE PER ASCOLTARE DOMANDE E PROPOSTE DEI CITTADINI ...

L’11 Ottobre il consigliere comunale Pd Lam-berto Bertolè ha fatto la prima prova di questo genere di incontri «per l’esigenza di dare un resoconto ai cittadini». Convinto dell’utilità di queste occasioni ha deciso di promuoverne di-verse durante l’anno (la prossima a gennaio) per-ché ha visto e ascoltato l’impatto molto positivo che ha avuto sugli ospiti della serata. L’incontro è stato suddiviso in due parti complementari: nella prima un racconto diretto, non mediato, sui pri-mi mesi dall’elezione della nuova giunta: Bertolè ha esposto con grande chiarezza questioni e dati riguardanti temi come Expo, inquinamento e po-litiche abitative, raccontando le misure che sono state prese e quelle che il Comune, e lui personal-mente, vogliono attuare. Una vivace discussio-ne è nata dal problema del bilancio: il pubblico desiderava saperne di più e chiedeva maggiore

trasparenza su entrate e uscite, tanto che si è con-venuto di trovare strumenti per renderlo accessi-bile e consultabile da tutti.Nella seconda parte della serata si è raggiunto il momento di maggior partecipazione e più inno-vativo: Bertolè ha aperto un momento di con-fronto nel quale i cittadini hanno chiesto spie-gazioni su alcune questioni poco chiare, quali la Commissione Anti-mafia o il decentramento. Dal pubblico è nata anche l’idea dell’ “assessora-to alle piccole cose”, per segnalare problemi spe-cifici come un pezzo di strada dissestata. Ciclob-by si è proposta di aiutare (anche fisicamente) il Comune a prendere le misure sulla ciclabilità, essendoci fra gli aderenti molti esperte nel setto-re e proponendo un lavoro di sintesi. Altri pro-fessionisti hanno fatto proposte analoghe in vari settori. Nella parte finale dell’incontro Bertolè ha rispo-sto a diverse domande. A sorpresa è arrivato il Sindaco, che ha partecipato all’incontro rispon-dendo personalmente agli interventi del pubblico.

A questo primo incontro hanno assistito una novantina di persone e gli interventi, dati alla mano,. sono stati fatti principalmente da esper-ti. I pochi giovani presenti hanno confessato di sentirsi a disagio nel porre domande ma di aver ugualmente apprezzato la concretezza e l’utilità di questa nuova forma di democrazia partecipa-tiva e soprattutto il forte interesse mostrato dalla gente per la città, anche dopo la campagna elet-torale. Bertolè ha espresso il desiderio di pubbli-cizzare maggiormente simili iniziative, tentando di coinvolgere di più i giovani. A commento della serate ha infatti sottolineato l’importanza di un confronto diretto «fuori dall’acquario»: questo tipo di incontri danno «la spinta per uscire dal-la routine dei doveri del consiglio ed essere più propositivo sulle cose da fare» e rappresentano «uno sbucare all’aperto come conferma del mio compito, un input in più per il mio lavoro».

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IL COMUNE INCONTRA I CITTADINIDue esempi differenti di modalità di comunicazionea cura di Chiara Zancan

STAMPA A PARTE, LA COMUNICAZIONE TRA CONSIGLIERE COMUNALE E CITTADINI PUÒ AVVENIRE SOTTO FORME MOLTEPLI-CI E AVERE SCOPI DIVERSI: ALCUNE VOLTE SERVE A SPIEGARE MEGLIO CIÒ CHE AVVIENE IN COMUNE O LE NUOVE MISURE ADOTTATE, ALTRE VOLTE È UN VERO E PROPRIO AGGIORNAMENTO DI CIÒ CHE VIENE FATTO O SI HA INTENZIONE DI FARE. MAIL, MESSAGGI SU FACEBOOK, INCONTRI PUBBLICI: IL CONSIGLIERE HA LO SCOPO DI AIUTARE I CITTADINI A SENTIRSI PIÙ PARTECIPI DELLA MACCHINA COMUNALE E DI CIÒ CHE AVVIENE A MILANO, E ANCOR PIÙ DI RICEVERE UN RISCONTRO ATTIVO AL SUO OPERATO.

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… E UNO PIÙ SPECIFICO, PER APPROFONDIRE MEGLIO UN DETERMINATO ARGOMENTO

Diverso l’incontro proposto da Elisabetta Stra-da. neo-eletta nella Lista Milano civica x Pisapia, che la sera del 27 Ottobre, quando le polemiche sull’Ecopass hanno raggiunto l’acme, ha incon-trato i cittadini per approfondire e spiegare me-glio la questione. Strada sottolinea che «il con-fronto non è nato e finito lì, ma prima e dopo ci sono state molte mail: l’idea di avere un luogo per dibattere, ha stimolato le persone a esprime-re la propria opinione». La consigliera voleva «approfondire argomenti che di solito i cittadini leggono sommariamente sui giornali, mettendo in evidenza non solo le misure prese ma le pro-blematiche che stanno dietro ad ogni scelta» Ai fini del dibattito Strada ha anche creato un sondaggio su internet per raccogliere gli apprez-zamenti alle proposte della Giunta onde indivi-duare la più apprezzata. Ma anche eventuali altre modalità di intervento come le targhe alterne, la chiusura del centro o sistemi di incentivazione

bonus-malus. Anche questo metodo, (votazioni on line tramite facebook o e-mail) rappresenta un modo per verificare direttamente il parere dei cittadini. La serata si è svolta come una conferenza: era-no presenti cinque esperti in diversi ambiti che esprimevano il loro parere sull’argomento, ognu-no dal proprio punto di vista.Prima dei vari interventi, una presentazione ha riassunto gli effetti del vecchio Ecopass con-frontandoli con le nuove misure proposte dalla Giunta; erano ancora da discutere le condizioni di residenti, commercianti e liberi professionisti con turni d’emergenza. Più volte si è ribadita la promessa di trasparenza sulle entrate della nuova tassa: il guadagno è stimato attorno ai 31-35 mi-lioni di euro e dovrà essere investito per miglio-rare la mobilità sostenibile della città. Riassume-re e schematizzare le vecchie misure e le nuove decisioni è stato utile e interessante. Strada ha concluso la sua presentazione sostenendo che molti hanno già cambiato tante abitudine, come fumare nei locali pubblici o differenziare i rifiu-ti; «Non di sole auto vive l’uomo» ha detto la

consigliera.La maggior parte della conferenza è stata dedi-cata alle opinioni dei professionisti, che si sono dimostrati tutti favorevoli al nuovo Ecopass sot-tolineando i diversi aspetti del nuovo intervento. Ognuno è partito dal proprio preciso ambito di competenza (trasporti, medicina, ambiente, economia..) ma gli interventi avevano in comune il taglio dettagliato e molto tecnico. Poi la parola è passata al pubblico. Alcune do-mande sono state generali, altre hanno messo l’accento su situazioni specifiche. La consigliera si è detta disponibile ad ascoltare con attenzione tutte le necessità,. ma di prendere in carico solo quelle volte bene comune e non quelle dettate da egoismi.

CONCLUSIONEQuesti sono solo due esempi dello svilupparsi di nuove modalità di confronto tra la città e il Co-mune. Diverse nella forma ma non nel contenu-to: al primo posto c’è la partecipazione costrutti-va di cittadini e consiglieri in un piccolo ambiente di libero spazio, di confronto e approfondimento.

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ComuneDal latino commùnem, composto di com (cum) = insieme, e mòi-nis o munis = ufficio, dovere.Il significato originario del termine sarebbe obbligato a partecipa-re. Difatti il termine opposto, immune, indica proprio chi al contra-rio è libero da ogni prestazione. Visto in quest’ottica, tutto ciò che è comune non è semplicemen-te di tutti, bensì richiede la cura, l’attenzione e la partecipazione attiva di ogni membro responsabile della comunità. Il principio di diritto-dovere prende le mosse proprio da qui. Vale la pena di chie-dersi quanto noi cittadini siamo abituati a considerare il nostro Comune (nel senso dell’istituzione politica) come un organo di cui facciamo parte o al contrario come un ente astratto e staccato da noi. Parlare di vicinanza o lontananza tra la gente e le istituzioni è di per sé un assurdo, poiché per essere vicine o distanti anche nella migliore delle ipotesi le due cose devono essere per forza scisse. Lo stato di fatto è dunque in contraddizione con l’etimologia della parola che adoperiamo.

42%

21%

19%

14%

5%

Estensione del pagamento a tutti i veicoli e incremento delle tariffe di ogni classe (Gpl, Metano, Benzina 3 e superiori, Diesel 5 e superiori: tariffa € 2,00; Benzina 1 e 2: tariffa € 5,00; Diesel euro 4: tariffa € 10,00)

Congestion charge con tariffa unica di accesso alla ZTL (prima versione) (Gpl, Metano, Benzina euro 1 e superiori, Diesel euro 4 e superiori: tariffa €5,00)

Congestion charge con tariffa unica di accesso alla ZTL (seconda versione) (Gpl, Metano, Benzina euro 1 e superiori, Diesel euro 4 e superiori: tariffa €10,00)

Congestion charge con tariffa diferenziata per fascia oraria (Gpl, Metano, Benzina euro 1 e superiori, Diesel euro 4 e superiori: tariffa €6,00 dalle 7.30 alle 11.30 e €3,00 dalle 11.30 alle 19.30)

Congestion charge con tariffa diferenziata per stagione (Gpl, Metano, Ben-zina euro 1 e superiori, Diesel euro 4 e superiori: tariffa €6,00 dal 15 ottobre al 15 aprile e €3,00 dal 15 aprile al 15 ottobre)

ECOPASS - PROPOSTE GIUNTA Formulate da Amat

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«Follia». Così il Presidente della Repubblica Giorgio Na-politano ha commentato il fatto che i figli di im-migrati nati in Italia non siano cittadini italiani. La questione, rimasta in secondo piano per anni, è ormai sotto gli occhi di tutti, concordi o meno. I siti dei periodici sono invasi dai commenti dei lettori e le trasmissioni televisive, si sono lanciate in una forsennata caccia all’intervista o alla storia. Medhin, nata a Milano da genitori eritrei, non ha problemi a concedere interviste. Semplicemente è infastidita dal fatto che una delle più importanti reti televisive nazionali voglia entrare in casa sua e immortalare la sua vita privata, neanche fosse un reality. A che scopo? Per far capire al popolo italiano che gli stranieri e i loro figli non sono poi diversi come si pensa? O per farceli piacere di più proprio perché sono un po’ diversi, originali, cu-riosi? A oggi, gli stranieri residenti in Italia sono il 7% della popolazione, più di 4,2 milioni di perso-ne. La comunità che conta più presenze è quella rumena; seguono la albanese, la marocchina e a distanza la cinese. I figli di immigrati o di matri-moni misti nati in Italia, o comunque giunti qui da piccoli con la loro famiglia o per ricongiungi-mento familiare, sono 1 milione. Vengono defi-niti seconde generazioni di immigrati, o seconde generazioni dell’immigrazione.

ITALIANI MA NON SOLO Buona parte di questi ragazzi si sente italiano

come chi è nato e cresciuto qui. C’è chi in casa parla il napoletano e chi il mandarino, chi va a trovare i nonni a Trieste e chi i parenti in Etiopia, ci sono ebrei italiani e musulmani non da meno. Forse non è da tutti scegliere di frequentare un corso di Kyudo, un’antica arte marziale giappo-nese, come ha fatto Nami, madre giapponese e padre italiano; o non è casuale che Sara, madre italiana e padre caraibico, abbia concentrato la sua tesi sulle donne immigrate; o che Selamawet, genitori eritrei, abbia scelto un corso di laurea che favorisce la sua partecipazione a progetti di sviluppo in Africa. Alcuni sentono la necessità di dare più spazio alla cultura di origine e condivi-derla con altri. È così che nascono Yalla Italia, che si definisce Il blog delle seconde generazioni, per lo più di origine araba, o Associna, l’Associazione seconde generazioni cinesi. Entrambe hanno cre-ato una piattaforma sul web, dove gli iscritti han-no modo di pubblicare articoli, e discutere di po-litica, società e cultura dal punto di vista appunto della nuova generazione con i piedi in due scarpe.

ITALIANI MA NON CITTADINISe la cultura non li fa sentire differenti, le oltre 500 mila seconde generazioni prive di cittadinan-za italiana si rendono conto di non poter vivere a pieno la propria italianità. Questa condizione comporta numerosi problemi e seccature. File interminabili davanti alle questure per il rinno-vo dei permessi di soggiorno, accesso impedito a programmi comunitari di studio come l’Era-

ANCA MI SUNDE MILAN

FIGLI DI IMMIGRATI A MILANO:

TRA INTEGRAZIONE E RIVENDICAZIONE

di Debora Peters

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smus, esclusione dalle professioni che richiedo-no l’iscrizione a un albo o la selezione attraverso concorsi pubblici, interdizione al voto nel paese in cui si è nati. Per questi e altri motivi nel 2005 a Roma nasce Rete G2, organizzazione nazionale apartitica fondata da seconde generazioni con e senza cittadinanza, il cui obiettivo è quello risol-vere dubbi di varia natura sulla legalità e la buro-crazia in Italia.Presente in tutto il paese, Milano compresa, Rete G2 partecipa a manifestazioni, diffonde in rete video che danno voce ai giovani non cittadini e raccoglie firme per L’Italia sono anch’io, cam-pagna nazionale per i diritti di cittadinanza pro-mossa quest’anno da numerose associazioni.

SECONDE GENERAZIONI A MILANOE Milano? Come si presenta alle seconde genera-zioni? Lo scorso luglio l’assessore alle Politiche sociali del comune di Milano Pierfrancesco Ma-jorino ha dato il via a una tavola rotonda, di cui fanno per altro parte ragazzi di Yalla Italia, Asso-cina e Rete G2, per poter dialogare in modo con-tinuo con i giovani milanesi considerati ancora stranieri. Il gruppo di lavoro si è impegnato nella stesura di una lettera da inviare a tutti i neomag-giorenni senza cittadinanza affinché si adoperino per ottenerla nelle modalità stabilite e soprattut-to nella finestra di tempo a disposizione, fra i 18 e i 19 anni. E per quanto riguarda l’accettazione da parte dei milanesi doc? «Una ricerca condot-ta negli ultimi anni sulle seconde generazioni»,

dice Silvana Greco, docente di Sociologia presso l’Università degli studi di Milano, «ha dimostra-to che, grazie anche all’attenzione e alla sensibi-lità degli educatori italiani, l’inserimento delle G2 nelle scuole e nel panorama sociale di Milano è buono». Tuttavia, tutti gli intervistati hanno denunciato episodi di violenza verbale o addirit-tura fisica, soprattutto quando le fattezze fisiche rendono evidenti le origini straniere. I giovani con cui Faber ha parlato non si lamentano tanto del razzismo, quanto piuttosto che il loro senso di appartenenza alla città non sia ricambiato: si sentono gli occhi addosso in metropolitana, rice-vono ancora complimenti per la dimestichezza con l’italiano, sono oggetto di stereotipi e luo-ghi comuni. Emed, genitori egiziani, ritiene che

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l’Italia, a partire da Milano, non accetti la sua religione, l’Islam, e che non sia ancora un posto adatto alle seconde generazioni perché verranno sempre percepite come straniere. Più di una volta datori di lavoro milanesi hanno cercato di offrir-gli orari disumani e paghe da fame scambiandolo per un immigrato disperato. Selamawet vede Mi-lano come una città sempre più aperta al mondo e all’Europa, ma si rivela ancora disinformata e spaventata. Medhin vuole invece che il problema della cittadinanza venga risolto, perché solo allo-ra ci sarà vera uguaglianza, e il punto di partenza sarà lo stesso per tutti. E solo allora si potrà occu-pare di tutto il resto, dalla religione, alla cultura, all’identità.

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Chi può gestire un ostello della gioventù in Lom-bardia? Solo enti pubblici, religiosi o associazioni senza scopo di lucro.Fino a marzo 2010 avremmo ricevuto questa paradossale risposta. Poi una legge regionale ha modificato il Testo Unico sul turismo in Lom-bardia e ora gli ostelli sono diventati: strutture attrezzate per il soggiorno di persone, gestite da soggetti pubblici o privati per il conseguimento di finalità sociali, culturali ed educative.

Chiedersi come mai Milano ha così pochi ostelli assume quindi un senso nuovo ora che possono gestirli non solo gli enti non profit, ma anche qualunque imprenditore voglia guadagnare of-frendo un posto per dormire a basso costo e svol-gendo attività di promozione sociale e culturale.E Ostello bello ha aperto a poco più di un anno da questa storica riforma: un ostello nel cuore di Milano, in via Medici, che conta 5 piani, 10 stanze, una cucina e 3 terrazze, oltre al bar alle-stito nell’accogliente hall. Carlo, Nicola e Pietro, i ragazzi appena trentenni gestiscono il progetto, puntano a creare un luogo d’incontro tra chi a Milano vive e chi ne è ospitato, unendo la strut-tura turistica al bar in centro, aperto tutto il gior-no, e aggiungendo eventi culturali come mostre e musica dal vivo.Ostello Bello è il quarto arrivato in città, dopo il Piero Rotta, dell’AIG*, in zona QT8, l’Ostello La Cordata, gestito dall’Agesci in via Burigozzo e

l’Ostello La Sosta Solidale, a Bruzzano.

Ogni grande città europea, a partire da Roma, offre centinaia di ostelli, molti in zone centrali, che permettono al viaggiatore, non solo giovane, di aver un alloggio e un luogo di incontro low cost. La connessione wi-fi, un bar, una cucina e una zona relax comune sono gli elementi che fanno di un ostello la base migliore per visitare una città, conoscendo altri viaggiatori, ricevendo utili informazioni per conoscere il luogo e senza spendere troppo in hotel e ristoranti. L’ostello, si sente spesso, è una filosofia; averne di più a Mi-lano sembrerebbe un requisito essenziale per au-mentare il flusso turistico, almeno giovanile.

Un altro problema lo pone il prezzo: un ostello in centro a Roma costa in media tra i 15-25 euro, a Barcellona 7-15 euro, a Berlino 8-17, a Londra 10-20, a Parigi 27-30. I prezzi di Milano sono vicini a quelli della capitale francese: una notte all’Ostello Bello costa 30 euro. Se da un lato la ci-fra è ragionevole visto il nostro carovita, l’elevato servizio offerto (la posizione centrale permette di risparmiare sui mezzi) e l’atmosfera, rimane il fatto che per uno studente 30 euro a notte posso-no rappresentare una cifra proibitiva; meglio uno dei tanti hotel a una, due o tre stelle, ma forse è più quel che si perde in qualità dell’esperienza di quel che si risparmia.

MILANO CITTÁ CONPOCHI (POCHISSIMI)OSTELLI, MA QUALCOSA SI MUOVE

SONO CAMBIATE LE REGOLE, È NATO OSTELLO BELLO

E UNO DEI SUOI PADRI RACCONTA ALCUNE DELLE

DIFFICOLTÀ LEGATE A UN PROGETTO NUOVO DI ZECCA

di Bertone Biscaretti

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quelli marroni che indicano musei o alloggi turi-stici. Ancora adesso non capiamo a chi rivolgerci. Poco fa dovevamo fare dei lavori qui in strada, dei ghisa si sono fermati a vigilare, uno di loro ci ha fatto qualche domanda ed era entusiasta del progetto, gli abbiamo parlato della cosa e di sua iniziativa ci ha detto che si sarebbe informato lui e ci avrebbe fatto sapere. Le difficoltà ci sono, ma anche le soddisfazioni, tra le quali quella di pen-sare che noi, trentenni, non ci tiriamo indietro e diamo lavoro a tempo indeterminato a dieci per-sone, rispettando le regole e senza scappare dal problema»

* Associazione Italiana Alberghi per la Gioventù

Nicola, uno dei padri dell’Ostello Bello, raccon-ta: «L’idea è nata nel settembre 2009, per dare qualcosa che mancava alla città, qualcosa che fosse presente sul territorio, con una spinta an-che culturale; qui rispetto ad altri posti c’è mol-to poco la cultura dell’ostello, anche nel ragazzo medio. Ma la svolta c’è stata dopo la riforma al Testo Unico sul turismo nel 2010, quando abbia-mo avuto la possibilità di puntare su un progetto chiaro d’impresa, scartando ad esempio l’idea del circolo Arci.»

Qual’è stato il primo ostacolo? «La prima que-stione da risolvere è stata quella dell’immobile. Ne abbiamo trovato uno in Bovisa, ma al mo-mento della firma del contratto il proprietario è sparito, e quando si è rifatto vivo ci ha detto che c’erano dei problemi perché avevamo scrit-to di voler fare attività culturale, e chi gli diceva che non avremmo fatto un centro culturale isla-mico. Subito dopo abbiamo trovato lo stabile in via Medici, con una proprietà che ha creduto nel progetto, e l’abbiamo risistemato e messo a norma lavorandoci noi per quattro mesi tutti i giorni.» Ma le difficoltà saranno state molte, quel’è stato l’aspetto più complicato? «Una certa ignoran-za burocratica. Siamo stati quasi i primi privati in città ad aprire un ostello. Se per aprire un ri-storante qualsiasi impiegato comunale può dirti quasi tutto, noi abbiamo dovuto penare, nessuno

sapeva niente. Abbiamo dovuto girare da uffi-cio a ufficio, e abbiamo anche rischiato perché all’ASL ti dicono: si voi fatelo pure così, poi ve-niamo noi a controllare e se non va bene al massi-mo vi facciamo chiudere. Insomma vieni lasciato un po’ solo; l’informazione potrebbe essere più chiara, e anche spontanea: c’è il solito problema che si fa una gran fatica per poi scoprire che man-cano due fotocopie e nessuno l’ha detto perché lo si doveva scoprire non si sa dove. Un altro pro-blema sono le contraddizioni fra le normative: mentre quella regionale spinge ad organizzare attività sociali e culturali, quella comunale non permette di ospitare eventi con la sola licenza da ostello, ci vuole anche quella da esercizio pub-blico. Ti chiedi ma perché? Che senso ha che la regione ci obblighi a svolgere attività che in base alla normativa comunale, se non avessimo la li-cenza per il bar, non potremmo svolgere bene? C’è confusione, e ci sono anche ritardi. Alla fine ci si convince che è tutto normale, come per ogni esercizio in Italia, e si rinuncia a prendersela con l’impiegato di turno. Certo le pratiche possono procedere in base all’umore, o addirittura alla simpatia. Insomma, capita che per avere le cose fatte bene si sia costretti a fare i simpatici con chiunque si incontra..bisogna avere fortuna, per esempio abbiamo rotto le palle 9 mesi perché ci sistemassero la corrente.»Un altro episodio significativo? «Nessuno ci sa dire chi si occupa di mettere i cartelli turistici,

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A.S.V.I.

L’A.S.V.I, Associazione di solidarietà e volontariato insieme, è una Onlus milanese attiva nella ex Yugoslavia dal 1999.In questi dodici anni si servizio l’A.S.V.I ha garantito assistenza materiale, morale, psicologica, medica e quanto altro possa essere utile al sostegno alle zone colpite dalla guerra in Kosovo.

Gli interventi riguardano prioritariamente la famiglia, la sanità, il lavoro, la scuola e il sociale.All’interno di questi ambiti vengono realizzati dei progetti specifici, come il “Progetto insieme a Mitrovica”, che si occupa di aiutare la ripresa delle attività lavorative dei cittadini per consentire alle famiglie di soste-nersi autonomamente riacquistando così dignità e indipendenza economica. Ogni anno i volontari milanesi partono per il Kosovo portando materiali utili recuperati da donazioni pri-vate.Per ulteriori informazioni visitate il sito:www.asviitalia.it

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FOTOMitrovica

di Giulio di Rosa

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COMUNITÁ FILIPPINA A MILANOfotografie di Paola Meloni

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NELLA PAGINA PRECEDENTE: GIORNATA DELLA CELEBRAZIONE DELLA FESTA DELL’INDIPENDENZA FILIPPINA IN ALTO: COLLABORATORE DOMESTICO A CASA DELLA SUA DATRICE DI LAVORO IN BASSO A SINISTRA: GRUPPO DI GIOVANI CHE PARTECIPANO AD UNA MANIFESTAZIONE CATTOLICA IN BASSO A DESTRA: COLLABORATRICE DOMESTICA A CASA DEL SUO DATORE DI LAVORO

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Il presente lavoro prende le mosse dalla fascinazione profonda che i così detti paesi in via di sviluppo hanno da sem-pre suscitato nella mia persona. Tale fascinazione è diventata poi un vero e proprio interesse quando, viaggiando tra l’Africa e il Centro America, mi sono trovata a catturare con il mio obiettivo le immagini di queste realtà così distan-ti, cercando di documentare i colori, i suoni, gli odori, trovandomi a fissare le pratiche e i gesti di queste vite lontane.Ecco che quindi l’argomento del mio lavoro vuole assumere tale interesse calandolo però nel quotidiano mi-lanese, provando così a ripercorrere un possibile dialogo tra la città e ciò che spesso appare come altro. Partendo dalla ricerca di un dialogo, ho trovato invece una declinazione dell’altro che rimane lontana dal contesto in cui si cala, ma che al suo interno si apre e si moltiplica. Tuttavia questo lavoro non vuole essere affatto una denuncia di emarginazione, piuttosto un omaggio alla forza di chi, lontano dal proprio paese di origine, assume le proprie origini e rinvigorisce i propri valori e le proprie tradizioni.

Paola Meloni

IN ALTO: CORO DI BAMBINI AL CULTO DOMENICALE IN BASSO: GIORNATA CELEBRAZIONE DELLA FESTA DELL’INDIPENDENZA FILIPPINA

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IN ALTO: GIORNATA DELLA CELEBRAZIONE DELLA FESTA DELL’INDIPENDENZA FILIPPINA IN BASSO: TRE BABY SITTER CHE PORTANO AL PARCO I BAMBINI DEI LORO DATORI DI LAVORO NELLA PAGINA A FIANCO, IN ALTO: COPPIA DI MARITO E MOGLIE CON LA FIGLIA A CASA LORO NELLA PAGINA A FIANCO, IN BASSO: COPPIA DI MARITO E MOGLIE FUORI DALLA CHIESA DOPO LA MESSA

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IL MODELLO ISLANDESELa prima storia racconta una nuova iniziativa democratica che viene dal basso e porta con sé vocaboli nuovi e rivoluzionari come: democrazia diretta, autodeterminazione finanziaria e annul-lamento del sistema del debito. È avvenuto in Islanda, isoletta dell’Europa settentrionale che molti non sanno neppure collocare con precisio-ne sul mappamondo, ma finora da tutti reputata un’isola felice, benestante, in testa a tutti gli indici

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sulla qualità della vita, lo sviluppo umano, l’ugua-glianza sociale, l’occupazione, la ricchezza. Ma su quali basi si fondava questa ricchezza? A partire dal 2003 le banche private islandesi, han-no adottato un semplicissimo sistema di conti online per attrarre investimenti stranieri. Olan-desi e Inglesi hanno accolto l’invito con grande entusiasmo. Quindi da un lato sono cresciuti gli investimenti stranieri, ma dall’altro è aumentato il debito estero delle stesse banche. La crisi del

IL CASO ISLANDESE E QUELLO CILENO

di Giovanni Liva

VOCI DA CHI SI É FATTO ASCOLTARE

QUANTO PESA LA SOCIETÀ CIVILE NELLE SCELTE POLITICHE? I POLITICI ELETTI ASCOLTANO LE PAURE DI UNA SOCIETÀ IN BALIA DELLE ONDE? COSA AVVIENE DOPO LE ELEZIONI, IN CUI I CITTADINI SI SENTONO VERI PRO-TAGONISTI DEL PROPRIO PAESE? DOMANDE CHE ESIGONO RISPOSTE. OGGI È DAVANTI AGLI OCCHI DI TUTTI IL COMPORTAMENTO DEI GOVERNI, INDIRIZZATI NELLE LORO SCELTE DALLA VOCE GROSSA DELLE AUTORI-TARIE BANCHE EUROPEE. E ALLORA VALE LA PENA RIFLETTERE SUI RISCHI PER LA DEMOCRAZIA. IN UN QUA-DRO COMPLESSIVAMENTE CUPO, ECCO DUE STORIE ESEMPLARI, CHE SONO STATE TRASCURATE DAI MEDIA.

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2008 ha chiuso tutti i giochi: le principali banche sono fallite e sono state nazionalizzate, e il paese dichiarato bancarotta. Subito l’Fmi (Fondo monetario internazionale) è accorso in aiuto della povera Islanda, propo-nendo di aiutarla con un prestito di oltre 2 miliar-di di dollari, non privo di interessi: misure drasti-che e la richiesta di spalmare sulla popolazione il debito contratto.

A questo punto la popolazione si è improvvisa-mente svegliata. Prima del gennaio 2009 la silen-ziosa e fredda capitale Reykjavik non aveva mai visto tanti islandesi indignati in piazza che hanno costretto il governo a dimettersi in blocco per l’imbarazzo. Ma quando anche il nuovo governo di sinistra ha iniziato a seguire le insistenti richie-ste dell’Fmi e dei governi olandesi e britannici, la popolazione si è sentita presa in giro. La manovra di salvataggio prevedeva che la restituzione del debito di 3,9 miliardi di euro pesasse sulle spalle

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dei cittadini. Le famiglie avrebbero dovuto paga-re una rata mensile al 5,5 % d’interesse per i 15 anni successivi. Al grido univoco di «Noi non paghiamo gli errori delle banche!» il movimento di protesta si è diffuso a dismisura avviando un processo di discussione tra i partecipanti, che hanno cercato di comprendere dov’era l’errore. La popolazione ha chiesto maggiore controllo sui propri eletti.

In questo clima il capo dello Stato, nonostante le minacce d’isolamento dei creditori, ha accolto la proposta di sottoporre a referendum la manovra del governo. Referendum che, nel marzo 2010 ha dato risultati plebiscitari: il 93% dei votanti era contrario al rimborso dei debiti verso Olan-da e Gran Bretagna. Il prestito dell’Fmi è stato congelato e il governo, per la pressione popolare, ha aperto un’inchiesta sulle responsabilità civili e penali del crollo finanziario. In risposta i ban-chieri più lesti hanno preso il volo, i meno rapidi sono stati arrestati. Inoltre i manifestanti hanno chiesto più voce in capitolo nell’amministrazione del proprio Paese. L’idea è quella di riscrivere la costituzione islandese in modo da porre un limi-te ai banchieri internazionali e al denaro virtuale, responsabili del precedente fallimento. Ma chi ha il compito di riscriverla? Ha preso corpo una commissione di 25 cittadini eletti, composta da

professori, agricoltori, giornalisti, studenti uni-versitari, con il compito di accogliere le migliaia di richieste abbozzate su internet, così che a lu-glio 2011 è stata pubblicata la bozza della nuova Costituzione, da approvare con un referendum.

Fine della storia? Tutt’altro, forse questo è sem-plicemente il suo inizio. L’Islanda non è uscita ancora dalla crisi, ma nella bozza della costitu-zione c’è chi intravede un nuovo progetto per un nuovo Paese in cui la parola centrale sarà traspa-renza.

Una soluzione, quella islandese, estendibile ad altri Paesi? Si può parlare di modello islandese? L’Islanda ha una popolazione di 320 mila abitan-ti contro gli oltre 60 milioni dell’Italia. Il debito Islandese è di circa 3,9 miliardi di euro: nulla in comune con i 1910 miliardi del debito Italiano (o con quello Greco). Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, si sta occupando del Caso Islanda perché ha avuto il coraggio di fare scelte alternative che lui aveva già sostenuto dicendo: «Abbiamo smesso di preoccuparci dell’occupa-zione per concentrarci sul deficit, ma per qualche motivo, chi ha in mano il potere decisionale è convinto che il rigore di bilancio non sia sempli-cemente un’opzione, ma la sola opzione».

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IL MODELLO CILENOL’altra storia è più vicina a noi studenti. Molti compagni dicono spesso con disprezzo delle ma-nifestazioni: «Tanto non servono a niente...». Oggi gli studenti cileni non possono più dire frasi del genere. Questo perché il movimento studen-tesco tiene da mesi sotto scacco il governo con grandi (e talvolta violente) manifestazioni che chiedono un’istruzione pubblica di qualità, che lasci il profitto fuori dalle aule. Il Cile riserva solo il 4,4% del Pil per l’educazione, rispetto al 7% raccomandato dalle Nazioni Unite. L’accesso alle università è legato a un sistema di prestiti poco regolato, per cui gli studenti devo-no pagare per tutta la vita il debito e gli interessi contratti per raggiungere la laurea. In cambio? Un’istruzione scadente.

Dall’inizio del 2011 le proteste sono aumentate di settimana in settimana, coinvolgendo anche alcuni rettori di università: a metà giugno sono state occupate un centinaio di scuole; a fine mese una manifestazione di circa 100 mila studenti ha indotto il governo ad ascoltare.

Il 5 luglio il presidente Sebastián Piñera, con un

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discorso televisivo, ha annunciato una serie di ri-forme al sistema educativo, pianificate per andare incontro alle richieste degli studenti. Riforme ri-fiutate da Camilla Vallejo, studentessa leader del Fech (Federación de Estudiantes de la Universi-dad de Chile) che ha ribadito le richieste: istru-zione superiore gratuita, contributo del 50% per le università statali e fine dei prestiti statali. E per il finanziamento ha proposto la nazionalizzazio-ne delle ricchezze del Paese e una riforma fiscale. Alle parole dell’icona del movimento hanno fatto seguito un’ondata di manifestazioni, alle quali si sono uniti lavoratori scioperanti.

Incapace di risolvere la situazione, il 18 luglio il ministro dell’Istruzione si è dimesso. Ai primi di agosto c’è stata una nuova proposta del governo, definita vaga e ancora inadeguata dal movimento perché non affrontava il cuore del problema: la ricerca del profitto attraverso l’educazione e un accesso poco equo all’educazione superiore.

Il 18 agosto il Governo, incalzato dalle proteste incessanti, ha avanzato una terza proposta: la ri-duzione al 2% dei tassi di interesse sui prestiti agli studenti. Il movimento ha risposto riscendendo

nelle strade nonostante il freddo e la pioggia, e a loro si è unito il più grande sindacato cileno che ha dichiarato due scioperi con circa 600 mila per-sone in piazza.Oggi le proteste continuano: il Governo non ha ancora accolto le richieste del movimento stu-dentesco, e il presidente cileno Sebastián Piñera continua a definire l’ educazione «bene di con-sumo» e il profitto «compenso per il lavoro duro (nel settore educativo)». Ma come dice Camilla «È decisamente positivo che le nostre proteste stiano ricevendo il sostegno della maggioranza della popolazione».Anche in Italia molti si sentono impotenti davanti alle decisioni del Parlamento e lontani dalle scel-te politiche che li riguardano direttamente. Ma basta essere spettatori partecipi perchè la socie-tà civile diventi rilevante nelle scelte del Paese? Per cambiare le cose è sufficiente dire: «Non mi è piaciuto come hanno gestito questi problemi, non li voterò più!»? Queste storie dicono di no. Il filo che lega i due racconti sono la partecipazio-ne attiva in prima persona e l’impegno continuo e determinato.

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esempio nei confronti dell’Islam. «Cercate di conoscere i musulmani e capirete che anche loro sono come voi, sono vostri amici» ha esortato la Nobel iraniana. E la scienza è necessaria per ri-durre i conflitti, l’ignoranza e le disparità econo-miche e sociali che caratterizzano l’attuale con-dizione mondiale. Solo così ha detto Alessandro Pascolini «La scienza può diventare da ammic-cante prostituta della guerra, a sposa fedele della pace». Ed è proprio sulla guerra, sulla riduzione dei conflitti e delle spese militari, a favore di mag-giori investimenti in ricerca e sviluppo, che si incentra il secondo obbiettivo che la fondazione Veronesi si è proposta di perseguire. Francesco Vignarca, cordinatore della Rete italiana per il disarmo ha spiegato che ogni anno nel mondo si destinano alle sole spese militari 1600 milardi di dollari, il che significa che ogni abitante del pia-neta spende circa 240 dollari l’anno per la guerra. Ristringendo il campo alla sola Europa, la vice presidente del Senato Emma Bonino ha deline-ato una gestione dell’esercito non proprio rosea: nei 27 Paesi dell’Unione ci sono 2 milioni le eu-ropei in divisa, inutilizzabili per la scarsa prepara-zione, e per l’esercito si stanziano 200 i miliardi. «Uno studio recente rivela che basterebbero 130 miliardi per mantenere un esercito più efficiente e organizzato» ha continuato la senatrice: con un risparmio di 70 miliardi che potrebbero essere destinati al finanziamento di progetti di ricerca e sviluppo europei. «Qual è la soluzione? Cosa bisogna fare?» ha esclamato Shrin Ebadi al suo uditorio. Abbattere i pregiudizi, cercare di cono-scere, agire e partecipare ulteriormente: la guerra non è un destino ineluttabile per l’uomo, ma la pace è possibile e la scienza può dare un contri-buto determinante alla sua realizzazione.

«Dobbiamo fare uno sforzo per raggiungere solidarietà e migliaia di firme fra i giovani: non possiamo permettere che la scienza abbia sulla coscienza la colpa di aver costruito ordigni orren-di. Dobbiamo agire nella direzione opposta per l’affermazione dei diritti umani: la pace è il primo di questi diritti. Senza la pace tutti gli altri perdo-no valore». Così Umberto Veronesi ha chiuso la terza Conferenza mondiale di Science for Peace, organizzazione da lui fondata nel 2004 per pro-muovere la ricerca e la divulgazione scientifica a servizio della pace. Contributo della scienza alla risoluzione pacifica dei conflitti e alla realizza-zione della pace, gestione della crisi, diritti civili e situazione discriminatoria delle donne, questi i temi che i 37 relatori, provenienti da 15 paesi diversi, hanno discusso nell’aula magna dell’U-niversità Bocconi nelle due giornate della confe-renza. Illustri nomi, tra i quali Shrin Ebadi, l’ira-niana Nobel per la pace 2003, hanno fatto sentire la propria voce e dimostrato come la guerra non sia una necessità evolutiva, né insita nella biolo-gia umana. La pace è realisticamente possibile.

«La stessa specie che ha inventato la guerra può inventare la pace» ha dichiarato Telmo Pievani, docente di Filosofia della scienza. Per diffon-dere una cultura della pace e il superamento di tensioni fra stati, cioè il primo degli obbiettivi di Science for Peace, si deve fare attenzione a chi fa propaganda e produce diffidenze, violenze e odio: è importante essere coscienti e aperti al dialogo. Nel corso dei dibattiti infatti, è emerso che se non si conosce qualcosa si è colti dalla pau-ra, si perde la tranquillità e si tende a odiare chi ha generato questa perdita. Provocato da fobie e stereotipi, questo atteggiamento è diffuso per

SCIENCE FOR

PEACE: LA TERZA

CONFERENZA MONDIALE

L'INCONTRO IN NOVEMBRE ALLA BOCCONI

di Eva Moriconi

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DALLE NOTTI BIANCHE A LA CONFESSIONE. AL TEATRO LIBERO L’UNIVERSO DELLO SCRITTORE RUSSO.

di Francesca Carta, Matteo de Mojana e Stefano Santamato

A novembre il Teatro Libero ha ospitato il Pro-getto Dostoevskij, due spettacoli tratti dal celebre scrittore russo: le Notti bianche e il capitolo della Confessione tratto da I Demoni.Un dialogo tra due attori il primo, un monologo il secondo. Protagonisti della rassegna il giovane regista Alberto Oliva, uscito alcuni anni fa dalla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Mila-no, e i suoi attori: Stefano Cordella, Vanessa Korn e Mino Manni, che ha adattato e interpretato il capitolo da I Demoni. Un’accesa diatriba sull’esat-to titolo del romanzo accompagna tuttora questo testo. Il più diffuso è dèmoni (plurale di demo-ne), ma si trova anche come demonî (plurale di demonio). Entrambi i termini arrivano dal greco daimon ma il loro significato è diverso. Il demone infatti è una creatura extra-umana ma non divi-na, e non necessariamente malvagia; viceversa i demonî sono esseri divini di natura maligna. Di entrambi si trovano molte tracce nelle culture di tutto il mondo. Comunque li si voglia chiamare, i demoni di cui parla Dostoevskij sono sia i perso-naggi sia le turbe che li attanagliano. Il protagoni-sta è Nikolaj Vsevolodovič Stavrogin, il male asso-luto, il demonio per eccellenza. Un testo insolito

DOSTOEVSKIJ COME SHAKESPEARE. TEATRO CLASSICO-CONTEMPORANEO

quello scelto da Mino Manni. Il capitolo in cui Stavrogin racconta al sacerdote Tichon gli orrori delle sue azioni fu oggetto di censura per i temi scottanti che tratta, su tutti la pedofilia. La mente malata di Stavrogin ripercorre il rap-porto morboso con la piccola Matrëša, figlia del-la sua padrona di casa. La bambina si ritrova in totale balia degli eventi, vittima di una violenza raccapricciante. «Il romanzo è un capolavoro assoluto, il più attuale nella produzione di Do-stoevskij» ci racconta Manni «Questo capitolo mette a nudo l’incapacità di provare dolore, ti-pica del nostro tempo. Eventi crudi passano con una leggerezza inquietante, non si soffre più, non si distingue il bene dal male» prosegue l’attore. Stavrogin racconta tutto al pubblico, cosa che non avviene nel romanzo; la confessione, infatti, è contenuta in una lettera riservata ad un uomo di chiesa, e la mancanza di questo sfogo è forse il motivo che porterà il personaggio a togliersi la vita alla fine del romanzo. A teatro invece il pubblico viene direttamente interrogato. «Gli spettatori si sentono partecipi» racconta Manni «Una sera c’era una signora che mi rispondeva con grande tranquillità, c’è molta voglia di inte-

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Faber_culturamondo che gli sta attorno, le case, le persone, le vicende degli altri. Lei (Vanessa Korn) vive lette-ralmente attaccata alla vecchia nonna. Un giorno venne corteggiata da un viaggiatore che ripartì con la promessa di tornare e sposarla. Dopo un anno non si è ancora fatto vivo. I temi centrali del testo sono l’attesa e il sogno. Lei aspetta l’uomo che ama e che sembra non arrivare mai, così non le resta che sognarlo. Lui, che passa la vita nella dimensione onirica, si in-namora per la prima volta di una figura reale; ne consegue l’attesa di essere ricambiato. Ma Nasten’ka, così si chiama la ragazza, gli fa pro-mettere di non invaghirsi di lei. Inutile dire che la parola non sarà mantenuta. «Perché ogni uomo tace sempre qualcosa al fratello?» ci chiede Do-stoevskij per bocca dei suoi personaggi. «Perché non esterniamo i nostri sentimenti?»La passione porta il sognatore a tenere alla feli-cità di lei più che alla propria. In sogno la vede danzare tra le sue braccia, nella realtà le consegna la corrispondenza diretta all’amato viaggiatore.L’amore è il desiderio di qualcosa che non si può avere, l’eterna frustrazione che accompagna i due protagonisti. «Con gli attori abbiamo lavorato sul tema del gioco» ci dice il regista Alberto Oliva. «Il testo dice Continuammo per ore a ridere e giocare come bambini. Da qui abbiamo improvvisato creando tantissime cose» prosegue Oliva. «Un altro tipo di approccio è stato fatto partendo dalla musica. Per i due attori appoggiarsi alla partitura musica-le per trovare la giusta emotività è stato un eserci-zio molto utile»Operazione coraggiosa, quella di Oliva e dei suoi attori. Pur non avendo mai scritto per il teatro, Dostoevskij è un autore spesso rappresentato. Vi ci sono cimentati grandi registi, da Ronconi a Peter Stein. Secondo Mino Manni il motivo è dovuto ad una certa vicinanza tra la scrittura di Dostoevskij e il cinema, per via di un efficace ri-corso all’immagine. «Dostoevskij è simile a Shakespeare. Analizza le

logiche dell’animo umano senza spiegarle, te le racconta con delle immagini, ti dice le cose come avvengono e lo fa con un linguaggio fortemente poetico» Testa bassa e un po’ di faccia tosta. Questa la ri-cetta del Progetto Dostoevskij. «A me I Demoni di Peter Stein è piaciuto tantissimo» racconta Alberto Oliva «Ma il capitolo sulla Confessione è quello che mi era piaciuto di meno, meno ispira-to e peggio interpretato, e mi era rimasta la voglia di metterci le mani personalmente. Inoltre Mino Manni ci lavora da tempo e lo sente molto suo, quindi nessun timore reverenziale verso nessuno, si tratta solo di lavorare con onestà e puntando sempre in alto, senza stare a spiare gli altri. Notti bianche è uno spettacolo che nasce tre anni fa in occasione di un concorso, quindi non è un testo che ho scelto, mi è capitato per caso. Spesso acca-de che da un caso fortuito nascano i lavori a cui poi ci si affeziona di più. Dostoevskij aveva 25 anni quando l'ha scritto, come me e i due atto-ri che lo interpretano, e questo ci ha consentito fin da subito di capirlo in un modo un po' spe-ciale...»Con lo scrittore russo si realizza un teatro di grande impatto e fortemente contemporaneo. «Chiunque legga Dostoevskij, e voglia poi por-tarlo sulla scena, elaborerà in maniera inevitabil-mente personale qualche suggestione, qualche pagina all'interno di quell'oceano sconfinato di altissima letteratura» conclude il regista. «Pur-troppo oggi la maggior parte dei drammaturghi ricorre a una scrittura frammentaria o fintamente poetica per nascondere la propria incapacità di scendere nel profondo. È facile dire che il fram-mento è postmoderno, più difficile è ammettere che spesso è semplicemente banale. Meglio par-tire da Fëdor, o comunque da un grande classico, per declinarne le potenzialità nel contempora-neo. Di superato c'è solo la convinzione che un genio assoluto possa essere in qualche modo su-perato. Di attuale c'è tutto il resto»

ragire».Quello dell’attore è un lavoro a togliere; con grande abilità magnetizza gli spettatori con lo sguardo, privando il personaggio di ogni costru-zione. Ogni spettatore si confronta con i propri spettri e con il proprio modo di concepire l’orrore. «Ave-te cominciato a stimarmi ora?» chiede provoca-toriamente Stavrogin dopo la confessione.Al pubblico tocca la responsabilità di risponde-re a questa ed altre domande, lanciate come una sfida aperta. Più leggero nella forma ma non meno terribile nel contenuto il lavoro sulle Notti bianche. Si entra in sala a spettacolo già cominciato. Una donna è in attesa. Non si sa di chi o di che cosa. Attorno a lei una scena essenziale, delicata. Una balaustra che indica la sponda di un fiume, una lanterna e una panchina. Il tappeto sono-ro trasmette una vaga malinconia. Ed ecco che scendono le luci. Un uomo di passaggio inizia a conversare con la giovane donna. Lui (Stefano Cordella) è un sognatore, che passa le sue notti bianche a vivere nella propria immaginazione, osservando con curiosità persino morbosa il

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Si chiama Juan Olivier, avrebbe dovuto iniziare a lavorare come secondino il 20 Marzo, invece, decide di andare a visitare il carcere un giorno prima, Dio perché non gliel’hai impedito?È iniziato tutto con un maledetto imprevisto: mentre altre due guardie lo portano a fare un giro del penitenziario, gli è salito un groppo d’ansia alla gola e in un attimo é a terra, svenuto, lo hanno adagiato sulla brandina di una cella, la 211, e da quel momento gli eventi hanno iniziato a precipitare, Juan doveva capirlo che non sarebbe mai riuscito a fermarli.Sente gli agenti che parlano in modo concitato alla radio, cosa si stanno dicendo? Ora se ne vanno e lo lasciano qui, in questa cella vuota. Forse vorremmo tutti restare in quell’attimo di inconsapevolezza, in cui siamo all’oscuro dei fatti; la consapevolezza di ciò che sta succedendo arriva con un detenuto che gli chiede «Chi sei?», si chiama Releches: è una rivolta. Voi cos’avreste fatto al suo posto? si finge uno di loro, si guadagna la fiducia di Malamadre, il capo dei rivoltosi, il dente avvelenato, cerca di placare gli animi, di proteggere gli ostaggi. Quello che accadrà in seguito avrà il sopravvento su di lui, diventerà uno di loro, bestia come loro. Questa è la storia della sua trasformazione.Francisco Perez Gandul regala al lettore lo spaccato di un carcere di Siviglia durante una rivolta di de-tenuti, lo fa tramite tre voci diverse: Juan Olivier, un secondino rimasto per errore all’interno del car-cere, Malamadre, il capo dei rivoltosi e Armando, una guardia carceraria che segue gli eventi dall’ester-no; ognuna di queste voci ha una propria fisionomia, un linguaggio differente: la crescente tensione di Juan, il flusso di sproloqui ininterrotto di Malamadre, e la riflessione razionale di Armando. Il lettore viene trascinato insieme ai personaggi in un susseguirsi di avvenimenti sempre più vorticoso. L’autore sembra volersi soffermare sul fatto che sono le circostanze spesso a fare l’uomo e non viceversa.

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RECENSIONE DEL LIBRO “CELLA 211”

DI FRANCISCO PEREZ GANDUL

di Marcella Vezzoli

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PROSPETTIVAa cura di Silvia Apriglianofoto di Anna Crosta

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«Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva.»

Prof. Keatingda “L'attimo fuggente”

da Ode I-11di Orazio

«Non chiedere tu maiQuando si chiuderà la tuavita, la mia vita,non tentare gli oroscopi d’oriente:male è sapere, Leuconoe.Meglio è accettare quello che verrà,gli altri inverni che Giove donerào se è l’ultimo, questoche stanca il mare etruscoe gli scogli di pomice leggera.Ma sii saggia: e filtra il vino,e recidi la speranzalontana, perché breve è il nostrocammino, e ora, mentresi parla, il tempoè già in fuga, come se ci odiasse!Così coglila giornata, non credere al domani.»

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«-Dì, Peckish..-Mmmh..-Tu ce l’hai una nota,vero? Silenzio-Che nota è ,Peckish? Silenzio-Peckish… SilenzioPerchè a dire tutto il vero,non ce l’aveva una nota sua, Peckish. Incominciava a diventare vecchio, suonava mille strumenti, ne aveva inventati altrettanti, aveva la testa che frullava di suoni infiniti, sapeva vedere il suono, che non è la stessa cosa di sentirlo, sapeva di che colore erano i rumori,uno per uno, sentiva suonare anche un sasso immobile, ma una sua nota, lui non l’aveva. Non era una storia semplice. E’ difficile da spiegare. Era così ,e basta. Se l’era ingoiata l’infinito quella nota,come il mare può ingoiarsi una lacrima.Hai un bel provare a ripescarla..»

da"Casteli di rabbia"di Alessandro Baricco

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Faber_L’ultima parola

«Quando guardo fuori dalla finestra della mia cella vedo il mondo in movimento, chi va di qua chi va di là, le auto e i mezzi pubblici che dominano la scena, in un continuo in-daffararsi, le persone perseguono il loro scopo o semplicemente godono della propria libertà andando dove gli pare e piace. Io li vedo, cerco di capire cosa fanno, i loro umori e pensieri talvolta trapelano dal loro modo di muoversi, vorrei essere anche io, in mezzo al traffico (…). E il giorno dopo svegliarmi e non vedere sbarre intorno a me, non dover guardare il mondo dalla finestra, attraversato da linee di ferro orizzontali e verticali, che mi mostrano tutto in piccoli quadratini. Anche la mia vista è prigioniera, a volte quella finestra mi sembra un quadro appeso lì, un quadro di un artista frustrato e bizzarro, quasi a dirti e a ricordarti che al momento il mondo ti ha escluso.»

da "Sogno di una lite per il posto d'auto"

di Pasquale Dalò,L'OBLÓ,

il mensile di San Vittore n.4 anno 9

da "La fortuna non esiste"di Mario Calabresi

«Si era già preso le mie gambe non poteva prendersi anche la possibilità che io tor-nassi a camminare, volare o ridere. Quel potere non potevo lasciarlo a lui, lo volevo io, e così un giorno alla volta ho riconquistato la mia esistenza. C’erano mattine che noN volevo alzarmi dal letto, in cui avevo paura, in cui stavo molto male, ma ho sempre trovato qualcuno che mi diceva “Tammy, muovi il culo, è ora di alzarsi”.Raccontata così sembra facile, poi abbassi gli occhi e vedi le sue protesi di metallo, pensi alle trenta operazioni che ha sopportato, al dolore, alla fatica, alle infezioni. Ma lei non ti lascia spazio: “l’alternativa è chiara e a portata di mano: potrei chiudermi in casa, restare a letto in silenzio, piangere tutto il giorno e pensare alle gambe che non ho più. Oppure posso cercare di tornare a fare quello che facevo prima, quello che amavo e mi divertiva, insomma vivere fino in fondo e con passione.”»

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faberg

iorna

le.it

«Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città - ragnatela. C'è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c'è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s'intravede più in basso il fondo del burrone. Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno. Tutto il resto, invece d'elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d'acqua, becchi del gas,girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trape-zi e anelli per i giochi,teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo. Sospesa sull'abisso, la vita degli abitanti d'Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge.»

da"Le città invisibili"di Italo Calvino

Faber_L'ultima parola

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Faber_Poesia

da "Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo"

di Tiziano Terzani

«La storia di questo viaggio non è la riprova che non c'è medicina contro certi malanni e che tutto quel che ho fatto a cercarla non è servito a nulla. Al contrario: tutto, com-preso il malanno stesso, è servito a tantissimo. E' così che sono stato spinto a rivedere le mie priorità, a riflettere, a cambiare prospettiva e soprattutto a cambiare vita. E que-sto è ciò che posso consigliare ad altri: cambiare vita per curarsi, cambiare vita per cambiare se stessi. Per il resto ognuno deve fare la strada da solo. Non ci sono scorcia-toie che posso indicare. I libri sacri, i maestri, i guru, le religioni servono, ma come ser-vono gli ascensori che ci portano in su facendoci risparmiare le scale. L'ultimo pezzo del cammino, quella scaletta che conduce al tetto dal quale si vede il mondo sul quale ci si può distendere a diventare una nuvola, quell'ultimo pezzo va fatto a piedi, da soli.Io provo.»

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La metropolita di Milano, grazie alla quale molti cittadini si spostano agil-mente ogni giorno, è stata realizzata an-che con il sacrificio umano di una decina di operai durante la sua costruzione.Morti bianche dimenticate.

F.M.

All’ombra dell’ultimo soledi Massimo Cotto, regia di Emiliano Russoproduzione Tieffe Teatro e Asti Teatro 33, con il pa-trocinio morale della Fon-dazione De André Onlusdall' 1 al 31 dicembreTieffe Teatro Menotti, via Ciro Menotti 11, Milano

Lo spettacolo è un racconto musicale basato sulle canzoni, le storie e i personaggi raccontati da Fabrizio De André. Un musical anomalo sulla nostra storia recente, su quegli anni 70’ caratteriz-zati da profonde trasformazioni e contraddizioni, ma già anni mitici per le generazioni successive. Protagonista della storia è un gruppo di giovani che vive un momento storico di grandi speranze e di gravi conseguenze: è il 1975 e i ragazzi decidono di aprire un locale in un magazzino dietro Via del Campo, dove fare musica e parlare di rivoluzione.

TEATRO

APE Mercoledì 14 Dicembre, piazza affariMartedì 20 Dicembre, via dante

‘APE’ è un progetto organizzato da un gruppo di giovani che propongono un modo diverso di vivere un aperitivo infrasettimanale. Grazie al supporto del Consiglio di Zona 1, le piazze diventeranno spazi dove giovani artisti, musicisti, teatranti avranno la possibilità di diffondere le loro idee, e chiunque possa fare un aperitivo piacevole, dinamico e coinvolgente!

Harlem Gospel Choirdal 26 al 30 dicembreBlue Note

Una settimana con l'Harlem Gospel Choir, uno dei più importanti cori gospel del mondo, al Blue Note. Il coro, che è stato fondato nel 1986 da Allen Bailey, è formato da alcuni dei migliori cantanti e musicisti delle numerose Black Church di Harlem. Gli Angels in Harlem Gospel Choir si sono dedicati a creare una maggiore comprensione della cultura afro-americana e della musica ispirata chiamata gospel così come si suona nella Black Church. Gli U2 li hanno ribattezzati "Angels in Harlem" in apprezza-mento all’interpretazione magnifica di "I Still Haven't Found What I'm Looking For" che hanno registrato insieme nel 1988. Da allora gli "Angels of Harlem" Gospel Choir hanno fatto tour nazionali ed internazionali, meritandosi la fama di "Angelic ambassadors of Harlem".

EXTRA MUSICA

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