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Università degli Studi di Salerno Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea in Scienza del Governo e dell’Amministrazione Esame di Diritto Penale delle Organizzazioni A.A. 2006 – 2007 Compendio tratto dalle dispense. Prof. ssa Roberta Troisi Studente: Aniello Spina – 1210200068 www.nellospina.it

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Università degli Studi di Salerno

Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Laurea in Scienza del Governo

e dell’Amministrazione

Esame di Diritto Penale delle Organizzazioni

A.A. 2006 – 2007

Compendio tratto dalle dispense.

Prof. ssa Roberta Troisi

Studente: Aniello Spina – 1210200068www.nellospina.it

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Caratteristiche e funzioni del diritto penale

1. Premessa

Il diritto penale è quella parte del diritto pubblico che disciplina i fatti costituenti

reato. Dal punto di vista giuridico – formale si definisce reato ogni fatto umano alla cui

realizzazione la Legge connette delle sanzioni penali.

Nell’ordinamento vigente sono “sanzioni penali”: la pena e la misura di sicurezza;

entrambe hanno la duplice funzione di difendere la società dal delitto e di risocializzare

il delinquente.

Sono Leggi Penali quelle che riconnettono sanzioni penali alla commissione di

determinati fatti (reati).

Reato, pena e misura di sicurezza sono i tre pilastri su cui poggia l'edificio del

moderno Diritto Penale.

Il reato ruota intorno a tre principi cardine:

1. non può esservi reato se la volontà criminosa non si materializza con un

comportamento esterno;

2. posto che il diritto penale trova legittimazione soltanto nella tutela dei

beni socialmente rilevanti, ai fini della sussistenza di un reato è necessario

che il comportamento leda o ponga in pericolo dei beni giuridici;

3. un fatto materiale lesivo di beni giuridici può essere penalmente attribuito

all'autore soltanto a condizione che gli si possa muovere un rimprovero

per averlo commesso.

la necessità di ricorrere al di penale si spiega con il fatto che i mezzi di protezione

predisposti dagli altri settori dell'ordinamento non risultano sempre altrettante idonei a

prevenire la commissione difatti socialmente dannosi.

La più spiccata attitudine preventiva si dispiega in una duplice forma: da una parte c’è

la minaccia di una sanzione penale, dall’altra l concreta inflizione della pena.

Funzioni di tutela del diritto penale: la protezione dei beni giuridici

Il diritto Penale contribuisce ad assicurare le condizioni essenziali della convivenza

predisponendo delle sanzioni anche drastiche alla difesa dei beni giuridici, tali sono

definiti i beni socialmente rilevanti considerati, in ragione della loro importanza,

meritevoli di protezione giuridico penale.

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la definizione che tendenzialmente meglio riflette il carattere dinamico del bene

giuridico nel senso predetto è quella che lo identifica come una unità di funzione.

Il sistema dei delitti e delle pene non ha per scopo la realizzazione di un ideale di

giustizia ultraterrena o astratto, ma persegue l'obiettivo pratico e utile di proteggere qui

bene interessi della cui tutela dipende la garanzia di una convivenza pacifica. Nello

stesso tempo la prospettiva della protezione dei beni giuridici circoscrive la funzione del

diritto penale nei limiti della stretta necessità.

La concezione del diritto penale come strumento di tutela dei beni socialmente

rilevanti riflette soltanto fino a un certo punto la caratteristica dell'ordinamento vigente.

Da un lato, non poche fattispecie sono attualmente posta tutela di bere i dubbi di

edificazione e di incerta consistenza; dall'altro sono uniti comportamenti che non

raggiungono la soglia di una percepibile aggressione all'interesse protetto. Da questione

di vista si assiste dunque ad una non lieve divaricazione tra la concezione teorica del

diritto penale e la realtà dell'ordinamento.

La concezione del reato come lesione di un bene giuridico ha ricevuto in Italia una

prima compiuta esposizione la celebre opera di Arturo Rocco su l'oggetto del reato e

della tutela giuridica penale, apparsa nel 1913.

in particolare risale al Rocco la terribile distinzione tra oggetto giuridico formale

(diritto dello Stato all'obbedienza alle proprie norme da parte dei cittadini), oggetto

giuridico sostanziale genetico (interesse dello Stato alla sicurezza della propria

esistenza e conservazione) e oggetto giuridico sostanziale specifico (beh mio interesse e

divertimento del soggetto passivo del reato).

la tormentate complessa vicenda della teoria del bene giuridico risulta

contrassegnata dall'oscillazione tra orientamenti che ne privilegiano ora la funzione

dogmatiche sistematica in rapporto determinato ordinamento positivo, ora la funzione

politico criminale anche in prospettiva de jure condendo.

La concezione in parola muove anche la strada un pregiudiziale disinteresse nei

logo del sostrato materiale del bene giuridico, nel convincimento che questo sia

estraneo al processo strettamente interpretativo delle norme. Questa concezione finisce

con l'identificare il ben oggetto di protezione con la ratio legis in questo modo lo stesso

concetto di oggetto di tutela sfuma, bastando giustificare la protezione penale qualsiasi

motivazione liberamente assunta dal legislatore.

L’erosione della teoria del bene giuridico di ispirazione liberale raggiungere la

soglia massima con l'attacco sferrato agli studiosi tedeschi di orientamento

nazionalsocialista. I teorici nazionalsocialisti rimprovera altre trame d'autore del bene

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giuridico di riflette una visione individualistico liberale ormai superata. Criterio di

determinazione della densità criminale dei comportamenti punibili diventa il suo sano

sentimento popolare impregnato di valori etici per cui si assiste ad un tendenziale

assorbimento della sfera del diritto in quella dell'etica.

l'idea della protezione dei beni giuridici come scopo del diritto penale ritorna sulla

scena del dibattito per visti da parte dai primi anni 60. La progressiva conquista di

maggiori spazi di libertà e di democrazia infatti imposto sul terreno realistico un

ripensamento critico di criteri di legittimazione dell'intervento punitivo nell'ambito di un

moderno Stato di diritto. In questa prospettiva di ripensamento, parte della dottrina di

proporre l'esigenza di tornare un concetto positivo e critico di bene giuridico le onde si

tratta della sostanza del tentativo di aggiornare la concezione di ispirazione liberale.

Proprio l'esigenza di prospettare l'idea prende di rischi di arbitrio da parte di un

legislatore onnipotente ha indotto la dottrina successiva compie un passo avanti ed

assumere la costituzione a fondamento o comunque a criteri di riferimento nella scelta

di ciò che può legittimamente assurgere al reato. Si sono così poste le basi di una teoria

costituzionalmente orientata del bene giuridico: questa di no a dimostrazione persegue

il duplice obiettivo di elaborare, da un lato,1 concetto di bene giuridico che pareva vista

alla valutazione legislatore ordinario onde, ma di prospettare, dall'altro, criteri di

determinazione al bene medesimo finalmente dotati di vincolatività.

a) articolo 25 comma 2 Cost. - che, fidando interamente al Parlamento o al governo il

potere di legiferare in materia penale, non può non muovere dall'esigenza di una

riduzione del campo di dell'illiceità penale;

b) articolo 27 comma 1 Cost. - il quale, spargendo il principio del carattere personale

della responsabilità penale, porre dei limiti strutturali alla tecnica penalisti e di

tutela, tale da ridurne le possibili utilizzazioni in settori in cui risulta più funzionale il

ricorso a forme diverse di tutela come la responsabilità dell'illecito civile o la

responsabilità civile per rischio;

c) articolo 27 comma 3 Cost. - che, attribuendo alla pena una funzione rieducativa,

presuppone una delimitazione dell'area dell'illecito penale ai soli fatti lesivi di quei

valori che, all'interno di uno Stato democratico, possono senza obiezioni di principio

essere assunti a meta del processo di rieducazione del condannato.

il quadro dei principi costituzionali richiamabili poi integrarsi anche con riferimento

all'articolo 13 che sancendo il carattere inviolabile della libertà personale riprova

ulteriormente che l'uso della coercizione penale dal limitato in rapporto a questo dei

casi che lasciano apparire inevitabile il costo di una restrizione della libertà come effetto

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dell'imposizione della sanzione.

Proprio l'accennata attitudine della pena a incidere negativamente sui beni di

rango costituzionale primario, impone di rinvenire un carattere di legittimazione dello

strumento penalistico ricavabile, a sua volta, dallo stesso ordinamento costituzionale: in

questo senso, il ricorso alla pena trova giustificazione soltanto se serve a tutelare beni

socialmente apprezzabili dotati di rilevanza costituzionale.

L'assunto della necessaria rilevanza costituzionale beni oggetto di tutela penale

non deve essere inteso in senso eccessivamente letterale. La tutela penale e

legittimamente estensibile anche bene che trovo nella costituzione un riconoscimento

soltanto implicito e ciò in duplice senso.

Da un lato, può accadere che più beni siano avvinti da un «nesso funzionale di

tutela»; dall’altro esistono beni che, pur non menzionati dalla Costituzione, rientrano

nondimeno nel sistema sociale dei valori che fa da sfondo alla dimensione effettuale

dell'ordinamento, costituzionale: si pensi ad un bene (seppure per certi versi

controvertibile come oggetto di tutela penale) quale la “pietà dei defunti”.

L'idea di assumere a legittimi oggetti di tutela penale i soli valori dotati di rilevanza

costituzionale non comporta, peraltro, l'ulteriore assunto che la rilevanza costituzionale

faccia sorgere l’obbligo di creare fattispecie penali finalizzate alla sua salvaguardia. Il

riferimento alla rilevanza costituzionale offre solo un criterio di legittimazione

dell’intervento punitivo delimitando l’area di ciò che non potrebbe mai assurgere a

materia di reato.

Il catalogo degli oggetti di tutela recepiti nel sistema penale vigente è ben lungi

dal soddisfare le rigorose pretese della teoria costituzionale dei beni giuridici fin qui

esposta.

L'individuazione del bene giuridico quale entità specifica è facilmente afferrabile,

diventa progressivamente meno agevole man mano che si passa dalle fattispecie poste

a tutela dei classici beni individuali (vita, integrità fisica, patrimonio), a quelle finalizzate

alla protezione di interessi «superindividuali», o ad ampio raggio, specie se di più

recente emersione storica (ad es. economia pubblica, ambiente, territorio, interessi

diffusi ecc.). Con riferimento alle figure di reato del secondo tipo, l'oggetto della

protezione penale perde in concretezza e afferrabilità.

Problematici, sotto il profilo dell’enuncleazione, di uno specifico bene giuridico

quale oggetto di tutela, possono altresì apparire i delitti omissivi, consistenti nella mera

inosservanza di un obbligo di condotta penalmente sanzionato. A ben vedere, non tutti i

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reati di pura omissione sono, in quanto tali, di mera disobbedienza: ve ne sono non

pochi, ad es. nell'ambito del diritto penale tributario, posti avutela di un rilevante

interesse qual è quello dello Stato.

Sollevano problemi di costituzionalità i seguenti modelli criminosi:

a) Reati di sospetto. Si tratta del modello di fattispecie che maggiormente

si discosta dal principio di offensività nei quali il legislatore incrimina

fatti che, considerati in se stessi, non ledono né pongono in pericolo il bene

protetto. La repressione di siffatti comportamenti ha una giustificazione

accentuatamente preventiva, nel senso che serve ad "assicurare una tutela

particolarmente anticipata” del patrimonio facendo leva sulla presunta pericolosità

soggettiva dell'agente che sull'idoneità offensiva della condotta.

b) Reati c.d. ostativi. Si tratta di figure parzialmente analoghe a quelle cd. di

sospetto. Anche questa volta, il legislatore incrimina "condotte prodromiche rispetto alla

realizzazione dei comportamenti che effettivamente ledono o pongono in pericolo il

bene protetto.

c) Reati di pericolo presunto. Tale modello delittuoso tipicizza fatti che,

secondo una regola di esperienza, è presumibile provochino una messa in pericolo del

bene protetto. Tuttavia, se la regola di esperienza è carente di sufficienti basi

empiriche, può accadere che alla realizzazione del comportamento vietato non si

accompagni quella esposizione a pericolo, che la norma penale tende a prevenire.

d) Reati di attentato. Figura di reato tipica del diritto penale politico,

l’attentato presenta in origine caratteristiche fortemente illiberali: secondo la tradizione,

tale modello delittuoso colpisce già gli atti preparatori di condotte destinate ad

offendere, interessi attinenti alla personalità dello Stato.

Reati a dolo specifico con condotta neutra. Si tratta di illeciti imperniati su

una condotta che, considerata in se stessa, può addirittura costituire esercizio di un

diritto costituzionalmente riconosciuto ma che assume, invece, rilevanza penale in virtù

del fine soggettivamente perseguito (dolo specifico) dall'agente: si consideri ad es. il

reato di associazione sovversiva (art. 270), contraddistinto da una condotta consistente

nell’associarsi, come tale costituzionalmente: lecita, e dal fine di sovvertire

l'ordinamento dello Stato. A ben vedere, neppure la predetta finalità potrebbe — a

rigore — conferire illiceità penale al fatto, finché essa non si traduca in una vera e

propria istigazione a delinquere.

I più recenti tentativi intesi a delineare un volto “costituzionale”, dell'illecito penale

non hanno soltanto un valore teorico ma pretendono di incidere anche sulla prassi

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legislativa e giudiziaria.

Sul versante delle direttive di tutela (di fonte costituzionale) rivolte a circoscrivere

l'area del penalmente rilevante, costituisce ormai acquisizione pacifica che non possono

legittimamente essere elevati a reato fatti che corrispondono all'esercizio di libertà

fondamentali garantite dalla Costituzione (libertà di manifestazione del pensiero, diritto

di sciopero ecc.), a meno che non si tratti di incriminazioni poste a tutela di espliciti

interessi-limite o di altri interessi comunque dotati di rilevanza costituzionale.

Sul versante delle direttive di tutela rivolte a dilatare l'area dei fatti punibili, và

segnalata l’esigenza di rafforzare la salvaguardia di quei valori collettivi (ad es. salute,

ambiente, beni-prestazione necessari al reperimento delle pubbliche risorse ecc.) che la

stessa coscienza sociale odierna vorrebbe protetti.

Per ragioni di completezza, è opportuno accennare ad alcuni orientamenti teorici che

tendono sotto diversi aspetti a contestare o comunque ridimensionare il ruolo centrale

della protezione dei beni giuridici quale ragione giustificatrice del moderno diritto

penale.

Uno studioso celebre e autorevole come Hans Welzel ha già da tempo sostenuto

che il compito primario del diritto penale consiste nel formare gli atteggiamenti etico-

sociali dei cittadini, al fine di favorirne la disponibilità psicologica a rispettare le leggi: la

protezione dei beni giuridici sarebbe un obiettivo indiretto, incluso nello scopo primario.

La tesi non è da condividere, se intesa nel senso che compito precipuo del diritto penale

sarebbe quello di orientare e formare le coscienze dei cittadini adulti, incriminando a tal

fine comportamenti anche privi di una reale minaccia al bene protetto. Diverso è il

discorso se, con l'accento posto sulla funzione formativa dell'atteggiamento interiore, si

vuole mettere in evidenza il possibile meccanismo psicologico sotteso all'efficacia

preventiva della norma penale: allora si tratta di una funzione di orientamento

psicologico o culturale, direttamente finalizzata all'assolvimento del compito primario

del diritto penale, che rimane quello di assicurare la tutela ai beni socialmente rilevanti.

Il dibattito teorico intorno ai presupposti di legittimazione del diritto penale

moderno è andato negli ultimi anni evolvendosi lungo molteplici direttrici. Oltre ai già

accennati tentativi di connubio tra diritto penale e scienze sociali, è emersa infatti più di

recente una tendenza che può, a prima vista, apparire sorprendente: si allude cioè alla

prospettiva di tornare a ricercare la legittimazione del magistero punitivo in un

rinnovato ancoraggio al pensiero filosofico — dal diritto naturale o di ragione fino alle

più aggiornate versioni della filosofia morale e/o politica.

A ben vedere, il tentativo di recupero di matrici filosofiche appare però meno

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singolare di quanto non sembri, sol che si consideri che non pochi

principi dell'imputazione penalistica affondano le radici nella tradizione filosofica, e

in particolare nel pensiero illuministico. L'esigenza che si avverte è quella di aggiornare

la tradizione illuministica, in modo da fornire modelli di legittimazione che siano

all'altezza dei compiti che il diritto penale è oggi chiamato ad assolvere.

Ma sarebbe illusorio ritenere che un nuovo ancoraggio filosofico possa fornire

quello strumento magico di soluzione di tutti i problemi, che la teoria del bene giuridico

non è sinora riuscita a fornire. Sia che si torni ad attingere al pensiero kantiano, sia che

ci si rifaccia al contrattualismo di Rawls o alla teoria dell'agire comunicativo di

Habermas, ciò che si riesce a ricavare non è molto più di questo: abbozzi o frammenti

di possibili criteri generali orientativi per la selezione dei «legittimi» oggetti di tutela

penale.

Sicché rimane sul tappeto quella stessa questione di fondo, che si è rivelata

cruciale anche nell'ambito della tradizionale teoria del bene giuridico: si tratta, com'è

facile intuire, del problema della concretizzazione delle direttive generali in decisioni

politico-criminali specifiche e dettagliate.

I principi di “sussidiarietà” e di “meritevolezza di pena”.

La dottrina contemporanea è quasi unanime, nel riconoscere che l'esistenza di un

bene meritevole di tutela non basta ancora a giustificare la creazione di una fattispecie

penale finalizzata alla sua salvaguardia.

(51)Si parla di carattere sussidiario del diritto penale per esprimere l'idea dello

strumento penale come extrema ratio: il ricorso alla pena statuale è giustificato

quando risulta, oltre che necessario anche conforme allo scopo.

L’utilizzazione della sanzione penale è legittima nella misura in cui si riveli uno

strumento promettente in vista di un’efficace tutela del bene giuridico.

Il principio di sussidiarietà, così inteso, costituisce una specificazione nel campo del

diritto penale del più generale principio di proporzione: e cioè di un principio logico

immanente allo Stato di diritto, che ammette il ricorso a misure restrittive dei diritti dei

singoli solo nei casi di stretta necessità, vale a dire quando queste risultino -

indispensabili per la salvaguardia del bene comune.

Ciò premesso, occorre precisare che il, criterio della sussidiarietà può essere

concepito in, due accezioni diverse, che, rispettivamente, ne circoscrivono o estendono

la portata.

Secondo una concezione “ristretta”, il ricorso allo strumento penale appare

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ingiustificato o superfluo quando la salvaguardia del bene in questione sia già ottenibile

mediante sanzioni di natura extrapenale; a parità di efficacia di strumenti di tutela

potenzialmente concorrenti, il legislatore dovrebbe optare per quello che comprime

meno i diritti del singolo.

Secondo una concezione più ampia della sussidiarietà, la sanzione penale sarebbe

comunque da preferire anche nei casi di non strettissima necessità, tutte le volte in cui

la funzione propria della pena in senso stretto risulti utile ai fini di una più forte

riprovazione del comportamento criminoso e di una più energica riaffermazione

dell'importanza del bene tutelato: per contro, l'adozione di più idonee misure extra

penali potrebbe apparire inefficace a rafforzare nei consociati rispetto di beni considerati

bisognosi di particolare protezione.

un ulteriore criterio di criminalizzazione è costituita principio della cosiddetta

meritevolezza della pena. Tale principio esprime l'idea che la sanzione penale deve

essere applicata non in presenza di qualsivoglia attacco ad un bene in degno di tutela

bensì nei soli casi in cui l'aggressione raggiunga un tale livello di gravità da risultare

intollerabile.

Il principio di frammentarietà

(55)Il diritto penale ha carattere frammentario: per richiamare un'efficace imma-

gine di Karl Binding, il_legisl.atpre “tra le onde della vita quotidiana lascia giocare

davanti ai suoi piedi le azioni, che dopo raccoglie con mano pigra, per elevarle a

fattispecie delittuose a causa della loro intollerabilità. In principio egli percepisce

soltanto le forme di manifestazione più grossolane. Ciò che è più sofisticato e raro, pur

quando esiste, egli non lo percepisce o non lo sa cogliere. Questo spesso ha un

contenuto illecito più grave di quanto è già stato sanzionato».

Tale immagine rende plasticamente il significato del principio in esame;

l'incompiutezza da esso evocata, mentre appariva come grave limite all'illustre penalista

tedesco, trova invece oggi giustificazione nello stesso modo di concepire il diritto

penale.

Il principio di frammentarietà è solitamente considerato operante a tre livelli.

Innanzitutto, alcune fattispecie di reato tutela del bene oggetto di protezione non contro

ogni aggressione ma soltanto contro specifiche forme di aggressione.

in secondo luogo la sfera di ciò che rileva può realmente è molto più limitate

rispetto alla sfera di ciò che qualificata antigiuridico alla stregua dell'intero ordinamento.

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in terzo luogo, l'area del penalmente rilevante non coincide con quella di ciò che è

moralmente riprovevole.

questo triplice modo di operare del principio di frammentarietà è riconducibile allo

stesso processo genetico delle fattispecie incriminatrici. Determinati comportamenti

umani si ripetono nel tempo con modalità pressoché uguali e si traducono infine in

forme tipiche di aggressione ai beni socialmente rilevanti: il legislatore, nel forgiare i

modelli di reato, non di rado si limita a dare veste giuridica atti e di comportamento già

ben profilati nella realtà sociale.

contro l'assunto del carattere frammentario del diritto penale si sono tuttavia

mosse anche alcune obiezioni e la tedesca alla completezza della tutela di determinati

beni rischia di condurre ad una sorta di assolutizzazione degli stessi perdendo così di là

le stesse scelte legislative di criminalizzazione.

proprio perché il processo rieducativo allo scopo di favorire nel regno la

riacquisizione dell'integrale rispetto dei valori, questi deve essere tendenzialmente

sollecitato a orientare la sua condotta in modo da evitare tutti i comportamenti offensivi

di tali valori e non soltanto quelli che dovessero risultare formalmente penalizzanti.

Il principio di «autonomia»

Un orientamento teorico, risalente a Karl Binding, attribuisce, al diritto

penale una funzione secondaria o accessoria e sanzionatoria: e cioè la sua

funzione specifica consisterebbe nel rafforzare con la propria sanzione i precetti e le

sanzioni degli altri rami del diritto.

La tesi, del, carattere sanzionatorio, o ulteriormente sanzionatorio, è così

pressoché unanimemente respinta nella parte in cui pretenderebbe di disconoscere

l'indubbia autonomia funzionale tecnica dello strumento penalistico.

Partizioni del diritto penale

Il codice penale è costituito da una parte generale e della parte speciale. La parte

è generale comprende la disciplina di criteri oggettivi e soggettivi di importazione del

fatto delittuoso al suo autore, delle conseguenze giuridiche di reato è di ogni altro

elemento condizionante la punibilità.

La parte speciale contiene il catalogo delle fattispecie che descrivono i singoli

comportamenti illeciti.

Tale suddivisione non è arbitraria, ma ha alla base esigenze di razionalità,

completezza e semplificazione. Contrariamente ad una consolidata tradizione

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accademica, orientata a separarne lo studio, parte generale e parte speciale dovrebbero

costituire oggetto di contemporanea considerazione in quanto si integrano

vicendevolmente.

La parte generale è di formazione relativamente recente e costituisce il risultato,

da un lato, di un processo di astrazione teorica delle caratteristiche comuni ai singoli

delitti e, dall'altro, del consolidamento di alcuni fondamentali principi politico-ideologici,

di ascendenza illuministico-liberale, relativi alla garanzia del sistema delle libertà del

singolo nei confronti dell'autorità statale (principio di legalità, del diritto penale del fatto

ecc.).

D'altra parte, i principi generali hanno per loro natura confini elastici e dunque

abbisognano, per essere precisati rigorosamente, di un riferimento alle teorie della pena

e, più in generale, alle concezioni dello Stato. La parte generale diventa, allora, non di

rado «il meccanismo per mezzo del quale vengono tradotte nella prassi della parte

speciale le nuove concezioni teoretico-penali e teoretico-statali senza che sia necessario

modificare le leggi.

La parte speciale è, invece, organizzata secondo un criterio sistematico che fa capo

al concetto di bene giuridico di categoria, secondo il quale vengono ricompresi in uno

stesso raggruppamento i reati che offendono un medesimo bene.

La funzione di garanzia della legge penale

CASO 1

In una giornata molto calda un uomo, per ricevere refrigerio, si immerge nudo in

una fontana di Hyde Park, Denunciato, è chiamato a rispondere penalmente per la

violazione delle norme che proibiscono di indossare abbigliamenti contrari ai buoni

costumi (aneddoto giuridico inglese).

Il principio di legalità ha una genesi non strettamente penalistica, ma

squisitamente politica. Il pensiero illuministico proteso ad eliminare gli arbìtri ed i

soprusi dello Stato assoluto si fa assertore in chiave garantistica del vincolo del giudice

alla legge quale corollario del principio della divisione dei poteri

L'idea della tutela dei diritti di libertà del cittadino nei confronti del potere statuale

si esprime nel divieto di retroattività della legge penale: agli illuministi appare

gravemente lesivo di tali diritti punire successivamente un'azione la quale, nel momento

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in cui viene commessa, non ancora penalmente sanzionata. Il divieto di retroattività

viene riferito alla sanzione la quale si trasforma in una misura arbitraria e inconciliabile

con la libertà del singolo, se applicata senza preventiva minaccia.

La migliore riprova del fondamento non soltanto tecnico del principio è data dalla

circostanza che essa trovato espresso riconoscimento della Convenzione Europea per la

Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali che all'articolo 25

dispone che nessuno può essere punito se non in forza della legge che sia entrata in

vigore prima del fatto commesso.

Il significato di garanzia del principio di legalità e, al tempo stesso, le tensioni

conflittuali che la sua stretta osservanza poi in certi casi sollevare, sono praticamente

evidenziati nel caso 1. È ovvio che il comportamento dell'uomo di Hyde Park rientra ad

una considerazione basata sulla ratio di tutela tra le condotte che la norma

incriminatrice dovrebbe reprimere. È altrettanto ovvio però che, per quanti sforzi

interpretativi si compiano, essere nudi non è in nessun modo assimilabile all'essere

vestiti. Ora a prescindere da casi paradossali come quello riportato dà il via Generale

rilevato che l'incompletezza della tutela di un bene costituisce sempre un male minore

rispetto ai rischi per le libertà personale con essi a una ricostruzione in chiave

puramente sostanziale del fatto di reato.

Il principio di legalità ha come destinatari si è legislatore, sia il giudice e si articoli

in quattro sotto principi che è necessario analizzare separatamente. Questi principi

sono: la riserva di legge; la tassa attività o sufficiente determinatezza della fattispecie

penale; le retroattività della legge penale; il divieto di analogia in materia penale.

La riserva di Legge: fondamento e portata

CASO 2

Un Individuo turba un pubblico comizio tenuto in occasione delle elezioni dei

deputati all'Assemblea regionale siciliana: viene incriminato ai sensi dell'art. 67 I. reg.

sic. 20 marzo 1951, n. 29 che estende alle elezioni regionali le norme penali previste

dal T.U. 5 febbraio 1948, n. 26 per le elezioni del Parlamento nazionale (caso tratto da

Corte cost., 25 giugno 1957, n. 104).

CASO 3

Un automobilista, sorpreso senza libretto di circolazione, non ottempera all'ordine

perentorio intimatogli dall'agente di polizia stradale di esibire entro un congruo termine

la carta di circolazione all'ufficio di polizia: onde, viene ritenuto responsabile del reato

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previsto dall'art. 650 c.p., che incrimina l'inosservanza di un provvedimento

dell'Autorità (caso tratto da Cass., 6 maggio 1980, in R/V. pén., 1981,194).

CASO 4

Ad un industriale si contesta di produrre sostanze alimentari con aggiunta di

additivi chimici non autorizzati dal Ministrò della sanità: la difesa eccepisce che nella

specie il reato è configurato non dalia norma penale, ma da un decreto dei Ministro

(caso tratto da Corte cost., 19 novembre 1964,,n. 96).

Il principio dì riserva di legge esprime il divieto di punire un determinato fatto in

assenza di una legge preesistente che lo configuri come reato: in particolare, esso

tende a sottrarre la competenza in materia penale al potere esecutivo, pertanto la

riserva di legge dev'essere intesa come riserva assoluta.

Il concetto di «legge» nell'art. 25, comma 2°, Cost. e nell'art. 1 c.p.

È evidente, in base a quanto detto, che il concetto di riserva di legge in via

immediatamente alla legge in senso formale, cioè all'atto normativo emana dal

Parlamento ai sensi degli articoli 70 e 74 della Costituzione.

vien da chiedersi se sia ammissibile come fonte del diritto penale anche ed in

senso materiale: cioè della dirige e le leggi delegate. Facendo leva su di un approccio

giuridico formale che ripete la gerarchia delle fonti fissa dal legislatore costituente, la

dottrina dominante allora senza difficoltà sia il decreto delegato, si è decreto-legge tale

legittime fonti di produzione di norme penali: cioè, possono stesso ordinamento

costituzionale riconosce tali atti normativi efficacia pari a quella delle leggi ordinarie, se

ne deduce che all'ordinanza anche in materia penale. Muovendo dalla premessa del

monopolio della legge statale in materia penale, la dottrina dominante e la quasi

unanime giurisprudenza costituzionale esclusa dal novero delle fonti la legge regionale

nelle ipotesi sia di competenza esclusiva, sia di competenza concorrente. A sostenergli

dall'esclusione sia dura diversi argomenti, la scelta circa Le restrizioni dei beni

fondamentali della persona e così impegnativa che non può che essere di pertinenza

dello Stato, la riserva di competenza alla legge statale anche una conseguenza della

necessità che vi siano in tutti della nazionale condizioni di uguaglianza nella fruizione

della libertà personale.

Nell'ambito della giurisprudenza costituzionale la motivazione più ritta e

approfondire l'esclusione di una potestà normativa penale delle regioni e contenuta nel

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importante sentenza 487/89 nella quale si afferma: la criminalizzazione comporta

innanzitutto una scelta tra tutti beni valori emergenti dell'intera società e tale scelta non

può essere realizzata dai consigli regionali per la mancanza di una visione generale dei

bisogni e delle esigenze dell'intera società.

Indubbiamente meno problematica appare ammissibile dell'intervento di una legge

regionale in funzione e dominante: per semplificare si pensa l'ipotesi di uno

stabilimento industriale che scarica costante del o dei inquinanti dalla legge statale a

tutela delle acque ma rientranti minimi di tollerabilità stabilita una successiva legge

regionale. In casi di questo genere la legge regionale lungi dall'abrogare una norma

statale può avere come effetto quello di giustificare alcuni comportamenti concreti

capaci di rientrare la revisione generale e astratta del precetto penale verificando un

ampliamento della sfera della liceità.

Rapporto legge-fonte subordinata: i diversi modelli di integrazione

In astratto fonte, i modelli di integrazione legge e fonte normativa subordinate

possono essere così schematizzati:

a) la legge affida alla fonte secondaria la determinazione delle condotte

concretamente punibili;

b) fonte secondaria disciplina uno elementi che concorrono alla descrizione

dell'illecito penale;

c) l'atto normativo subordinato a sorella fosse di specificare elementi di

fattispecie predeterminati;

d) la legge consente alla fonte secondaria di scegliere i comportamenti

punibili tra quelli da quest'ultima disciplinati.

cominciamo con l'esaminare la prima ipotesi razionalmente indicata come norma

penale in bianco ed è semplificata dal caso 3. si tratta di un esempio tipico di norme in

bianco perché la fattispecie corrispondente è molto generica e simile ad un contenitore

vuoto. La disposizioni incriminatrice si limita ad affermare che è punito colui che non

osservo i provvedimenti emanato dall'autorità amministrativa. Il contenuto concreto

della regola di condotta da osservare non è conoscibile prima che l'autorità

amministrativa e mai lo specifico provvedimento che viene in considerazione nel caso di

specie. Ne deriva che le effettive delle minacce del fatto costituente reato rimane

affidata alla stessa autorità amministrativa.

considerazioni in parte analoghe valgono rispetto al secondo modello di

integrazione legge norma subordinata. Si pensi alla contravvenzione ex articolo 659

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commesse esercitando mestiere rumoroso contro le prescrizioni dell'autorità locale. In

questo caso le prescrizioni contribuiscono a delimitare le modalità del fatto vietato,

incidendo sul suo disvalore penale.

nessun problema di violazione di riserva di legge suscita, invece, quell'apporto

della fonte secondaria che si limita a specificare, da un punto di vista tecnico, elementi

del fatto oggetto contemplati dalla dirige che configuri il reato. Tale contributo appare

indispensabile specie nei settori della legislazione speciale caratterizzati da complessità

tecnica e bisognosi di continuo aggiornamento. È l'ipotesi del caso 4. La specificazione

mediante decreto del Ministro della sanità degli additivi chimici non autorizzati non

incide sulla completezza del precetto penale, già integralmente costituito dal divieto di

far uso degli additivi chimici. È certamente illegittimo l'ultimo modello di integrazione,

quello cioè nel quale la legge consente alla fonte secondaria di selezionare i

comportamenti punibili tra quelli di quest'ultima disciplinati. Qui il legislatore si

spoglierebbe della funzione di quei investiti in forza del principe della riserva per

delegare interamente al potere regolamentare.

Rapporto legge-consuetudine

Si è soliti definire la consuetudine come la ripetizione generale, uniforme e

costante di un comportamento, accompagna dalla convinzione della sua corrispondenza

ad un precetto giuridico.

Diversa è la rilevanza della consuetudine a seconda del settore dell'ordinamento

giuridico in cui essa deve operare.

una disciplina esplicita è contenuto soltanto nel codice civile dove si afferma che

nelle materie regolate dalle leggi è dei regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto

sono da esseri chiamati. In diritto penale assolutamente pacifica l'inettitudine della

consuetudine a svolgere funzioni incriminatrici o a per il trattamento punitivo.

Al concetto, di consuetudine integratrice spesso si fa ricorso per alludere a quei

casi in cui il giudizio penale presuppone il rinvio a criteri sociali di valutazione, come ad

esempio in materia di osceno: si tratta però di un richiamo ingiustificato, in quanto una

cosa è la consuetudine concepita in senso stretto, altra cosa la recezione da parte della

norma penale dei criteri di valutazioni dominanti nella comunità sociale.

Riserva di legge e normativa comunitaria

CASO 5

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Tizio non sottopone a verifica e controllo apparecchi a pressione aventi un livello di

pressione superiore a 0,05 kg/cmq (fatto costituente reato ex art. 112 r.d. 12 maggio

1927 n. 824), ma inferiore a 0,5 kg/cmq (in conformità alle disposizioni della direttiva

CEE n. 767/76)

Un problema di recente emersione, ma destinato ad assumere in futuro dimensioni

sempre più corpose, concernei, rapporti, tra la legge penale e le disposizioni normative

emanate, dalla Unione europea e dalla Comunità europea. La legislazione comunitaria

non può certamente costituire legittima fonte di produzione dell'illecito penale a causa

dello sbarramento opposto dal principio della riserva di legge «statale», essa può,

invece, contribuire alla descrizione della fattispecie mediante una specificazione in

chiave di elementi già posti dalla legge nazionale.

Alla legislazione comunitaria può anche condizionare l'ambito di applicazione della

fattispecie incriminatrice dell'ordinamento interno e ciò in virtù del principio del primato

del diritto comunitario. L'indolenza della normativa comunitaria sull'ordinamento interno

riguarda l'intero diritto penale.

Il principio nulla poena sine lege

Il principio nulla poena sine lege, in quanto cardine del principio di legalità secondo

l'originaria matrice illuministico-liberale, non può non rientrare tra i fondamentali

principi penalistici di uno Stato democratico.

Una legge penale che si limitasse a prevedere il fatto ma rimettesse al giudice la

scelta del tipo e/o della durata della sanzione, contraddirebbe le istanze garantistiche

sottese al principio di legalità proprio nel momento più nevralgico in cui si infligge; un

effettivo sacrificio al bene della libertà personale. D'altra parte, non si saprebbe come

giustificare la disparità, conseguente alla circostanza che la Costituzione, da un lato,

estenderebbe il principio di legalità alle stesse misure di sicurezza (art. 25, comma 3°,

Cost.) e, dall'altro, tacerebbe sulle pene in senso stretto, che costituiscono invece il

modello tradizionalmente più tipico di sanzione penale.

Predeterminazione legale della sanzione non significa, tuttavia, esclusione

di ogni potere discrezionale del giudice Al contrariò, una certa estensione dello spazio

"edittale” nonché la possibilità di scegliere tra più tipi di sanzioni legalmente

predeterminate, sono imposte, da un lato, dall'esigenza di adattare la pena al disvalore

del reato commesso; e, dall'altro, dalla necessità di rispettare i principi costituzionali

della individualizzazione della pena e del finalismo rieducativi.

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Anche rispetto alle pene il principio di legalità opera come riserva di legge

assoluta: e cioè, soltanto la legge o un atto normativo equiparato possono stabilire con

quale sanzione ed in quale misura debba essere represso il comportamento criminoso.

Così, sarebbe incostituzionale l'attribuzione ad una fonte regolamentare del potere di

determinare non solo il tipo ma anche la misura della pena da applicare.

Il principio di tassatività: premessa

CASO 6

Carlo Braibanti, accusato di avere, mediante suggestione, sottoposto due ragazzi

al proprio potere fino a metterli in totale stato di soggezione psicologica, viene

condannato per plagio (l'art. 603 c.p., che prevedeva tale delitto, è stato

successivamente dichiarato incostituzionale) (caso tratto da Corte Ass. App. Roma, 28

novembre 1969, mArch. pen., 1970,11, 440).

CASO 7

Una donna prende il sole a seno nudo in una pubblica spiaggia: tale

comportamento costituisce reato (art. 726 c.p.) per Cass. 12 luglio 1982, inedita,

mentre è considerato lecito da Cass. 22 settembre 1982, in Foro it, 1983, II, 273.

Il principio di legalità sarebbe rispettato nella forma, ma eluso nella sostanza,

se la Legge che eleva a reato un dato fatto lo configurasse, in termini così generici

da non lasciar individuare con sufficiente precisione il comportamento penalmente

sanzionato.

Il principio di determinatezza coinvolge la tecnica di formulazione delle fattispecie

criminose e tende precipuamente a salvaguardare i cittadini contro eventuali abusi del

potere giudiziario.

il ruolo centrale dei principi di tassatività emerge ancor di più su un terreno dove è

in gioco la stessa efficacia del sistema penale c'è la determinatezza della fattispecie

incriminatrici rappresenta una condizione indispensabile perché la norma penale possa

efficacemente fungere da guida del comportamento cittadino: com'è stato ben

osservato,1 norma penale per secolo scorso essere obbedita, ma obbedire non può

essere se il destinatario non ha la possibilità di conoscere con sufficiente chiarezza il

contenuto.

appunto l'inserimento della tassatività nell'ottica del rapporto normativi norma

cittadino, ne esalta la valenza di principi penalistico proprio in uno Stato democratico:

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quanto più il cittadino è posta in condizioni di discernere senza ambiguità tale dà

dell'illecito tanto più cresce suo rapporto di fiducia partecipativa nei confronti dello Stato

e delle sue istituzioni.

la corte costituzionale ha nella quasi totalità dei casi respinto le eccezioni sollevate

sotto il profilo della violazione dei principi di tassatività facendo leva su argomenti

discutibili. Con ogni probabilità quest'atteggiamento di chiusura della corte è stata

condizionata, specie nel passato, dalla due sulle preoccupazioni di creare un po' di

tutela e di entrare in conflitto con il legislatore.

l'America sovente riscontrabile nella madia penale di una diretta conseguenza della

tendenza compromissoria che caratterizza l'atto l'attività legislativa Le uniche esigenza

di bilanciare beni interessi di cui sono portatori forze politico sociali contingenti si

traduce al livello di redazione fattispecie penali, informazioni ora troppo generiche ore

incerte, che non di rado c'era l'intento di scaricare sul potere giudiziario il com'è di

mediare tra opposte esigenze di tutela difficilmente compatibili in sede più prudente

politica.

Principio di tassatività e tecniche di redazione della fattispecie penale

Come già rilevato, il principio di tassatività vincola da un lato il legislatore ad una

descrizione il più possibile precisa del fatto di reato e, dall'altro, il giudice ad

un'interpretazione che rifletta il tipo descrittivo così come legalmente configurato.

Le principali tecniche di registrazione sono quelle di normazione descrittiva e di

normazione sintetica. La prima tecnica descrive fatto criminoso mediante l'impiego di

termini che alludono ad dati della realtà empirica. Ma per ovviare agli inconvenienti

leggessero casistica il legislatore ricorre ad una seconda tecnica quella. Sintetica: cioè

adotta una qualificazione di sintesi mediante l'impiego di elementi normativi rinviando

ad una fonte esterna rispetto alla fattispecie in tema di in attrice come parametro per la

regola di giudizio da applicare al caso concreto.

gli strumenti di tecniche disordinate garantire la tassatività della loro fattispecie

sono i cosiddetti elementi descrittivi ioni elementi cioè che traggono il loro significato

direttamente alla realtà dell'esperienza sensibile. Il principio di tassatività vigente se

inintelligibile della fattispecie astratta e risulta soddisfatto tentando di delle norme

penali vi sia di mantenimento a fenomeno un possibile realizzati sia stata accertata in

base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze per verificabili.

quanto agli argomenti normativi, cioè elementi che necessitano, per la

determinazione del loro contenuto, di una etero integrazione mediante il rinvio ad una

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norma diversa da quel incriminatrice, occorre operare una precisazione. Se si tratta di

elementi normativi giuridici, l'esigenza di tassatività è perlopiù rispettata perché la

norma giuridica richiamata è strettamente individuabile senza incertezze. Se si tratta

invece di elementi normativi extra giuridici, cioè rinviando alle norme sociali o di

costume il parametro di riferimento diventa inevitabilmente incerto e sorgono forti

dubbi circa i limiti descrittivo tra rispetto di un sufficiente livello di determinatezza e

Katherine definire nemmeno del fatto di reato.

è vero che gli elementi normativo sociali sono stati paragonati ad una sorta di

organi investigatori che consentono di adeguare costantemente la disciplina penale alla

voce dell'erta sociale, ma è altrettanto vero che bisogna guardarsi dal rischio di

sopravvalutare il convincimento diffuso secondo cui di questa funzione dei guerriglieri

giudicherebbe sempre capace.

Il principio di irretroattività

CASO 8

Tizio viene incriminato ai sensi dell'art. 636 c.p. per aver fatto pascolare

abusivamente il proprio gregge in un terreno di proprietà altrui. Successivamente

interviene una modifica legislativa che introduce la punibilità a querela del reato in

questione: continua ad essere punibile Tizio in assenza della querela di parte?

CASO 9

Durante la Repubblica di Salò taluno viene falsamente denunciato di appartenere a

banda partigiana, ma in seguito all'intervenuto mutamento istituzionale, l'appartenenza

a gruppi partigiani cessa di essere qualificata reato: permane il delitto di calunnia a

carico del denunciante? (caso tratto da Trib. Alessandria, 22 febbraio 1946, in Riv. pen.,

1948, 725).

Il principio di irretroattività fa divieto di applicare la legge penale a fatti commessi

prima della sua entrata in vigore. Esso riflette addirittura l'esigenza primaria connessa

all'originaria affermazione del principio di legalità: ai pensatori illuministi appariva

gravemente lesivo del diritto di libertà del cittadino consentire allo Stato di incriminare

successivamente un'azione che, al momento della sua commissione, non era

penalmente sanzionata, anche se già contraria alla morale o persino al diritto.

Com'è noto il principio in esame è previsto per tutte, le leggi dall'art. 11 delle

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disposizioni preliminari, il quale stabilisce: «La legge non dispone che per l'avvenire:

essa non ha effetto retroattivo».

La disciplina dettata dall'art. 2 del codice penale

a) Il primo comma dell’art. 2 del codice stabilisce: “Nessuno può essere punito per un

fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”.

b) il secondo comma dell’art. 2 dispone: “nessuno può essere punito per un fatto

che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne

cessano l'esecuzione e gli effetti penali”.

La norma, allude al fenomeno dell'abolizione di incriminazioni prima esistenti: ad

es. si pensi ali;abrogazione dei delitti di offesa alla libertà (art. 281) e all'onore del

Capo del Governo (art. 282), attuata con d.lgs.lt. 14 settembre 1944, n. 288 o, più di

recente, alla trasformazione in illeciti amministrativi dei reati contravvenzionali prima

previsti dagli artt. 669, 672, 687, 693,694; del codice penale.

In base alla norma in esame, gli autori del reato oggetto di abrogazione non solo

non possono più essere puniti ma, se hanno, subito una sentenza di condanna ancorché

definitiva, ne cessa l'esecuzione e si estinguono tutti i connessi effetti penali.

Più di recente, il problema della distinzione tra abrogazione e modifica di norma

incriminatrice preesistente è concretamente emerso nella prassi applicativa per effetto

della riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. È sorta

infatti la questione se i fatti commessi durante il vigore della fattispecie di interesse privato

(abrogato, dall'art. 20 1. n. 86/1990) potessero continuare ad assumere rilevanza penale

in quanto riconducibili alla riformulata fattispecie dell'abuso di ufficio. Si vede in

proposito come parametri di valutazione sia di interesse protetto, sia le modalità di

aggressione al bene; si verificherebbe la successione quando, nonostante l'innovazione

legislativa, permangono identici elementi predetti. e che vende rame però resta che

hanno ad un duplice rilievo; ad intendere in senso stretto Le due condizioni si

verificherebbe esultando nel caso di perfetti denti rarefatti reato così finendosi però col

vanificare la sessualità paria del criterio. Accorgete in lei un senso più ampio a te si

finisce per risultare di incerta applicazione, perché fondata non solo su apprezzamenti

valore opinabili ma anche sull'indeterminatezza del peso attribuibile a criteri del bene e

a quello delle modalità aggressive del fatto.

Più rispettoso dei dal irrinunciabile esigenza appare il criterio facendo leva sull'un

rapporto di continenza tra nuove la vecchia fattispecie: occorre c'è un rapporto

strutturale tale fattispecie aspramente considerate tale per cui possa tra le stesse

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restaurasse una relazione di genere a specie. Ciò si sicuramente si verifica quando la

fattispecie successiva sia pienamente contenuta nella precedente il che avviene quando

la norma posteriore sia speciale rispetto ad una precedente di controllo più generico.

Successione di leggi e applicabilità della disposizione più favorevole al

reo.

Il terzo comma dell’art. 2 stabilisce: “Se la legge del tempo in cui fu commesso il

reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli

al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”.

La disposizione introduce il principio della retroattività della norma più favorevole

al reo. Fondamento del principio è la garanzia del favor libertatis, che assicura al

cittadino il trattamento penale più mite tra quello previsto dalla legge penale vigente al

momento della realizzazione del fatto e quello previsto dalle leggi successive, purché

precedenti la sentenza definitiva di condanna.

Il principio medesimo è indirettamente collegabile anche al principio costituzionale

di eguaglianza che impone di evitare ingiustificate o irragionevoli disparità di

trattamento.

L'operatività dell'art. 2 comma 3° presuppone che ci si trovi di fronte ad

un'autentica ipotesi di successione fra fattispecie incriminatrici accertabile in base al

criterio del «rapporto di continenza» esposto nel paragrafo precedente.

Più in generale, per stabilire quando ci si trovi di fronte ad una disposizione i più

favorevole occorre operare un raffronto tra la disciplina prevista dalla vecchia norma e

quella introdotta dalla nuova; tale raffronto va effettuato in concreto: cioè non

paragonando le astratte previsioni normative delle due norme, ma mettendo a

confronto i rispettivi risultati dell'applicazione di ciascuna di esse alla situazione concreta

oggetto di giudizio.

Successione di leggi integratrici di elementi normativi della fattispecie

criminosa (modifiche cosiddette «mediate» della fattispecie incriminatrice)

Si discute se e in quali limiti la disciplina di cui all'art. 2. sia applicabile alle

modifiche normative che non incidono direttamente sugli elementi costitutivi della

fattispecie incriminatrice, ma che vi incidano in maniera soltanto “indiretta” o

“mediata”: si pensi alle ipotesi di modifica di norme che integrano il contenuto di una

norma penale o che disciplinano elementi normativi della fattispecie.

Si consideri esemplificativamente, il caso 9. Al riguardo, va premesso che il delitto

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di calunnia consiste nell'incolpare falsamente taluno di un reato: «reato» è l'elemento

normativo della fattispecie, per la definizione del quale occorre fare rinvio ad una

disposizione penale diversa da quella che configura il delitto di calunnia. Se in seguito,

al mutare della disposizione, diversa non costituisce più reato il fatto oggetto di falsa

incolpazione, il delitto di calunnia permane o viene meno? La soluzione del problema è

controversa, essendo in dottrina e giurisprudenza registrabili orientamenti diversificati.

Secondo un orientamento restrittivo, forse a tutt'oggi prevalente in dottrina, la

disciplina dell'abolitio crimìnis ex art. 2 comma 2° è inapplicabile al caso di abrogazione

di norme integratrici di elementi normativi infatti, la legge abrogatrice non

introdurrebbe alcuna differente valutazione dell'astratta fattispecie incriminatrice e del

suo significato di disvalore, ma eliminerebbe dall'ordinamento (o modificherebbe)

disposizioni penali o extrapenali che si limitano a influire, nel singolo caso, sulla

concreta applicabilità della norma incriminatrice stessa.

Secondo un altro orientamento per dir così mediano, occorre invece distinguere a

seconda che l’elemento normativo in questione sia o non in grado di incidere sulla

portata e sul disvalore astratto della fattispecie incriminatrice, condizionandone

l'ampiezza con riferimento sia alla descrizione del tipo di reato, sia ai soggetti attivi.

Così, ad esempio, nel caso della calunnia il disvalore astratto del reato permarrebbe,

perché la falsa incolpazione continuerebbe a mantenere il suo significato offensivo

anche dopo che sia stato abrogato il reato oggetto di incolpazione; non così, invece,

nell'ipotesi dell'associazione per delinquere, posto che il pericolo per l’ordine pubblico

(nel quale consiste l'offesa) non permarrebbe più quando il delitto scopo non sia più

tale.

Successione di leggi temporanee, eccezionali e finanziarie

Ai sensi dell’art. 2 comma 4° il principio della retroattività in senso più favorevole

al reo è inoperante rispetto alle leggi temporanee ed alle leggi eccezionali.

Si definiscono “eccezionali” quelle leggi il cui ambito di operatività è segnato da

uno stato di fatto caratterizzato da accadimenti fuori dall’ordinario.; sono “temporanee”

le leggi rispetto alle quali è lo stesso legislatore a prefissare un termine di durata. In

entrambi i casi, identica è la ratio sottesa alla inoperatività dei commi secondo e terzo

dell'art. 2: da un lato, è connaturata alle stesse caratteristiche di tali leggi l'applicabilità

di un regime diverso da quello, eventualmente più favorevole, reintrodotto nel

momento del ritorno alla normalità; dall'altro, ove il principio del favor rei dovesse

trovare riconoscimento, si offrirebbe una comoda scappatoia per commettere violazioni

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con la certezza di una futura impunità.

In astratto, potrà anche prospettarsi l'ipotesi che una legge eccezionale o

temporanea risulti più mite rispetto a una precedente legge (eccezionale o temporanea)

più rigorosa: anche in questo caso ai fatti commessi sotto il vigore di quest'ultima

andrebbe applicata la relativa disciplina, ancorché più rigorosa, sempre a causa del

carattere contingente della ratio, sottesa alle leggi emanate per soddisfare esigenze di

natura temporanea od eccezionale.

Analoga disciplina. era dettata dalle norme che reprimono le violazioni delle leggi

finanziarie: “Le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni

altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni

erano in vigore, ancorché le disposizioni medesime siano, abrogate o modificate al

tempo della loro applicazione”.

Decreti-legge non convertiti

L’ultimo comma dell’art. 2 stabilisce che la disciplina della successione di leggi si

applica altresì «nei casi di decadenza, e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel

caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti».

Nel ricondurre l'ipotesi del decreto-legge non convertito alla comune disciplina

della successione di leggi, il codice Rocco si adeguava all'ordinamento costituzionale

dell'epoca, il quale stabiliva che gli effetti del decreto non convertito cessavano con

efficacia ex nunc, facendo così salvi gli effetti prodotti durante la sua vigenza.

Sennonché il legislatore costituente, spinto dalla giustificata preoccupazione di

subordinare l'efficacia legislativa dei provvedimenti urgenti del Governo all'approvazione

del Parlamento, ha introdotto l'opposto principio della cessazione ex tunc degli effetti

del decreto non convertito (art.. 77 Cost). Ne consegue che, negl'ipotesi di decreti non

convertiti che eventualmente introducano, modifichino o abroghino fattispecie penali

preesistenti, viene meno la possibilità stessa di configurare una successione di leggi

penali nel tempo: ciò in quanto il fenomeno della successione presuppone la valida

applicazione della legge preesistente al fatto, mentre la caducazione con efficacia ex

tunc di un decreto-legge impedirebbe di continuarlo ad applicare anche a fatti commessi

sotto la sua vigenza.

Un simile assunto, in linea col disposto dell'art. 77 Cost. suscita nondimeno gravi

perplessità per le conseguenze in malam partem che ne derivano nel caso di decreti-

legge non convertiti, aventi a contenuto modifiche della disciplina penale preesistente

più favorevoli al reo. Si pensi ad un decreto-legge che abroghi una incriminazione

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preesistente o ne attenui il trattamento sanzionatorio: si dovrebbe pervenire, in base

alle accennate premèsse, alla conclusione che un fatto non costituente reato o punito

meno gravemente al momento in cui fu commesso, tornerebbe a costituire reato o,

rispettivamente, ad essere più gravemente punito dopo, la caducazione del decreto

legge. Una simile conclusione appare inaccettabile. Invero, il principio di irretroattività

della legge penale non può mai essere derogato, dal momento che appartiene al novero

dei principi che la stessa Costituzione pone come irrinunciabili, a garanzia del ruolo

primario spettante al favor libertatis.

Leggi dichiarate incostituzionali

La dichiarazione di incostituzionalità di una legge trova la sua disciplina,

innanzitutto nell'art. 136 comma 1° Cost. il quale stabilisce che “quando la Corte

dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di

legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della

decisione”.

Facendo leva su tale, disposizione, all'indomani dell'entrata in vigore della

Costituzione, sembrò prevalere la tesi secondo cui la dichiarazione di incostituzionalità

di una legge ne produce ex nunc la cessazione di efficacia: così opinando, era

perfettamente ipotizzabile una successione di leggi tra una legge antecedente e una

legge posteriore (abolitrice o modificatrice della prima) successivamente dichiarata

incostituzionale.

Ad un riesame della questione ha condotto la successiva emanazione della legge

11 marzo 1953, n. 87, la quale all'art. 30, comma 3° e 4° dispone: “Le norme

dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla

pubblicazione della decisione. Quando, in applicazione della norma dichiarata

incostituzionale, è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la

esecuzione e tutti gli effetti penali”.

In forza di tale, disposizione, ed in particolare dell'espressione in essa contenuta

«non possono avere applicazione», si ritiene oggi che la dichiarazione di

incostituzionalità abbia effetto ex tunc, ragion per cui la legge invalidata non può essere

più applicata neppure a situazioni verificatesi sotto la sua vigenza: da qui l'impossibilità

di ravvisare (analogamente a quanto osservato nel caso del decreto-legge non

convertito) un fenomeno successorio tra una legge preesistente ed una posteriore poi

dichiarata incostituzionale.

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L'INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE PENALE

Contrariamente a quanto si credeva in passato, ormai la dottrina è concorde nel

ritenere che l'interpretazione della legge penale soggiace alle regole che valgono per

tutte le altre leggi, salvo una limitazione nell'applicazione del procedimento analogico.

Noi, perciò, qui dovremmo trattare soltanto quest'ultimo punto, rinviando per il resto

alla teoria generale del diritto. Data, però, l'importanza fondamentale di quella

operazione e i dibattiti che in proposito si svolgono nella dottrina, non possiamo

esimerci dall'esporre le nostre vedute sugli aspetti del problema che sono di maggiore

importanza.

È noto che l'interpretazione è quella operazione mentale, con la quale si ricerca e si

spiega il significato della legge, senza questo processo di chiarificazione,

evidentemente, non sarebbe possibile applicare la norma al caso particolare. Il processo

in parola si rende necessario per tutte le leggi.

È noto pure che l'interpretazione si distingue in autentica, giudiziale e

dottrinale, secondo che provenga dallo stesso organo che è autorizzato ad emanare la

norma oppure dai magistrati nell’esercizio della loro funzione giurisdizionale, ovvero dai

giuristi, nella loro, attività diretta allo studio del diritto.

Solo la prima ha forza vincolante; essa anzi è obbligatoria non ex nunc ma ex tunc

e cioè dal momento in cui è stata emanata la norma che viene interpretata.

L'interpretazione giudiziaria ha efficacia soltanto rispetto al caso giudicato in concreto,

mentre quella dottrinale non è mai obbligatoria.

E noto altresì che, rispetto ai risultati, l'interpretazione d'ordinario viene distinta

in dichiarativa, restrittiva ed estensiva. La prima specie può eliminarsi, perché

l'interpretazione è sempre dichiarativa, in quanto il suo scopo essenziale è di spiegare

e, quindi, dichiarare il senso della legge. Le altre due (restrittiva ed estensiva) si hanno

non quando, come generalmente si dice, il legislatore plus o minia dixit quam voluit, ma

quando non è possibile attribuire alla norma quel significato che appare prima facie

dalla dizione letterale di essa assumendo le parole nel senso più comune, e cioè allorché

esiste un divario fra il significato apparente e quello effettivo della disposizione. Se

questo significato apparente viene limitato, si ha l'interpretazione restrittiva, se viene

ampliato, si ha l'interpretazione estensiva.

Natura dell'atto interpretativo.

Prescindendo da ogni indagine filosofica ed esaminando il problema sotto l'aspetto

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puramente empirico-scientifico, va notato che le norme penali spesso non precisano se

non in parte il fatto che costituisce reato e gli elementi che lo compongono. Certe volte

non lo precisano in alcun modo. Lo stesso dicasi per varie circostanze che aggravano o

attenuano il reato. Della premeditazione (art. 577), per citare un esempio, il codice non

fornisce la minima precisazione. Si aggiunga che non è raro il caso che i compilatori

della legge abbiano lasciato deliberatamente insolute delle questioni, come nella

elaborazione del codice vigente è avvenuto per le condizioni di punibilità, per il reato

di usura, ecc., demandando in modo esplicito la risoluzione di esse alla dottrina e alla

giurisprudenza. Da questo insieme di rilievi è giocoforza dedurre che esistono nella

legge degli spazi vuoti che spetta all'interprete di colmare. Egli in tali casi deve

continuare e condurre a termine l'opera del legislatore, trasformando la direttiva

generica in compiuto comando dando cioè vita a imperativi precisi e nettamente

delimitati.

Riteniamo, quindi, che l'attività dell'interprete non possa considerarsi me-

ramente conoscitiva. L'interprete certamente non crea il diritto, perché questo è

compito della legge, ma concorre alla creazione di esso, integrando, dove

occorra, comandi legislativi.

Teoria soggettiva e teoria oggettiva dell'interpretazione.

L'art, 12 delle disposizioni sulla legge in generale stabilisce: « Nell'applicare la

legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato

proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore ».

Come deve intendersi l'espressione «intenzione del legislatore»? Due teorie si

contendono il terreno: la teoria soggettiva e la teoria oggettiva dell’interpretazione. Per

la prima l'interprete deve ricercare la volontà storica del legislatore, vale a dire

l'intenzione che effettivamente hanno avuto i compilatori della legge; lo scopo che

essi si sono posti di conseguire nel dettare quella determinata disposizione. Per la teoria

oggettiva, invece, ciò che va ricercato non è già quello che gli artefici della legge in

realtà hanno voluto, ma la volontà obbiettivamente considerata.

Nello Stato moderno la redazione delle leggi non è mai o quasi l'opera di un solo,

ma il risultato della collaborazione di molte persone e vari organi. Fra tante persone,

chi è il legislatore? In secondo luogo, non poche volte si presenta la necessità di

applicare la legge a casi che i compilatori non hanno considerato e persino a casi che

non potevano considerare, perché la possibilità di essi è emersa in seguito.

Infine è da notare che la teoria soggettiva porta necessariamente alla rigidezza e

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immobilità della interpretazione. Invero, se il senso della legge si identifica con

l'intenzione dei suoi artefici, tale senso non può subire variazioni, né adattamenti: esso

viene cristallizzato. Orbene, è un'esigenza della vita giuridica, particolarmente sentita

nello Stato moderno, caratterizzato da un marcato dinamismo, che la legge sia, in certo

modo, pieghevole, flessibile, così da poter corrispondere alle condizioni che

continuamente mutano e ai bisogni che via via affiorano nella comunità sociale.

Per queste ragioni, conformemente all'opinione dominante, noi riteniamo che si

debba dare la preferenza alla teoria oggettiva.

Mezzi di interpretazione.

Generalmente l'interpretazione viene distinta in letterale (o grammaticale) e

logica, secondo che ricerca il significato proprio delle parole, valendosi dell'elemento

grammaticale e di quello sintattico, oppure accerta l'intimo significato della norma,

risalendo allo spirito di essa.

Tendendo ad accertare il vero significato della legge, l'interprete non può basarsi

né sulle sole regole che governano la parola, né su, quelle del pensiero, ma deve

necessariamente fondarsi tanto sulle une quanto sulle altre. Stabilito il significato delle

parole, infatti, non è ancora conseguito quello scopo, dal momento che il vero senso

della legge non si può accertate senza far ricorso alle leggi della logica.

L'interpretazione, quindi, è unica in sé: è nel tempo stesso letterale e logica.

Per l'accertamento di questo pensiero come è notò, soccorrono vari mezzi. In

primo luogo i lavori preparatori: i progetti, le discussioni in seno alle commissioni che

hanno esaminato i progetti medesimi e soprattutto le relazioni ministeriali che li

accompagnano per illustrarli. Siffatto materiale certamente non vale come

interpretazione autentica e non vincola l'interprete, anche perché spesso vi figurano

concetti ed opinioni disparate che possono condurre alle conseguenze più diverse; ma

può essere molto utile.

Per stabilire il vero significato della legge può giovare anche il così detto

elemento storico, cioè la considerazione dell'evoluzione storica dell'istituto giuridico,

la quale ci consente di risalire all'origine di esso e di seguirlo nello sviluppo che ha

avuto nel succedersi del tempo. Può altresì essere utile la comparazione del diritto,

vale a dire il confronto col diritto straniero, specialmente con quello dei paesi

che hanno un grado di civiltà analogo al nostro e si uniformano alle stesse direttive.

Moltissimo giova l'inserzione della disposizione nel sistema: il così detto elemento-

sistematico. Poiché l'ordinamento giuridico non è costituito da una miriade di norme

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indipendenti, slegate fra loro, ma da un complesso, nelle linee essenziali, unitario ed

organico; poiché le varie norme sono collegate fra loro e si integrano a vicenda, se la

norma si inserisce nel sistema il significato di essa il più delle volte balza in chiara luce.

Le dirett ive generali che debbono essere tenute presenti nell'interpretazione sono

rappresentate dai criteri fondamentali a cui di regola si informa il nostro ordinamento

positivo, come, ad esempio, il rispetto della coscienza etica del popolo, la salvaguardia

della personalità umana, il principio di giustizia, inteso come, pari trattamento di casi

uguali, ragionevolezza e proporzione, e, nel campo specifico del diritto penale

moderno, il canone “non c'è pena senza colpa”, la prevalenza dell’elemento soggettivo

sull’elemento oggettivo del reato, la considerazione della personalità del reo, ecc.

I metodi dell'interpretazione.

Due metodi si contendono il terreno: il metodo logico-costruttivo e Il metodo

teleologico (o finalistico).

Il metodo logico-costruttivo, detto anche “tradizionale”, attribuisce alla lettera

della legge un valore preponderante in confronto alla “ratio”. Esso si manifesta con

l'attaccamento alla parola, la quale d'ordinario viene considerata come elemento

decisivo per la risoluzione dei dubbi che si presentano durante l’interpretazione. Per lo

più ricerca la volontà storica del legislatore, cioè l'effettiva intenzione degli artefici della

legge ed in conseguenza è portato ad attribuire un peso risolutivo ai lavori preparatori.

È evidente che queste regole riducono nei più angusti limit i l'attività

dell'interprete, che per effetto di esse rimane strettamente legato alla lettera della

legge. Quanto alla forma dei ragionamenti che si fanno per accertare il contenuto e la

portata della norma, nel metodo di cui trattasi prevale in modo assoluto la logica

deduttiva

Il metodo teleologico, al contrario, pur riconoscendo che la lettera della legge

costituisce un limite che l'interprete non può in alcun caso superare, attribuisce un peso

prevalente allo scopo (telos) della norma. Tale indirizzo porta a tener presente, da un

lato, il fatto sociale che sta alla base della norma e che è regolato da essa; dall'altro

a considerare le conseguenze che derivano da una data interpretazione, per respingere

quelle che non corrispondono allo scopo della disposizione. Per questo metodo, quindi,

l'opera dell'interprete non si arresta all'aspetto formale del diritto, ma cerca di

penetrarne l' intima natura e di soddisfare le sue esigenze.

A nostro avviso è il secondo metodo quello che deve essere seguito, per la

ragione fondamentale e decisiva che le parole sono soltanto simboli di pensiero: sono,

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cioè, semplicemente il mezzo per rendere riconoscibile la volontà. Siccome il mezzo

va subordinato allo scopo e quello che veramente conta è la volontà, il contenuto deve

trionfare sulla forma, il pensiero sulla squama verbale.

Al metodo finalistico si obbietta che implica un circolo vizioso, perché con esso

prima si interpreta la norma per trovare lo scopo e poi, sulla base di questo, si

interpreta la norma. Questa critica non può convincere, in quanto per accertare lo

scopo non è punto necessaria una vera e propria interpretazione della legge, bastando

un sommario esame della sua espressione letterale e la considerazione, pur sommaria,

delle disposizioni che l'hanno preceduta e di quelle che coesistono con essa.

Il metodo teleologico in particolare.

Il metodo teleologico implica importanti conseguenze che è necessario porre in

rilievo. Alcune di esse sono negative e precisamente:

a) L'interpretazione non può e non deve consistere in una palestra di esercitazioni

logiche. La logica che presiede l'interpretazione non è un freddo giuoco di concetti,

di giudizi e di sillogismi. La parola della legge, d'altra parte, va considerata nel suo

effettivo valore di mezzo di espressione del pensiero.

b) Hargumentum a contrarìis (ubi lex voluit dixit, ecc.) va usato con molta parsimonia,

perché vincola l'interprete alla lettera della legge, rendendogli spesso impossibile di

risalire alla ratio. L'argomento in parola è utilizzabile con sicurezza soltanto nei casi

in cui è vietato il ricorso all'analogia.

c) L'interprete non è tenuto a partire dal presupposto della perfezione della legge e

neppure da quello della completezza dell'ordinamento giuridico. I compilatori della

legge sono uomini, e, come tutti gli uomini, possono sbagliare.

d) Soltanto la parola della legge nella, sua massima capacità di espansione costituisce

un limite insuperabile per l'interprete. Pertanto, non hanno efficacia vincolante le

concezioni giuridiche particolari dei compilatori, della legge, anche se esse spiegano

la forma che la legge medesima ha assunto.

e) Ciò che veramente è obbligatorio è il contenuto precettivo della norma.

L'interprete, quindi, non è vincolato a quelle espressioni della legge che hanno un

valore puramente dottrinario, né alle definizioni legali, le quali sono semplici

generalizzazioni destinate a facilitare l'applicazione della legge e possono anche non

risultare esatte.

Positivamente, dal metodo finalistico discende anzitutto che della legge penale,

come di tutte le altre leggi, può darsi un’interpretazione progressiva. Poiché la ratio non

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è lo scopo che i redattori della norma si sono proposti, ma lo scopo oggettivamente

inteso, è possibile che essa muti col variare delle circostanze e dei rapporti sociali. In

conseguenza la legge penale può assumere un senso ed una portata che, senza

contraddire alla sua dizione letterale, corrisponda alla coscienza giuridica e alle

necessità sociali del momento.

Dall'indirizzo, in parola derivano, inoltre, i seguenti criteri generali:

a) Ogni disposizione di legge va interpretata in modo che consegua lo scopo

per cui fu posta e non vada al di là di esso. Se una spiegazione non consente alla norma

di raggiungere quello scopo, deve essere respinta, come va respinta quella che conduce

a conseguenze che trascendono le finalità della norma.

b) Fino a prova del contrario si deve presumere che ogni norma sia in

armonia con le direttive generali dell'ordinamento giuridico. Di regola, quindi, ogni

spiegazione che implichi conseguenze contrastanti con quelle direttive deve ritenersi

fallace. Questo criterio, peraltro, non ha valore assoluto.

Applicazioni

Alcuni esempi pratici chiariranno il procedimento del metodo teleologico.

L'art; 364 c.p: stabilisce: ”Il cittadino, che, avendo avuto notizia di un delitto,

contro la personalità dello Stato, per il quale la legge stabilisce l'ergastolo, non ne fa

immediatamente denuncia all'Autorità è punito...”. Se questa disposizione si

interpretasse alla lettera, tutti i cittadini che comunque abbiano avuto notizia dei reati

in essa indicati, e persino quelli che l'hanno appresa dai giornali, dovrebbero: fare

denuncia, con enorme imbarazzo per la stessa polizia. Considerando che la norma

tende esclusivamente a facilitare la scoperta dei delitti anzidetti, si impone

un'interpretazione restrittiva, e, pertanto, deve ritenersi che in essa sia implicita la

condizione: ”quando il fatto non è notorio”.

La considerazione dell'assurdità delle conseguenze a cui conduce L'interpretazione

letterale può rendere indispensabile anche adottare un'interpretazione estensiva. Un

esempio caratteristico di questa necessità era fornito al delitto di feticidio, il quale,

prima dell'entrata in vigore della L. 5 agosto 1981, n. 442, era previsto nel nostro

codice solo quando fosse commesso per causa di onore (art. 578). Per evitare il

risultato ripugnante di lasciare impunito feticidio commesso per altre cause (per

esempio, per motivi ereditari, per non, aver figli, ecc.) e perciò i casi più gravi di

feticidio risultato a cui i compilatori della legge non avevano pensato, perché altrimenti

lo avrebbero di sicuro evitato fu giocoforza interpretare la norma relativa all'omicidio

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(art. 575) in modo da farvi rientrare anche queste ipotesi, intendendo per uomo non

solo l'individuo staccata dal ventre materno, ma anche il feto nel momento di

transizione fra la vita intra e quella extrauterina (durante il parto).

L'interpretazione estensiva, la quale si impone specialmente allorché l'esame della

legge dimostra che i compilatori sono incorsi in una svista o dimenticanza, si rende

necessaria anche quando il caso che si deve decidere si è verificato per emergenze

sorte dopo la pubblicazione della legge, in modo, che i redattori della stessa si erano

trovati nell'impossibilità di prevederlo.

L'analogia in generale.

Dall'interpretazione; va distinto il procedimento per analogia: l'applicazione

analogica della legge.

È noto che al procedimento in parola si ricorre quando, il caso non è previsto dalla

legge: più precisamente, quando il caso non rientra in nessuna delle ipotesi astratte

formulate dal legislatore. La sua essenza consiste nell'attribuire al caso, non

disciplinato, dalla legge, la regolamentazione di un caso simile.

Affinché si abbia vera e propria analogia è indispensabile che il caso non

contemplato abbia in comune con quello previsto la ratio legis. Ne consegue che,

applicando al primo la disciplina del secondo, non si fa che attuare l'antica massima: ubi

eadem ratio, ibi eadem iuris disposino; Secondo una larga corrente dottrinaria, le

norme che si trovano per mezzo dell'analogia non sono che sviluppi dell'ordinamento

giuridico: esistono potenzialmente nel sistema, sebbene in forma latente.

A nostro avviso, una linea di demarcazione esiste, per quanto sia indubbiamente

sottile. Nell'interpretazione estensiva, infatti, noi ci muoviamo nell'ambito di una

norma: il caso in esame rientra nella ipotesi astratta configurata dal legislatore, sia pure

dando alle parole della legge un significato più ampio di quello che risulta

apparentemente da esse. Nell'analogia, invece, il caso da decidere non può in alcun

modo essere compreso nella disposizione, anche se questa si dilata dall'interprete fino

ai limite della sua massima espansione; il caso anzidétto; perciò, è fuori della norma e

ad esso diamo la regolamentazione stabilita per una ipotesi diversa. Ci sembra pertanto

che la differenza fra i due procedimenti non possa essere negata.

L'analogia nel diritto penale.

L'applicazione del procedimento analogico nel campo del diritto penale ha una

particolare disciplina. L'art. 14 delle disposizioni ora richiamate stabilisce : “Le leggi

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penali, e quelle che fanno eccezione alle regole generali o ad altre leggi non si applicano

oltre i casi, e i tempi; in esse considerati”. Da questa disposizione deriva in modo

indubbio che il procedimento analogico è interdetto nei riguardi delle norme penali, in

senso stretto e cioè rispetto alle disposizioni che prevedono i singoli reati e stabiliscono

le relative pene, nonché rispetto alle altre norme che integrano le disposizioni

medesime, limitando i diritti, dell'individuo. L'estensione analogica di una norma che

ridondi a danno dell'imputato sia che porti a punirlo per un fatto che non sia

espressamente previsto dalla legge, sia che porti ad applicargli una pena che non sia

stabilita dalla legge, sia, infine, che abbia comunque per effetto l'aggravamento della

posizione del reo e cioè la cosi detta analogia in malam partem non è consentita nel

nostro diritto.

Gravi incertezze sorgono rispetto alle disposizioni che non ridondano a carico

dell'imputato, e particolarmente a quelle che prevedono cause di giustificazione.

Premesso che il divieto dell'analogia in questo terreno non può desumersi

dall'espressione “leggi penali” che figura nell'art. 14 delle preleggi, essendo incontestato

che tale espressione deve intendersi nel senso di norme incriminatrici speciali o

comunque restrittive dei diritti individuali, sorge il quesito se le norme che stabiliscono

cause di giustificazione e di scusa rientrino fra le leggi “che fanno eccezione alle regole

generali o ad altre leggi”, rispetto alle quali è pure vietato il procedimento analogico.

La questione è assai controversa, perché la determinazione del concetto di «legge

eccezionale » non è punto agevole.

Secondo alcuni scrittori per l'esistenza di una legge eccezionale basta che essa

disciplini un ristretto numero di casi che altrimenti rientrerebbero in una regola

generale, ma ciò non può ammettersi perché porterebbe ad escludere completamente

la vasta categoria del diritto speciale.

A nostro modo di vedere, poiché ogni norma legale in fondo è o può considerarsi

una regola generale, l'espressione contenuta nell'art. 14 delle preleggi deve intendersi

in un senso particolare, e precisamente nel senso di direttive generali dell'ordinamento

giuridico... Ci sembra che solo in questo modo il divieto del procedimento, analogico

possa spiegarsi e giustificarsi, mentre, altrimenti sarebbe assai difficile ravvisarne la

ragione.

Riteniamo, pertanto, che per aversi una « legge eccezionale » occorra l'esistenza

di una disposizione che disciplini un gruppo di casi fissando una regola rispondente alle

direttive generali dell'ordinamento giuridico e che poi a tale regola vengano introdotte

delle limitazioni in forma derogatoria, come, ad es., avviene per le norme che

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prevedono casi di immunità penale in deroga al principio generalissimo che la legge

penale obbliga tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato.

Più complessa, invece, si presenta la questione nei confronti delle cause di

estinzione del reato e della pena. La soluzione incondizionatamente negativa del Vassalli

non ci convince, perché non ci sembra che le cause in parola, ed in specie quelle che

operano solo in riferimento ad alcuni reati, costituiscano sempre deroghe a direttive

generali dell'ordinamento giuridico. La questione, perciò, a nostro avviso, va risolta con

grande cautela caso per caso.

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L’EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE

LIMITI TEMPORALI

La successione delle leggi

Le norme penali, al pari di tutte le norme giuridiche, come nascono, si estinguono:

cessano di essere in vigore. L'estinzione delle norme penali non presenta speciali

caratteristiche, perché i modi con cui può verificarsi sono i medesimi delle altre norme

giuridiche e sottostanno alle identiche regole, secondo i principi sanciti nell'art. 15 delle

disposizioni sulla legge in generale, tenendo presenti le norme della Costituzione sulla

mancata conversione in legge dei decreti emessi dal Capo dello Stato in casi

straordinari di necessità e di urgenza (art. 77) e sulla dichiarazione di illegittimità

pronunciata dalla Corte Costituzionale (art. 136).

Quando una norma si estingue ed un'altra le subentra, si ha la c.d. successione di

leggi penali.

Come tutti sanno, la successione delle leggi in via generale è regolata dall'art. 11

delle disposizioni anzidette, il quale stabilisce: “La Legge non dispone che per

l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. È questo il principio dì irretroattività della

legge, il quale importa che la norma giuridica non si applichi a fatti o rapporti sorti

prima che. la medesima entrasse in vigore.

Il principio in parola non è il solo che regoli la successione delle norme giuridiche.

Esso è completato dal principio della non ultrattivìtà della legge, per il quale la legge

non si applica a fatti verificatisi dopo la sua estinzione.

I due principi innanzi esposti delimitano nel tempo la validità della legge. Quanto

al diritto penale, il nostro codice disciplina la materia della successione delle leggi

nell’art. 2. Le norme contenute in questo articolo costituiscono la regola: valgono cioè

quando la nuova Legge non contiene particolari disposizioni in proposito. Non

raramente, infatti, il legislatore detta delle speciali norme transitorie per facilitare il

passaggio dalla vecchia alla nuova legge, con l'intento di evitare possibili conflitti e

dirimere incertezze.

L’art. 2 del Codice accoglie il principio generale della irretroattività della legge. Non

lo segue, però, in modo esclusivo, perché introduce notevoli eccezioni, le quali si

ispirano ad un altro principio che da tempo si è affermato nel campo dei diritto penale,

e cioè al principio della retroattività della legge più favorevole al reo. Si è discusso se il

principio operi soltanto nel caso di successione tra fattispecie incriminatrici o sia

estensibile al caso della successione di norme che degradino un fatto previsto come

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illecito penale in illecito amministrativo. In giurisprudenza prevale il diniego

dell'estensibilità. Ne consegue, pertanto, che il fatto antecedente non è punibile

neanche con la nuova sanzione amministrativa.

I due principi dell'irretroattività della legge e della retroattività della legge più

favorevole al reo nel sistema del codice si intrecciano fra loro e ne risulta una situazione

alquanto complessa. Bisogna in proposito distinguere tre ipotesi, secondo che la nuova

norma:

a) elevi a reato un fatto che in precedenza non era tale (nuova incriminazione);

b) tolga il carattere di reato ad un fatto che in precedenza lo aveva (abolizione di

incriminazioni precedenti);

c) mantenga al fatto il carattere di reato, ma stabilisca per esso, un trattamento

diverso (nuove disposizioni soltanto modificative).

In questa terza ipotesi bisogna distinguere due casi secondo che la nuova

disposizione sia meno o più favorevole al reo della precedente.

Esaminiamo distintamente le diverse ipotesi.

Nuove incriminazioni.

Si ha una nuova incriminazione quando una legge posteriore, e più precisamente

una legge entrata in vigore in epoca successiva ad un'altra, crea una figura di reato che

prima non esisteva, come, ad es., allorché il c.p. vigente ha elevato a reato l'usura, la

quale non era punita nel codice Zanardelli.

L'ipotesi è disciplinata dal 1° comma dell'art. 2 che dispone: “Nessuno può essere

punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva

reato”. In questo caso, dunque, vale il principio dell'irretroattività della legge.

La ratio della disposizione si comprende agevolmente. Invero, se si attribuisse

valore retroattivo alle norme che creano nuovi reati, verrebbero puniti fatti che non

erano vietati nel momento in cui si verificarono e che, perciò, dovevano ritenersi leciti, il

che sarebbe sommamente ingiusto.

Il principio dell'irretroattività delle norme incriminatrici si collega col principio di

stretta legalità, col quale si fonde allorché questo viene espresso con la formula

frequentemente usata; “nullum crimen, nulla poena sine praevìa lege poenali”.

Abolizione di incriminazioni precedenti.

Può accadere che una legge posteriore non consideri più come reato un fatto che

in precedenza era punito. Ciò è avvenuto, per esempio; dopo la declaratoria di

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illegittimità costituzionale (sentenza n. 49 del 16 marzo 1971) dell'art. 553 c.p., che

configurava il reato di incitamento a pratiche contro la procreazione, e dopo la

scomparsa dei delitti di adulterio, concubinato e plagio.

L'ipotesi è regolata dal 2° comma dell'art: 2 del codice: “Nessuno può essere

punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisca reato; e, se vi è

stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali”. Qui abbiamo

un'applicazione del canone della retroattività della legge più favorevole: la nuova legge

estènde la sua efficacia a fatti verificatisi prima della sua entrata in vigore.

In conseguenza del principio, sancito dalla disposizione di cui trattasi, coloro che

hanno commesso il fatto previsto nella norma abrogata non possono essere puniti, e se

hanno subito una condanna, cessa l'esecuzione della stessa e i relativi effetti penali si

estinguono.

La disposizione si spiega, riflettendo che l'abolizione dell’incriminazione di un fatto

significa che lo Stato non lo ritiene più contrario agli interessi della comunità: la

punizione ed anche l'esecuzione della pena già inflitta, in conseguenza, vengono a

mancare di base.

Nuove disposizioni soltanto modificative.

L'ipotesi di norme che, senza creare nuove incriminazioni e senza abolire quelle

precedenti, stabiliscano per fatti antecedentemente puniti un trattamento penale

diverso è contemplata dal 3" comma dell'art. 2, il quale dispone: “Se la legge del tempo

in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse si applica quella le cui

disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza

irrevocabile”

Nell'applicazione di questa norma si profilano, come già accennato, due ipotesi,

secondo che la nuova disposizione sia meno favorevole al reo della precedente, oppure

sia più favorevole.

Nel primo caso, e cioè quando la nova disposizione aggravi la pena o in qualsiasi

altro modo peggiori la condizione del reo, si applica la legge precedente: la nuova

legge, pertanto, è irretroattiva. La ragione di ciò evidentemente è ravvisata

nell'esigenza di non far incidere sull'autore del reato una valutazione più severa di

quella del tempo in cui il reato medesimo venne commesso.

Se, invece, la nuova legge sia più favorevole, si applica la legge stessa la quale di

conseguenza ha retroattiva.

L’efficacia retroattiva della legge più favorevole in questa ipotesi, come pure in

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quella prevista nel 2° comma dell'art. 2 si verifica anche nel caso che dopo la seconda

legge, ne intervenga una terza che ripristini la precedente; per es., ristabilisca per un

reato una pena in antecedenza abolita; il testo della legge non consente una

interpretazione diversa ma, dai un punto di vista razionale, questa applicazione del

criterio del favor rei, appare eccessiva e difficilmente giustificabile.

Significato di “disposizione più favorevole”

Per poter applicare con esattezza le regole esposte è necessario precisare quale sia

e come si determini la legge più favorevole al reo

Un punto ci sembra fuori discussione: la disposizione più :favorevole non può

risultare dalla combinazione della vecchia con la nuova legge; vale a dire, non può

essere formata prendendo alcuni elementi dalia prima ed altri dalla seconda ed

amalgamandoli in una terza combinazione normativa. Una volta stabilita quale sia la

norma più favorevole, questa deve essere, applicata nella sua integrità.

Premesso ciò, va notato che la valutazione della disposizione più favorevole non

deve essere fatta in astratto e cioè norma per norma. È più favorevole quella che, in

ordine alla medesima ipotesi, conduce a conseguenze meno rigorose per il reo. Così

nell'ipotesi che una nuova legge elevi il massimo della pena diminuendo il minimo, si

riterrà più favorevole la vecchia legge.

Nel giudizio comparativo non si deve considerare soltanto la durata e la specie della

pena: vanno considerate anche le pene accesasene, le circostanze aggravanti e

diminuenti, la qualifica del fatto, le cause che fanno venir meno il reato e la pena, i

benefici che possono essere concessi, ecc.; insomma, tutti gli elementi che in qualsiasi

modo influiscono sul trattamento del giudicabile.

Ne deriva che, se, per esempio, la nuova legge ha degradato il reato da delitto a

contravvenzione, si considererà di consueto più favorevole la legge stessa, perché,

come si vedrà a suo luogo, ai delitti sono connesse conseguenze più gravi che alle

contravvenzioni.

Leggi eccezionali, temporanee e finanziarie.

Il principio della retroattività della legge più favorevole, adottato dal nostro

legislatore nell'art. 2 c.p., non si estende a tutto il campo del diritto penale: esso non si

applica nei confronti delle leggi eccezionali e temporanee. Ciò è sancito dal 4° comma

dell'articolo' stèsso. La deroga ha per conseguenza che nelle ipotesi contemplate da

queste leggi si applica sempre la disposizione che era in vigore nel tempo in cui il fatto

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è stato commesso, anche se la successivi lo punisca meno gravemente o addirittura non

lo consideri più come reato.

È opportuno chiarire che sono leggi “eccezionali” quelle che vengono emanate per

sopperire a bisogni dello Stato derivanti, da situazioni anormali, come la guerra, lo

stato d'assedio, un terremoto, una epidemia, ecc.; esse non vanno confuse con le leggi

eccezionali di cui si fa parola nell'art. 14 delle disposizioni preliminari del codice civile.

Sono temporanee, d'altra parte, quelle leggi nelle quali: è stabilito un termine per

la loro durata; vale a dire, quelle che cessano di aver vigore ad una data prefissa, senza

che occorra una nuova disposizione per dichiararle estinte. In questa categoria

rientrandole leggi emanate per rimanere in vigore fino alla cessazione dello stato di

guerra mentre non possono considerarsi temporanee le norme, dei codici penali militari

relative al tempo di guerra

La ratio della speciale disciplina di queste leggi è evidente nel caso (consueto) che

ad una legge eccezionale o temporanea subentri alla legge normale più favorevole.

Sapendosi in antecedenza, che sono destinate a cessare dopo un certo tempo, gli

autori dei reati, in pratica avrebbero la possibilità di eludere le sanzioni, specialmente

pér i fatti commessi nell'imminenza dello scadere del termine o verso la fine dello stato

eccezionale. Tale possibilità determinerebbe gravi ingiustizie e affievolirebbe

notevolmente l'efficacia ammonitiva della legge.

Ciò che si è detto, per le leggi eccezionali e temporanee valeva anche, di regola,

per le leggi finanziarie. L’art. 20 della legge 1- gen. 1929 n. 4, infatti, disponeva che

alle materie regolate dalle leggi in parola si applicassero sempre le norme in vigore al

momento del fatto, ancorché fossero state modificate o abrogate al tempo, della loro

applicazione. La dottrina rilevò che la norma in esame aveva riguardo all’ipotesi che una

Legge finanziaria fosse seguita da una più favorevole abrogatrice o modificatrice, non

invece al caso una Legge comune fosse seguita da una legge finanziaria più favorevole,

la quale avrebbe conservato efficacia retroattiva.

Decreti legge non convertici e leggi incostituzionali

L'ultimo comma dell'art 2 c.p. estendeva l'applicazione del medesimo ai casi dì

decadenza o mancata ratifica di un decreto legge o di decreto convertito in legge con

emendamenti. Ciò perché essendo stabilito, nel tempo in cui il codice entrò in vigore,

che il decreto non convertito perdesse efficacia solo dal momento della mancata

conversione, conservandola per il periodo precedente, si era di fronte ad un'ipotesi di

successione di leggi nel tempo. Poiché tuttavia oggi il decreto non convertito, al quale

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è equiparabile la legge dichiarata incostituzionale, perde efficacia sin dal momento

iniziale della sua esistenza non si constata più il fenomeno della successione di leggi.

La dottrina si chiese pertanto se l'effetto dell’annullamento della legge

incostituzionale o del decreto non convertito si risolvesse nell'applicazione in toto della

legge precedente pur se meno favorevole al reo. Ciò venne autorevolmente escluso,

essendosi asserito che un'interpretazione teleologica e sistematica, volta a coordinare il

dettato degli articoli 77 e 136 con quello dell'art. 25 Cost. induceva a ritenere che la

legge invalidata o il decreto decaduto dovessero trovare applicazione quando

risultassero più favorevoli. Tale indirizzo fu recepito nel progetto di libro primo dei

codice penale nel testo approvato dal Senato nella sesta legislatura e viene proposto

anche nel più volte citato Progetto Magliaro.

In siffatta prospettiva si accennò dalla dottrina all'esistenza di limiti al sindacato di

costituzionalità di leggi volte ad abrogare precedenti incriminazioni o a modificarle in

senso favorevole al reo. Portata la questione avanti la Corte costituzionale, questa ha

dichiarato l'illegittimità del quinto comma dell'art. 2 in esame nella parte in cui rende

applicabili alle ipotesi da esso previste, le disposizioni contenute nel secondo e terzo

comma dello stesso art. 2 c.p., poiché, stante la sua decadenza ex tunc, il decreto non

convertito non è idoneo a inserirsi in un fenomeno di successione tra norme,

pervenendo così, quantomeno per i fatti accaduti prima del decreto

legge non convertito, ad una conclusione scontata, ma di rigore e secondo alcuni non

agevolmente coordinabile col principio di uguaglianza in rapporto agli effetti riflessi

dell'art. 25 secondo comma Cost.

Ancor più singolare l'effetto di una catena di decreti legge non convertiti e

reiterati, il primo dei quali contenga un'ipotesi di reato. Con la sua decadenza non è più

possibile condanna per la condotta illecita posta in essere nel periodo della sua efficacia,

senza che rilevi la reintroduzione nel decreto legge successivo della norma

incriminatrice precedente.

Il tempo del commesso reato.

Prima di chiudere la trattazione dell'efficacia della legge penale nel tempo si rende

necessario precisare quando un reato si considera commesso.

La precisazione presenta un notevole interesse, perché, avvenendo un mutamento

di legislazione dopo l'inizio dell'attività esecutiva del reato e prima che si avveri il

risultato esteriore (l'evento) che perfeziona il reato stesso, risultato che può verificarsi

in un momento notevolmente posteriore, il che avviene nei c.d. reati a distanza, occorre

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stabilire quale delle due leggi debba applicarsi. Ma la determinazione del tempo in cui il

reato è stato commesso interessa anche ad altri fini: per i problemi relativi all'elemento

soggettivo del reato, all'imputabilità, alle circostanze del reato, all'amnistia, alla

prescrizione, ecc., come risulterà dal prosieguo, della presente trattazione.

In difetto di una norma del diritto positivo, nella dottrina sono state enunciate

varie teorie in proposito. Le principali sono:

a) la teoria dell'attività, secondo la quale si deve tener conto del tempo in cui è

stata compiuta l'azione o l'omissione;

b) là teoria dell'evento, che considera il reato commesso nel i momento in cui si è

verificato il risultato esteriore della condotta umana;

e') la teoria mista, per la quale si ha riguardo indifferentemente alla condotta e

all'evento, nel senso che il reato si considera commesso tanto nel momento in cui si è

svolta la prima, quanto in quello in cui si è verificato il secondo.

A noi sembra che non possa accogliersi la teoria dell'evento, perché, anche a

prescindere dal considerare che essa non si adatta ai reati in cui un evento non si

riscontra (reati di pura condotta), la teoria medesima porterebbe, fra l'altro, ad

applicare retroattivamente la legge nel caso di nuove incriminazioni, quando la condotta

si sia svolta sotto l'impero della vecchia legge e l'evento si sia avverato dopo l'entrata in

vigore della nuova. Il reo per tal modo sarebbe punito per il fatto, puramente casuale,

che fra la sua condotta e l'evento è entrata in vigore una nuova legge e si avrebbe

quell'incertezza sulla liceità o meno del comportamento umano per la cui eliminazione il

nostro legislatore ha adottato il principio della irretroattività delle norme penali.

Non può neppure accogliersi la teoria mista, perché non sembra logico considerare

un fatto come commesso contemporaneamente sotto l'impero di due leggi diverse.

Resta, quindi, la prima teoria: quella dell'attività, la quale per noi è la più fondata.

Il momento veramente decisivo del reato è, infatti, quello della condotta, perché in esso

si concreta quella ribellione dell'individuo alla legge che caratterizza l'illecito penale.

Soltanto in tale momento, inoltre, può esplicarsi l'efficacia intimidativa che è inerente

alla norma. Riteniamo, pertanto, che il reato debba considerarsi commesso nel tempo in

cui il soggetto ha realizzato la condotta vietata dalia norma e, quindi, in caso di

successione di leggi, sia applicabile quella che nel tempo medesimo era in vigore.

Questa regola naturalmente non può essere seguita nel caso in

cui la condotta, frazionabile in più momenti, si è verificata in parte sotto la legge

successiva. In tale ipotesi va applicata la legge posteriore anche se meno favorevole al

reo perché sotto l'impero di essa non solo si è verificato l'evento, ma si è svolta anche

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una frazione dell'attività esecutiva.

È opportuno, infine, ricordare che nei reati omissivi dovrà aver rilievo il momento

in cui il soggetto si è posto nella condizione di non poter adempiere l'obbligo prescritto.

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Gli elementi costitutivi del reato

La disciplina dei reati è prevista all'interno del codice penale, che si divide in due

parti: una parte generale, che individua quelli che sono gli elementi del fatto illecito

penale ed una parte speciale che configura e disciplina le singole ipotesi di reato.

Il reato può essere definito come un fatto penalmente rilevante, ovvero un

accadimento connotato da intrinseche peculiarità che l'ordinamento giuridico considera

come presupposti per l'irrogazione di una sanzione.

L'individuazione degli elementi del reato è oggetto della cd. teoria generale del

reato o dottrina del reato. L'analisi della struttura del reato evidenzia l'esistenza di due

tipologie di elementi:

- gli elementi essenziali, senza i quali viene meno lo stesso illecito penale;

- gli elementi accidentali, che non incidono sulla esistenza del reato, bensì sulla

sua gravità.

Il tipo di sanzione costituisce l'elemento discretivo tra illecito penale, illecito civile

ed illecito amministrativo, essendo prevista rispettivamente, pena, sanzione civile e

sanzione amministrativa.

La moderna dottrina del reato è di matrice tedesca, in particolare si deve a Beling

la scomposizione del reato nei suoi tre elementi essenziali: tipicità, antigiuridicità,

colpevolezza.

In via del tutto generale la tipicità può essere definita come la corrispondenza del

fatto alla descrizione normativa di un reato.

Ma il verificarsi dei presupposti oggettivi descritti dalla norma non è sufficiente

perché possa parlarsi di reato essendo necessario anche che l'azione (od omissione) sia

contraria al diritto oggettivo, ovvero sia portatrice di un disvalore meritevole di sanzione

da parte dell'ordinamento giuridico; infatti, la legge consente, in presenza di particolari

circostanze, anche il compimento di azioni, altrimenti vietate, stante la presenza di

specifiche "norme permissive" che consentono l'armonizzazione delle singole

norme incriminatici penali con l'intero ordinamento giuridico.

È il caso, ad esempio, dell'uccisione di un uomo, fatto di per sé tipico, in quanto

azione corrispondente alla previsione dell'art. 575 c.p., ma che sfugge alla sanzione ed

anzi diviene lecita in determinate circostanze quali ad esempio quella prevista dall'art.

52 c.p. che disciplina la "legittima difesa".

L'ultimo elemento di questa ricostruzione è la colpevolezza, intesa come nesso

psichico tra il soggetto agente e l'evento lesivo.

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Il codice disciplina due tipologie di reato distinguendo tra delitti e

contravvenzioni.

Il criterio distintivo è di natura formale, adottato dall'art. 39 C.P., ai sensi del

quale "I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle

pene per essi rispettivamente previsti da questo codice".

L'art. 17 c.p. aggiunge "le pene principali stabilite per i delitti sono l'ergastolo, la

reclusione e la multa; le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono l’arresto e

l'ammenda".

La distinzione tra le due categorie non è priva di rilevanti conseguenze sul piano

pratico, tra cui in particolare:

1. quanto all'elemento psicologico, salvo che la legge preveda una contravvenzione

dolosa (es.: art. 660 c.p. "molestia o disturbo alle persone"), tutte le contravvenzioni

sono punibili, sia se commesse con dolo, sia se commesse con colpa;

2. il tentativo è possibile solo per i delitti, come si evince dal tenore dell'art. 56

c.p. che recita: "chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un

delitto risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica";

3. talune circostanze del reato sono previste solo per i delitti e non anche per le

contravvenzioni.

Alcuni criminalisti hanno ricostruito la distinzione tra le due categorie di reato

discostandosi dal criterio delineato ed adottato dalla giurisprudenza per risalire ad un

criterio, invece, sostanziale.

Secondo tale impostazione sono da qualificarsi come contravvenzioni quei reati che

si compongono di azioni od omissioni contrarie all'interesse amministrativo dello Stato,

oppure rappresentano le offese meno gravi degli interessi amministrativi.

La tipicità

Per affermare l'esistenza di un fatto rilevante per l'applicazione di una pena o di

una misura di sicurezza è necessario che si tratti, prima di ogni valutazione concernente

l'antigiuridicità o la sussistenza dell'elemento soggettivo, di un fatto corrispondente a

quello descritto da una norma incriminatrice di parte speciale.

Il fatto storico diviene fatto tipico in quanto riflette, in concreto, la descrizione di

un accadimento astrattamente configurato dalla norma incriminatrice.

Tale valutazione è la conseguenza di un procedimento c.d. di sussunzione che

consiste nel riportare il fatto storico nello schema generale e astratto previsto dalla

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norma.

Prendiamo ad esempio l'art. 578 c.p. relativo al reato di "infanticidio in condizioni

di abbandono materiale e morale" il quale recita: la madre che cagiona la morte del

proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il

fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è

punita con la reclusione da quattro a dodici anni".

Valutare se il fatto verificatosi nella realtà sia corrispondente a quello descritto

nell'art. 578 c.p., e quindi effettuare il procedimento di sussunzione, significherà:

· accertare che a commettere il fatto sia stata la madre;

· che la madre abbia cagionato la morte del neonato immediatamente dopo il morto o

del feto dopo il parto;

· che il fatto sia stato determinato da condizioni di abbandono materiale e morale.

La teoria generale del reato, ai fini di una generale ricostruzione degli elementi

costitutivi il fatto tipico, ha operato una ricostruzione basata sulla combinazione delle

singole norme incriminatici di parte speciale con la normativa di parte generale.

Da tale procedimento è possibile individuare quelli che sono gli elementi che

concorrono a determinare il fatto penalmente rilevante, che la dottrina distingue in due

categorie, in quanto screma, all'interno del fatto tipico, tra fattispecie oggettivo

materiale, in cui rientrano gli elementi meramente oggettivi, e fattispecie soggettiva,

in cui si fanno convenire tutti gli elementi di ordine psichico.

Gli elementi della fattispecie oggettiva: l'autore, il soggetto passivo del reato,

l'oggetto materiale, la condotta, l'evento.

L'autore

L'autore è colui che realizza nel mondo esterno il fatto tipico di un determinato

reato, ovvero, colui che pone in essere il comportamento costituente reato.

Autore del reato può essere qualunque persona fisica, pertanto ogni persona ha

capacità penale, ovvero l'attitudine a porre in essere comportamenti rilevanti dal punto

di vista penale, senza distinzione di età, sesso o di altre condizioni soggettive.

La conseguenza di tale premessa è che l'età, le situazioni di anormalità psico-fisica

e le immunità non escludono l'illiceità penale, rilevando solo ai fini della concreta

applicabilità della pena.

La qualità di autore, per tali motivi, risulta scissa sia dal giudizio sulla colpevolezza

del soggetto che agisce, sia dalla sua punibilità in concreto.

Il minore non imputabile (non punibile stante la minore età) che sottrae un

oggetto dal banco di un supermercato o il figlio che ruba al padre (non punibile a norma

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dell'art. 649 C.P.), anche se non punibili, non per questo cessano di essere autori del

fatto tipico del furto. È possibile operare una differenziazione tra i reati a seconda

dell'autore, distinguendo tra:

· reati comuni: possono essere commessi da ogni persona a prescindere dal possesso

di specifiche qualifiche soggettive. Ad esempio nell'art. 575, relativo al reato di

"omicidio" disponendo che “chiunque cagiona...” altro non fa che configurare un reato

comune, in quanto “chiunque” può essere autore del fatto in esso descritto.

· reati propri che possono essere commessi solo da soggetti che rivestono

determinate peculiarità. È il caso del reato di falsa testimonianza, previsto dall'art.

372 c.p. il cui autore può essere solo un testimone.

Soggetto passivo

Il soggetto passivo del reato è la persona titolare del bene o dell'interesse

penalmente tutelato. Il codice parla di persona offesa dal reato. Pertanto persona offesa

del reato di lesioni personali è il ferito, del reato di omicidio la persona uccisa.

La nozione di persona offesa dal reato non coincide, però, necessariamente con

quella di danneggiato dal reato che individua, al contrario, il soggetto che subisce il

danno, patrimoniale e non, derivante dal reato e suscettibile di risarcimento. Nel furto,

ad esempio, soggetto passivo è colui che viene privato della detenzione della cosa. Ma

se il soggetto passivo è solo detentore della cosa ma non proprietario, sarà

quest'ultimo il danneggiato dal reato.

Al soggetto passivo spetta il diritto di querela, nei casi di reati punibili a querela

della persona offesa.

In tutti i reati vi è un soggetto passivo, potendo essere tali sia le persone fisiche,

sia lo Stato e la Pubblica Amministrazione, sia persone giuridiche private, sia collettività

non personificate (associazioni non riconosciute).

In base al soggetto passivo i reati si distinguono in:

· reati plurioffensivi: ledono o pongono in pericolo più beni diversi. Ne consegue

una pluralità di soggetti passivi (ad esempio, la calunnia offende nello stesso tempo

lo Stato, nel suo interesse alla regolare amministrazione della giustizia, e la persona

falsamente incolpata);

· reati vaganti: offendono un numero indeterminato di individui (ad esempio nel

reato di strage);

· reati senza vittima: in essi non è facile individuare un bene giuridico "concreto" (ad

esempio per quel che concerne la fattispecie "atti osceni" dove lesa è la moralità

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pubblica).

L'oggetto materiale dell'azione

Per oggetto materiale dell'azione si intende l'entità su cui incide materialmente la

condotta tipica. Oggetto materiale dell'azione può essere una cosa, un animale o una

persona umana e costituisce elemento che concorre a ricostruire la fattispecie tipica.

Infatti, reati come quello di furto o di rapina sono qualificati dall'oggetto materiale

che colpiscono, essendo richieste condotte tipiche che incidano su un bene altrui. Non

bisogna confondere, però, la nozione di oggetto materiale dell'azione con quella del

bene giuridico meritevole di tutela.

Ad esempio nella "violazione di sepolcro" ex art. 407 C.P., oggetto materiale è il

sepolcro violato, bene giuridico è, invece, il sentimento religioso e la pietà per i defunti.

La condotta e la coscienza e volontà dell'azione

La condotta, intesa come comportamento del soggetto attivo del reato, deve essere

tipica, ovvero deve corrispondere a quella descritta dalla norma incriminatrice speciale. I

reati possono essere commissivi, quando la condotta consiste in un comportamento

positivo, cioè in un fare (azione), oppure omissivi quando la condotta si realizza

mediante un comportamento negativo, cioè nel non fare qualcosa (omissione). L'azione

può essere costituita da un unico atto o da una pluralità di atti; in quest'ultimo caso gli

atti assumono rilevanza penale se concatenati tutti dalla medesima finalità. L'omissione

consiste nel mancato compimento dell'azione che si attendeva da una persona. La fonte

dell'obbligo di comportamento deve essere una norma giuridica. La dottrina distingue i

reati omissivi in due categorie:

- reati omissivi propri: sono reati, per la cui sussistenza è richiesta la mera

condotta, a prescindere dal verificarsi di un dato evento (ad esempio il reato di

omissione di atti d'ufficio);

- reati commissivi mediante omissione: per la loro sussistenza è necessario

che il soggetto abbia cagionato, con la propria omissione, un dato evento. È il caso della

madre che omettendo di allattare il proprio bambino ne cagioni la morte. Il

comportamento della madre, infatti, innesca un procedimento di denutrizione che se

prolungato non può che portare alla morte del bambino.

Le condotte, siano esse omissive che commissive sono, però, insufficienti alla

configurabilità del reato se non è rispettato il principio enunciato dall'art. 42, comma 1,

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c.p.: "nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge

come reato se non l'ha commessa con coscienza e volontà".

Tale principio afferma l'imprescindibilità del coefficiente psichico o "suitas" perché

possa parlarsi di condotta.

La dottrina ha definito la suitas come la riferibilità dell'atto al volere del soggetto.

"Coscienza e volontà", pertanto, indica la consapevolezza, da parte del soggetto,

dell'atto di realizzare un determinato atto.

Ciò premesso ANTOLISEI individua come condotte tipiche quelle che, pur

svolgendosi in assenza di una comprensione immediata, sono attribuibili all'agente, il

quale, con uno sforzo di volontà, avrebbe potuto evitarle (atti abituali).

Gli unici atti che, invece, si sottraggono del tutto alla signoria ed al controllo del

volere sono quelli che non possono, in alcun modo, essere impediti dal soggetto (atti

istintivi ed atti riflessi): ne costituiscono ipotesi i movimenti che il soggetto compie nel

delirio della malattia o un colpo di tosse.

Allo stesso modo la suitas risulta esclusa in altre due ipotesi: quello della "forza

maggiore" e del "costringimento fisico".

L'art. 45 c.p. recita: "non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore".

Per forza maggiore si intende ogni forza esterna in grado di coartare i movimenti di un

soggetto e a cui questo non può resistere (ad esempio una folata di vento fa cadere una

scala su cui lavora un muratore ferendo un passante).

Manca in tale ipotesi la possibilità di attribuire la condotta alla volontà del soggetto e

quindi la coscienza e volontà richiesta dall'art. 42 C.P.

L'ipotesi del costringimento fisico è disciplinato dall'art. 46 c.p. il quale così

dispone: "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto,

mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o sottrarsi. In tal caso del fatto

commesso dalla persona costretta risponde l'autore della violenza".

In tale ipotesi la dottrina ravvisa nell'autore materiale del reato un mero mezzo

utilizzato da un soggetto terzo che la legge considera responsabile del reato.

Esempio è fornito dal caso di colui che vibra un colpo mortale ad un altro soggetto

ma la propria mano è guidata da un terzo.

L'evento

La dottrina distingue tra due tipi di evento:

- l'evento in senso naturalistico che si realizza quando si ha una modificazione

della realtà esterna;

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- l'evento in senso giuridico inteso come lesione o messa in pericolo del bene

protetto dalla norma.

Da tali considerazioni deriva che è sempre richiesta, ai fini della configurazione di

un reato, la messa in pericolo o lesione di un bene.

Pertanto non sono configurabili reati senza che vi sia l'evento giuridico, in quanto

in caso contrario viene meno lo stesso intere punitivo. Possono sussistere, invece, reati

senza l'evento naturalistico: si tratta dei c.d. reati di pura condotta, ove l'ordinamento

sanziona la semplice azione od omissione senza che sia richiesta la modificazione

esterna e percettibile della realtà.

Nesso di causalità

Ai fini dell'esistenza del reato è necessario che tra la condotta e l'evento vi sia un

rapporto di causa ad effetto. Tale esigenza è espressa nell'art. 40 c.p. il quale afferma:

"nessuno può essere considerato autore del reato se l'evento dannoso o pericoloso che

lo caratterizza non è in relazione causale del suo comportamento".

L'antigiuridicità

L'accertamento dell'antigiuridicità è successivo alla verifica della tipicità del fatto,

la quale si determina, come detto in precedenza, mediante un procedimento di

sussunzione che opera riportando il caso concreto nella previsione generale ed astratta

della norma. L'antigiuridicità è definita dalla dottrina come la contrarietà del fatto

all'ordinamento giuridico considerato nel suo complesso.

Infatti, una volta verificata la corrispondenza del fatto materiale alla descrizione

generale ed astratta della norma occorre verificare il concreto disvalore dell'azione (od

omissione) accertando caso per caso la presenza di eventuali cause di esclusione della

contrarietà al diritto.

Il fatto, riprovato dal diritto si qualifica come illecito solo se è antigiuridico, ovvero

se dia esito negativo la verifica relativa l'esistenza delle ed. cause dì giustificazione, le

quali, da sole, privano ad origine il fatto del requisito dell'antigiuridicità.

Infatti, la presenza delle cause di giustificazione può, nel caso concreto, rendere

leciti fatti in altri casi illeciti.

A chiarire tale asserzione può essere utile un esempio.

L'art. 51 c.p. prevede: l'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere

imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità esclude la

punibilità. La norma in esame prevede una causa di giustificazione.

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Consideriamo ora il caso in cui Tizio sia proprietario di un fondo adiacente quello di

Caio. Se Tizio accede al fondo vicino senza alcuna autorizzazione commette un illecito. In

alcuni casi, ad esempio se tra i due fondi vi è una servitù, la condotta di Tizio perde di

illiceità in quanto opera una causa di giustificazione che priva di disvalore quell'azione.

La ratio delle cause di giustificazione è da ricercarsi nel rispetto di principio di non

contraddizione e di unità dell'ordinamento giuridico. Ogni norma permissiva, in

sostanza, viene a trovarsi in una posizione di conflitto con la norma che contiene il

divieto penalmente sanzionato.

In questo "conflitto" la norma permissiva è destinata immancabilmente a

prevalere, in quanto presenta, rispetto alla norma incriminatrice, un elemento

specializzante: essa, infatti, disciplina i casi in cui, oltre a tutti gli elementi descritti

dalla singola norma di parte speciale, sono altresì presenti quelli individuati dalla norma

permissiva.

La norma speciale prevale su quella generale. Consideriamo il caso in cui Tizio

uccida Caio dopo essere stato da questi assalito con un'arma da fuoco: la fattispecie è

quella prevista dall'art. 575 c.p. che recita "chiunque cagiona la morte di un uomo è

punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno".

Mediante il procedimento di sussunzione è possibile determinare la piena

corrispondenza del fatto con la descrizione normativa. Ma ciò non è sufficiente per poter

parlare di reato, infatti l'analisi del giurista non deve fermarsi a questa prima

valutazione, ma deve verificare la sussistenza anche del secondo elemento del reato:

l'antigiuridicità.

Infatti, per quel che concerne il caso in esame è da rilevare la presenza di una

norma l'art. 52 c.p., rientrante nel novero delle cause di giustificazione, che dispone:

"non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di

difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta,

sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa".

L'art. 52 c.p. si pone, rispetto alla fattispecie incriminatrice dell'omicidio, come

norma speciale rispetto ad una norma disciplinante un caso generale. Pertanto stante la

difesa di un diritto proprio (il bene della vita), il pericolo attuale (Caio punta la pistola

verso Tizio), l'ingiustizia dell'offesa e la proporzione della difesa con l'offesa (Caio

minaccia di uccidere Tizio), si configura l'operatività della causa di giustificazione e

la sua prevalenza sulla norma generale, l'art. 575 c.p. che si limita a disciplinare il caso

in cui "chiunque cagioni la morte di un uomo".

Se nel rapporto tra le due norme (quella generale e quella speciale) a prevalere

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fosse l'art. 575, la conseguenza diretta sarebbe che la disposizione contenuta nell'art. 52

risulterebbe inutilità data, perché mai applicabile; la sua prevalenza, nel caso in esame,

non esclude, al contrario, la validità generale del divieto di uccidere, che rimane applicabile a

tutti i casi in cui non siano presenti contemporaneamente gli elementi specializzanti la

"legittima difesa".

Infatti, la presenza della causa di giustificazione non esclude il divieto generale di

uccidere, ma esclude nel caso singolo, che il fatto rivesta i caratteri del torto

antigiuridico.

Naturalmente l'accertamento dell'antigiuridicità presuppone che si sia già

accertata l'esistenza di un fatto che presenti tutti i requisiti descritti nella fattispecie

legale di reato. Inoltre, mentre l'accertamento della tipicità avviene sulla scorta di criteri

prefissati dal diritto penale, la risposta alla domanda se quel fatto tipico sia anche un

fatto antigiuridico va invece ricercata guardando all'intero ordinamento giuridico.

La fonte delle singole fattispecie permissive, infatti, può essere rinvenuta non solo

nell'ambito del diritto penale, ma anche in altri settori dell'ordinamento, ove quelle

norme svolgono una funzione ulteriore rispetto a quella giustificativa che esse assumono

in sede penale.

Un esempio, al riguardo, è fornito dalle norme costituzionali.

La norma che riconosce il diritto di sciopero (art. 40 Cost.) ha evidentemente una

destinazione di carattere generale, che va sicuramente oltre il ruolo che essa può

svolgere nel diritto penale; in casi specifici, tuttavia, proprio l'art. 40 Cost. è fonte della

non antigiuridicità di talune condotte tipiche: per esempio, di un fatto di interruzione di

un pubblico servizio (art. 340 C.P.) che si realizza all'interno di una condotta di sciopero.

Principali cause di giustificazione

Legittima difesa: l'art. 52 c.p. recita "non è punibile chi ha commesso il fatto per

esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il

pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa".

La dottrina individua il fondamento di tale causa di giustificazione in un residuo di

autotutela delegato al privato dallo Stato, impossibilitato ad intervenire

tempestivamente. Presupposti essenziali, ai fini dell'operatività di detta causa di

giustificazione, sono:

1. il pericolo non deve essere stato determinato volontariamente dall'agente;

2. il pericolo deve essere attuale;

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3. la difesa deve essere proporzionata all'offesa.

Consenso dell'avente diritto: l'art. 50 c.p. stabilisce che "non è punibile chi lede

o pone in pericolo un diritto col consenso della persona che può validamente disporne".

Il fondamento di questa ipotesi di non punibilità va ravvisato nel venir meno

dell'interesse, da parte dell'ordinamento, alla tutela di un bene giuridico, alla cui integrità

lo stesso titolare del bene non mostra avere interesse.

Esempio può essere dato dal tossicodipendente che accetti di farsi rinchiudere a

chiave nella sua stanza per affrontare una crisi di astinenza. Per quanto attiene ai

requisiti questi vanno così delineati:

1) oggetto del consenso deve essere un diritto disponibile. Sono da ritenersi

indisponibili i diritti appartenenti alla collettività, nonché i beni dell'individuo tutelati

indipendentemente dalla sua volontà, perché riconosciuti di interesse pubblico. Per

quanto concerne l'integrità fisica vi è da dire che indisponibile è il bene della vita e che

sono vietati gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione

permanente dell'integrità fisica o siano comunque contrari alla legge, all'ordine pubblico

o al buon costume. Sono pertanto, da considerarsi disponibili i diritti patrimoniali e i

diritti della personalità (es.: onore, libertà personale, diritto di riservatezza) purché il

consenso non abbia ad oggetto il sacrificio totale del bene nel qual caso si ritiene

inefficace (tale sarebbe il caso di chi accettasse di essere segregato a vita dai familiari).

2) il consenso deve essere prestato dal titolare dell'interesse protetto, soggetto

che deve avere la capacità. Inoltre il consenso non deve essere contrario a norme

imperative, all'ordine pubblico o al buon costume.

L'esercizio del diritto: in forza dell'art. 51 c.p. "l'esercizio di un diritto o

l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo

della pubblica Autorità esclude la punibilità".

La ratio di tale disposizione va ravvisato nel principio di non contraddizione. Infatti,

se l'ordinamento riconosce al soggetto la possibilità di agire in un certo modo è

evidente che la sua condotta, nei limiti in cui è consentita, non può costituire un fatto

illecito. L'aspetto sostanziale del conflitto è insito nel fatto che l'esercizio del diritto o

l'adempimento del dovere implicano il sacrificio di un interesse diverso che, di regola, è

penalmente tutelato: esempio è il caso in cui il proprietario del fondo dominante che

esercita i diritti derivanti da una servitù di passaggio; oppure l'ipotesi in cui l'ufficiale

giudiziario asporti un oggetto pignorato; ancora l'agente di Pubblica Sicurezza che

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procede alla cattura di un latitante.

La colpevolezza

Affinché sia configurabile un reato, oltre al fatto materiale, è richiesta l'esistenza di

un nesso psichico tra il soggetto agente e l'evento lesivo. L'imputazione soggettiva del

fatto, ovvero l'attribuibilità psicologica del fatto di reato alla volontà dell'agente prende il

nome di “colpevolezza”.

La valutazione concernente la “colpevolezza” dell'autore è l'ultimo degli

accertamenti che il giudice esegue per determinare la configurabilità o meno del reato. la

stessa Costituzione, all'art. 27, ad affermare il principio di colpevolezza (nullum crìmen,

nulla poena sine culpa) quando stabilisce che la responsabilità penale è

personale. Tale principio è stato ribadito nella sentenza n. 364 del 1988 della Corte

Costituzionale che ha previsto come requisito minimo ai fini della punibilità quello della

colpa dell'agente.

Tale interpretazione viene poi a conciliare con quella che è la funzione rieducativa

della pena. Non ha alcun senso, secondo tale impostazione, andare a sanzionare

condotte scisse da qualsivoglia nesso psichico dell'agente.

Nell'ordine delle valutazioni giuridico-penali l'accertamento della tipicità e

dell'antigiuridicità del fatto necessariamente precede il giudizio sulla colpevolezza

dell'autore, in quanto la valutazione della non conformità della condotta al tipo di un

determinato reato o l'apprezzamento del valore scriminante di una causa di

giustificazione rende superflua la valutazione della colpevolezza personale dell'autore.

Si rende a questo punto necessario operare la distinzione tra contenuto e

presupposto della colpevolezza.

Con il termine “contenuto della colpevolezza” ci si riferisce alle modalità

dell'elemento psicologico. Contenuto della colpevolezza può essere il dolo o la colpa. Per

presupposto della colpevolezza si intende il requisito minimo, senza il quale non è

configurabile l'esistenza del nesso psichico.

L'imputabilità

Presupposto della colpevolezza è l'imputabilità, l'art. 85 c.p. stabilisce nessuno può

essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se al momento in cui lo ha

commesso non era imputabile.

È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere. La capacità di intendere

corrisponde alla capacità del soggetto di percepire la realtà esterna e di rapportarsi ad

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essa. Per capacità di volere, si intende la capacità di controllare i propri impulsi e di

orientare le proprie determinazioni. La ragione giustificatrice della imputabilità è da

ravvisarsi nel più ampio concetto di responsabilità umana.

In altri termini, affinché un uomo possa essere chiamato a rispondere penalmente

dei propri atti, necessario che sia in grado di rendersi conto del disvalore sociale di tali

atti.

È necessario a questo punto operare una distinzione tra la coscienza e volontà

dell'art. 42 e la capacità di intendere e di volere di cui all'art. 85 C.P.

L'art. 42 prevede uno dei requisiti essenziali affinché l'azione possa essere

considerata come condotta tipica, mentre la capacità di intendere e di volere è intesa

come capacità di valutare le proprie azioni.

Possiede la capacità di intendere e di volere chi, a causa di una crisi respiratoria,

vibra a causa degli spasmi un colpo ad un altro soggetto che tenta di soccorrerlo. Non

possiede la coscienza e volontà dell'azione in quanto non è padrone dei suoi movimenti.

L'imputabilità può essere esclusa o diminuita da alcune cause espressamente

previste dagli articoli 88 e seguenti del codice penale.

Tra le più importanti vanno menzionate:

la minore età: il legislatore presume che il raggiungimento della maturità psichica

si abbia per gradi, pertanto la minore età riduce od esclude l'imputabilità. Per il minore di

anni quattordici vige la presunzione assoluta2 di assenza di capacità di intendere e di

volere. Al contrario, nel periodo che va dai quattordici ai diciotto anni non esiste alcuna

presunzione né di capacità né di incapacità, ma è il giudice che deve accertare caso per

caso l'imputabilità del soggetto (artt. 97 e 98 c.p.).

Il minore non imputabile non può essere assoggettato a pena in quanto non in

grado di riconoscere e comprendere il disvalore delle proprie azioni od omissioni. Il

giudice, però, tenuto conto delle particolare gravità del fatto, nonché delle condizioni

sociali e familiari del minore, può applicare la misura di sicurezza del ricovero in

riformatorio giudiziario o quella della libertà vigilata;

l'infermità di mente: per infermità si intende uno stato patologico che turba la

psiche del soggetto.

Il codice penale, agli articoli 88 ed 89, fa riferimento all'infermità, nel senso che il

vizio di mente deve essere la conseguenza di una malattia, eventualmente anche fisica

ma tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere. Non è necessario che tale

stato sia duraturo essendo sufficiente che esso sussista al momento della commissione

del fatto.

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Si richiede che fra la malattia ed il reato sussista un vero e proprio nesso di causa

ad effetto. Tale nesso di causalità è escluso, ad esempio, per le ed. monomanie, che si

hanno quando l'alterazione psichica è relativa solo ad alcune sfere della psiche, ed il

fatto costituente reato non è conseguenza diretta di quell'alterazione. Un esempio può

essere fornito dal caso del soggetto che soffre di manie di persecuzione; questo non

sarà imputabile nel caso in cui uccida il presunto persecutore, ma lo sarà nel caso ad

esempio in cui commetta un furto.

Inoltre il vizio di mente può essere totale o parziale. Si ha vizio totale di mente

quando lo stato di alterazione mentale è tale da comportare una assoluta mancanza di

capacità di intendere e di volere. Il vizio parziale di mente sussiste quando la capacità

di intendere e di volere è grandemente scemata, in misura tale da ridurre le capacità di

discernimento del soggetto (artt. 88 e 89 c.p.). La conseguenza del vizio totale di mente

è il proscioglimento dell'imputato stante la sua non imputabilità; sarà poi il giudice a

disporre le misure di sicurezza che ritiene più idonee. Conseguenza del vizio parziale di

mente è, al contrario, la semplice diminuzione della pena;

l'ubriachezza: il legislatore ha considerato che l'uso di sostanze alcoliche possa

incidere sulla psiche del soggetto e quindi sulla sua imputabilità. Peraltro, la disciplina

relativa all'uso di sostanze alcoliche è applicata anche al caso di uso di sostanze

stupefacenti.

È considerata, però, causa di esclusione dell'imputabilità solo l'ubriachezza

accidentale, non essendo infatti esclusa o diminuita l'imputabilità nel caso di ubriachezza

abituale, di ubriachezza dolosa o colposa o di ubriachezza preordinata.

L'ubriachezza accidentale si configura quando la perdita della capacità di

autocontrollo è determinata o da un fattore del tutto imprevedibile non determinato dal

soggetto (caso fortuito) o da una forza esterna inevitabile ed invincibile cui non si può

opporre alcuna resistenza (forza maggiore). Si ha caso fortuito, ad esempio, quando il

soggetto, lavorando in una distilleria, rimanga ubriaco a causa dei fumi dell'alcool. Si ha

forza maggiore quando, ad esempio, il soggetto sia legato e gli vengano somministrati

stupefacenti.

Se l'ubriachezza è tale da escludere totalmente la capacità di intendere e di volere

l'imputabilità è esclusa; se, al contrario, lo stato di ubriachezza limita tale capacità ma

non la esclude al soggetto è erogata una sanzione minore.

L'ubriachezza colposa, ovvero quella determinata da negligenza o imprudenza non

esclude né diminuisce l'imputabilità.

L'ubriachezza preordinata costituisce, al contrario, un'aggravante del reato, in

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quanto lo stato di ubriachezza è provocato al fine di ottenere una scusa per la

commissione del reato. In quanto tale, la conseguenza è un aumento della pena.

L'ubriachezza abituale presuppone che il soggetto abbia la consuetudine di fare un

uso eccessivo di sostanze alcoliche e quindi si trovi frequentemente ubriaco.

Si fa luogo ad un aumento di pena e se il soggetto è ritenuto socialmente

pericoloso il giudice dispone il ricovero in una casa di cura.

Il contenuto della colpevolezza: dolo e colpa

Dolo.

Il concetto di dolo è definito dall'art. 43, comma 1, c.p., il quale recita: “Il delitto è

dolo, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato

dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è

dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.

Come tale il dolo risulta essere composto da due elementi:

· un momento rappresentativo: occorre che l'agente abbia la visione anticipata di tutti

gli elementi significativi del fatto che costituisce reato;

· un momento volitivo: occorre che la volontà dell'agente sia rivolta all'effettiva

realizzazione della condotta e dell'evento ad essa conseguente.

Oggetto del dolo è il fatto tipico costitutivo di reato. Pertanto rientrano nella

previsione e volontà:

· l'azione od omissione, che deve essere preveduta e voluta;

· gli elementi normativi del fatto: ovvero quegli elementi che debbono essere valutati

in base ad altre norme: così "l'altruità del bene" deve essere determinata sulla scorta

della norma civilistica che attribuisce la proprietà della cosa;

· le cause di giustificazione: non è necessario che il soggetto sappia che non vi è

alcuna causa di giustificazione ma è sufficiente che egli non creda che vi sia una

causa di giustificazione;

· gli elementi che qualificano la condotta: ad esempio le caratteristiche del soggetto

passivo (es. lo stato di gravidanza nel procurato aborto);

· l'evento naturalistico, inteso come modificazione della realtà esterna, laddove

previsto ai fini della sussistenza del reato;

· l'evento giuridico, inteso come lesione o messa in pericolo del bene protetto;

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· il nesso di causalità tra la condotta e l'evento: è sufficiente che il soggetto si

rappresenti il decorso causale nei suoi tratti essenziali, rilevanti per la configurabilità

del reato (ad es. se un soggetto colpisce una persona con un corpo contundente per

ucciderla e questa muore ma non per il colpo bensì perché l'urto la spinge al di là di

una balaustra che si affaccia su un baratro).

Le varie classificazioni del dolo

1) La dottrina opera una prima classificazione distinguendo tra dolo diretto e dolo

indiretto. Il dolo diretto od intenzionale si configura quando l'evento è corrispondente a

quello voluto e rappresentato dall'agente.

Il dolo indiretto si configura quando il risultato conseguente alla condotta, anche se

rappresentato, non è stato dall'agente direttamente ed intenzionalmente voluto. L'unica

ipotesi di dolo indiretto è il dolo eventuale che ricorre quando l'agente prevede un

determinato evento come possibile conseguenza della propria condotta ed agisce

accettando il rischio del suo verificarsi. Esempio di scuola è fornito dal caso del soggetto

che incendi il proprio stabile per riscuotere l'assicurazione nonostante abbia previsto la

possibilità che qualcuno rimanga ferito;

2) Una seconda ripartizione è posta tra dolo d'impeto e dolo di proposito. Il dolo

d'impeto si ha quando la condotta è la conseguenza di una decisione improvvisa, senza

che intercorra un lasso di tempo tra momento conoscitivo e momento volitivo. Al

contrario il dolo di proposito presuppone il trascorrere di un congruo lasso di tempo tra

il momento in cui sorge l'idea criminosa e il momento in cui essa è posta in essere;

3) La dottrina distingue anche tra dolo di danno e dolo di pericolo. Tra le due

tipologie si distingue a seconda se la volontà del soggetto era diretta a ledere il bene

giuridico protetto o minacciarne l'integrità;

4) Ulteriore distinzione si ha tra dolo generico e dolo specifico. Si ha il dolo generico

quando la legge richiede la semplice coscienza e volontà del fatto descritto nella norma

incriminatrice. Il dolo specifico si ha quando la legge richiede che la volontà sia

orientata ad un fine particolare oltre il fatto materiale tipico. Ad esempio nell'art. 624

c.p. il fine di trarre profitto dalla cosa sottratta è insito nel furto.

Colpa.

La definizione di colpa è fornita dall'art. 43 c.p. che così recita: "il delitto é colposo,

o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si

verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi,

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regolamenti, ordini o discipline".

Al contrario di quanto accade nel dolo, pertanto, nella colpa manca la volontà

dell'evento. Nel reato colposo la condotta consiste nella violazione di regole di diligenza.

Tale regola è di natura empirica, ovvero dettata dall'esperienza (ad esempio dalla

pericolosità delle sostanze esplosive deriva la regola di diligenza di maneggiarle con

cura). Ne consegue che le regole di diligenza possono avere diverse fonti giuridiche in

quanto oltre ad essere dettate da norme giuridiche sono, nella maggior parte dei casi,

frutto di consuetudini. Per quel che concerne il contenuto dell'obbligo di diligenza, questo

può consistere:

- nell'obbligo di informarsi: così il consulente di una banca deve accertarsi delle

condizioni di mercato prima di consigliare un prodotto finanziario al cliente;

- nell'obbligo di agire con cautela: così chi guida un veicolo deve agire in modo

da tutelare l'incolumità dei passeggeri e degli altri automobilisti;

- nell'obbligo di astenersi dall'agire: cosi l'automobilista se avverte stanchezza o

sonno deve astenersi dal guidare.

L'art. 43 distingue, inoltre, le forme di manifestazione della condotta colposa:

· la negligenza consiste nella mancata adozione delle cautele imposte dalle regole

cautelari, è mancanza di attenzione o trascuratezza (tale è il caso del medico che

provochi la morte del paziente per non avere, prima di un intervento, provveduto a

sterilizzare i ferri);

· l'imprudenza consiste nell'agire quando le regole cautelarti lo sconsigliano, è

avventatezza, insufficiente ponderazione ed implica una scarsa considerazione degli

interessi altrui (esempio è dato da colui che per impennare con il motorino investa

accidentalmente un passante);

· l'imperizia si fonda sull'inosservanza delle norme tecniche imposte da una

determinata professione, arte o mestiere per ignoranza della loro esistenza,

inattitudine ad applicarle o semplice in applicazione concreta (ad esempio quando il

chirurgo comune tenta un'operazione d'avanguardia);

· l'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o disciplina consta della violazione di

norme giuridiche od ordini di servizio contenenti prescrizioni di cautela (ipotesi è il

caso in cui non siano rispettate le norme antincendio nella realizzazione di una

struttura ospedaliera).

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IL SISTEMA SANZIONATORIO

La Pena

Una volta che sia accertata la commissione di un reato da parte di un determinato

soggetto, al diritto penale non resta che individuare le conseguenze da riconnettervi. Il

riconoscimento in capo ad una persona di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole

(reato), comporta inevitabilmente una reazione da parte dello Stato volta a punire la

commissione dello stesso. A tale reazione consegue normalmente l'applicazione di una

sanzione chiamata pena, ma anche la possibilità dell'applicazione di sanzioni

alternative: le misure di sicurezza e le misure di prevenzione.

La pena è un castigo, una sofferenza che viene inflitta dall'autorità giudiziaria a

colui che viola un comando; l’afflittività è il vero carattere della pena, una pena non

afflittiva costituirebbe infatti una contraddizione in termini. Dal punto di vista

sostanziale la pena consiste in una privazione o diminuzione di un bene individuale, che

negli Stati moderni è costituito dalla vita (pena capitale), dalla libertà personale

(reclusione) e dal patrimonio (sanzione pecuniaria).

Può pertanto essere definita come una diminuzione della libertà personale o

patrimoniale comminata dalla legge e irrogata dall'Autorità giudiziaria (giudice)

mediante processo a colui che viola un comando della legge stessa.

Tale definizione può essere completata dall'individuazione dei suoi caratteri

essenziali:

1) personalità, essa colpisce soltanto l'autore del reato, l'articolo 27 della

Costituzione recita: "la responsabilità penale è personale".

2) legalità, la sua applicazione è rigorosamente disciplinata dalla legge, cioè è

inflitta solo nei casi e nei modi previsti dalla legge.

3) proporzione, essa deve essere proporzionata al reato commesso;

4) inderogabilità, la pena, una volta minacciata per un determinato fatto, è

sempre applicata all'autore della violazione.

Se mancassero questi caratteri verrebbe meno la stessa efficacia della pena (cioè

essa non servirebbe a svolgere la sua funzione): si pensi ad una sanzione non applicata

direttamente al responsabile del reato, e quindi non personale; oppure si pensi

all'applicazione di una pena inflitta da qualcuno che non sia lo Stato e senza quindi il

rispetto delle regole di legge (verrebbero meno una serie di garanzie che tutelano tutti i

cittadini). Si pensi anche all'ipotesi di una sanzione sproporzionata rispetto al fatto

commesso, (troppo bassa per un reato molto grave oppure altissima per un fatto

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scarsamente lesivo). Infine una pena che, una volta minacciata non venisse applicata,

correrebbe il rischio di non “impaurire” più nessuno, con la conseguenza che la sua

funzione di deterrenza alla commissione dei reati verrebbe totalmente meno.

Si è parlato nella definizione di una diminuzione della libertà che viene applicata da

un Giudice mediante un processo; orbene, la presenza di un giudice e di una struttura

processuale (quindi regolata da leggi uguali per tutti) per l'applicazione di una pena

costituiscono elementi indefettibili, ineliminabili per la punizione di un reo. Il diritto

penale moderno non può prescindere da una serie di garanzie che tutelino la persona

umana all'atto dell'applicazione di una sanzione.

Oggi la funzione del Giudice è quella di essere soggetto terzo ed imparziale tra le parti,

che non si approccia al processo essendosi già formato l'idea di colpevolezza o meno del

soggetto di cui giudicherà l'operato.

Il meccanismo processuale allo stesso modo è strutturato in maniera da prevedere

una serie di norme che non permettano l'applicazione di una pena non giusta o peggio ad un

soggetto che non la merita.

Si può obiettare, giustamente a questo punto, che in un tale sistema la presenza di

tutte queste garanzie può essere la causa di tanti reati impuniti; ciò è sicuramente vero,

tuttavia dal momento che non è umanamente possibile avere la certezza di raggiungere

la verità assoluta circa la colpevolezza o meno di un soggetto, si ritiene più giusto scegliere il

male minore. Tra il punire un innocente in quanto lo si è lasciato sfornito di garanzie e

lasciare libero un delinquente perché quelle stesse garanzie lo hanno scagionato, il male

minore è certamente propendere per quest'ultima possibilità.

Le funzioni della pena

Da quanto si è fin ora detto si è accertato che avere una pena giusta,

proporzionata e certa costituisce una esigenza sentita da tutta la collettività. È importante a

questo punto chiedersi quali sono le finalità che una pena deve perseguire per essere sentita

come giusta, proporzionata e certa.

Quando si parla di funzioni della pena, si parla proprio delle finalità che essa persegue,

degli scopi che mira a realizzare, degli effetti che produce. Scegliere tra i diversi scopi

possibili da far perseguire alle pene costituisce un'operazione importante, in quanto è da

questi che discende il grado di accettazione che di esse i consociati avranno.

Infatti, una sanzione che non fosse sentita come giusta dalla collettività non avrebbe

senso; la pena deve essere accettata dai cittadini e deve essere vista come lo strumento

che mira ad evitare la commissione di fatti illeciti (reati).

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In definitiva, la scelta è tra una pena che persegua uno scopo fine a se stesso, cioè

la punizione e basta, ed una pena che invece mira a punire non tanto perchè ciò è

giusto, ma quanto perché tale punizione abbia uno scopo ulteriore: la risocializzazione

del reo nella collettività.

Il fine primario che la sanzione penale (pena) deve raggiungere è dunque quello di

risocializzare, di reinserire nella società il soggetto che ha commesso un reato. È

necessario che la pena svolga quindi una funzione ri-educante, che riporti il reo (colui

che ha commesso il reato) nella società "ripulito" da quelle condizioni che lo hanno

portato a delinquere.

La pena poi non svolge solo la funzione di rieducare il reo a condotte di vita più

lecite, ma mira anche ad evitare che soggetti "puliti", cioè che non hanno mai commesso

reati, li commettano. In che modo svolge questa funzione? Con la sua stessa presenza:

il fatto di sapere che esiste un sanzione comminata per chi tiene una determinata

condotta, evita già che molti tengano quella condotta.

La pena quindi svolge anche la funzione di educare i consociati a tenere condotte

lecite e rispettose degli altri, quindi svolge anche una funzione di prevenzione dei reati.

La funzione retributiva e preventiva della pena

Le teorie che si sono contese il campo sull'individuazione delle finalità che la pena

deve perseguire sono sostanzialmente due: quella retributiva e quella preventiva.

La scelta tra una finalità di punizione fine a se stessa (punire e basta), e quella di

punizione per il raggiungimento di altro scopo (punire per risocializzare il reo), è anche la

scelta tra la funzione retributiva e quella preventiva della pena.

Retribuire significa compensare, con la pena si compensa appunto il male

realizzato attraverso la commissione del reato. Per le teorie legate alla retribuzione,

denominate anche del corrispettivo, la pena non è che una ricompensa: il reo ha violato

una legge e per questo merita un castigo, il corrispettivo della sua violazione è

l'applicazione della pena.

Per i sostenitori di questa tesi è un'esigenza propria della natura umana quella di

ricambiare il male fatto con altro male, così come il bene al contrario merita un premio

(altro bene). La caratteristica migliore che questa teoria riesce a realizzare è quella della

proporzione tra l'entità della sanzione e la gravità dell'offesa arrecata. Retributive sono

per esempio le ed. “pene choc” utilizzate in U.S.A., cioè le sanzioni esemplari che

servono a creare timore negli altri consociati ed a farli desistere dalla commissione dello

stesso reato. Queste pene, come si vede, non si interessano minimamente di

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risocializzare il reo, ma di punirlo per il male fatto e contemporaneamente di rendere

pubbliche agli altri le conseguenze in cui incorrerebbero se commettessero lo stesso

reato.

L'idea opposta a quella di retribuzione fa riferimento alla prevenzione: il fatto che

sia prevista una pena nel caso si commetta un determinato reato, mira a prevenire che

lo stesso venga commesso. Infatti, una volta che i cittadini sanno dell'esistenza di una

sanzione ricollegata ad un determinato comportamento, si asterranno dal tenerlo.

La teoria preventiva si distingue in generale e speciale, a seconda che spieghi le

proprie finalità verso l'intera collettività o nei confronti di un singolo individuo.

Si parla infatti di funzione "generalpreventiva" della pena quando questa incide

psicologicamente sui consociati condizionandone gli atteggiamenti e facendoli dissuadere

da pensieri criminosi. Come si vede la presenza di una pena svolge la funzione di

prevenire la commissione dei reati, in quanto fa si che psicologicamente i cittadini,

conoscendola, si astengano dal commetterli. Pertanto funzione “generalpreventiva”

significa condizionare con l'esistenza stessa della pena l'atteggiamento della

collettività in senso favorevole ad un comportamento lecito. La funzione

"generalpreventiva" ha sicuramente il risvolto negativo costituito dal raggiungimento di

risultati di tipo intimidativo - deterrente, ma contemporaneamente svolge anche una

finalità positiva: orienta gli stessi verso condotte di vita più corrette (effetto

criminalpedagogico della pena).

Funzione "specialpreventiva" della pena significa sempre una funzione che mira a

prevenire la commissione dei reati, ma non da parte di tutti i cittadini, ma da parte dei

soli cittadini che hanno già commesso un reato. È una funzione di prevenzione dalla

commissione di nuovi reati da parte di soggetti che si sono già macchiati di atti illeciti

(reati).

Un soggetto che è già stato punito per esempio con la pena di 10 anni per il reato

di rapina, dovrà essere stato rieducato in quei 10 anni in modo tale da aver compreso i

suoi errori e da non ripeterli. Ha come aspetto negativo, sempre quello della

intimidazione, (della paura di agire liberamente) però individuale dell'autore, mentre

positivamente svolge una funzione di recupero sociale dello stesso, (in carcere ad

esempio gli si dovrebbe far capire la gravità dei suoi comportamenti). Quindi la funzione

di prevenzione generale incide su tutti i consociati: i cittadini conoscendo l'esistenza di

una pena, eviteranno di tenere quel comportamento a cui la stessa è legata; è in tal

senso che la pena svolge una funzione di prevenzione per il futuro.

La prevenzione speciale incide invece sul singolo soggetto autore di un reato, con

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essa la pena mira a prevenire la possibilità che quello stesso soggetto incorra

nuovamente in una violazione penale. A questo punto una lettura del 3° comma

dell'art. 27 della Costituzione può agevolmente indicarci qual è la teoria della pena più

rispondente ai valori del nostro ordinamento. "Le pene non possono consistere in

trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del

condannato".

Mentre la teoria retributiva implica una funzione di mera compensazione della pena

e non svolge alcuna finalità rieducativa, perché non si interessa di quelle finalità che

vanno al di la della sola punizione, le teorie preventive, tendendo ad orientare il singolo

o la collettività per il futuro, svolgono una funzione più coerente con la finalità di

rieducare il condannato e di risocializzarlo. Infatti, incidendo sul suo aspetto psicologico e

facendolo desistere dalla commissione di reati o di altri reati, lo educa o rieduca ad uno

stile di vita fatto di legalità.

La funzione di orientamento culturale della pena è quindi la più rispondente ai

moderni principi costituzionali.

Commisurazione ed estinzione delle pene

Normalmente né il codice né le altre leggi penali stabiliscono per ogni reato una

pena fissa, infatti sia per qualità (arresto, multa, ammenda, ergastolo, reclusione), che

per quantità, viene riservato un certo margine di discrezionalità al saggio

apprezzamento del giudice.

Le principali differenze delle misure in questione con le pene possono essere

individuate nel fatto che, mentre queste ultime sono fisse, le misure di sicurezza sono

indeterminate, dovendo per loro stessa natura cessare solo col venir meno dello stato di

pericolosità della persona. Ulteriore differenza sta nel fatto che le misure di sicurezza si

applicano anche a soggetti non imputabili (ad es. infermi di mente), purché ritenuti

socialmente pericolosi.

Perché possa essere applicata una misura di sicurezza è necessario che ricorrano

due condizioni: la commissione di un fatto previsto dalla legge come reato e la

pericolosità sociale del reo. Il Codice Penale individua tre categorie di delinquenti

socialmente pericolosi: il delinquente abituale, il delinquente professionale e il

delinquente per tendenza.

Per quanto riguarda la durata si è già accennato all'indeterminatezza delle misure

di sicurezza, ciò si spiega se si considera che la loro funzione è quella di controllare la

pericolosità sociale di un soggetto, pertanto solo quando questo abbia cessato di essere

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pericoloso è possibile revocare le misure applicate.

Le misure di sicurezza si distinguono in personali e patrimoniali, le personali a

loro volta in detentive e non detentive.

Un accenno meritano poi le misure di prevenzione: si tratta di provvedimenti che

possono essere applicati a soggetti per i quali si ritenga, sulla base di elementi di fatto,

una loro abituale condotta di vita non irreprensibile. In particolare si applicano a coloro i

quali si ritenga vivano con proventi di attività delittuose, siano dediti a traffici illeciti e

mettano in pericolo l'integrità di minori o la sicurezza pubblica. In epoche recenti tali

misure sono state utilizzate come importante strumento di lotta contro la criminalità

organizzata, come ad esempio con la legge dedicata alle disposizioni contro la mafia, o

come strumento da applicare a soggetti politicamente pericolosi.

Questa scelta lasciata al giudice non è però una violazione del principio di

tassatività e determinatezza in quanto il fondamento dell'articolo 132 C.P., che prevede

tale potere discrezionale, va ricercato nell'impossibilità di predeterminare in astratto le

diversificate varietà di realizzazione del singolo episodio criminoso.

Inoltre la delega al giudice si rende necessaria anche per rispondere meglio alla

finalità, propria della prevenzione speciale, di individualizzare il più possibile la pena.

Secondo l'articolo 132 il giudice può orientarsi nella scelta della specie di pena da

applicare quando questa alternativa gli è consentita dalla legge (ad es. punire con la

reclusione o, alternativamente con la multa); può altresì orientarsi nella fissazione della

quantità della pena, che è normalmente già stabilita fra un limite minimo e un limite

massimo in ogni norma, (es. ... è punito con la reclusione da 3 a 10 anni). Nell'esercizio

di questo potere discrezionale, il giudice deve tener conto anche secondo l'articolo 133,

sia della gravità del reato, sia della capacità a delinquere del colpevole.

Una volta inflitta secondo i criteri descritti, la pena non è detto che venga

necessariamente espiata; il Codice Penale infatti ne contempla una serie di ipotesi

estintive. Alcune sono legate al decorso del tempo, la prescrizione della multa

interviene ad esempio dopo dieci anni, quelle dell'arresto e dell'ammenda dopo cinque

ecc, altre sono frutto di provvedimenti di clemenza, come l’indulto e la grazia. Altre

ancora conseguono alla constatazione di un'avvenuta risocializzazione, come ad esempio

la liberazione condizionale, infine la morte del reo è una causa di estinzione della

pena che risponde ad una logica fin troppo ovvia.

Misure di sicurezza e misure di prevenzione

L'introduzione delle misure di sicurezza ha assolto principalmente alla funzione

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di integrare il sistema tradizionale delle pene nei casi in cui queste non sono applicabili o

dove, pure essendo applicabili, non sono reputate sufficienti per prevenire nuovi reati.

Le misure di sicurezza possono essere definite come provvedimenti intesi a

riadattare il delinquente alla vita libera sociale promovendone l'educazione e

mettendolo comunque in condizione di non nuocere. Costituiscono quindi mezzi di

prevenzione individuale della delinquenza, tendono cioè a difendere l'ordinamento

contro il pericolo che determinate persone possano commettere dei reati.

Il D. Lgs. N° 231/2001

Il primo passo verso la responsabilità penale delle persone giuridiche?

Dal 4 luglio 2001 è in vigore il D. Lgs. 8 giugno 2001 n. 231 in tema di

“responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni

anche prive di personalità giuridica”.

Si tratta di un intervento normativo che sancisce un cambiamento di rotta rispetto

al passato in tema di riconoscimento della responsabilità penale anche alle persone

giuridiche. È infatti il primo intervento del legislatore italiano che, sia pur in modo non

diretto, esclude la totale vigenza del brocardo "Societas delinquere et puniri non potest",

che ha costituito un “dogma” per lungo tempo indiscusso nel panorama penale italiano.

Com’è noto, il sistema italiano non era dotato di alcuna normativa che punisse

penalmente soggetti non "antropomorficamente" considerati; le disposizioni di cui agli

articoli 196 e 197 del Codice Penale confermano esattamente l'esclusione della

responsabilità penale delle persone giuridiche. In essi, si prevede una responsabilità per

l'ente solamente sussidiaria ed eventuale, quindi indiretta ed a carattere espressamente

civile. La disciplina contenuta in tali articoli, infatti, non lascia dubbi sulla esclusione

della responsabilità penale: le obbligazioni sussidiaria e solidale, contenute negli articoli

in oggetto, sono infatti espressamente civili.

L'opinione dominante perviene alla conclusione che, l'attribuzione all'ente di un

obbligo di garanzia non avrebbe senso se la persona giuridica potesse considerarsi

soggetto attivo del reato. Conferme di ciò sono, tanto la misura intrinsecamente civile

riconosciuta alla sanzione sussidiaria di cui all'art. 197, tanto l'inciso di cui all'art. 196 "e

delle quali non debba rispondere penalmente".

L'introduzione del Decreto in questione è stata accompagnata da un coro di voci

critiche, o quantomeno scettiche sulla compatibilità di una tale responsabilità con i

principi costituzionali o i dogmi penali; mentre altri l'hanno salutata come un atteso,

seppur tardivo, strumento di lotta per fronteggiare la sempre più dilagante criminalità

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d'impresa. Si parla di intervento tardivo, in quanto molti paesi si erano già da tempo

dotati di strumenti legislativi simili, tant'è che l'introduzione in Italia di tale apparato

normativo è sicuramente imposto da inputs comunitari ed internazionali.

La discrasia tra denominazione e contenuto

Il legislatore nell'introdurre la responsabilità degli enti, l'ha qualificata come

“amministrativa”; fin qui non ci sarebbe nulla di strano se, l'approfondimento del

contenuto del Decreto Legislativo non dimostrasse che la stessa è in realtà una vera e

propria responsabilità penale.

Un primo importante argomento di discussione in dottrina, in merito al D. Lgs. N.

231/01, trae spunto proprio dallo scostamento tra la denominazione della responsabilità

in esso indicata e la sua reale natura. La qualifica di “amministrativa” della

responsabilità sarebbe giustificata, probabilmente, dalla volontà di allontanare ogni

sospetto di incostituzionalità del nuovo impianto normativo per violazione dell'art. 27

della Costituzione. Il primo comma dell'articolo 27 della stessa sancisce che la

responsabilità penale è personale, l'estendere , quindi, il coinvolgimento penale anche a

soggetti che “persone” non sono, (almeno da un punto di vista naturalistico e

tradizionale) significava prendere posizione nel dibattito circa il significato da attribuire al

termine “personale” nell’articolo 27 della Costituzione. Significava cioè aprire un

dibattito di carattere costituzionale, che avrebbe amplificato eccessivamente i termini del

problema.

Un'altra ragione per cui il Governo non ha riconosciuto ufficialmente come penale la

responsabilità creata nel Decreto in questione, probabilmente è costituita dalla precisa

volontà di evitare di introdurre un principio tanto innovativo, senza prima preparare il

terreno ad una sua graduale accettazione. La mancanza di coraggio nell'introdurre

nettamente la responsabilità penale delle persone giuridiche, si giustifica proprio con la

necessità, molto saggia, di preparare gli operatori del diritto lentamente ad un

cambiamento tanto importante.

Analizziamo ora gli elementi che ci conducono a ritenere di carattere penale

l'essenza del Decreto: innanzitutto la tipologia di illeciti che vengono trattati è costituita

da reati, sono presenti inoltre molti caratteri tipici del diritto penale, ma soprattutto la

lettura del capo III del Decreto costituisce, per larghi tratti, una pedissequa

riproduzione del Codice di Procedura penale.

Il Giudice chiamato a decidere su questi illeciti è quello penale, l'iniziativa per

aprire il procedimento di accertamento degli illeciti è lasciata all'attività del Pubblico

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Ministero (come avviene nel diritto penale), gli enti ed i soggetti con essi incriminati

sono sottoposti a tutte le garanzie e le “regole” propri degli indagati e degli imputati, è

possibile infine sottoporre gli enti allo stesso processo penale a cui sono sottoposte

eventualmente le persone fisiche che hanno materialmente commesso il reato.

Appurato quindi che, l'etichetta del Decreto parla di responsabilità amministrativa,

mentre il contenuto dello stesso è spiccatamente penale è possibile affermare che il

legislatore abbia dato vita ad vero e proprio teriium genus, ad una categoria cioè

intermedia tra il diritto penale e quello amministrativo.

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La struttura del D. Lgs. N. 231/01

Nel dare esecuzione alla legge-delega, il Governo ha plasmato l'apparato

normativo su di una serie di principi che tenessero conto delle peculiarità di carattere

soggettivo che la materia su cui si legiferava presentava.

Cioè, ha tenuto conto delle oggettive difficoltà riconosciute storicamente

all'estensione di una responsabilità, (non civile e nemmeno propriamente amministrativa)

alle persone giuridiche. Ha quindi riconosciuto, sulla base di concetti come quello di

“interesse” e di “vantaggio”, una responsabilità all'ente per fatti commessi

concretamente da persone fisiche, dando rilievo al particolare legame intercorrente tra la

persona giuridica e quella fisica.

Il Decreto Legislativo è stato strutturato percorrendo la seguente logica:

· È stato prima individuato il tipo di responsabilità disciplinato nella legge,

ufficialmente denominato come “responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi

dipendenti da reato”.

· Sono poi stati precisati i soggetti a cui è riconosciuta tale responsabilità (art. 1), che

sono costituiti dagli enti forniti di responsabilità giuridica, dalle società e dalle

associazioni anche prive di personalità giuridica.

· È stato poi precisato che questo tipo di responsabilità non è estesa allo Stato, agli

Enti Pubblici Territoriali, agli altri Enti Pubblici non economici e a quelli che svolgono

funzioni di rilievo costituzionale.

Nel Decreto in questione gli articoli 2 e 3 riprendono il contenuto degli articoli 1 e 2

del Codice Penale, che esprimono rispettivamente il principio di legalità e quello della

successione di leggi nel tempo.

Poi si passa all'individuazione dei soggetti persone fisiche che possono commettere

i reati previsti dallo stesso Decreto nell'interesse dell'ente.

Si individuano degli strumenti di cui l'ente può dotarsi per restare immune dalla

responsabilità di cui sopra, anche nel caso di commissione di reati da parte di soggetti ad

esso legati.

Gli articoli 9 e seguenti sono poi dedicati all'indicazione delle sanzioni previste nei

caso venisse accertata questa responsabilità, per i reati previsti dagli articoli 24 e 25 del

Decreto. Inoltre, la parte finale dello stesso individua le norme preposte alla fase di

accertamento e di applicazione delle sanzioni; cioè la fase in cui un Pubblico Ministero

stimolerà un procedimento, quello penale, per poi passare eventualmente ad innescare

un processo dinanzi ad un Giudice, quello penale, con tutte le caratteristiche proprie di

un processo penale.

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Come si vede, la struttura del Decreto Legislativo n. 231/01 è molto chiara e

lineare nel sottoporre i soggetti indicati ad un regime di responsabilità, amministrativa

rectius penale, per la commissione di certi reati; in particolare è tutta la fase del

procedimento di accertamento ed applicazione delle sanzioni che non lascia dubbi sul

carattere prettamente penale di tale responsabilità.

Il cuore della disciplina contenuta nel D. Lgs. N. 231/01

Non v'è dubbio che la disciplina contenuta negli articoli 5, 6, 7, 8 e 9 del Decreto

231/01 costituisca il cuore, l'asse portante, l'aspetto centrale dello stesso. È in tali

articoli che si concentra la vera essenza del tipo di responsabilità “costruita” con tale

legge, che si individuano le persone fisiche che possono commettere il reato in virtù

delle particolari posizioni rivestite all'interno dell'ente ed è in tali articoli che si evidenzia

il legame tra esse e la persona giuridica.

Nell'articolo 5 rubricato “responsabilità dell'ente”, si risponde alla domanda pratica

del quando gli enti, così come individuati, possono considerarsi responsabili secondo la

nuova legge. Innanzitutto i reati indicati nello stesso Decreto devono essere commesso

nell'interesse o a vantaggio dell'ente; cioè, è necessario che le persone fisiche che lo

commettono, lo facciano facendo scaturire un concreto vantaggio per la persona

giuridica, o al massimo per essa e per loro stesse. È invece esclusa la responsabilità

dell'ente in tutti i casi in cui i reati di cui agli articoli 24 e 25 del Decreto siano

commessi dai soggetti indicati nell'articolo 5, nell'esclusivo loro vantaggio o al massimo

a favore di terzi.

Quali sono i soggetti persone fisiche che possono commettere i reati? L'articolo 5

individua due categorie di soggetti che, in virtù delle qualifiche assunte all'interno

dell'ente, possono agevolmente commettere i reati previsti. Si individuano da un lato, i

soggetti posti in “posizione apicale”, e cioè:

a) chi esercita funzioni di rappresentanza dell'ente;

b) chi esercita funzioni di amministrazione o di direzione dell'ente;

c) chi esercita le suddette funzioni presso una unità organizzativa dell'ente dotata di

autonomia, per es. il direttore di uno stabilimento;

d) chi esercita la gestione e il controllo dell'ente anche di fatto, per es. l'amministratore

di fatto.

Si tratta come si vede, di soggetti che assumono funzioni chiave all'interno

dell'organigramma della persona giuridica e che per questo possono più agevolmente

commettere il reato.

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Si individua poi un'altra categoria di soggetti che pure possono, nel caso in cui

tenessero delle condotte criminose, far scaturire la responsabilità dell'ente:

si tratta dei soggetti posti in posizione non apicale, di chi si trovi cioè, sottoposto

alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti appartenenti al primo gruppo.

Ricapitolando, la responsabilità dell'ente sorge se uno dei reati previsti negli artt.

24 e 25 del Decreto viene commesso da uno dei soggetti appartenenti alle due

categorie sopra indicate, nell'esclusivo interesse o vantaggio dell'ente, (o al massimo

nell'interesse o vantaggio dell'ente e della persona fisica che lo ha commesso).

Negli articoli successivi del Decreto Legislativo si predispone quello che da più parti

è stato definito come un vero e proprio “scudo protettivo” per l'ente.

Anche nel caso in cui ricorressero tutti i presupposti di cui sopra, l'ente potrebbe

ritenersi esentato da responsabilità se solo provasse che ha predisposto alcuni

meccanismi individuati nell'articolo 6 della legge.

L'ente non sarà considerato responsabile per i reati commessi dai soggetti posti in

posizione apicale se:

1. dimostrerà di possedere una particolare tipologia di “modello di organizzazione e di

gestione”; si tratta della adozione ed attuazione efficace di una serie di misure volte

a prevenire i reati della specie di quello verificatosi;

2. avrà affidato ad un organismo dotato di autonomi poteri il compito di vigilare

sull'osservanza e sul corretto funzionamento del modello;

3. prova che le persone che hanno commesso il reato, lo hanno fatto eludendo

fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;

4. non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui al punto

due.

Se il reato è invece commesso da soggetti posti in posizione non apicale. l'ente

sarebbe ritenuto responsabile nel solo caso in cui si provasse che la commissione dello

stesso è resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione e di vigilanza (art. 6).

Tutto ciò a meno che, (ed ecco lo scudo protettivo anche per i reati commessi dai

sottoposti) l'ente ha adottato prima della commissione del reato un modello di

organizzazione, di gestione e di controllo atto a prevenire i reati della specie di quello

verificatosi. Come si vede, l'adozione di tali strumenti da parte della persona giuridica

costituisce un valido espediente per escluderne la responsabilità.

Tuttavia, se da un lato si restringe la sfera di punibilità dell'ente, dall'altro la si

amplia con il principio espresso nell'articolo 8 del Decreto.

Si tratta del principio che esprime autonomia della responsabilità dell'ente; ma

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autonomia rispetto a cosa? Rispetto al fatto commesso materialmente da quelle persone

fisiche che agiscono per l'ente e che abbiamo individuato in quei due gruppi

precedentemente. L'articolo 8 infatti dispone che la responsabilità della persona

giuridica sussiste anche quando l'autore materiale del reato non è identificato o non è

imputabile. Nasce così una responsabilità dell'ente autonoma, indipendente e scissa da

quella della persona fisica che ha agito.

Una così autonoma responsabilità della persona giuridica non era conosciuta dal

nostro sistema: l'articolo 197 del Codice Penale ad. es. al massimo si ferma a prevedere

una responsabilità dell'ente sussidiaria, ed in quanto tale comunque dipendente da quella

della persona fisica agente.

Infine, la sanzione pecuniaria, le sanzioni interdittive, la confisca e la pubblicazione

della sentenza sono le quattro categorie di sanzioni previste dall'articolo 9 del Decreto

Legislativo da applicare nel caso in cui venisse accertata la commissione dei reati di cui

agli articoli 24 e 25 del Decreto stesso.

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Il problema della responsabilità penale delle persone giuridiche

La criminalità d'impresa

Uno dei maggiori fenomeni rilevati dalla criminologia moderna è costituito dalla

crescita costante della criminalità d'impresa.

Il XX secolo è infatti stato caratterizzato, sul piano economico, dalla

“spersonalizzazione” delle attività: si è passati da una società in cui tutti i rapporti

erano intrattenuti da persone fisiche, da esseri umani che interagivano tra di loro, ad

una in cui ogni tipo di relazione è realizzata tra persone giuridiche.

Oggi ad. es., l'imprenditore che svolge un'attività commerciale la detiene sotto

forma di società, cioè agisce concretamente per il tramite di una persona giuridica. Ma

anche tutti i rapporti che tale imprenditore intrattiene sono tenuti con persone

giuridiche: i fornitori, le compagnie di assicurazione, i soggetti dei quali si servirà per la

spedizione dei propri prodotti, ecc. Insomma, è oggi molto più diffusa nella pratica

economica e degli affari più in generale, una vita di relazione tra persone giuridiche

piuttosto che tra soggetti persone fisiche.

Se quindi tutti i rapporti sono intrattenuti da persone giuridiche, allora non è

difficile comprendere come anche gli “aspetti patologici” derivanti dalle relazioni tra

soggetti scaturiscano oggi in gran parte dall'attività delle persone giuridiche. È chiaro

che quando si parla di “aspetti patologici” ci si riferisce alla commissione di attività

illecite, che quando sono attività illecite penali, diventano reati.

Vi sono molte ragioni per ritenere che la commissione di reati da parte di persone

giuridiche sia favorita o addirittura facilitata dalla loro stessa natura. Si pensi ad

esempio a quanto sostenuto dalle “teorie sul gruppo”, secondo cui molte persone

(esseri umani), all'intero di una persona giuridica sono portate più facilmente a

delinquere. La consapevolezza di essere “coperte” dall'insieme di altri soggetti che,

all'interno della persona giuridica contribuiscono a commettere il fatto, ha la

conseguenza di tranquillizzarle al punto di disinibirle e di portarle a compiere atti che

altrimenti, da sole, non avrebbero mai avuto il coraggio di compiere. È un dato di fatto

che il "gruppo" stimoli le pulsioni criminogene più recondite di ognuno di noi,

soprattutto per la presenza di un'altra componente fondamentale costituita dalla

segretezza; il fatto di poter rimanere celati dietro la struttura dell'ente è altro elemento

di tranquillità per il potenziale delinquente. La segretezza dei proprio operato illecito poi,

costituisce elemento per sottrarsi al giudizio di riprovevolezza della collettività.

Viene fatto notare infatti come il crimine di strada, quello comune, essendo

particolarmente visibile al cittadino in quanto accade sotto i suoi occhi, subisce un

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immediato e generalizzato giudizio di disapprovazione; ciò non accade invece per il

corporate crime, che è spesso invisibile, perché celato dalla struttura dell'ente e spesso

non permette nemmeno agli sfortunati destinatari di accorgersene.

Altro carattere delle persone giuridiche che ne favorisce la commissione dei reati è

costituito dall'impegno per il raggiungimento dello scopo da realizzare. Com'è noto, lo

scopo per le imprese è essenzialmente quello di massimizzare i profitti, a meno che non

si tratti di enti filantropici: orbene, risulta agevole comprendere come per il

raggiungimento di tali fini si possa perdere di vista le legalità in maniera più o meno

intensa.

La spersonalizzazione delle imprese e la fredda razionalità con cui le si gestisce,

comporta un indebolimento della componente etica nell'attività societaria.

Analizzati questi caratteri della persona giuridica, si comprende come sia facile

per essa essere naturalmente proiettata alla commissione di attività criminose. L'analisi

di questi aspetti riguarda essenzialmente società nate “sane”, per vivere

essenzialmente nella legalità, che poi per ragioni varie finiscono per commettere anche

attività illecite.

Ma il problema della criminalità d'impresa si accentua in tutta la sua drammaticità

se si considera che ci sono delle persone giuridiche che nascono con la finalità precipua di

vivere nell'illegalità. Se non esiste un sistema normativo che punisce la criminalità

d'impresa con efficacia, allora è facile immaginare l'esistenza di entità nate proprio al

fine di commettere reati e di rimanere per questo impunite.

È legittimo immaginare la presenza di tante società che dietro il paravento di

un'attività imprenditoriale lecita, perseguono in realtà finalità delittuose. Probabilmente

questi motivi bastano per prendere coscienza del fenomeno della criminalità da parte

delle persone giuridiche e per auspicare degli interventi normativi che la fronteggino.

Se però volessimo avere un quadro ancora più chiaro della gravità di tale tipo di

criminalità, potremmo passare ad individuare la moltitudine di categorie di soggetti

potenzialmente destinatari della criminalità d'impresa.

Innanzitutto gli stessi azionisti di minoranza, i quali potrebbero rimanere estranei

alle decisioni aziendali, o peggio essere addirittura ignari delle finalità perseguite illecite

perseguite dalla società. Anche tutti i soggetti terzi che vengono a contatto con la società

possono essere possibili destinatari dei reati da questa commessi. Per non dimenticarci

inoltre dei consumatori, i quali spesso non percepiscono neanche di essere stati soggetti

destinatari del reato.

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Gli ostacoli dogmatici al riconoscimento della responsabilità penale delle

persone giuridiche

Analizzate le ragioni attraverso le quali si comprende la pericolosità che

dall'attività delle persone giuridiche può derivare, non resta che chiedersi quali siano gli

strumenti da adottare al fine di fronteggiare il fenomeno dei reati d'impresa.

Questa risposta non può essere data se non partendo dal presupposto che nel

nostro ordinamento non è riconosciuta ufficialmente la responsabilità penale delle

persone giuridiche.

Il sistema italiano, come anche tutti quelli di derivazione romanistica, hanno

sempre perseguito il principio contenuto nel brocardo latino "societas delinquere non

potest". Un' analisi dei principi su cui si regge tutto l'apparato penale, ci dimostra che lo

stesso è costruito e pensato per ricercare e punire responsabilità esclusivamente in

capo a soggetti esseri umani, a sole persone fisiche.

Il diritto penale è tradizionalmente un diritto antropocentrico!

Pertanto, le ragioni che hanno storicamente escluso qualsiasi forma di

coinvolgimento penale per soggetti non antropomorficamente considerati, vanno

ricercate essenzialmente proprio nei principi fondanti il diritto penale.

È in tema di tipicità, di colpevolezza e di teoria della pena che riscontriamo degli

ostacoli, per molti insormontabili, al riconoscimento della responsabilità penale delle

persone giuridiche. In particolare, nell'analizzare i caratteri della tipicità ci si imbatte

immediatamente in un primo, evidente ostacolo: quello dell'impossibilità di azione da

parte delle persone giuridiche.

Se quando studiamo la tipicità diciamo che il reato è una condotta (commissiva o

omissiva), diciamo cioè che per commetterlo è necessaria un’azione, allora quale

azione è possibile riconoscere ad una organizzazione?

Risulta lampante un primo ostacolo riconosciuto alle persone giuridiche; esse

infatti, per la loro stessa natura, non possono muoversi, non possono camminare, non

possono agire. Perché ci sia possibilità di azione è necessario che vi siano persone

fisiche, esseri umani che si muovano, camminino, agiscano. Il concetto stesso di azione

è altro concetto antropomorficamente considerato, concetto che può essere compreso

appieno, in tutto il suo significato solo se riferito ad esseri umani.

Sempre in tema di tipicità, altro problema fondamentale che appare subito evidente

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è costituito dalla necessità di rintracciare un elemento soggettivo. Nel definire il reato

diciamo che esso è un'azione od un'omissione, ma poi continuiamo chiarendo che tale

condotta (azione o omissione) deve essere commessa con coscienza e volontà. In

questo modo ammettiamo che la condotta tenuta deve essere connotata anche da un

aspetto per così dire “psicologico”; non basta per ritenere una condotta un fatto tipico,

che la stessa sia accertata solo da un punto di vista materiale, è invece necessario che

si verifichi la commissione della stessa anche con coscienza e volontà e che il fatto sia

commesso con uno dei tre aspetti psicologici previsti dall'articolo 42 del Codice Penale:

dolo, colpa o preterintenzione.

In questo modo ci siamo spostati alla categoria della colpevolezza, dove il dolo, la

colpa e la preterintenzione accertati in tema di tipicità, vengono ora approfonditi. Il

discorso sull'elemento psicologico, valutato in tema di tipicità o approfondito meglio

sotto il profilo della colpevolezza, costituisce, come detto, ostacolo al riconoscimento

della responsabilità penale delle persone giuridiche.

Le obiezioni sono le medesime rilevate per l'impossibilità di azione: anche tutti i

concetti riconducibili all'aspetto psicologico sono comprensibili appieno soltanto se

riferiti a perone esseri umani. Non è infatti pensabile concepire in capo ad un entità non

umana un pensiero, una volontà, una coscienza, un atteggiamento interiore di adesione

o meno ad un comportamento.

Altro ostacolo è poi costituito dall'articolo 27 della Carta Costituzionale, che nel

primo comma enuncia: “La responsabilità penale è personale”. Anche questo principio,

come quello della colpevolezza osta al riconoscimento della responsabilità penale degli

enti: esso, dichiarando che la responsabilità è personale sembra aver escluso che la

stessa possa essere ampliata anche a quelle che persone, in senso naturalistico non

sono. E nel caso in cui volessimo ammettere che la Costituzione abbia voluto intendere

quel “personale” in senso lato, per farvici entrare anche le persone giuridiche, allora

sorgerebbero altri problemi.

Si pensi ad un reato commesso da parte di una società di grandi dimensioni: le

decisioni che hanno condotto alla commissione del reato sono senz'altro riconducibili

agli organi dirigenti, ma dell'eventuale pena comminata alla società rispondono anche i

soci ed i dipendenti che non hanno preso alcuna decisione. In questo caso a pagare le

conseguenze di un'attività svolta dai soli dirigenti sarebbero anche altri soggetti; è

questo un palese caso di responsabilità per fatto altrui, che come tale contrasta con il

principio della personalità della responsabilità penale.

Come detto, anche in tema di teoria della pena è possibile rinvenire delle

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argomentazioni volte ad escludere la responsabilità penale degli enti.

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La responsabilità penale delle persone giuridiche nel mondo

Come abbiamo visto, risolvere il problema della responsabilità penale della

persone giuridiche non è impresa agevole dal momento che esistono due contrapposte

esigenze: dare risposte immediate ed efficaci alla tutela sociale scaturente dai

“corporate crimes”, e tutelare le ragioni del diritto penale tradizionale.

Il sistema italiano è senza dubbio uno di quelli che, fino ad ora meno degli altri è

riuscito a fornire risposte soddisfacenti alla lotta contro i crimini d'impresa. Le ragioni di

questo ritardo sono senza dubbio addebitabili all'incapacità del nostro paese di

sganciarsi dagli ostacoli che tradizionalmente hanno escluso il riconoscimento di tale

tipo di responsabilità, cioè i valori ed i dogmi su cui si è fondato il diritto penale

tradizionale.

Come già detto, estendere l'imputazione di un reato anche agli enti significa

sconfessare duecento anni di diritto penale moderno; e siccome proprio nel nostro

paese si è concentrata la maggior produzione dottrinale di diritto penale, è qui che si

giustificano le maggiori perplessità in merito. Il riconoscimento di una tale responsabilità

significa rivedere moltissimi di quelli che sono stati considerati cardini indiscussi del

diritto penale.

Così non è stato in paesi dove la tradizione dottrinale in questa materia è assai più

scarsa o comunque meno autorevole. È in questi paesi che è stato più semplice e meno

problematico mettere da parte gli ostacoli di ordine dogmatico (intesi come le certezze

che gli studiosi del diritto penale non hanno mai osato mettere in discussione), e

passare al riconoscimento della responsabilità degli enti nelle varie diverse forme.

Una rapida illustrazione dell'iter che ha condotto molti paesi a riconoscere forme più

o meno ampie di responsabilità per gli enti è utile al fine di comprendere le differenze

con l'Italia, o eventualmente i punti di contatto che permettano un approfondimento sul

problema. In tutti questi paesi i maggiori sforzi si sono concentrati sullo studio di forme

di imputazione soggettiva alternative rispetto a quelle antropomorficamente considerate.

Si vedrà come nei sistemi Britannico e Statunitense la responsabilità degli enti è

ormai un dato di fatto consolidato da anni, mentre in Europa, tranne sporadiche

eccezioni, il dibattito ha condotto soltanto nell'ultimo decennio a riconoscere forme di

responsabilità penale delle persone giuridiche.

Si noterà inoltre come, più disinvolta è stata l'estensione della responsabilità

penale nel sistema Angloamericano, mentre meno netta si è rivelata la svolta che del

fenomeno si è avuta in Europa.

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Il sistema Angloamericano

I primi ordinamenti a riconoscere forme di responsabilità penale delle persone

giuridiche, sono stati senza dubbio quello U.S.A. e quello Britannico.

Già intorno alla metà del XIX secolo il problema dei crimini commessi da

associazioni iniziò a manifestarsi in quelli che fin da allora costituivano le più importanti

realtà economiche del mondo. E non è un caso che ciò sia avvenuto in ordinamenti di

“common law”, dove fornire risposte a “nuove” esigenze è naturalmente più agile.

I sistemi di common law sono quelli in cui il diritto è prevalentemente di

produzione giurisprudenziale (fatto dai giudici nelle sentenze), per cui non essendo

scritto in tantissime norme, riesce ad adeguarsi più agevolmente e velocemente alle

nuove esigenze (bastano alcune sentenze per far cambiare l'orientamento).

Non c'è dubbio che il riconoscimento di tale forma di responsabilità sia però

avvenuto in modo graduale: negli Stati Uniti ad esempio, si è passati da una fase iniziale

in cui la responsabilità penale delle società era circoscritta alle sole ipotesi omissive e

legate a tipologie di reato di poco conto, fino ad arrivare a forme di coinvolgimento

pieno intorno ai primi anni del secolo scorso.

In particolare con la sentenza “New York Central & Hudson River” del 1909, la corte

motivava per il riconoscimento della responsabilità penale delle persone giuridiche, senza

più remore di sorta: “se quell'invisibile ed impalpabile entità che noi definiamo come

persona giuridica può spianare le montagne, colmare gli avallamenti, costruire ferrovie e

farvi correre sopra le locomotive, significa che ha la volontà di porre in essere queste

azioni, e che può perciò comportarsi sia malvagiamente che virtuosamente”.

Come si evince dalla motivazione estrapolata da questa sentenza, anche l'aspetto

psicologico (ostacolo maggiore al riconoscimento della responsabilità penale degli enti),

viene riconosciuto possibile all'azione delle società.

Ma in che modo si è riusciti ad eludere e quindi a superare tale ostacolo?

certamente attraverso la ricerca di modelli di responsabilità psicologica "alternativi"

rispetto a quelli utilizzati per riconoscere la responsabilità degli esseri umani.

O si è fatto coincidere l'aspetto psicologico delle persone umane che operano dietro

la società con quello della società stessa, oppure si sono inventati modelli di imputazione

soggettiva ad hoc per le entità non umane. In questa seconda ipotesi, la dottrina è stata

costretta ad "inventarsi" delle forme di imputazione soggettiva "alternative" rispetto a

quelle che vengono utilizzate per valutare l'intenzione (aspetto psicologico) di delinquere

delle persone umane.

Due sono le teorie seguite al fine di rendere coerente la responsabilità penale delle

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organizzazioni, con l'impossibilità di concepire in capo a loro un atteggiamento

psicologico: si tratta della “vicarious liability”, e della “identification theory”.

La prima, nata nel Medioevo per disciplinare i rapporti tra gli schiavi ed i loro

padroni, riconosce la responsabilità della persona giuridica per ogni atto illecito

commesso dalle persone umane che fanno parte di essa; così come ogni atto commesso

dagli schiavi era addebitato al padrone. L'amministratore di una società ad esempio,

commette un reato a vantaggio della stessa; a questo punto quando bisognerà accertare

il reato ed in particolare l'aspetto psicologico dello stesso, non si valuterà l'intenzione

della società, che non c'è, ma quella dell'amministratore e la si userà come intenzione

dell'ente. A questo punto si sarà ottenuta (costruita mediante una finzione) una

volontà, un aspetto psicologico dell'ente al quale potrà essere finalmente imputato un

fatto.

Per la seconda teoria, detta anche “dell'alter ego”, ogni comportamento svolto

dai suoi organi dirigenti è considerato realizzato dall'organizzazione. Gli uomini di punta

posti all'interno della società, in posizione chiave cioè, si identificano con la stessa

volontà della società; tale modello è riconducibile al principio fondativo della teoria

organicistica. Si considera pertanto, volontà dell'ente quella espressa dai suoi organi più

importanti. È con l'espediente della identificazione della volontà delle persone umane

con quella dell'ente, che si riconosce a quest'ultima una “volontà” e si può ritenerla

responsabile penalmente. Come si è visto, l'esigenza di combattere i crimini d'impresa

ha aguzzato l'ingegno ed ha condotto all'invenzione di volontà per le entità non umane,

che altrimenti autonomamente non sarebbero esistite.

I limiti delle due teorie sono esattamente opposti: nella prima si rischia di estendere

eccessivamente la responsabilità della persona giuridica, coinvolgendola per ogni fatto

illecito commesso da qualsiasi degli esseri umani che hanno un rapporto con essa; nella

seconda al contrario si rischia di circoscrivere eccessivamente le possibilità di considerare

l'ente penalmente responsabile.

Gli ordinamenti di civil law europei

Non tutti gli ordinamenti hanno affrontato il problema della responsabilità penale

delle persone giuridiche con celerità, e pure quelli che in Europa lo hanno fatto non

sono giunti necessariamente agli stessi risultati di quelli esaminati nei paesi di common

law. Gli Stati europei che hanno trattato del fenomeno e che ne hanno risolto le

problematiche sono principalmente i Paesi Bassi, la Spagna e la Francia. La nostra

attenzione si rivolge principalmente a questi ultimi due, dal momento che si tratta di

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paesi molto vicini al nostro e per di più con una tradizione penale per larghi tratti simile a

quella italiana.

Sia in Francia che in Spagna sì è riconosciuta la responsabilità penale delle

persone giuridiche, anche se in misura meno netta rispetto al modello Anglosassone.

La minore intensità con la quale si è dato ingresso a tale principio è forse dovuta al

fatto che la tradizione dogmatica penale risulta essere, in tali paesi, particolarmente

importante, per cui “rivedere” e “ridiscutere” alcuni principi del diritto penale

tradizionale non è stata operazione semplice da realizzare.

Come si vede i presupposti sono esattamente gli stessi che oggi riscontriamo in

Italia, e quindi, obiettano i riformatori, se in paesi con caratteristiche simili alle nostre si

è comunque raggiunto l'obiettivo del coinvolgimento penale degli enti, allora ciò può

essere realizzato anche da noi.

In particolare nel 1995 l'articolo 131 del Codice Spagnolo, ha più o meno

espressamente, riconosciuto la possibilità che “entità” non umane possano rendersi

responsabili di illeciti penali. Nell'articolo 129 poi, sono state individuate una serie di

“conseguenze accessorie”, di misure cioè alternative alle pene in senso stretto, che

hanno lo scopo di evitare la prosecuzione dell'attività illecita dell'ente e di frenarne gli

effetti. Rispetto all'Italia, il sistema spagnolo ha dimostrato da un lato maggiore

temerarietà riconoscendo la responsabilità delle persone giuridiche ed introducendola

addirittura nel codice, ma dall'altro è evidente il travaglio con cui ciò è avvenuto.

La responsabilità penale delle persone giuridiche non è riconosciuta in maniera così

netta e così evidente, quasi come se non la si volesse riconoscere come un principio

forte e radicato dell'ordinamento. La spiegazione è fin troppo ovvia e come detto va

ricercata nella necessità di evitare che i principi tradizionali del diritto penale spagnolo

vengano bistrattati troppo. Un riconoscimento quindi avvenuto, ma con cautela, senza

enfasi ed ancora intriso di elementi contraddittori.

Anche in Francia il riconoscimento della responsabilità penale delle organizzazioni è

risultato più blando di quello Statunitense e di quello Britannico, ma certamente molto

più deciso di quello Spagnolo.

L'articolo 121 del “nuovo” Codice Penale Francese, ha introdotto la responsabilità

penale delle persone giuridiche, ad eccezione dello Stato, “per gli illeciti commessi per

loro conto dai loro organi. e rappresentanti”.

Si osserva però che la responsabilità non è ammessa in modo sistematico ed

incondizionato. È infatti necessario, perché l'ente possa essere ritenuto responsabile,

che le singole norme prevedano espressamente questa possibilità, che pertanto non è

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applicabile ad ogni tipo di reato. È necessario, cioè, che ogni singola norma prevedente

un reato, dichiari espressamente l'intenzione che quell'illecito possa essere commesso

anche dalle persone giuridiche.

Da ciò molti traggono il carattere di assoluta eccezionalità di tale responsabilità; si

osserva infatti che un coinvolgimento penale del genere risulta poco deciso in quanto

finisce per restare circoscritto a poche, appunto specifiche, ipotesi.

La scelta operata dal Codice Francese sarebbe dovuta per alcuni, alla necessità di

limitare un potere altrimenti toppo ampio dei giudici, i quali potrebbero arrivare con le

loro sentenze, a condizionare troppo l'attività della vita economica delle imprese.

Secondo altri invece le restrizioni evincibili dalla norma si spiegherebbero con la

necessità di volersi attenere alle ipotesi maggiormente verosimili, a quelle cioè che nella

pratica possono più facilmente verificarsi come fatti illeciti commessi da enti.

Interessante è poi esaminare il modo con cui è stato affrontato il problema

dell'elemento psicologico, risolto in maniera singolare: i Tribunali Francesi non si

interrogano sulla presenza di dolo o colpa nell'ente, ma accertano semplicemente la

commissione di un reato da parte di una persona fisica, per poi passare in una fase

successiva ad individuare l'eventuale nesso causale con la persona giuridica.

Una volta che hanno accertato la commissione di un dato reato da parte di una

persona fisica, continuano l'accertamento per verificare se questo reato è stato

commesso al fine di consentire un qualche vantaggio per una persona giuridica. Se

quest'indagine prova l'esistenza di un effettivo vantaggio tratto dalla persona giuridica,

allora si indaga oltre, cioè si verifica il rapporto esistente tra questa e la persona fisica

che ha commesso il reato; se si riscontra un certo tipo di rapporto tra le due, se cioè si

accerta che la persona fisica rea è il braccio della persona giuridica, allora si può

riconoscere la responsabilità penale di quest'ultima. Come si vede, l'imputazione delle

persone giuridiche è quindi autonoma e cronologicamente posteriore a quella del

soggetto materiale del reato, per questo si parla di responsabilità susseguente o di

rimbalzo.

Un accenno va fatto a proposito del sistema olandese, il quale ha rappresentato il

primo esempio di riconoscimento della responsabilità penale delle persone giuridiche in

Europa dopo la Gran Bretagna. Si è trattato di un riconoscimento netto, deciso, ampio e

senza troppi tentennamenti.

Già dal 1976 il codice penale olandese infatti recita: “i reati sono realizzabili da

individui o da enti”. Si tratta di una locuzione che lascia trasparire una netta presa di

posizione in favore della responsabilità degli enti. Tale responsabilità viene riconosciuta

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in modo pieno in quanto la norma equipara, in maniera assoluta, le persone fisiche alle

persone giuridiche. Tuttavia, il favore mostrato verso tale intraprendenza fa da

contrappeso alla constatazione di una scarsa attenzione mostrata verso i problemi

dogmatici, forse troppo frettolosamente elusi.

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CORPORATE GOVERNANCE e diritto penale

Il nostro diritto penale è sganciato da problemi di efficienza, la sua funzionalità si lega

esclusivamente al rispetto o meno di indicatori-principi costituzionali, si misura solo se nelle

leggi si rispettano i principi costituzionali, e non se esista un problema di rendimento, se cioè

la norma funziona o non funziona.

Proprio la corporate governance, che nella sua vaghezza studia problemi di

controllo efficiente, sembra abbastanza lontana dai meccanismi del diritto penale

societario, forse più in generale dal diritto societario. Il governo efficiente suppone

controlli efficaci sui manager e sugli investitori a parità di condizioni, suppone l'esame di

costi di agenzia, d'incroci azionari, di sindacati di blocco un po' distanti dal modello

societario italiano, dove gl'investitori continuano ad essere quantitativamente ridotti, con

una prevalenza di pochi potenti sui tanti, i veri proprietari, in genere inscindibilmente

legati all'amministrazione. Non siamo vicini ad un sistema con un mercato forte, capace

di selezionare efficientemente le azioni societarie "valide", o ad una capacità di

risolvere i conflitti interni con una forte autonomia statutaria con autorità giudiziarie

chiamate ad applicare regole chiare frutto della volontà del mercato. Non siamo nei paesi

del common law. Ma alcune esigenze di controllo e di migliore separazione delle funzioni

sono emerse anche nel nostro paese: gestione dell'impresa e monitoraggio dovrebbero

essere funzioni distinte svolte da organi autonomi, l'informazione ai soggetti investitori

dovrebbe essere costante ed adeguata in un quadro di più generale trasparenza

dell'informazione societaria, la tutela dei piccoli azionisti prioritaria. Se queste esigenze

sono più vincolate ad un miglior controllo che ad un controllo efficiente , il risvolto penale

è evidente. Tutelare gli stakeholders, investitori o soggetti agenti in generale con la

società, bilanciare gli interessi della proprietà e degli amministratori, ridurre i costi di

agenzia legati ai comportamenti opportunistici può diventare questione di diritto penale

quando i comportamenti da annullare sono contrari, perciò devianti, dalle regole della

buona amministrazione e dei corretti assetti proprietari. Peraltro il mito della corporate

governance quello britannico, ha preso il via proprio a ridosso di alcuni giganteschi

scandali che hanno scosso la comunità degli affari inglese, è il caso Enron a spingere a

nuove regole che rendono certi i meccanismi di sorveglianza. Esiste un area comune tra

gli strumenti assegnati alla repressione penale e le ambizioni di tutela o di chiarezza a cui

dovrebbe mirare la corporate governance: la trasparenza delle operazioni è da sempre

un bene giuridico oggetto di protezione penale , la malamministrazione e la conseguente

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tutela della proprietà altrettanto, la chiarezza sul mercato dei titoli allo stesso modo. Se i

beni sono comuni, però, le forme di protezione lontane: il diritto penale reprime o impera

tassativamente, la corporate governance in genere attribuisce facoltà ai soggetti.

Raffrontare le due prospettive anticipa inoltre un ulteriore problema: quale è la misura

ragionevole dell'intervento penale non solo inteso come strumento che possa

efficientemente avvalorare le istanze della Corporate Governance ma anche come

strumento che contribuisca all'edificazione ed alla manutenzione di valori etici condivisi in

materia di comportamenti economici.

Se si fa perno sulle informazioni che la società deve rivolgere all'esterno si capisce

come le false comunicazioni sociali sono lo strumento principe della corporate governance in

materia penale, ed anche che il problema non è di semplice chiarezza del dato ma di verità

legale dello stesso. La definizione di funzioni, ruoli e compiti più precisa di generici doveri di

gestione e controllo potrebbe definire meglio le responsabilità individuali anche da un punto

di vista penale. Capire bene dove finisce la funzione o dove comincia la trasgressione

consente di superare gli esuberi legati alla formula dell'art 40 cpv c.p. secondo cui non

impedire la verificazione di un evento che si aveva l'obbligo giuridico di evitare equivale a

cagionarlo.

L'obbligo giuridico corrisponde normalmente ad alcune posizioni di garanzia affisse in

capo a particolari soggetti. Avere una specificazione di funzioni di controllo o di gestione

qualifica meglio cosa si è omesso di fare non ricadendo nel generico mancato controllo ma

definendo l'omessa mansione nell'ambito del compito. È un modo di restringere gli spazi di

responsabilità o meglio di ridefinirli sui veri ruoli, uscendo anche dai vizi logici della delega.

Quindi, si applicherà l'art.40 cpv in maniera meno approssimativa, nel più pieno

rispetto della tipicità (di cui l'art. 40 è deficitario) in presenza di un preciso omesso

compito di gestione o di controllo, aldilà non ci sarà responsabilità ma cattivo

funzionamento dell'organizzazione. C'è da chiarire se la previsione di nuovi organi, comitati

di varia natura (delle nomine, dei compensi, comitato di revisione dei processi di

produzione etc.) che tendono a moltiplicare i livelli del controllo o a creare modelli di

controllo meglio organizzato si riflettano in nuove responsabilità penali. Di certo c'è che ai

nuovi organi non viene mai attribuito un ruolo esecutivo, ma anzi, al contrario, si sceglie

tra gli amministratori sprovvisti di delega. Di certo c'è anche , al contrario, che si tratta di

strutture incaricate di presidiare e controllare gli altrui processi decisionali, capaci di

scongiurare comportamenti opportunistici e conflitti di interessi dei managers. Possiamo

definirli nuovi garanti? Basterebbe usare l'art. 2392 c.c. ed il 40 cpv per la creazione di

nuovi soggetti ai quali chiedere penalisticamente conto dei controlli effettuati. Non si

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può condividere questo moltiplicare selvaggiamente le responsabilità: le funzioni di

questi comitati sembrano più focalizzate sulla segnalazione della disfunzione che

sull'operativa possibilità d'intervento. Parliamo di strutture di supporto al governo della

società al pari di accorgimenti organizzativi o di cautele istituzionali. Se una

responsabilità può emergere deve succedere solo dopo l'esonero da una responsabilità

omissiva in capo agli organi istituzionali e la verifica di un'assenza di deficit

organizzativo.

I modelli di organizzazione assumono un ruolo centrale non solo legati ai ruoli dei

garanti ma anche in tema di responsabilità amministrativa dell'ente. Conta poco la

questione della truffa delle etichette: conta poco stabilire se l'afflittività tracima i limiti

dell'ordinaria afflittività di una sanzione amministrativa e sia di fatto penale. Rileva

invece osservare quanto ci sia spazio per esperienze forse più utili in altri sistemi dove

strutture organizzative manchevoli sono la precondizione di sanzioni civili di grosso

effetto di cui niente sa il nostro codice civile. L'idea è grossomodo replicata, la sanzione

invece varia in natura. Perciò: se l'ente predispone una serie di cautele organizzative

atte a ridurre a poco il rischio di verificazione di. un reato ( nell'esperienza americana si

tratta esclusivamente di reati ai danni della collettività) e nel caso in cui comunque il

reato si verifica e l'ente si attiva e collabora per individuare il colpevole, sarà solo

secondariamente e moderatamente responsabile per i fatti accaduti. Se invece mancano

le strutture organizzative l'ente risponde per colpa organizzativa e dunque

matrimonialmente nella vicenda. Con una sanzione, nell'esperienza italiana,

formalmente amministrativa, sostanzialmente penale. Per colpa. Secondo gli schemi

della persona fisica , pur per ovvie ragioni senza essere in grado di agire colposamente.

C'è da chiedersi chi, ovviamente. Chi agisce per imprudenza , negligenza ed imperizia,

non appena si parla di colpa: si evocano figure soggettive che fanno correre alla

persona fisica, unico agente capace di sostenere un fatto con un elemento soggettivo. Il

tentativo di spersonalizzazione non sembra compiuto: ne è superabile l'ostacolo della

funzione della pena, non in presenza di una sanzione camuffata in amministrativa ma

sostanzialmente penale. Funzione della pena che nel nostro paese non si concentra

sulla deterrenza ma sulla riabilitazione del reo, impossibile nel caso di un ente se non

attraverso forzosi allargamenti della funzione , comunque realizzabili attraverso

sanzioni non di natura penale.

Non aiuta infine a perseguire l'esigenze della corporate govemance la nuova

riforma del diritto societario. Senza soffermarsi sulle singole figure di reato ad uno

sguardo d'insieme se ne trae la certezza di una legislazione deliberatamente di tipo

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emergenziale, non per le fruizione della collettività ma tagliata ad ordinem o ad

personam. La bandiera di questa urgenza sarebbe l'emergenza della perdita di certezza

intollerabile per le imprese. Di certo c'è solo l'abbassamento delle cornici edittali e tanto

desiderio di prescrizione a piene mani. Di certo c’è l'urgenza di riformare: al punto tale

che la novella del diritto penale societario, precede nella riforma la novella del diritto

societario. Stravolgendo i ruoli: le convenzioni, i ruoli, le funzioni che costituiscono

l'ordito del diritto commerciale dovrebbero logicamente precedere le trasgressioni o le

inottemperanze a quei doveri, sanzionate penalmente. Più è chiara la crucialità dei ruoli

più si giustifica l'intervento, il più drastico di natura penale. Più è chiaro il rimedio civile

e la sua impossibilità ad agire efficacemente, più ha senso l'intervento penale. Così

invece, senza elementi normativi né realmente descrittivi il tipo è solo ricco di parole

ma lambisce l'indeterminatezza, ma, più grave è la funzione del diritto penale societario

ad essere parva materia. Si approssima allo zero, guardiano rozzo e poco efficace della

vita degli affari. In barba alle regole della corporate govemance: i ruoli e la certezza dei

ruoli disegnano naturalmente le trasgressioni. Nel nostro caso mancano i ruoli e le

trasgressioni, tutte veniali, sono frutto di scatole cinesi linguistiche, assolutamente

artificiali.

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I segni distintivi dell'impresa ed esigenze di tutela

Nell'esercizio della propria attività l'imprenditore ha la necessità di

distinguersi sul mercato dagli altri imprenditori che producono e/o distribuiscono

prodotti identici o analoghi.

I principali segni distintivi che assolvono a siffatta funzione sono individuati nella

ditta, nell'insegna e nel marchio. All'interno di un mercato concorrenziale, questi

tre segni distintivi consentono all'imprenditore di creare dei parametri, o criteri

guida che il consumatore utilizza, successivamente, nella scelta tra i vari operatori

economici. I segni distintivi fungono da ago della bilancia tra due contrapposti, anche se

non configgenti interessi.

Da un lato, quello dell'imprenditore, a dotarsi di segni distintivi che abbiano forza

distintiva ed attrattiva, nonché di vietare l'uso di tali segni agli altri imprenditori per

evitare che la clientela sia sviata. Inoltre, l'imprenditore, i cui segni distintivi hanno

raggiunto una certa notorietà e quindi sono di per sé portatori di un autonomo valore

economico, in quanto a loro legata un “certo quantitativo di clientela”, potrebbe avere

interesse a cedere tali fattori, al fine di ricavare un utile.

Ad esempio un imprenditore potrebbe decidere di alienare il proprio marchio al fine

di monetizzare il valore commerciale dello sesso determinato dalla capacità attrattiva

della clientela. Infatti, attraverso la pubblicità il segni distintivo assume una funzione

ulteriore rispetto a quella di identificazione dell'imprenditore o del prodotto, ovvero, di

collettore di clientela, in quanto gli utenti sono indotti, attraverso il messaggio

pubblicitario, a preferire il prodotto o il servizio non tanto per le sue peculiarità e

caratteristiche, quanto per la notorietà del segno distintivo.

Sulla scorta di tali presupposti si è evinta la necessità di sviluppare una disciplina

dei segni distintivi, che oltre a tutelare l'interesse dell'imprenditore ad esercitare la

propria attività nel modo quanto più libero e proficuo possibile (in ossequio al principio

della libertà di iniziativa economica sancito dall'art. 41 della Costituzione),

tuteli, contemperando i vari interessi, il diritto dei terzi, e del consumatore in

particolare, che entrano in contatto con l'impresa, a non essere tratti in

inganno sull'identità dell'imprenditore e/o dei prodotti sul mercato.

Oggetto della nostra analisi è il marchio, e la sua tutela, così come apprestata in

sede civile e penale.

Per quel che concerne la ditta e l'insegna ci limiteremo a darne una succinta

definizione. La ditta, così come disciplinata dall'art. 2563 cod. civ., rappresenta il

ed. nome commerciale dell'imprenditore, avendo la funzione di contraddistinguere la

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persona dell'imprenditore nell'esercizio dell'attività di impresa.

La ditta, comunque sia formata, deve contenere almeno il cognome o la

sigla dell'imprenditore (art. 2563, comma 2 cod. civ.).

L'insegna (art. 2568 cod. civ.), invece, assolve ad una funzione diversa,

consistente nell'individuazione dei locali in cui l'attività di impresa è esercitata.

Il marchio e la sua funzione

Il marchio, sulla scorta dell'art. 16 r.d. 21/06/1942, c.d. “legge marchi”, può essere

definito come ogni parola, figura o segno destinato a distinguere i prodotti o i servizi, di

uno o più generi, di una determinata impresa, dai prodotti o dai servizi dello stesso

genere di imprese concorrenti.

Il marchio è strumento con cui gli imprenditori affidano il compito di differenziare i

propri prodotti da quello dei concorrenti. In tal modo gli utenti sono messi in grado di

riconoscere con facilità i prodotti provenienti da una determinata fonte di produzione,

ricollegando, in tal modo, in maniera diretta, i consumatori agli imprenditori. Tale

funzione è assicurata, impedendo che uno stesso marchio sia usato da più imprenditori.

Non rientra, al contrario, nelle funzioni del marchio, quella di garantire la qualità del

prodotto o del servizio offerto, in quanto l'imprenditore non è tenuto a mantenere

inalterati gli standard dei prodotti che il marchio contraddistingue.

Peraltro, nell'odierno sistema commerciale, di natura esponenzialmente

concorrenziale, è da rilevare una “prassi”, ormai costante, nella processo di scelta del

consumatore del prodotto o del servizio opzionabile. Infatti, molti marchi finiscono per

assumere un'autonoma forza attrattiva dei consumatori, a prescindere dall'effettivo

produttore.

Consideriamo il caso in cui la Ditta “Fiaschetti”, che produce orologi, decida, per

proprie valutazioni di mercato di cedere, solo ed esclusivamente, il marchio "X"

all'Impresa Dattila. Di fatto, l'impresa “Fiaschetti” continuerà, con il proprio complesso

aziendale a produrre orologi, decidendo di mantenere gli standards qualitativi fino a quel

momento offerti. Dall'altro lato l'impresa “Dattila” inizierà a produrre, secondo propri

standard orologi che di fatto manterranno solo il vecchio marchio "X", mutando, infatti,

gli standard qualitativi, oltre che le forme estetiche e le tecnologie applicate. Ne

consegue che, in concreto, l'impresa acquirente, produrrà orologi totalmente differenti da

quelli su cui, nella precedente produzione, era applicato il marchio "X".

Nella pratica commerciale, la conseguenza sarà che il consumatore poco avveduto,

non a conoscenza della cessione, continuerà ad acquistare gli orologi "X" utilizzando

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come unico parametro di riferimento il marchio stesso. Altra parte di utenti, anche se a

conoscenza del trasferimento, continuerà a scegliere il prodotto contrassegnato "X", in

quanto a quello riconoscono, intrinsecamente, qualità, garanzie, standard, che, di fatto,

appartengono al vecchio produttore e non al nuovo.

In definitiva, si può dire che quando il marchio abbia acquistato una rinomanza

diffusa, attraverso il marchio, il consumatore sceglie il prodotto e non il produttore.

La disciplina civile del marchio: le tipologie

I marchi possono essere distinti sulla scorta di tre criteri principali:

1) la natura dell'attività svolta dal titolare del marchio. Si distingue tra marchio di

fabbrica e marchio di commercio. Il primo è apposto dal fabbricante del prodotto, per

cui, nel caso in cui il prodotto finale risulti dall'assemblaggio di parti distintamente

prodotte, si potrà avere un bene che presenti anche più marchi di fabbrica. Il secondo

tipo di marchio è apposto da un commerciante, sia esso un intermediario, sia nel caso

del rivenditore finale. Il rivenditore non può sopprimere il marchio del produttore.

2) Il secondo criterio concerne le modalità di differenziazione dei vari prodotti. Il

marchio, infatti, è generale quando sia utilizzato dall'imprenditore per

contraddistinguere tutti i propri prodotti. Accanto a questi l'imprenditore può servirsi di

marchi ed. speciali che servono a contraddistinguere particolari prodotti o specifici tipi

dello stesso prodotto. È il caso della FIAT che accanto al marchio generale "FIAT" utilizza

marchi speciali per distinguere i vari prodotti, es. "Stilo", "Croma".

3) Il terzo criterio concerne le modalità di composizione del marchio. Si distingue,

allora, tra marchi denominativi, costituiti solo da parole, e possono coincidere con la

stessa ditta o con il nome civile dell'imprenditore, e marchi figurativi, composti da

lettere, cifre, numeri.

Menzione merita, infine, il marchio collettivo che si realizza quando titolare del

marchio non è una singola impresa, bensì un soggetto, come avviene nel caso di un

consorzio tra imprenditori, che svolge la funzione di garantire l'origine, la qualità o la

natura di determinati prodotti o servizi.

Un esempio può essere fornito dal "Consorzio di Parma", in cui ad utilizzare il

marchio non è l'ente che ne ha ottenuto la registrazione, ma è concesso in uso a

produttori o rivenditori consorziati, assolvendo ad una funzione di garanzia della qualità

o della provenienza del prodotto. I consorziati si impegnano a rispettare le norme

statutarie fissate dall'ente, i parametri di qualità e produzione che questo fornisce ed i

relativi controlli.

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Requisiti di validità del marchio

La tutela giuridica del marchio presuppone che questi abbia determinati requisiti:

liceità, veridicità, novità originalità.

Il primo dei requisiti richiesti, la liceità, va inteso nel divieto di utilizzare segni

contrari alla legge, all'ordina pubblico e al buon costume, stemmi o altri segni protetti

da convenzioni internazionali (art.18 l.m.).

L'originalità del marchio va intesa nel senso di consentire agli utenti di

contraddistinguere il prodotto contrassegnato dagli altri prodotti dello stesso genere

immessi sul mercato (ed. capacità distintiva del marchio).

Ne consegue che non hanno capacità e pertanto non possono essere usati come

marchi:

· la denominazione generica del prodotto (ad es. "maglia" per indicare un pullover);

· i segni di uso comune (ad es. "jeans");

· le indicazioni descrittive generiche dei prodotti o della loro provenienza (ad es. non

può esser usato come marchio il termine "lino" per indicare un filato).

Si ha originalità, però, quando il segno è utilizzato per contraddistinguere un

prodotto con cui, di fatto, non ha alcuna relazione (ad es. la figura di un "cane" per

distinguere un prodotto di abbigliamento). È possibile utilizzare termini generici quando

siano associati con altri segni in modo fantasioso (ad es. "Amplifon").

Il terzo principio enunciato, quello della verità vieta di inserire nel marchio segni

idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura

o sulla qualità dei prodotti o dei servizi (art. 18, l.m.). Ad esempio il marchio "New

Zeland" è illecito se utilizzato per contraddistinguere prodotti realizzati in Italia.

Al contrario dell'originalità che presuppone una valutazione astratta della

sussistenza del requisito di validità del marchio, la novità va valutata in concreto

mediante raffronto con gli marchi esistenti. Ad es. il simbolo di un "cane" è sicuramente

originale è ha capacità distintiva se applicato ad una capo di abbigliamento; manca del

presupposto della novità se altro imprenditore, che produce gli stessi beni, abbia

utilizzato lo stesso marchio.

Pertanto, è corretto affermare che quella sulla originalità è una valutazione

intrinseca, quella sulla novità è estrinseca.

La mancanza dei presupposti richiesti dalla legge comporta la nullità del marchio.

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Tutela civile del marchio

In primo luogo è da operare la distinzione tra marchio registrato e non. Il titolare

del marchio registrato ha diritto all'uso dello stesso su tutto il territorio nazionale. Il

contenuto di tale diritto di esclusiva è ampio, applicandosi il divieto di utilizzare lo stesso

marchio non solo ai prodotti identici ma anche a quelli affini, ove l'uso di tale marchio

registrato sia idoneo a produrre confusione nel pubblico. Resta fermo il diritto di un altro

imprenditore ad utilizzare il marchio per prodotti del tutto differenti.

Si prenda il caso in cui due imprenditori operano nello stesso settore, quello

industriale, realizzando prodotti appartenenti alla stessa categoria, ad esempio

arredamenti. Anche se l'uno produce mobili per ufficio e l'altro arredi per ristoranti,

l'omogeneità dei due prodotti potrebbe cagionare confusione negli utenti.

Per tale ragione ad utilizzare il marchio potrà essere solo l'imprenditore che abbia

registrato il proprio marchio presso l'Ufficio italiano brevetti e marchi.

Caso a parte costituiscono i ed. marchi celebri che sono quelli (ad es. Coca Cola,

Rolex) che hanno raggiunto una notorietà tale da avere una forza attrattiva autonoma

distinta dal prodotto che realmente rappresentano.

Il titolare di un marchio registrato, che goda nello Stato di rinomanza, può vietare

a terzi di usare un marchio identico o simile al proprio anche per servizi o prodotti non

affini, quanto tale uso consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo

o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi (art. 1, lette, l.m.).

Consideriamo il caso in cui un imprenditore, che produce sigarette, decida di

apporre sulle confezioni il marchio Coca Cola. In primo luogo ne può derivare un

pregiudizio alla fama dell'imprenditore titolare del marchio celebre. In secondo luogo si

può determinare, per quel che concerne gli utenti, confusione sul mercato sulla

provenienza del bene. La tutela per l'imprenditore decorre dalla presentazione

dell'istanza di registrazione, per cui di fatto la tutela è apprestata anche anteriormente

al fatto che possa, in concreto, parlarsi di marchio celebre.

La registrazione nazionale ha una durata di dieci anni, ma di fatto è rinnovabile per

un numero illimitato di volte. La decadenza dal diritto di uso esclusivo del marchio

registrato si può avere:

· per la successiva dichiarazione di nullità del marchio;

· per volgarizzazione del marchio, che si verifica quando lo stesso è divenuto, nel

mercato, denominazione generica di quel determinato prodotto, perdendo così

capacità distintiva (è il caso ad es. di "Biro" che designa comunemente una penna a

sfera)

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Per quel che concerne il marchio non registrato è da premettersi che questo,

anche se tutelato giuridicamente, gode però di tutela minore rispetto a quello registrato.

L'art. 2571 cod. civ. dispone che chi ha fatto uso di marchio non registrato ha la facoltà di

continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui

anteriormente se ne è avvalso.

È questa l'espressione del principio del preuso in base al quale il diritto ad utilizzare

un marchio già sul mercato, anche se non registrato, sarà limitato in base alla notorietà

raggiunta da chi ne ha anteriormente fatto uso.

Pertanto, il titolare di un marchio con risonanza solo locale non potrà impedire ad un

altro imprenditore di utilizzare lo stesso marchio, per gli stessi prodotti su altra parte

del territorio nazionale.

Parimenti non potrà impedire che altro imprenditore registri il marchio

successivamente con la conseguenza che potrà continuare ad utilizzare tale marchio,

solo nei limiti della diffusione locale.

La tutela penale del marchio

La variegata disciplina penalistica dei marchi trova la sua fonte sia all'interno del

codice penale, sia all'interno di numero leggi speciali.

Per quel che concerne la disciplina codicistica possibile individuare tre diverse

tipologie di reati: la contraffazione del marchio (art. 473 cod. pen.); il commercio di

prodotto con marchio contraffatto (art. 474 cod. pen.); il commercio di prodotti con

marchio mendace (art. 571 cod. pen.).

La contraffazione del marchio

L'art. 473 cod. pen., intitolato "Contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di

opere dell'ingegno o di prodotti industriali", recita: chiunque contraffa o altera i marchi

o segni distintivi, nazionali o esteri, delle opere dell'ingegno o dei prodotti industriali,

ovvero, senza essere concorso nella contraffazione o alterazione, fa uso di tali marchi o

segni contraffatti o alterati, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino

a lire quattro milioni.

La stessa disciplina si applica a chiunque contraffa o altera brevetti, disegni o

modelli industriali, nazionali o esteri, ovvero, senza essere concorso nella contraffazione

o alterazione, fa uso di tali brevetti, disegni o modelli contraffatti o alterati (art. 473,

comma 2, cod. pen.).

L'interesse giuridico protetto è la fede pubblica, intesa come fiducia generalmente

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riposta dai consumatori nei mezzi simbolici di pubblico riconoscimento che

servono a contraddistinguere e a garantire la circolazione dei prodotti industriali.

La normativa non è però posta ad esclusiva tutela dei consumatori, bensì anche

dell'impresa, per la quale il marchio costituisce mezzo di attrattiva della clientela,

nonché elemento patrimoniale in quanto suscettibile di valutazione economica.

In primo luogo, occorre individuare l'oggetto della tutela.

La giurisprudenza, infatti, ha individuato i marchi e segni distintivi cui fa

riferimento la norma nei contrassegni usati dai produttori o commercianti per

distinguere i propri prodotti o le proprie merci da quelle similari.

La locuzione segni distintivi, però, non concerne i marchi di fatto che ricevono

protezione esclusivamente in sede civile, essendo la tutela penale apprestata solo per i

marchi registrati.

Soggetto attivo può essere chiunque; si tratta, pertanto di un reato comune.

Per quel che concerne la condotta penalmente rilevante, la norma fa riferimento

alle ipotesi di contraffazione, alterazione ed uso dei marchi contraffatti o alterati. Per

aversi contraffazione è sufficiente la riproduzione delle caratteristiche essenziali del

marchio in modo tale da ingenerare confusione sul mercato in ordine alla provenienza dei

prodotti. La riproduzione non deve essere perfetta, purché non grossolana e quindi

facilmente riconoscibile. In altre parole, la riproduzione deve essere tale da poter trarre

in inganno la media dei compratori e non soltanto un determinato acquirente o una

persona particolarmente ingenua o ignorante.

Ai fini della punibilità, pertanto, non è richiesta una integrale riproduzione del

marchio originale quanto un sufficiente grado di somiglianza tale da rendere la copia,

per l'individuo medio, confondibile con l'originale. Ne deriva che la confondibilità non

potrà essere valutata a priori, essendo, invece, richiesto un giudizio di fatto che dovrà

tenere conto soprattutto delle caratteristiche di diligenza ed accuratezza, che

contraddistinguono la categoria di consumatori cui il prodotto è destinato.

L'elemento psicologico del reato va individuato nel dolo generico, come coscienza e

volontà di falsificare o di fare uso di cui si abbia la consapevolezza dell'avvenuta

falsificazione.

Ai fini della sussistenza del reato la giurisprudenza associa, alla suddetta coscienza

e volontà, anche la consapevolezza da parte dell'agente che il marchio sia stato

depositato, registrato, o brevettato nelle forme di legge.

L'uso del marchio contraffatto comprende i casi un soggetto, senza aver concorso

alla falsificazione, utilizza il marchio per fini che siano, però, diversi da quelli rientranti

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nella previsione dell'art. 474 cod. pen. relativa all'introduzione di prodotti con

marchio contraffatto o alterato nel territorio dello stato a scopo commerciale, la

detenzione a fini di vendita e la messa in vendita.

Il tentativo è configurabile solo per quel che concerne la contraffazione di marchio,

non anche l'uso, in quanto il delitto si consuma nel momento e nel luogo del primo fatto

di utilizzazione.

Il caso: collari Bayer

Nel caso in esame si era operata la sostituzione di collari antipulci per cani

all'interno delle confezioni originarie. La Cassazione si è espressa al riguardo nella

sentenza n. 2128 del 1986 affermando che sussiste il reato di cui all'art. 473 cod. pen.

anche quando si operi la mera sostituzione del contenuto del prodotto, pur se non siano

alterate l'originalità e le qualità intrinseche, stante l'utilizzazione dello stesso metodo di

fabbricazione.

La Corte ha affermato che la confezione, infatti, rappresenta nella sua specificità il

mezzo idoneo ad identificare il prodotto, per cui la sua tutela ha la funzione principale di

proteggere la fede pubblica nel commercio.

Commercio di prodotti con marchio contraffatto

Connesso all'art. 473 cod. pen. è l'art. 474 cod. pen. intitolato "introduzione nello

Stato e commercio di prodotti con segni falsi".

La norma sanziona chiunque, fuori dei casi di concorso nei delitti preveduti

dall'articolo precedente, introduce nel territorio dello Stato per farne commercio,

detiene per vendere o pone in vendita, o mette altrimenti in circolazione opere

dell'ingegno o prodotti industriali, con marchi o segni distintivi, nazionali o esteri,

contraffatti o alterati, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a lire

quattro milioni.

L'interesse protetto ed i soggetti attivi e passivi sono gli stessi dell'art. 473 cod.

pen. In tema di contraffazione di marchi. La norma, che contempla una sanzione più

blanda di quella prevista per la contraffazione del marchio, cosi come descritta nel

precedente paragrafo, non si applica per coloro che hanno realizzato o concorso a

realizzare la realizzare la contraffazione, per i quali si applica la l'art. 473 cod. pen.

Nell'ipotesi di detenzione è richiesto il dolo specifico, in quanto i fatti debbono

essere commessi per farne commercio.

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Contraffazione di marchio mediante importazioni parallele, il caso "Calvin

Klein"

Recita il decreto del 27 giugno 1997 del Tribunale di Bologna: gli atti di

importazione in Italia da un paese extracomunitario di prodotti originali marcati dal

titolare del marchio avvenuti senza il consenso, costituiscono violazione del diritto di

marchio nazionale registrato in Italia (...)

Il caso in esame concerne la commercializzazione all'interno del territorio italiano

di prodotti realizzati in un paese extracomunitario e destinati ad un mercato diverso da

quello europeo. Nei fatti il ricorso era stato presentato dal titolare del marchio (Calvin

Klein Trademark Trust) e dal licenziatario esclusivo (Calvin Klein Inc., la quale aveva

concesso a Calvin Klein Jeanswear Europe S.p.A. la licenza d'uso in esclusiva).

Ebbene Calvin Klein produce e commercializza due tipi distinti di jeans; un jeans di

tipo italiano-europeo, ideato secondo criteri qualitativi ed estetici studiati

appositamente per tali consumatori, prodotto e diffuso solo sul mercato europeo, ed un

jeans di tipo americano, che per una scelta di politica commerciale è destinato da

essere distribuito esclusivamente negli USA e nei paesi extraeuropei.

L'American Import s.r.l. importava e commercializzava sul mercato italiano, contro

la volontà delle società Calvin Klein, capi di abbigliamento Jeanswear, recanti tale

marchio, di esclusiva provenienza e diffusione extraeuropea, ed in particolare di

provenienza USA. E quindi prodotti, è da sottolineare, che per una scelta commerciale

delle società titolari del marchio, avevano caratteristiche diverse e prezzo inferiore

rispetto al prodotto di tipo europeo in ragione di una diversa rete di distribuzione ed

erano destinati ad un diverso mercato di consumatori (USA e paesi extraeuropei).

Il problema non si sarebbe posto nel caso in cui si fosse trattato di prodotti

commercializzati in un paese diverso da quello italiano ma comunque europeo. Infatti

l'art. 1 bis, legge marchi, nell'esplicitare il ed. principio dell'esaurimento comunitario del

diritto del marchio afferma: / diritti sul marchio d'impresa registrato non permettono

inoltre al titolare di esso di vietare l'uso del marchio per prodotti immessi in commercio

nella Comunità Economica Europea con detto marchio dal titolare stesso o con il suo

consenso.

Nel caso della Calvin Klein la commercializzazione in Italia di prodotti Calvin Klein

destinati a diverso mercato, e posti in vendita a prezzi sensibilmente inferiori, aveva

valenza indubbiamente confusoria, in quanto si trattava di capi di abbigliamento che,

seppur studiati secondo criteri tendenzialmente diversi, avevano tuttavia aspetto

esteriore confondibile rispetto ai jeans prodotti e distribuiti legittimamente nella stessa

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area geografica da Calvin Klein Europe, e potevano quindi indurre il pubblico dei

consumatori a ritenere che provenissero dallo stesso produttore, con conseguente

appropriazione della rinomanza acquisita sul mercato Italiano da quest'ultima ditta.

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La tutela penale dei rapporti societari

La nozione di società

Prima di analizzare la ratio dei reati societari e la disciplina loro sottesa è opportuno

definire quando si possa parlare di società e cosa si intenda con tale termine. L'art.

2247 cod. civ. recita: con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o

servizi per l'esercizio in comune di un’attività economica al fine di dividerne gli utili.

Le società, pertanto, sono organizzazioni di persone e di mezzi create

dall'autonomia privata per l'esercizio in comune di un'attività produttiva; sono le

strutture organizzative tipiche, anche se non esclusive, previste dall'ordinamento per

l'esercizio in forma associata dell'attività d'impresa (impresa collettiva).

È da rilevare che la definizione di cui all'art. 2247 cod. civ. ha subito una parziale

deroga in quanto, con la riforma del diritto societario, è stata introdotta la possibilità

dapprima per le società a responsabilità limitata, nel 1988, e poi per le società per

azioni, nel 2003, di essere costituite anche con atto unilaterale e quindi da parte di un

unico soggetto.

I reati societari e la realtà sociale

La norma, in linea di principio, svolge, essenzialmente, una funzione di disciplina

dei rapporti sociali, andando a sanzionare, nel caso del diritto penale, quelle

manifestazioni che risultano lesive di valori sentiti dalla collettività come essenziali. Ne

consegue che la norma non è qualcosa di statico, di immutabile. Al contrario, la norma

è un elemento perennemente dinamico, che si adegua, modificandosi, alle concrete

condizioni della società moderna. Tale adeguamento è, nei fatti, un'evoluzione costante

che, nel caso del diritto penale, consente, da un lato, di tutelare nuovi valori od

esigenze di tutela che possano emergere, dall'altro, di sanzionare quelle condotte,

nuove, che potrebbero manifestarsi e per cui la disciplina al momento vigente potrebbe

rivelarsi insufficiente.

Tutto ciò premesso, è facile desumere che la disciplina penale dei c.d. reati

societari è quanto di più dinamico nel diritto vi possa essere. L'impresa, di cui la società

costituisce la manifestazione più importante, è, difatti, il motore dell'iniziativa

economica. L'uso di strumenti penalistici applicato alla disciplina dell'attività d'impresa è

di origine recente.

L'introduzione, in Italia, di una disciplina penale in materia societaria è stata

operata dal codice di commercio del 1882, che ha configurato, per la prima volta, un

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nucleo di norme concernenti la disciplina penale delle società. Peraltro, limitati erano gli

interessi tutelati, nonché le sanzioni previste.

E' nel codice civile del 1942 che viene trasfusa, nel titolo XI del libro V, la prima

organica disciplina penale societaria dal titolo "Disposizioni penali in materia di società e

di consorzi ".

L'oggetto della tutela

E' necessario determinare l'interesse protetto dalla disciplina in materia di reati

societari. Secondo la dottrina la tutela degli interessi patrimoniali collettivi, nonché la

fede pubblica, non costituiscono oggetto diretto della tutela penale.

Infatti, la non agevole individuabilità degli interessi pubblici, quale quello della

pubblica economia, non farebbe altro che favorire una eccessiva libertà nella

ricostruzione della fattispecie in netto contrasto con i principi di tipicità e

determinatezza che dovrebbero caratterizzare l'intervento penale.

Se, infatti, la determinazione della condotta punibile va determinata sulla scorta

degli interessi pubblici, di volta in volta presi in considerazione, la categoria, immensa e

in costante evoluzione di questi ultimi, non consentirebbe di ricostruire una categoria

tassativamente predeterminata dei reati societari con conseguente impossibilità per i

cittadini di orientarsi all'interno delle norme penali.

Inoltre, il problema dell'effettività della tutela, degli interessi coinvolti dall'esercizio

dell'impresa in forma societaria, non trova adeguata soluzione in un ampliamento

spropositato della fattispecie quando queste siano costruite intorno ad interessi vaghi,

quali quelli pubblici o della singola istituzione societaria, la cui percezione è affidata alla

assoluta discrezionalità e sensibilità del giudice penale.

Da quanto dedotto risulta corretta la costruzione, operata dalla legge, delle

fattispecie basata principalmente su una concezione patrimonialistica - individualistica

dei reati societari. L'interesse principale tutelato dalle disposizioni in materia di

diritto penale societario è essenzialmente quello privatistico, individuale.

Infatti, la dottrina commercialistica italiana ha rivendicato il profilo privatistico

delle società. Evidenziando l'importanza del singolo la diretta conseguenza è, in primo

luogo, quella di riconoscere alla “società” la natura di espressione di una articolazione

democratica della collettività e, in secondo luogo, la realizzazione di un concreto ed

efficiente mezzo di controllo per ottenere il rispetto delle regole.

Infatti, il riconoscimento e l'attribuzione al singolo, concretamente pregiudicato dal

comportamento lesivo, degli strumenti di reazione, è apparso come il mezzo idoneo a

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garantire la maggiore effettività di applicazione della disciplina.

Il vero problema concerne, soprattutto per le società a partecipazione diffusa, le

difficoltà che si possono porre per il singolo di far valere, in situazioni spesso

complesse e di difficile comprensione, i propri diritti.

Caso limite costituisce la nuova normativa in tema di false comunicazioni sociali.

Infatti, è tramite le comunicazioni sociali che i singoli possono venire a conoscenza delle

condotte e delle attività della società. Se, pertanto, si priva il singolo di verificare

l'esistenza di condotte pregiudizievoli si esclude, di conseguenza, anche l'esercizio di

azioni, civili e penali, dirette alla tutela dei propri interessi.

Se la società X informa male o non informa Caio, socio minore o piccolo

risparmiatore, delle attività poste in essere (ad esempio gli amministratori utilizzano il

patrimonio sociale per propri scopi) ne deriva che Caio non potrà mai conoscere, se non

quando si siano verificati ormai danni irreparabili, delle singole violazioni.

La questione non è affatto chiusa, essendo, al contrario, oggetto, al momento, di

ampi dibattiti. Se il legislatore delegato, infatti, depenalizza fattispecie criminose, riduce

le sanzioni di quelle esistenti, e restringe la punibilità delle alterazioni degli strumenti,

quali le informazioni sociali, attraverso cui il singolo conosce delle fattispecie già ridotte

e depenalizzate si apre uno spiraglio critico, in chiave garantista, di imponente

rilevanza.

I soggetti attivi: gli amministratori

I reati societari si presentano, tutti, senza eccezione, come reati propri, per cui

autore di reato può essere solo un soggetto che si trovi in particolari condizioni e abbia

determinate caratteristiche e qualifiche richieste dalla fattispecie incriminatrice.

Soggetti attivi sono, a secondo dei casi, gli amministratori, i sindaci, i direttori

generali e i liquidatori delle società.

Accanto a queste categorie principali, rilevano singole posizioni che assumono

rilevanza in specifiche ipotesi: ad esempio il rappresentante comune degli obbligazionisti

nell'art. 2634 cod. civ; i commissari governativi, nominati in caso di irregolare

funzionamento delle società cooperative.

Agli amministratori è affidata la gestione della società. L'organo amministrativo

può essere unipersonale (amministratore unico) o pluripersonale (consiglio di

amministrazione), a seconda di quanto previsto nell'atto costitutivo.

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Gli amministratori

Sono nominati dall'assemblea, per la prima nomina vengono indicati all'interno

dell'atto costitutivo e rimangono in carica per un periodo non superiore a tre anni e

sono rieleggibili, salva diversa disposizione dell'atto costitutivo.

A loro sono attribuiti poteri di diversa natura: gestiscono l'attività secondo le

indicazioni dell'assemblea, sono investiti della rappresentanza legale della società,

vigilano sul generale andamento della società.

Accanto a queste competenze di carattere generale vi è, poi, l'attribuzione di

obblighi specifici: convocano l'assemblea; ne eseguono le deliberazioni, impugnando

quelle non conformi alla legge e all'atto costitutivo; curano la tenuta dei libri e delle

scritture contabili; predispongono il bilancio di esercizio e quelli infrannuali; soddisfano

le esigenze di pubblicità legale.

Ai fini della penalistici è da sottolineare che sugli amministratori grava anche

l'obbligo di sorveglianza del generale andamento della gestione sociale per impedire il

compimento di atti pregiudizievoli o per eliminarne od attenuarne le conseguenze

dannose (art. 2392, comma 2, cod. civ.).

Da ciò deriva una responsabilità per gli amministratori sia per gli atti da loro

compiuti in prima persona, sia per le violazioni che sia conseguenza del mancato

adempimento degli obblighi di sorveglianza dall'incarico che svolgono.

Gli amministratori, inoltre, devono svolgere il proprio incarico con la diligenza del

mandatario. La diligenza loro richiesta non è, di conseguenza, la generica diligenza

richiesta all'individuo medio che va ravvisata nella usuale formula del buon padre di

famiglia, ma è una diligenza professionale, specifica, rapportata al munus svolto.

I direttori generali

Al contrario di quanto avviene per gli amministratori che non sono legati da alcun

vincolo di subordinazione nei confronti della società, i direttori generali sono dipendenti

della società stessa. Compito dei direttori generali è quello di mettere in esecuzione le

decisioni del consiglio di amministrazione, in maniero però critica, operando le

opportune scelte tattiche, comunicando le proprie decisioni agli organi subordinati e

controllandone l'esecuzione.

Per quel che concerne i profilo penale è opportuno distinguere i direttori generali

dai direttori semplici spettando a questi ultimi il mero controllo di singoli uffici o

stabilimenti. Pertanto ai direttori semplici non possono essere ascritti reati societari.

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I sindaci

Ai sindaci, nelle società di capitali, spetta il potere di controllo interno sulla

gestione. Il collegio sindacale, composto da tre o cinque membri, assolve varie funzioni,

tra cui: il compito di controllare l'amministrazione della società, e che tale attività sia

svolta conformemente all'atto costitutivo e alla legge; di verificare la regolare tenuta

delle scritture contabili, nonché la corrispondenza a queste del bilancio; svolgono

attività (ad esempio convocazione dell'assemblea) in sostituzione degli amministratori

nel caso della loro inerzia o impossibilità.

La diligenza richiesta ai sindaci è, come per gli amministratori, di natura

professionale. Inoltre sono responsabili, oltre che per le violazioni da loro stessi

compiute, anche per le violazioni compiute dagli amministratori e che siano conseguenza

del loro mancato controllo.

Il problema dei reati collegiali

Con riferimento ai soggetti attivi dei reati societari, dà luogo a particolari problemi

l'ipotesi in cui il reato è posto in essere mediante un atto collegiale (ad es. consiglio di

amministrazione che delibera, in conflitto di interessi, un atto di disposizione di beni

sociali, art. 2634 cod. civ.). Secondo una parte della dottrina il reato posto in essere

con un atto collegiale andrebbe inquadrato nell'ambito dei reati plurisoggettivi, che

richiedono la presenza di più autori. Su tale reato inciderebbe direttamente la struttura

collegiale dell'organo. Di conseguenza, per aversi reato, sarebbe necessaria la presenza

del numero minimo di soggetti utile per comporre validamente il collegio. Inoltre

sarebbe penalmente responsabile il membro dissenziente che non avesse fatto annotare

il proprio dissenso sul libro delle adunanze e non avesse inviato comunicazione scritta al

presidente del collegio sindacale.

Contro tale opinione, la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza, hanno obiettato

che i reati societari non hanno necessariamente riferimento ad organi collegiali (basti

pensare all'amministratore unico) e che comunque, in ogni caso, non sembra opportuno

escludere l'esistenza della responsabilità penale nel caso di irregolare composizione

dell'organo (ad es. non è presente la maggioranza degli amministratori in carica).

Peraltro, appare iniquo ancorare la responsabilità penale degli amministratori alla

osservanza di aspetti meramente formali. Basta pensare, in proposito, al trattamento

che altrimenti sarebbe riservato all'amministratore che, pur facendo risultare

formalmente il proprio dissenso, si adoperi, in realtà, per far approvare dagli altri

amministratori la delibera costituente reato. Si deve concludere, alla stregua di tali

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considerazioni, che i reati c.d. collegiali sono reati monosoggettivi dovendosi valutare

congniamente, la condotta tenuta dal singolo amministratore e la sua portata offensiva.

I Reati di Bancarotta

Il reato di bancarotta fonda le sue radici storiche nell'Età Comunale, quando il ceto

mercantile reagiva in maniera rigorosa alla patologia dell'insolvenza, sia intesa come

disonestà sia come incapacità del mercante nel soddisfare la fiducia accordata dai

creditori. Tale insolvenza era, infatti, vista come destabilizzante di un sistema che si

basava essenzialmente sulla fiducia accordata ai mercatores. Ne conseguiva una

repressione severa, anche con pene corporali, di un delitto capace sia di ridurre in

miseria coloro che nel mercante insolvente avessero fatto affidamento, e sia,

soprattutto, di gettare discredito sull'intera classe dei mercatores, scoraggiando quello

che era, ed è, il principale motore di spinta di un sistema economico: il credito.

La “rottura del banco” (da qui “bancarotta”), con cui si rendeva pubblico il

dissesto, segnava il dispregio di un'intera comunità. Dalle prime emersioni punitive di

tali condotte il reato penale di bancarotta è andato evolvendosi, adeguandosi alle nuove

esigenze commerciali.

La bancarotta va, infatti, inquadrata all'interno di un particolare contesto della vita

dell'impresa: quella patologica che si verifica quando vi è una situazione di insolvenza

permanente per l'imprenditore.

Tale “stato di insolvenza” è definito all'interno dell'art. 5 della legge fallimentare,

come la situazione in cui l'imprenditore non è più in grado di far fronte, regolarmente,

alle proprie obbligazioni. La sentenza di fallimento presuppone infatti due condizioni in

capo al soggetto:

1. la qualità di imprenditore (commerciale e non piccolo);

2. lo stato di insolvenza dello stesso

Imprenditore e scritture contabili

L'art. 2082 cod. civ. definisce come imprenditore chi esercita professionalmente

un'attività economica organizzata alfine della produzione o lo scambio di beni o di

servizi. La professionalità sussiste se vi è stabilità dell'attività, inteso come esercizio

abituale, e non occasionale di una determinata attività produttiva.

Di conseguenza, non è imprenditore chi acquista e vende merci in un'unica

soluzione od organizza un singolo evento sportivo. L'abitualità però non presuppone

anche la continuità, non essendo richiesto che l'attività sia svolta in modo continuato e

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senza interruzioni. Ne consegue che sono imprenditori quelli che svolgono attività

stagionali (stabilimenti balneari; industrie conserviere che operano solo in determinati

periodo dell'anno). Ciò che rileva, infatti, è che alle spalle dell'imprenditore vi sia una

organizzazione stabile, destinata a durare nel tempo o comunque per un tempo

rilevante. La conseguenza è che assume la veste di imprenditore anche colui cui è

affidata la costruzione di un ponte, quindi un unico intervento ed un'unica prestazione,

quando però tale opera richieda tempi talmente o interventi così complessi da

necessitare di una struttura organizzativa complessa e duratura.

L'attività economica è quella rivolta alla produzione di nuova ricchezza, o

attraverso la produzione di beni o attraverso la distribuzione di essi. L'attività è

economica quando è svolta al fine o di ottenere un utile, o almeno di coprire i costi con i

ricavi. Pertanto non è imprenditore chi produce beni o servizi secondo modalità che fanno

escludere oggettivamente la possibilità di tale pareggio. Di conseguenza non è

imprenditore l'associazione privata che gestisce gratuitamente un ospedale. Al contrario

è imprenditore chi gestisce i medesimi servizi avendo come presupposto la copertura

delle passività con i ricavi. E questo anche se, di fatto, le condizioni di mercato non

consentano di remunerare i fattori produttivi.

La qualifica di imprenditore commerciale compete, come afferma l'art. 2195

comma 1° cod. civ., a chi esercita:

1. una attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi (vi rientrano, ad

esempio, le imprese industriali automobilistiche, chimiche, tessili);

2. attività intermediaria nella circolazione di beni;

3. attività di trasporto (per terra, acqua, aria, sia di persone che di cose);

4. attività bancaria o assicurativa;

5. altre attività ausiliarie delle precedenti (vi rientrano tutte le attività

strumentali a quelle precedenti: imprese di agenzia, di pubblicità).

La qualifica di "piccolo imprenditore" compete a chi esercita la propria attività con

lavoro prevalentemente proprio o dei propri familiari. Pertanto, l'imprenditore è piccolo

quando la manodopera personale o comunque quella dei propri familiari assume una

rilevanza maggiore rispetto ai mezzi produttivi ed alle strutture organizzative utilizzate.

Per quel che concerne le scritture contabili va specificato che queste sono i

documenti che contengono la rappresentazione dei singoli atti di impresa, della

situazione del patrimonio dell'imprenditore e del risultato economico dell'attività svolta.

Sono tenuti all'obbligo delle scritture contabili gli imprenditori che esercitano

attività commerciale, con esclusione dei piccoli imprenditori.

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Le disposizioni penali

Le disposizioni penali in materia di bancarotta trovano la loro espressione

all'interno delle legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942, n. 267), precisamente nel Titolo

VI. Lo scopo di tali incriminazioni è quello di garantire, per le conseguenze sul regolare

svolgimento della pubblica economia, la regolarità della procedura fallimentare e, per

quanto possibile, il soddisfacimento delle pretese dei creditori.

La legge fallimentare, negli artt. 216 e 217, delinea due distinte figure criminose:

la bancarotta fraudolenta e la bancarotta semplice. Ciascuna di queste, poi, è a sua

volta composta da una pluralità di incriminazioni.

In particolare la bancarotta fraudolenta si distingue in: bancarotta fraudolenta

patrimoniale, bancarotta fraudolenta documentale e bancarotta fraudolenta

preferenziale.

La bancarotta semplice, a sua volta, si distingue in: bancarotta semplice

patrimoniale, bancarotta semplice documentale, che saranno oggetto della nostra

analisi, ed inadempimento delle obbligazioni assunte in un precedente concordato

giudiziale.

Nella bancarotta fraudolenta l'imprenditore, poi fallito, mira, con la propria

condotta, a ledere il diritto dei creditori a rivalersi sul patrimonio residuo, o il principio

secondo cui i creditori del fallito devono essere soddisfatti tutti in eguale misura (ed. par

condicio creditorum). La finalità, pertanto, della condotta in esame è quella di

pregiudicare i creditori. Nei reati di bancarotta semplice, anche se il danno cagionato

dal comportamento dell'imprenditore è lo stesso della bancarotta fraudolenta (la

perdita, da parte dei creditori, del diritto di soddisfare le proprie pretese patrimoniali sui

beni dell'imprenditore) manca, però, la finalità di quest'ultima, ovvero la volontà di

arrecare pregiudizio ai creditori.

Infatti il danno, consistente nell'aggravamento del dissesto, è la conseguenza di

condotte dell'imprenditore poste in essere in violazione dell'obbligo generale di “buona

fede” nei rapporti commerciali, o dal mancato adempimento di obblighi imposti dalla

legge (come è il caso della bancarotta semplice documentale in cui l'imprenditore non

adempie all'obbligo di tenere le regolari scritture contabili), ovvero da comportamenti

che depauperano, senza alcuna contropartita, il patrimonio (come avviene nella

bancarotta semplice patrimoniale, quando, ad esempio, l'imprenditore utilizza il proprio

patrimonio per spese personali eccessive rispetto alla condizione economica).

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Bancarotta fraudolenta patrimoniale

Ai sensi del n. 1 dell'art. 216 L. F. è punito con la reclusione da tre a dieci anni, se

è dichiarato fallito, l'imprenditore che: ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o

dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di arrecare pregiudizio ai suoi

creditori ha esposto o riconosciuto passività inesistenti.

Il secondo comma dell'art. 216 prevede che la stessa pena si applica

all'imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette

alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente.

L'interesse tutelato è, evidentemente, quello di ciascun creditore alla integrità del

patrimonio del fallito contro ogni atto di depauperamento del medesimo.

I fatti descritti sono penalmente rilevanti sia se commessi prima sia se commessi

dopo la sentenza dichiarativa di fallimento assumendo pertanto rilevanza anche

condotte non commesse in un'epoca prossima alla sentenza di fallimento ma a questa

collegate. Analizziamo ora le singole condotte rilevanti:

distrazione: si verifica allorché l'imprenditore destina ingiustamente i propri beni

ad una destina ingiusta e diversa da quella del conseguimento dello scopo sociale e del

soddisfacimento dei creditori. Nei gruppi di società si ha distrazione quando si

trasferiscono capitali da una società all'atra senza contropartita, anche se nell'interesse

del gruppo;

distruzione: consiste nell'annullare in tutto o in parte il valore economico del

bene. Ad es. si distrugge un bene aziendale;

dissipazione: si realizza quando l'agente, con un comportamento del tutto

irrazionale, depaupera il proprio patrimonio con il compimento di atti negoziali che si

traducono in uno sperpero dello stesso, senza alcuna giustificazione per l'economia

dell'azienda.

L'elemento soggettivo richiesto è il dolo generico, è sufficiente, cioè, che il

soggetto abbia avuto volontà e consapevolezza di destinare i beni ad un uso diverso da

quello che avrebbero dovuto avere, essendo irrilevante lo scopo perseguito.

Bancarotta fraudolenta documentale

La stessa pena prevista per fraudolenta patrimoniale si applica, ex art. 216 L.F. n.

2, a chi ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare

a sé o ad altri un ingiustificato profitto o di recare pregiudizio ai creditori, i libri o le altre

scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del

patrimonio o del movimento degli affari. La stessa pena si applica all'imprenditore,

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dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare,... sottrae, distrugge o falsifica

i libri o le altre scritture contabili.

Le scritture contabili, in generale, consentono la ricostruzione del patrimonio e

degli affari del fallito e quindi una maggiore tutela dei creditori.

La distruzione o l'occultamento di queste, da parte dell'imprenditore, impediscono

agli organi fallimentari di determinare i beni residui su cui poi saranno soddisfatti i

creditori.

Bancarotta fraudolenta preferenziale

L'art. 216 L.F. recita: è punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che

prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno di taluno dei

creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.

In sede di liquidazione fallimentare il principio che ordina l'intera disciplina è quello

della par condicio creditorum, intesa come equiparazione delle pretese creditorie. Se,

pertanto, Tizio e Caio sono entrambi creditori del fallito entrambi hanno diritto ad essere

soddisfatti in misura analoga. L'interesse tutelato in modo specifico dalla bancarotta

preferenziale è proprio quello della parità dei creditori, alterata dai pagamenti

preferenziali effettuati dal fallito. Tuttavia, per l'esistenza del reato è necessario che vi

sia una effettiva lesone della par condicio, per cui è da escludere la illiceità del

pagamento se non vi è pregiudizio per la massa dei creditori.

L'elemento soggettivo è quello del dolo specifico, essendo necessario che il fallito

abbai agito con lo scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi (ad esempio se

Tizio, creditore, era comunque privilegiato nei confronti di Caio, altro creditore, perché

garantito da ipoteca).

Ne consegue che non costituisce reato il comportamento dell'imprenditore che

esegua pagamenti a creditori determinati per farli desistere dall'istanza di fallimento

mancando in siffatta ipotesi il dolo specifico.

Bancarotta semplice patrimoniale

L'art. 217 L.F. punisce con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato

fallito, l'imprenditore che, fuori delle ipotesi di bancarotta fraudolenta:

1. ha fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua

condizione economica;

2. ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura

sorte o manifestamente imprudenti;

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3. ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento;

4. ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione

del proprio fallimento o con altra colpa grave.

Tutte queste condotte impoveriscono, riducendolo, il patrimonio.

Con riferimento alla prima condotta (compimento di spese personali o per la

famiglia eccessive rispetto alla condizione economica) è da rilevare che è irrilevante la

superfluità o meno della spesa, dovendosi valutare se sia eccessiva o meno rispetto al

patrimonio complessivo dell'imprenditore.

La seconda condotta fa riferimento sia alla operazioni di pura sorte, il cui esito è

affidato al caso (come avviene nel gioco d'azzardo), sia a quelle condotte

manifestamente imprudenti (caso è quello dei giochi di borsa particolarmente azzardati).

La terza ipotesi (compimento di operazioni di grave impudenza per ritardare il

fallimento) è realizzata tutte le volte che l'imprenditore, allo scopo di ritardare il

fallimento, fa ricorso a mezzi rovinosi. È il caso, ad esempio, del ricorso sistematico alle

svendite, o la stipula di mutui ad interessi usurai.

L'ultima ipotesi (aggravamento del dissesto per mancata richiesta del proprio

fallimento o per altra colpa grave) riguarda i casi in cui l'imprenditore, che si trovi in

una situazione palese di incapacità finanziaria, non ottemperi all'obbligo di chiedere il

proprio fallimento determinando un aggravamento del proprio dissesto.

Il reato è punibile sia a titolo di dolo che a titolo di colpa. È sufficiente, pertanto,

perché il fallito sia punibile, che questi abbia agito con imprudenza, imperizia o

negligenza.

Bancarotta semplice documentale

Il secondo comma dell'art. 217 Legge Fallimentare punisce con le stesse pene

previste per la bancarotta semplice patrimoniale, il fallito che, durante i tre anni

antecedenti ala dichiarazione di fallimento ovvero dall'inizio dell'impresa, se questa ha

avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti

dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.

L'interesse tutelato è, in analogia con la bancarotta fraudolenta, quello di una

esatta ricostruzione del patrimonio del fallito n base alle scritture contabili. L'elemento

soggettivo è costituito sia dal dolo che dalla colpa.

Cenni sulla disciplina del concorso di persone nel reato

La realizzazione del reato può avvenire ad opera di una o più persone. In questo

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secondo caso si ha quello che il nostro codice definisce “concorso di persone nel reato”,

che può essere generalmente indicato anche come compartecipazione criminosa o

compartecipazione al reato.

Allorché nel reato si verifica una molteplicità di compartecipi, bisogna distinguere

due ipotesi.

Quella del concorso denominato "necessario", che si ha quando la stessa natura

del reato fa si che esso sia realizzato da più soggetti: si pensi al reato di incesto (esso è

commesso da due persone), al reato di rissa, al reato di cospirazione politica.

L'altra ipotesi è quella del concorso cosiddetto "eventuale", che si realizza quando

il reato può essere indistintamente realizzato da una o più persone, es. l'omicidio, la

rapina.

La cooperazione di varie persone può avvenire sia nella fase di ideazione che in

quella di attuazione del reato: nella prima suscitando o rafforzando il proposito di

commetterlo; nella seconda, eseguendo in tutto o in parte l'azione, oppure prestando

aiuto, o ancora favorendo l'azione medesima.

E bene anche sottolineare che l'apporto di vari compartecipi può essere diversa per

specie ed entità. Quando accade che un reato sia commesso da più persone, tutte sono

soggette a sanzioni; l'articolo 110 C. P. testualmente: “Quando più persone concorrono

al medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”.

A tale criterio, sono introdotti dei contemperamenti, che si concretano nel

riconoscimento di alcune circostanze, che aggravano o attenuano la pena per taluni dei

partecipanti.

Secondo la concezione tradizionale, il reato, anche quando ha più soggetti, resta

unico ed indivisibile (teoria monistica), mentre per altri (teoria pluralistica) le cose stanno

diversamente. I problemi principali che si riconnettono al concorso sono costituiti

principalmente dall'individuazione del ruolo assunto da ciascuno dei compartecipi,

dall'eventuale diverso trattamento sanzionatorio da riservare a ciascuno di essi e

dall'aspetto psicologico che li ha visti interessati alla commissione del fatto.

I fondamenti del concorso di persone nel reato, sono importanti soprattutto per

comprendere la possibilità di delinquere delle persone giuridiche, le quali potrebbero in

concorso con altri (magari persone fisiche) compiere reati che altrimenti, la mancanza

della possibilità di azione, impedirebbe loro di realizzare; si pensi ad es. alla possibilità

incaricare un sicario per commettere un omicidio.

Ma è importante conoscere i principi del concorso soprattutto se si vogliono

comprendere appieno le logiche legate ai reti commessi dalla criminalità organizzata.

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Art. 416 bis codice penali: Associazione di stampo mafioso

L'art. 416 bis, introdotto nel codice penale dalla legge 13 settembre 1982, n. 646

incrimina: Chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più

persone, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Peculiarità dell'associazione

di tipo mafioso sono la particolare forza intimidatrice del vincolo associativo e la

condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, fattori di cui i suoi

componenti si servono per commettere delitti, nonché per acquisire in modo diretto o

indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di

autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per

sé o per altri.

Le finalità elencate nella norma coprono un'area pressoché indefinita di possibili

tipologie di delitti e possono avere ad oggetto anche attività lecite. Il criterio

discriminatorio che consente di ricondurre le varie condotte all'art. 416 bis va rinvenuto

nelle modalità associative in cui queste si realizzano. Le singole condotte, in altri

termini, non hanno un'autonoma rilevanza penale, ma vengono sanzionate in quanto

espressione di una organizzazione mafiosa che opera dietro le quinte.

La connotazione mafiosa e gli elementi del reato

Potendo al massimo rientrare in altre fattispecie penali, in quanto aggressive della

libera espressione delle attività socio-economiche.

Affinché sia configurabile la fattispecie in esame, non è sufficiente il mero accordo;

è necessaria, infatti, una struttura organizzativa. Il delitto si consuma con l'ingresso

nella associazione e tale consumazione si protrae, sino a quando non intervenga lo

scioglimento o l'abbandono da parte del soggetto attivo.

La condotta di partecipazione ad un'associazione per delinquere, per essere

punibile, non può esaurirsi in una manifestazione di volontà del singolo di aderire alla

associazione che si sia già formata, occorrendo, invece, la prestazione, da parte dello

stesso, di un effettivo contributo, che può essere anche minimo e di qualsiasi forma e

contenuto, purché destinato a fornire efficacia al mantenimento in vita della struttura o

al perseguimento degli scopi di essa.

Non integra il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso il semplice

apprezzamento dei valori negativi della stessa associazione o l'apprezzamento per il

capo od i capi dell'organizzazione, essendo necessario un contributo diretto e concreto.

L'elemento psicologico consiste nel dolo, inteso come volontà di essere

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associato e nella consapevolezza della natura e delle finalità dell'organizzazione, con

la determinazione di realizzarne il particolare programma e di essere disponibile ad

operare per la attuazione del comune programma delinquenziale con ogni condotta

idonea alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura associativa.

La connotazione mafiosa ex art. 416 bis c.p. nasce dal modus operandi, che trae

forza dalla stessa esistenza del vincolo associativo, che essendo noto nell'ambiente

sociale induce un diffuso stato di assoggettamento e di omertà, e del bene giuridico

protetto, che è costituito non solo dall'ordine pubblico in genere, ma anche dall'ordine

pubblico economico, stante la propensione dell'associazione ad acquisire il controllo

dell'economia del luogo. L'elemento materiale è costituito dalla condotta di

partecipazione ad associazione di tipo mafioso, intendendosi per partecipazione la

stabile permanenza del vincolo associativo tra gli autori (almeno in numero di tre) del

reato allo scopo di realizzare una serie indeterminata di attività tipiche dell'associazione,

e per tipo mafioso la circostanza, per cui coloro che ne fanno parte si avvalgano della

forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di

omertà che ne deriva per commettere delitti.

Tale intimidazione ed assoggettamento non costituisce, però, una modalità della

condotta associativa, bensì un elemento strumentale, come evidenziato dal termine “si

avvalgono”, non dovendosi, però, estrinsecare, ogni volta, in atti di violenza fisica o

morale, per il raggiungimento dei fini prefissati, in quanto l'assoggettamento implica

uno stato di soggezione, derivante dalla convinzione di essere esposti a un concreto e

inevitabile pericolo a fronte della forza dell'associazione, e l'omertà consiste in una

forma patologica di solidarietà, che ostacola o rende più difficoltosa l'opera di

prevenzione e di repressione che dal vincolo associativo deriva per il singolo, sia

considerato come membro dell'associazione, sia come terzo a questa estraneo. Perché

sussista omertà è sufficiente che il rifiuto a collaborare con gli organi dello Stato sia

sufficientemente diffuso, anche se non generale; che tale atteggiamento sia dovuto alla

paura non tanto di danni all'integrità della propria persona ma anche solo all'attuazione

di minacce che comunque possono realizzare danni rilevanti.

Per la configurabilità del reato di cui all'art. 416 bis c.p. non è necessaria una

preventiva condanna degli associati per i reati “fine” essendo sufficiente che la loro

consumazione risulti nel corso del processo e che la loro commissione sia riportabile

all'attività degli adepti della societas scelerum.

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Il sistema sanzionatorio

Sanzioni previste sono per i capi, promotori od organizzatori, la reclusione da 4 a 9

anni se l'associazione non è armata e da 5 a 15 se lo è; per i semplici gregari la

reclusione da 3 a 6 anni nel primo caso e da 4 a 10 anni nel secondo.

L'associazione si intende "armata"quando i partecipanti hanno a disposizione, per

realizzare i propri fini, armi o materie esplosive, anche se solo depositate o nascoste.

Sono reati “fine” quelli che costituiscono il risultato finale voluto dall'agente. Al

contrario i reati “mezzo” sono quelli commessi per il raggiungimento del reato ulteriore

che è il reato “fine”.

Le pene sono tutte aumentate da un terzo alla metà se le attività economiche di

cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo risultino finanziate in tutto

o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto dei delitti. E sempre obbligatoria la

confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato o delle cose

che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego.

Alla sentenza di condanna, anche se non definitiva, devono far seguito

accertamenti di natura fiscale e patrimoniale.

Il Concorso esterno

Il crimine organizzato

Una caratteristica fondamentale del crimine organizzato è quella di creare “reti di

relazioni” con lo “Stato – apparato” (politici, burocrati ecc.) e con lo “Stato – società”

(organizzazioni sociali, imprese, professionisti, singoli), utilizzando la forza di

intimidazione e l'omertà nonché le sue enormi risorse finanziarie quali potenti mezzi di

convincimento e dissuasione.

Si sviluppa, così, un’area “grigia” in cui il fenomeno delinquenziale comune si

confonde con la “criminalità dei colletti bianchi”, con la conseguente emersione di nuove

tipologie comportamentali non facilmente riconducibili a specifiche norme giuridiche,

Di fronte a questa realtà il legislatore è apparso impreparato e colpevolmente poco

sensibile, mentre la giurisprudenza (i giudici) ha elaborato e sviluppato il concetto di

“contiguità” alla mafia, i cui confini, seppure definiti ormai in varie sentenze, restano

piuttosto incerti.

Quest'ultima caratteristica, paradossalmente, appare utile: si afferma, infatti, che

“... di fronte alla oggettiva difficoltà in cui ci si trova quando si mette mano a definire

specie, natura e qualità dei rapporti delle organizzazioni mafiose con il mondo della

politica, degli affari, degli operatori economici, delle professioni ecc., utilizzare criteri

rigidi... potrebbe costituire un ostacolo a risposte adeguate alla varietà e alla variabilità

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delle situazioni che si possono presentare in concreto”.

Da quest’ultima considerazione emerge chiaramente come la categoria in esame è

frutto di una logica “emergenziale”, legata alla lotta alle mafie.

La figura del concorrente esterno nei reati associativi, non a caso, ha trovato

giuridica consacrazione durante l'emergenza legata al terrorismo di matrice politica,

nell'ambito della fattispecie di banda armata.

Il dibattito sulla configurabilità del concorso esterno

Il tema del concorso esterno dei reati associativi ha acceso un ampio dibattito

dottrinale e giurisprudenziale del quale si cercherà di dar conto qui di seguito:

a) Una prima impostazione, partendo da una nozione ampia di partecipazione

all'associazione, ha negato la configurabilità del concorso esterno per la sua

sovrapponibilità con la condotta del partecipe, già strutturalmente a forma libera.

In tale direzione una sentenza della Corte di Cassazione ha affermato che " la ed.

partecipazione esterna...si risolve, in realtà, nel fatto tipico della partecipazione punibile".

D'altra parte si è sottolineata la superfluità della figura in esame a fronte della previsione

positiva di una serie di apporti esterni all'associazione di tipo mafioso ( il

favoreggiamento aggravato, l'assistenza agli associati, l'aggravante di cui all'art. 7

legge n. 203/1991, le varie forme di istigazione).

Accanto alle predette forme tipizzate di contributo esterno al sodalizio mafioso, vi

sono, inoltre, forme di concorso "interno" dell'extraneus: infatti, come da più parti

sostenuto, le attività di promozione, costituzione e organizzazione, riferibili alla fase genetica

dell'associazione, non sono necessariamente dipendenti dalla partecipazione interna

all'associazione mafiosa.

Ora, considerando al regola generale in base alla quale la disciplina del concorso

eventuale è sempre applicabile al concorrente necessario, salvo che la diversa disciplina

della fattispecie di parte speciale non lo impedisca, la previsione di forme di "concorso

interno dell'estraneo" già individuate dall'art. 416 bis c.p., secondo un'apprezzabile dottrina

(Sessa, 1999), rappresenterebbe proprio una delle deroghe all'applicabilità della regola

suddetta.

In sostanza, proprio dall'analisi della fattispecie associativa e delle norme

accessorie, emerge l’inapplicabilità della clausola generale di cui all'art. 110 c.p., restando

punite solo quelle condotte riferibili alle ipotesi tipiche di apporto interno (promotore e

organizzatore non partecipi) o esterno (artt. 416 ter e 418 c.p., favoreggiamento persona le

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reato aggravato, istigazione, finanziamento dell'associazione finalizzata ala traffico di

stupefacenti).

b) Secondo un'altra tesi, la formulazione dell'art. 416 bis ("coloro che promuovono

l'associazione sono puniti per ciò solo"), consente che un contributo di livello

organizzativo possa essere apportato anche da un non associato: "non si può escludere

che un soggetto estraneo al sodalizio possa svolgere un'attività (magari saltuaria) tale

da contribuire dall'esterno alle strategie" dell'associazione.

La natura composita del contributo apportato dall'organizzatore renderebbe

possibile isolare talune attività specifiche di organizzazione che costituiscono un quid

pluris su cui innestare il concorso esterno dell'estraneo, mentre dal contributo del

partecipe sarebbe impossibile isolare una porzione autonoma dal "far parte".

Tale resi sembra ben collegarsi a un importante pronuncia delle Sezioni Unite della

Corte di Cassazione, secondo cui il concorso esterno è configurabile ma solo in ipotesi in

cui si pongono in essere condotte utili per consentire all'associazione di uscire da

situazioni particolari. L'argomentazione centrale è stata la seguente: "il concorrente

eventuale è, per definizione, colui che non vuole far parte dell'associazione e che

l'associazione non chiama a far parte, ma al quale si rivolge, sia, a esempio, per colmare

temporanei vuoti in un determinato ruolo, sia, soprattutto nel momento in cui la

fisiologia dell'associazione entra in...una fase patologica, che, per essere superata,

esige un contributo temporaneo, limitato, di un esterno... Lo spazio proprio del

concorso eventuale materiale appare essere quello dell'emergenza nella vita

dell'associazione... La anormalità, la patologia...può esigere anche un solo contributo, il

quale...può essere anche solo episodico, estrinsecarsi...in un unico intervento, perché

ciò... che rileva è che quell'unico contributo serva per consentire all'associazione di

mantenersi in vita".

Sposta l'attenzione sul ruolo del partecipe all'associazione chi ritiene che il

concorrente esterno è colui il quale dà un contributo causale per lo svolgimento di tale

ruolo, rappresentandosi il collegamento della sua condotta con quella del partecipe: "si

può ipotizzare il concorso di una persona con un'altra per commettere un reato, ma

non... il concorso di una persona con il reato (vale a dire l'associazione per delinquere)

per commetter il medesimo reato".

Si critica così la prassi che tende a personificare le associazioni criminali e ad

affermare che il soggetto concorre dall'esterno all'associazione, laddove, invece,

l'apporto dell'extranens deve essere agganciato a quello dei soci interni.

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Viene, infatti, accolta la concezione ed. monastica del concorso di persone e,

conseguentemente, “il concorrente esterno è tale quando, pur estraneo all'associazione ...

apporti un contributo che sa e vuole sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale del

programma criminoso del sodalizio". Dal punto di vista soggettivo la distinzione tra dolo del

partecipe e del concorrente esterno si fonda, da una parte, sul segmento dell'atteggiamento

psicologico che riguarda la volontà di far parte dell'associazione, dall'altra emerge in senso

positivo "poiché il ricorso alle norme sul concorso fa emergere comportamenti atipici rispetto a

quello delineati nella fattispecie di parte speciale, ma che si pongono in relazione causale con

quest'ultima".

Dal punto di vista oggettivo la mera "contiguità compiacente" o la "vicinanza" o la

disponibilità nei riguardi del sodalizio o dei suoi esponenti, devono essere necessariamente

accompagnate da positive attività che forniscono uno o più contributi utili al rafforzamento o

al consolidamento dell'associazione, secondo gli stesso paramenti usati per riconoscere la

partecipazione. Infine, è importante evidenziare che "la fattispecie concorsuale esiste anche

prescindendo dal verificarsi di una situazione di anormalità nella vita dell'associazione" e

che non ha un peso decisivo il fatto che l'attività del concorrente sia stata continuativa

oppure episodica. Restano, in ogni caso, le critiche verso quest'ultimo indirizzo che così

possiamo riassumere:

a) L'estensione della punibilità grazie al meccanismo di cui all'art. 110 c.p. determina, in

tal caso, una riconoscibile violazione del principio di tassatività e determinatezza.

Di ciò anche la Corte Suprema sembra preoccuparsi, ma liquida la questione affermando

che il rispetto dei suddetti principi "è tutto sommato raggiunto, perché il legislatore ... individua

condotte sufficientemente tipizzate (art. 416 bis, commi 1 e 2), onde la vocazione estensiva

propria della norma di cui all'art. 110 c.p. appare pur sempre ancorata a precisi riferimenti

normativi".

b) Si finisce per attribuire un peso eccessivo alla "decisione" degli associati di non

accettare la partecipazione altrui: la punibilità qui appare derivare dalla scelta dei consociati

circa l'accettazione o meno di un nuovo membro, non considerando adeguatamente il ruolo del

ed. extraneus e il suo contributo il quale è pur sempre accettato, anzi cercato e sperato da

parte dell'associazione e dei suoi componenti.

Questa ricerca di contributi ed. esterni, soprattutto, nell'attuale sviluppo

imprenditoriale delle organizzazioni criminose, dimostra chiaramente l'importanza

"strategica" degli stessi per la vita dell'associazione; per tale via, visto che la stessa

Corte sottolinea che tali contributi devono essere indirizzati all'associazione nel suo

complesso, questi stessi apporti sono così utili da far concludere che sol

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"formalisticamente" i loro autori possono definirsi "estranei" all'associazione.

c) Infine, si vuole sottolineare che, in base all'impostazione descritta, appare

probabile che si ricorra alla figura del concorrente esterno in base a valutazioni in

qualche modo riferibili a concezioni penali improntate all'inaccettabile tesi del "tipo

d'autore": il rischio è che si ritenga sussistente la figura del concorrente esterno e non

del partecipe - e viceversa, a seconda che il soggetto imputato, per la sua vita e le sue

abitudini, sia riconducibile a un'area “sociologica” considerata prossima al ”mafioso –

tipo” oppure al “colletto bianco – tipo”.

L'art. 416 ter

Nel tentativo di superare i problemi legati alla configurabilità del concorso esterno

nel reato associativo e di assicurare il soddisfacimento delle esigenze repressive che ne

sono alla base, il legislatore, con l'art. 11 ter della legge n. 356/1992, ha previsto la

fattispecie di scambio elettorale politico - mafioso, introducendo nel codice l'art. 416 ter

“la pena stabilita dal c. 1 del 416 bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti

prevista dal terzo comma del medesimo art. 416 bis in cambio di erogazione di denaro”.

Da un punto di vista letterale la norma non richiede esplicitamente la presenza di

un’associazione, ma la sua collocazione nel codice, la stessa rubrica dell'articolo (che

allude a una forma di “scambio elettorale politico-mafioso”) e, soprattutto, il richiamo

alla “promessa di voti prevista dal terzo comma dell'art. 416 bis”, militano a favore

dell'opposta soluzione.

Infatti l'erogazione di denaro in cambio della promessa di voti può integrare di per

sé le fattispecie incriminatici in materia di corruzione elettorale.

La vigenza di tali norme, anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 416 ter, è

confermata dal fatto che l'art. 11 quater 1. n. 356/1992 si preoccupa di elevare il livello

sanzionatorio per l'ipotesi di corruzione elettorale, di cui all'art. 96 D.P.R. n. 361/1957;

sostenendo l'idea che l'art. 416 ter contempli e punisca lo scambio elettorale

intervenuto tra soggetti operanti uti singuli, si finirebbe, quindi, per avvalorare una

duplicazione di fattispecie destinate a colpire lo stesso comportamento criminoso.

Inoltre le modalità che caratterizzano l'intimidazione mafiosa risultano poco

conciliabili con il carattere “sinallagmatico” dell'accordo avente a oggetto l'erogazione di

denaro in cambio della promessa di voti: l'obiettivo di condizionare la libera espressione

del voto, in questo caso, viene perseguito non attraverso violenza o minaccia ma

offrendo una somma di denaro a titolo di corrispettivo dell'impegno a esercitare in un

certo modo la facoltà di scelta elettorale.

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Lo scopo più evidente della norma, quindi, è quello di descrivere e tipizzare una

particolare ipotesi di compartecipazione "eventuale" nel reato associativo, incentrandola

sull'erogazione di denaro a favore di un'associazione mafiosa; un'utilità che risulta

subordinata alla correlativa promessa di voti da parte dell'associazione (De Francesco,

1995, p. 75).

La promessa di voti di cui al terzo comma dell'art. 416 bis deve intendersi come la

promessa di voti effettuata da un'associazione mafiosa di garantire un sostegno

elettorale adeguato in termini di un ostacolo di un impedimento o di un procacciamento

di voti anche a favore di terzi estranei all'associazione.

La promessa di voti, proprio perché riferita a quanto esposto dall'art. 416 bis, non

si può intendere come promessa di votare, ma di far votare terzi in numero sufficiente a

favorire il soggetto che ha erogato il denaro.

Circa quest’ultimo, l'idea che esso debba essere destinato a favore

dell'associazione e non di un singolo associato risulta comprovato dalla pena prevista

per l'autore della condotta incriminata, individuata per relationem tramite il ricorso alla

sanzione prevista dal primo comma dell'art 416 bis. Ciò dimostra, ancora una volta, che

“l’essenza originaria ... del modello legale resta ... quello di un aiuto prestato da un

soggetto esterno all'associazione e rivolto al potenziamento e consolidamento ulteriore

dell'efficienza ... di quest'ultima” (De Francesco, 1995, p. 76).

La norma, in ogni caso, si rileva insufficiente rispetto all'intento perseguito dal

legislatore perché non si tiene conto del fatto che l'aiuto prestato all'associazione, nella

maggior parte dei gasi, non consiste in un'elargizione di denaro, ma nel favorire in

qualche modo le cosche (per es. facendo assumere persone da queste indicate come

dipendenti di pubbliche amministrazioni, specialmente locali).

L'articolo 418

Il delitto di assistenza agli associati (art. 418 c.p.), già previsto nel codice del 1930

in relazione all'art. 416, ha subito un'automatica estensione dopo l'introduzione dell'art.

416 bis. Esso troverà applicazione anche nel caso in cui "fuori dai casi del concorso nel

reato o di favoreggiamento, sia fornito rifugio o vitto a chi partecipa a un'associazione

di tipo mafioso". È prevista un'aggravante in caso di prestazione continuativa e la non

punibilità per il fatto commesso in favore di un prossimo congiunto.

La clausola di riserva, con cui esordisce la fattispecie, pone il problema

dell'individuazione di un preciso confine tra partecipazione del delitto associativo e

ipotesi di assistenza agli associati.

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L'orientamento dominante afferma che il contributo riconducibile all'art. 418 non

va a vantaggio dell'organizzazione nel suo complesso, ma dei singoli associati, anche se

diversi. Si concretizza un'ipotesi di assistenza e non di partecipazione all'associazione

anche quando ricorre la circostanza aggravante della prestazione continuativa, posto

che anche tale rete d'azione non avrebbe come destinataria l'associazione ma i singoli

membri (De Francesco, 1995, p.81).

Un altro criterio per distinguere la condotta associativa dalla condotta di assistenza

si può cogliere nel contenuto della volontà del soggetto che agisce.

Entrambe le prospettive, però, non sono pienamente convincenti. La prima non

considera adeguatamente il fatto che non è possibile cogliere un netto discrimine tra

contributi prestati continuativamente a membri, anche sempre diversi della medesima.

L'accertamento rischia di conseguenza di essere totalmente influenzato dal solo dato

finalistico soggettivo. In una prospettiva più garantista, si può ipotizzare "un ulteriore

percorso interpretativo che dia adeguato rilievo alla precisa tipizzazione dei contributi

più lievemente sanzionati dall'art. 418" (Insolera, 1996, p. 101). Un supporto può trovarsi

nei lavori preparatori del codice, in cui si valorizza la maggior precisione dei termini usati, vitto

e rifugio, rispetto all'ipotesi di "dare assistenza" del previdente art. 249. È significativo che il

legislatore abbia voluto imperniare la distinzione sulla tipicità della condotta, piuttosto che sulle

sue finalità.

Ne deriva che in presenza di quei comportamenti anche reiterati di cui al c. 2 dell'art.

418, non accompagnati, però, da ulteriori condotte materiali funzionali alla vita del

sodalizio, non sarà ipotizzabile il più grave delitto di partecipazione all'associazione.

La ratio storica della norma è obsoleta, ma ciò non significa che, attraverso forzature

interpretative, si possa configurare la partecipazione all'associazione anche in presenza della

sola condotta di dare rifugio o vitto agli associati, considerandola come espressione dello

svolgimento di un ruolo associativo.

Così ragionando, infatti, l'art. 418 troverebbe applicazione solo nel caso di prestazioni

occasionali e ciò è escluso esplicitamente dal secondo comma.

Articolo 418 e favoreggiamento

È opinione dominante che il rapporto tra l'ipotesi in esame e il delitto di

favoreggiamento(di regola personale ex art. 378 c.p.) sia risolvibile sulla base della

specifica intenzione che sorregge la condotta: se la prestazione del dare rifugio o vitto è

resa al fine di aiutare l'associato a sottrarsi alle ricerche o alle investigazioni dell'autorità,

ricorrerà la fattispecie più grave di cui all'art. 378 (De Francesco, 1995, p. 82).

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Grazie a una ricostruzione degli elementi oggettivi della fattispecie di favoreggiamento,

si può, però, tentare di costruire una strada più affidabile per riconoscere le due ipotesi.

Si deve porre un accento particolare sull'antitesi tra la condotta di aiuto e le indagini

dell'autorità giudiziaria. In tale ottica, “il pericolo per il bene tutelato no è semplice scopo

della tutela, ma criterio interno della sua conformazione – delimitazione”.

L'aiuto si realizza se il compimento della condotta di soccorso ha migliorato la

posizione dell'aiutato rispetto alle investigazioni e alle ricerche dell'autorità statale.

Bisogna che tale condotta d'aiuto modifichi la situazione di fatto, cioè il “contesto in cui si

gioca la partita fra investigatori e inquisito” (Insolera, 1996, p. 102).

In tal modo la distinzione tra la fattispecie di favoreggiamento e quella di assistenza non

si fonderà solo sulla prova dell'elemento soggettivo.

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La disciplina post- riforma del reato di false comunicazioni sociali.

Elementi di sintesi:

Al posto di unica ipotesi di reato (il vecchio testo dell'art. 2621 c.c.) il legislatore

ha previsto una fattispecie contravvenzionale e due ipotesi delittuose.

Così la nuova contravvenzione di cui all'art. 2621. cod. civ. False

comunicazioni sociali: “Salvo quanto precisato dall'articolo 2622, gli amministratori, i

direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l'intenzione di ingannare i soci o il

pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle

relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al

pubblico, espongono fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di

valutazioni ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge

sulla situazione economica, patrimoniale, o finanziaria della società o del gruppo al

quale essa appartiene, in modo idoneo a indurre in errore i destinatari sulla predetta

situazione; sono puniti con l'arresto fino a un anno e sei mesi. La punibilità è estesa

anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla

società per conto di terzi. La punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano

in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o

finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque

esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico

di esercizio al lordo delle imposte, non superiore a! 5% o una variazione del patrimonio

netto non superiore al 1%. In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di

valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non

superiore al 10% da quella corretta”.

Questa fattispecie contravvenzionale (raro esempio di contravvenzione dolosa) è

stata prevista dal legislatore al line di prevedere “un falso tout court per tutelare la

trasparenza”.

In sintesi i tratti salienti della nuova fattispecie:

Soggetti attivi: soltanto gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori

(non più presenti, come, invece, secondo la vecchia dizione, i promotori e i soci

fondatori).

Oggetto materiale: ferme le relazioni e il bilancio, le “altre comunicazioni sociali” sono

soltanto quelle “previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico” (ad esempio non

saranno più penalmente rilevanti i comunicati stampa o le dichiarazioni orali in

assemblea, lettere ad azionisti o creditori). Le comunicazioni sociali sono perciò solo

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quelle tipiche, dirette ai soci o al pubblico come categoria, e non più tutte le

comunicazioni, scritte od orali, tipiche od atipiche che fossero, a chiunque rivolte.

È stato precisato il significato dell'espressione “condizioni economiche della

società”, parlando di “situazione economica, patrimoniale e finanziaria”, nonché del

gruppo cui la società appartiene e anche in riferimento a beni posseduti o amministrati

per conto terzi. Alla descrizione della condotta, costituita dall'esposizione di fatti non

conformi al vero o dall'occultamento di fatti circa le condizioni economiche della società,

si aggiunge che si deve trattare di fatti materiali non veri, anche concernenti

valutazioni, la cui comunicazione sia imposta dalla legge. All'evidenza, a parte l'ipotesi

del bilancio, visto il disposto dell'art. 2423 cod. civ. che stabilisce il principio di

chiarezza e veridicità della redazione del bilancio, la norma restringe fortemente

l'ambito delle omissioni incriminabili.

La condotta deve altresì essere idonea ad indurre in errore i destinatari della

comunicazione incriminata.

L'elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico (profitto ingiusto, cioè senza

causa), intenzionale (intenzionalità dell'inganno), con la finalità di conseguire per sé o

per altri un ingiusto profitto (tutti elementi che la pubblica accusa dovrà provare

specificamente per la sussistenza del reato sotto il profilo soggettivo). E' dunque

esclusa la semplice rilevanza del dolo eventuale.

Svariate ipotesi di non punibilità attraverso l'approntamento del sistema delle

soglie quantitative sono altresì presenti nel comma 5 del nuovo testo.

Se ne individuano quattro: una qualitativa e tre quantitative.

Quella qualitativa riguarda la variazione definita “sensibile” dello stato

economico - patrimoniale della società.

Quelle quantitative escludono la punibilità se le variazioni non superano il 5% del

risultato economico di esercizio al lordo delle imposte o all'1% del patrimonio netto e

permettono uno scostamento del 10% nelle valutazioni estimative rispetto alla stima

veritiera.

Scompare la vecchia aggravante ad effetto speciale di cui al vecchio art. 2640cc. .

operante in caso di rilevante entità, sostituita da un'attenuante prevista per il caso di

danno di lieve entità.

Infine la prescrizione del reato: è estremamente breve, avendo il legislatore scelto

la forma della contravvenzione (pur in presenza di atti interrutivi. Soltanto quattro anni

e mezzo per ottenere una sentenza passato in giudicato che contando la nota difficoltà

di accertamento sui bilanci e i tempi di acquisizione della prima notizia criminis rendono

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particolarmente ardua la concreta punibilità della fattispecie esaminata)

La disciplina ante riforma del reato di false comunicazioni sociali.

L’art. 2621 cod. civ. puniva con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa

da lire due milioni a venti milioni, salvo che il fatto costituisse più grave reato, i

promotori, i soci, i fondatori, di amministratori, i direttori generali, i sindaci e i

liquidatori che - nelle relazioni, nei bilanci od in altre comunicazioni sociali - esponevano

fatti non rispondenti al vero sulla costituzione o sulle condizioni economiche della

società ovvero nascondevano in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni

medesime.

La giurisprudenza aveva interpretato il reato in chiave plurioffensiva: da un lato

l'interesse collettivo alla veridicità, alla correttezza e alla completezza delle

comunicazioni sociali e dall'altro gli interessi individuali e patrimoniali dei soci, dei

creditori e della stessa società.

L'oggetto materiale del reato stretto nella omnicomprensiva nozione di

“comunicazioni sociali” era interpretato dalla giurisprudenza ricomprendendo tutte le

comunicazioni, scritte o orali, effettuate dai soggetti qualificati della società

nell'esercizio delle funzioni e annoverando, oltre alle comunicazioni interne, ogni

comunicazione esterna diretta ai soci, creditori o terzi interessati.

Relativamente alla locuzione “fatti non rispondenti al vero”, formula linguistica che

identificava la condotta punibile, la giurisprudenza comprendeva anche le “valutazioni”

(le cosiddette sopravvalutazioni delle poste del bilancio allo scopo di far risultare

esistenti attività non realizzate e le sottovalutazioni allo scopo di occultare attività

invece esistenti). Quanto all'elemento psicologico, l'interpretazione dell'avverbio

“fraudolentemente” aveva portato la giurisprudenza a far ritenere sufficiente, ai fini

della punibilità la sussistenza del dolo eventuale, e quindi la semplice accettazione del

rischio - e non la coscienza e volontà diretta - della verificazione di accadimenti lesivi

degli interessi tutelati. La sanzione penale, come detto, prevedeva la reclusione da uno

a cinque anni e la multa da 2 a 20 milioni di lire, salvo che il fatto costituisse più grave

reato (tale sanzione, inserita dal legislatore del 1942 con l'approvazione del Codice

Civile, rappresentava comunque un notevole alleggerimento (era dimezzata) rispetto a

quella prevista dal legislatore del 1930).

Le maggiori critiche al vecchio testo riguardavano principalmente

l'indeterminatezza della fattispecie e la necessità di precisazione dell'oggetto materiale

del reato anche alla luce dell'interpretazione giurisprudenziale, ritenuta troppo

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estensiva dalla dottrina più attenta: le istanze di mutamento involgevano anche una

maggior specificazione dell'elemento soggettivo.

2622. False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori

“Gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali, con

l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un

ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste

dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, esponendo fatti materiali non rispondenti al

vero ancorché oggetto di valutazioni, ovvero omettendo informazioni la cui

comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o

finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo a indurre

in errore i destinatari sulla predetta situazione, cagionano un danno patrimoniale ai soci

o ai creditori sono puniti, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a

tre anni.

Si procede a querela anche se il fatto integra altro delitto, ancorché aggravato a

danno del patrimonio di soggetti diversi dai soci e dai creditori, salvo che sia commesso

in danno dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee.

Nel caso di società soggette alle disposizioni della parte IV titolo III. capo II. del

decreto legislativo 24 febbraio 1999. n. 58. la pena per i fatti previsti al primo comma è

da uno a quattro anni e il delitto è procedibile d'ufficio.

La punibilità per i fatti previsti dal primo e terzo comma è estesa anche al caso in

cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrali dalla società per conto di

terzi.

la intuibilità per i fatti previsti dal primo e terzo comma è esclusa se le falsità o le

omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione

economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa

appartiene. La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano

una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore

al 5% o una variazione del patrimonio nello non superiore al 1%.

In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che.

singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% di quella

corretta.”

Uno degli elementi di novità è l’introduzione della condizione di procedibilità (per le

società non quotate) della querela di parte per la perseguibilità del reato.

L'anomalia è già evidente se si considera che il reato contravvenzionale (meno

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grave) è perseguibile d'ufficio mentre il legislatore ha optato per razionabilità ad

iniziativa di parte per l'ipotesi più grave.

La querela consegna alla persona offesa (il socio o il creditore) la scelta di agire

rispetto alla statale esigenza di repressione penale e gli consegna altresì il potere di

decidere le sorti dell'eventuale procedimento penale instaurato: come noto infatti la

remissione della querela determina (magari a fronte di un incentivo economico alla

remissione da parte della società stessa) l'improcedibilità del reato.

La nuova fattispecie delittuosa appartiene alla categoria dei reati di danno (mentre

la figura contravvenzionale rientra tra quelle di pericolo concreto): così la diminuzione

del patrimonio dei soci o dei creditori si configura come evento del delitto di false

comunicazioni sociali.

In sintesi i tratti salienti della nuova disciplina:

- Soggetti attivi: soltanto gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i

liquidatori (anche in questa fattispecie sono stati esclusi i promotori e i soci

fondatori).

- Oggetto materiale: ferme le relazioni e il bilancio, le “altre comunicazioni sociali”

sono soltanto più quelle “previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico”, come già

osservato nell'analisi dell'art. 2621 c.c.

- L'elemento oggettivo del delitto ex art. 2622 ce. richiede, quale differenza

maggiore rispetto alla figura contravvenzionale, il determinarsi di un evento di danno,

ovviamente patrimoniale, per i soci o per i creditori.

- In presenza di danno, solo se la società è quotata in borsa il reato è procedibile

d'ufficio perché se la società non è quotata è stata prevista la condizione di procedibilità

della querela.

- Come già visto per l'art. 2621 c.c. la comunicazione deve essere prevista dalla

legge per la sua penale rilevanza ed è necessario che la legge “imponga” la

comunicazione.

- L'elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico (profitto ingiusto, cioè senza

causa), intenzionale (intenzionalità dell'inganno), con la ulteriore finalità di conseguire

per sé o per altri un ingiusto profitto.

- Il sistema delle soglie di non punibilità è lo stesso già descritto nell'analisi dell'art.

2621 cod. civ.

- La sanzione prevista è quella della reclusione da 6 mesi a tre anni se il reato

riguarda una società non quotata in borsa e della reclusione da uno a quattro anni se

riguarda una società quotata.

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- I delitti di cui all'art. 2622 ce. si prescrivono in cinque anni, con un massimo di

sette anni e mezzo in caso di atti interruttivi della prescrizione.

A norma poi dell'art. 280. comma 1. c.p.p. non possono essere applicate misure

coercitive per il reato commesso contro società non quotate, mentre per il reato

concernente società quotate può essere anche disposta la custodia cautelare in carcere

ex art. 280. comma 2 del codice di procedura penale: ai fini di indagine non sono altresì

consentite intercettazioni di conversazioni o comunicazioni.

Il falso in prospetto.

“Chiunque allo scopo di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei

prospetti richiesti ai fini della sollecitazione all'investimento o dell'ammissione alla

(inalazione nei menali regolamentati, ovvero nei documenti da pubblicare in occasione

delle offerte pubbliche di acquisto o di scambio, con la consapevolezza della falsità e

l'intenzione di ingannare i destinatari del prospetto, espone false informazioni od accidia

dati o notizie in modo idoneo a indurre in errore i suddetti destinatari è punita, se la

condotta non ha loro cagionalo un danno patrimoniale, con l'arresto fino a un anno.

Se la condotta di cui al primo comma ha cagionato un danno patrimoniale ai

destinatari del prospetto, la pena è della reclusione da uno a tre anni”

La nuova fattispecie è stata introdotta per risolvere la disputa interpretativa che

aveva ad oggetto la riconducibilità o meno del prospetto informativo nel novero delle

comunicazioni rilevanti ex art. 2621 ce. ante-riforma.

In attuazione della delega, il d.lgs 61/2002 ha così introdotto due figure di reato

(una contravvenzionale e una delittuosa) dedicate in modo autonomo alla falsità nei

prospetti informativi trasmessi all'autorità di vigilanza in occasione delle sollecitazioni

all'investimento o dell'ammissione alla quotazione o nei documenti pubblicati in

occasione di una offerta pubblica di acquisto o di scambio.

Il reato è comune e può dunque essere commesso da chiunque suggerisce mentre

il bene giuridico tutelato è indubbiamente il patrimonio degli investitori.

L'elemento soggettivo richiede il dolo specifico del conseguimento, per sé o per

altri di un ingiusto profitto.

La pena prevista è dell'arresto fino ad un anno se la condotta non ha cagionato un

danno patrimoniale e della reclusione da uno a tre anni se la condotta ha cagionato un

danno patrimoniale ai destinatari.

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Una visione d'insieme secondo il giurista.

La filosofia che ha ispirato la riforma è incentrata sulla drastica riduzione

dell'ambito di applicazione della fattispecie di false comunicazioni sociali, nella

convinzione forse tanto illusoria quanto astrattamente ideologica - che la trasparenza

dell'informazione societaria sia obiettivo da perseguire attraverso le effettive

potenzialità di autotutela dei mercati piuttosto che mediante la minaccia di severe

sanzioni penali. A ciò deve aggiungersi la scelta effettuata dal legislatore di affievolire il

controllo penale della correttezza degli amministratori delle società, attenuando le

sanzioni ed escludendo la responsabilità nei casi di minore gravità. Le fattispecie

astrattamente previste a tutela del capitale sociale e delle istituzioni societarie

troverebbero, infatti, le loro opzioni “qualificanti” in una serie di clausole che

costituiscono degli evidenti “indici di privatizzazione” (procedibilità a querela, cause di

estinzione del reato, radicale bagatellizzazione delle aggressioni ai “soli” beni

istituzionali) aventi l'effetto di annichilire la tutela dei beni istituzionali. Attraverso

queste clausole. [...] (autentiche “valvole di sicurezza” del perseguimento penale) i

precetti di cui si compone il nuovo diritto penale societario innescano al loro interno un

vero e proprio sistema autoimmunitario: dapprima descrivono l'aggressione a un bene

giuridico (il bene istituzionale): poi ne erodono i limiti di punibilità in astratto, da un lato

arricchendo il fatto di ulteriori elementi tipizzanti, incongrui rispetto allo spettro di tutela

di quel bene, dall'altro lato sviando la tutela stessa verso un altro bene (individuale: il

patrimonio), alla cui effettiva lesione viene subordinata la punibilità dell'intero fatto:

infine ne riducono anche i limiti della punibilità in concreto, subordinando la

perseguibilità alla querela.” La scissione della previdente norma in due reati autonomi,

uno di condotta e di pericolo, art. 2621 ce. l'altro di evento e di danno, art. 2622 ce. da

molti, considerati inadeguati, “di fatto sterilizzati quanto a impatto general preventivo”.

La frammentazione del reato in più fattispecie potrebbe, infatti, “non garantire

adeguatamente l'affidamento degli operatori del mercato sulla veridicità e trasparenza

delle informazioni societarie, e ciò anche a voler considerare che la contravvenzione

abbia ereditato questo compito di protezione dalla vecchia fattispecie di falso in bilancio,

continuando a presidiare la trasparenza del mercato”; il che, unito al regime di

procedibilità della fattispecie delittuosa, potrebbe essere interpretato come “un

messaggio di bagatellizzazione del falso”.

A questo punto “l'immaginata (dal legislatore) progressione offensiva tra pericolo e

danno” per gli interessi patrimoniali dei soci e creditori entra in crisi: ben difficilmente la

formula introdotta potrà garantire l'auspicato ritorno dal delitto alla contravvenzione

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nelle ipotesi in cui a seguito della falsità sia accertata resistenza di un danno

patrimoniale ai soci o ai creditori e questo fatto tuttavia risulti improcedibile. In tal

caso, infatti, la clausola “salvo quanto previsto dall'art. 2622” suonerà come un limite

espresso all’applicabilità dell'art. 2621 ce. in quanto quel fatto, in concreto realizzatosi

(falso in bilancio con danno), è normativamente previsto dall'art. 2622 ce. che risulterà

la fattispecie espressamente indicata come applicabile al di là delle vicende legate alla

sua procedibilità” e poi perché prevedere la perseguibilità a querela di parte se tanto

l'autore del falso viene punito lo stesso? Tanto più che questa soluzione “porterebbe

inoltre, con sé un ulteriore effetto distensivo: la non proposizione o la remissione della

querela da parte del danneggiato non giocherebbe più alcun ruolo di incentivo al

risarcimento del danno, invertendo la logica transattiva - deflattiva. che sembrava

ispirare la riforma”. La contravvenzione ricorrerà sempre, in tutti i casi in cui non vi sia

o non sia per una ragione perseguibile il delitto e quindi, in caso di condotta idonea e

univocamente diretta a cagionare un danno, che non si verificherà, ricorrerà, non già il

tentativo del delitto, ma la contravvenzione che con essa è collocato in rapporto di

progressione criminosa.

Questa tutela per “cerchi concentrici”è completamente irrazionale. Sicché venuto

meno il delitto si ricadrebbe nella contravvenzione al solo fine di evitare “una possibile

censura” di legittimità costituzionale per disparità di trattamento tra l'autore di un falso

in bilancio che abbia cagionato un danno patrimoniale a soci o a creditori, punibile

(nelle società non quotate) per il delitto, ma solo a querela di parte e l'autore di un falso

in bilancio che non abbia invece arrecato alcun danno patrimoniale, punibile solo per

contravvenzione ma senza condizioni. Tuttavia, per la Corte d'Appello di Lecce la

“residualità” del nuovo art. 2621 rispetto al 2622. [...] deriva da ragioni letterali,

procedurali e sistematiche: la sostanziale sovrapponibilità tra le due fattispecie (che

differiscono solo per quel che concerne la procedibilità a querela e la causazione del

danno per la seconda rispetto alla prima), la necessità sistematica di “coprire” la

“plurioffensività” dell'originaria fattispecie, la maggiore ampiezza della prima fattispecie

rispetto alla seconda (da cui deriva, evidentemente, la ricaduta dei comportamenti

criminosi dal secondo reato al primo nel momento in cui. mancando la querela, non

appare possibile procedere nell'accertamento del reato di cui all'art. 2622 c.c.). E'

comunque piuttosto evidente che profili di tutela di beni istituzionali rivivano nell'ipotesi

contravvenzionale, definita quale “falso tout court per tutelare la trasparenza”, che (cito

la Relazione) “continuerà a salvaguardare quella fiducia che deve poter e riposta da

pane dei destinatari nella veridicità dei bilanci é della comunicazioni della impresa

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organizzata in forma societaria”, soprattutto per il regime di perseguibilità, officiosa: del

resto, ove dovesse leggersi la contravvenzione — qualificata dalla assenza di un danno

patrimoniale ai soci e creditori — come offensiva (seppur nella forma del pericolo) dello

stesso bene giuridico, si ricadrebbe nell'insanabile contraddizione di perseguite sempre

e comunque l'ipotesi meno grave e condizionare viceversa alla proposizione della

querela la punibilità di quella delittuosa”. La critica di tale scelta privatistica si estende

al regime di perseguibilità del reato di cui all'art. 2622. a querela, ma officiosa se la

società è quotata, che rivela l'erroneo convincimento “che le società non quotate siano

sempre società di piccole dimensioni e soprattutto, nelle quali i soci non possono

assumere la posizione di investitori”.

Come è noto, invece, e ciò non può essere assolutamente sfuggito ai legislatori,

nella nostra realtà economica si conta “la presenza di società non quotate al vertice di

gruppi di primario peso economico e finanziario, ovvero all'interno dei medesimi” . In

entrambe le fattispecie di false comunicazioni sociali la condotta consiste

nell'esposizione di “fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di

valutazioni”, oppure nell'omissione di “informazioni, la cui comunicazione è imposta

dalla legge”.

L'oggetto materiale del reato è individuabile nei bilanci, nelle relazioni, nelle altre

comunicazioni sociali, che siano previste dalla legge e rivolte ai soci o al pubblico. Ciò

che differenzia profondamente, e caratterizza, le due fattispecie, oltre alla natura,

contravvenzionale nell'ipotesi di cui all’art. 2621. delittuosa in quella di cui all'art. 2622.

è la previsione di un evento di danno all'art. 2622. Per “bilancio d'esercizio” si intende

uno strumento di informazione economico, patrimoniale e finanziaria dell'impresa (in

bonis). finalizzato a fornire periodicamente informazioni sul risultato economico e sulla

situazione patrimoniale, nonché altre informazioni supplementari, secondo valutazioni

condotte sulla scorta di idonei principi contabili : a questo sono equiparati i bilanci

straordinari e quelli di liquidazione.

Bisogna sottolineare fin da ora come il D.Lgs. 6/2003. “Riforma organica della

disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3

ottobre 2001. n. 366” abbia modificato anche la parte relativa al bilancio. Il decreto

entrerà in vigore il 1.1.2004: i bilanci relativi a esercizi chiusi entro tale data seguono la

vecchia disciplina: per tutto il 2004 si potrà optare per entrambe (art. 223-undecies

disposizioni di attuazione del codice civile). Bisogna però ricordare che “bilancio falso (in

senso penale) non significa necessariamente bilancio invalido (in senso civilistico),

nemmeno quando la censura non risieda in qualche mancanza di rispetto delle norme

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dettale per la sua approvazione di qualche specifica voce del bilancio stesso”, bensì in

qualche vizio sostanziale che ha alterato in modo inveritiero il risultato finale

dell'esercizio”, a fortiori nella nuova formulazione, coerentemente del resto con

l'apprezzabile scelta del legislatore di rendere più autonoma la normativa penalistica da

quella civilistica e data la non univocità interpretativa delle valutazioni. “Falsificazione

significa, infatti, inganno e richiama alla mente una delle condotte che caratterizzano,

ad esempio, il reato di truffa, che si realizza a mezzo di artifici e raggiri. Si può così

osservare che il falso si realizza quando si rappresenta ad altri una realtà in modo

difforme da ciò che è e quando i terzi, di questa falsa rappresentazione, abbiano avuto

effettivamente la percezione: siano restati, in altri termini, ingannati”. Qualora gli

amministratori scelgano criteri di valutazione incongrui, ma adeguatamente motivati

nella nota integrativa o nella relazione che sono tenuti a redigere, il bilancio risulterà

invalido, non penalisticamente falso. Vi sono così punti di contatto tra falsità

penalmente rilevante e invalidità in senso civilistico, tuttavia resta sempre l'inganno

come elemento concettuale di difformità. Possiamo dunque vedere da un lato l'azione

civile, con cui gli interessati impugnano un bilancio che assumono essere stato redatto

in difformità della legge civile: dall'altro l'azione penale, con cui l'autorità giudiziaria

smaschera e mette fine a quell'inganno che impediva agli interessati l'esercizio

dell'azione civile, non consentendo loro di accorgersi della falsità, e che chiaramente

dovrebbe fungere da deterrente.

L'occultamento va riferito a dati che si aveva l'obbligo giuridico di comunicare:

esso può riferirsi all'omessa specificazione dello stato di insolvenza del debitore, o del

fallimento di una partecipata o controllata, del pegno o sequestro di beni aziendali. La

condotta consiste cioè nel negare ai soci o ai terzi le informazioni essenziali sulla

consistenza effettiva del patrimonio sociale, sugli utili conseguiti, sulle perdite, sui

progetti e programmi dell'impresa.

Si possono così riscontrare tali condotte nell'omessa del fatto che alcuni beni

sociali siano in possesso di un terzo creditore pignoratizio, poiché rientrano nel concetto

di condizioni economiche della società, oltre all'entità delle poste di bilancio attive e

passive, tutte quegli elementi rilevanti ai lini della valutazione economica della società.

Ancora, si è ritenuto che la costituzione in pegno di tutti o quasi i beni sociali

riducesse follemente le possibilità di continuare i rapporti con i creditori, in

particolare le banche e i fornitori, e che quindi questa andasse considerata come

un'informazione essenziale.

E' da ritenersi che la condotta possa esplicarsi anche nel senso della simulazione.

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Il quesito, su cui ci si è interrogati in dottrina, riguarda il caso di beni intestati alla

società, ma in realtà ad essa non appartenenti, oppure il caso di partecipazioni,

detenute in nome proprio, ma per conto di altri; se, cioè, gli amministratori debbano

attenersi a una valutazione di tipo formale o non piuttosto, al dato reale. Da un lato, il

bilancio deve rispecchiare la situazione economica dell'impresa, quale si desume dai

conti d'ordine dell'impresa, che ovviamente non riportano traccia della simulazione,

tanto più di regola non opponibile ai terzi. Dall'altro bisogna dire che il bilancio non è

vero solo quando rispecchi fedelmente le scritture contabili: infatti, se queste sono false

perché espongono fatti non conformi al vero oppure nascondono fatti rilevanti

nell'ambito della gestione, anche il bilancio lo sarà, di conseguenza. E' altresì vero che

se un bene è intestato alla società, per i terzi non vale l'accordo simulalo, ma è anche

vero che il bene, apparentemente attribuito al patrimonio della società, potrebbe essere

retrocesso al simulato alienante, in esecuzione dell'accordo simulato.

L'ordinamento sembra comunque orientato verso una rappresentazione di tipo

sostanzialistico, prescrivendo all'art. 2427 che la nota integrativa indichi le

partecipazioni possedute per interposta persona o attraverso società fiduciarie. Alcuni

esempi di condotte potranno essere utili, soprattutto riguardo il caso dell'esposizione a

bilancio di un dato reale, ma con causale effettiva differente da quella esposta

(ed.”fondi neri”); casi tipici sono quelli di fatturazione per operazioni o prestazioni

inesistenti a terzi compiacenti, che retrocedono poi il pagamento, ovvero di

maggiorazioni nel prezzo di operazioni o prestazioni pur realmente effettuate, o di

esposizione di costi per fittizie perdite in transazioni finanziarie, anche qui a fronte di

una retrocessione dell'utile da parte di chi l'ha conseguito. Il problema e vicino a quello

del falso qualitativo.

La giurisprudenza, pur se non unanime, affermava la rilevanza penale di tali

comportamenti . Pane della dottrina non era però concorde e portava a sostegno della

sua tesi le seguenti argomentazioni: se una società crea un'appostazione falsa a scopo

di corruzione, e la controparte tiene i relativi fondi a disposizione, i beni sembrano usciti

dalla disponibilità della società, ma in realtà non lo sono, donde la falsità; se la società

effettua il pagamento e dà mandato alla controparte di corrompere con quel denaro un

pubblico ufficiale, i beni sarebbero effettivamente usciti dalla disponibilità della società.

Si osservava però che in entrambi i casi, come già sottolineato, si esponevano in

bilancio fatti non rispondenti al vero quanto alla causale di un determinato costo, a

prescindere dal verificarsi di un concreta ed effettiva deminutio patrimoniale per la

società, e comunque sempre a tutto svantaggio della possibilità per i creditori e gli

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investitori di fare affidamento sul patrimonio sociale e di valutare correttamente la

solidità dell'impresa; di conseguenza tali comportamenti, di fuori degli schemi

comportamentali tipici e normali, erano considerati illeciti dalla prevalente

giurisprudenza. Attualmente, a prescindere dalla soluzione che si voglia dare al

problema del falso qualitativo, in simili casi bisognerà valutare la sussistenza

dell'elemento soggettivo del reato e in particolare del dolo specifico: la concreta

idoneità ingannatoria delle scritture contabili; il superamento delle soglie di punibilità

o l'alterazione sensibile della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della

società; eventualmente, il verificarsi dell'evento, costituito dal danno patrimoniale.

Continuando con l'analisi delle possibili condotte di falsificazione, vediamo come

queste possano interessare singoli aspetti della redazione del bilancio.

L'art. 2423-bis n. 4 c.c.. stabilisce che “si deve tener conto dei rischi e delle perdite di

competenza dell'esercizio, anche se conosciuti dopo la chiusura di questo”; per

esempio, oneri previsti per manutenzioni e garanzie, sanzioni pecuniarie, pendenze

giudiziarie, perdite presunte su crediti commerciali.

In tali casi gli amministratori dovranno valutare rischi e perdite “secondo prudenza

e nella prospettiva della continuazione dell'attività.” (art. 2423-bis n.1 c.c.), “nonché

tenendo conto della funzione economica dell'attivo o del passivo considerato”

(aggiunta ex d.lgs. 6/2003).

Ancora, i crediti devono essere iscritti secondo il valore presumibile di realizzazione

(art. 2426. n. 8 c.c.), con separata indicazione per: clienti, controllate, collegate,

controllanti, per crediti tributari e imposte anticipate (art. 2424 c.c.). L’art. 2424 c.c..

prevede, al passivo. lett. B). fondi per rischi e oneri (per trattamento di quiescenza e

obblighi simili, per imposte, altri). La valutazione circa le possibilità di realizzazione del

credito, se questo sia da considerarsi in sofferenza, e l'entità della percentuale generica

di svalutazione rispetto al valore nominale da applicarsi per ciascun credito (percentuale

solitamente ottenuta considerando l'ammontare complessivo dei crediti commerciali e

stabilendo quanti anno per anno mandarne a perdita, e la media delle percentuali di

perdita degli anni precedenti) sono rimesse alla discrezionalità degli amministratori, ma

l'art. 2427 n.1 c.c. impone l'indicazione dei criteri applicati nella valutazione delle voci

di bilancio. Un credito verso un fallito dovrebbe essere azzerato, salvo un prevedibile

buon esito della procedura concorsuale.

Il principio di prudenza impone dunque la svalutazione: l'eventuale adempimento o

il fruttuoso riparto concorsuale dovrebbero dar luogo, per competenza, ad una

sopravvenienza attiva. La percentuale di svalutazione varia altresì a seconda delle

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garanzie che eventualmente assistano il credito, dell'anzianità di questo, della

consistenza del gruppo cui il debitore appartenga, delle politiche della capogruppo

circa i debiti delle controllate.

È evidente come il rischio di alterazioni sia qui elevato, data l'ampia discrezionalità

degli amministratori: poi non c'è un obbligo di evidenziare analiticamente i crediti

(nella nota integrativa si può trovare anche solo un breve cenno al metodo di

determinazione del rischio, e senza esporre l'andamento delle perdite a consuntivo

degli anni precedenti, un'eventuale sottovalutazione sarà impossibile da individuare

alla sola lettura del bilancio e avrà effetto, qualora si dovesse procedere

all'accantonamento della differenza tra valore nominale e stimato, tanto sul

patrimonio netto quanto sul risultato d'esercizio.

In materia di crediti si ricordi che il D.Lgs. 27.1.1992 n. 87. sui bilanci bancari e

finanziari, attribuisce rilevanza normativa ai criteri di classificazione del credito in

situazione di anormalità: esso impone (art. 23 lett. g) l'indicazione dei crediti cd. “in

sofferenza” nella nota integrativa, da allegare al bilancio d'esercizio; mentre l'art. 20 c.

4 indica i criteri di valutazione dei crediti suddetti, con l'obbligo per gli amministratori di

calcolare la solvibilità dei debitori e il cd. “rischio Paese”. La Banca d'Italia ha definito

due grandi categorie di crediti:

- quelli in sofferenza, in cui il debitore è insolvente, a prescindere da eventuali

accertamenti giudiziali o in situazioni sostanzialmente equiparabili;

- quelli incagliati, in cui il debitore si trova in transitoria situazione di difficoltà, che

si prevede possa essere rimossa in un congruo periodo di tempo, tali categorie

potranno comunque valere anche per enti non finanziari. Presumibilmente, considerare

un credito in “sofferenza”, secondo parametri normativi, costituisce un “fatto

materiale”, una volta stabilita la percentuale di svalutazione (il che costituirà una

valutazione). Può ancora accadere che si iscrivano tra le immobilizzazioni immateriali

costi immaginari o privi del requisito dell'utilizzazione pluriennale, le partecipazioni in

imprese controllate o collegate posso essere iscritte o al costo di acquisizione o col

metodo del patrimonio netto, cioè calcolando la quota di partecipazione del patrimonio

netto risultate dall'ultimo bilancio, meno i dividendi eventualmente ottenuti dalla

partecipata stessa. Le partecipazioni che non costituiscono immobilizzazioni sono

valutate al costo di acquisizione salvo che il valore di mercato non risulti minore. La

differenza tra il costo e l'eventuale minor valore costituisce una minusvalenza, che deve

essere iscritta in conto economico sotto la voce “rettifiche di valore delle attività

finanziarie”

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La valorizzazione delle partecipazioni influenzerà così, per il suo valore, lo stato

patrimoniale e, per il costo di acquisto e/ o per la minusvalenza predetta, il conto

economico: e quindi potranno avere rilievo tanto le soglie “reddituali”, quanto quelle

“patrimoniali”. Allorché si debba poi procedere alla svalutazione della partecipazione,

potranno entrare in campo anche le soglie valutative. Eventuali interventi (in

particolare, di senso espansivo dei risultati di bilancio e del patrimonio dell'impresa)

degli amministratori si concentreranno pertanto sulla durevolezza (negata) del

minor valore, ovvero mutando (in modo ingiustificato) la qualificazione

immobilizzate/non immobilizzate delle partecipazioni stesse.

L'opinione del laico.

Una legge approvata nei primi cento giorni del governo Berlusconi depenalizza di

l'atto il reato di falso in bilancio, trasformato da «reato di pericolo» (che protegge

interessi diffusi) a «reato di danno» (che protegge chi ha ricevuto un danno

economico), arricchito negli elementi del tipo; diminuendo la sua possibilità di

concreta verificazione. Limitare una ipotesi delittuosa alla circostanza per cui

l'offesa raggiunga la soglia del danno significa restringere l'ambito di operatività di

una norma alle sole ipotesi di consumazione dell'azione criminosa, trascurando i casi

in cui l'offesa si rappresenti solo in potenza, arrestandosi allo stadio del pericolo. In

genere, quando il legislatore si riferisce solo all' effettiva lesione, denuncia in questa

scelta una limitata importanza sia dell'azione commessa sia del bene giuridico da

tutelare. Quando invece arretra la soglia all'ipotesi di pericolo, segnala una

particolare gravità dell'azione ed una particolare importanza del bene giuridico da

tutelare. C'è da chiedersi se l'economia non sia un bene di 'particolare importanza

per il quale andrebbero incriminate forme di aggressione arretrate alla soglia del

pericolo. E c’è da chiedersi inoltre a quale nozione di economia si è inteso riferire il

legislatore. Proprio mentre l'economia diventa finanziaria, si globalizza e le

informazioni diventano essenziali, infatti, questa legge tradisce una concezione

vecchissima, privatistica, individuale, patrimoniale, dell'economia. E presuppone che

parti interessate alle comunicazioni societarie siano i soci ed eventualmente i creditori,

e non invece il mercato nella sua interezza, la cui correttezza e trasparenza dev’essere

garantita da regole certe. Secondo la nuova legge, nel caso di società non quotate in

Borsa il falso in bilancio può essere perseguito soltanto in seguito a querela di parte:

querela assolutamente improbabile, poiché di norma i soci, che avrebbero modo a

querelare, sono coloro che traggono benefici dal reato. «Sarebbe come pretendere che

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il furto divenga perseguibile a querela del ladro», ha commentato il magistrato

Piercamillo Davigo. Quasi impossibile indagare e arrivare a una sentenza di condanna

anche in caso di società quotate, per effetto delle nuove norme: minori i mezzi di

indagine permessi, più rapida la prescrizione, più larghe le maglie della legge. Non è

infatti più perseguibile il falso in bilancio sotto determinate soglie (viene introdotta così

la «modica quantità») e il «falso qualitativo» (cioè l'iscrizione a bilancio di partite vere,

ma sotto nomi diversi dal vero). Sono dunque legalizzati i fondi neri (e quindi le

tangenti, che dai fondi neri sono attinte), che possono essere iscritti a bilancio sotto la

voce, per esempio, «pubbliche relazioni». Possono essere legalmente gonfiati i giri

d'affari, con entrale fasulle a cui corrispondano altrettanto fasulle uscite, purché la

somma finale non si discosti troppo dal vero: simulare grossi giri d'affari è utile non solo

per ottenere credito bancario ma, più in generale, falsa l'immagine dell'azienda nel

mercato.

La nuova legge sul falso in bilancio ha prodotto precisi effetti impunità su tre

processi in corso a Milano nei confronti di uomini Fininvest: per il passaggio del

calciatore Gianluigi Lentini dal Torino al Milan: per i bilanci della Fininvest e per la

questione dei 21 miliardi pagali a Bettino Craxi attraverso la società All lberian: per la

galassia delle società off-shore della Fininvest-ombra. detta «Fininvest Group B-very

discreet». Legge approvata e vigente, è in plateale contrasto con la tendenza in atto

invece negli Stati Uniti, dove dopo i recenti scandali finanziari sono stati resi ancor più

rigorosi i controlli e più severe le pene per garantire la trasparenza e la correttezza dei

mercati. I manager delle società americane sono stati costretti dalla SEC, l'agenzia di

controllo della Borsa, a firmare una dichiarazione giurata sulla veridicità dei loro bilanci.

Chi giura il falso rischia 20 anni di carcere 5 milioni di dollari di multa e l'esclusione

dalla business community.

I punti critici della normativa attuale secondo l'analista finanziario.

I ) è stato introdotto un regime differenziato per società quotate e non quotate in

Borsa: la disciplina repressiva sulle false comunicazioni sociali è stata resa più blanda

per quelle non quotate sotto due aspetti:

• per le società non quotate, la massima pena detentiva è stata abbassata, rispetto

a quanto previsto dalla normativa precedente:

• il reato di false comunicazioni sociali è perseguibile d’ufficio solo per società

quotate in Borsa;

2) i termini di prescrizione del reato sono stati ridotti;

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3) è stata introdotta una soglia di tolleranza “obbligatoria” per falsità e omissioni

che “(...) determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle

imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore ali

1% (...)” ( vedi sopra nuovi articoli 2621 e 2622 del codice civile, come modificati dal

decreto legislativo 61 2002). Tale soglia vale sia per le società quotate che per quelle

non quotale.

Tolleranti per legge

Concentriamo la nostra riflessione su quest'ultimo aspetto. La vigente normativa

sulle false comunicazioni sociali prescrive che la punibilità per falsità e omissioni nella

redazione del bilancio sia “comunque esclusa” quando tali falsità od omissioni non

determinano una variazione “eccessiva” dell' utile lordo di esercizio”. In altre parole, gli

amministratori che sopravvalutino o sottovalutino l'utile lordo d'esercizio per un importo

minore del 5% sono in ogni caso non punibili per il reato di false comunicazioni sociali.

Il riferimento a un limite del 1% rispetto al patrimonio netto fornisce un ulteriore

soglia di tolleranza per imprese in perdita o in pareggio.

E vero che sopravvalutazioni e sottovalutazioni del risultato d’esercizio possono

dipendere anche da errori non intenzionali. Tuttavia, il fatto che la punibilità sia

“comunque esclusa” per variazioni sotto la soglia del 5% impedisce di colpire quelle

fraudolente se di “modica” entità.

Effetti sul costo del capitale

Il punto cruciale è che coloro che vogliono investire in una data impresa

tipicamente si basano sul bilancio di esercizio per valutare la profittabilità

dell'investimento. Il bilancio di esercizio dovrebbe infatti fornire una “rappresentazione

veritiera e corretta” dell'andamento dell'impresa. La soglia di tolleranza obbligatoria

rende strutturalmente più “rumoroso” il segnale fornito dal bilancio di esercizio a

proposito dell'andamento dell'impresa. Chi legge il bilancio di un'impresa e non dispone

di informazioni aggiuntive, non sa con certezza se questa soglia di tolleranza sia stata

sfruttata per sopravvalutare o sottovalutare il risultato d'esercizio.

Definito nella letteratura “estimation risk”. questo fattore è preso in considerazione

da chi voglia investire nell’impresa e sia avverso al rischio. Uno dei principi

fondamentali della teoria della finanza (e anche del comune buon senso) è che

investitori avversi al rischio richiedano un tasso di rendimento che è crescente nel

rischio non diversificabile dell'investimento.

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Nella letteratura si discute da tempo su quali siano gli effetti positivi sul costo del

capitale per le imprese che decidano di fare “voluntary disclosure”. ovvero decidano di

fornire informazioni aggiuntive rispetto a quelle inderogabilmente richieste dalla legge o

dai regolamenti di Borsa. L'idea è che. controllando per altri fattori, in particolare la

qualità dell'impresa, informazioni aggiuntive diminuiscano l’estimation risk e con esso il

costo del capitale.

Al contrario, la vigente normativa italiana sul falso in bilancio inserisce d' imperio,

tramite la soglia di tolleranza obbligatoria, un estimation risk aggiuntivo. L'investitore

che legga sul bilancio dell’impresa A un risultato d'esercizio di 100. non sa con

esattezza se a ciò corrisponda un utile effettivo di 95.24 (nell'ipotesi in cui gli

amministratori dell’impresa abbiano sfruttato la soglia a fini di sopravvalutazione),

oppure un utile di 105.26 (nell’ipotesi opposta di sottovalutazione).

Onesta incertezza sugli utili presenti si traduce pari passo in un’incertezza sugli

utili futuri: investitori avversi al rischio richiederanno perciò un tasso di rendimento

maggiore sui capitali di rischio e di debito eventualmente impiegati nell’impresa, per

compensare il rischio aggiuntivo.

Questo è un piccolo effetto di equilibrio generale, che può avere conseguenze

negative sui tassi di investimento delle imprese italiane, tramite un costo del capitale

più elevato.

Inoltre, in un' ottica di economia aperta, investitori stranieri che stanno valutando

l'opportunità di investire in Italia potrebbero essere dissuasi proprio dal fatto che i

bilanci d'esercizio delle imprese italiane forniscono segnali comparativamente meno

precisi sulla loro profittabilità.

Infine, se è vero che uno dei problemi fondamentali della struttura produttiva

italiana è l'eccessiva dipendenza delle imprese dal finanziamento bancario. la soglia di

non punibilità, impoverendo il contenuto informativo del bilancio d'esercizio, fornisce un

ulteriore vantaggio comparato a quegli investitori che possono più facilmente

oltrepassare il bilancio d' esercizio e consultare direttamente le scritture contabili

dell'impresa da finanziare, ovvero le banche stesse.

Il punto di vista dell'economista

La protezione da offrire ad una società può essere privata o pubblica. Nel primo

caso si può pensare che la società compri un'assicurazione sui titoli da compagnie di

assicurazione private nell'interesse dei loro piccoli azionisti: ma si tratta di una

soluzione che probabilmente comporta costi di transazione troppo elevati per la

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maggior parte dei “soci di risparmio” (peraltro questa soluzione introduce un'ipotesi

di azzardo morale in capo alla società che si assicura e sposta il problema della

correttezza da quest’ultima all'assicuratore).

La protezione pubblica si giustifica non solo perché quella privata non appare

particolarmente efficiente, ma soprattutto perché l'individuazione e la punizione della

frode hanno un effetto positivo per la coesione sociale e per l'integrità del mercato. La

tutela pubblica parte dall'imposizione di vincoli di trasparenza per prevenire la frode:

la loro violazione può essere sanzionata, però, con l'azione civile o con quella penale.

L'intervento sociale attraverso, ad esempio, il riconoscimento di danni multipli in

un'azione di risarcimento civile potrebbe stimolare anche un piccolo azionista o un

loro limitato gruppo ad agire in difesa dei propri interessi sapendo che. in caso di

vittoria, essi saranno risarciti per un multiplo del danno subito. E se anche

quest'incentivo fosse insufficiente, si dovrebbe lasciare soltanto al mercato la

responsabilità di sanzionare la correttezza dei manager, forse solo nel lungo termine?

Certamente no. Al riguardo è possibile mutuare l'ipotesi di rappresentanza avanzata

da Dewatripont e Tirole in relazione alla regolamentazione prudenziale delle banche:

per ovviare al freeriding è necessario che gli azionisti minori siano rappresentati e

dilesi dallo stato e che quest'ultimo svolga l'azione di tutela ricalcando il tipo di

controllo che gli investitori avrebbero esercitato se fossero più esperti, perfettamente

coordinali ed economicamente motivati. E' evidente che l'argomento richiama ancora

il dibattito sui meccanismi di corporate govemance e riecheggia anche le intuizioni

neoistituzionaliste di Williamson ricordate precedentemente. In altri termini, ciò

significa che lo stato potrebbe esercitare l'azione civile e ottenere un multiplo dei

danni pei” la totalità degli azionisti che non hanno agito in giudizio. Se poi fossero

particolarmente toni l’allarme sociale e il timore di andamenti marcatamente negativi

sui mercati finanziari, nulla vieta che si faccia ricorso all'azione penale. Tanto

l'azione civile ipotizzata in precedenza quanto quella penale addossano l'onere della

prova sui pubblici poteri.

Perciò, la sanzione penale per la violazione degli obblighi circa la veridicità e la

completezza dell'informazione societaria non è una conseguenza necessaria della vita

economica e giuridica, ma il risultato di una scelta politica anche quando essa è

compiuta senza un'esplicita valutazione dei pro e dei contro. Inoltre, la diversità delle

situazioni societarie fa vedere chiaramente che sono possibili e, forse, auspicabili

soluzioni articolate che non scarichino tutto l'onere sulla giustizia penale. Infine, senza

la messa in opera di adeguati incentivi che rendano gli interessi dei manager coerenti

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con quelli degli azionisti e dell'intera collettività la sola tutela giudiziaria non appare

sufficiente a combattere la falsità nelle comunicazioni sociali.

Concludendo, le stesse teorie economiche interessate a riscoprire “l’economia

politica”, tuttavia, ricordano con enfasi che. nel ricostruire lo schema di incentivi più

indicato per affrontare la questione del falso in bilancio, non si può trascurare il

contesto culturale e istituzionale nel quale questa problematica viene esaminata e per il

quale viene proposta un'ipotesi di riforma. Lo studio dei risultati raggiunti da una

determinata formula in realtà diverse è molto utile, ma il confronto non va limitato ai

risultati. Solo in tal modo diviene possibile proporre soluzioni efficaci in quanto attuabili

“dal basso” (ovvero partendo dagli incentivi degli operatori e di conseguenza da questi

condivise) e si evita di incorrere in prescrizioni o in riforme dettate “dall'alto” ed esposte

al rischio di conflitto con il sistema, sottostante e preesistente.

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SOMMARIO:

Caratteristiche e funzioni del diritto penale............................................................................................ 1Funzioni di tutela del diritto penale: la protezione dei beni giuridici ..................................... 1I principi di “sussidiarietà” e di “meritevolezza di pena”. ........................................................... 7Il principio di frammentarietà .................................................................................................................... 8Il principio di «autonomia» ........................................................................................................................ 9Partizioni del diritto penale ......................................................................................................................... 9La funzione di garanzia della legge penale ........................................................................................ 10La riserva di Legge: fondamento e portata ........................................................................................ 11Il concetto di «legge» nell'art. 25, comma 2°, Cost. e nell'art. 1 c.p. ................................. 12Rapporto legge-fonte subordinata: i diversi modelli di integrazione ................................... 13Rapporto legge-consuetudine .................................................................................................................. 14Riserva di legge e normativa comunitaria.......................................................................................... 14Il principio nulla poena sine lege............................................................................................................ 15Il principio di tassatività: premessa ...................................................................................................... 16Principio di tassatività e tecniche di redazione della fattispecie penale ............................ 17Il principio di irretroattività ...................................................................................................................... 18La disciplina dettata dall'art. 2 del codice penale .......................................................................... 19Successione di leggi e applicabilità della disposizione più favorevole al reo................... 20Successione di leggi integratrici di elementi normativi della fattispecie criminosa(modifiche cosiddette «mediate» della fattispecie incriminatrice) ...................................... 20Successione di leggi temporanee, eccezionali e finanziarie...................................................... 21Decreti-legge non convertiti ..................................................................................................................... 22Leggi dichiarate incostituzionali ............................................................................................................. 23

L'INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE PENALE ......................................................................................... 24Natura dell'atto interpretativo................................................................................................................. 24Teoria soggettiva e teoria oggettiva dell'interpretazione............................................. 25Mezzi di interpretazione.............................................................................................................................. 26I metodi dell'interpretazione.................................................................................................................... 27Il metodo teleologico in particolare. ..................................................................................................... 28L'analogia in generale. ................................................................................................................................. 30L'analogia nel diritto penale. .................................................................................................................... 30

L’EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE ........................................................................................................... 33LIMITI TEMPORALI ............................................................................................................................................ 33

La successione delle leggi .......................................................................................................................... 33Nuove incriminazioni. ................................................................................................................................... 34Abolizione di incriminazioni precedenti. ............................................................................................. 34Nuove disposizioni soltanto modificative. .......................................................................................... 35Significato di “disposizione più favorevole”...................................................................................... 36Leggi eccezionali, temporanee e finanziarie. .................................................................................. 36Decreti legge non convertici e leggi incostituzionali .................................................................... 37Il tempo del commesso reato. .................................................................................................................. 38

Gli elementi costitutivi del reato ................................................................................................................. 41La tipicità ............................................................................................................................................................. 42L'autore ................................................................................................................................................................ 43Soggetto passivo .............................................................................................................................................. 44L'oggetto materiale dell'azione ............................................................................................................... 45La condotta e la coscienza e volontà dell'azione ............................................................................ 45L'evento ................................................................................................................................................................ 46Nesso di causalità ............................................................................................................................................ 47L'antigiuridicità ................................................................................................................................................ 47Principali cause di giustificazione ............................................................................................................ 49La colpevolezza ................................................................................................................................................ 51

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L'imputabilità ..................................................................................................................................................... 51Il contenuto della colpevolezza: dolo e colpa ..................................................................................... 54Dolo. ...................................................................................................................................................................... 54Le varie classificazioni del dolo ................................................................................................................. 55Colpa...................................................................................................................................................................... 55

IL SISTEMA SANZIONATORIO .............................................................................................................................. 57La Pena .................................................................................................................................................................... 57Le funzioni della pena .................................................................................................................................................. 58La funzione retributiva e preventiva della pena ........................................................................................................ 59Commisurazione ed estinzione delle pene ................................................................................................................. 61Misure di sicurezza e misure di prevenzione ............................................................................................................. 62Il D. Lgs. N° 231/2001 .............................................................................................................................................. 63Il primo passo verso la responsabilità penale delle persone giuridiche? ................................................................... 63La discrasia tra denominazione e contenuto ............................................................................................................. 64

La struttura del D. Lgs. N. 231/01 ................................................................................................................................ 66Il cuore della disciplina contenuta nel D. Lgs. N. 231/01 .......................................................................................... 67

Il problema della responsabilità penale delle persone giuridiche ............................................................................... 70La criminalità d'impresa .......................................................................................................................................... 70Gli ostacoli dogmatici al riconoscimento della responsabilità penale delle persone giuridiche ................................... 72Il diritto penale è tradizionalmente un diritto antropocentrico! ................................................................................ 72

La responsabilità penale delle persone giuridiche nel mondo ....................................................................................... 75Il sistema Angloamericano ....................................................................................................................................... 76Gli ordinamenti di civil law europei ............................................................................................................................ 77

CORPORATE GOVERNANCE e diritto penale ............................................................................................... 81I segni distintivi dell'impresa ed esigenze di tutela ......................................................................... 85

Il marchio e la sua funzione ...................................................................................................................... 86La disciplina civile del marchio: le tipologie ...................................................................................... 87Requisiti di validità del marchio............................................................................................................... 88Tutela civile del marchio .............................................................................................................................. 89La tutela penale del marchio ...................................................................................................................... 90La contraffazione del marchio .................................................................................................................. 90Il caso: collari Bayer ...................................................................................................................................... 92Commercio di prodotti con marchio contraffatto ............................................................................ 92Contraffazione di marchio mediante importazioni parallele, il caso "Calvin Klein" ........ 93

La tutela penale dei rapporti societari ...................................................................................................... 95La nozione di società ..................................................................................................................................... 95I reati societari e la realtà sociale.......................................................................................................... 95L'oggetto della tutela .................................................................................................................................... 96I soggetti attivi: gli amministratori ....................................................................................................... 97Gli amministratori........................................................................................................................................... 98I direttori generali.......................................................................................................................................... 98I sindaci ............................................................................................................................................................... 99Il problema dei reati collegiali ................................................................................................................. 99I Reati di Bancarotta ................................................................................................................................... 100Imprenditore e scritture contabili ........................................................................................................ 100Le disposizioni penali.................................................................................................................................. 102Bancarotta fraudolenta patrimoniale.................................................................................................. 103Bancarotta fraudolenta documentale ................................................................................................. 103Bancarotta fraudolenta preferenziale ................................................................................................ 104Bancarotta semplice patrimoniale ....................................................................................................... 104Bancarotta semplice documentale ....................................................................................................... 105Cenni sulla disciplina del concorso di persone nel reato .......................................................... 105Art. 416 bis codice penali: Associazione di stampo mafioso................................................... 107La connotazione mafiosa e gli elementi del reato ........................................................................ 107Il sistema sanzionatorio ............................................................................................................................ 109Il Concorso esterno ..................................................................................................................................... 109Il dibattito sulla configurabilità del concorso esterno ...................................................................... 110L'art. 416 ter ................................................................................................................................................... 113

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L'articolo 418 .................................................................................................................................................. 114Articolo 418 e favoreggiamento ................................................................................................................ 115

La disciplina post- riforma del reato di false comunicazioni sociali. ...................................... 117Elementi di sintesi: ...................................................................................................................................... 117La disciplina ante riforma del reato di false comunicazioni sociali. .................................... 1192622. False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori ................................... 120Il falso in prospetto. .................................................................................................................................... 122Una visione d'insieme secondo il giurista. ....................................................................................... 123L'opinione del laico. ..................................................................................................................................... 130I punti critici della normativa attuale secondo l'analista finanziario. ................................ 131Tolleranti per legge...................................................................................................................................... 132Effetti sul costo del capitale .................................................................................................................... 132Il punto di vista dell'economista ........................................................................................................... 133