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EEPICA STORICA E DIDASCALICA: APOLLONIO Epica storica e didascalica: Apollonio EPICA STORICA E DIDASCALICA: APOLLONIO Il topos dell’abbandonata: Medea, Didone, Arianna, Didone di Metastasio Più volte è stata sottolineata la dipendenza di Virgilio da Apollonio: la Didone abbandona- ta, e in generale tutta la vicenda che sta al centro del IV libro dell’Eneide (un vero e proprio epillio amoroso all’interno del poema epico) è ricalcata sul III libro delle Argonautiche. La descrizione psicologica del sentimento che si accende e infiamma Didone discende diretta- mente dalle pagine in cui Apollonio tratteggia le fasi dell’innamoramento fino alla passione di Medea. Questa radice risulta ancora più importante se pensiamo che l’eroina virgiliana sarà modello, come gran parte dei personaggi virgiliani, dell’intera tradizione occidentale. Qui ci soffermiamo sul topos dell’abbandonata in un’analisi comparativa, condotta da Anna Giordano, delle argomentazioni topiche rivolte dall’abbandonata all’amante fuggitivo, a partire da un passo delle Argonautiche di Apollonio Rodio (IV 355-390), transitando attra- verso il discorso della Didone virgiliana e del catulliano carme 64, fino alla Gerusalemme Liberata di Tasso (XVI, ottave 56-60). Non macano ulteriori attestazioni del topos da Euripide fino a Metastasio. Dopo essersi abbandonato all’amore di Didone, Enea è richiamato alla propria mis- sione da Mercurio, messaggero di Giove. L’eroe cerca un’occasione favorevole per di- re alla regina che sarà costretto ad abbandonarla, ma la donna presagisce ogni cosa e le sue ipotesi sono confermate dalla Fama. Il dialogo tra i due personaggi è scandito dall’impossibilità di comunicare: Didone si sente tradita, nella propria passione per lo straniero, ed Enea è costretto a rinunciare alla stabilità del regno e dei sentimenti per rimettersi in mare. Pertanto la scelta di Enea deve essere interpretata non come manifestazione di insensibilità rispetto ai sentimenti dell’amante, ma come impos- sibilità di conciliare la sfera dei privati sentimenti a quella pubblica del destino di gloria per sé e per il proprio popolo. Didone abbandonata MEMORIA LETTERARIA

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Page 1: Epica storica e didascalica: Apollonio - edu.lascuola.it · E PICA STORICA E DIDASCALICA: A POLLONIO Il dialogo tra Didone ed Enea si articola in tre momenti fondamentali. Innanzi

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Epica storica e didascalica: Apollonio

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Il topos dell’abbandonata: Medea, Didone, Arianna, Didone di Metastasio

Più volte è stata sottolineata la dipendenza di Virgilio da Apollonio: la Didone abbandona-ta, e in generale tutta la vicenda che sta al centro del IV libro dell’Eneide (un vero e proprio epillio amoroso all’interno del poema epico) è ricalcata sul III libro delle Argonautiche. La descrizione psicologica del sentimento che si accende e infiamma Didone discende diretta-mente dalle pagine in cui Apollonio tratteggia le fasi dell’innamoramento fino alla passione di Medea. Questa radice risulta ancora più importante se pensiamo che l’eroina virgiliana sarà modello, come gran parte dei personaggi virgiliani, dell’intera tradizione occidentale. Qui ci soffermiamo sul topos dell’abbandonata in un’analisi comparativa, condotta da Anna Giordano, delle argomentazioni topiche rivolte dall’abbandonata all’amante fuggitivo, a partire da un passo delle Argonautiche di Apollonio Rodio (IV 355-390), transitando attra-verso il discorso della Didone virgiliana e del catulliano carme 64, fino alla Gerusalemme Liberata di Tasso (XVI, ottave 56-60).Non macano ulteriori attestazioni del topos da Euripide fino a Metastasio.

Dopo essersi abbandonato all’amore di Didone, Enea è richiamato alla propria mis-sione da Mercurio, messaggero di Giove. L’eroe cerca un’occasione favorevole per di-re alla regina che sarà costretto ad abbandonarla, ma la donna presagisce ogni cosa e le sue ipotesi sono confermate dalla Fama. Il dialogo tra i due personaggi è scandito dall’impossibilità di comunicare: Didone si sente tradita, nella propria passione per lo straniero, ed Enea è costretto a rinunciare alla stabilità del regno e dei sentimenti per rimettersi in mare. Pertanto la scelta di Enea deve essere interpretata non come manifestazione di insensibilità rispetto ai sentimenti dell’amante, ma come impos-sibilità di conciliare la sfera dei privati sentimenti a quella pubblica del destino di gloria per sé e per il proprio popolo.

Didone abbandonataabbandonataabbandonata

MEMORIA LETTERARIA

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Il dialogo tra Didone ed Enea si articola in tre momenti fondamentali. Innanzi tutto, per comprendere bene le prime parole della regina, al verso 305, occorre riflettere sul fatto che Didone non è stata informata della partenza da Enea, ma dalla Fama, che corre impazzita per la città. Particolare attenzione merita l’epiteto che la donna riserva al principe troiano, perfide, che propriamente indica colui che ha violato il patto di fiducia, sancito tra due amanti (la fides). Nel primo momento del colloquio, Didone richiama alla memoria di Enea il sentimento d’amore e lo supplica di non ab-bandonarla. La donna sottolinea, inoltre, la grande ostilità che le è derivata, a causa della sua relazione con uno straniero, da parte della propria gente e dei pretendenti che sono stati respinti. La risposta di Enea è, in un certo senso, manifestazione del suo difficile compito: conciliare la dimensione pubblica e quella privata. In alcuni casi ciò non è possibile. Egli per garantire una patria stabile ai compagni ed un re-gno a Iulo, è costretto ad abbandonare Cartagine. Enea è stato spesso accusato di insensibilità dai critici, ma, se prestiamo attenzione alle sue parole, possiamo notare come la sua grandezza risieda proprio nella capacità di rinunciare alla dimensione privata, in favore dei doveri pubblici. Nell’ultima parte del dialogo si scatena il furor di Didone, che, accecata dalla collera, augura sciagure ad Enea. Si può già presagire il suicidio della donna, che spera, con tale gesto, di perseguitare lo sventurato amante.

At regina dolos (quis fallere possit amantem?)praesensit, motusque excepit prima futuros,omnia tuta timens. Eadem impia Fama furentidetulit, armari classem cursumque parari.Saevit inops animi totamque incensa per urbembacchatur, qualis commotis excita sacrisThyias, ubi audito stimulant trieterica Bacchoorgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron.Tandem his Aenean compellat vocibus ultro:

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At regina ... parari: «Ma la regina intuì l’inganno (chi ingannereb-be un’amante?) e colse prima di tutti gli eventi che stavano per accadere, temendo tutte le cose, benché tran-quille. La stessa impietosa Fama riportò alla furente che si armava la flotta e si preparava la partenza». - praesensit: propriamente «si accorse in anticipo di». Il complemento oggetto è dolos. - possit: congiuntivo potenziale. - ex-cepit: excipio significa «cogliere di na-scosto». Il suo complemento oggetto è motus futuros. - futuros: propriamente «che stavano per essere». - tuta: Servio suggerisce di sottintendere etiam, pri-ma di tuta, per dare al termine una sfu-matura concessiva. - Eadem ... Fama: la stessa Fama, probabilmente quella fama che aveva informato Iarba, pre-tendente della regina, degli amori tra

296-299 Didone ed Enea. - furenti: in preda al furor, turbamento, che provoca com-portamenti irrazionali.

Saevit ... Cithaeron: «Impaz-za, fuori di sé, e ardente delira per tutta la città, come una baccante eccitata, al destarsi dei riti, quando, al grido bac-chico, la agitano le orge triennali e la chiama, con clamore, il Citerone, di notte». - inops animi: equivale a sine consilio, «priva di senno». - commotis ... sacris: ablativo assoluto. - Thyias: dal greco thuiàs, menade, baccante. Le baccanti erano donne, dedite al culto di Bacco o Dioniso, che le invasava durante i riti, rendendole folli e ca-paci di fare a pezzi, con la sola forza delle mani, animali. I riti si svolge-vano sul Citerone, monte sovrastante Tebe, dove Dioniso aveva travolto

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il senno di Agave e l’aveva indotta ad uccidere il figlio Penteo, come è narrato nelle Baccanti di Euripide. - audito ... Baccho: ablativo assoluto. Letteralmente «udito Bacco», ossia «al grido bacchico». Tale grido, che ac-compagnava le manifestazioni sfrenate delle baccanti, era euhoe Bacche. - trie-terica ... orgia: sono i riti orgiastici, che si tenevano ogni tre anni sul Citerone. - nocturnus: l’aggettivo ha qui valore predicativo e significa «di notte».

Tandem ... terra: «Infine per prima si rivolge ad Enea, con que-ste parole: “Speravi, traditore, di poter dissimulare un tale misfatto e in silen-zio di allontanarti dalla mia terra?”» - Aenean: accusativo singolare, che segue la declinazione dei nomi greci. - ultro: «da sé», «spontaneamente»,

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«Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantumposse nefas tacitusque mea decedere terra?Nec te noster amor nec te data dextera quondamnec moritura tenet crudeli funere Dido?Quin etiam hiberno moliris sidere classemet mediis properas aquilonibus ire per altum,crudelis? Quid? Si non arva aliena domosqueignotas peteres, et Troia antiqua maneret,Troia per undosum peteretur classibus aequor?Mene fugis? Per ego has lacrimas dextramque tuam te(quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui),per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquamdulce meum, miserere domus labentis et istam,oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem.Te propter Libycae gentes Nomadumque tyranniodere, infensi Tyrii; te propter eundemexstinctus pudor et, qua sola sidera adibam,fama prior. Cui me moribundam deseris hospes?

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quindi «per prima». - perfide: è pro-priamente «colui che viola la fides», quindi «il traditore». - sperasti: forma sincopata per speravisti. Il verbo reg-ge posse, che regge dissimulare. - ta-citus: predicativo del soggetto.

Nec te ... Dido: «“Il nostro amore, né la destra un giorno data, né Didone intenzionata a morire crudel-mente ti trattengono?”». - data dexte-ra: dare la mano destra era simbolo di impegno solenne. Il gesto simboleg-giava, però, anche la promessa di ma-trimonio, che prevedeva la destrarum iunctio. Anche nelle Argonautiche di Apollonio Rodio Giasone promette a Medea di sposarla, mettendo la mano destra nella sua mano (IV 99). Anche tale promessa, come il patto d’amore tra Didone ed Enea, sarà tradita. - mo-ritura: participio futuro, che esprime l’intenzione di morire.

Quin ... aequor: «“sotto le stelle invernali prepari la flotta e ti ap-presti ad andare per mare, in mezzo ai venti, crudele? Dunque? Se tu non cer-cassi campi stranieri e dimore ignote, se ci fosse ancora Troia di un tempo, andresti a Troia, con le navi, per il mare tempestoso?”».

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Mene fugis ... mentem: «“Fuggi me? Io, per queste lacrime, per la tua destra (dal momento che null’altro ho lasciato a me sventurata), per la nostra unione, per l’iniziato ime-neo, ti prego, se ho qualche diritto nei tuoi riguardi, o se hai avuto una qual-che dolcezza da me, abbi pietà della casa che crolla e deponi, se ancora c’è posto per le preghiere, questo pensie-ro”». - Mene: -ne enclitica introduce l’interrogativa diretta. - ego: è sogget-to di oro, collocato al verso 319. Te è l’accusativo retto dallo stesso verbo: Ego te oro. - hymenaeos: propria-mente è il canto nuziale. Qui indica il rapporto amoroso tra Enea e Didone, che assume, grazie a tale termine, una connotazione solenne. - quando: «dal momento che». Costruisci quando ip-sa reliqui iam nihil aliud mihi mise-rae. - si ... merui: protasi di periodo ipotetico di I tipo (oggettività). - fuit ... meum: è un’altra protasi di periodo ipotetico di I tipo. - miserere: impe-rativo, che introduce l’apodosi del periodo ipotetico di I tipo. - si quis ... locus: protasi di un secondo perio-do ipotetico di I tipo. - istam ... exue mentem: apodosi del secondo periodo ipotetico di I tipo.

314-319 Te propter ... hospes: «“Per causa tua le libiche genti e i re dei Numidi mi odiano, sono ostili i Tirii; per causa tua si estinse il pudore e la reputazione di prima, che sola mi in-nalzava alle stelle. A chi mi abbandoni morente, ospite?”». - Te propter: ana-strofe di propter te, che ha lo scopo di mettere in rilievo l’interlocutore. - Lybicae gentes: sono i popoli indigeni nel cui territorio Didone ha fondato Cartagine. - Nomadumque tyranni: Nomades è il nome greco dei Numidi (in latino Numidae), che qui troviamo in caso genitivo plurale. Virgilio usa il nome greco per evitare il genitivo Numidarum, un poco pesante. I tyran-ni, i re dei Numidi, sono Iarba e gli altri pretendenti respinti da Didone. - infensi Tyrii: «sono ostili i Tirii». Anche i Cartaginesi, qui chiamati con il nome derivante dalla città di Tiro, in Fenicia, sono avversi ad un principe consorte straniero, quale era appun-to Enea rispetto a Didone. - hospes: amaro riferimento di Didone alle sa-cre leggi dell’ospitalità. Hospes è lo straniero cui si dà asilo e assistenza, creando un forte legame, che non si estingue con la morte, ma è ereditato dai discendenti.

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Hoc solum nomen quoniam de coniuge restat.Quid moror? an mea Pygmalion dum moenia fraterdestruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas?Saltem si qua mihi de te suscepta fuissetante fugam suboles, si quis mihi parvulus aulaluderet Aeneas, qui te tamen ore referret,non equidem omnino capta ac deserta viderer».Dixerat. Ille Iovis monitis immota tenebatlumina et obnixus curam sub corde premebat.Tandem pauca refert: «Ego te, quae plurima fandoenumerare vales, numquam, regina, negabopromeritam, nec me meminisse pigebit Elissae,dum memor ipse mei, dum spiritus hos regit artus.Pro re pauca loquar. Neque ego hanc abscondere furtosperavi (ne finge) fugam, nec coniugis umquampraetendi taedas aut haec in foedera veni.

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Hoc so lum . . . I a rbas : «“Poiché questo solo nome mi resta dello sposo. Che aspetto? Forse che mio fratello Pigmalione distrugga le mie mu-ra o che mi prenda prigioniera l’africano Iarba?”». - quoniam: congiunzione con valore causale. Per fare la costruzione è bene porla all’inizio del verso. - quid moror: che aspetto? (a morire). La ri-sposta ironica a questa domanda è con-tenuta nelle successive interrogative dirette introdotte da an. - an: introduce una coppia di interrogative retoriche negative. - Pygmalion: era il fratello di Didone, che le aveva assassinato il marito Sicheo, per impossessarsi del-la sue ricchezze. La regina, fuggita da Tiro, in seguito a queste sanguinose vicende si era rifugiata in Africa, dove aveva fondato Cartagine. - dum: «(fino al momento) che». - Gaetulus: i Getuli abitavano le regioni interne della Libia e dell’Algeria, ma qui il termine ha si-gnificato generico di «africano».

Saltem ... viderer: «“Se al-meno avessi avuto un figlio, generato da te, prima della fuga, se giocasse per me nel palazzo un piccolo Enea, che almeno riproducesse te nel volto, certo non mi sembrerebbe di essere del tutto tradita ed abbandonata”». - Saltem si: «Se al-meno». Introduce una protasi di periodo ipotetico di III tipo (irrealtà). - qua: è concordato con suboles, «un figlio». - suscepta: suscipio significa anche «ge-

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nerare». Tuttavia qui il verbo richiama, oltre all’idea di avere un figlio generato da Didone e per Didone, l’uso romano di sollevare il neonato, che era deposto nudo ai piedi del padre, per riconoscer-ne la paternità. - si quis: introduce una seconda protasi di periodo ipotetico di III tipo. - non ... viderer: apodosi delle due protasi di periodo ipotetico di III tipo. Viderer è imperfetto congiuntivo, da videor, costruito personalmente con il nominativo della persona che sembra. Letteralmente: «non sembrerei esse-re...».

Dixerat ... premebat: «Disse. Egli teneva gli occhi immobili, per i comandi di Giove e con grande sforzo soffocava la pena nel cuore». - Dixerat: espressione formulare.

Tandem ... artus: «Infine ri-sponde poche parole: “Io quanti meriti tu sei in grado di enumerare a parole, mai, regina, negherò che tu li abbia avuti, né mi rincrescerà di ricordare Elissa, finché avrò coscienza e finché un soffio regga queste membra”». - Ego: è soggetto di negabo, che regge l’infini-tiva te promeritam (esse). - quae: «le innumerevoli cose che, col dire (fando), saresti in grado di enumerare». - pige-bit: l’impersonale piget si costruisce con l’accusativo della persona che prova rincrescimento, in questo caso me. Regge un’infinitiva, meminisse

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Elissae, nella quale il verbo di memo-ria è costruito con il genitivo della per-sona della quale ci si ricorda. - Elissae: la scelta di questo nome, per indicare Didone, è motivata dalla volontà di Enea di riconoscerne il carattere rega-le. Altri hanno ipotizzato che questo fosse il nome di giovinezza della re-gina, che il principe troiano usava nei momenti di intimità, ma, come fa no-tare A. Traina, sarebbe singolare una sfumatura affettiva in un nome che ri-corre dopo regina. - dum: finché. - me-mor ipse mei: «finché avrò memoria di me». È la memoria riflessiva, che qui è identificata con la coscienza in senso psichico, ossia con la consapevolezza, e non in senso morale.

Pro re ... veni: «“Dirò po-che parole in proporzione al fatto. Io non speravo (non crederlo) di tenerti nascosta la fuga, né mai ho proteso fiaccole nuziali, né sono sceso a que-sti patti”». - Pro re: l’interpretazione è discussa. Potrebbe essere intesa in senso strettamente giuridico: «in mio favore», ma sembra un poco eccessi-vo. È meglio collegare pro re a pauca e tradurre «in rapporto, in proporzio-ne al fatto». - ne finge: propriamente significa «non figurartelo», come se Enea esortasse Didone a non immagi-narsi mentalmente la scena della fuga di nascosto.

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Me si fata meis paterentur ducere vitamauspiciis et sponte mea componere curas,urbem Troianam primum dulcisque meorumreliquias colerem, Priami tecta alta manerent,et recidiva manu posuissem Pergama victis.Sed nunc Italiam magnam Gryneus Apollo,Italiam Lyciae iussere capessere sortes;hic amor, haec patria est. Si te Karthaginis arcesPhoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis,quae tandem Ausonia Teucros considere terrainvidia est? et nos fas extera quaerere regna.Me patris Anchisae, quotiens umentibus umbrisnox operit terras, quotiens astra ignea surgunt,admonet in somnis et turbida terret imago;me puer Ascanius capitisque iniuria cari,quem regno Hesperiae fraudo et fatalibus arvis.Nunc etiam interpres divum Iove missus ab ipso(testor utrumque caput) celeris mandata per aurasdetulit; ipse deum manifesto in lumine vidiintrantem muros vocemque his auribus hausi.Desine meque tuis incendere teque querellis:Italiam non sponte sequor».

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Me si fata ... victis: «“Se il destino mi concedesse di condurre la vita secondo i miei desideri o di placa-re gli affanni secondo la mia volontà, anzitutto sarei nella città di Troia e venererei le dolci reliquie dei miei e l’alto palazzo di Priamo si ergerebbe e di mia mano avrei fatto rinascere per i vinti una nuova Pergamo”» - si ... pa-terentur: protasi di periodo ipotetico di III tipo (irrealtà), che regge due infinitive, ducere vitam auspiciis e sponte mea componere curas. - ur-bem ... colerem, Priami ... manerent, recidiva ... victis: sono le tre apodo-si del periodo ipotetico di III tipo. - tecta: è sineddoche, per indicare con una parte (i tetti) l’intero palazzo di Priamo. - Recidiva: l’aggettivo è un funzione predicativa. Pertanto lette-ralmente sarebbe da intendere come «che rinascesse».

Sed nunc ... sortes: «“Ma ora Apollo Grinèo la grande Italia, gli oracoli della Licia l’Italia mi ordinano di raggiungere”». - Gryneus: Apollo era detto Grinèo, dalla città di Grinio,

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sulla costa egea dell’attuale Turchia, dove si trovava un famoso tempio a lui dedicato. - Lyciae sortes: allusio-ne ad un altro rinomato oracolo di Apollo, che si trovava in Licia, pres-so Pàtara. Le sortes erano pezzetti di legno, sui quali erano incisi i respon-si oracolari.

hic amor ... regna: «“que-sto è il desiderio, questa la patria. Se la rocca di Cartagine e la vista di una città libica trattengono te, che sei Fenicia, che malanimo è mai questo di negare ai Troiani di stabilirsi nel-la terra Ausonia? Anche noi possia-mo cercare regni stranieri”». - amor: «amore», che si contrappone a quello di Didone. Si: introduce una protasi di periodo ipotetico di I tipo. - quae: interrogativa diretta.

Me patris ... arvis: «“Me l’immagine del padre Anchise, tutte le volte che la notte ricopre la ter-ra, con le umide ombre, tutte le volte che sorgono gli astri di fuoco, rim-provera in sogno e, fosca, mi atter-

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risce; anche il fanciullo Ascanio (mi ammonisce), per l’offesa che arreco al suo caro capo, che defraudo del re-gno d’Esperia e dei territori voluti dal fato”».

Nunc ... hausi: «“Ora anche il messaggero degli dei, mandato da Giove, (lo giuro sul capo di entrambi) mi ha riferito comandi attraverso l’aria veloce; io stesso ho visto il dio nella chiara luce penetrare i muri e ne ho ascoltato, con queste orecchie, la vo-ce”». - celeris: celeres. L’aggettivo è riferito per ipallage all’aria, che è il mezzo attraverso il quale si muove il rapido messaggero.

Desine ... sequor: «Smetti di tormentare me e te con le tue la-mentele: non di mia volontà cerco l’Italia». Queste sono le ultime paro-le che Enea, nella dimensione mon-dana, rivolge a Didone. Il principe troiano chiarisce bene la necessità di sottomettere i propri desideri alla vo-lontà degli dei.

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Talia dicentem iamdudum aversa tueturhuc illuc volvens oculos totumque pererratluminibus tacitis et sic accensa profatur: «Nec tibi diva parens, generis nec Dardanus auctor,perfide, sed duris genuit te cautibus horrensCaucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres.Nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo?Num fletu ingemuit nostro? num lumina flexit?Num lacrimas victus dedit aut miseratus amantem est?Quae quibus anteferam? Iam iam nec maxima Iunonec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis.Nusquam tuta fides. Eiectum litore, egentemexcepi et regni demens in parte locavi,amissam classem, socios a morte reduxi.Heu furiis incensa feror! nunc augur Apollo,nunc Lyciae sortes, nunc et Iove missus ab ipsointerpres divum fert horrida iussa per auras.Scilicet is superis labor est, ea cura quietos sollicitat. Neque te teneo neque dicta refello:i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas;spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,

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Talia ... profatur: «Già da tempo, ostile, guarda lui, che dice tali cose, volgendo gli occhi qua e là, tut-to lo misura, con gli occhi silenziosi e, infiammata, parla così». - aversa: propriamente «voltata dalla parte op-posta», quindi «ostile». - dicentem: participio presente, retto da tuetur. - huc illuc: sono due avverbi di moto a luogo.

Nec tibi ... tigres: «“Non hai per madre una dea, né hai come fonda-tore della stirpe Dardano, traditore, ma il Caucaso, irto di dure rocce, ti generò e le tigri ircane ti porsero le mammel-le”». - generis nec: anastrofe. - genuit: indicativo perfetto da geno, forma ar-caica per gigno. - Hyrcanae: l’Ircania era nell’estremo nord della Persia, in-torno al mar Caspio.

Nam quid ... amantem est: «“Infatti perché dissimulo e a quali maggiori offese mi riservo? Forse ge-mette al mio pianto? Forse chinò gli occhi? Forse, vinto, versò lacrime, o commiserò l’amante?”» - num: è ripetu-to in anafora e sottintende una risposta negativa.

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Quae ... aequis: «“Quali of-fese dovrei anteporre a queste? Ormai, ormai né la grande Giunone, né il padre Saturnio guardano queste cose con oc-chi giusti”». - anteferam: congiuntivo dubitativo. - Iuno ... aequis: il signifi-cato dell’espressione «non guardano con occhi giusti» è stato variamente interpretato. C’è chi interpreta come «non possono approvare la condotta di Enea» e chi intende «non guardano più Cartagine, con il favore di un tempo».

Nusquam ... reduxi: «“In nessun luogo è sicura la lealtà. Gettato sulla spiaggia, bisognoso di tutto, ti accolsi e, folle, ti posi a parte del regno, salvai la flotta perduta ed i compagni dalla morte”». - fides: è ter-mine chiave della vicenda tra Enea e Didone. Con questo termine si indica la fiducia, la lealtà che si ha, e allo stesso tempo ci si aspetta, relativa-mente alla persona amata. Altro ter-mine chiave, che ha lo stesso etimo è foedus, che indica l’implicito patto affettivo, che si crea tra due amanti. - Eiectum ... egentem: si riferiscono a te sottinteso, che è complemento og-getto di excepi e di locavi.

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Heu furiis ... auras: «“Ahi, sono infiammata e travolta dalle furie! Ora l’augure Apollo, ora gli oracoli della Licia, ora anche il messaggero, manda-to da Giove, porta orribili ordini attra-verso l’aria”».

Scilicet ... undas: «Natural-mente questo è travaglio per gli dei, questi affanni conturbano la loro quie-te. Ma non ti trattengo e non contesto le tue parole: va’. Insegui l’Italia, nei venti, cerca il regno, attraverso le on-de». - Scilicet: la proposizione, intro-dotta con amara ironia da questo av-verbio, riprende la dottrina epicurea, secondo la quale gli dei sono indiffe-renti alle vicende umane e vivono in stato di beatitudine. Lucrezio, nel De rerum natura dà ampio spazio all’epi-cureismo.

spero ... imos: «“spero dav-vero, se i numi pietosi possono qualco-sa, che sconterai la pena tra gli scogli e che spesso invocherai per nome Didone. Ti inseguirò, lontana, con nere fiamme e, quando la fredda morte avrà separato le membra dall’anima, come spettro sarò presente dovunque. Sconterai la pena,

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supplicia hausurum scopulis et nomine Didosaepe vocaturum. Sequar atris ignibus absenset, cum frigida mors anima seduxerit artus,omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas;audiam et haec Manis veniet mihi fama sub imos».His medium dictis sermonem abrumpit et aurasaegra fugit seque ex oculis avertit et aufert, linquens multa metu cunctantem et multa parantemdicere. Suscipiunt famulae conlapsaque membra marmoreo referunt thalamo stratisque reponunt.

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malvagio; lo saprò e questa notizia giun-gerà per me, anche laggiù, tra i mani profondi”». - hausurum ... vocaturum: i due verbi possono essere intesi come hausurum esse, vocaturum esse, due infiniti futuri, che indichino la poste-riorità rispetto alla reggente. Tuttavia, in età classica, è molto diffuso anche l’uso del solo participio futuro, con va-lore di posteriorità. - atris ignibus: «con

neri fuochi» è una duplice allusione al-le fiamme del rogo funebre di Didone, che Enea vedrà dal mare e alle fiaccole delle Furie vendicative. - cum: cum + indicativo, con valore temporale. - ani-ma: ablativo di separazione. - Manis ... sub imos: «tra i mani profondi». I Mani sono gli spiriti dei morti, custoditi nelle profondità del regno dell’oltretomba. Si anticipa qui il tema della discesa agli

inferi, che sarà sviluppato nel VI libro.

His ... reponunt: «Con que-ste parole, interrompe a metà il discorso e fugge, afflitta, la luce, si sottrae allo sguardo e si volge, lasciandolo molto esitante nel timore e mentre si prepara a dire molte cose. Le ancelle la sorreggo-no, riportano il corpo svenuto sul tala-mo di marmo e lo adagiano sui cuscini».

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Il topos dell’abbandonata: Medea e Giasone

Nel difficile dialogo tra Enea e Didone abbiamo visto come la donna passi da un atteggia-mento supplice ad un vero e proprio furor. In seguito, alla vista delle navi troiane che si allontanano sul mare, la regina è spinta ancora a maledire Enea e a cercare la morte, per causare eterna rovina al traditore. Una situazione analoga è descritta nella celebre tragedia di Euripide, Medea. In questo caso la protagonista, dopo essere stata abbandonata dal compagno Giasone, che ha deciso di sposare la figlia del re di Corinto, decide di uccidere i figli. Le motivazioni del suo gesto atroce ci sono spiegate da Medea in persona, durante un dialogo con Giasone che si svolge dopo l’infanticidio e la morte della nuova compagna di lui, Glauce (Euripide, Medea, vv. 1351 - 1398, tr. di U. Albini, Garzanti, Milano, 2003).

«Molto avrei da replicare alle tue parole, se Zeus padre non sapesse cosa ho fatto io per te e cosa hai fatto tu contro di me. Non dovevi, in spregio al mio letto, riservarti per il domani un’esistenza di felicità, ridendo alle mie spalle; e neppure lei, la principessa. E il re Creonte, che ti ha preparato queste nozze, non doveva cacciarmi dal paese, senza pagarne le conseguenze. Perciò, chiamami pure leonessa, se ti fa piacere, e Scilla, il mostro che abita il vasto Tirreno; io ti ho colpito al cuore; è il contraccambio che meritavi».«Ma anche tu soffri, e la mia sventura è anche la tua». «Sì, ma sappilo bene: serve a qualcosa, questo dolore, se tu non puoi farti beffe di me». «Poveri fi gli miei, che madre malvagia vi è toccata».«Poveri fi gli miei, morti per la follia di vostro padre».«Non è stata la mia mano a ucciderli».«Ma la tua protervia, sì, e il tuo nuovo matrimonio».

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«E per una questione di letto hai ritenuto giusto ucciderli?»«Ti pare un dolore da poco per una donna?»«Per una donna casta sì: ma tu sei perversa in tutto».«Loro non vivono più e questo ti rimorderà per sempre».«Vivono e incombono su di te come demoni della vendetta».«Gli dei sanno bene da chi è partita la prima offesa».«Ma conoscono bene anche il tuo nauseante animo».«Odiami pure. Io detesto le tue acri parole».«Lasciami seppellire e piangere questi morti».«No, sarò io a seppellirli. Li porterò al tempio di Era Acraia perché nessun nemico possa oltraggiarli, profanare la loro tomba. E qui, nella terra di Sisifo, istituirò feste solenni e riti, in espiazione del sacrilego eccidio. Quanto a me, raggiungerò il paese di Eretteo, per vivere accanto a Egeo, fi glio di Pandione. Tu, invece, com’è giusto per un malvagio, morirai di mala morte: ti piomberà sul capo un rottame della nave Argo, e così vedrai l’amara fi ne delle mie nozze».«Ti annientino le Erinni dei fi gli e la Giustizia che vendica il sangue»:«Ma chi mai, tra gli dei, ascolta uno spergiuro, un traditore degli ospiti?»«Tu sei una creatura immonda, assassina dei fi gli».«Va’, rientra in casa, seppellisci tua moglie».«Sì, vado. E ho perduto i miei fi gli».«Non è ancora un vero pianto il tuo: aspetta di esser vecchio».«O fi gli adorati».«Dalla madre, non da te».«E allora perché li hai uccisi?»«Per farti soffrire».

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Il topos dell’abbandonata: Didone ed EneaIl discorso di Didone ad Enea può rientrare in un topos che potremmo definire del «lamento della donna abbandonata». Precedenti e modelli di Virgilio furono essenzialmente Apol-lonio Rodio da una parte con le sue Argonautiche (IV 355-390) e Catullo con il carme 64, 132-201, che già d’altronde aveva avuto presente il poeta greco.A parte qualche variante, la situazione si presenta analoga in tutti e tre i poeti: una don-na ancora innamorata, rispettivamente Medea, Arianna e Didone, viene abbandonata dal rispettivo amante: Giasone, Teseo ed Enea. Gli accenti sono diversi, rispondenti al tempe-ramento delle tre eroine, ma gli argomenti usati sono gli stessi, come presente è in tutti e tre i casi il tentativo di trattenere l’innamorato, tentativo peraltro vano. Si possono rintracciare come elementi di rimprovero agli amanti da parte delle eroine:

Apoll. vv. 358-360infedeltà alle promesse fatte Catullo vv. 132-135 Virg. vv. 305-306

Apoll. vv. 360-368ingratitudine Catullo vv. 149-151 Virg. vv. 307 s.; vv. 320-323

crudeltà e nascita da elementi Catullo vv. 154-157naturali selvaggi Virg. vv. 365-367

Apoll. vv. 370 s.abbandono e conseguente solitudine Catullo vv. 177-187 Virg. vv. 325-330

Come conclusione troviamo sempre la: Apoll. vv. 383-390maledizione Catullo vv. 189-201 Virg. vv. 382-387

che in Virgilio viene sviluppata nel secondo discorso ad Enea e nei versi 584-629, quando, prima di morire, lancia una seconda maledizione contro l’eroe troiano.

«Figlio di Esone, quale progetto avete tramatosopra di me? La fortuna ti ha forse tolto memoriae non ti curi più di quanto dicevi una volta,nella stretta della necessità? Dove sono fi nitii giuramenti in nome di Zeus protettore dei supplici,dove le dolci promesse? Per quelle ho lasciato la patria,contro l’uso, senza ritegno; ho lasciato la gloria della mia casae i genitori, e tutto quello che mi era più caro,e sono partita lontano, sul mare, con i malinconici alcioni,a causa delle tue imprese, perché tu compissi la prova

Apollonio Rodio, Argonautiche

IV 355-390

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incolume contro i tori e gli uomini nati dal suolo.E anche il vello hai preso, quando tutto è stato scoperto,grazie alla mia follia, e a tutte le donne ho portato vergogna.Per questo dico che ti seguirò in terra di Grecia,come tua fi glia, come tua sposa e sorella.E tu dunque devi proteggermi con tutto il cuore, e non lasciarmisola, senza di te, a cercare non so che sovrano;difendimi tu, senz’altro: e restino salvila giustizia e il diritto che entrambi abbiamo accettato.Oppure tagliami in mezzo la gola con la tua spada, ma subito,che per la mia passione io abbia il compenso dovuto.Sciagurato! E se il re al quale affi date questo patto crudelemi assegnerà a mio fratello, come potrò io giungeredavanti agli occhi del padre? Sì, certo, con molta gloria!Quale castigo, quale tremenda sventuradovrò mai soffrire per ciò che ho fatto,mentre tu avrai il ritorno che tanto desideri?No, non lo voglia la sposa di Zeus, la regina del mondo,che tu vanti amica! E di me un giorno dovrai ricordarti,quando sarai sfi nito dai mali, e allora il tuo vello spariscasimile ai sogni nell’Erebo, e dalla tua patriapresto le mie Erinni ti scacceranno, lo stesso che io ho soffertoper la tua crudeltà. E ti dico che queste parolenon cadranno nel vuoto, poiché tu spietatamentehai violato una sacra promessa: coi vostri pattinon resisterete a lungo tranquilli, a schernirmi».

«Sicine me patriis avectam, perfi de, ab aris, perfi de, deserto liquisti in litore, Theseu? Sicine discedens neglecto numine divum inmemor a! Devota domum periuria portas?Nullane res potuit crudelis fl ectere mentis consilium? Tibi nulla fuit clementia praesto, inmite ut nostri vellet miserescere pectus? At non haec quondam blanda promissa dedisti

Catullo, Carme 64, 132-201

«Dunque tu, Teseo, portandomi via dalle are paterne,tradivi, e qui mi lasciavi, su un lido deserto,vai in patria e non pensi di offendere il cielo,dimentichi e ritorni, col tuo giuramento tradito.Nulla, di tante cose, ha potuto piegarti il pensiero.Niente di generoso hai trovato in te stesso, il tuo cuoreduro non ha voluto sentire nessuna pietà.No, non così. La tua voce una volta era dolce

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voce mihi, non haec misere sperare iubebas,sed conubia laeta, sed optatos hymenaeos; quae cuncta aerii discerpunt irrita venti. Nunc iam nulla viro iuranti femina credat, nulla viri speret sermones esse fi delis; quis dum aliquid cupiens animus praegestit apisci,nil metuunt iurare, nihil promittere parcunt; sed simul ac cupidae mentis satiata libido est, dicta nihil metuere, nihil periuria curant.

d’avvenire, lasciavi sperare, per farmi infelice,un’unione serena, le nozze che tanto sognavo.Tutto vano, tutto si perde nell’aria e nel vento.Nessuna donna mai si fi di dell’uomo che giura,non speri mai sincere parole da un uomo.Quando il cuore gli batte violento di desiderionon teme di giurare e fa generose promesse,ma come la passione si sazia nel cuore vogliosonon teme quanto ha detto, non pensa che cosa ha giurato.

Certe ego te in medio versantem turbine leti eripui, et potius germanum amittere crevi,quam tibi fallaci supremo in tempore deessem; pro quo dilaceranda feris dabor alitibusque praeda, neque iniacta tumulabor mortua terra. Quaenam te genuit sola sub rupe leaena, quod mare conceptum spumantibus expuit undis,quae Syrtis, quae Scylla rapax, quae vasta Charybdis, talia qui reddis pro dulci praemia vita? Si tibi non cordi fuerant conubia nostra, saeva quod horrebas prisci praecepta parentis,

E fui io a strapparlo dai gorghi di morte, travolto,scelsi di perdere, invece di te, chi mi era fraterno,per non mancare a te, malfi do, in un’ora suprema.Per questo sono esposta alle fi ere che sbranano, predadei rapaci, e la terra non mi darà sepoltura.Ti fu madre una leonessa sotto una rupe deserta,ti concepì il mare e ti sputò tra schiume di onde,una Sirti una Scilla affamata un’atroce Cariddi,tu, che per l’amata vita, così hai ricambiato?E se non ti era stata cara l’unione con me,se tremavi ai dettami tremendi del tuo antico padre,

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at tamen in vestras potuisti ducere sedes,quae tibi iocundo famularer serva labore, candida permulcens liquidis vestigia lymphis, purpureave tuum consternens veste cubile. Sed quid ego ignaris nequiquam conquerar aureis, externata malo, quae nullis sensibus auctae nec missas audire queunt nec reddere voces? Ille autem prope iam mediis versatur in undis, nec quisquam apparet vacua mortalis in alga. Sic nimis insultans extremo tempore saeva fors etiam nostris invidit questibus aures.

potevi almeno condurmi alla vostra dimoradove sarei stata la schiava affaticata e felice,carezzando i tuoi piedi lucenti nell’acqua più pura,distendendo un arazzo di porpora sopra il tuo letto.Ma perché do al vento smemorato i miei vani lamenti,che è estraneo al mio dolore e non ha sentimentoné per udirmi né per potermi rispondere? E luiè già lontano, lo portano inquiete le onde,nessun mortale appare qui presso le alghe deserte.Così la sorte crudele in questi momenti supremial mio lamento invidia anche l’ascolto degli uomini.

Iupiter omnipotens, utinam ne tempore primo Gnosia Cecropiae tetigissent litora puppes, indomito nec dira ferens stipendia tauro perfi dus in Creta religasset navita funem, nec malus hic celans dulci crudelia formaconsilia in nostris requiesset sedibus hospes! Nam quo me referam? Quali spe perdita nitor? Idaeosne petam montes? A! Gurgite lato discernens ponti truculentum ubi dividit aequor? An patris auxilium sperem? Quemne ipsa reliqui,

Onnipotente Giove, non fossero mai, dall’origine,quelle navi cecropie approdate alle rive di Cnossoe a recare l’atroce tributo del Toro indomabilenon avesse legato la fune in Creta quel navigantesenza fede, un malvagio che in tanta bellezza celavadei disegni crudeli, e dormì, ci fu ospite in casa!Dove andrò ora? a quale speranza mi appoggio?Andrò all’Ida, vedendo l’immensa distesa del mare,quel mare minaccioso che mi separa da tutto?Pensare che mio padre m’aiuti? ma io l’ho lasciato,

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respersum iuvenem fraterna caede secuta? Coniugis an fi do consoler memet amore? Quine fugit lentos incurvans gurgite remos? Praeterea nullo litus, sola insula, tecto, nec patet egressus pelagi cingentibus undis; nulla fugae ratio, nulla spes; omnia muta, omnia sunt deserta, ostentant omnia letum. Non tamen ante mihi languescent lumina morte.Nec prius a fesso secedent corpore sensus, quam iustam a divis exposcam prodita multam,caelestumque fi dem postrema comprecer hora. Quare facta virum multantes vindice poena,

per seguire quell’uomo macchiato di sangue fraterno,senza più rifugiarmi in un cuore fi dato di sposo.Fugge, fugge, si piegano i remi nell’onda violenta.E non c’è casa, l’isola è solitaria, la costanon ha porte sul mare, ai fl utti che tutta l’avvolgono.Non c’è modo, speranza di fuga. È tutto silenzio,ovunque solitudine, ovunque presenza di morte.Ma prima che i miei occhi si chiudano stanchi alla mortee dal mio corpo esausto dileguino i sensi,io, la tradita, agli Dei domando la pena dovuta,in questa ora estrema invoco la fede divina.Dunque voi che punite, colpite le azioni d’un uomo,

Eumenides, quibus anguino redimita capillo frons expirantis praeportat pectoris iras, huc huc adventate, meas audite querelas,quas ego, vae! misera extremis proferre medullis cogor inops, ardens, amenti caeca furore. Quae quoniam verae nascuntur pectore ab imo, vos nolite pati nostrum vanescere luctum, sed quali solam Theseus me mente reliquit, tali mente, deae, funestet seque suosque».

voi Eumenidi, che avete per chiome serpenti,e nel volto gridate l’odio che batte nei cuori,avventatevi qui, da me, da questa infelice,ascoltate il pianto d’accusa che sorge dall’intimoperché mi hanno costretta, per amore, miseria e follia.Ma poiché è vera accusa che nasce dal fondo del cuore,non permettete voi che tutto il mio pianto sia vano,e quale ebbe la mente, o Dee, quando qui mi lasciava,così abbia la mente per sventura di sé e dei suoi».

[Tr. di E. Mandruzzato]

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Riprenderà le parole di Didone del primo e del secondo discorso ad Enea, fondendoli, il Tasso nella Gerusalemme Liberata (XVI, ottave 56-60) per porle in bocca ad Armida abbandonata da Rinaldo.

Rimanti in pace; i’ vado: a te non lice meco venir; chi mi conduce il vieta.Rimanti, o va per altra via felice,e, come saggia, i tuoi consigli acqueta. –Ella, mentre il guerrier così le dice,non trova luogo, torbida, inquïeta:già buona pezza in dispettosa frontetorva riguarda; al fi n prorompe a l’onte:– Né te Sofi a produsse, e non sei nato de l’azio sangue tu: te l’onda insanadel mar produsse e ’l Caucaso gelato,e le mamme allattâr di tigre ircana.Che dissimulo io più? l’uomo spietatopur un segno non diè di mente umana.Forse cambiò color? forse al mio duolobagnò almen gli occhi, o sparse un sospir solo?Quali cose tralascio, o quai ridico?S’offre per mio, mi fugge e m’abbandona:quasi buon vincitor, di reo nemicooblia le offese, i falli aspri perdona.Odi come consiglia! odi il pudicoSenocrate d’amor come ragiona!o Cielo, o dei, perché soffrir questi empifulminar poi le torri e i vostri tempi?Vattene pur, crudel, con quella paceche lasci a me: vattene, iniquo, omai.Me tosto ignudo spirto, ombra seguaceindivisibilmente a tergo avrai.Nova furia co’ serpi e con la facetanto t’agiterò, quanto t’amai.E se è destin ch’esca del mar, che schivigli scogli e l’onde, e che a la pugna arrivi,là tra ’l sangue e le morti egro giacentemi pagherai le pene, empio guerriero.Per nome Armida chiamerai soventene gli ultimi singulti: udir ciò spero. –Or qui mancò lo spirto a la dolente,né quest’ultimo suono espresse intero:e cadde tramortita, e si diffusedi gelato sudore, e i lumi chiuse.

Gerusalemme liberata

Gerusalemme Gerusalemme

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Rappresentata nel carnevale del 1724 con musiche di Domenico Sarro, La Didone Abbandonata riscuote subito un enorme successo. Rivolgendosi a un pubblico che non ama le tragedie, il poeta smorza i toni, attenua il dramma, indulge a un sentimentalismo sospiroso e dolciastro. Didone perde il piglio tragico virgiliano per assumere i caratteri di una damina settecentesca capricciosa e gelosa. Al clima patetico sembra conformarsi anche la trasformazione della sorella Anna, ribattezzata esoticamente Selene, innamo-rata segretamente di Enea. Molti musicisti rivestiranno di note le parole di questa Didone per tutto il seco-lo. La versione musicata da Giuseppe Sarti fu rappresentata per la prima volta nell’inverno del 1762 al Teatro Reale di Copenhagen. In seguito lo stesso Sarti produsse una seconda versione del dramma, che fu rappresentata al Teatro Obiz-zi di Padova nel giugno del 1782. Puoi leggere qui di seguito i versi della scena cruciale dell’abbandono.

E così fi n ad ora,perfi do, mi celasti il tuo disegno?

Fu pietà.

Che pietà? Mendace il labbrofedeltà mi giura, e intanto il cor pensavacome lungi da me volgere il piede!A chi, misera me, Darò più fede?Vil rifi uto dell’onde,io l’accolgo dal lido, io lo ristorodalle ingiurie del mar: le navi e l’armigià disperse io gli rendo; e gli dò loconel mio cor, nel mio regno; e questo è poco.Di cento re per lui, ricusando l’amor, gli sdegni irrìto:ecco poi la mercede.A chi, misera me!, darò più fede?

Fin ch’io viva, o Didone,dolce memoria al mio pensier sarai:nè partirei giammai,se per voler de’ numi io non dovessiconsacrare il mio affannoall’impero latino.

Veramente non hanno altra cura gli dei che il tuo destino?

La Didone abbandonata

di Pietro Metastasio

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