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“MIA SORELLA EMANUELA...”Prima parte “SCOMPARSA UNA RAGAZZA DI 15 ANNI Una ragazza scomparsa. Si chiama Emanuela Orlandi, ha 15 anni e da oltre trentasei ore non dà notizie di sè. Emanuela, alta 1.60, capelli lunghi neri, indossa un completo jeans ed una maglietta a maniche corte bianca. È stata vista l’ultima volta martedì pomeriggio, davanti al Senato, in attesa presso la fermata dell’autobus della linea 70. Chiunque l’avesse incontrata o fosse in grado di dare sue notizie può telefonare al numero...” (IL TEMPO, VENERDÌ 24 GIUGNO 1983) DAL QUOTIDIANO “IL TEMPOˮ 24 GIUGNO 1983 IL MANIFESTO AFFISSO A ROMA DOPO LA SCOMPARSA

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“MIA SORELLA EMANUELA...”Prima parte

“SCOMPARSA UNA RAGAZZA DI 15 ANNI

Una ragazza scomparsa. Si chiama Emanuela Orlandi, ha 15 anni e da oltre

trentasei ore non dà notizie di sè. Emanuela, alta 1.60, capelli lunghi neri,

indossa un completo jeans ed una maglietta a maniche corte bianca. È stata vista

l’ultima volta martedì pomeriggio, davanti al Senato, in attesa presso la fermata

dell’autobus della linea 70. Chiunque l’avesse incontrata o fosse in grado di dare

sue notizie può telefonare al numero...” (IL TEMPO, VENERDÌ 24 GIUGNO 1983)

DAL QUOTIDIANO “IL TEMPOˮ 24 GIUGNO 1983

IL MANIFESTO AFFISSO A ROMA DOPO LA SCOMPARSA

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Tutto inizia a Roma il 22 giugno 1983, quando una ragazza di soli 15 anni, Emanuela Orlandi, figlia di un

commesso della Prefettura della Casa Pontificia, scompare in circostanze misteriose mentre sta tornando a

casa dopo aver seguito una lezione di musica, in una scuola situata nelle immediate vicinanze della Basilica

di Sant’Apollinare, a due passi da piazza Navona. Il caso della Orlandi, inghiottita da un intrigo

internazionale senza precedenti, è presto diventato uno dei più torbidi gialli dello scorso secolo, uno dei

misteri più inquietanti e controversi del nostro Paese, un enigma che resta tutt’ora irrisolto.

Il quotidiano “Il Tempo” pubblica il primo articolo due giorni dopo la scomparsa della giovane ragazza, con

un semplice appello della famiglia; da allora Emanuela è al centro di una vicenda che ha visto coinvolti il

terrorismo turco dei Lupi Grigi (il movimento dell’attentatore di Giovanni Paolo ІІ, Alì Agca), il SISMI, il

Servizio d’Intelligence italiano e i Servizi segreti di diversi altri Stati, il Vaticano, il crack del Banco

Ambrosiano, lo IOR (la ‘banca’ vaticana) e persino la Banda della Magliana, in un intreccio mai districato.

La ragazza aveva frequentato il secondo anno del liceo Scientifico in un istituto parificato di Roma e,

nonostante l’anno scolastico si fosse appena concluso continuava a seguire, tre pomeriggi a settimana, le

lezioni di pianoforte presso la “Tommaso Ludovico da Victoria”, scuola collegata al Pontificio Istituto di

Musica Sacra. Faceva anche parte del coro della Chiesa di Sant’Anna, situata all’interno della Città del

Vaticano, dove Emanuela viveva dalla nascita e di cui era cittadina a tutti gli effetti.

Quel pomeriggio del 22 giugno, come riferito da una sua compagna di scuola, Emanuela era arrivata a

lezione trafelata e con qualche minuto di ritardo. Prima che la lezione finisse, durante la prova di canto,

Emanuela era uscita dall’aula e si era recata a telefonare a casa. Non trovando la madre, si era confidata

con una delle sue sorelle maggiori e aveva riferito di essere stata fermata per strada da un uomo, il quale le

aveva fatto una proposta davvero interessante: accettare di fare la presentatrice della ditta di cosmetici

Avon durante una sfilata di moda per un compenso di 375mila lire, una cifra che all’epoca rappresentava un

più che discreto stipendio mensile. All’Avon non mancavano certo presentatrici esperte e di bella presenza,

e, sicuramente, non vi era necessità di rivolgersi ad una sconosciuta ragazzina con la promessa, oltretutto,

di un compenso completamente fuori mercato. La sorella di Emanuela lo comprese al volo, tanto che

intimò alla ragazzina di non prendere nessuna iniziativa nè di accettare nulla. Emanuela promise, forse un

pò mortificata, ma specificò anche che ne avrebbe riparlato a casa quella sera stessa con i genitori, magari

facendosi accompagnare da uno di loro ad un eventuale appuntamento.

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Come riferì poi la direttrice della “Tommaso Ludovico da Victoriaˮ, quella sera Emanuela si era recata dal

professore di canto corale e aveva chiesto il permesso di lasciare la scuola dieci minuti prima del previsto,

giustificando la richiesta con un presunto improrogabile impegno.

La ragazza, perciò, uscì in anticipo. Appena fuori, incontrò la sua compagna Raffaella Monzi. Le due ragazze

scambiarono un paio di frasi ed Emanuela chiese all’amica un parere: al suo posto, Raffaella si sarebbe

recata ad un appuntamento di lavoro o avrebbe preso l’autobus per andare a casa? L’amica l’ascoltò e,

anche lei, fece notare che quella promessa di 375mila lire di compenso era eccessiva. Alla fine, però, non fu

capace di distogliere Emanuela dalle sue idee, e le due ragazze si salutarono.

Dopo la Monzi, l’ultimo che probabilmente notò la ragazzina, fu un vigile urbano in servizio davanti al

Senato: Emanuela era in compagnia di un uomo di circa 35 anni, del quale venne poi fatto un identikit. La

ragazza si era avvicinata al vigile per chiedere dove si trovasse la Sala Borromini. Il vigile, in seguito, riferì di

averla vista salire di spontanea volontà (mostrando in quegli attimi anche una tranquilla confidenza con chi

era al volante) su un’auto, una BMW scura, con il suo accompagnatore. C’è da dire che quando venne

realizzato l’identikit del misterioso personaggio che era con Emanuela, un carabiniere notò una certa

somiglianza tra l’uomo ritratto ed Enrico De Pedis, detto Renatino, membro importante della Banda della

Magliana. Nessuno, però, diede a quell’osservazione il seguito che forse avrebbe meritato e questo

soprattutto perchè, all’epoca, si riteneva che il criminale fosse latitante all’estero e, di conseguenza, le

indagini non vennero approfondite.

ENRICO DE PEDIS ALCUNI COMPONENTI DELLA BANDA DELLA MAGLIANA

Dopo le prime, infruttuose ricerche, condotte direttamente dalla famiglia, a casa della ragazza giunsero

alcune telefonate anonime da parte di due uomini, i quali si identificarono come Pierluigi e Mario; entrambi

dimostrarono di conoscere particolari sulla vita di Emanuela mai resi pubblici e cercarono di avvalorare la

tesi dell’allontanamento volontario, cosa assolutamente poco plausibile secondo l’opinione dei genitori.

Intorno alla fine di giugno due agenti del Sisde consigliarono alla famiglia Orlandi di mettere il telefono

sotto controllo. Furono questi i giorni in cui Roma venne completamente tappezzata con più di 3000

manifesti con la foto di Emanuela e la richiesta di fornire notizie alla famiglia disperata. Il 3 luglio, durante

l’Angelus, il Papa in persona rivolse un appello a “chi trattiene Emanuela Orlandi ˮ avallando implicitamente

la convinzione della famiglia, e cioè che la povera ragazza fosse stata rapita.

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La svolta arrivò il 5 luglio, quando ormai Emanuela Orlandi mancava alla famiglia da quasi due settimane:

alla Sala stampa vaticana, giunse un’altra telefonata anonima: lo sconosciuto che chiamava aveva uno

spiccato accento straniero, tipicamente anglosassone, e non faceva nulla per nasconderlo, anzi. Quasi

l’ostentava. In ogni caso, l’uomo sosteneva di avere nelle sue mani Emanuela Orlandi, e faceva inoltre

riferimento alle chiamate di Pierluigi e Mario, definendole comunicazioni da parte di incaricati della sua

organizzazione. L’Amerikano, subito soprannominato così dai media, chiese l’attivazione di una linea diretta

con il Vaticano, e spiegò di voler contrattare con lo stesso uno scambio: Emanuela Orlandi per Mehmet Alì

Agca, l’attentatore turco, appartenente alla formazione terroristica dei “Lupi Grigiˮ che un paio di anni

prima aveva attentato alla vita di Papa Wojtyla, in Piazza San Pietro, ferendolo gravemente.

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DAL QUOTIDIANO “IL TEMPOˮ 7 LUGLIO 1983 AGOSTINO CASAROLI

Trascorsero altri tre giorni, stavolta il telefonista aveva l’accento mediorientale: telefonò ad una compagna

di classe di Emanuela, e le disse che c’erano solo venti giorni di tempo per uno scambio tra Alì Agca e la

giovane cittadina vaticana scomparsa, e che se volevano continuare le trattative occorreva una linea

telefonica diretta con il cardinale Segretario di Stato che, all’epoca, era Agostino Casaroli. Il 17 luglio, a

distanza di quasi un mese dalla scomparsa di Emanuela, venne fatto ritrovare un nastro, dove venivano

reiterate le richieste riguardo lo scambio con Agca e la linea telefonica diretta con Casaroli; sullo sfondo

della registrazione, si sentiva la voce sconosciuta di una ragazza che si lamentava e diceva di sentirsi male.

La guerra psicologica nei confronti della famiglia Orlandi era talmente spietata che alla fine il Vaticano

acconsentì e la linea venne installata. Questo gesto, però, fu ben lontano dal risolvere la faccenda, infatti le

telefonate dell’Amerikano si fermarono a quota sedici, senza che nulla fosse cambiato nello stato dei fatti.

Intanto, si susseguivano anche i comunicati dei Lupi Grigi, i quali dichiararono di avere in loro possesso

Emanuela Orlandi, e non solo. Nelle loro mani, fecero intendere, c’era anche Mirella Gregori, un’altra

ragazzina scomparsa a Roma qualche settimana prima della Orlandi, il 7 maggio del 1983. Il Papa (il quale

lanciò, dal Palazzo Apostolico, otto appelli per la liberazione di Emanuela), all’Angelus del 28 agosto, fece

un appello affinchè “coloro che dicono di trattenere quegli esseri innocenti e indifesi ” li lasciassero andare,

avvalorando così l’ipotesi che anche la Chiesa considerava i due casi collegati tra loro.

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DAL QUOTIDIANO “IL TEMPOˮ 7 LUGLIO 1983

In una delle sue telefonate l’Amerikano sostenne invece che la sua organizzazione non aveva in realtà

niente a che fare con la sparizione di Mirella, anche se l’uomo sembrava ben informato sul destino della

ragazza, tanto che in una telefonata successiva arrivò a promettere anche la restituzione del corpo della

ragazza cosa che, in realtà, non avvenne mai. Dell’Amerikano venne fatto una sorta di identikit, a cura

dell’allora direttore del SISDE Vincenzo Parisi, che, comunque, non venne mai reso pubblico; alcune fonti

ritennero che l’uomo di cui parlava Parisi fosse il cardinale Paul Marcinkus, allora presidente dello IOR,

l’Istituto per le Opere di Religione: un uomo molto potente, soprannominato il ‘banchiere di Dio’. Un

esperto disse, in seguito, che l’Amerikano non era affatto di ceppo anglosassone ma, più probabilmente,

mediorientale o sudamericano.

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PAUL MARCINKUS MIRELLA GREGORI

L’Amerikano e la pista a lui legata non portarono da nessuna parte, così, nell’immediatezza dei fatti,

vennero prese in esame dagli inquirenti innumerevoli altre opzioni: si pensò alla possibilità che Emanuela

fosse diventata la vittima incolpevole di qualche resa dei conti all’interno delle alte sfere vaticane. Non

bisogna dimenticare che solo un anno prima, a Londra, sotto il Blackfriars Bridge (il Ponte dei frati neri), era

stato trovato impiccato il banchiere Roberto Calvi; di lì a qualche anno, lo scandalo legato a quest’uomo e

alla sua banca, l’Ambrosiano, travolgerà lo IOR (l’istituto di credito della Città del Vaticano), amministrato

da quel monsignor Paul Marcinkus che da quel momento in poi verrà chiamato in causa in tutti gli scandali

finanziari, e non solo, dell’epoca.

DAL QUOTIDIANO “IL CORRIERE DELLA SERAˮ 24 LUGLIO 1983

WOJTYLA − MARCINKUS

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Si pensò anche alla possibilità di un rapimento per errore di persona, possibilità che assunse una certa

consistenza quando si venne a sapere che delle informative dei Servizi segreti francesi, datate 1981,

avevano indicato come possibile il rapimento di una giovane cittadina vaticana e poi, anche, l’attuazione di

un attentato al Papa, tanto che, dopo quelle comunicazioni, parecchi esponenti vaticani iniziarono a

spostarsi protetti da una scorta. All’epoca, il bersaglio del possibile rapimento era stato individuato nella

figlia dell’aiutante del Papa, Angelo Gugel, e la ragazza era stata messa sotto attenta protezione, durata

fino a poco tempo prima che avvenisse il sequestro di Emanuela. L’idea che fosse questa la giusta opzione,

durò qualche tempo, per poi venire accantonata a favore dell’intrigo internazionale avente come obiettivo

il ricatto al Pontefice e al Vaticano.

Due furono i motivi che indicarono questa pista come più concreta di altre: prima di tutto il giudice

Imposimato, che seguiva il caso, ottenne delle informazioni da parte di alcuni agenti della STASI (la

famigerata ma efficientissima polizia politica dell’allora Germania dell’Est). Gli agenti, coinvolgendo la STASI

stessa, oltre che il KGB e i Servizi segreti bulgari, raccontarono quella che secondo loro era la verità sul caso

Orlandi: c’era, dietro la sparizione della ragazzina, una sorta di punizione che si voleva infliggere a Wojtyla,

reo di aver voluto a tutti i costi effettuare un viaggio in Polonia quando era stato chiaramente ammonito di

evitarlo.

Bisogna tenere conto che quelli erano anni importanti per l’Europa, che si avviava verso la caduta del muro

di Berlino, e, in tutto questo, la posizione del Vaticano era determinante. Era in corso, infatti, una sorta di

guerra di potere tra la fazione che voleva dialogare con il comunismo e quella che voleva invece dare la

spallata decisiva al muro di Berlino (fazione capeggiata dal Papa e sobillata dagli USA). Non fu dunque un

caso che quel viaggio si concluse lo stesso giorno della scomparsa di Emanuela.

I giorni d’attesa per la famiglia divennero mesi, e poi anni. Periodicamente, però, qualcuno tornava a

parlare di Emanuela, e questo è stato un bene, perchè ha permesso a questo intricato caso di non

raggiungere il dimenticatoio. In particolare, c’è una trasmissione televisiva, “Chi l’ha visto?”, che non ha mai

spento la luce sul caso della Orlandi, continuando a proporre servizi che, di volta in volta, aggiungevano

briciole di verità. Nel 2005, ad esempio, ripresentando tutto il caso, la trasmissione riferì una dichiarazione

che avrebbe fatto il figlio di Calvi, il quale, tempo prima, aveva pubblicamente sostenuto che la sparizione

di Emanuela era da ricondursi anche alla morte di suo padre. Secondo il figlio di Calvi, infatti, il rapimento

era stato un tentativo di fare pressioni sul Vaticano affinchè nessuno facesse rivelazioni su vicende che

avrebbero visto coinvolto il Vaticano con il Banco Ambrosiano. Si tornò quindi a parlare di scandali interni al

Vaticano, di minacce e ricatti che avrebbero coinvolto eminenti figure delle gerarchie ecclesiastiche

dell’epoca.

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Nel 2005, proprio durante una puntata di “Chi l’ha visto?”, un anonimo (la cui voce secondo una perizia del

2009 sarebbe da attribuirsi a Carlo Alberto De Tomasi, figlio di ‘Sergione’, storico esponente della Magliana)

telefonò in trasmissione per invitare i giornalisti in ascolto che avessero voluto trovare la soluzione del caso

Orlandi, ad indagare su chi fosse sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare. Disse, ancora, di

verificare quale fosse stato il favore fatto da Renatino al Cardinal Poletti. In seguito alla telefonata gli

italiani vennero a conoscenza dell’incredibile realtà del capo della più sanguinosa banda di delinquenti

romana sepolto in una delle più belle ed importanti chiese della Capitale per diretta intercessione

dell’arcivescovo vicario di Roma dell’epoca, il Cardinale Ugo Poletti, allora anche presidente della CEI, la

Conferenza Episcopale Italiana. In verità, a scoprire che un pericoloso bandito era sepolto in mezzo ad

illustri e stimati personaggi era stata, nel 1996, la DIA, la Direzione Investigativa Antimafia, che indagava

sulla Banda della Magliana. Onore, quello della sepoltura in Chiesa, che viene concesso solo a grandissime

personalità, o a generosi benefattori, e nemmeno sempre.

UGO POLETTI

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Com’è noto, il Cardinale Poletti firmò una dichiarazione impegnativa: “Si attesta che il signor De Pedis è

stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la Basilica e ha aiutato concretamente tante

iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha

dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi in particolare per la loro formazione cristiana

e umanaˮ.

Da buon sacerdote avveduto e scrupoloso, don Pietro Vergari, l’allora rettore della Basilica, si affrettò a

dare ancora maggior risalto a queste parole con una ulteriore scrittura che metteva in evidenza, oltre al

decoro, anche la convenienza dell’operazione: “Il lavoro di sepoltura sarà fatto da artigiani e operai

specializzati in questo settore e che già hanno lavorato per la tumulazione degli ultimi Sommi Pontefici in

Vaticano. Sarà questa anche l'occasione per risanare uno degli ambienti dei sotterranei, già luogo di

sepoltura dei parrocchiani, da moltissimi anni lasciati in completo abbandonoˮ. E poi ancora: “Il defunto è

stato generoso nell'aiutare i poveri che frequentano la Basilica, i sacerdoti e i seminaristi, e in suo suffragio

la famiglia continuerà a esercitare opere di bene, soprattutto contribuendo alla realizzazione di opere

diocesaneˮ.Tant’è vero che la tumulazione venne accompagnata da ampi lavori di ristrutturazione pagati

dalla famiglia di De Pedis...

E su questo sbalorditivo certificato di benemerenza rese la parola definitiva, con la sua usuale, sottile ironia,

Giulio Andreotti: “Ecco, magari non era proprio un benefattore per tutti –concluse il senatore− ma per

Sant’Apollinare sì ˮ.

A seguito di questa prima inquietante scoperta, che ancora però non si capiva bene cosa c’entrasse con la

scomparsa della Orlandi, il 20 febbraio del 2006, qualche mese dopo la telefonata anonima, sempre alla

trasmissione “Chi l’ha visto?ˮ, giunse anche la chiamata di un collaboratore di giustizia, Antonio Mancini,

meglio noto come ‘Nino l’Accattone’. Egli sostenne di aver riconosciuto nella voce di Mario, il telefonista

che più volte aveva chiamato a casa Orlandi subito dopo la scomparsa di Emanuela, “...uno dei killer più

terribili della Magliana...ˮ, un certo ‘Rufetto’. Le indagini condotte dalla Procura della Repubblica, però, non

hanno confermato quanto dichiarato da Mancini; una successiva perizia fonetica ha infatti accertato che il

misterioso Mario sarebbe proprio Giuseppe De Tomasi, detto ‘Sergione’.

A questo punto, nel marzo del 2008, a distanza di venticinque anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi,

apparve sul palcoscenico di questo mistero una donna dalla vita tumultuosa e dai trascorsi non sempre

limpidi: Sabrina Minardi, ex compagna di Enrico De Pedis, uno dei boss dei Testaccini, ossia la frangia più

pericolosa e potente della Banda della Magliana, la spietata organizzazione criminale che tra gli anni

Settanta e Ottanta terrorizzò Roma.

La Minardi aveva assistito alla trasmissione e qualcosa, nella telefonata di Mancini, le aveva fatto tornare

alla mente brandelli di fatti lontani che aveva completamente rimosso. Contattò i giornalisti di “Chi l’ha

visto?”, ottenne di essere intervistata per riferire cosa ricordasse di quella vecchia storia e

contemporaneamente parlò anche con la Procura. Sostenne di conoscere la sorte di Emanuela Orlandi e

tutta la storia del suo rapimento...La supertestimone raccontò che in effetti fu De Pedis a dare l’ordine di

rapire Emanuela, e questo per fare un favore a monsignor Paul Marcinkus; la ragazzina trascorse a

Torvajanica, in una villetta di proprietà dei genitori della stessa Sabrina, i primi quindici giorni del sequestro,

e fu poi trattenuta per un certo periodo, circa sei o sette mesi in un rifugio sicuro, nell’enorme sotterraneo

di un palazzo in via Antonio Pignatelli, a Monteverde nuovo, fino a quando non si decise di sopprimerla; De

Pedis caricò su una BMW in uso a Sabrina, ma già di proprietà del faccendiere Flavio Carboni, due grossi

sacchi che vennero poi gettati in una betoniera lungo il litorale di Torvajanica. In questo modo De Pedis si

sarebbe sbarazzato contemporaneamente del corpo della Orlandi e di quello di un bimbo di 11, Domenico

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Nicitra, figlio di un altro affiliato storico alla Banda, che era stato ucciso per vendetta. In realtà, però,

Domenico Nicitra morì nel 1993, quando De Pedis era morto ormai da tre anni.

La Minardi giustificò alcune incongruenze del suo racconto con i tanti anni di uso di droghe, continuando a

ribadire che la sostanza dei fatti era vera. La Procura aveva confidato molto nelle dichiarazioni confessorie

di Sabrina Minardi, ma le sue sconvolgenti parole, nel tempo, si sono rivelate contraddittorie, tanto che la

donna è stata iscritta nel registro degli indagati.

Sabrina, nelle sue inquietanti dichiarazioni, arrivò al punto di affermare di essere stata sulla stessa

automobile di Emanuela prima che la ragazza fosse spostata su di una Mercedes con i vetri oscurati e

targata Città del Vaticano. Inoltre, in una seconda deposizione rilasciata l’anno successivo, la superteste

fece alcune importanti rivelazioni a sfondo sessuale riguardanti Marcinkus. Disse: “Marcinkus venne a

trovare la Orlandi nella casa di Torvajanica. Io sentii le urla di Emanuela ma De Pedis mi disse di farmi gli

affari miei...ˮ. Già nella sua prima ricostruzione la donna aveva raccontato di aver più volte portato in un

appartamento di via Porta Angelica alcune ragazze,le quali venivano messe a disposizione del prelato;

aveva poi ricordato di avere accompagnato anche la stessa Emanuela ad un appuntamento in Vaticano, e

che proprio in quell’occasione, vedendo questa ragazza un po’su di giri, le aveva domandato il nome e lei

semplicemente aveva risposto: “Emanuelaˮ.

Qualche anno dopo, il 24 luglio 2011, il quotidiano “La Stampa” ha pubblicato un’intervista ad Antonio

Mancini: l’ex della Magliana ammette per la prima volta che Emanuela Orlandi fu rapita dalla sua banda per

ottenere la restituzione di una forte somma di denaro, investita dai malviventi nello IOR attraverso il Banco

Ambrosiano di Roberto Calvi, come era già stato ipotizzato dal giudice Rosario Priore. Quest’ultimo aveva

indicato la cifra di venti miliardi di lire, una somma sottostimata secondo Mancini, il quale ben conosceva

l’enorme quantità di denaro che entrava all’interno della Banda, in particolar modo nel gruppo dei

Testaccini.

ANTONIO MANCINI

Alla fine, nonostante il fatto che il denaro fosse stato restituito solamente in parte, sembra che fu proprio

De Pedis a fermare i ripetuti attacchi degli altri esponenti della Banda contro il Vaticano. Questo, se da una

parte gli fruttò la sepoltura all’interno della Basilica di Sant’Apollinare come da lui richiesto, dall’altra

suscitò la collera dei suoi stessi complici, collera che sarà poi la molla dell’agguato, avvenuto il 2 febbraio

1990 a Campo dei Fiori, in cui verrà ucciso.

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IL CADAVERE DI DE PEDIS IN VIA DEL PELLEGRINO A ROMA

Diversi sono stati i commenti alle dichiarazioni di Antonio Mancini: sulla cronaca romana del “Corriere della

Sera”, il fratello della giovane scomparsa, Pietro Orlandi, ha confermato: “Che ci fossero contatti tra

esponenti della Banda e alti prelati l’ho verificato di persona”. Proprio Mancini aveva parlato ad Orlandi

della conoscenza tra De Pedis e monsignor Donato De Bonis, altissimo prelato dello IOR. Il fratello della

ragazza ha inoltre riportato: “Più di una volta io stesso sentii De Bonis conversare al telefono, in modo

cordiale e confidenziale, con una persona che si chiamava Renatino”. Secondo Pietro Orlandi, De Bonis si

stava rivolgendo al boss De Pedis.

(CONTINUA...)