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1 ELEZIONI COMUNALI 2016 Il focus di FBLab Giugno 2016

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ELEZIONI

COMUNALI 2016

Il focus di FBLab

Giugno 2016

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Introduzione

Le elezioni amministrative del giugno del 2016 sono state particolarmente importanti:

hanno coinvolto 1.342 comuni, per un totale di 15 milioni e mezzo di elettori. Sono

tornate al voto tutte le principali città della penisola: Roma, Milano, Napoli, Torino,

Bologna. Le ripercussioni politiche non potevano che essere molto significative.

Le elezioni comunali sono tradizionalmente legate alle capacità personali ed al

radicamento dei candidati sindaco. Anche in questa occasione gli esiti della

competizione sono stati molto variegati sul territorio.

Tuttavia alcune tendenze nazionali emergono con chiarezza. La prima è l’innegabile

sconfitta del centrosinistra e del PD di Matteo Renzi. I “progressisti” rimangono il

principale schieramento del paese, ma il numero delle loro sconfitte aumenta e

l’arretramento percentuale è diffuso ovunque.

Il secondo dato nazionale che emerge è che in tutti i casi in cui il Movimento 5

Stelle è riuscito ad andare al ballottaggio, ha prevalso. Non si tratta di un dato

da poco se si pensa che tra pochi giorni (il 1 luglio) entrerà in vigore una nuova legge

elettorale per la Camera dei Deputati, l’Italicum, basata proprio sul ballottaggio a due

tra liste singole (e non tra coalizioni).

Dopo questa sconfitta, la palla passa ora al Presidente del Consiglio, che dovrà

decidere come reagire quando mancano pochi mesi a un’occasione elettorale ancora più

importante: il referendum confermativo sulla Riforma della Costituzione.

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L’analisi del voto nelle città

L’attenzione dei mezzi di comunicazione si è concentrata sulle principali città al voto,

che del resto rappresentavano la gran parte degli elettori. Parliamo di Torino, Milano,

Bologna, Roma e Napoli. Il primo dato indicativo è che in tutti questi casi per decidere

il Sindaco si è dovuti andare al ballottaggio. Questo è un primo segnale di una

competizione piuttosto frammentata, e comunque non bipolare. Come si diceva,

tuttavia, ciascuna di queste elezioni racconta una storia diversa dalle altre.

Torino rappresenta senza dubbio il caso più interessante di questa tornata elettorale.

Il Sindaco uscente Piero Fassino, infatti, ha goduto sino a pochi mesi prima del voto di

alti tassi di gradimento presso la cittadinanza. Nonostante questo, il centrosinistra ha

vissuto un netto arretramento rispetto a cinque anni fa, ed una clamorosa sconfitta al

ballottaggio contro la candidata del Movimento 5 Stelle Chiara Appendino.

A Milano la sfida è stata sin dall’inizio tra i candidati Beppe Sala e Stefano Parisi. È

stata una competizione affascinante, anche dal punto di vista comunicativo, tra due

manager considerati entrambi validi dalla cittadinanza e sostenuti il primo, da un

centrosinistra renziano ma non chiuso a sinistra, ed il secondo da un centrodestra coeso,

riunitosi attorno ad un profilo civico e moderato. Alla fine la vittoria è andata, di

pochissimo, a Sala, e questa per Renzi è l’unica vera buona notizia di questa tornata

elettorale, visto quanto il Premier aveva investito sull’ex Commissario dell’EXPO.

A Bologna il sistema di potere del PD è riuscito a tenere, nonostante una certa

insoddisfazione della città nei confronti del Sindaco uscente Virginio Merola. Il 39%

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ottenuto al primo turno rappresenta un record negativo per la sinistra bolognese, ma al

ballottaggio era oggettivamente difficile perdere contro una candidata leghista, troppo

radicale per poter essere effettivamente competitiva.

A Roma la competizione è stata fortemente influenzata dalle inchieste giudiziarie, che

hanno minato definitivamente la già scarsa fiducia dei cittadini nei confronti delle forze

politiche tradizionali, al potere da decenni. La vittoria del Movimento 5 Stelle era in

qualche modo pronosticata, ed è stata resa inevitabile dalle divisioni del centrodestra e

dall’estrema debolezza di un PD traumatizzato da anni di scandali. Ora il nuovo Sindaco

Virginia Raggi si trova di fronte ad una doppia sfida davvero difficile: amministrare la

Capitale del Paese e provare a trasformare il Movimento da partito di opposizione a

partito di Governo.

A Napoli a farla da padrone sono state invece le debolezze di tutti e tre gli schieramenti

nazionali. Il centrodestra, incapace di proporre qualcosa di nuovo, si è accodato al traino

del sempreverde Lettieri, lo stesso candidato di cinque anni fa. Il centrosinistra ha

commesso esattamente gli stessi errori del 2011, dividendosi alle primarie tra polemiche

ed accuse reciproche. Il M5S non è stato in grado di competere con un candidato

all’altezza. Di fronte alla pochezza delle alternative, i napoletani hanno preferito

confermare la fiducia al Sindaco uscente De Magistris.

Per avere un quadro più dettagliato di quanto avvenuto nel paese, è utile allargare lo

sguardo ai risultati elettorali nei comuni superiori ai 15.000 abitanti, per i quali

valgono le regole del ballottaggio.

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All’interno di tale campione di comuni, il centrosinistra ne amministrava un’ampia

maggioranza, ovvero 84 su 132*. Alla luce dei risultati di pochi giorni fa, il

centrosinistra dimezza i comuni amministrati, passando da 84 a 42. Resta il

principale schieramento del paese, ma arretra in modo davvero vistoso: vince in

alcuni rari casi al primo turno, ottiene quasi sempre il ballottaggio, ma in quasi la metà

delle occasioni come secondo, e aumentano soprattutto i casi in cui il ballottaggio

termina con una sconfitta. Insomma, la predominanza del PD e dei suoi alleati alle

elezioni comunali è messa in forte dubbio.

Il centrodestra passa da 29 a 33 comuni amministrati, dimostrando di rimanere il

secondo schieramento del paese, nonostante la sensazione sui media sia quella di

una sua progressiva marginalizzazione. Invece, liste di destra prive di FI, ovvero le

coalizioni nate attorno alla nuova Lega lepenista, si dimostrano solo raramente

competitive, riuscendo a giungere al ballottaggio in soli 14 casi e vincendo solo in 9

comuni su 132. Non proprio un successo per chi come Salvini afferma di volersi

candidare a vincere un ballottaggio nazionale. Spostarsi a destra ha dei costi,

soprattutto al nord: la sconfitta di Varese è, se vogliamo, simbolica per il Carroccio.

Il M5S ha invece aumentato in modo visibile la propria presenza, raggiungendo il

ballottaggio in ben 19 casi e vincendo in 18 di essi. Si tratta di una performance

nettamente migliore di quella degli scorsi anni, se si pensa che le elezioni comunali vinte

nel totale dei quattro anni di elezioni dal 2012 al 2015 sono in tutto 17. Giungere al

ballottaggio non è scontato. Anzi, quando questo avviene è generalmente più per le

difficoltà altrui che per meriti propri: a livello percentuale il Movimento resta il terzo

polo del paese. Il dato decisivo di queste elezioni, comunque, è il tasso di successo

registrato dal M5S in quei ballottaggi che faticosamente ha raggiunto: tale tasso di

successo è vicinissimo al 100%, un dato assolutamente impressionante.

Sono stati, invece, quasi completamente esclusi da ballottaggi e vittorie i vari candidati

di centro e di sinistra radicale, pur spesso presenti: queste forze minori si

dimostrano largamente marginalizzate dal nuovo tripolarismo in via di consolidamento

nel Paese. Merita un accenno, infine, il sensibile incremento delle vittorie delle liste

civiche, che si stagliano ormai come un mutevole e variegato “polo locale”. Si segnala,

peraltro, che l’unico caso in cui il M5S ha perso un ballottaggio, lo ha perso proprio con

una civica.

*I comuni superiori a 15.000 abitanti al voto sono in effetti 143, ma un confronto può essere fatto solo tra

i comuni che, tra essi, già erano superiori ai 15.000 abitanti in occasione delle scorse elezioni. Il campione

si riduce quindi a 132.

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I flussi, il caso di Torino: un caso “nazionale”

Il caso di Torino rappresenta senza dubbio quello più interessante da studiare: il

Sindaco uscente del centrosinistra Piero Fassino, è arrivato primo al primo turno con

il 42% dei consensi, perdendo ben 15 punti percentuali rispetto a cinque anni fa. Al

ballottaggio, nel quale affrontava la candidata del Movimento 5 Stelle, Chiara

Appendino, giunta seconda con il 30% dei consensi, è stato sconfitto con addirittura

dieci punti di distacco. I candidati del centrodestra, presentatisi in tre (FI da sola,

un blocco di centro, il blocco di destra composto da Lega e FDI), sono giunti tutti sotto

il 10% al primo turno, rinunciando sostanzialmente a competere per la vittoria.

Il calo di Fassino rispetto al 2011 era stato effettivamente previsto dai sondaggi, ma la

sensazione è che esso non sia tanto connesso alla performance amministrativa

del Sindaco uscente (che anzi ha sempre goduto di altissimi tassi di gradimento)

quanto a dinamiche derivanti dal livello nazionale. Appare quindi molto interessante

dare un’occhiata ai flussi elettorali in questa città rispetto a cinque anni fa, per

capire dove si sono dirette le ingenti perdite che ha subito il candidato del PD. Per i dati

ci affidiamo al CISE, il Centro di studi elettorali diretto dal Professor D’Alimonte.

Il primo dato che emerge dall’esame dei flussi tra il primo turno 2011 ed il primo turno

2016 è che solo il 42% di chi aveva votato Fassino nel 2011 ha votato Fassino anche

nel 2016. Un dato basso, che colpisce molto. La gran parte dei voti persi dal candidato

del PD si sono diretti verso l’astensione e verso il M5S. Quest’ultimo flusso è in

particolare davvero notevole: dai dati del CISE pare che circa un terzo dei voti di

Fassino del 2011 si sia spostato verso il M5S nel 2016 (circa 44.000 voti). Un

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travaso che, sommato a quello verso l’astensione (circa 20.000 voti), ha prodotto la

quasi totalità del calo del Sindaco uscente. A compensare gran parte dei 65.000 voti

persi in questo modo, vi sarebbero i circa 50.000 voti che Fassino a ottenuto da chi

nel 2011 aveva votato i candidati Coppola (di centrodestra) e Musy (dell’allora terzo

polo).

Insomma, quello a cui si sarebbe assistito a Torino sarebbe un vero e proprio

spostamento verso il centro da parte del PD e dei suoi alleati. Uno spostamento

veramente notevole se si pensa che solo il 40% dell’elettorato di Fassino di oggi

coinciderebbe con quello che lo aveva votato cinque anni fa. Significativo è notare come

questo spostamento verso il centro del PD non abbia avvantaggiato la sinistra

radicale. A Giorgio Airaudo sarebbe andato davvero pochissimo del consenso perso da

Fassino (solo il 4% del suo elettorato 2011, corrispondente a poco più di 5.000 voti).

In sostanza, la sfida al primo turno tra Fassino e Appendino è per buona parte la sfida

tra Fassino ed un rilevante spezzone del suo elettorato di 5 anni fa: secondo i

dati in questione, il 70% dell’elettorato del primo turno della Appendino aveva votato

l’ultimo segretario nazionale dei DS nel 2011.

Per quanto riguarda il ballottaggio, i flussi dimostrano inequivocabilmente come sia

vero quanto evidenziato da Fassino dopo l’ammissione della sconfitta. Il Sindaco

uscente non è riuscito a conquistare voti aggiuntivi rispetto a quelli ottenuti al primo

turno, mentre sulla Appendino sono confluiti tutti i consensi di chi al primo turno

aveva votato candidati diversi da Fassino. Evidentemente, pur avendo sfondato al

centro rispetto a cinque anni fa, il PD torinese è arrivato ai limiti della propria possibilità

di espansione verso tale direttrice, e non è escluso che un qualche peso lo abbia avuto

anche la scelta di non fare apparentamenti con le liste di centro tra il primo ed il secondo

turno.

Il caso torinese è interessante perché è senza dubbio il più indicativo di ciò che

potrebbe avvenire a livello nazionale se il ballottaggio alle elezioni politiche dovesse

essere tra PD e M5S. Un ruolo decisivo sotto questo profilo lo avrà l’assetto con cui si

presenterà il centrodestra: la Appendino - e qui torniamo alla componente locale del

voto - è arrivata seconda senza patemi anche perché il centrodestra torinese non ha

nemmeno provato a competere per arrivare al ballottaggio.

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Conclusioni. Il nuovo sistema politico che emerge dal voto

Come ammesso anche dal Segretario del PD Matteo Renzi, per il centrosinistra

queste elezioni rappresentano una sconfitta evidente. Il numero di comuni persi è

significativo, e l’arretramento percentuale è, in alcuni casi, notevole. La domanda

principale, quindi, è se tale sconfitta sia dovuta a ragioni locali o nazionali.

Probabilmente, la risposta sta nel mezzo. Certamente le performance negative

registrate in alcuni contesti, come Roma e Napoli, sono figlie di difficoltà locali. Ma il

discorso è ben diverso per quanto riguarda l’arretramento generale, e soprattutto per

la sconfitta di Torino. Vi è una voglia di cambiamento che ha penalizzato

fortemente i candidati del Pd. Uno scollamento tra il partito ed un pezzo del suo

elettorato, essenzialmente di sinistra, che non è stato del tutto compensato da un pur

evidente spostamento al centro. Inoltre, vi è un problema stutturale: quando ai

ballottaggi il PD incontra il M5S, la sconfitta è certa perché tutti coloro che si

oppongono al PD convergono sui grillini.

Nelle prossime settimane la sinistra interna al PD chiederà una riflessione

sull’organizzazione interna del partito e metterà sotto accusa le tendenze centriste di

Renzi, il personalismo del premier, il rapporto con Denis Verdini. Renzi dovrà quindi

riflettere sul da farsi: se il PD vuole reagire dovrà cercare di far convivere due opposte

esigenze. In primo luogo, quella di riallacciare i ponti con gli elettori di sinistra; in

secondo luogo, quella di non perdere quell’elettorato centrista e moderato

faticosamente conquistato negli ultimi due anni. Tenere insieme elettorati così

eterogenei è difficile per il PD, molto più che per un partito di opposizione come il M5S.

E forse è proprio per questo che sia la sinistra interna del PD che gli alleati centristi

chiedono a Renzi di cambiare l’Italicum, reintroducendo le coalizioni. In questo modo,

ciascuno potrebbe più liberamente puntare recuperare i propri elettori dall’astensione.

La stessa richiesta di modificare l’Italicum proviene dalle molteplici anime del

centrodestra. Da una parte, il progetto lepenista di Salvini e Meloni, forte di un

indubbio slancio nazionale ma strutturalmente incapace di competere ai ballottaggi con

il PD renziano e con il Movimento 5 Stelle. Dall’altra, il mondo centrista di tutti coloro

che cercano di sopravvivere alla fine del berlusconismo: una pletora di sigle che, se

raggruppate a sostegno di un unico progetto civico, possono ancora arrivare alla doppia

cifra. In mezzo, una Forza Italia in comprensibile crisi di identità: baricentro quasi

estinto di una coalizione ormai solo teorica, e per la prima volta priva di leadership.

Queste elezioni sono state per il centrodestra una vera e propria prova generale, con

l’esito della quale Berlusconi, proprio nel momento in cui è costretto a lasciare la

politica attiva, indica una via e ne sconsiglia caldamente un’altra. Da una parte, con il

modello Parisi a Milano, prospetta una possibile via d’uscita, e dall’altra dimostra,

costringendo la Meloni al terzo posto a Roma, come il modello Salvini sia destinato

a perdere. Vedremo se a destra si sceglierà di seguire il suo consiglio.

Infine, il Movimento 5 Stelle, il vincitore della competizione. In realtà, va detto che il

Movimento è e resta nettamente secondo, quando non addirittura terzo se il

centrodestra si presenta unito. Arriva al ballottaggio solo quando gli altri hanno difficoltà

locali (anche i casi di Roma e Torino si spiegano in parte così), ma in tutti i casi in cui

riesce ad andare al ballottaggio, nessuno escluso, vince, perché tra i tre poli è

l’unico che riesce a prendere le “seconde preferenze” degli elettori altrui. Questo è

decisivo in un sistema elettorale che prevede il ballottaggio.

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Le vittorie di Roma e Torino sono importantissime per il M5S, e rappresentano una

sorta di spartiacque politico: costituiscono il secondo passo lungo il nuovo percorso

imboccato con la prematura scomparsa di Casaleggio. Il Movimento è oggi un soggetto

politico diverso da quello di qualche mese fa: è un soggetto costretto dalle proprie

performance a diventare partito di Governo e non più di protesta, costretto a

lasciarsi alle spalle le proprie punte estremiste, e a porsi il problema di come prendere

le proprie decisioni interne su programmi e leadership. Vedremo se Luigi Di Maio

riuscirà a farsi interprete di questo cambiamento. Se riuscirà, sarà certamente lui

il principale avversario politico di Matteo Renzi alle prossime elezioni politiche.

Questo è il nuovo sistema politico che emerge dalle urne. Un sistema tripolare, molto

differenziato geograficamente, nel quale chi vince lo fa più per difficoltà altrui che per

meriti propri. Un sistema complesso, che a livello nazionale darebbe un esito chiaro e

preciso solo grazie all’Italicum, una legge che ha come obiettivo principale quello di

individuare un vincitore chiaro in un contesto nel quale di vincitori non ce ne sono. Sono

in molti a chiedere che questa legge venga cambiata. In sostanza tutti tranne il

Movimento 5 Stelle. Cederà Renzi alle pressioni di coloro che chiedono di reintrodurre

le coalizioni, magari chiedendo in cambio una sorta di pacificazione nazionale in vista

del referendum costituzionale? Oppure preferirà arrivare al redde rationem finale,

giocandosi tutto in ottobre? Il modello “Renzi contro tutti” ha dimostrato di dare esiti

negativi per Renzi a livello locale: sarà lo stesso anche a livello nazionale, o

l’elettorato risponderà diversamente quando a scendere in campo sarà il premier?

Risposte difficili da dare adesso: certamente, rispetto a qualche giorno fa, Renzi ha seri

elementi in più per riflettere sul da farsi, e non si tratta di elementi per lui rassicuranti.

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