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INDIA, ELEFANTI E COLORI. ETIMOLOGIE E SIMBOLI PER UNIPOTESI DI RICOSTRUZIONE CULTURALE SANDRA GRACCI 1.0 Introduzione Il colore è un tratto distintivo importante nella classificazione e nella denominazione dell’elefante in tamil e sanscrito: un gruppo abbastanza cospicuo di nomi che designano l’elefante ruota attorno a questo sema lessicogeno. Gli elefanti sono generalmente associati al colore scuro 1 ; ci sono poi gli elefanti bianchi, albini maculati di bianco o di rosa, il cui esempio più noto è Airāvata, cavalcatura di Indra. Tre sono i colori ricorrenti nelle denominazioni dell’elefante: Nero: il nero è, fra i colori, quello maggiormente utilizzato nei processi onomastici, è infatti il colore tipico della pelle dell’elefante. Fra le sue qualità generali, individuate dal Mga- Paki-Śstram, il più antico trattato nel mondo sugli animali di 1 Le distinzioni dei colori in tamil non sono precise né ben definite. Sotto la denominazione di ‘nero’, ad esempio, rientra un’ampia gamma di sfumature del colore scuro in generale, dal vero e proprio nero, al blu scuro, al marrone scuro. E lo stesso vale per gli altri colori in tamil come in sanscrito, dove l’opposizione fondamentale che li distingueva era “lightness / darkness” (Sivapriyananda 1988: 33). Non è mai chiaro, dunque, se parole come ka, nīla, asita, śyāma, kāla si riferiscano al nero, al blu scuro, al grigio o al verde scuro; e se parole come pāu, pāura, gaura significhino bianco, giallo pallido o rosa.

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Page 1: Elefanti e colori - unipi.it Gracci.pdfPak i-Ś stram, il più antico trattato nel mondo sugli animali di 1 Le distinzioni dei colori in tamil non sono precise né ben definite. Sotto

INDIA, ELEFANTI E COLORI.

ETIMOLOGIE E SIMBOLI PER UN’IPOTESI DI RICOSTRUZIONE

CULTURALE

SANDRA GRACCI

1.0 Introduzione

Il colore è un tratto distintivo importante nella classificazione e

nella denominazione dell’elefante in tamil e sanscrito: un gruppo

abbastanza cospicuo di nomi che designano l’elefante ruota attorno a

questo sema lessicogeno. Gli elefanti sono generalmente associati al

colore scuro1; ci sono poi gli elefanti bianchi, albini maculati di bianco

o di rosa, il cui esempio più noto è Airāvata, cavalcatura di Indra.

Tre sono i colori ricorrenti nelle denominazioni dell’elefante:

� Nero: il nero è, fra i colori, quello maggiormente utilizzato nei

processi onomastici, è infatti il colore tipico della pelle

dell’elefante. Fra le sue qualità generali, individuate dal M�ga-

Pak�i-Ś�stram, il più antico trattato nel mondo sugli animali di

1 Le distinzioni dei colori in tamil non sono precise né ben definite. Sotto ladenominazione di ‘nero’, ad esempio, rientra un’ampia gamma di sfumature delcolore scuro in generale, dal vero e proprio nero, al blu scuro, al marrone scuro. E lostesso vale per gli altri colori in tamil come in sanscrito, dove l’opposizionefondamentale che li distingueva era “lightness / darkness” (Sivapriyananda 1988:33). Non è mai chiaro, dunque, se parole come k���a, nīla, asita, śyāma, kāla siriferiscano al nero, al blu scuro, al grigio o al verde scuro; e se parole come pā��u,pā��ura, gaura significhino bianco, giallo pallido o rosa.

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terra e di cielo2, c’è proprio quella di avere corpo nero (Thaker

1994: 120).

� Rosso: il rosso fa riferimento alla colorazione della pelle

dell’elefante, che, in particolar modo sul muso, si tinge di

chiazze marroncine, o anche alla particolare usanza di

dipingere gli elefanti per portarli nelle feste e nelle processioni.

Ed ancora il rosso, o forse meglio il color rame, potrebbe

essere distintivo di una particolare specie. Lo dimostrerebbe ta.

tāmirakaru�i ‘elefante femmina dell’ovest’, ma letteralmente

‘colei fornita di orecchie color rame’ in quanto prestito dal

sscr. tāmra-kar�ī, dove il primo termine è l’aggettivo tāmrá

‘rosso scuro, color rame’ e il secondo è la forma derivata in –

in dal sostantivo kar�a ‘orecchio’ (TL, p. 1838).

� Bianco: il bianco è sicuramente il colore distintivo della razza

albina. Per essa abbiamo il termine specifico di ‘elefante

bianco’: ta. ve��uvā (dalla radice ta. ve� ‘essere chiaro’).

Nella Māta�galīlā ‘Il trattato scherzoso sugli elefanti’3 (VIII,

15), Nīlaka��ha spiega che i colori degli elefanti sono quattro: bruno

2 L’Istituto Orientale di Vadodara possiede un manoscritto di questo interessantetrattato composto da un autore Jaina di nome Ha�sadeva, probabilmente neltredicesimo secolo d.C. La biblioteca universitaria dell’Università di Baroda,Vadodara possiede anche una copia della traduzione inglese del trattato, tradotto daM. Sundaracharya e pubblicato da V. Krishnaswami a Kalahasti nel 1927. Iriferimenti al testo, riportati qui e nei successivi paragrafi, sono tratti da un articolodi Thaker (1994), in cui sono tradotti alcuni brani del trattato.3 La Māta�galīlā, la migliore opera sanscrita disponibile sulla scienza degli elefanti,è un breve trattato in 263 stanze, diviso in dodici capitoli di diversa lunghezza. Nonsi possiedono notizie né sulla vita di Nīlaka��ha, l’autore del trattato, né sulla data di

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fulvo, giallo, nero e bianco; essi sono rispettivamente prodotti dal

sangue mescolato con la bile, dal sangue mescolato con la flemma,

dalla bile e dalla flemma e somigliano al colore della coda del pavone

il bruno fulvo, al colore dell’oro il giallo, al colore delle nuvole il nero

e al colore della luce lunare il bianco. Ma tra questi soltanto l’elefante

nero esiste sulla terra; gli altri tre vivono nel mondo celeste.

1.1 “Elefanti neri”

Analizziamo innanzitutto alcune denominazioni dell’elefante

che hanno come sema lessicogeno il nero:

� ta. ka�apam 1. ‘giovane elefante’, 2. ‘elefante’: può essere

derivato da ta. ka�am che significa 1. ‘nerezza, colore nero’, 2.

‘nuvola’ e che il TL (p. 812) spiega come prestito dal sscr. k�la

‘nero, di colore nero, blu-nero’. Non è tuttavia semplice

spiegare il significato del restante –pam. Se il termine fosse

connesso a sscr. karabha ‘cammello’, ‘giovane cammello’,

‘giovane elefante’, alternante con kalabha ‘giovane elefante’,

si potrebbe ipotizzare un legame tra il suffisso ta. –pam e il

suffisso sscr. –bha. Quest’ultimo è stato spiegato dal KEWA

(p. 165, s.v. karabha�) come suffisso indoeuropeo usato nella

formazione dei nomi di animali (cfr. gr. φος)4.

composizione dell’opera. Non avendo la possibilità di consultare direttamente iltesto, ho tratto la notizia da Edgerton (1985: 76-77) che ha interamente tradotto iltrattato. Un’altra traduzione, in tedesco, del trattato è quella di Zimmer (1979).4 Brugmann (Grundriss: 386-390) sostiene che il suffisso –bho- / -bh�- compare inalcuni aggettivi, soprattutto nomi di colore, e in alcuni sostantivi, soprattutto nomi dianimali. Lo studioso propone come probabile origine la forma verbale anticoindiana, bh�-ti ‘sembra, appare’, ipotizzando che l’uso del suffisso –bho- abbia

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� ta. karamai ‘elefante’, ta. kari ‘elefante’, ta. karum� 1. ‘maiale

selvatico’, 2. ‘elefante’, ta. karē�u 1. ‘elefante femmina’, 2.

‘elefante’, ta. kari�i 1. ‘elefante femmina’, 2. ‘elefante’:

termini dalla difficile spiegazione etimologica, molto

probabilmente connessi alla parola ta. karumai (karu-mai), che

significa ‘nerezza, colore nero’, ‘grandezza, eccellenza’,

‘vigore, forza’, ‘vivacità’, ‘severità, crudeltà’, e che deriva da

una radice ta. kar- unita al suffisso –mai che esprime qualità

astratta o condizione (TL, p. 3367).

Analizziamo anche il termine ta. m� che, designando tre concetti

diversi, ma strettamente correlati l’uno all’altro, lega in modo

inequivocabile l’elefante al nero. I significati di ta. mā sono:

1) ‘animale, bestia (specialmente riferito al cavallo e

all’elefante)’ (DEDR 3917, ta. mā� ‘cervo, bestia’, ma. mā�

‘cervo’, te. māvu ‘cavallo’, kol. māg ‘cervo’, kur. māk

‘antilope, cervo rosso’). Nelle varie lingue, dunque, il termine

si specializza a designare alcune specie zoologiche, e infatti il

TL (pp. 3141-3142) riporta oltre al suddetto significato, anche

quello di ‘cavallo’, ‘elefante’, ‘maschio di cavallo, maiale

selvatico, elefante’;

2) ‘nero, nerezza’ (DEDR 3918, ta. m� ‘nero’, m�mai ‘nerezza’,

m�ci ‘nuvola’, m�cu ‘nerezza, nuvola’, m�yam ‘nerezza’,

avuto origine in nomi di animali derivati da nomi di colori e dal significato di ‘Xsembra del colore Y’.

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m�yava� ‘Vi��u’, m�yō� ‘persona colorata di nero, Vi��u’,

m�l ‘nerezza, nero, nuvola, Vi��u’);

3) ‘grande, grandezza’5 (DEDR 3923, ta. m� ‘grande’, m�tu

‘grandezza’, m�l ‘grandezza, grande uomo’).

DEDR (3917, 3918, 3923) riporta le tre parole come se fossero

semanticamente separate fra di loro, interpretandole cioè come tre

omofoni; anche il TL le distingue, fornendo per ciascuna

un’etimologia diversa. Tuttavia, indipendentemente dall’etimologia, è

ragionevole ipotizzare che il significato di ‘animale’ abbia avuto

origine dai significati di ‘nero’ e ‘grande’ attraverso un processo di

sostantivazione dei corrispondenti aggettivi. Una conferma è data dal

fatto che i referenti a cui ta. m� ‘animale’ si riferisce sono tutte bestie

di notevoli dimensioni (in particolar modo l’elefante è il più grande di

tutti) e di colore scuro. Comunque, se non si volesse sostenere che

quest’ultimo significato sia nato proprio dagli altri due, si può

accettabilmente ipotizzare che i parlanti, nell’uso, associassero e

ritenessero collegate le tre parole.

E’ interessante a questo punto ricordare che il M�ga-Pak�i-

Ś�stram, nella sezione dedicata alle 13 specie di elefanti, ad ognuna

delle quali è dato un nome specifico e caratteristiche fisiche e

comportamentali diverse, attribuisce la pelle scura agli elefanti Dantin

(pelle blu scura), Dantāvala (pelle nera), Dvirada (corpo

5 Il TL (p. 3142) attribuisce a questa parola anche il significato di ‘forza’.

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estremamente scuro), Gaja (colore blu gradevole), M�gagaja (color

fumo) (Thaker 1994: 121).

Il nero non fa riferimento soltanto al colore della pelle, ma

anche alla pazzia che, nei periodi di fregola, colpisce gli elefanti. La

pazzia è un sema lessicogeno altamente produttivo nelle

denominazioni di questo animale, probabilmente per il fatto che gli

elefanti, nelle fasi di pazzia amorosa, diventano particolarmente feroci

e pericolosi per gli uomini6. Vediamo due denominazioni interessanti

a tal proposito:

� ta. maiya�m� ‘elefante’: composto da ta. maiyal ‘pazzia’,

‘eccitazione di elefante’ e da ta. m� ‘animale, bestia’ (TL, p.

3370) e che caratterizza quindi l’elefante come l’‘animale dalla

pazzia’.

� ta. maru�mā ‘elefante’: composto da ta. maru� ‘intossicazione,

pazzia’ + ta. mā (TL, p.3091) e che caratterizza quindi

l’elefante come l’‘animale dallo smarrimento di mente’.

6 Alcune denominazioni dell’elefante legate al tema della pazzia sono:ta. ma�amali (TL, p. 3118) ‘elefante’ in quanto ‘colui che abbonda di collera’:composto da ma�am ‘rabbia, collera’ e da mali, verbo che significa ‘abbondare,essere pieno’, ma da considerarsi ragionevolmente anche un sostantivo, visto chenelle lingue dravidiche il suffisso –i è uno dei suffissi che ricorrono nellaformazione dei nomi, e in particolar modo dei nomi di animali.ta. mattaku�am (TL, p. 3046) ‘elefante’ in quanto ‘colui dalla qualità della pazzia’:prestito dal sscr. matta-gu�a, dove il secondo elemento ha il significato di ‘tipo,qualità’.ta. a�uku ‘elefante’ in quanto colui che sradica alberi e li fa a pezzi’: deverbativodalla radice ta. a�u- ‘cessare, perire’, che al causativo assume il significato di ‘fare apezzi, spaccare, sradicare’, unita al suffisso nominale neutro –ku, usatooriginariamente come suffisso verbale.

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Che la pazzia è etimologicamente e semanticamente correlata al

colore nero è ben dimostrato da ta. maiyal (dalla radice mai- ‘nero /

nerezza’ + incremento eufonico –y- + suffisso nominale neutro –al),

antica forma di nome verbale che designa l’‘essenza nera’, l’‘oscurità’

e quindi la ‘pazzia’ che obnubila la mente e offusca ogni volontà.

1.2 “Elefanti rossi”

Anche se il nero è il colore che più di frequente si rintraccia nei

nomi di elefante, si può individuare un altro gruppo di parole che fa

riferimento al colore rosso, e in particolar modo al rosso scuro:

� ta. cinturam ‘elefante’: secondo il TL (p. 1421), omofono di un

altro termine tamil (probabile prestito dal sscr. sindura, MW p.

1217) che significa ‘marchio rosso, circolare, posto sulla

fronte’ e che molto probabilmente alterna con un’altra forma

(ta. cintūram), che deriva dallo stesso termine sanscrito e che

ha i significati di ‘rossore’, ‘ombrello rosso’, ‘rosso’, ‘muso di

elefante, come a punti rossi’. E’ ragionevole supporre che non

si tratti di omofonia ma di polisemia: il significato di ‘elefante’

si sviluppa in tal caso dall’uso attributivo della parola ta.

cinturam ‘(quello) dal rossore’ oppure ‘(quello) dalla macchia

rossa sulla fronte’.

� ta. tuvarita� ‘elefante’: composto attributivo formato dalla

parola ta. tuvar ‘corallo’, ‘colore rosso’, ‘ocra rossa’, unita al

termine ta. ita� che, fra i numerosi significati attribuitigli dal

TL (p. 293), ha anche quello di ‘labbro’. L’intera

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denominazione designa quindi l’elefante come ‘(quello dalle)

labbra rosse’.

� ta. c�mōpavai ‘elefante femmina’: composto attributivo dal

sscr. s�mōdbhav� ‘macchia rossa decorativa sulla fronte

dell’elefante’, che designa l’animale attraverso il riferimento ai

disegni simbolici tracciati sul corpo degli elefanti adornati per

le feste e per le processioni.

� ta. t�mirakaru�i ‘elefante femmina dell’ovest’ (cfr. § 1.0).

Che il colore rosso si riferisca alla particolare colorazione a

chiazze del corpo degli elefanti è confermato dal M�ga-Pak�i-Ś�stram.

Fra le varie specie di elefanti trattati, l’elefante di tipo gaja è

caratterizzato proprio da macchie rosse sul muso. Il dato è confermato

dalla letteratura tamil, in cui, varie volte, si trovano riferimenti a delle

macchie di colore rosso che ‘fioriscono’ (questo è il verbo tecnico

utilizzato) sul muso degli elefanti. Metaforicamente, queste macchie

sono dai poeti associate a quelle che compaiono sul collo e sulle spalle

delle ragazze indiane, quando giungono alla pubertà, segno della

fertilità raggiunta. Di nuovo, il verbo utilizzato è il ‘fiorire’. Il

rapporto fra le macchie rosse degli elefanti, le macchie o nei sulla

pelle umana e i fiori è confermata dai significati che il MW (P. 584)

riporta per il sscr. padma ‘loto’, ‘un particolare segno o neo sulla pelle

del corpo’, ‘macchie rosse o colorate sul muso o sulla proboscide di

un elefante’. E infatti, sscr. padmin (padma + in) significa ‘chiazzato

(come un elefante)’, ‘fornito di loto’, ‘elefante’ (MW, p. 585).

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Evidentemente, le macchie sono considerate dei fiori (e in particolare

dei loti) che sbocciano sulla pelle. Il tratto distintivo in comune è il

rosso.

1.3 “Elefanti bianchi”

Nonostante l’importanza che gli elefanti bianchi hanno nella

cultura e nei miti indiani, il colore bianco non si trova frequentemente

nei nomi che li designano. Bianco come il latte era l’elefante di Indra,

Airāvata, che secondo una versione del mito, fu tra le prime figure,

insieme alla dea Lak�mī7, ad uscire dal Latte dell’Universo8, da cui

emerse un curioso assortimento di personificazioni e di simboli. Ai

cosiddetti ‘elefanti bianchi’, albini maculati di bianco o di rosa, si

attribuisce un valore speciale, perché richiamano alla mente l’origine

di questo loro antenato dal Latte Universale: possiedono in maniera

eminente la virtù magica propria dell’elefante, la virtù di produrre

nuvole. Il nome della consorte di Airāvata, Abhramu, indica questo

speciale potere: mū- significa ‘foggiare, fabbricare, legare o

annodare’, abhra significa ‘nuvola’. Abhramu vuol dire ‘Produttrice

di nuvole’, ‘Colei che intreccia o lega le nuvole’, nel caso specifico le

nuvole benefiche del monsone che ravvivano la vegetazione dopo il

periodo infuocato della calura estiva. Quando esse non si fanno

vedere, ci sarà siccità, mancherà il raccolto e si avrà una carestia

generale (Zimmer 1993: 99-100).

7 La dea Lak�mī è la dea della fortuna, della prosperità e della bellezza, da cui glialtri nomi sscr. Śrī e ta. Tiru ‘Prosperità, Fortuna’.

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Due denominazioni dell’elefante collegabili al colore bianco

sono:

� ta. ve��uv� ‘elefante bianco’: (ve�-�-uv�) è spiegato nel TL (p.

3797) come composto dall’aggettivo ta. ve� ‘bianco’ (a sua

volta da ta. va� ‘chiarezza’) unito al sostantivo uv� (da sscr.

yuv� ‘giovane uomo’, ‘gioventù’, ‘elefante di 60 anni’).

Tentiamo una diversa interpretazione: provando a spiegare

diversamente il secondo costituente, si trova nel TL (p.465)

una forma omofona, che deriva da ta. uv- e i cui significati

sono ‘luna nuova’, ‘luna piena’ e ‘mare’. Potrebbe essere una

semplice impressione suggestiva, ma vale la pena ricordare

che in base alla tradizione epico-mitologica, l’elefante bianco

fu generato dall’oceano, assieme alla luna e alla dea Lak�mī,

anche esse simboli della fertilità e della vita vegetativa (cfr.

Harivasa 2, 18, 1-ss).

� ta. te��i ‘elefante’: è, solo in via ipotetica, derivabile dalla

radice ta. te�- che indica l’‘essere chiaro’ (ta. te��u ‘essere

chiaro, lucido’). Tuttavia questa radice non si riferisce

esclusivamente ad un colore bianco candido, per cui il nome in

questione potrebbe riferirsi anche a degli elefanti dalla pelle

marrone chiara. E comunque non è sicuro che ta. te��i abbia

come referente specifico esclusivamente gli elefanti bianchi.

8 Per il mito del ‘Frullamento dell’Oceano di Latte’, cfr. Mah�bh�rata I, 17 ssg.,

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1.4 Non solo colori…

Da uno studio attento delle suddette denominazioni ci si rende

conto che i colori non sono significativi soltanto nei processi

onomastici, ma contribuiscono anche all’origine e allo sviluppo di

accostamenti metaforici e interpretazioni simboliche. In altre parole, la

percezione dei colori non riguarda esclusivamente un’esperienza

sensoriale di tipo visivo, il colore della pelle che diventa sema

lessicogeno delle denominazioni, ma fornisce l’input per attribuire

all’elefante valenze e significati più profondi e per accostarlo ad altre

realtà del mondo naturale. La ricostruzione linguistica del valore

descrittivo dei nomi diviene ricostruzione culturale in quanto in esso

sono riflesse le credenze e i valori che hanno selezionato le forme con

cui una determinata comunità di parlanti ha interpretato i dati

dell’esperienza.

Alcuni brani della M�ta�galīl� di Nīlaka��ha lasciano già intuire

la valenza tutta particolare che gli indiani attribuiscono ai colori. Nei

capitoli II e III vengono trattati i segni favorevoli e quelli sfavorevoli

degli elefanti, segni interpretabili tramite l’osservazione del colore

delle parti del corpo dell’animale. Nel secondo capitolo, tra i segni

favorevoli, si dice che è eccellente l’elefante che ha queste sette parti

del corpo colorate di rosso: le due estremità della proboscide, il pene,

la lingua, le labbra, l’ano e il palato. Ugualmente è buono un elefante

che ha le orecchie rosse e le zanne del colore del miele, ed è degno di

Vi��u Pur��a I, 9, Matsya Pur��a, CCXLIX, 13-38.

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un re quello il cui corpo è scuro come una spada, o anche rosso con lo

splendore di macchie lucenti a forma di svastika, di śrīvatsa, di ruota,

di conchiglia e di loto. Sono invece propizi per i re gli elefanti che

hanno le estremità della proboscide rossicce e sono raggianti come loti

rossi. Nel quarto capitolo, tra i segni di longevità, si dice che vivono a

lungo gli elefanti che hanno le suddette sette parti rosse e che sono del

colore delle nuvole blu scure. (Edgerton 1985: 54-61).

Se il rosso richiama alla mente l’idea di fertilità tramite il fiorire

delle macchie simili a loti sul muso degli elefanti, è soprattutto il nero

il colore che coinvolge l’animale in una catena di giochi metaforico-

allusivi. Sono essenzialmente due gli elementi naturali a cui l’elefante

viene accostato per mezzo del tratto distintivo del nero:

1) serpente

2) nuvola9.

L’accostamento metaforico è testimoniato dalla lingua e

legittimato dalla mitologia.

Iniziamo dall’analisi del termine sscr. n�ga, passato in tamil

nella forma del prestito n�kam. Il KEWA (p. 150) afferma che, nel

significato di ‘elefante’, è probabilmente la forma abbreviata da

*nāga-hasta ‘dalla mano serpentiforme’. L’elefante è, infatti, una

bestia che ha in sé qualcosa di serpentino: la proboscide,

morfologicamente associabile ad un serpente. Lo conferma anche

l’attributo lt. anguimanus, riferito due volte all’animale dal poeta

9 Le associazioni elefante-serpente e elefante-nuvola sono confermate daconsiderazioni linguistiche e mitologiche che coinvolgono anche altri tratti distintivi,ma l’analisi di esse esula dagli intenti della presente ricerca.

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Lucrezio (II, 536; V, 1302). Tuttavia, il KEWA (p. 150-151) riporta

anche l’ipotesi interpretativa di Charpentier (1918: 44ss.), più

interessante ai fini della nostra ricerca, che vede in sscr. n�ga

un’indicazione del colore e lo fa derivare da una radice *nē(i)gó-,

confrontabile con il gr. νηγάτεος e il lt. niger. Il termine sanscrito

significa, al maschile, ‘serpente’, ‘elefante’, ‘squalo’, ‘nuvola’, e, al

neutro, ‘piombo’, ‘stagno’ e ‘una specie di talco’. E’ evidente, fa

notare Charpentier, che alla base di tutti questi significati (per i quali

non si può pensare a vocaboli omofoni) può esserci una comune

indicazione di colore, il nero o comunque un colore scuro, e che

quindi non si deve esitare a collegare sscr. n�ga- < *nē(i)g-o- (o forse

*nō(i)g-o-) con gr. νηγάτεος e con lt. niger. Anche i significati di ta.

n�kam ‘scimmia nera’, ‘piombo nero’ e ‘zinco’ confermerebbero

l’ipotesi. Charpentier (p.44) spiega *nē(i)g-, *no(i)g-, *nig- come

estensioni da una radice *n�i-, *n�i-, *n�- ‘splendere’, da cui si può far

derivare l’aggettivo sscr. n�la ‘di colore scuro’, ‘blu’, ‘nero blu’, la cui

affinità con lt. niger è stata constatata da Benfey (Wzlex. II, 57) e da

Bopp (Gloss. 222), come pure sscr. nīra ‘acqua’. Secondo Charpentier

(p. 44), non è insolito che l’acqua sia qualificata come ‘scura’, ‘nera’,

e che i nomi dei fiumi siano in relazione con vocaboli del genere (un

esempio si trova nelle forme correlate air. dobur ‘acqua’ e air. dub

‘nero’, a cui si possono aggiungere gall. Uerno-dubrum (nome di

fiume) ‘acqua fiancheggiata da ontani’, gall. Dubis (nome di fiume)

‘Doubs’). L’interpretazione di Charpentier è sicuramente molto

interessante e suggestiva e, se corretta, offre una valida prova

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linguistica dell’associazione elefante-serpente tramite il tratto

distintivo del colore nero, associazione che giunge a coinvolgere,

come ultimo anello della catena, l’acqua.

L’elefante e il serpente diventano, dunque, simboli della forza

vivificante delle acque10. Lo conferma nuovamente il termine nāga (e

il suo corrispettivo femminile nāginī) che designa i re (e le regine) dei

serpenti, che personificano e governano le acque terrestri dei laghi e

degli stagni, dei fiumi e degli oceani, e designa anche gli elefanti sacri

che originariamente avevano le ali e frequentavano le nuvole e che

ancora oggi, sulla terra, serbano il potere di attrarre le loro compagne

di un tempo, portatrici di pioggia. Ancora il termine nāga designa dei

geni superiori all’uomo che abitano paradisi subacquei situati sul

fondo di fiumi, laghi e mari, in palazzi tempestati di gemme e di perle.

Sono custodi dell’energia vitale accumulata nelle acque della terra,

nelle fonti, nei pozzi e negli stagni. Inoltre nella mitologia indù,

simbolo dell’acqua è il serpente (nāga), per questo Vi��u è

generalmente rappresentato mentre riposa sulle spire di un serpente

prodigioso, il suo animale simbolico preferito, Ananta, ‘Infinito’. Da

ricordare, infine, che Airāvata, nome del bianco elefante di Indra, è

anche il nome di un nāga (Zimmer 1993: 61).

Una conferma letteraria dell’associazione elefante-serpente si

trova nel capitolo VIII della Māta�galīlā, in cui sono elencate le

caratteristiche che permettono di classificare gli elefanti in base al loro

10 Non è difficile intuire l’origine dell’associazione: l’elefante trascorre gran partedelle giornate immerso negli stagni e nei fiumi, coperto di fango e facendo

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carattere. Sono considerati serpenti nel carattere gli elefanti che hanno

un odore come quello di pesce, śaivala (pianta acquatica), pha�irjaka

(tipo di basilico), fango, acquavite o carne cruda, che si spaventano

perfino quando sentono il brontolio delle nuvole, che sono arrabbiati

di notte e si dilettano dell’acqua e della polvere (VIII, 8). Inoltre sono

considerati serpenti anche gli elefanti che tradiscono la fiducia, sono

crudeli, camminano ricurvi e non mangiano molto quando sono in

calore (VIII, 13) 11 (Edgerton 1985: 74-76).

Il colore scuro della pelle ha contribuito in modo decisivo anche

all’associazione fra gli elefanti e le nuvole, specialmente le nuvole

portatrici di pioggia e quindi nere. Se poi proviamo ad immaginarci un

branco di elefanti che si muovono in lontananza all’orizzonte,

sollevando una grande quantità di polvere, non è difficile intuire come

possa aver avuto origine questa associazione. Contribuisce senza

dubbio anche la rumorosità del barrito, che può facilmente essere

paragonato al fragore del tuono12. Anche stavolta l’associazione è

confermata dalla lingua e legittimata dalla mitologia. Tre termini

tamil, che significano ‘nero’ e che si rintracciano in vario modo nelle

denominazioni dell’elefante (cfr. § 1.1), designano anche la ‘nuvola’:

� ta. mai 1.‘nero’, 2.‘nuvola nera’;

� ta. ka�am 1.‘nerezza, colore nero’, 2.‘nuvola’;

zampillare acqua dalla proboscide per proteggersi dall’arsura del sole; il serpente hacome habitat naturale gli acquitrini e le zone paludose.11 In base al loro carattere gli elefanti possono essere anche dei, demoni,gandharvas, yak�as, orchi, uomini e spiriti maligni.12 La conferma linguistica è fornita da ta. makānātam, letteralmente ‘granderumore’, che designa contemporaneamente l’‘elefante’, la ‘nuvola’ e il ‘leone’.

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� ta. karu ‘nero’ e ta. karukkal 1.‘oscurità’, 2.‘nuvolosità’.

Ricordiamo anche ta. mata�kam che raggruppa in sé i significati

di ‘elefante’, ‘nuvola’ e ‘montagna’.

La mitologia conferma l’associazione elefanti-nuvole: nella

meravigliosa età primordiale gli elefanti avevano le ali e vagavano

liberamente nel cielo come le nuvole. Successivamente, però, un

gruppo di questi perse le ali e da allora sono costretti a restare sulla

terra. Si narra, infatti, la storia di uno stormo di elefanti che ebbe la

sventura di incappare nell’ira improvvisa di un santo asceta, un essere

al quale ci si deve accostare solo con il massimo rispetto e che va poi

trattato con molta circospezione, perché gli asceti sono per natura

molto suscettibili e irascibili. Un giorno sbadatamente, questi elefanti

alati e spensierati si posarono sul ramo di un albero gigantesco, a nord

del Himālaya. Là sotto sedeva un asceta chiamato Dīrghatapas (‘dalla

lunga ascesi’): in quel momento stava insegnando, quando il pesante

ramo dell’albero, incapace di sopportare il carico, si spezzò e piombò

sulle teste dei discepoli. Ne rimasero uccisi un buon numero, ma gli

elefanti, per nulla preoccupati, si arrestarono agilmente a mezz’aria e

si posarono su un altro ramo. Furibondo, il santo li maledisse a

dovere. Da quel momento essi e tutta la loro razza furono privati delle

ali e rimasero sulla terra, sottoposti all’uomo. E quel che è peggio,

insieme alla facoltà di librarsi nell’aria, persero anche il potere divino,

caratteristico delle nuvole e di tutte le divinità, di assumere qualunque

forma desiderassero (Māta�galīlā I, 11-12) (Edgerton 1985: 44; cfr.

anche Zimmer 1993: 100).

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La conferma letteraria ci viene di nuovo fornita dalla

Māta�galīlā. Nel capitolo sulle tipologie e gli stadi dell’eccitazione

periodica, si trova la descrizione dell’elefante al secondo stadio di

fregola (IX, 13): le guance sono bagnate dalla secrezione che scorre

abbondante dalle tempie, è pieno del fragore del tuono che rimbomba

come un cumulo di nuvole e si avventa deciso ad uccidere perfino

quelli che si trovano a distanza (Edgerton 1985: 83). Invece, l’elefante

al settimo stadio di eccitazione, denominato ‘diminuzione’, brilla

come una nuvola che abbia già scaricato il suo accumulo di acqua

(Māta�galīlā IX, 18) (Edgerton 1985: 83-85).

Anche il colore bianco attribuisce agli elefanti un valore speciale

in quanto richiama alla mente l’origine del loro antenato, Airāvata, dal

Latte Universale: gli elefanti bianchi possiedono in maniera eminente

la virtù magica, propria dell’elefante, di produrre nuvole. Come

Airāvata appartiene ad Indra, così gli elefanti appartengono ai re.

Nelle processioni solenni sono la cavalcatura simbolica del sovrano,

ma la loro funzione più importante è quella di attirare le loro parenti

celesti, le nuvole, elefanti del cielo. L’elefante è, dunque, considerato

una nuvola che cammina sulla terra. Quando la nuvola elefantina

terrestre è debitamente onorata le sue parenti celesti ne sono

compiaciute e sono indotte a mostrare la loro gratitudine favorendo il

paese con piogge abbondanti. Perciò i regnanti indù tengono degli

elefanti per il benessere dei sudditi: cedere un elefante bianco

renderebbe un re assai impopolare fra la sua gente. Un’azione del

genere è al centro di una storia che fa parte delle “Storie delle

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Esistenze Anteriori del Buddha” (Jātaka). In essa si racconta che il

Buddha, nato come Bodhisattva, o Buddha in fieri, nelle spoglie del

principe Viśvāntara, praticando le virtù più alte del distacco, del

sacrificio di sé, della generosità e della compassione, donò l’elefante

bianco del regno di suo padre a un paese confinante che soffriva per la

siccità e la carestia. I suoi sudditi si sentirono traditi e abbandonati, e

lo costrinsero ad andare in esilio13.

Ancora oggi, l’elefante ha una parte significativa in una

cerimonia annuale che si celebra a Nuova Delhi allo scopo di favorire

le precipitazioni, un buon raccolto, la fertilità degli esseri umani e del

bestiame e il benessere generale della nazione. Un elefante, dipinto di

bianco con pasta di sandalo, è condotto solennemente in processione

attraverso la città; i suoi stallieri sono uomini travestiti da donna che

fanno gazzarra con motti salaci, frizzi e parole oscene. Con questo

travestimento rituale rendono onore al principio cosmico femminile, la

nutriente, materna, procreativa energia della natura, e con l’uso del

linguaggio licenzioso stimolano l’energia sessuale latente del potere

vitale. L’elefante viene, infine, adorato dagli alti ufficiali civili e

militari del regno.

1.5 Conclusioni

Nella cultura indiana il colore è un tratto distintivo fondamentale

per la classificazione e la denominazione dell’elefante. L’analisi

13 Cfr. Cowell, E.B. (1895-1907), The Jataka, or Stories of the Buddha’s FormerBirths, tradotte dal pāli da vari studiosi, , 6 voll., Cambridge. Questa è la storia n°547, l’ultima della serie.

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etimologica dei nomi ha rilevato che il colore è un sema lessicogeno

frequentemente usato, ma da semplice indicazione del colore della

pelle fornisce l’input per l’origine di processi metaforico-simbolici

che affondano le radici in significati più profondi, legittimati dalle

testimonianze del patrimonio mitologico e letterario. La lingua è lo

strumento principale per la ricostruzione di questo patrimonio: la

ricostruzione linguistica è soprattutto ricostruzione di ideologie. Le

denominazioni dell’elefante testimoniano il legame fra l’animale e

numerosi altri elementi naturali, fra cui nuvole, serpenti e loti.

Pronunciare un nome dell’elefante significa, in molti casi, evocare

tutto questo patrimonio. Pronunciare, ad esempio, in sanscrito nāga o

in tamil nākam significa rievocare contemporaneamente più

frammenti di questa ideologia, dall’elefante, al serpente, alla nuvola,

alla montagna. Secondo la filosofia indiana, all’inizio tutto era

un’unica massa di materia omogenea, da essa in seguito, per mano

divina, hanno preso vita e forma tutti gli esseri. Nei nomi si conserva

ancora l’originaria unità.

Sandra Gracci

Dipartimento di Linguistica

Università degli Studi di Pisa

[email protected]

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Abbreviazioni

Air. antico irlandese Lt. latino

Gal. gallico Ma. malayalam

Gr. greco Sscr. sanscrito

Kol. kolami Ta. tamil

Kur. ku�ux Te. telugu

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