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GOAL DI TESTA

Raccolta di articoli sulla psicologia dello sport applicata al calcio femminile pubblicati su:

“Il Calcio Femminile”

di Barbara Rossi, psicologa

Centro Regionale di Psicologia dello Sport di Macerata

www.psicologiaperlosport.it

Psicologia dello sport e Calcio Femminile

La psicologia e lo sport hanno un minimo comune denominatore che è la persona,

condividono l’interesse per l’uomo e per la sua espressione attraverso lo sport.

La psicologia dello sport nasce agli inizi del 1900 quando degli psicologi e degli

educatori fisici, in situazioni differenti, iniziano a formulare teorie sugli aspetti

psicologici dell’attività sportiva. Nasce allora la necessità di dare una spiegazione

alle implicazioni emotive e mentali connesse allo sport. Al momento, in Italia, esistono

associazioni che, sempre più numerose, si occupano di psicologia dello sport in virtù

di una domanda del mercato sportivo che aumenta, seppur lentamente rispetto ad

altri paesi.

Ogni prestazione sportiva nasce da una molteplicità di fattori, spesso complessi, che

si completano a vicenda :

Predisposizione fisica e capacità naturali atletiche

Capacità tecniche e talento innato

Capacità tattiche e strategiche

Livello ed intensità di allenamento

Alimentazione e regole di vita

Preparazione psicologica.

La preparazione psicologica ha l’obiettivo di portare stabilmente l’atleta ad acquisire

una buona condizione mentale generale ed una buona capacità di preparare ogni

singola gara.

In tutti gli sports la fiducia nella propria forza, la determinazione, la lucidità e la

concentrazione nei momenti importanti, il saper stare in un gruppo, sono elementi

invisibili che tuttavia fanno spesso pendere l’ago della bilancia della prestazione in

una direzione positiva in presenza di una buona preparazione mentale. E’ su questo

che lo psicologo dello sport lavora, come un allenatore sulla tecnica e tattica ed un

preparatore atletico sulla condizione fisica.

Anche nel calcio femminile come in altri sport l’intervento della psicologia è volto

ad ottimizzare :

- lo sviluppo e la crescita personale dell’atleta

- la prestazione dell’atleta

- la comunicazione e la coesione all’interno del gruppo.

Questo genere di intervento, soprattutto negli sport di squadra, può avere un impatto

fortissimo quando vede l’attiva partecipazione dell’allenatore che, supportato dallo

psicologo dello sport, diventa anche trainer delle capacità mentali dei suoi atleti.

La psicologia dello sport è fatta anche di esercizi pratici che insegnano a porsi

degli obiettivi di miglioramento misurabili, rendono in grado di ottimizzare le proprie

potenzialità e puntano a facilitarne l’espressione completa.

Un risultato positivo e duraturo è solo la conseguenza di come si lavora.

Allo psicologo dello sport spetta il compito di portare nel mondo sportivo

l’approfondimento di anni di studi finalizzati a migliorare le abilità mentali e a

facilitare le dinamiche personali e interpersonali valorizzando, però, la leggerezza

che è insita nello sport, che ha nel gioco una componente insostituibile.

Le caratteristiche del gruppo-squadra

Gareggiare insieme ad altre persone può condizionare le situazioni, le motivazioni, le

emozioni e quindi il rendimento degli atleti e può rappresentare una limitazione od

un valore aggiunto a quello dei singoli atleti.

Il gruppo sportivo è un insieme animato da una grande varietà di particolarità,

dinamiche, azioni e reazioni difficilissime da definire, gestire e integrare.

Le persone che fanno parte di una squadra, tutte le loro caratteristiche

( cultura, vissuti, ecc. ), i loro ruoli, le interazioni fra loro, i sogni di ognuno e di tutti,

le componenti esterne ( pubblico, giornalisti, parenti, ecc. ) sono solo alcuni degli

elementi da considerare ma danno una prima idea della difficoltà che si incontra

quando si vuole comprendere e rendere prolifico un team sportivo.

Lo studio delle dinamiche di un gruppo coincide con lo studio di tutte le sue

componenti e del modo di in cui queste si intrecciano. Ottimizzare tali dinamiche

significa integrarle in maniera funzionale alla salute di tutti ed alle migliori

performance della squadra.

Nella creazione di una strategia efficace di allenamento e di gara, è fondamentale

dare all’ aspetto sistemico la stessa attenzione data allo sviluppo delle altre

componenti. Voglio dire che il contesto relazionale, con tutte le sue regole e tutte le

sue eccezioni, ha il potere di vanificare o esaltare anche la migliore applicazione di

tecnica o tattica e di questo non può non tenersi conto nello sport maschile e ancor

più in quello femminile.

La condivisione degli obiettivi e una buona interazione tra atleti, sono aspetti

fondamentali negli sport di gruppo, dove dovremmo trovare, un insieme di persone

unite da norme chiare e da precisi modi di comportarsi e lavorare che permettono

di produrre insieme in gara e fuori.

Per creare un gruppo occorre :

che tutti partecipino a tutti i momenti del gioco e dell’attività e si scambino contributi

( opinioni, conforto, disponibilità, ecc. )

che tutti operino perché non nascano rivalità eccessive e contrasti

che interessi a tutti stimolare intesa e cooperazione.

Solo una riuscita integrazione porta il gruppo ad esprimere una qualità di gioco

superiore alla somma delle capacità dei singoli.

Può accadere che una squadra abbia un buon rendimento anche laddove ci sia

una altissima competizione tra i suoi membri o laddove, per altri motivi, gli atleti

avvertano disagio.

In questi casi potremmo chiederci se è conveniente privilegiare ciò che fa vincere

o ciò che fa stare bene ma in realtà un sistema che stressa è destinato, nonostante

le vittorie, ad avere vita breve. Di conseguenza, lavorare per alzare l’umore e la

qualità della vita di tutti i componenti del gruppo, migliorare le loro relazioni ed il

modo di cooperare rende alta e duratura la qualità del lavoro espresso garantendo

il risultato finale.

La coesione del gruppo-squadra

Una squadra deve muoversi verso la realizzazione delle sue mete e deve farlo

senza impedire l’espressione di ogni singolo componente, dei bisogni di questi e

delle sue peculiarità psicologiche e mentali.

L’analisi delle caratteristiche individuali e di quelle del gruppo aiuta l’allenatore e lo

psicologo a comprendere meglio la natura di un team sportivo, anche femminile, e

a individuare i suoi punti di forza ed i suoi margini di miglioramento.

Le caratteristiche che distinguono un gruppo possono essere :

La vision, cioè l’idea alla base della costruzione del gruppo

Il numero dei componenti

La durata del periodo in cui si lavora insieme

Le relazioni sociali ed affettive e la qualità e quantità dei rapporti interpersonali

I ruoli e la spartizione delle mansioni e dei poteri all’interno del gruppo

Le norme, regole ed il modo in cui esse vengono determinate, applicate e rispettate

dai componenti

Gli scopi condivisi, la loro costruzione ed il modo di perseguirli.

Le caratteristiche individuali da tenere in considerazione sono :

Le abilità mentali di ciascun atleta

La personalità dell’ atleta, le capacità di adattamento e la maniera di rispondere ai

successi e agli insuccessi

Le motivazioni individuali, la maniera di sentire propri gli obiettivi comuni e la forza

con cui l’atleta li persegue

Ciò che ogni atleta pensa del gruppo e dei componenti del gruppo stesso

Le reazioni di ogni atleta a ciò che gli altri, all’interno o all’esterno, pensano del

gruppo e/o di se stesso.

Se esistono dei problemi che intralciano l’efficacia o la qualità della vita del team

sportivo questi possono essere dovuti ad una delle caratteristiche del gruppo o del

singolo o dipendere da una discrepanza tra qualcuna di queste.

Tanto per gli uomini quanto per le donne, favorire l’appagamento e la qualità

della vita dei singoli membri, il più delle volte, vuol dire aumentare la coesione

e facilitare la forza con cui tutti si impegneranno liberamente per dare il proprio

contributo nel raggiungimento degli scopi comuni.

Più un gruppo è coeso e più resiste all’urto delle situazioni negative che gli possono

capitare.

Allenare una squadra significa comprendere le sue caratteristiche e le sue

dinamiche impostando poi il lavoro quotidiano che abbina la parte sportiva ad

un modo di lavorare mirato a favorire la coesione, aumentando la resistenza alle

difficoltà e facilitando al contempo le potenzialità del singolo e del gruppo.

La coesione è una misura del funzionamento del gruppo ed in questo senso le

squadre femminili non sono diverse da quelle maschili.

Le differenze di genere e gli universi interni del maschile e del femminile esistono

e sono argomenti complessi ma sostanzialmente poco esplorati nello sport se si

considera che gli studi fatti sull’argomento sono pochi e tutti recentissimi.

E’ possibile ed auspicabile che tra qualche anno, continuando l’ascesa dello sport

professionistico femminile, ricerche più numerose portino a teorizzazioni condivise

che portino ad illuminare maggiormente la strada ad allenatori e psicologi che si

occupano di sport femminile.

E’ possibile ed auspicabile che tra qualche anno, continuando l’ascesa dello sport

professionistico femminile, ricerche più numerose portino a teorizzazioni che possano

illuminare maggiormente la strada ad allenatori e psicologi che si occupano di sport

femminile.

Allenare le emozioni

Le emozioni sperimentate nello

sport non sono diverse da quelle

che si provano genericamente

nella vita.

La paura di affrontare un impegno

importante, l’incertezza del risultato,

la paura di non farcela, la rabbia

per un torto subito, il desiderio

di vincere, la delusione per

un’occasione persa ecc. possono

essere le medesime in tanti

momenti della nostra vita. Ciò che

cambia è che un atleta agonista si

può trovare a fronteggiare tante

forti emozioni nell’arco una sola

gara o addirittura in pochi minuti.

L’atleta emotivamente stabile non è

quello che non prova emozioni ma

è quello che riesce ad adattarsi al

loro flusso ed a gestirlo per il meglio senza rimanerne sopraffatto.

In altre parole ciò che conta per l’atleta non è non provare stress ma

rispondere ad esso con una buona capacità di adattamento e con una realistica

consapevolezza delle proprie risorse e capacità.

La psicologia dello sport aiuta l’atleta a sviluppare la propria resilienza, la propria

capacità, cioè, di resistere alle difficoltà dello sport e della vita affrontando lo

stress in maniera più efficace. La psicologia dello sport moderna si sta muovendo

sempre di più verso una direzione che tutela le differenze individuali. Non esistono

cioè, in linea di massima, emozioni facilitanti o inibenti in assoluto nello sport, non

esistono situazioni che generano stress a tutti gli atleti, ma esistono persone che

gareggiano meglio esprimendo il loro massimo potenziale se e quando provano

determinate emozioni in un data misura. Ogni atleta deve capire quale è il suo stato

di attivazione ottimale, quali le emozioni che lo aiutano e quale lo stato d’animo

funzionale a migliorare le sue prestazioni da facilitare per fare in modo che ogni

partita assomigli alla sua “partita magica”.

Tutti gli atleti hanno giocato una “partita magica” e il suo ricordo può aiutare

nella definizione del programma di Mental Training disegnato per ogni atleta dallo

psicologo dello sport in collaborazione con l’allenatore.

La verità, però, è che nonostante le grandi risorse che la psicologia può offrire,

ancora pochi sono gli atleti e gli allenatori che ne chiedono il supporto.

Ciò deriva sicuramente da vari fattori quali per esempio, secondo Weinberg &

Gould e una loro ricerca del 2007, la mancanza di conoscenza circa le tecniche e

l’utilità della psicologia dello sport. Il Mental Training o allenamento mentale è quasi

sconosciuto alla maggior parte degli atleti, degli allenatori e dei medici sportivi.

A questo si unisce il fatto che anche molti di quelli che ne hanno sentito parlare

hanno poco tempo o poche risorse economiche da spendere in una attività i cui

contorni sono tutto sommato, nel sapere comune, ancora un po’ confusi e incerti.

I pregiudizi legati all’argomento, poi, insinuano che chi si rivolge ad uno psicologo

dello sport lo faccia perché è “ uno che ha problemi” e tali pregiudizi non aiutano

al decollo di una disciplina che potrebbe invece dare moltissimo.

In realtà la psicologia dello sport è una scienza dai contorni certi e dai metodi

efficaci e collaudati e l’atleta o l’allenatore che ricorre ad essa denota non certo

debolezza ma il coraggio e la volontà di migliorare attingendo alle risorse, ancora

in gran parte inutilizzate, del cervello e dell’animo umano.

La leadership

Ogni squadra ha i suoi equilibri interni che regolano i rapporti tra tutti i giocatori.

Le squadre di calcio femminile non fanno eccezione, anche al loro interno, infatti,

nascono spontaneamente le dinamiche che portano alla definizione dei ruoli di

potere e di influenza reciproca. Tutto ciò prende il nome di leadership.

Se esiste un leader in un gruppo questi è creato sempre tramite un processo

spesso istintivo di ricerca di ordine ed equilibrio al quale attivamente o

passivamente partecipa tutto il gruppo. Anche senza che se ne parli, l’interesse

naturale che persegue ogni gruppo che funziona è quello di raggiungere una

armonica distribuzione dei ruoli che soddisfi i singoli membri e li guidi alla

realizzazione dei bisogni individuali e degli obiettivi collettivi.

Il leader o, nel caso di una squadra femminile, la leader è veramente tale se è

riconosciuta dalla squadra, se è frutto di una “elezione” democratica anche se

tacita che ha coinvolto la maggioranza delle componenti del gruppo; la leader,

cioè, è tale se in quel dato periodo o in quella data situazione le compagne vedono

in lei il punto di riferimento giusto e affidabile per la risoluzione di questioni

tecniche, tattiche o relazionali.

Imporre un determinato leader pensando che avere un leader risolva di per sé i

problemi legati alla ricerca di un equilibrio nei rapporti tra le persone, il più delle

volte si dimostra un errore. Ciò che si cerca, infatti, è l’armonia del gruppo che

consente di lavorare insieme per centrare gli obiettivi, in questa ottica il leader non

è il fine ma è solo il mezzo e lo è davvero quando è voluto dalla squadra senza

forzature.

Il giocatore leader non è il “capo” che comanda la squadra (“il capo” è sempre

l’allenatore), ma è colui che, in un certo qual modo, si fa garante della ricerca

dell’obiettivo comune, della bontà dei rapporti fra tutti e del senso di appartenenza

di ognuno.

Anche in una squadra femminile come in una maschile, è possibile che le

leader siano più di una, due o anche tre che si scambiano il testimone nella guida

del gruppo a seconda delle situazioni. Ci può essere il momento della leader “di

compito” che viene scelta dalle altre per le sue capacità tecniche e/o tattiche che

all’interno di una gara ne fanno il fulcro fondamentale di tutte le azioni; ci può

essere il momento della leader “socio-emotiva” che è quella dotata di speciali

capacità umane e comunicative tali da renderla il collante dei rapporti e degli

scambi tra le compagne, ci può essere la situazione della leader “autorevole”

capace di comunicare sicurezza e di prendere rapidamente decisioni condivise

che guidano il gruppo verso la soluzione di momenti critici in gara e fuori.

Uno dei compiti più difficili dell’allenatore è proprio quello che più ha a che fare

con la leadership, un compito che nella pratica si trasforma nell’agevolare e

orientare il perpetuo processo di ricerca di una organizzazione efficace e del

giusto equilibrio dei membri della sua squadra.

Lo sport giovanile

Prendendo spunto da un lettore che in uno degli ultimi numeri chiedeva informazioni

circa lo stato dei settori giovanili nel calcio femminile, tratterò l’argomento

importantissimo dello sport proposto ai bambini e alle bambine. Molte, purtroppo,

sono le società di calcio femminile che, come quelle maschili, a volte per mancanza

di risorse economiche altre per mancanza di lungimiranza, non investono

abbastanza nei settori giovanili. Investire nei settori giovanili non significa solo

crearli ma vuol dire seguirli attivamente, dotarli dei migliori istruttori e dei più

preparati dirigenti, investire nella formazione e credere fermamente che questo

sforzo sia un investimento concreto per le società sportive stesse e certamente il

modo di svolgere un ruolo sociale utilissimo.

Si parla di ruolo sociale riferendosi alla crescente complessità dei bambini e

dei ragazzi di oggi che se da un lato si presentano come cognitivamente molto

più preparati e stimolati di quelli di 30 anni fa, dall’altro sono molto spesso più

instabili, desiderosi di punti di riferimento educativi e tendenti a sviluppare

sindromi ansiose. I motivi di questo cambiamento vanno ricercati nelle ragioni

sociali per le quali i genitori passano con i figli sempre meno tempo, per le quali

aumentano esponenzialmente le famiglie con i genitori separati e per le quali,

spesso, lo sport non è più inteso come il divertimento finalizzato a raggiungere

la salute, la competenza sociale e la maturità motoria ma, al contrario, è una via

per raggiungere il successo in una determinata disciplina. Già questo basterebbe

per giustificare il difficile ruolo delle società sportive ma non è finita qui. Altro

fenomeno assai rilevante è che i bambini spesso arrivano alle società sportive

in evidente stato di ritardo motorio o affetti da iperalimentazione o da sindromi a

carico dell’apparato muscolare o scheletrico. Anche i motivi di ciò vanno cercati in

altri cambiamenti sociali quali la sopraggiunta pericolosità della strada come luogo

del gioco libero, il dilagare della TV e dei giochi tecnologici e la sempre minore

disponibilità di amichetti o cugini con cui giocare muovendosi. Tutti ciò, unito al fatto

che nella nostra scuola materna e elementare l’attività motoria è ancora marginale

se non inesistente, ha fatto in modo che l’ipocinesi la facesse da padrone nelle vite

dei nostri bambini e delle nostre bambine che si presentano alla società sportiva

spesso senza alcun bagaglio di esperienza motorie e con una consapevolezza ed

una padronanza corporea in ritardo o tutta da costruire. A questo si aggiunge la

crescente multiculturalità della nostra società attuale che vede l’arrivo nelle società

sportive di molti bambini proveniente da altre lingue, culture e credenze tutte da

integrare nello stesso contenitore sportivo-educativo. Tutti questi fattori dipingono,

quindi, un quadro molto complesso dove i maestri di sport ed i dirigenti devono

agire per il meglio ricoprendo un ruolo educativo ancor prima che sportivo

supportati prevalentemente dal buon senso che seppur importante non può bastare.

La psicologia dello sport rappresenta un valido aiuto in questo senso formando e

supportando gli istruttori nel loro difficile compito di trovare le soluzioni migliori ai

problemi o meglio alle difficoltà quotidiane che incontra chi si occupa della crescita

dei giovani sportivi.

Per quanto riguarda il calcio femminile il problema di reperire tante bambine

desiderose di giocare e di cui popolare le società giovanili rende tutto ancora più

difficile anche se qualcosa sta lentamente iniziando a cambiare. Senza dubbio la

mancanza di visibilità è un deterrente importante alla partecipazione di massa

delle bambine al calcio senza dimenticare una innegabile difficoltà culturale tutta

italiana a considerare il calcio uno sport adatto ad una bambina. Senza negare

questo, però, l’esperienza mi ha insegnato che lavorando attraverso criteri di serietà

e competenza, le culture possono modificarsi e i pensieri comuni diventare pronti

a ricevere nuove informazioni che allentano i pregiudizi. Mi piacerebbe che le

società di calcio femminile accogliessero il mio invito a investire di più e meglio nei

settori giovanili perché il futuro, la ricchezza e la credibilità di un movimento è lì, è

nei suoi settori giovanili.

La motivazione nello sport

La motivazione degli atleti è uno degli argomenti di maggiore interesse della

psicologia applicata allo sport. La motivazione e gli altri concetti ad essa

strettamente collegati quali l’impegno, la determinazione, la perseveranza, la grinta

sono da sempre sono tenuti in grande considerazione da allenatori ed atleti

perché giustamente ritenuti responsabili del rendimento nelle gare singole così

come nelle intere carriere. Ma la motivazione può essere allenata? La crescita

umana di una atleta quasi sempre si trasforma in un miglioramento delle sue

prestazioni sportive e quasi sempre anche in una crescita delle sue motivazioni.

L’Analisi Transazionale opera un’importante distinzione tra il concetto di motivo e

quello di motivazione definendo come motivo la ragione di un comportamento o di

una scelta e come motivazione la spinta istintiva a fare una certa cosa. Mentre il

motivo, quindi, appartiene alla “testa” ed è la conseguenza di un ragionamento, la

motivazione appartiene alla “pancia”, ha radici più profonde nella persona ed è

il “motore” autentico dell’agire. La motivazione dell’atleta può essere, quindi, anche

regressiva, appartenente cioè alle esperienze legate alla sua infanzia, o addirittura

estranea a lui laddove provenga dall’esterno. Le motivazioni derivanti dall’esterno

possono essere quelle dei genitori, ma anche quelle di un allenatore, che pure

viene incorporato non solo come tecnico, ma anche come portatore di valori e

di vissuti, oppure quelle della società civile perché, con lo stesso meccanismo,

l’atleta può introiettare i valori ed i principi della cultura e della società cui

appartiene. Quindi si può decidere di fare una cosa per scelta esclusivamente

personale oppure per influenza di qualcun altro che positivamente o negativamente

condiziona le nostre scelte. Si è portati a pensare che la vera motivazione, quella

che ci spinge alla autentica ricerca del nostro massimo nello sport e nella vita

sia quella personale o intrinseca che parte dalla parte più profonda di noi.

Nell’atleta adulto, sia uomo che donna, però, è davvero difficile capire quali siano

i condizionamenti esterni e quanto sia profondo e complesso il loro radicamento.

E’ possibile, quindi, allenare la motivazione? Ciò che è utile fare è insegnare all’atleta

a orientare le sue motivazioni al compito piuttosto che al risultato. L’orientamento al

compito o all’ azione significa rivolgere la propria attenzione a ciò che si deve fare,

al gesto tecnico e al miglioramento delle proprie abilità piuttosto che alla vittoria

finale. L’atleta orientato al compito non sarà deconcentrato dalla paura di vincere

o di perdere perché è allenato a focalizzare la sua attenzione sulla azione che sta

vivendo e non su il prima o sul dopo. L’orientamento all’azione stimola la fiducia

in se stessi, caratterizza la capacità di perseguire efficacemente la realizzazione

dei propri propositi, ed è la risultante di sistemi di autoregolazione che assicurano

l’organizzazione ottimale di concentrazione, risolutezza, energia, persistenza e visione.

Questo orientamento stimola al confronto con se stesso e con i propri miglioramenti

allontanando la mentalità dell’atleta dalla necessità del riconoscimento esterno del

proprio valore. In poche parole l’atleta impara che il successo dipende dall’impegno

individuale e ricava piacere e autostima dall’apprendere nuove abilità constatando

i propri miglioramenti e rinforzando la propria motivazione sulla base di questi.

L’allenatore e la comunicazione

Tutta la conoscenza del mondo è inutile se non è supportata dalla capacità di

comunicarla agli altri, anche nello sport. Tanto è importante la capacità di farsi

capire da essere un presupposto essenziale per poter essere un buon allenatore.

Non è sempre facile riuscire a trasmettere correttamente il nostro pensiero, le nostre

intenzioni e il nostro sapere attraverso parole, intonazioni, gesti e atteggiamenti. Non

sempre infatti ciò che all’esterno viene percepito corrisponde a ciò che vorremmo

comunicare.

Anche nello sport, però, la disponibilità verso l’altro e la capacità di osservare

gli altri e le loro interazioni con noi sono competenze determinanti del buon

comunicatore sempre attento a cogliere le azioni e le reazioni di chi gli sta intorno.

Queste azioni e reazioni nostre e degli altri prendono il nome di “retroazioni

negative” o “feedback” ed hanno, come vedremo un ruolo fondamentale nella

nostra vita. Per comprendere l’essenza della comunicazione è utile partire dalle sue

basi: chi parla emette un messaggio a chi ascolta che lo riceve rimandando a sua

volta un feedback all’emittente che contiene la sua reazione al messaggio ricevuto.

Per fare in modo che il ricevente capisca bene il messaggio, l’emittente deve

scegliere il giusto codice cioè il linguaggio adeguato, il tono giusto, ecc. La

complessità dell’atleta donna rende la comunicazione ancora più importante nel

costruire un rapporto corretto con l’allenatore. E’ facile, sbagliando codice, fare

in modo che il messaggio non venga recepito correttamente anche se contiene

le cose più giuste del mondo. Quanto poi chi ci ascolta recepisca di quello che

stiamo dicendo ci viene rivelato sempre dall’osservazione attenta del feedback di

ritorno. E’ importante tenere presente che la comunicazione ha un aspetto digitale,

cioè di contenuto e uno relazionale e i due aspetti hanno uguale importanza. Ha

importanza ciò che si dice e che si insegna ma ha molta importanza anche il come

ciò si dice. Spesso infatti il tono, il volume, la postura influenzano le comunicazioni

molto più di quanto si creda. Se il tono, infatti, contraddice il significato letterale del

messaggio ha la capacità di stravolgerne completamente il senso. Questo accade

perché nella nostra percezione i gesti e i toni arrivano alla nostra coscienza prima

delle parole : se qualcuno ci parla con un tono aggressivo probabilmente non

ascoltiamo nemmeno bene ciò che ci dice perché la nostra prima reazione è quella

di difenderci o di contrattaccare.

E’ utile dire che la capacità di ascoltare è una capacità indispensabile del buon

allenatore-comunicatore. Ascoltare bene significa anche saper entrare nei panni

di chi ci parla e saper leggere oltre il significato letterale delle sue parole; tale

competenza si dice empatica ed è importantissima per comprendere i sentimenti

dell’altro. Un buon comunicatore non può fare a meno nemmeno della capacità di

mettersi in discussione. La relazione con gli altri, infatti, ci offre mille possibilità di

valutare noi stessi, le nostre reazioni, le nostre scelte, le nostre capacità offrendoci

tantissime occasioni di migliorare noi stessi e la nostra capacità di parlare con

gli altri. E’ importante che un allenatore sia sempre consapevole di chi è e di

quanto dice e di come lo dice perché nel suo lavoro anche senza volerlo trasmette

informazioni, umori e valori che inevitabilmente condizionano chi le riceve e il

rapporto che si crea tra allenatore e atleta.

Allenare la mente

Molti atleti, sia uomini che donne, parlano di mal di pancia o di mal di stomaco

raccontando la forte emozione provata prima di una gara importante. La pancia

delle persone è la parte più legata alle sue emozioni, nella pancia, infatti, ha

sede quello che viene definito “il cervello viscerale“, plesso nervoso autonomo

del sistema neurovegerativo. Alcune di queste emozioni però, quando sono

troppo intense, possono limitare l’espressione in campo delle proprie capacità e

indebolire la performance sportiva. La paura di perdere, quella di vincere, l’ansia

da prestazione la difficoltà di mantenere lucidità e concentrazione durante la

gara sono solo alcuni degli argomenti strettamente legati alle emozioni di cui si

occupano le moderne tecniche di mental training. L’allenamento mentale è la risorsa

in più per un mondo sportivo che dalla sintesi funzionale del fisico e della mente

può trovare ampi margini di miglioramento. Il calcio femminile è una disciplina

in evoluzione che per il suo sviluppo non può prescindere dalla crescita delle

sue calciatrici, il risultato di un valido percorso di allenamento mentale non può

che essere la crescita dell’ atleta quindi delle sue competenze. L’attenzione della

psicologia dello sport non è rivolta solo sulla performance ma anche sulla salute

e sulla maturazione dell’atleta e sulla integrazione di tutte le sue caratteristiche. La

scienza che si interessa del fisico è arrivata a livelli così elevati che per andare

oltre sembra che si debba necessariamente ricorrere a stimoli illeciti, mentre non

riconosce ancora i contributi dei mezzi legali ed efficaci : la persona, la squadra e

la mente, che possiedono risorse solo da scoprire e sviluppare. Non si può dire che

lo sport non cerchi di fare qualcosa anche per la mente, ma troppo spesso chi si

improvvisa esperto applica credenze del buon senso comune o residui di proprie

esperienze emotive, e di fatto usa mezzi incompleti e superati. La rabbia richiesta

in campo agli atleti da alcuni allenatori, le lunghe concentrazioni nelle quali si

consuma energia e si accumula paura, le strigliate e l’ illusione di stimolare ulteriore

tensione quando si è già superato il punto oltre il quale si spegne il rendimento, gli

appelli all’ impegno e il richiamo ai valori e alla bandiera sono un armamentario

ingombrante e inutile e, spesso, addirittura deleterio per il rendimento e la

prestazione. Lo sport, anche e soprattutto quello femminile, è attratto giustamente

dalla ricerca del meglio ma deve ben guardarsi dall’ esasperazione che crea un’

eccitazione che ha già superato e annullato l’ optimum del rendimento, mentre la

psiche e la mente hanno regole del tutto diverse e livelli di rendimento massimo

ben definiti e non certo legati ad esagerate pressioni.

La psicologia dello sport è un’ indicazione appropriata per conciliare il fisico,

la mente ed il collettivo, e per trovare l’equilibrio ottimale: suggerisce i metodi

per ridurre la tensione negativa e per portare l’ atleta alla consapevolezza del

proprio funzionamento, alla capacità di scoprire i fattori del proprio rendimento

e a saperlo migliorare in ogni momento dello sport. La filosofia che si propone

non garantisce la vittoria e non pretende di creare risorse inesistenti, ma cerca

costantemente l’ impiego ottimale di tutte quelle capacità di cui l’ atleta dispone

che sono la sua massima risorsa. Il vantaggio di un supporto psicologico è lo

stesso sia per lo sport femminile che per quello maschile. Le esigenze variano

in funzione della disciplina praticata, dell’età e della personalità dell’atleta e

non significativamente in funzione del sesso. Ciò che può variare è il modo di

comunicare : gli uomini generalmente chiedono una metodologia più diretta ed

essenziale, le donne più spiegazioni sul percorso che si compie passo dopo passo.

La capacità di essere concentrati

La capacità degli atleti di

essere concentrati durante la

gara appartiene a quello che

si definisce lo stile attentivo,

cioè l’insieme delle capacità di

attenzione della persona. Si può

dire che in parte questo stile sia

personale e innato e che in parte

possa essere appreso e migliorato.

La capacità di stare attenti

quindi è un po’ come le impronte

digitali, che sono individuali ed

appartengono al nostro patrimonio

genetico, e un po’ come le

potenzialità dei nostri muscoli

che possono crescere attraverso

l’allenamento.

Non tutti gli sports sono uguali nei termini delle capacità attentive richieste, per

esempio nel calcio è necessaria la capacità di giocare tenendo d’occhio molte

cose contemporaneamente : il pallone, il movimento della squadra avversaria, il

movimento della propria squadra, il movimento del diretto avversario, ecc; per

tali motivi alla giocatrice di calcio è richiesta una attenzione ampia ( cioè capace

di considerare più cose contemporaneamente ) e prevalentemente esterna ( cioè

maggiormente focalizzata su ciò che succede all’esterno di sé piuttosto che sul

flusso dei propri pensieri ). Le cose cambiano molto, per esempio, per una tiratrice

con l’arco che avrà bisogno di una grande capacità di stringere il focus della sua

attenzione sul bersaglio ( attenzione stretta ) unito alla capacità di tenere sempre

sotto controllo anche i suoi minimi cambiamenti interni o irrigidimenti muscolari (

attenzione interna ) che potrebbero determinare un errore nel tiro della freccia. E’

per queste differenze che gli sport come il calcio sono detti sport di situazione o

discipline aperte, sport nei quali tutto può variare continuamente nei cambi di gioco

e nelle circostanze imprevedibili della gara e nei quali l’attenzione aiuta l’atleta ad

essere pronto a leggere le situazioni, ad anticipare gli eventi. La calciatrice deve

riuscire ad applicare la tattica scelta dal mister pur dovendo spesso gestire le

emergenze di gioco trovando al momento soluzioni adeguate.

Gli altri sport, quelli come il tiro con l’arco di cui si parlava prima, sono detti sport

di precisione o discipline chiuse, perché l’obiettivo è ripetere sempre lo stesso

gesto tecnico con sempre maggiore precisione per tutta la gara supportati da una

capacità di concentrazione predisposta a permettere all’atleta di rimanere per tutta

la durata della gara sulla pedana, a mirare ad ogni tiro il bersaglio, calibrando

ogni minima variazione interna per raggiungere la perfezione.

Naturalmente si nasce con un proprio stile attentivo orientato maggiormente in

una direzione piuttosto che in un’altra e l’attenzione si muove su due dimensioni :

l’ampiezza che può essere ampia o stretta e la direzione che può essere rivolta

verso l’ambiente esterno o verso di sé. Abbiamo detto che l’attenzione richiesta

giocando a calcio è prevalentemente ampia ed esterna ma occorre dire che ci

sono alcune eccezioni, per esempio, nei momenti in cui è richiesta all’atleta che

sta calciando di precisione una elevata attenzione ai suoi movimenti fini, il focus

dell’attenzione si stringe ed è importante che lo faccia in maniera rapida ed

efficace. In ogni fase della gara, quindi, la calciatrice rivolge la sua attenzione su

qualcosa ed è importante che sappia allenarsi, così come si allena nella tecnica

e nella tattica, a dirigerne correttamente il focus allargandolo e stringendolo a

seconda delle circostanze stando bene attenta a non sprecare risorse inutili perché

anche l’attenzione, così come l’energia, è una risorsa limitata che se dilapidata

durante la gara può esaurirsi.

Potremmo paragonare l’attenzione ad un faro che durante la gara dovrebbe

illuminare solo ciò che è importante per l’atleta che seleziona gli stimoli escludendo

quelli che non sono rilevanti.

La cosa non è facile, soprattutto perché spesso intervengono stimoli interni

disturbatori, per lo più pensieri negativi, che fanno perdere concentrazione e

energie nervose importanti dirigendo l’attenzione fuori dallo svolgimento della gara.

E’ possibile allenare la concentrazione. Lo si può fare, per esempio, migliorando il

rendimento in allenamento, realizzando delle simulazioni di gara e se non basta

ricorrendo al supporto della psicologia applicata allo sport che alla ottimizzazione

dello stile attentivo ha dedicato moltissimi studi e pratiche di allenamento che

approfondiremo successivamente.

La preparazione mentale e la preparazione al campionato ( il ritiro )

Il poco tempo a disposizione degli allenatori di calcio femminile durante gli

allenamenti è spesso uno dei limiti alla ricerca di una preparazione mentale più

accurata delle atlete. Spesso anche i “mister” che si rendono conto dell’importanza

del fattore psicologico non riescono a coltivarlo come vorrebbero per la necessità

di destinare il tempo all’allenamento tecnico-tattico ed atletico. Quale miglior

occasione, allora, della preparazione estiva e del ritiro precampionato, quindi di più

tempo a disposizione senza l’assillo della partita imminente, per approfondire tali

temi?

Le teorie e, soprattutto, gli esercizi tratti dalla scuola di pensiero Bioenergetica

possono essere utilissimi in tal senso. La centralità del corpo nella Bioenergetica

rende questa arte terapeutica, che ha in Alexander Lowen il suo maggiore

teorizzatore, estremamente adeguata alla pratica sportiva che ha proprio il corpo

come strumento centrale. La bioenergetica può trovare applicazione nello sport e

nella preparazione mentale principalmente a due livelli:

1. L’atleta, attraverso gli esercizi, impara ad accrescere la propria consapevolezza

corporea e, progressivamente, a modulare meglio la sua vitalità, le sue emozioni, i

suoi movimenti quindi le sue performance;

2. L’atleta, attraverso gli esercizi e la respirazione, impara a sentire e scaricare

le tensioni, facilitando l’attivazione pre-gara diretta al raggiungimento dello stato

ottimale.

L’importanza data all’energia che fluisce in ognuno di noi è il cuore delle teorie

bioenergetiche. Lo sport è una delle situazioni che appartengono alla vita dove

maggiore è l’apporto necessario di energia, movimento e vitalità. Tutte le tecniche

e gli esercizi sono mirati a sbloccare le tensioni e a permettere che la persona

recuperi il libero accesso alle proprie emozioni e tutta la propria forza.

La preparazione mentale dello sportivo non è psicoterapia ma può avvalersi

efficacemente degli esercizi di respirazione bioenergetica, che, laddove lo psicologo

sportivo ne sappia vedere e rispettare i limiti, possono essere presentati anche

come coinvolgenti esercizi per tutto il gruppo. Parlando di sport di gruppo, infatti,

perché una squadra si possa definire tale, non basta che sia un insieme di persone

regolate da regole uguali e mosse verso uguali obiettivi, è indispensabile che sia

presente un flusso di energia tra tutti i componenti. Che si chiami affiatamento o

coesione o spirito di squadra non è importante: di fatto, è energia che circola tra gli

atleti che giocano insieme ed è il vero e proprio valore aggiunto di una squadra.

Data l’immensa valenza e la grande applicabilità ai contesti sportivi della

Bioenergetica, questa trattazione, per motivi di spazio, non può che essere

superficiale. Questo breve articolo non si pone l’obiettivo di essere esauriente, e il

suo valore è l’invito all’approfondimento della materia rivolto a chi vuole fare della

psicologia sportiva il proprio arricchimento.

La creatività nello sport

Quante volte si sente parlare di creatività? Quanto spesso sui media si loda la

fantasia di un atleta? Cosa succede quando la creatività incontra lo sport? Da

questa speciale alchimia si può tirar fuori molto: l’importante è saper incanalare nel

modo giusto le potenzialità di un atleta creativo. La creatività non è riconducibile

ad un sesso in particolare perciò è possibile trovare atleti creativi sia tra uomini

che tra le donne.

La creatività descrive la capacità

di evadere dagli schemi comuni,

di crearne di nuovi e di generare

soluzioni originali e più funzionali

alla vittoria. Spesso tale capacità di

reinterpretare la tecnica di uno sport,

inventando giocate che danno luce

agli schemi è croce e delizia degli

allenatori. Non sempre è facile gestire

il giocatore o la giocatrice talentuosa

e creativa soprattutto negli sport di

gruppo.

Nello sport, come nella vita di tutti i giorni, questa particolare risorsa va allenata e

favorita sia in campo che fuori. Per farlo è necessario rendere flessibile la propria

mentalità, rivedere tutti gli schemi ormai consolidati e creare un nuovo approccio

alla gara e alla vita che parta dal presupposto che le qualità ed espressioni

strettamente individuali come il talento non possono essere insegnate o trasferite e,

meno ancora, ordinate o imposte, ma solo favorite, creando le condizioni di libertà

espressiva necessarie perché esse possano manifestarsi.

L’allenatore può favorire l’ingegno creativo creando le condizioni perché esso si

eserciti confrontandosi con compiti difficoltosi ma non impossibili e stimolandolo a

produrre idee e soluzioni originali e innovative. Tutti gli atleti e le atlete, ognuno a

suo modo, hanno qualità, talenti, motivazioni e mezzi personali che per raggiungere

la massima espressione vanno trattati anche in maniera specifica e individuale.

L’insegnamento e le richieste uguali per tutti, quindi, raggiungono le qualità comuni

e generiche, ma non quelle del singolo, e in particolare del talento. Di conseguenza

è importante per lo sviluppo della creatività che l’allenatore sappia aggiornare

continuamente i propri presupposti e interventi anche sulla base delle personalità

degli atleti che allena.

La creatività però non è sempre una ricchezza facile: è qualcosa che va oltre la

razionalità, oltre le norme, oltre le raccomandazioni; spesso è incomprensibile e se

non è ben gestita può generare tensioni e fratture nel gruppo-squadra.

Come si può amministrare dunque questa enorme risorsa? L’atleta creativo può

essere vivace, estroso e un po’ sopra le righe: il pugno di ferro non funziona

spesso, tantomeno in questi casi. E’ necessario lasciare la sua creatività libera di

esprimersi, arginandola quando è necessario e valorizzandola se si intravedono

delle ottime intuizioni. E’ importante, però, che le regole di comportamento vengano

sempre rispettate da tutti, quando si supera il limite è importante correggere e

contenere le inversioni di rotta, sostenendo però sempre e comunque gli apporti

che l’atleta può dare al gruppo. Anche per ciò che riguarda l’atleta donna è

importante non reprimere il suo talento, stare attenti a non ignorarlo perché ciò

potrebbe ferirla, pur mantenendo sempre anche lei all’interno delle regole del

gruppo. E’ importante anche non eccedere nel verso opposto pretendendo troppo

da lei caricandola di responsabilità da gestire da sola : nello sport di squadra è

sempre il gruppo che vince!

Sia per l’atleta maschio che per l’atleta femmina, vedersi apprezzato e sentirsi utile

alla squadra per il proprio apporto creativo spinge il talento a dare il meglio di sé,

in un’atmosfera di collaborazione e riconoscimento reciproco.

Donne, uomini e sport

Le differenze tra uomini e donne nello sport, per quanto riguarda l’approccio alla

gara, la gestione delle emozioni, le dinamiche di gruppo ecc., sono uno dei temi

più complessi e interessanti della psicologia applicata allo sport. E’ indubbio che

gli elementi che differenziano gli uomini dalle donne nel comportamento sportivo ci

siano eccome, e sono riscontrabili tanto a livello fisiologico che a quello psicologico

che a quello sociale; noi le prenderemo in considerazione cercando di non cadere

nei diffusi luoghi comuni senza alcun fondamento scientifico e senza generalizzare

perché sappiamo che al di là di ogni dato oggettivo, ogni persona, uomo o

donna che sia è un universo a sé stante che agisce e reagisce anche seguendo

regole personali. Il nostro discorso sarà puntato, occupandoci di calcio femminile,

principalmente sull’atleta donna con le sue peculiarità rispetto all’universo maschile.

E’ importante, però, prima di parlare delle differenze tra sportivi e sportive,

sottolineare che le atlete di èlite di regola presentano delle differenze anche dalle

atlete di basso e medio livello avendo sviluppato caratteristiche di personalità più

solide rispetto alle colleghe meno brave, essendosi già misurate con i propri limiti,

anche di genere, ed avendoli spesso in qualche modo superati.

Le argomentazioni che ho scelto per trattare il tema delle differenze nello sport

tra atleti maschi e atlete femmine sono solo alcune delle infinite variabili che

si sarebbero potute considerare, ma rappresentano un primo passo per offrire

alcuni spunti di riflessione alle atlete e soprattutto agli allenatori del settore

femminile. Partendo dai fattori fisiologici che differenziano uomo e donna può

essere interessante considerare che le femmine, a livello cerebrale, hanno una

specializzazione emisferica meno netta dei maschi che determina delle differenze

nel modo in cui queste percepiscono gli stimoli. Riportato nella pratica sportiva ciò

significa che tendenzialmente le donne hanno una visione globale più ampia degli

uomini, perifericamente, cioè, vedono più cose e ciò, se da una parte può fornire

una visione più completa ed un maggiore controllo della situazione, dall’altra offre

più fonti di distrazione con tutto ciò che ne consegue. Altro fattore fisiologico di

grande portata è il ciclo mestruale. Come è noto, alcune fasi del ciclo mestruale

si accompagnano ad una momentanea variazione dell’equilibrio ormonale che può

causare una instabilità emotiva maggiore o variazioni del tono dell’umore. Anche

l’ansia pre-gara o la risposta dell’atleta donna allo stress della competizione può

essere amplificata dal passaggio dell’atleta in questa determinata fase ormonale.

Negli sport di situazione come il calcio, in cui la componente della competitività

può essere determinante, una aggressività fisica meno elevata dovuta alla

situazione ormonale di questa particolare fase del ciclo può comportare un calo

nel rendimento nell’allenamento o nella gara. Conoscere a fondo il ruolo e l’impatto

sulla prestazione sportiva del proprio ciclo mestruale può essere molto utile

all’atleta per gestire quella fase senza che diventi un problema ed acquisisca dei

risvolti negativi anche dal punto di vista psicologico. Non sempre, infatti, è facile

distinguere la componente fisiologica da quella psicologica e da quella sociale che

pure si presentano con delle precise caratteristiche se si parla di atlete donna. Tali

caratteristiche psicologiche che contraddistinguono la donna sportiva, così come

il contesto socio-culturale dello sport femminile, saranno argomento del prossimo

articolo.

Lo sport al femminile

L’argomento delle differenze tra uomo e donna nella pratica sportiva è molto

complesso e lo è anche perché è difficile scindere la componente fisiologica, di cui

abbiamo parlato nel precedente numero, da quella psicologica e sociale o culturale.

Questi livelli si intrecciano condizionandosi a vicenda e producendo un quadro

difficile che però non deve, a mio avviso, preoccupare l’allenatore perchè l’atleta,

sia uomo che donna, è pur sempre una persona che va conosciuta ed allenata

principalmente in quanto tale. Ciò nonostante ci sono delle condizioni che riguardano

lo sport femminile su cui è bene riflettere per aumentare la consapevolezza

e rendere il proprio intervento più efficace. Lo sport è tradizionalmente un

territorio di dominio maschile anche se negli ultimi anni si sono verificati notevoli

cambiamenti che hanno condotto ad una sempre più massiccia presenza femminile

ed a risultati incoraggianti anche in discipline un tempo considerate prettamente

maschili come la boxe, il calcio, il rugby, il ciclismo agonistico ecc. La donna

adesso può accedere a tutte le discipline sportive. Sicuramente ciò è vero per

le attività ricreative e di fitness, ma lo è altrettanto per lo sport professionistico?

La verità è che ancora oggi la stampa offre più spazio allo sport maschile, che

i giornalisti sportivi sono prevalentemente uomini e lo sport femminile balza agli

onori della cronaca esclusivamente in seguito a vittorie straordinarie. A tutt’oggi

le atlete italiane sono ancora discriminate sul piano economico rispetto ai colleghi

tanto che il 77% di quelle che praticano attività sportiva a livello agonistico non

raggiungono l’indipendenza economica. Molte di loro, di conseguenza, considerano lo

sport come un’esperienza transitoria nella propria vita e non come una possibilità

professionale. Nello sport comunque è certo che i modelli e riferimenti prevalenti

sono quelli maschili e questo sembra avere un peso nella costruzione dell’identità

sportiva femminile, soprattutto per ciò che riguarda l’autostima. Le stesse donne che

praticano sport il più delle volte scelgono di ispirarsi a colleghi maschi. Misurarsi

con modelli tipicamente maschili comporta che la donna atleta ha spesso una

fiducia in se stessa più bassa e ciò produce una tendenza, riscontrata da molte

ricerche in ambito di sport femminile, a sopravvalutare le critiche, a tentare meno

soluzioni creative in gara impoverendo il proprio bagaglio tecnico, a considerare

il successo come dovuto più a circostanze favorevoli che alle proprie abilità e a

dipendere maggiormente dall’allenatore.

Per concludere questa breve discussione

sulle problematiche del rapporto tra

donna e sport si può dire che la

scarsa visibilità ed il difficile accesso

al professionismo delle donne atlete ne

scoraggino l’imitazione, favorendo

invece l’identificazione e l’ammirazione

per gli atleti maschi consolidando il

parziale vuoto di modelli femminili

nello sport. La speranza è che questo

stato di cose acceleri il suo cambiamento nella direzione della creazione di icone

sportive più pertinenti alle caratteristiche, alle competenze ed alle motivazioni

agonistiche della donne. Le donne sportive, per esempio, hanno una elevato senso

di responsabilità individuale, una maggior tendenza verso la collaborazione e

la cooperazione, una disposizione naturale verso la creazione di più forti legami

affettivi e molte altre caratteristiche, che dovrebbero essere meglio valorizzate

nelle metodologie di allenamento e di preparazione alla gare concorrendo a creare

nuovi modelli di sport a misura di donna con cui le giovani atlete si possano

confrontare.

Resistere alle difficoltà nello sport

Il Centro Regionale di Psicologia dello Sport, l’associazione culturale-sportiva di cui

mi occupo, ha organizzato lo scorso Novembre un fine settimana per parlare di

sport. L’obiettivo è stato quello di approfondire l’idea di uno sport diverso, capace

di rendere benefici tanto ai bambini e alle bambine che vi si avvicinano quanto

agli sportivi ed alle sportive che lo praticano a livello agonistico. L’attenzione

della due giorni è stata puntata su un aspetto in particolare e cioè sulla resilienza,

parola antica ma dal recente utilizzo che indica la capacità umana di resistere

alle difficoltà della vita. Ho pensato di dedicare l’articolo di questo mese a questo

argomento perché a mio avviso anche il calcio femminile presenta problematiche

importanti che pongono la calciatrice davanti a tanti ostacoli da superare. Il

termine “resilienza” in origine proveniva dalla metallurgia: indicava, nella tecnologia

metallurgica, la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono

applicate. Per un metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità.

Così anche in campo psicologico e sportivo la persona resiliente è l’opposto di

una facilmente vulnerabile. Etimologicamente il termine “resilienza” viene fatto

derivare dal verbo latino “resalio”. Qualcuno propone un collegamento suggestivo

tra il significato originario di “resalio”, che raccontava anche il gesto di risalire

sull’imbarcazione capovolta dalla forza del mare, e l’attuale utilizzo in campo

psicologico: entrambi i termini indicano l’atteggiamento di andare avanti senza

arrendersi, nonostante le difficoltà. Il tema che è stato sviluppato nella due giorni

di studi svolta a Novembre è stato di quelli davvero importanti e cioè : quale ruolo

possono ricoprire gli allenatori, gli istruttori, i dirigenti ed i genitori se si tratta di

sport giovanile nel creare un sistema sportivo in grado di portare la persona allo

sviluppo pieno di tutte le sue facoltà umane, in primis quella di saper sopravvivere

alle difficoltà rendendole presupposto di crescita? Lo sport di per se non è un

valore, ma lo può diventare quando chi se ne occupa lavora per creare un

ambiente dove si possa crescere come persone e come sportivi. Il calcio femminile

non dovrebbe perdere l’occasione di basare la propria evoluzione su tali principi,

affidandosi a persone competenti e capaci di promuovere assieme alla pratica

sportiva lo sviluppo di un’etica e di una professionalità tesa allo sviluppo delle

persone prima che delle atlete. In questo senso la capacità di resilienza si colloca

in un ruolo centrale, essa consente di non indietreggiare di fronte alle difficoltà, di

non perdere la speranza, di apprendere dalle cose andate male, di rialzarsi dopo le

sconfitte. Possiamo sintetizzare il concetto dicendo che senza la resilienza la nostra

specie non sarebbe sopravvissuta. Molte squadre di calcio femminile, come molte

società di sport minori, a causa dei pochi mezzi a disposizione spesso hanno vissuto

grandi difficoltà, perciò, in generale, non si può dire che il calcio femminile non

sia resiliente essendo riuscito comunque a sopravvivere. Spesso, però, facendo un

passo avanti, nelle difficoltà, la salvezza sta nella capacità di guardare alla realtà

in modo diverso, di vedere vie d’uscita dove non ce ne sono, di fare in modo che

giungano eventi che ancora non hanno preso luce. Il mondo dello sport estremizza

la necessità di resilienza e la resilienza può essere appresa e migliorata. Citando

Trabucchi, uno dei maggiori esperti italiani di resilienza nello sport: “ il fisico, anche

se allenato, declina. Ma la forza mentale può continuare a crescere sino all’ultimo.

Anzi, è proprio di fronte alla prospettiva del declino che si misura la resilienza di

ciascuno”.

Come parli con te stessa durante lo sport?

Dalla risposta a questa domanda che potrebbe sembrare strana dipende la qualità

del rendimento della maggior parte degli atleti e delle atlete.

Ogni persona, infatti, interpreta continuamente ciò che vede e che vive e dalla sua

interpretazione della realtà scaturiscono emozioni che possono influenzare le sue

scelte ed i suoi gesti in una direzione piuttosto che in un’altra, anche nello sport.

Gran parte di tali pensieri, fantasie, immagini, ragionamenti, decisioni, opinioni

ecc., in campo e fuori dal campo, prende forma attraverso il monologo interiore,

il colloquio con se stessi. Ciò significa che l’interpretazione delle cose avvenute

in gare passate e l’autovalutazione del proprio valore basata sull’esperienza

determinano fortemente l’ autostima dell’atleta e, di conseguenza, il suo agire, le sue

motivazioni ed il suo rendimento.

Un atleta che ha l’abitudine a parlarsi in maniera negativa rischia di non mettersi

mai nella giusta condizione di esprimere il suo potenziale per paura di esporsi

ad una delusione o perché il cervello è troppo impegnato a pensare e a parlarsi,

mentre la gara si svolge e richiederebbe tutta la sua attenzione.

Tutto ciò è ancora più vero se si tratta di atlete donne perché la donna ha già

di per sé una più spiccata predisposizione al monologo interiore. Apprendere un

corretto modo di parlare a se stessi è fondamentale per l’atleta a non perdere

lucidità ed efficienza anche durante quella tempesta emozionale che può essere

una gara importante.

La capacità di leggere la realtà e di gestire il colloquio con se stessi, così come la

capacità di concentrarsi sul compito senza lasciarsi condizionare dalle situazioni,

può essere innata. Nei casi contrari, peraltro molto comuni, dove un atleta è limitato

dai suoi pensieri e dall’immagine che ha di sé, il monologo interiore e la capacità

di ricreare nella mente immagini positive che sostituiscano le precedenti e spingano

verso il meglio, possono e devono essere migliorati.

La psicologia sportiva ha dedicato molti studi al monologo interiore in campo, in

particolare a quello che si chiama il “rimuginio”, cioè la tendenza comune a molte

persone di parlare a se stesse soprattutto nei momenti di ansia o sotto stress.

Per ciò che ci interessa è importante che l’atleta impari a modificare il suo dialogo

con se stesso in maniera che esso aiuti a fare predizioni e creare aspettative reali

e positive basate su cosa effettivamente può accadere, piuttosto che generare

predizioni che valutino la possibilità che stia avvenendo una catastrofe.

La sportiva che è abituata a parlare molto con se stessa che sta leggendo questo

articolo si ritroverà in queste parole : il rimuginio si automantiene e si auto rinforza,

più rimugino e più andrò a rimuginare.

Questo risulta evidente se si immagina, per esempio, che una calciatrice che

ha paura di sbagliare sarà tanto impegnata a dirsi e ridirsi questa paura che

provocherà un eccesso di tensione nei muscoli delle gambe, e creerà un forte

elemento di distrazione dal compito tale, probabilmente, da indurla a sbagliare

anche il più semplice degli stop e attribuire, poi, l’errore non alle cause vere e

oggettive ma a se stessa e alla sua negligenza.

Alla base di situazioni simili c’è spesso anche una cattiva interpretazione

dell’ambiente, che porta ad apprendere sempre nella direzione di ciò che già si

pensa.

Per migliorare le capacità di esprimersi di un atleta affetto da monologo interiore

negativo, dobbiamo identificare prima possibile la traccia del suo problema e

aiutarlo/a a scegliere una nuova risposta.

Sai prepararti alla gara?

Prendo spunto da una domanda di una lettrice/calciatrice per ritornare su un tema

molto interessante : la concentrazione.

E’ bene premettere che una buona prestazione sportiva si verifica quando l’ atleta

è in una zona di energia ottimale, caratterizzata dall’attenzione rivolta totalmente al

compito, cioè all’ esecuzione del gesto. Il flow, cioè il momento perfetto di energia

dell’atleta in gara, si verifica solo quando l’attenzione è focalizzata totalmente sugli

aspetti salienti dell’azione.

I pensieri negativi e altre forme di distrazione disturbano l’esecuzione.

Distinguere i giusti stimoli ai quali l’atleta deve prestare attenzione da quelli

irrilevanti per l’atleta in gara è un’abilità essenziale. Che una calciatrice sia capace

di prendere la palla da un’ altra giocatrice, di guardare lo sviluppo del gioco, di

vedere le avversarie e anticiparne i movimenti, di tenere la palla protetta e fare

tutte le manovre giuste per andare in porta, è un esempio straordinario di abilità di

selezione attentiva.

Come imparano gli atleti a fare ciò? Quasi sempre per prove ed errori; attraverso

innumerevoli ripetizioni le decisioni sono prese molto più velocemente da quel

super computer che è il nostro cervello, ma ci vogliono anni per programmare

questo super computer attraverso tentativi e sbagli. Quando l’attenzione è focalizzata

sull’attività e l’energia psichica positiva è alta, gli atleti, talvolta, riferiscono di avere

sperimentato stati di coscienza alterati: il tempo sembra rallentare o fermarsi, i

movimenti sembrano visti al rallentatore e l’atleta ha un senso di onnipotenza.

Stiamo parlando della “partita magica” o del “ momento magico” all’interno di una

partita. Questa sensazione particolare si sperimenta durante la cosiddetta “trance

agonistica” che spesso corrisponde con il flow, il momento di grazia.

Sperimentare il flow può avvenire in due modi. Il modo più frequente è quando il

compito richiede l’attenzione dell’atleta, come negli sport ad alto rischio, nei quali la

mente sembra sapere che la mancanza di attenzione può essere fatale. Il secondo

modo è quando gli atleti controllano il processo attentivo così bene da poter

indirizzare la loro energia mentale totalmente al compito.

Per aiutare questo processo e fare in modo che la concentrazione si rivolga

esclusivamente sull’azione e sul suo sviluppo è necessario che l’atleta sia lucido è

tale lucidità è collegata in buona misura allo stato di attivazione.

L’ attivazione è una funzione del sistema nervoso che modula l’utilizzo delle risorse

energetiche dell’organismo e, di conseguenza, la sua capacità di svolgere le azioni.

Nello sport lo stato di stress si caratterizza come situazione di attivazione eccessiva,

e si verifica di solito quando gli atleti intuiscono che la sfida che li attende può

andare oltre ciò essi sentono di essere capaci di fare. Lo stress è una risposta

di adattamento che in molti casi ci aiuta ad essere pronti ma uno stato attivato

troppo prolungato e/o eccessivo porta come naturale conseguenza ad una fase

di esaurimento o scompenso, spesso associato ad una condizione di sofferenza

dell’organismo o delle psiche.

Molti atleti sostengono che, nel loro caso, a situazioni di stress determinate e limitate

nel tempo, corrispondono le prestazioni migliori. Alcune persone, infatti, più sono

attivate e più riescono ad esprimere il loro potenziale.

Altri sostengono il contrario, cioè di riuscire nel compito solo se calmi e rilassati.

Ogni atleta dovrebbe capire a quale grado di attivazione corrispondono i propri

massimi livelli di lucidità e prestazione e fare in modo di presentarsi alla gara nelle

giuste condizioni.

Esistono diverse tecniche di allenamento mentale che, grazie ad esercizi di

respirazione e non solo, riescono ad intervenire sulla modulazione della propria

attivazione da parte dell’atleta. La psicologia sportiva offre molto spunti pratici per

conoscersi ed imparare a presentarsi alla partita nel migliore dei modi e rendere

la magia del pre-gara sempre più funzionale alla migliore espressione delle proprie

capacità.

Cosa fai prima della gara?

La preparazione di un momento cruciale, come può essere una partita da

giocare o una performance sportiva da eseguire, si compone di una miriade

di emozioni ad intensità variabile e spesso a prevalere sono l’ansia di fare del

proprio meglio, la paura di non farcela, la voglia di vincere un po’ per sentirsi

personalmente appagati e un po’ per trasmettere soddisfazione a coloro che ci

seguono. E’ interessante osservare che ciò capita anche in discipline come il calcio

femminile laddove il pubblico è poco e la visibilità è purtroppo ancora ridotta.

Abbiamo già parlato, in precedenti articoli e parleremo ancora di ‘come’, ‘quando’

e ‘perché’ si producono nel pre-gara precise conseguenze sul piano emotivo, ma

ciò che ci interessa adesso è sottolineare che gli attimi precedenti una prestazione

hanno la forza di rivelarsi assolutamente decisivi per un atleta. Avere un piano

predeterminato pronto, cioè avere una serie di comportamenti che si ripetono ogni

sabato o domenica dalla mattina all’attimo prima della gara consente, infatti, di

attivare una routine familiare e di concentrarsi meglio sulla prestazione. Un piano

pre-gara consiste, molto semplicemente, nel costruire una sequenza di azioni abituali

che preparano l’atleta e aumentano la sua prontezza; è ovvio che, nella maggior

parte dei casi, se la routine viene stravolta, se viene lasciato troppo tempo libero

di cui disporre, senza neanche prevedere delle strategie alternative in caso di

imprevisti, è più probabile che il programma perda la sua connaturata efficacia

e l’atleta ne rimanga disorientato. Il rituale, in particolare, è una commistione di

comportamenti ritenuti funzionali alla buona performance ( mangiare determinati

alimenti, ascoltare un certo tipo di musica, scaldarsi con una certa intensità, ecc.

) e di superstizione ( indossare alcuni indumenti, sedersi in un determinato posto,

compiere determinati gesti, ecc. ) e costituisce una forma del tutto specifica di

comportamento pre-gara, che rimane costante, conferendo all’atleta uno spiccato

senso di controllo. La superstizione, d’altro canto, è la credenza stabile che un certo

modo di agire possa produrre un risultato prefisso ed è la ragione per cui, se in

passato un determinato procedimento è stato associato ad una buona prestazione

o ad una vittoria, le azioni relative a quel procedimento verranno costantemente

intraprese nel medesimo modo. In questi termini, il rituale diventa la sequenza (o il

singolo comportamento) che viene eseguita per soddisfare la superstizione; così, se

ad un rituale fa seguito una prestazione ottimale, la superstizione viene convalidata

e la probabilità che l’atleta si comporti allo stesso modo nel futuro aumenta.

Talvolta, il rituale può addirittura consolidarsi dopo una prestazione scadente,

perché alcuni atleti finiscono per attribuire quest’ultima ad un’esecuzione imperfetta

del rituale e così lo rendono sempre più accurato. I rituali, al pari dei piani pre-

gara, possono essere i più disparati e, in definitiva, vengono interpretati come facili

espedienti per fronteggiare l’incertezza. È importante ricordare alle nostre lettrici

che l’atleta evoluta è quella capace di fronteggiare l’incertezza e assumere sani

comportamenti prima, durante e dopo una gara, con l’obiettivo stabile di ottenere

quello che vuole, compreso il successo, garantendo sempre a se stessa e alle

compagne un assoluto benessere. Con quest’ ultimo concetto vorrei stimolare tutte

le atlete che leggono questo articolo a dare si il giusto spazio alla scaramanzia,

che a volte può essere anche utile per tranquillizzarci, ma senza esagerare. E’

importante infatti identificare i comportamenti funzionali alla massima espressione

sportiva, alla corretta attivazione prima della gara ottimizzandoli ed imparando ad

attribuire le prestazioni a fattori controllabili e dipendenti solo dall’impegno e dalle

scelte dall’atleta stessa che è la principale artefice delle proprie fortune sportive.

La scaramanzia del pre-gara non deve mai sostituire la fiducia in se stessa

dell’atleta matura e consapevole che vive la magia dello scendere in campo come

il verificarsi di una nuova opportunità di mettere il gioco i propri miglioramenti e la

propria voglia di vincere.

Che musica ascolti?

Mi capita molto spesso di vedere, girando i campi sportivi, atleti ed atlete che

ascoltano musica prima e dopo allenamenti e partite e in alcuni sport, tipo la

corsa o il nuoto, anche durante il training quotidiano. Ognuno ha il suo cantante

preferito o il genere che gli piace ascoltare di più in abbinamento alla pratica

sportiva ma viene da domandarsi se questa scelta musicale sia dovuta solo ai

gusti della persona o se venga effettuata anche consapevolmente sulla base di

altri parametri e con precise finalità. Sono sicura che tutte le atlete che stanno

leggendo questo articolo sappiano bene che canzone ascoltare prima della partita

quando sono un po’ agitate perché la gara è importante e vogliono tranquillizzarsi,

quando cercano la giusta concentrazione o quando hanno bisogno di una bella

carica! Anche la musica può rientrare nella strategia messa in atto dall’atleta

per prepararsi bene alla gara. Particolare e interessante, l’argomento nell’ultimo

decennio è stato oggetto di molte ricerche scientifiche. Secondo Karageorghis ed i

suoi recenti studi, gli atleti che sono soliti ascoltare musica prima della gara sono

legatissimi a questa loro abitudine e questo anche per i benefici oggettivi che ne

ricavano : la musica è in grado di regolare l’attivazione emotiva e fisiologica e

favorire uno stato positivo dell’umore. Sempre Karageorghis ha dimostrato che

l’uso della musica prima della competizione riesce a stimolare l’atleta o a rilassarlo,

riducendo la percezione dell’ansia. Sperimentandole personalmente, moltissimi atleti

ed atlete hanno compreso le potenzialità di alcune canzoni sulla propria attivazione

ed il proprio umore, mantenendo l’abitudine di ascoltarle prima della partita o

dell’allenamento. Il potere della musica non finisce qui perché, se l’atleta compie

la prestazione sportiva durante l’ascolto, il suo impatto è tale da consentirgli/le

di sentire meno la fatica, di aumentare la resistenza allo sforzo e di raggiungere

più facilmente lo stato di grazia. Nel caso specifico del calcio dove, è ovvio, non

è possibile ascoltare musica durante la competizione, l’utilizzo principale della

musica riguarda il pre-gara, ed è un utilizzo importante perché testimonianze e

studi ci suggeriscono che la scelta della musica può rappresentare una vera e

propria strategia per rendere l’atleta pronto a giocare meglio. Al di là dei gusti

musicali e delle differenza soggettive che comunque esistono ma che non sembrano

riguardare il sesso dell’atleta, canzoni veloci e dal ritmo incalzante possono essere

usate per facilitare uno stato psicologico di alta attivazione mentre una musica più

lenta e soft è realmente utile per facilitare una condizione di calma e tranquillità.

Sarebbe interessante studiare le scelte musicali delle calciatrici nel pre-gara per

sapere se le maggiori preferenze vanno alla musica veloce ed attivante o a quella

lenta e rilassante. Interessantissime ed assai efficaci sono anche le immagini e le

emozioni che una musica è in grado di evocare e che spesso gli atleti e le atlete

adoperano per ritrovare la giusta motivazione…e di questo sembrano essersene

accorti anche allenatori e dirigenti che sempre più spesso usano la musica per

coinvolgere maggiormente gli atleti durante allenamenti e partite. Ultimamente

Galliani, il primo dirigente del Milan, durante l’intervallo di una gara di campionato

in cui la sua squadra stava subendo gli avversari, ha fatto ascoltare a tutti negli

spogliatoi la musichetta colonna sonora della Champions League, competizione nella

quale il Milan si esprimeva con maggiori motivazioni, ed ha spiegato questa scelta

dicendo : “ la Champions League e il campionato sono due competizioni diverse

con avversari molto diversi ma l’importante per noi è mantenere sempre lo stesso

approccio e la stessa concentrazione…”

Bibliografia

“La pancia degli atleti” – Barbara Rossi - Edizioni Nuova Prhomos – Citta di Castello

- 1997

“Il mental coaching nello sport di alto livello” – Albero Cei – SDS n. 87 – Edizioni

Calzetti e Mariucci – Ottobre 2010

“La magia del pre–gara” – Margherita Sassi – Absolute Sport Magazine n.4 –

Edizioni Nautilus – Agosto 2010

“La donna atleta e l’interazione con l’allenatore” – Bruna Rossi – SDS n. 84 – Edizioni

Calzetti e Mariucci – Gennaio 2010

“Gli stati dell’umore e la carriera sportiva“ – Barbara Rossi – GIPS n.8 – Edizioni

Calzetti e Mariucci – Agosto 2010

“ Il training autogeno non è magia “ – G. Calderaro – Edizioni Spada - 1979

Psicopatologie femminili nello sport e differenze di genere “ – A.Parroni, M. Corazzi,

L. Corazza – GIPS n.1 – Edizioni Calzetti e Mariucci – Gennaio 2008

“ Musica “ – Trainer’s digest - SDS n. 87 – Edizioni Calzetti e Mariucci – Ottobre 2010

“ L’orientamento dell’attenzione nei calciatori “ – Nicola Tullo – GIPS n. 9 – Edizioni

Calzetti e Mariucci – Settembre 2010

“ Resisto dunque sono “ – Pietro Trabucchi – Edizioni Corbaccio - 2007

“ Intelligenza emotiva “ – Daniel Goleman – Edizioni Rizzoli - 1999

“ La psicologia dello sport in 400 domande e risposte “ – Vincenzo Prunelli – Edizioni

Calzetti e Mariucci – 1998

“ Le domande dei genitori “ – V. Prunelli – Società Editrice Internazionale – 2002

“ Sport e agonismo “ – V. Prunelli – Edizioni Franco Angeli - 2002

“ Il maestro di sport ” – B. Rossi, F. Marziali – Edizioni Calzetti e Mariucci - 2009