domenica 4 settembre 2016numero 599 cult - la...

14
DI REPUBBLICA DOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 NUMERO 599 SIMONETTA FIORI Ecce La copertina. Geni si diventa grazie ai nemici Straparlando. Cavallone: “Tra libri e processi” I tabù del mondo. Il teorema della mantide religiosa ASCOLI PICENO «E CCO, QUESTO È UMBERTO. Ma non so spiega- re perché». Le mani di Pericoli incornicia- no un segmento della fronte, la scrimina- tura dei capelli, una paio di linee curve che danno vita a Umberto Eco. Un miraco- lo che si compie sul foglio bianco, all’interno di uno studio in travertino sospeso sulle vallate marchigiane. Da venticin- que anni Tullio Pericoli trascorre l’estate nella sua casa di pie- tra rosa vicino ad Ascoli Piceno. Tutt’intorno corrono le colli- ne che ha raccontato mille volte nei suoi lavori a olio e ad ac- querello, un paesaggio integro di sfacciata bellezza a con- fronto con le macerie lasciate dal terremoto pochi chilometri più in là. Come se la natura dipendesse dai segni dell’artista, non dai sommovimenti della terra. E lo stesso Pericoli sem- bra essersi disegnato da sé, a dispetto dell’ottantesimo com- pleanno annunciato da una poco credibile anagrafe il prossi- mo 2 ottobre. Anche la lunga amicizia con Eco passa attraver- so la sua mano e ora rivive attraverso un centinaio di ritratti realizzati non solo per i giornali e per le copertine dei roman- zi ma anche in occasioni private, feste, anniversari e passag- gi di secolo. Più che una rassegna di disegni, la storia di una maliziosa complicità tra il ritrattista e il suo soggetto. E forse qualcosa di più, la storia di un’amicizia filtrata da una faccia. E da una barba che nasconde un sacco di cose. Pericoli, la vostra amicizia porta una data di nascita. «Sì, tutto comincia da una lettera con la quale Umberto mi ringraziava per la sua caricatura uscita nella rubrica Tutti da Fulvia il sabato sera. Era il 14 giugno del 1977. Mi chiese il ritratto originale». Cosa la colpiva della faccia di Eco? «Mi piaceva soprattutto giocarci perché era Umberto stes- so a suggerirmi il divertimento. Lui ha sempre giocato con tutto: con la sua straordinaria cultura, con i personaggi stu- diati, e anche con gli amici. E la sua faccia è diventata simboli- camente il suo modo di esprimersi e di comunicare. Un paio di occhiali, un bel naso e la barba». >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE Eco Cult L’attualità. Viva la non-scuola L’officina. Rat-Man per me è finito Spettacoli. Le confessioni di Paul Tullio Pericoli racconta la storia di un’amicizia tra una barba e una matita I COMPLEANNI DI UMBERTO ECO DAL 1932 AL 1982 VISTI DA TULLIO PERICOLI / PER GENTILE CONCESSIONE DI TULLIO PERICOLI E DELLA FAMIGLIA ECO Repubblica Nazionale 2016-09-04

Upload: truongliem

Post on 22-Feb-2019

214 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

DIREPUBBLICADOMENICA 4 SETTEMBRE 2016NUMERO599

S I M O N E T T A F I O R I

Ecce

La copertina. Geni si diventa grazie ai nemiciStraparlando. Cavallone: “Tra libri e processi”I tabù del mondo. Il teorema della mantide religiosa

ASCOLI PICENO

«ECCO, QUESTO È UMBERTO. Ma non so spiega-re perché». Le mani di Pericoli incornicia-no un segmento della fronte, la scrimina-tura dei capelli, una paio di linee curve che danno vita a Umberto Eco. Un miraco-

lo che si compie sul foglio bianco, all’interno di uno studio in travertino sospeso sulle vallate marchigiane. Da venticin-que anni Tullio Pericoli trascorre l’estate nella sua casa di pie-tra rosa vicino ad Ascoli Piceno. Tutt’intorno corrono le colli-ne che ha raccontato mille volte nei suoi lavori a olio e ad ac-querello, un paesaggio integro di sfacciata bellezza a con-fronto con le macerie lasciate dal terremoto pochi chilometri più in là. Come se la natura dipendesse dai segni dell’artista, non dai sommovimenti della terra. E lo stesso Pericoli sem-bra essersi disegnato da sé, a dispetto dell’ottantesimo com-pleanno annunciato da una poco credibile anagrafe il prossi-mo 2 ottobre. Anche la lunga amicizia con Eco passa attraver-so la sua mano e ora rivive attraverso un centinaio di ritratti realizzati non solo per i giornali e per le copertine dei roman-zi ma anche in occasioni private, feste, anniversari e passag-gi di secolo. Più che una rassegna di disegni, la storia di una maliziosa complicità tra il ritrattista e il suo soggetto. E forse qualcosa di più, la storia di un’amicizia filtrata da una faccia. E da una barba che nasconde un sacco di cose.

Pericoli, la vostra amicizia porta una data di nascita.«Sì, tutto comincia da una lettera con la quale Umberto mi

ringraziava per la sua caricatura uscita nella rubrica Tutti

da Fulvia il sabato sera. Era il 14 giugno del 1977. Mi chiese il ritratto originale».

Cosa la colpiva della faccia di Eco? «Mi piaceva soprattutto giocarci perché era Umberto stes-

so a suggerirmi il divertimento. Lui ha sempre giocato con tutto: con la sua straordinaria cultura, con i personaggi stu-diati, e anche con gli amici. E la sua faccia è diventata simboli-camente il suo modo di esprimersi e di comunicare. Un paio di occhiali, un bel naso e la barba».

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

Eco

Cult

L’attualità. Viva la non-scuola L’officina. Rat-Man per me è finitoSpettacoli. Le confessioni di Paul

Tullio Pericoli racconta

la storia di un’amicizia

tra una barba e una matita

I CO

MP

LE

AN

NI D

I U

MB

ER

TO

EC

O D

AL

19

32

AL 1

98

2 V

IST

I D

A T

UL

LIO

PE

RIC

OL

I / P

ER

GE

NT

ILE

CO

NC

ES

SIO

NE

DI T

UL

LIO

PE

RIC

OL

I E

DE

LL

A F

AM

IGL

IA E

CO

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 34LADOMENICA

Umberto Eco

Ricorda i tratti del cartoon.

«Sì, era come un pupazzo con cui ci siamo divertiti entrambi in tutti que-sti anni. Ne ho fatto perfino una statuina di cartone con una linguetta in bas-so che gli fa muovere gli occhi. Uno dei miei disegni più riusciti è quello in cui Umberto regge sul naso se stesso. Oppure fa piroettare sempre sulla punta del naso Kant o Cervantes, come se fossero degli acrobati giocosi».

La sua faccia mostra molte varianti.«Sì, una volta Umberto fece l’elenco dei vari modi in cui lo ritraevo: Tullio

mi disegna senza naso o con una palla di pongo, privo di sopracciglia o con una selva pilifera da linguista russo, talvolta con una chioma lussureggian-te e arruffata e talaltra con un magro ciuffo che mi spiove sull’osso lacrima-le; eppure sono sempre maledettamente io».

Cosa lo rendeva maledettamente Umberto Eco?«Non lo so. So solo che una volta, durante una serata con amici, l’ho disegnato a occhi chiusi. Riuscivo a

controllare il gesto della mano senza guardare, sapevo dove fermarmi e come andare avanti. Come se Umberto fosse entrato nelle mie dita: quello che usciva sul foglio era sempre lui, tal-volta sorprendendomi».

Un’idea quindi fortemente interiorizzata. Tanto che per i cinquant’anni di Eco lei ha pen-sato di disegnare le sue cinquanta facce, una per ogni anno. E poi ha continuato fino agli ottanta. Cosa cercava?«Volevo capire quando quella faccia è diventata Umberto Eco. La trasformazione della fron-

te, i primi capelli in testa, i pelucchi sul mento, fino ad arrivare alla fisionomia con cui è diventa-to celebre».

Una volta lei ha sostenuto che la bocca rivela l’anima più dello sguardo. Cosa rivelava la bocca di Eco?«Beh, intanto è una bocca mascherata dalla barba. Intorno alle labbra esiste un paesaggio enor-

me — i piccoli segni procurati dal modo di parlare, sorridere, giudicare — che se coperto dalla peluria viene completamente annullato. Poi bisognerebbe chiedersi perché uno si fa crescere la barba».

Gliel’ha mai chiesto?«No. Come non gli ho mai chiesto perché gli piacesse tagliarsela, cosa c’era dietro questa sua voglia di

cambiare faccia. Sapevo che entrare in argomenti più personali non era cosa gradita».

Però lei con la barba di Eco ci ha sempre giocato.«Non mi piaceva la sua faccia senza barba. Glielo

dicevo apertamente, così lui scherzava: prima di ta-gliarla devo chiedere il permesso a Tullio. Una sera a Capodanno arrivai a disegnargliela sul volto con un tappo annerito dal carbone».

Ma perché?«Senza barba non era più lui. Diventava improv-

visamente più esplicito nell’aspetto. E questo a me non andava bene perché sapevo che lui non voleva esserlo. Come se lui si scoprisse. E io sapevo che era l’ultima cosa che avrebbe voluto».

La barba come una forma di protezione.«Umberto aveva una tripla e quadrupla corazza

intorno a sé ed era impossibile penetrarla. Anche nella nostra amicizia sono stati rari i momenti in cui si sia lasciato andare. Non potevo andare da lui e dirgli: sai Umberto, mi ha lasciato la mia fidanzata. Mi avrebbe raccontato una barzelletta».

Ne raccontava molte. Secondo lei cosa rappre-sentavano?«Era un suo modo di entrare in relazione con il

mondo. Ricordo un pomeriggio in compagnia di una giovane amica rimasta paralizzata in un inci-dente. Umberto le si sedette vicino e per tutto il tempo la intrattenne con le sue storielle. Era il suo modo per dirle: ti voglio benissimo e capisco tutte le tue sofferenze. Ma preferiva parlare un’altra lin-gua».

Anche tra voi c’era poca confidenza.«C’era una forte vicinanza, ma raramente lascia-

va spazio a confessioni private. Quando ebbe il suc-cesso internazionale per il Nome della rosa mi mani-festò un po’ del suo orgoglio: Capisci Tullio, avere un palco per la prima della Scala fa piacere, ma ot-tenerlo dal Metropolitan fa ancora più piacere. Ec-co, questa è stata la sua manifestazione più perso-nale in oltre quarant’anni di frequentazione».

Eppure Eco le riconosceva la capacità di pene-trarlo negli aspetti più intimi. L’ha anche scrit-to: “Pericoli è un grande ritrattista che punta all’anima. Il soggetto viene visto dall’interno, ma non è chiaro se dall’interno di lui, di lei, o dall’interno di Pericoli che è diventato l’altro”.«Sì, ma mentre mi riconosceva queste qualità lui

non s’è mai espresso sul suo “interno”. Non parlava mai di sé neppure nei romanzi, dove il gioco intellet-tuale prevale sui sentimenti. Anche nei miei Ritrat-ti arbitrari — dove accanto a ciascun disegno figu-ra una sorta di autoritratto dello scrittore rappre-

sentato — l’autoscatto di Umberto è quello più elu-sivo. Parla del suo aspetto fisico, della pancia, della sua pelle, del suo peso ma non della sua interiorità. Non saprei come chiamarla: difesa o sottrazione».

Secondo lei perché?«Sicuramente incideva la sua origine piemonte-

se, alessandrina, che lo induceva a riservatezza. Ma c’era qualcosa di più, come se la sua vita interiore fosse qualcosa di molto segreto e inavvicinabile».

Ma lei ha provato a inoltrarsi in quel territorio?«Sì, ma ne ricevevo risposte meccaniche e liqui-

datorie. Ricordo una sera a casa Crespi, nell’ultimo Natale passato insieme. Umberto se ne stava sedu-to in disparte. Così ne approfittai per parlare con lui di cose che mi stavano a cuore: gli anni che passano,

come cambia la mente, il futuro in relazione al pas-sato. A un tratto si voltò di scatto fulminandomi: ma allora stai parlando sul serio? Come a dire: sei un pazzo a parlare di questi temi con gravità».

Forse il gioco era anche una modalità scelta per non raccontare troppo di sé.«E io al gioco mi sono fermato. Non ho mai cerca-

to di svelare Umberto fino in fondo. Continuo a pen-sare che la nostra faccia sia un racconto scritto ogni giorno da noi stessi in modo inconsapevole. Il dove-re del ritrattista è leggere questo racconto nel suo senso più autentico. E poi andare a riferirlo al pro-prietario del volto. Con Umberto questa operazione non l’ho mai tentata davvero. Perché da una parte mi bastava giocare. Dall’altra ho pensato che non

fosse una cosa da fare».Ne ha voluto rispettare il mistero.«Sì, la caricatura finisce per giocare con la sua

straordinaria cultura. Ma la vita, le sofferenze, gli amori restano fuori, qualcosa di chiuso in un baule senza chiave».

L’amicizia per un ritrattista è un fattore di com-plicazione?«Sì, lo è. Se il compito del ritrattista è dire alla per-

sona ritratta “ecco chi sei veramente, sappilo an-che tu”, con un amico procedi con cautela, ti chiedi se sia indelicato. Però nel caso di Umberto il gioco garantiva libertà reciproca: al gioco non ci sono limi-ti. Non avevo paura di offenderlo facendogli gli oc-chi storti».

a

La copertina. Tullio Pericoli

Hofatto

Lo ha ritratto talmente tante volte da avere

l’impressione che gli fosse “entrato nelle dita”

Il grande disegnatore rende un ultimo

omaggio all’amico scomparso mettendo

in mostra a Camogli le sue mille facce

E qui ci racconta quella meno conosciuta

<SEGUE DALLA COPERTINA

S I M O N E T T A F I O R I

la barba

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 35

Non temeva il suo giudizio?ÇS“, ma non sui ritratti. Temevo il suo giudizio in

generale perchŽ ci tenevo molto. Umberto ti co-stringeva sempre a un confronto stimolante, cos“ da una parte era fonte di continue sollecitazioni, dallÕaltra il dialogo con lui non era mai rilassante, completamente sereno. Ti sentivi sempre sotto va-lutazione. Lo avvertivo come un padre severo e ne-cessario. La sua opinione aveva sempre un fondo di serietˆ, di intelligenza e di verit ̂che funzionava co-me una piccola ̂ ncora. Sapere che Umberto ci fosse mi rassicuravaÈ.

Che rapporto aveva con la propria immagine?ÇOttimo. Quando gli proposi di mettere in mo-

stra i suoi ritratti a Camogli rifiut˜, ma solo perchŽ

gli sembrava una manifestazione di narcisismo Ñ il Festival della comunicazione lÕaveva inventato lui. Per˜ gli piaceva lÕidea di raccoglierli in volume. Solo una volta non gli piacque un mio disegnoÈ.

Quale?ÇNon me lo ricordo. So che me lo disse alla sua

maniera, aprendo come sempre una finestra su qualcosa di sconosciuto. No, Tullio, non mi ci ritro-vo, per˜ vedo un mio bisnonno, una mia zia e mio nonno. Una frase che mi aiut ̃a mettere a fuoco un passaggio fondamentale del ritrarre, che • come strappare una pianta dal suo terreno per portarla da unÕaltra parte. Ma quando la sradichi devi fare attenzione alle sue radici perchŽ tanto meglio rifio-rirˆ quanto pi• lunghe e integre sono le trame del

passato. Eco nel disegno non aveva trovato se stes-so ma il suo essere stato nella faccia del bisnonno e della zia. Lo presi come un complimentoÈ.

Cosa ricorda degli ultimi tempi?ÇLÕho visto cambiare, diventare ancora pi• atten-

to e affettuoso con gli amici. Umberto • stato straor-dinario anche per come ha vissuto la sua morte. Non parlava mai della sua malattia. Solo piccoli indi-zi. Una sera a cena, nel novembre scorso, a un certo punto affonda il coltello in un vasetto di burro per spalmarlo su un minuscolo pezzo di pane. ÒMa Um-berto cosa fai, ti fa maleÓ, dissi. ÒAppunto per que-stoÓ, e se lo mangi˜. Fu l“ che capii che sapeva tutto. Come se volesse affrettare la fineÈ.

Lei Pericoli non s’è accomiatato da Eco con un di-

segno. Forse non voleva finire il gioco comincia-to quarant’anni prima.ÇNon so. Quando sono andato casa sua, il giorno

dopo la sua morte, non volevo vederlo. Temevo che il mio ricordo visivo ne rimanesse segnato. ÒMa vai via senza salutare il nonno?Ó, sulla porta mi rag-giunse il nipote Emanuele. Mi accompagn˜ nella sua stanza e ancora gli sono grato. Incorniciata da un parallelepipedo la fisionomia di Umberto era ras-sicurante. Dalla linea di orizzonte della cassa emer-gevano la pancia e la sua faccia, proprio come quan-do si rilassava in piscina. UnÕimmagine galleggian-te, pacificata. Era Umberto Eco che faceva il morto nellÕacquaÈ.

I DISEGNI

IN QUESTE PAGINE ALCUNI DEI RITRATTI (PRIMA SCHIZZATI A MATITA E POI COLORATI) FATTIDA TULLIO PERICOLI A UMBERTO ECO NEL CORSO DELLA LORO LUNGA AMICIZIA E CHE SARANNO ESPOSTI A CAMOGLI. MOLTI I DISEGNI RARI O INEDITI. COME QUELLO CON KAFKA SUL NASO DEL SEMIOLOGO

©RIPRODUZIONE RISERVATA

LA BUSTINA E LA LETTERA

IL CELEBRE RITRATTO PER “LA BUSTINA DI MINERVA, LA RUBRICA CHE ECO TENNE DAL 2005 AL 2016 SU “L’ESPRESSO”. NELL’ALTRA PAGINA UNA LETTERA DI ECO A PERICOLI: “A TULLIO, COSÌ IMPARA”

LA MOSTRA E IL FESTIVAL I RITRATTI DI PERICOLI A ECO SARANNO ESPOSTI NELLA SALA CONSILIARE DEL COMUNE DI CAMOGLI DALL’8 SETTEMBRE ALL’11 DICEMBRE NELLA MOSTRA REALIZZATA GRAZIE ANCHE AL CONTRIBUTO DI COSTA CROCIERE E LOTTOMATICA PER LA TERZA EDIZIONE DEL FESTIVAL DELLA COMUNICAZIONE (8-11/9).TRA GLI OSPITI CI SARÀ ANCHE ROBERTO BENIGNI CHE RICEVERÀ IL PREMIO COMUNICAZIONE (FESTIVALCOMUNICAZIONE.IT)

PE

R G

EN

TIL

E C

ON

CE

SS

ION

E D

I T

UL

LIO

PE

RIC

OL

I E

DE

LL

A F

AM

IGL

IA E

CO

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 36LADOMENICA

NON HA IL CAPPELLO VERDE e non soffia dentro un piffero come l’uomo di Hamelin, il protagonista della celebre fiaba, tutta-via Marco Martinelli qualcosa di speciale deve averlo se è riuscito in questi venticinque anni a farsi seguire da schiere di ragazzi in avventure teatrali. Da Ravenna a Scampia, da Lamezia Terme a Diol Kadd in Senegal, da Chicago a Mons in Belgio, per passare poi a Mazara del Vallo, a Seneghe, a Milano e oltre, e arrivare proprio in questi giorni nella Cali-tri dello Sponz Fest di Vinicio Capossela. Dopo due decenni si è deciso a spiegare il suo metodo, se di metodo si può par-lare: come coinvolgere adolescenti spesso difficili in un’av-ventura, nell’allestimento di uno spettacolo da proporre a

un pubblico di coetanei e di adulti. La non-scuola, come si chiama la proposta-metodo di Martinelli, non somiglia a una

scuola teatrale; è qualcosa di meno e insieme qualcosa di più. È fare gruppo, fare comuni-tà. Intanto vale la pena di presentare Martinelli per quei pochi o tanti che ancora non lo conoscono. «Sono nato a Reggio Emilia, mio padre impiegato, mia madre casalinga, mi-grati per lavoro a Ravenna, sul bordo dell’Adriatico. Faccio il regista da quando, finito il liceo classico, mi sono iscritto all’università. Scrivo gran parte degli spettacoli che allesti-sco con la mia compagnia, il Teatro delle Albe. Ho cominciato insieme a Ermanna Monta-nari, Luigi Dadina e Marcella Nonni, eravamo poco più che ragazzi». Il libro dove raccon-ta la storia della non-scuola s’intitola Aristofane a Scampia. Dopo averlo visto all’opera nel fossato del castello Sforzesco a Milano nell’estate del 2015 con Eresia della felicità, che coinvolgeva duecento ragazzi della non-scuola di tutta Italia, Cristina Palomba della casa editrice Ponte alle Grazie è andata da lui e gli ha chiesto di narrare la sua esperienza con i ragazzi: come fa a farli recitare? E con quella potenza? Il libro è una lettera diretta ai genitori e agli insegnanti, e racconta il lavoro che Martinelli, uno dei più bravi registi ita-liani, ha fatto con gli sdraiati, come li chiama Michele Serra. E non solo con quelli delle belle e ricche scuole del Nord. No, Martinelli è sceso al Sud, a Scampia, il quartiere reso famoso da Gomorra, è andato a lavorare con i ragazzi di una delle zone più degradate del Paese. Come ha cominciato? «Ho avuto due insegnanti speciali, Bianca Lotito, d’italiano e latino, e don Giovanni Buzzoni, di religione. Don Buzzoni era un teologo e un filosofo. La prima volta che è venuto in classe ci ha detto che nei primi due anni avrebbe dato a tutti “buono”, e poi, scatto di anzianità, “ottimo” al terzo, quindi ha aggiunto che se volevamo parlare con lui di qualsiasi argomento era lì. Ha girato la testa verso la finestra e si è mes-

so a guardare i platani del cortile, in silen-zio. Siamo rimasti sconcertati, poi abbia-mo avvicinato quell’orso silenzioso, e si parlava di filosofia. Conosceva i classici a memoria». Martinelli non è certo un orso, anche se qualcosa di riservato, se non pro-prio di scontroso, ce l’ha, per quanto la pri-ma cosa che ti colpisce vedendolo è il sorri-so, la sua enorme disponibilità. Ti ascolta, anche se adesso sono io a farlo parlare. Per fortuna racconta con facilità, con la genero-sità che è propria degli emiliani. Lo alimen-ta una fiamma, una passione divorante. Il libro, non a caso, comincia con la sua storia con Ermanna Montanari, sua moglie, tre volte Premio Ubu come miglior attrice ita-liana, Premio Duse 2013. Si sono sposati giovanissimi, e hanno fatto teatro in un luogo marginale rispetto ai grandi Stabili: la Ravenna degli anni Ottanta. Non hanno avuto figli; forse per questo è nata la non-scuola.

Come funziona il metodo-Martinelli? «Non lavoriamo mai con una classe intera, mai nell’orario scolastico. Bisogna che il singolo adolescente ci scelga, ci chiami, de-sideri lavorare con noi, fuori dalla scuola, anche se è la scuola che ci invita. Se non vuole, là c’è la porta, non ci sono obblighi». Nelle cose che racconta si sente l’eco di don Milani, della sua scuola di Barbiana. In Martinelli non c’è però nessun assoluti-smo; il racconto dei primi passi della non-scuola a Ravenna descrive il suo anda-re per tentativi. Cita una frase di Sant’Ago-stino: ”Nutre l’anima solo ciò che rallegra”. «L’adolescente è un nessuno, per questo trabocca di genio», dice. «Il campo di veri-

Il primo giornodi non-scuola

L’attualità. Esperimenti riusciti

M A R C O B E L P O L I T I

IL LIBRO

IN “ARISTOFANE A SCAMPIA” (PONTE ALLE GRAZIE, 163 PAGINE,14 EURO), MARCO MARTINELLI, FONDATORE DEL TEATRO DELLE ALBE, RACCONTA A GENITORI E INSEGNANTI LA SUA DECENNALE ESPERIENZA TEATRALE CON GLI ADOLESCENTI PIÙ O MENO “DIFFICILI”. IL REGISTA SARÀ AL FESTIVAL DELLA MENTE DI SARZANA IL 4 SETTEMBRE ALLE 21. NELLA FOTO MARCO MARTINELLI (DI SPALLE) AL CASTELLO SFORZESCO DI MILANO CON LO SPETTACOLO “ERESIA DELLA FELICITÀ”

Gli sdraiati? C’è chi riesce a rimetterli in piedi. Come? Magari

facendogli incontrare Aristofane. Dove? Anche a Scampia

Ecco cosa vuol dire portare i ragazzi a teatro. E viceversa

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 37

tà, il luogo del lavoro, è il corpo dell’adole-scente. All’Itis di Ravenna avevo scelto un dramma satiresco di Sofocle. Porto il testo all’incontro. Traduzione di Ettore Roma-gnoli, grecista tra Otto e Novecento. Lo leg-go ad alta voce e mi accorgo che non è più comprensibile. Come fare? Decido di crea-re due cori di ragazzi e ragazze, trasfor-mandoli in bande di quartiere: “Satiri Me-tropolitani” e “Ninfe Metalliche”. Abbia-mo interpretato I satiri alla caccia, dando spazio alla comicità implicita nel testo, l’abbiamo reinventata come un fatto cora-le». In effetti il teatro degli adolescenti di Martinelli punta sull’azione di tutti. Ogni volta che mette in scena un testo antico con i ragazzi, scatena l’energia che c’è in ciascuno di loro. «Scrivendo la storia di que-sti venticinque anni ho sottolineato quan-to l’elemento dionisiaco sia centrale. Dioni-so è il dio perfetto per gli adolescenti: ama la musica, i tamburi che fanno crescere il battito del cuore, i flauti che danno la scos-sa elettrica al cervello, ama il vino e l’esta-si; alla lettera: l’essere fuori». Il suo meto-do, che comporta rigore e dedizione — si la-vora per ore insieme — esalta la follia che abita i corpi adolescenti, la mette in scena, la fa uscire, ma al tempo stesso la trasfor-ma in rappresentazione. Forse sta proprio qui il segreto di questa pedagogia dell’ex-stasis: il teatro come spazio della rappresentazione di sé.

L’esperienza di Scampia, forse la più dif-ficile ed estrema del suo percorso, lo rac-conta molto bene. «Goffredo Fofi ci provo-cò: bravi a lavorare con i piccolo-borghesi di Ravenna, andate a Scampia! Ci siamo an-

dati. Grazie a Ninni Cutaia, Roberta Carlot-to, Rachele Furfaro e Maurizio Braucci ab-biamo messo in scena La Pace di Aristofa-ne. Io, Maurizio Lupinelli e Alessandro Ren-da andavamo avanti e indietro da Raven-na a Scampia tutte le settimane; intanto avevamo il nostro teatro da seguire, gli spettacoli da mettere in scena. Sul palco c’erano in tutto ottanta adolescenti: dal li-ceo “Genovesi” del centro di Napoli, dal li-ceo “Morante”, dalla scuola media “Levi” di Scampia, dal centro sociale “Chi rom… e chi no”. Un gran frastuono, meglio, un arre-vuoto, come si dice a Napoli. L’inizio è sta-to difficile, non funzionava. Poi un giorno abbiamo trovato il grimaldello: i cori degli ultras del Napoli. Abbiamo chiesto se per caso li conoscevano. Certo, hanno risposto. E con gioia e orgoglio ce li hanno insegnati. Non c’è niente di così decisivo nel rapporto con gli adulti come quando l’adolescente scopre che può insegnare qualcosa, che è autorizzato, quando la relazione d’appren-dimento non è più a senso unico». Questa è una delle regole implicite della non-scuola. Qui si vede la sua dote di pifferaio magico: la musica che suona non è prodotta dal suo piffero, ma dai ragazzi stessi; lui è solo il conduttore del coro. «Abbiamo diviso gli Spartani dagli Ateniesi, e creato i due cori. La prima sfida tra loro fu addirittura quasi violenta: ci mettemmo in mezzo e ci pren-demmo spintoni e qualche sberla». Il segre-to è liberare quell’energia che l’adolescen-te ha dentro. Sembra di vederci la lezione di Grotowski, di Barba, del Living Theater, ripensata. «A Scampia più che un regista ci voleva un domatore di leoni, o forse più

semplicemente qualcuno che si mettesse in ascolto, che ascoltasse quei leoni e i loro ruggiti. Così è nato Arrevuoto. Un piccolo miracolo, ma bisognava farlo accadere. Là abbiamo capito che Pulcinella non è una statuetta per i turisti, ma che c’è ancora, sulfureo, va cercato nel sottosuolo, ai mar-gini. Alla fine, nonostante le grandissime differenze tra gli adolescenti di Ravenna e quelli di Napoli, qualcosa di comune, un grumo psichico, c’è: sono tutti affamati di vita, tutti fragili, tutti ricolmi di desideri».

La musica che suona Martinelli proviene dunque dai loro corpi; lui la coglie e la orien-ta. I testi che propone loro sono una sorta di argine, un letto del fiume, che dirige quelle energie e le orienta verso un lavoro-gioco che si fa insieme: uno spettacolo. «Lo abbia-mo fatto all’Auditorium, al centro di Scam-pia, che don Valletti, un sacerdote in prima linea nel costruire speranze da quelle par-ti, ci aveva indicato. Era vuoto e abbando-nato da anni. L’abbiamo aperto e recitato lì, come poi al Mercadante a Napoli, all’Ar-gentina a Roma. Alla prova generale ero immerso nel caos, gridavo in mezzo a un baccano infernale, ma poi la prima è stata un successo. Fatica e felicità insieme».

Una cosa che colpisce in Marco Martinel-li, che conosco da molti anni, è la forza. Da dove la prenda non si sa. Giustamente lui parla del fuoco: divorante, contagioso, inarrestabile. Con quel fuoco ha fatto gran-di cose con i ragazzi, è andato persino in Se-negal, a Diol Kadd. Anche la storia di que-sta incredibile avventura africana è rac-contata nel libro. Leggetelo.

NON LAVORIAMO MAI CON UNA CLASSE INTERA E MAI

NELL’ORARIO SCOLASTICOIL SINGOLO STUDENTE CI DEVE SCEGLIERE SE VUOLE LAVORARE CON NOI. SE POI INVECE NON VUOLE NESSUNO LO OBBLIGA. QUELLA È LA PORTA

ALL’INIZIO È STATO DIFFICILE. POI ABBIAMO CHIESTO:

MA LI CONOSCETE I CORI DEGLI ULTRAS DEL NAPOLI? E ALLORA ABBIAMO DIVISO GLI SPARTANI DAGLI ATENIESITUTTO QUI. CI VOLEVA QUALCUNO CHE ASCOLTASSE QUEI LEONI E I LORO RUGGITI

©RIPRODUZIONE RISERVATA

L’ADOLESCENTE È UN NESSUNO, PER QUESTO

TRABOCCA DI GENIO. È AFFAMATO DI VITA, È FRAGILE, RICOLMO DI DESIDERI. DIONISO È IL SUO DIO: AMA LA MUSICA, I TAMBURI, IL FLAUTO L’ESTASI E IL VINO

‘‘

‘‘

‘‘©

MA

RIO

SP

AD

A

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 38LADOMENICA

L’officina. Super parodie

L U C A V A L T O R T A

QUELLO CHE HA FATTO LEO ORTOLANI ha dell’incredibile. Un po’ come vendere ghiaccio agli esquimesi, direbbe forse lui in una sua gag. Di quelle che poi finiscono con la lama tagliente di un’ironia in cui a trionfare è l’idiota compratore di ghiaccio, contro ogni previsio-ne e senso logico. Ma cosa fa Leo Ortolani? Fumetti. Che non solo sono, da tempi lontanissimi, i più venduti nelle edicole di un auto-re singolo, ma costituiscono anche la più arguta risposta casalin-ga al mondo dei supereroi “made in Usa”. Il suo personaggio più noto infatti, l’incommensurabile Rat-Man, è una sorta di caricatu-ra di Batman ma assai più complessa, un essere ignobile tra Topo-lino e una scimmia, ottusa, gretta e stupida. Ma anche straordina-riamente pura, generosa e, perché no, coraggiosa. «È un uomo

che non rimprovera mai gli altri per i loro errori. Li rimprovera per i suoi. Le donne non gli resisto-no: dopo due minuti se ne vanno», riassume Ortolani. Rat-Man è un’opera ciclopica che dura ormai da vent’anni (ripubblicata in formato gigante da marzo 2014): un vero e proprio universo che non ha niente da invidiare a quelli delle celebri case americane. E Rat-Man è solo la più famosa delle creazioni di Ortolani, non l’unica. Come dimenti-care Star Rats, Avarat, Ratolik, Il Signore dei Ratti e adesso Walking Rat? E ci sono anche L’ispet-tore Merlo, 299+1, Il grande Magazzi e quella che alcuni considerano la sua opera migliore, Vener-dì 12. Non è finita: Ortolani oggi si fa largo anche in libreria. Il buio in sala, un lavoro in cui con tro-vate al vetriolo fa a pezzi buona parte della cinematografia contemporanea con in prima fila pro-prio i film di supereroi che sbancano al botteghino. Per la delizia di cinefili e ultrageek. Il gioco si fa sempre più raffinato: dopo il “cinema nel cinema” ecco il “fumetto nel cinema” che parla di film na-ti da fumetti: l’ultrametacinema? Forse proprio per questo Mantova ha deciso di invitarlo dedi-candogli due appuntamenti. O forse no. La cosa diversa delle storie di Ortolani è che è il debole (o forse dovremmo dire l’idiota?) che vince. Ma la cosa veramente incredibile è che tutto questo enorme e complesso universo di personaggi Ortolani l’ha creato e disegnato da solo.

Quando hai incominciato a disegnare?«Verso i quattro anni. Poi a nove anni ho incominciato a fare i primi musi da scimmia».Musi da scimmia?«Sì, non sapendo fare il volto umano ho cercato quello che gli somigliava di più, la scimmia. Poi

ho iniziato subito a fare le prime storie. Narrare è la mia passione. Ancora di più che disegnare».In casa qualcuno aveva questo talento?«Mia mamma dipinge per hobby, anche

adesso che ha ottantasei anni, mentre mio pa-dre era perito elettrotecnico ma ha sempre amato la lettura. Fumetti compresi».

Rat-Man quando è nato?«Nell’89. Io avevo ventidue anni ed

era una parodia come le altre. Era uscito il Batman di Tim Burton che aveva avuto un’eco mediatica in-credibile. Io allora decisi di non andare a vederlo perché mi era stato sulle scatole che ne parlassero tutti. Però una ri-vista aveva lanciato un con-corso per esordienti. Io fac-cio una bella parodia di

A vent’anni dalla nascita e a uno dalla conclusione

WOLVE-RAT

© L

EO

OR

TO

LA

NI 2

01

6 /

ED

IZIO

NI P

AN

INI C

OM

ICS

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 39

Sei un topo finito!

L’APPUNTAMENTO

LEO ORTOLANI SARÀ AL FESTIVAL DI LETTERATURA DI MANTOVA SABATO 10 ALLE 22, 30 IN PIAZZA ALBERTI E DOMENICA 11 ALLE 11,30 NELL’AULA MAGNA DELL’UNIVERSITÀ

I LIBRI

A MANTOVA ORTOLANI PRESENTERÀ IL VOLUME “CINEMAH-IL BUIO IN SALA” (BAO, 192 PAGINE, 17 EURO) GIÀ IN LIBRERIA. A OTTOBRE USCIRÀ INVECE “THE WALKING RAT” (PANINI, 190 PAGINE, 19 EURO)

Leo Ortolani racconta perché la sua creatura più nota sta per lasciarci. E cosa farà senza di lei

RatMan

Batman (che persisto a non voler vedere). E vince. Così nasce Rat-Man. Strano: mi accorgo solo ora che quella storia precorre un po’ le pa-rodie di film del libro appena uscito!».

Oltre ai supereroi cosa ti ha influenzato?«Beh, si scrive sempre di quello che si cono-

sce meglio: nel mio caso fallimenti a livello fisi-co e a livello sociale» .

Avevi creato anche “Caporal America”... «Per fortuna poi ho desistito» .Come potevi parodizzare certi personaggi senza incorrere nelle ire di Marvel o Dc Co-mics?«Allora era un mondo più semplice e comun-

que il diritto di parodia è consentito storpian-do i nomi, cambiando il costume etc. Di solito le parodie vengono tollerate anche perché hanno senso solo se hai già visto l’originale» .

Al quarto numero dell’autoproduzione ti adocchiò la Panini, che tra l’altro pubblica-va la Marvel in Italia...«Sì e da lì è iniziata davvero la storia» .Con il “Il buio in sala” hai fatto cose diverse.«Fare recensioni di film a fumetti è una cosa

che accomuna amici come Zerocalcare, Rober-to Recchioni (curatore di Dylan Dog e molto al-tro, ndr) e Giacomo Bevilacqua di A Panda piace... che infatti hanno fatto un’introduzio-ne disegnata al libro. Ci sfottiamo dicendo l’u-no all’altro che non capiamo nulla di cinema. Michele (Rech, in arte Zerocalcare, ndr)non mi perdona di avere stroncato Star Wars e per quanto riguarda gli Avengers siamo io (a cui ha fatto pena) contro il mondo» .

Chi è il tuo pubblico? «Un tempo era molto giovane ma adesso al-

le fiere del fumetto vedo sempre più gente sui

quaranta, cinquanta come me che magari si porta dietro i figli. Deve essere gente che se-gue certi fumetti, un certo cinema o certe se-rie tv perché altrimenti è difficile capire le gag. A ottobre per esempio uscirà Walking Rat, e ovviamente se non hai mai visto Wal-king Dead ti perdi un po’ di cose. Da quando ho iniziato a fare letture pubbliche, cosa che cre-do farò anche a Mantova con Il buio in sala, ho trovato gente molto diversa. Una volta in un teatro ho chiesto: “Chi di voi ha visto l’ultimo

film di Star Wars?”. Nessuno alza la mano. Mi sono sentito perduto. Invece ridevano e alla fi-ne è venuto da me un signore molto distinto che mi fa “Io un libro così non l’avrei mai com-prato”. Forte di questo ho deciso di affrontare anche un Festival come quello di Mantova» .

La tua giornata tipo?«Mi sveglio alle sette, accompagno a scuola

le mie due bimbe e dalle otto e mezza sono in studio. Torno a casa alle sei e poi di solito vado avanti dopo cena fino a mezzanotte. Un tempo fino alle due ma ora non ce la faccio più. Tutti i giorni e anche in vacanza. Insomma lavoro sempre. Anche negli interstizi» .

Ma chi è per te Rat-Man alla fine?«È uno che pensa di essere un supereroe per-

ché ha una maschera con le orecchie da topo. Forse non è molto intelligente ma lui crede in se stesso e forse, non avendo nessun talento, alla fine rischia di averne uno. Tra il suo crede-re di essere un supereroe e la realtà c’è un cam-po minato in cui succede di tutto in attesa del grande finale in cui tutto troverà soluzione».

Perché hai deciso di chiudere la serie?«Perché ci deve essere una fine come nella

vita stessa. Preferisco avere il ricordo di una bella serie e affrontarne altre piuttosto che ri-schiare di non avere più niente da dire. Prima che questo possa succedere ho raccolto le ulti-me idee che avevo» .

Quando uscirà l’ultimo numero?«A settembre 2017. L’ultima storia occupe-

rà dieci numeri. Tra l’altro con una bieca trova-ta di quelle che sfruttano la mania del collezio-nismo degli appassionati: chi raccoglierà tutti i tagliandi dei dieci numeri riceverà un albo speciale magari chissà con... un finale alterna-tivo. Oppure con un racconto che chiuda tutte le storie di metafumetto tipo Le origini di Rat-Man, La storia finita, o Il numero cento, dove c’è una sorta di modesta riflessione su me come autore. Magari poi invece cambio idea e non faccio niente di tutto questo».

E dopo cosa farai?«Una delle cose più concrete è una storia se-

ria, anzi davvero molto dura di Dylan Dog. E quindi non so se me la faranno fare. Una sola cosa è certa: sono contento di finire Rat-Man. Lui è uscito per vent’anni; quando finirà final-mente uscirò io: di casa, a riveder le stelle...» .

LE VIGNETTE

IN QUESTA STRISCIA EXTRA

RISPETTO A QUELLE CONTENUTE

NEL SUO LIBRO, LA RECENSIONE

DI LEO ORTOLANI DI “X-MEN:

APOCALISSE”. IN BASSO UNA

VIGNETTA DEDICATA AL FESTIVAL

DELLA LETTERATURA DI MANTOVA

SPIDER-RAT

WALKING-RAT

MAD-RAT

©RIPRODUZIONE RISERVATA

© L

EO

OR

TO

LA

NI 2

01

6 /

PE

R G

EN

TIL

E C

ON

CE

SS

ION

E B

AO

PU

BL

ISH

ING

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 40LADOMENICA

Paul McCartney

Alla fine me la sonocavata

ON THE ROAD

PAUL E LINDA MCCARTNEY

IN MOTO A NASHVILLE

NEL LUGLIO 1974 MENTRE

IL DISCO DEI WINGS “BAND

ON THE RUN” È AL PRIMO

POSTO DELLE CHARTS

Spettacoli. Mitici

© A

P /

PR

ES

S A

SS

OC

IAT

ION

IM

AG

ES

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 41

PRIMA DI TUTTO CI FU LA RADIO, la Bbc, perché non avevamo un giradischi. A mio padre piaceva costruire radio a galena. Subito dopo la guerra se ne vedevano in giro parecchie, tutti le costruivano. Poi i miei comprarono una grossa, bella radio di famiglia, che noi bambini ascoltavamo seduti sul pavimento. Papà si era procurato un paio di cuffie per me e mio fratello: surplus militare. Ricordo quel vecchio cavo elettrico marrone. Lui lo faceva arrivare in camera da letto, così se dovevamo andare a dormire e c’era qualcosa alla radio, ci dava il per-messo di ascoltarla per un quarto d’ora. La cosa migliore alla radio era Family Favourites, un grande programma di dediche per i soldati all’estero. Era una specie di hit parade, un ampio spazio in cui sentivi tutti i dischi più popolari. Ri-cordo I’ll be Home di Pat Boone (nel 1956), era grandiosa. Subito dopo smisi di interessarmi di Pat Boone, ma quello è un disco che mi piace ancora, una bella

canzone che parla di un soldato: “I’ll be home, my darling...”. Poi venne la tv. Tanti si comprarono un televi-sore per l’incoronazione di Elisabetta del 1953. I genitori dicevano: “Non c’è niente di buono nella tv, è tut-ta roba orribile, distrugge l’arte della conversazione”. Qualcuno lo dice ancora. E probabilmente ha ragio-ne. Ma noi insistevamo: “Dai, papà, ce l’hanno tutti”. Così, quando ci fu l’incoronazione l’intera strada an-dò a comprarsi la tv e le antenne spuntarono come funghi.

Sono i marinai a portarti la musica in casa Il fattore cruciale era che Liverpool era un porto. C’erano sempre marinai che arrivavano con dischi di

blues da New Orleans, dall’America. Cose di varie etnie, potevi ascoltare musica africana, o il calypso gra-zie alla comunità caraibica, che credo fosse la più antica in Inghilterra. Con tutte quelle influenze, dalla ra-dio in casa ai marinai, agli immigrati, era un enorme melting pot musicale. E probabilmente noi prendeva-mo quel che ci piaceva da tutto questo. I primi ricordi sono quelli di mio padre che suonava il piano a casa. Era un venditore di cotone, e aveva imparato a suonare il piano a orecchio quand’era bambino. Aveva fatto parte di un gruppo chiamato Jimmy Mac’s Jazz Band. Quand’eravamo piccoli, io mi stendevo sul tappeto e lo ascoltavo mentre suonava cose tipo Stairway to Paradise di Paul Whiteman, o Lullaby of the Leaves che mi piaceva molto, o un paio di pez-zi scritti da lui. Improvvisava al piano, ed era mera-viglioso. Aveva un amico alla Borsa del cotone, un al-tro venditore di nome Freddy Rimmer, che veniva a suonare qualcosa, quindi c’era un’atmosfera mol-to musicale in casa. C’era sempre un pianoforte. A capodanno si faceva una grande festa di famiglia. Qualcuno si metteva al piano, e il più delle volte era mio padre. Lui mi diceva sempre: “Impara a suona-re il piano e sarai invitato a un sacco di feste”.

Il rock and roll, altro che semiminime Era il 1956. Avevamo la tv, e una sera sentimmo que-sta notizia: “Una scena di devastazione: teddy boys e rockers hanno devastato alcuni cinema a Londra. Ed ecco la causa di quell’agitazione: One-two-three o’clock, four o’clock rock...”. Era, naturalmente, l’at-tacco di Rock Around the Clock di Bill Haley & His Co-mets. La canzone faceva parte della colonna sonora

del film Il seme della violenza, e le proiezioni in Gran Bretagna scatenarono disordini fra gli adole-

scenti. Per la prima volta in vita mia provai una scarica elettrica. Questo fa per me! Ma sono

un primitivo. Non voglio imparare la musi-ca. Non mi piace, davvero. È troppo impe-

gnativo, somiglia a un compito. È questo che mi ha fatto passare la voglia di impa-

rare a suonare il piano. Nell’attimo stesso in cui mi davano qualcosa da studiare a casa, fine, mollavo tutto. Odiavo i compiti a casa. Quando la maestra di piano mi diceva qualco-sa tipo “impara queste semimini-me”, non lo sopportavo. Amavo la musica, ma non sono mai riuscito ad andare oltre quelle prime le-zioni.

Ringo, lui sì che sapeva le cose All’inizio si beveva bourbon e

7Up. Cioè quel che beveva Rin-go, che era il più sofisticato tra noi. Lo è sempre stato. Se c’era qualcosa di americano, come le si-

garette Lark, lui lo sapeva. Aveva un macchinone. Sembrava un sol-

dato americano, Ringo, per come vi-veva. Aveva una Ford Zephir Zodiac.

Incredibile, visto che tutti noi aveva-mo delle utilitarie. Ringo era più vec-

chio di noi, aveva lavorato in un villaggio vacanze Butlin. Si era fatto crescere la bar-

ba. Possedeva un abito completo. Aveva classe. Be-veva Jack Daniel’s o bourbon. Io non avevo mai sen-tito parlare del bourbon. Così decisi di provare. Ci mettemmo a bere bourbon e limonata, poi passam-mo a whisky e Coca, probabilmente quando non tro-vavamo il bourbon. Devo averlo sentito ordinare da Ringo: “Se non avete il bourbon, prenderò uno scot-ch”. Era un adulto, Ringo. Ha sempre avuto un’aria adulta. Sospetto che fosse adulto già a tre anni. Whi-sky e Coca. Quello diventò il drink del rock and roll.

Le chiavi della città non sono quelle della banca Dopo un po’ ci facemmo l’abitudine. Ci chiedeva-

mo: che significa, ricevere le chiavi della città? Puoi rapinare una banca? No, non significa niente. È so-lo una specie di onorificenza. E va bene. Ti davano

le “Chiavi di Indianapo-lis” con una solenne ceri-monia, ti facevi la foto col sindaco. E incontravi le sue figlie. Di solito do-vevi trovare un modo per distrarti, perché era terribilmente noioso. “Salve. Oh, lei è... Piace-re di conoscerla”. No, non è un piacere cono-scerli, non tutti i giorni. A volte, se sei fortunato, può essere un piacere, ma in genere non lo è. Così escogitai un piccolo trucco: fingevo di essere strabico, così, per diver-timento. “Salve. Piace-re. Salve”. E agli altri pia-ceva, se se ne accorgeva-no. Era grandioso. La gente andava via dicen-do: “Ha uno sguardo strano, visto da vici-no...”. Be’, dovevamo pur distrarci, in un mo-do o nell’altro.

Ciò che non potei nascondere a Bob DylanGià. Ricordo che andammo a trovare Dylan quan-

do stava al Mayfair Hotel. Lui era nella stanza sul re-tro, mentre io, Brian Jones, Keith Richards e un pa-io di tizi aspettavamo nella stanza accanto. Entram-mo dopo un’oretta, quando venne il nostro turno, come quando si va a porgere omaggio a qualcuno. Incontravamo tanta gente in quel modo. Io andai a trovare Bertrand Russell, il filosofo. Gli chiesi: “Pos-so venire a trovarla?”. “Ma certo”. Ero entusiasta.

Quando invece andai da Dylan, gli suonai un pezzo dell’album Sgt. Pepper, e lui disse: “Oh, capisco, non volete più essere carini”. Era una perfetta sintesi. Il periodo “carino” era finito. Dylan portò la poesia nei testi, e John si mise a scrivere You’ve Got to Hi-de Your Love Away: “Ehi!” Un pezzo molto alla Dy-lan. Eravamo profondamente influenzati da lui e lui era molto influenzato da noi. Aveva ascoltato I Want to Hold Your Hand perché era la numero uno negli Stati Uniti. Dopo il middleeight faceva: “I can’t hide”, “I can’t hide”, “I can’t hide”» (“non pos-so nascondere”, ndt), ma lui credeva che dicesse: “I get high”, “I get high”, “I get high”» (“mi sballo”, ndt). “Adoro quel pezzo, amico” mi disse. Dovetti spiegarglielo: “No, in realtà dice ‘I can’t hide’”.

Tutti contro LindaLa sottovalutano. Tutti sottovalutano Linda. Ed

è curioso, perché non la puoi liquidare così facilmen-te. È una ragazza piena di talento. È una brava foto-grafa, tanto per cominciare. Tutti minimizzano le sue doti canore: “È stonata, no?”. Sarò sincero, c’è stato un periodo in cui ho cominciato a starli a senti-re: “E se avessero ragione? So che non è la migliore cantante del mondo, non è una solista”. Ma mi è sempre piaciuto cantare con lei, trovavo che fossi-mo affiatati: è mia moglie.

E alla fine i maschi fanno sempre cosìNel bel mezzo di tutto questo il gruppo cominciò

a sfaldarsi. Così quello diventò il film della rottura. E ci furono alcune riunioni disastrose. Io facevo im-bestialire George, in particolare. C’erano stati pic-coli precedenti. Ci scontravamo. Come giovani ma-schi. Ora che conosco gli animali, gli stalloni e gli arieti, so che fanno così. Quando raggiungono la maturità si affrontano, ecco tutto. Come i ragazzot-ti ubriachi alle partite. Questa è la mia spiegazione, è un istinto animale. I maschi fanno così. E noi era-vamo giovani maschi che si scontravano.

Certo che la musica può cambiare il mondoQualcuno mi ha chiesto: “Pensi davvero che la

musica possa cambiare il mondo?”. Sì, ho risposto. Certo che può farlo, accidenti. Può farlo nel tuo cuore, ma anche a livello politico. Possiamo cam-biare le cose. Tutti quelli che ascoltano questo di-sco possono fare qualcosa, io e la mia ragazza pos-siamo fare qualcosa, e tu e la tua ragazza o il tuo amico potete fare qualcosa. Si può fare qualcosa per questo buon vecchio mondo.

Sono solo un poveraccio di SpekeMe la sono cavata piuttosto bene per essere un

poveraccio di Speke (un quartiere di Liverpool, ndt). Perché è questo che so-no, vecchio mio. Tu puoi capir-lo. Be’, tu non sei un poverac-cio, e io non credo di essere sta-to proprio un poveraccio. Non eravamo messi male, in real-tà. Non avevamo la tv, non ave-vamo la macchina o cose del genere, ma stavamo benissi-mo. E devo dire, in verità, che non ho mai conosciuto gente migliore di quella. E ne ho co-nosciuta tanta, compreso il pri-mo ministro di questo bel pae-se (all’epoca Margaret That-cher) e di qualche altro bel paese. Nessuno di loro è lonta-

namente paragonabile a certe persone del posto da cui vengo. Ho cercato di conoscere persone miglio-ri, più in gamba e più sagge, ma non le ho mai trova-te. Ho conosciuto gente più stravagante. Ma alla fin fine, quando dicevano: “Non troverai lì la felicità, mio caro”, avevano ragione, no?

(Traduzione di Annalisa Carena)This edition published by arrangement with

Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA) © 2016 - Edizioni Piemme Spa, Milano

SONO UN PRIMITIVO. NON VOGLIO IMPARARE LA MUSICA. QUANDO

LA MAESTRA DI PIANO MI DICEVA QUALCOSA TIPO “IMPARA QUESTE SEMIMINIME”, LA ODIAVO. AMAVO LA MUSICA, MA NON SONO MAI RIUSCITO AD ANDARE OLTRE QUELLE PRIME LEZIONI

E POI IL GRUPPO COMINCIÒ A SFALDARSI. CI SCONTRAVAMO.

COME GIOVANI MASCHI ORA CHE CONOSCO GLI ANIMALI, GLI STALLONI E GLI ARIETI, SO CHE FANNO COSÌ. QUANDO RAGGIUNGONO LA MATURITÀ SI AFFRONTANO

A CAPODANNO SI FACEVA UNA FESTA, UNA GRANDE FESTA DI FAMIGLIA

QUALCUNO SI METTEVA AL PIANO, E IL PIÙ DELLE VOLTE ERA MIO PADRE. LUI MI DICEVASEMPRE: “IMPARA A SUONARE IL PIANO SE VUOI ESSERE INVITATO A UN SACCO DI FESTE”

‘‘

‘‘

‘‘

IL LIBRO E IL FILM

TESTI E FOTO SONO TRATTI DA “LA VERSIONE DI PAUL- PAUL MCCARTNEY CON PAUL DU NOYER” (PIEMME, 336 PAGINE, 20 EURO) IN USCITA IL 9 SETTEMBRE. MENTRE PER IL15 È ATTESO NELLE SALE IL DOCUFILM DI RON HOWARD “EIGHT DAYS A WEEK”

P A U L M C C A R T N E Y

©RIPRODUZIONE RISERVATA

© L

IND

A M

CC

AR

TN

EY

© A

P /

PR

ES

S A

SS

OC

IAT

ION

IM

AG

ES

© T

RIN

ITY

MIR

RO

R /

MIR

RO

RP

IX /

AL

AM

Y

Da Liverpool (“è nelle città portuali che sbarcano i dischi migliori”)

fino ai giorni nostri passando per la rottura con gli altri tre scarafaggi

(“eravamo giovani e maschi, era naturale che ci saremmo scontrati”)

Tra aneddoti e rarità in un libro-intervista le confessioni dell’ex Beatles

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 42LADOMENICA

Semafori

Sono 4.400 in tutta

la città, collegati fra loro

sin dalle olimpiadi

del 1984

1 Mobilità

Autobus, taxi e metro

sono dotati di gps

che ne trasmette

la posizione

LE INTERCONNESSIONI

L’AMMINISTRAZIONE

Sensori

Sono 20mila su tutto

il territorio, posizionati

nell’asfalto: utili

per trovare parcheggio

3 4 App5Telecamere

Sono 500 dislocate

nei punti nevralgici

per monitorare il trafco

in tempo reale

2Le informazioni raccolte

sono trasmesse ad app

di aziende private come

Waze e Google Maps

Gli open data 

Il comune di Los Angeles fa confuire i dati raccolti in un unico database. Questo permette

ad esempio di incrociare le informazioni dei vigili del fuoco con quelle della polizia stradale,

o di sapere con precisione quali incroci sono più pericolosi e a quale ora, e di prevedere

i fussi di trafco e gli ingorghi con un anticipo di ore

Il Chief Innovation Technology OfcerNel 2014 Peter Marx diventa il primo CTO di una pubblica amministrazione dando

vita al sito data.lacity.org con informazioni in tempo reale sulla città per sviluppare

servizi, ridurre sprechi e ottimizzare gli interventi. I costi sostenuti dal suo staf

in questi 2 anni ammontano a soli 40 mila $

1

2

3

L AJ A I M E D ’ A L E S S A N D R O

Next. Semaforo verde

LOS ANGELES

SIEDE IN UN UFFICIO SPOGLIO ai piani alti del City Hall, il municipio di Los Angeles. Di futuribile ha poco que-sto palazzo bianco del 1928, con al centro una torre che vorrebbe ricordare il mausoleo di Alicarnasso. Pe-santi ascensori in legno con pulsantiere in ottone con-sumato, corridoi polverosi, vecchie scrivanie in ferro. E un primato in altezza, i suoi 138 metri, che gli fu ru-bato negli anni Sessanta. Eppure per guardare il nuo-vo volto della città bisogna venire qui e parlare con Peter Marx. Cresciuto nel quartiere Parioli di Roma, il padre lavorava a Cinecittà, lo avevamo incontrato due anni fa quando era appena stato nominato chief

technology officer della città di Los Angeles dal sindaco democratico Eric Garcet-ti. Carica propria di aziende private e non certo di un ente territoriale. Lui è stato fra i primi. Subito dopo altre metropoli hanno iniziato a fare la stessa cosa, da Am-sterdam a New York. Marx ha subito sposato la causa degli open data e messo onli-ne tutto quel che di digitale raccoglievano i vari dipartimenti. Oltre alla coordina-zione fra i diversi uffici, da quel momento per i vigili del fuoco è stato molto più semplice sapere dove stavano intervenendo quelli del dipartimento dell’energia elettrica, la speranza era che qualcuno avrebbe usato le informazioni per creare servizi. Qualcuno proveniente dal privato.

«Cosa è successo da allora? Che abbia-mo speso appena quarantami-la dollari», esordisce lui. «Quel-lo che ricordo di Roma è il traffi-co. Ed è la stessa cosa che si po-

trebbe dire di Los Angeles. Ma quando vive-vo a Roma, da piccolo, non esistevano gli smartphone. Le faccio un esempio: qui Waze è usata da due milioni di persone su quattro milioni di abitanti. Lo schermo del telefono è la nuova interfaccia della metropoli. Il siste-ma di trasporto è computerizzato, gli auto-bus hanno il gps e della metropolitana sappia-mo esattamente dove si trova in tempo reale. Sappiamo anche dove ci sono lavori in corso, dove sta intervenendo la polizia, dove c’è una perdita nella rete idrica. Ma la segnaletica tra-dizionale è statica, immobile. Ogni eccezione all’ordinario richiede che venga portata quel-la mobile. Ed è inefficace: non avvisa chi sta partendo da casa che in un certo tratto ci sarà

un rallentamento. Ci sono solo i se-mafori che cambiano colore. Quel che abbiamo fatto è stato dare a chi realizza le app ogni tipo di informa-zione: quali strade sono bloccate e quali hanno lavori in corso, orari delle scuole, percorrenza dei bus, tempi della metropolitana e dei treni». Di fatto una nuova for-ma di segnaletica, personalizza-bile e dinamica che arriva ai cit-tadini sull’unico apparecchio hi-tech che hanno di sicuro, lo

trafficQuando la megalopolista in uno smartphone

“Con una spesa di 40mila dollari abbiamo ridotto il traffico del sedici per cento in due anni”

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 43

5

4

IL RISULTATOLa riduzione del trafco

grazie alla sincronizzazione

dei semafori creata per

le olimpiadi dell’84

La riduzione dei tempi

di percorrenza grazie

all’uso di app gratuite

di aziende private

-16% -40%

IL CONFRONTO

Los Angeles è 7 volte

più grande

di Milano

SuperfcieLos Angeles: 1.290,5 km²

Milano: 181,67 km²

INFOGRAFICA: DANIELE SIMONELLI

FONTE: METRO, LA COUNTY METROPOLITAN TRANSPORTATION AUTHORITY

©RIPRODUZIONE RISERVATA

ALEJANDRO Aravena, clas-se 1967, è un architetto al quale l’architettura piace poco. Almeno quella tradizionale. Pre-

mio Pritzker nel 2016, curatore dell’ultima Biennale di Architettu-ra, lo abbiamo incontrato nella sede di Fabrica, vicino Treviso, centro di ricerca dedicato alla creatività di Be-netton, dove ha tenuto una lezione su quella che potremmo chiamare il probabile collasso delle metropoli. «Non credo affatto che rendere più smart le nostre città serva. E poco importa che si parli di Roma o di Los

Angeles»Perché è così pessimista? «È marketing. Le metropoli sono

organizzate male, sull’idea che si debba abitare lontano da dove si la-vora. Nel 2030, secondo le stime, cin-que miliardi di persone vivranno in città. E due miliardi saranno sotto la soglia della povertà. Non è possibile pensare di costruire le città così co-me abbiamo fatto fino ad oggi. Non

abbiamo i materiali per farlo su scala tanto grande, manderemmo in rovi-na il pianeta. L’edilizia consuma trop-pe risorse e troppa energia in termi-ni di processi. Dobbiamo cambiare».

Molte economie sono basate sul mattone. Non sarà facile. «Non c’è alternativa. Guardi cosa

sta succedendo oggi nel mondo e pro-vi a immaginare cosa potrebbe suc-cedere fra quindici anni. I conflitti non nascono dalla fame ma dalla di-seguaglianza. Le periferie sono e sa-ranno il luogo principe dove scoppie-ranno gli incendi se non facciamo qualcosa. Il fatto che nell’agenda del G7 del prossimo anno ci sia il tema della periferia è una già una buona notizia».

Ad Elemental, lo studio di architet-tura cileno che lei ha cofondato, avete pensato a diverse soluzioni.«Pensavamo che l’unico modo pos-

sibile per costruire in futuro senza mandare in bancarotta la Terra fos-se l’uso di materiali molto poveri e lo-cali. Poi abbiamo aggiunto un’alter-nativa: le plastiche e i materiali nuo-vi realizzati grazie all’alta tecnolo-gia. Fin qui l’edilizia privata. Ma è lo spazio pubblico il terreno della vera sfida. Perché la somma delle migliori intenzioni che arrivano da interlocu-tori privati non garantisce il bene co-mune. Ed è invece proprio di quello che stiamo parlando». (j.d.a)

smartphone, e che permette di ridurre i tem-pi di percorrenza dal 15 al 40 per cento secon-do i casi. E di conseguenza anche l’inquina-mento. Marx per certi versi è stato fortunato, per questo ha speso così poco. Los Angeles dal 1984, quando accolse i giochi olimpici, ha un sistema di gestione degli incroci. Serviva a sincronizzare fra loro i semafori. Nel tempo all’Automated Traffic Surveillance and Con-trol (Atsac) sono stati aggiunti quarantami-la sensori sparsi per la città, cinquecento vi-deocamere, quattromila cinquecento sema-fori. «Tutto integrato», spiega lui. «Compresa una serie di semafori dedicati ai cavalli. Già, abbiamo anche quelli in alcune aree. Del re-sto questo è pur sempre il West».

E non si tratta solo del traffico della auto-mobili private. Dai porti di Los Angeles passa-no merci con un valore pari a circa il 40 per cento dell’economia statunitense. È un flusso enorme e costante che investe le strade, le ferrovie e la rete di magazzini. Ma il tassello più importante di Atsac, ora, sono quei due

milioni di persone che grazie al loro telefono diventano dei sen-sori. Di qui una infrastruttura pubblica collegata a un ecosi-stema privato che produce in-

formazioni accurate in tempo reale attraver-so delle app. E, a loro volta, le app comunica-no al comune i dati dei propri utenti in forma anonima.

«Abbiamo iniziato a usare tecnologie pre-dittive — prosegue Marx — per avvertire in base alle informazioni raccolte nel corso di questi due anni se un certo giorno si prevedo-no code e dove si verificheranno». Lo fanno anche in altri campi, quello dello streaming musicale, tanto per citarne uno, dove riesco-no a prevedere il successo di un brano analiz-zando come le hit del passato si sono diffuse.

«C’è chi crede che il problema del traffico si risolva costruendo nuove strade», conclu-de Peter Marx, «ma è come mettersi a dieta ascoltando il proprio stomaco. Il traffico cre-sce in quei casi, senza contare costo e tempi per ampliare le strade. A un certo punto si tocca il limite: aumentare la capacità non ri-solve mai il problema di congestione di un network». Marx e Garcetti operano però in una città americana. E le multinazionali che producono app per la navigazione sono tutte americane. Compresa Waze, di Google dal 2013. In una metropoli europea un’operazio-ne del genere richiederebbe un po’ più di cautela.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

IL PREMIO PRITZKERNEL 2030 CINQUE MILIARDI DI PERSONE ABITERANNO

NELLE GRANDI CITTÀ E DUE MILIARDI SARANNO SOTTO LA SOGLIA DI POVERTÀ. SE NON FACCIAMO QUALCOSA ADESSO È LÌ CHE SCOPPIERANNO LE GUERRE

Se fossimo davvero smart

cambieremmo strada

‘‘

Siamo andati a chiedere come hanno fatto

Intervista ad Alejandro Aravena

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 44LADOMENICA

“MA si ricordi che piuttosto di mangiare ‘sta minestra... Sal-to dalla fine-stra!”. Ne Il giornalino di Gian Burra-sca, Luigi Ber-telli più di un secolo fa già raccontava il

rapporto complicato fra cibo e piccoli studenti. Altro che inneggiare alla pappa col pomodoro, come da canzone di Rita Pavone: a un passo dall’ini-zio del nuovo anno scolastico, questa volta la ribellione dei bambini vie-ne spalleggiata dalle famiglie, con tanto di ricorsi e sentenze favorevoli ai ribelli.

A metà tra l’aumento dei prezzi della mensa e la pasta insopportabil-

L I C I A G R A N E L L O

Sapori. Buoni e giusti

Carne rossa Come per quella bianca e per il pesce (se non pescato), a fare la differenza è il tipo di allevamento da cui proviene. Oltre alle cotolette, piacciono le polpettine al forno

Pesce

Per evitare il problema delle lische, merluzzo, platessa, sogliola, in filetti al forno o impanati,

con un occhio di riguardo per l’olio di frittura, combinati alle patate al forno

L’appuntamento

A Lerici (La Spezia) nel prossimo week end

si terrà “Mytiliade”, passerella dedicata a cozze&affini

del Golfo dei Poeti. Quest’anno, focus

sul Mediterraneo, con ricette e degustazioni in arrivo

da Grecia e Turchia

Il festival

Presentazione oggi alla mostra di Venezia della quinta edizione

di “Cinecibo”, presieduto da Michele Placido,

in programma a Battipaglia dal 6 al 9 ottobre. In gara,

una selezione di audiovisivi dedicati al buon mangiare

L’evento

Fino al 18 settembre, i Campi Flegrei ospitano

la nuova edizione di “Malazè”

(magazzino per la pesca): in passerella cibi, design,

tecnologie digitali e percorsi sociali e imprenditoriali

del territorio napoletano

VIVA LA PAPPA COL POMODORO, CERTO, PURCHÉ NON SIA TROPPA

SCOTTAMENTRE RIAPRONO

LE SCUOLE, CON L’AIUTO DI UN

NUTRIZIONISTA ABBIAMO

IMMAGINATO QUALE POSSA

ESSERE IL PASTO PERFETTO (O ALMENO DECENTE)

PER I NOSTRI FIGLI. ECCO UN ASSAGGIO

Legumi Piatto simbolo: la pasta e fagioli, per il sano mix di proteine vegetali, carboidrati e grassi (extravergine a crudo). In alternativa, crema di ceci o lenticchie con crostini di pane

Un’altra mensaè possibile. Oggila frittata non sapeva di SpongeBob

Pollo

Le immancabili cotolette (anche di tacchino) impanate sono importanti

per l’apporto di proteine. Rischio estrogeni per le carni di animali

allevati in maniera intensiva

Pasta L’ideale sarebbe alternarla con quella integrale, e poi riso, orzo, farro. Cotta al dente e condita con ragù di verdure o salsa di pomodoro e un filo di extravergine a crudo

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 45

©RIPRODUZIONE RISERVATA

mente scotta, torna in auge il fai-da-te culinario, retaggio in versione 2.0 del tempo in cui thermos e pietanziere abitavano le cartelle dall’asilo alle scuole medie. Certo: l’eguaglianza e la democrazia alimentare, la possibili-tà per tutti di accedere quotidianamente a un pasto corretto dal punto di vista nutrizionale e secondo le direttive ministeriali, tutto vero e tutto giu-sto. Purtroppo però, tra le disposizioni dietetiche e i piatti serviti nelle mense scolastiche troppo spesso si crea un abisso dove insieme ai sapori e all’appetibilità sprofondano i princìpi dell’educazione culturale al cibo. La quotidianità famigliare ha un peso enorme, se è vero che l’imprinting ga-stronomico si forma nei primissimi anni di vita, pur con tutte le problema-tiche connesse, a partire dalla verdura. Non a caso, nel film di animazione premio Oscar 2016 Inside Out, la piccola protagonista fa impersonificare la sensazione di disgusto a un broccolo...

Zucchine, spinaci e patate sono sicuramente di più facile approccio. Ma il vero guaio sono i cibi processati, con il loro carico di zucchero e sale, in grado di rovinare il palato di quelli che potenzialmente sarebbero dei buongustai in miniatura e di incidere a lungo termine sulla loro salute. Che fare? Il nutrizionista milanese Vanni Zacchi, due figlie e una collabo-razione stretta con i più importanti centri europei di ricerca alimentare, non ha dubbi: «Prima di tutto, bisogna che gli alimenti siano biologici,

quindi più sani e a basso rischio di intolleranze. E poi freschi: niente cibi in-dustriali, che sono ricchi di sostanze ossidate. Al mare ho notato con pena quanti bambini hanno un accenno di seno, segno inequivocabile della pre-senza di estrogeni in quello che mangiano. Un vero disastro, anche per-ché i piccoli hanno bisogno di proteine — carne, latte, uova (oltre a quelle vegetali, ovvero fagioli, ceci, lenticchie...), che sono i mattoni con cui co-struire un corpo sano. L’energia, invece, arriva dai carboidrati: ma se è zucchero, che sia integrale. L’altra regola è variare il più possibile l’offer-ta, sia per abituarli a gusti diversi, sia per evitare accumuli di tossine, pro-ponendo anche piatti legati al territorio e i piatti-simbolo della nostra cul-tura alimentare. Nutrirsi bene non vuol dire annoiarsi: che mangino pure la pizza, purché fatta con buoni ingredienti e senza berci sopra le bibite. L’acqua va benissimo».

Già da tempo, in Emilia Romagna le mense scolastiche sono orientate al biologico per legge regionale, mentre in Francia il punto di non ritorno è stato segnato dal lungometraggio di Jean-Paul Jaud Nos enfants nous accuseront, che denuncia i danni causati dai pesticidi nell’alimentazione infantile. Se poi la pasta arriverà al dente, le uova non avranno l’orlo scuro e le frittate non somiglieranno a SpongeBob, i bambini faranno la ola.

Dolce

La crostatina ricoperta di buona marmellata, un gelato realmente

artigianale o il budino, entrambi a base di latte fresco, una fetta di torta soffice,

farcita con frutta fresca

M A R C O L O D O L I

Quel pasto triste e solitariodei mieistudenti

ALMENO UN PAIO DI GIORNI alla settimana i miei studenti escono da scuola alle 14 e 40: aspettano l’autobus chissà quanto, quindi

viaggiano verso quartieri che per lo più stanno oltre il Raccordo Anulare. Arrivano a casa intorno alle quattro del pomeriggio, quando d’inverno la luce già declina e cresce la malinconia. E a quell’ora impossibile ognuno di loro pranza in solitudine. Li penso e mi viene un groppo alla gola a pensarli in cucina, muti a riscaldarsi la pietanza lasciata dalla madre, a mangiare soli soletti davanti alla televisione o al muro bianco. E quanto è bella e allegra, invece, la mensa della scuola elementare frequentata da mia figlia: ma tutte le mense scolastiche sono piene di vita e di gioia! Condividere il cibo con i compagni, spesso anche con gli insegnanti, è puro piacere. La mattinata di studio è stata dura, bisogna stare in silenzio, attenti, concentrati, bisogna riempire i quaderni di numeri e frasi, bisogna faticare. Ma quando squilla la campanella dell’ultima ora della mattina, riappare la felicità, perché è il momento di trasferirsi nella sala da pranzo, nel “ristorante dei bambini”. È vero che qualche volta il cibo non è straordinario, spesso nei piatti galleggia un’insipida minestrina o s’ammucchia una pasta un po’ scotta, ma non importa, o importa solo a qualche genitore abbonato alle riviste d’alta cucina: quello che conta è stare insieme, chiacchierare a tavola, condividere quel momento magico e magari tirarsi anche qualche mollica di pane. A tavola, come insegna il Simposio e anche il Vangelo, nascono tanti discorsi interessanti, si creano intese e amicizie, si ferma il tempo. Volano i commenti, i racconti, le battute, e la classe diventa più unita, i ragazzi sentono la scuola come un luogo di vita vera, dove si condivide il sapere ma anche la fettina panata, dove si cresce insieme nel pensiero e nei corpi. Ogni scuola che prevede un orario lungo dovrebbe organizzare questa pausa

benefica, non può lasciare lo studente solo con il suo mesto panino, nella lunga e affamata attesa del rientro a casa. La giornata scolastica riceve ombra

dal panino e luce dalla mensa. “Il materiale e l’immaginario” era il titolo di una bella antologia scolastica: l’invisibile e il concreto, la poesia ma anche il cibo, tutto da mettere in comune. La mensa pensa, e così è bello maturare insieme, tra le lezioni e gli spaghetti, nello studio e nell’intervallo del pranzo, dove accadono tante cose, dove si impara a stare bene con gli altri, senza dover attendere un autobus che conduca a un pasto triste e solitario.

Verdure

Crude e cotte, possibilmente non fritte. Patatine solo una volta alla settimana,

tagliate e cucinate al momento. Zucchine e pomodori ripieni, spinaci

e fagiolini al vapore o spadellati

Bibite

Acqua, frizzante o naturale. Un bicchiere di buon latte, ma anche

frullati, estratti, centrifugati a base di frutta e verdura, senza zucchero.

Vietate le bibite e le bevande pronte

Formaggio Una volta alla settimana, via libera alle schegge di Parmigiano, alle tartine con la crescenza o a una toma fresca tagliata a bastoncini, evitando i formaggi fusi con polifosfati

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Frutta Dovrebbe essere presente in tutti i pasti. Macedonia in primis, oppure mele, pere, arance, banane tagliate a fettine e rese più golose con limone e un poco di zucchero integrale

DIS

EG

NI D

I A

NN

AL

ISA

VA

RL

OT

TA

Repubblica Nazionale 2016-09-04

laRepubblicaDOMENICA 4 SETTEMBRE 2016 46LADOMENICA

MILANO

COME TANTE GIOVANI DONNE DI OGGI • bella, • sicura di sŽ, • de-mocratica, ecologista, • indipendente. E naturalmente Cri-stiana Capotondi, lÕadolescente Claudia di Notte prima degli esami, la paziente moglie di Pif in La mafia uccide due volte, lÕimperatrice Sissi e la marchesina Aurora di Orgoglio, • una

sportiva incallita. Ore nove di mattina: entra nel bar vicino allÕArco della Pace in tuta da ginnastica, minuta, taglia trentotto, non un filo di trucco, i capelli bagnati per una fine pioggerella, il sorriso luminoso sul volto. Per fortuna si prende subito in giro. Elenca: ÇFaccio calcetto, pattinaggio, gin-nastica artistica, palla a volo, sci. é che da bambina non ho mai fatto sport, sto recuperando da grande. Ah, dimenticavo, nuoto e ultima-mente faccio anche acquagym e acquabike che • molto duro: i primi trenta secondi parli, poi muovi a stento la testa. Ma la sera dormi che • un piacere...È.

Nel cinema italiano che fatica a offrire nuovi volti per pi• di una stagione, come invece accadeva un tempo, le attrici come Capo-tondi assicurano continuitˆ, ma anche umanitˆ e passione fre-sca. ÇSi parla tanto di giovani... Io penso che abbiamo la possibili-tˆ di fare la differenza. Anche nel cinema. PerchŽ se • vero che viviamo in un mondo dove bisogna essere tutti uguali, tutti con-

formi agli stessi modelli, mai come in questa epoca ci sono per-corsi di eccellenza meravigliosi per i giovani che hanno voglia di mettere in mostra il proprio talentoÈ.

Cristiana deve averli trovati presto questi percorsi. Fa lÕattrice da quando aveva dodici anni e oggi, che ne ha trentacinque (e ne dimostra meno), ha gi ̂recitato in oltre venticinque film e ventisei fiction o film tv. ÇA’ Cristià, quanno vai in pensione?È, la apostrofa-no ironicamente i tecnici di Cinecittˆ che lÕhanno vista dagli inizi, quando aveva cominciato girando gli spot. Poi a tredici anni il debut-to nella miniserie Amico mio con Massimo Dapporto, e a quindici il primo film, Vacanze di Natale ‘95 dei Vanzina, dove era la figlia vizia-ta di Massimo Boldi che vuole conoscere Luke Perry. ÇLa mia • una storia strana. Ero piccola e volevo diventare grande. Pi• che preco-ce, volevo trovare subito una mia strada. Se ho scelto di fare lÕat-

trice • perchŽ mi era piaciuto Nuovo cinema Paradiso e Leon con Natalie Portman, dove avevo capito che anche i bambini potevano fare gli attori. Quando chiesi ai miei di iscrivermi a unÕagenzia di casting, mia mamma che • farmacista e mio padre che ha studiato storia e filosofia mi imposero solo un diktat: continuare a studiare. LÕho fatto, mi sono anche laureata, centodieci e lode in Scienze della comunicazione alla Sapienza di Roma. Quanto al cinema, per me • stato a lungo un gioco. Ancora oggi mi ci diver-to, e poi visito bei posti: per fare Sissi mi sono stesa sul vero letto dellÕimpe-ratrice!È.

Lo scotto? ÇCredo di aver avuto unÕadolescenza tardiva. Puoi anche bru-ciare le tappe, ma non puoi saltare le etˆ con le loro fasi. Prima o poi ti si riaffacciano davanti con i loro problemi. Io a dodici anni lavoravo e avevo perfino gi ̂un fidanzatino che consideravo lÕuomo della mia vita. Era trop-po. Sono cresciuta facendo poche esperienze, non come i miei compagni. E tutto questo mi ha tenuto come in una bolla: quando si • rotta, a venti-quattro anni, • partita la mia adolescenza. E a quel punto mi sono diverti-ta, anche perchŽ ero unÕadolescente ma con la casa, la macchina, i soldi... In due anni credo di aver fatto un processo di maturazione accelerato. Pro-fessionalmente • coinciso con Notte prima degli esami, il film di Brizzi nel 2009 e con la mia prima candidatura ai David di Donatello. L“ ho capito che fare lÕattrice • un lavoro anche invasivo oltre che un gioco, devi so-spendere la tua identit ̂per farne affiorare altre, sei costretto a lasciare si-curezze, conquistarne di nuove. UnÕattrice deve essere salda e tenere i pie-di bene per terraÈ.

é cos“ che Cristiana ha continuato a marciare. ÇE mano a mano sono an-data avanti cercando figure di donne sempre pi• vere, alle prese con scel-te importanti, difficiliÈ: La kryptonite nella borsa, Amiche da morire, con Claudia Gerini e Sabrina Impacciatore, I Vicerè di Faenza, Un ragazzo d’o-ro di Pupi Avati, e tra le novit ̂che ancora devono vedersi, 7 minuti il film di Michele Placido dalla piŽce di Stefano Massini con Ottavia Piccolo, Fio-rella Mannoia, Ambra Angiolini, Il centro del mondo di Kim Rossi Stuart, Di Padre in figlia, il film tv di Riccardo Milani su soggetto di Cristina Co-mencini, Giulia Calenda e Francesca Marciano. Fino a quello che conside-ra la pi• importante interpretazione, Io ci sono, il film-tv prodotto da An-gelo Barbagallo che andr ̂in onda in autunno con la Rai, dove Cristiana • Lucia Annibali, la coraggiosa donna che ha lottato e denunciato lÕex-com-pagno, Luca Varani, mandante dellÕagguato che lÕha sfregiata, una trage-dia intima che racconta quella pi• grande e terribile del femminicidio. Çé una emergenza sociale e dobbiamo dirlo chiaro. I maschi, e non chiamia-moli uomini, sono frastornati dal processo di emancipazione delle donne e reagiscono con rabbia e violenza a cambiamenti che non riescono a gesti-re e a comprendere. Sono Òsacche patologicheÓ, trasversali ma talmente diffuse che non possono essere ignorate. Io credo che dobbiamo innalzare i valori di una cultura umanista, ma soprattutto noi donne dobbiamo gua-dagnare maggiore consapevolezza di noi stesse, del nostro talento e della grande ricchezza e vitalitˆ che abbiamo dentro. Dobbiamo noi per prime

imparare ad amarci e piacerci per quello che siamo. Quando si incon-tra un uomo che ha dentro la ÒbestiaÓ bisogna imparare a riconoscer-lo e avere la forza di tenerlo alla dovuta distanza, senza offrire alibi,

senza cedimenti. Non pu ̃essere amore. LÕamore • dare, non pos-sedere. Se non cÕ• libert ̂non • amoreÈ.

Dietro lÕaria da bambolina, il bel viso fuori dal tempo, Cristia-na • un caporalmaggiore (ÇChi mi conosce, ironicamente mi di-ce Òtu sei il mio amico CristianaÓ, per dire quanto sono maschi-leÈ). Con energia e felicit ̂ha affrontato, lei trasteverina doc, il trasferimento a Milano, pur di vivere accanto al compagno An-drea Pezzi, lÕex veejay di Mtv, che oggi si occupa di digitale con una sua azienda. ÇFacevo la pendolare, poi un 23 dicembre sta-vo venendo a Milano con lÕultimo treno e mi sono detta: sar ̂lÕul-timo per davvero Ñ ma la casa a Roma per˜ lÕho mantenu-ta....Anche se Milano... Milano per me • come il monopoli, non

ho bisogno di macchina e moto, qui le persone vogliono che la cittˆ sia bella, altrimenti sanno che diventa un dormitorio e dunque fanno di tutto per renderla pulita, funzionante. Ecco, mi piacerebbe che anche lÕItalia fosse cos“, e non • detto che

non ce la si faccia. Io mi sento di dare fiducia a questo paese per cui ho molto attaccamento. Ci rimango male quando sento parlar-ne male, specie se lo fanno i giovani che dovrebbero tenere accesa la speranza e aprire nuove strade. Ricordo che il mio professore di storia e filosofia del liceo Virgilio, a Roma, il professor Calbi, un vero maestro, lÕultimo anno mi ripeteva ÒCapotondi, ricordati che fuori di qui nessuno si preoccuperˆ pi• di capire se hai capitoÓ. Era vero, era uno sprone per dirmi: prendi tutto quello che puoi ora e poi vai avanti da sola. Forse a noi giovani mancano i vecchi, qualche vecchio saggio che si prenda la responsabilit ̂di indicarci la strada. Poi a camminare ci pensiamo noiÈ.

È stata l’adolescente Claudia in “Notte prima degli esami”, è stata

l’imperatrice Sissi di “Orgoglio” e in autunno sarà Lucia Annibali.

A trentacinque anni questa trasteverina doc trapiantata a Milano

ha già alle spalle oltre venticinque film e almeno altrettante fic-

tion per la tv. Tanto che a Cinecittà, dove l’hanno vista nascere,

scherzando le dicono: “A’ Cristià’, ma quann’è che vai in pensio-

ne?”. Lei non ci pensa neppure: “Il cinema l’ho scelto da bambina.

Per me è sempre stato un gioco.

Ancora oggi mi diverte. E poi ha

presente i posti pazzeschi che

mi consente di vedere? Io per fa-

re Sissi mi sono stesa sul letto

dell’imperatrice. Quella vera”

A DODICI ANNI GIÀ LAVORAVO E AVEVO PERFINO UN FIDANZATINO CHE CONSIDERAVO L’UOMO DELLA MIA VITA. ERA TROPPO. È A VENTIQUATTRO ANNI CHE È PARTITA LA MIA ADOLESCENZA. PERÒ A QUEL PUNTO MI SONO DIVERTITA PER DAVVERO...

Cristiana

©RIPRODUZIONE RISERVATA

AL LICEO IL PROF DI FILOSOFIA MI DISSE: RICORDATI CHE FUORI DI QUI NESSUNO SI PREOCCUPERÀ PIÙ DI CAPIRE SE HAI CAPITOFORSE A NOI GIOVANI OGGI MANCA UN PO’ UN VECCHIO SAGGIO CHE CI INDICHI LA VIA

IL FEMMINICIDIO È UN’EMERGENZA

SOCIALE. DOBBIAMO NOI PER PRIME

IMPARARE AD AMARCI.

E QUANDO SI INCONTRA

UN MASCHIO-BESTIA VA CACCIATO

L’AMORE È DARE, NON POSSEDERE

‘‘

A N N A B A N D E T T I N I

Capotondi

‘‘

‘‘

L’incontro. Splendide trentenni

Repubblica Nazionale 2016-09-04