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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 OTTOBRE 11 NUMERO 349 CULT La copertina BYRNE E VIDETTI La canzone globale così la world music è diventata la nostra colonna sonora Il libro FRANCO MARCOALDI Troppa felicità l’incredibile arte del racconto di Alice Munro All’interno La mostra ANNA OTTANI CAVINA Nella galleria dei ritratti fatta dai maestri del Quattrocento Il teatro RODOLFO DI GIAMMARCO Sulla scena “Via col vento” si trasforma in un burlesque Il Nobel Laughlin “Il nuovo petrolio crescerà sugli alberi” Next CARLO PETRINI e FEDERICO RAMPINI Monica Vitti, quando la bellezza sa far ridere Spettacoli NATALIA ASPESI e MONICA VITTI « R ipenso continuamente al giorno in cui Jimmy Dean ci lasciò. Mi trovavo a Los Angeles, ospi- te di mio cugino Arthur Loew. Presi io la te- lefonata. Dall’altro capo del filo c’era Henry Ginsberg, produttore de Il gigante, il film a cui stava lavorando. Mi disse solo: “The kid is dead”, il ragazzo è morto. Capii subito di chi parlava. Uscii e cominciai a passeggiare a casaccio, intorno a me tut- to sembrava normale. Molte ore più tardi, la radio diede la notizia del suo schianto con la Porsche a Cholame, California: e giovani, adulti, bambini si riversarono in strada. Piangendo, abbracciandosi, suo- nando i clacson delle auto per esprimere il dolore e la rabbia. Io rive- devo dentro di me solo immagini piene di vita: la sua energia, gli scherzi infantili, il modo in cui arrivava rombando, con la moto, fin quasi dentro il soggiorno di casa. Sempre imprevedibile, inafferra- bile: duro e dolce, allo stesso tempo». (segue nelle pagine successive) CLAUDIA MORGOGLIONE 20 MAGGIO 195? C aro Re del Bosco: E-je! E-je a te. Un equilibrio nelle dualità sovrinten- de a questa epistola. Asmodeo e le sue arpie sono in pensione al momento. I miei wooh-ha metafisici si sono assoggettati a sfumature leggermente spirituali. Fortunata- mente ho incontrato scarso successo nel sormontare il mio taber- nacolo finanziario. Ti spedisco l’interesse sulla mia vita. 12,50 dol- lari, beh, sic transit gloria mundi. Qui me la sto cavando molto bene. Ho debuttato a B’way e so- no stato generosamente applaudito dai critici. Nemine contradi- cente, nemine. Guadagnato da vivere recitando. Comportamen- to di e per altre persone. Non so chi sono io veramente, ma non importa, pro bono publico. Viva televisione. $$$$$. Non ci sono davvero opportunità di grandezza in questo mondo. (segue nelle pagine successive con un articolo di GIUSEPPE VIDETTI) JAMES DEAN Gli ultimi mesi, la fine improvvisa, una lettera segreta Stewart Stern, sceneggiatore di “Gioventù bruciata”, svela il ragazzo dietro il mito James “Il mio amico Dean FOTO EVERETT L’intervista SUSANNA NIRENSTEIN Jaimy Gordon “Fantini e cavalli ecco come ho vinto il Book Award” Repubblica Nazionale

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 23OTTOBRE 11

NUMERO 349

CULT

La copertina

BYRNE E VIDETTI

La canzone globalecosì la world musicè diventata la nostracolonna sonora

Il libro

FRANCO MARCOALDI

Troppa felicitàl’incredibilearte del raccontodi Alice Munro

All’interno

La mostra

ANNA OTTANI CAVINA

Nella galleriadei ritrattifatta dai maestridel Quattrocento

Il teatro

RODOLFO DI GIAMMARCO

Sulla scena“Via col vento”si trasformain un burlesque

Il Nobel Laughlin“Il nuovo petroliocrescerà sugli alberi”

Next

CARLO PETRINI

e FEDERICO RAMPINI

Monica Vitti,quando la bellezzasa far ridere

Spettacoli

NATALIA ASPESI

e MONICA VITTI

«R ipenso continuamente al giorno in cui JimmyDean ci lasciò. Mi trovavo a Los Angeles, ospi-te di mio cugino Arthur Loew. Presi io la te-lefonata. Dall’altro capo del filo c’era Henry

Ginsberg, produttore de Il gigante, il film a cui stava lavorando. Midisse solo: “The kid is dead”, il ragazzo è morto. Capii subito di chiparlava. Uscii e cominciai a passeggiare a casaccio, intorno a me tut-to sembrava normale. Molte ore più tardi, la radio diede la notizia delsuo schianto con la Porsche a Cholame, California: e giovani, adulti,bambini si riversarono in strada. Piangendo, abbracciandosi, suo-nando i clacson delle auto per esprimere il dolore e la rabbia. Io rive-devo dentro di me solo immagini piene di vita: la sua energia, glischerzi infantili, il modo in cui arrivava rombando, con la moto, finquasi dentro il soggiorno di casa. Sempre imprevedibile, inafferra-bile: duro e dolce, allo stesso tempo».

(segue nelle pagine successive)

CLAUDIA MORGOGLIONE

20 MAGGIO 195?

Caro Re del Bosco:E-je! E-je a te. Un equilibrio nelle dualità sovrinten-de a questa epistola. Asmodeo e le sue arpie sono inpensione al momento. I miei wooh-ha metafisici si

sono assoggettati a sfumature leggermente spirituali. Fortunata-mente ho incontrato scarso successo nel sormontare il mio taber-nacolo finanziario. Ti spedisco l’interesse sulla mia vita. 12,50 dol-lari, beh, sic transit gloria mundi.

Qui me la sto cavando molto bene. Ho debuttato a B’way e so-no stato generosamente applaudito dai critici. Nemine contradi-cente, nemine. Guadagnato da vivere recitando. Comportamen-to di e per altre persone. Non so chi sono io veramente, ma nonimporta, pro bono publico. Viva televisione. $$$$$. Non ci sonodavvero opportunità di grandezza in questo mondo.

(segue nelle pagine successivecon un articolo di GIUSEPPE VIDETTI)

JAMES DEAN

Gli ultimi mesi,la fine improvvisa,una lettera segreta

Stewart Stern, sceneggiatoredi “Gioventù bruciata”,svela il ragazzo dietro il mito

James“Il mio

amico

Dean” FO

TO

EV

ER

ET

T

L’intervista

SUSANNA NIRENSTEIN

Jaimy Gordon“Fantini e cavalliecco come ho vintoil Book Award”

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 28

DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

“The kid is dead”, gli dissero al telefono“Capii subito di chi stavano parlando”

Stewart Stern, sceneggiatore di “Gioventù bruciata”, ricorda cosìl’amico Jimmy. E consegna a “Repubblica” una lettera ineditache getta nuova luce su una storia mai chiarita

La copertinaJames Dean

(segue dalla copertina)

«Diverso dal cliché di nevrotica fragilitàche gli hanno affibbiato». StewartStern racconta il suo amico JamesDean. È un ritratto inedito dell’atto-re quello che emerge dalle parole diStern — sceneggiatore di Gioventù

bruciata, candidato agli Oscar per Teresa, autore di script ce-lebri come La prima volta di Jennifero The Last Movie. Un re-soconto appassionato, affidato a Repubblicae centrato sugliultimi mesi di vita del divo. Stern non omette neppure i temipiù controversi, come la presunta omosessualità nascosta diDean («Non ne ho mai avuto sentore») o il rapporto intenso emorboso che lo legava dall’infanzia al reverendo JamesDeWeerd («Spero che il pastore lo amasse solo come un fi-glio»). Occasione per questa chiacchierata con l’ormai ot-tantottenne scrittore di cinema, è la sua trasferta italia-na per presentare Hollywood bruciata — Ritrattodi Nicholas Rayal prossimo Festival di Roma.

Memoria di ferro, spesso commossofino al pianto, Stern comincia la suarievocazione di Dean dal pri-mo incontro: «Veniamopresentati a un party di GeneKelly. C’era anche MarilynMonroe. Poi, non so perché, ciritroviamo soli in una stanza. En-trambi imbarazzati, senza saperecosa dire. All’improvviso lui imita ilverso di una mucca: muuuu… E allo-ra io rispondo con il beeee di una peco-ra. Siamo diventati amici così. Qualchegiorno più tardi, Jimmy mi viene a prende-re e mi porta all’anteprima di un film, senzadirmi quale. Scavalca il red carpet e mi trascina in sala. Il filmera La valle dell’Eden e lui era l’attore protagonista. Capisce?Per lui tutto era come un gioco. Jimmy per molti versi si com-portava come un bambino. Non stava mai fermo, quando civeniva a trovare si nascondeva in bagno, si arrampicava da unpiano dell’edificio all’altro. Poi tornava tutto sorridente, co-me se nulla fosse».

Un eterno ragazzino. Se solo fosse sopravvissuto, Dean og-gi avrebbe ottant’anni. E invece perde la vita il 30 settembre1955, e diventa leggenda. Un mese dopo esce nelle sale Gio-ventù bruciata, diretto da Nicholas Ray: un successo plane-tario. Un po’ per l’eco mediatica della scomparsa del suoeroe. Un po’ per la sua potente rappresentazione del ribellesenza una causa (Rebel Without a Cause fu il titolo originariodel film). «Credo che saremmo potuti restare amici fino a og-gi — sostiene chi quel film lo scrisse — tutto è successo trop-po velocemente per Jimmy: l’arrivo a New York dall’Indianain cui era cresciuto, il teatro, il primo exploit con La valle del-l’Eden di Elia Kazan, la trasformazione in star alla pari conMarlon Brando... Lui faceva di tutto per piacere a Brando,Marlon invece lo considerava una minaccia».

Ma l’astro nascente di Hollywood non era affatto un’ani-ma soltanto fragile e tormentata come spesso ci è stata ri-mandata, non somigliava all’immagine riflessa dal grandeschermo: «Altro che debole — racconta Stern — aveva un’e-nergia, una forza a cui non ci si poteva sottrarre. Era un tipotosto, insomma. Con un senso dell’umorismo sboccato, vol-gare, senza alcuna educazione formale — se vedeva entrareuna donna in una stanza non si sognava neppure di alzarsi.Una volta, mentre girava la scena dei coltelli di Gioventù bru-ciata, Ray ordinò lo stop. Jimmy gli si rivoltò contro: disse chequando lui entrava nei panni di un personaggio nessuno almondo poteva osare interromperlo. E il regista dovette ade-guarsi». Anche sulle strade della California, sulle moto digrossa cilindrata, si comportava da duro: «Veniva a prender-mi e mi faceva montare in sella per prendere a tutta velocità itornanti nei dintorni di Los Angeles. Io ero terrorizzato, mapoi tutto finiva con delle grandi risate».

E questa è solo una delle facce della medaglia. Perché Deanera anche capace «di una grande dolcezza. Ricordo ad esem-pio la tenerezza che gli ispiravano i bambini. In particolareuna piccola di cinque anni, figlia del musicista e amico Oscar

Levant. Jimmy andava la sera a casa sua, saliva dalla piccolaal piano di sopra e le leggeva delle storie fino a farla addor-mentare. Ecco, lui era anche questo. Era rimasto un ragazzi-no ansioso di dare e di ricevere affetto. Del resto era cresciu-to senza genitori, allevato dagli zii». E proprio all’infanzia, se-gnata dalla morte della madre, i biografi più scandalistici fan-no risalire le prime manifestazioni della sua presunta omo-sessualità. Su questo Stern è categorico: «L’abbiamo fre-quentato quasi ogni giorno per molti mesi, lo abbiamo avutoospite tante volte a casa, ma giuro che né io, né mio cuginoArthur, abbiamo avuto sentore di una sua omosessualità.Jimmy è stato compagno di stanza a New York di un altro miocarissimo amico: nemmeno lui ha avuto questa impressio-ne. È vero invece che era un uomo sensibile. E anche un op-portunista». Più controverso l’altro punto su cui il gossip po-stumo si è scatenato: la natura del legame fortissimo tra l’at-tore e il reverendo dell’Indiana, James DeWeerd. Il suo con-sigliere spirituale, il pastore metodista che celebrò i suoi fu-nerali; ma che, secondo alcuni, abusò sessualmente di Deanragazzino. Interpellato anche su questo, Stern non si sottrae:«Possiedo due lettere autografe indirizzate da Jimmy aDeWeerd. Una è quella che ho consegnato al vostro giornale(e che pubblichiamo in queste pagine, ndr), più allegra espensierata; nell’altra, che preferisco tenere privata, il mioamico, a New York, si lamenta delle avances che riceveva dauomini più vecchi di lui». Segno di una grande confidenza colsuo corrispondente. Quanto al presunto legame erotico,Stern ammette indirettamente questa possibilità: «Se secon-do me il pastore amava Jimmy solo come un figlio? Io lo spe-ro, ma non lo so. Posso dire che aveva un potere ipnotico sudi lui. E so pure che Jimmy, nella sua adolescenza, ogni tantoscappava dalla fattoria degli zii per ritornarci uno o due gior-ni dopo. Ma io lì non c’ero, e non posso sapere cosa facessedurante quelle fughe».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CLAUDIA MORGOGLIONE

IL DOCUFILM

Hollywood bruciata — Ritrattodi Nicholas Ray, scritto e diretto

dall’italiano Francesco Zippel,

viene presentato in anteprima

mondiale il prossimo 28 ottobre,

alle 20,30, al Festival di Roma,

nell’ambito della sezione Extra

curata da Mario Sesti

Ci sarà anche un incontro

pubblico con Stewart Stern,

sceneggiatore di Gioventùbruciata e amico personale

di James Dean. Ampio spazio

del docufilm viene dedicato

alla genesi e alla lavorazione

proprio di quella che resta

l’opera più famosa di Ray

Dopo il passaggio Festival,

il documentario verrà trasmesso

in prima tv su Studio Universal

— il canale televisivo dedicato

al grande cinema classico,

e che ha anche prodotto

il film — il prossimo

7 novembre, alle 21,15

“Vi racconto il ragazzo ribelle”

I DOCUMENTI

La sceneggiatura originale

di Rebel Without a Cause,

una lettera di Stern a Dean

e una dedica della Wood a Stern

Nella foto grande, James Dean

sul set di Gioventù bruciataNella piccola, la prima lettura

collettiva del copione. Da sinistra

in senso orario: Nicholas Ray

(di spalle con camicia bianca),

Stewart Stern (proteso in avanti),

James Dean e una sorridente

Natalie Wood

Qui sopra, lo sceneggiatore oggi

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

(segue dalla copertina)

Non ho nessun odium theologicum,ma anche tu sei una vittima del vive-re stupido. Siamo infilzati a un unci-

no di condizionamento. Un pesce che è inacqua non può scegliere chi è. Genio vor-rebbe che nuotasse nella sabbia. Noi siamopesci e affoghiamo. Viva atomo.

Restiamo in un unico mondo e ci inter-roghiamo. Gli ospiti viaggiano e sono stan-chi. Tutta la creazione terrestre è dellamente, e la mente è malata. Al fortunatoviene insegnato a chiedere perché. Nes-

suno è in grado di rispondere. Non può fa-re altro che studiare a fondo lo status quo. Zowie! Trova ilvuoto, trova il vuoto, trova il vuoto, divorzia da te stesso. Im-magina, crea, dormi il giorno, stai sveglio la notte. Venera leconvenzioni e maledicile.

Secundum artem

JAMES DEAN

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Hollywood non l’avrebbe permessoLo star system era protettivo al puntoche una lettera come quella indirizzata

da James. Dean al reverendo DeWeerd(che qui a fianco pubblichiamo) non avrebbemai visto la luce. Jimmy era una splendidapromessa e quel tono confidenziale non sarebbe sfuggito alle giornaliste-iene.La missiva fu spedita all’epoca del debuttoa Broadway; pochi mesi dopo, a Hollywood,sarebbe diventato idolo e sex symbol.Nel 1956 al primo biografo William Blastnon passò neanche per la mente di rivelarela loro relazione. Sarebbe stato linciato. Lo fece più tardi, in un secondo libro,in cui parlò anche della liaisonche Dean ebbe col produttore Rogers Brackett.Ma l’attore non disdegnava relazionicon i colleghi, come si è poi appresodalle biografie di Anthony Perkins, PaulNewman e Marlon Brando. Il primoa rivelare che l’adolescente Dean era statoiniziato da De Weerd fu il biografo PaulAlexander in “Boulevard of Broken Dreams”

e solo dagli anni ’70 — quando il regista Nicholas Ray ammise che Jimmy era gay — si è sollevatolo sciocco dibattito sulla sessualitàdel divo. Darwin Porter, l’ultimobiografo di Newman, ha scopertoche negli anni newyorchesiDean aveva una relazione fissacol quattordicenne Sal Mineo.Al punto che quando fu chiamatoa Hollywood affidò Sal alle “cure”di Paul. Elizabeth Taylor, amicadi tutti, disse: «Era molto difficilenel nostro ambiente rendere pubblicala propria omosessualità.Monty (Clift), Jimmy (Dean) e Rock(Hudson) si confidavano con me perchéero più aperta degli altri». All’epoca era difficile fare coming outa Hollywood. Oggi, impossibile. Dovremo attendere altre biografiepost-mortem per sapere chi. E con chi.

(giuseppe videtti)

FO

TO

BO

B W

ILLO

UG

HB

Y/P

HO

TO

MA

SI

Dormi il giorno,stai sveglio la notte

LA LETTERA

Concessa da Stern

a Repubblica, ecco la versione

originale della lettera scritta

da James Dean a DeWeerd

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 30

DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

PatagoniaIn

Ultima corsa sul treno della steppa

LUIS SEPÚLVEDA

LUIS SEPÚLVEDA

I luoghiCome Chatwin

Sapevamo che la Trochita partiva da ElMaitén il martedì con patagonica pre-cisione, fra le otto del mattino e mezzo-giorno, e che dopo aver raggiuntoEsquel ritornava il giovedì, mettendosiin marcia con identica puntualità per

ripercorrere al contrario i trecentocinquanta chi-lometri a cui erano stati ridotti, dopo le privatizza-zioni e la morte delle ferrovie argentine, gli origina-ri millesettecento del Patagonia Express.

Quella mattina la stazione appariva stranamen-te deserta. Da quanto ci risultava, il vecchio trenocontinuava a essere l’unico mezzo di trasporto pergli abitanti di El Maitén che dovevano andare aEsquel a comprare beni di prima necessità, a farsivedere dal medico o a lottare contro la burocrazia.La biglietteria era chiusa e così cominciammo adaggirarci per la stazione senza incontrare nessuno,finché non arrivammo davanti all’officina e sen-timmo la musica di una radio e delle voci. Era un ca-pannone enorme e là, fra tonnellate di metallo ar-rugginito, una locomotiva a vapore che mostravaparte delle sue viscere d’acciaio e tre vagoni di le-gno, scorgemmo un gruppo di uomini vestiti con la

classica tuta blu dei meccanici. «Cosa raccontate di bello, ragazzi?» ci salutò uno

di loro vedendoci. Rispondemmo al saluto e subi-to fummo invitati a bere mate e a mangiare pane eformaggio.

«Possiamo sapere cosa vi porta da queste parti?»chiese un altro.

«Il treno. Ci hanno detto che partiva oggi perEsquel». Il nostro piano di lavoro per quel giornoera abbastanza semplice: il mio socio avrebbe fat-to il viaggio a bordo, scattando foto in interno,mentre io lo avrei seguito in automobile. Saremmorimasti a Esquel fino al giovedì e poi saremmo rien-trati al contrario, io in treno riempiendo di appun-ti la mia Moleskine, e il mio socio in macchina, scat-tando foto in esterno.

«È vero. Partiva oggi, ma non è partito e non par-tirà» dichiarò uno dei meccanici.

«E quando parte?» domandammo.«Questo non lo sa nessuno. È charteado» spiegò

uno dei più giovani. «Charteado da chartear?» indagò il mio socio.Sì, da chartear, un nuovo verbo maledetto deri-

vato a sua volta da charter. Un’associazione dioziosi milionari texani amanti delle ferrovie a va-pore avevano charteado il Patagonia Express per

un periodo indefinito, senza curarsi del fatto che gliabitanti di El Maitén, Esquel, Ñorquinco e Lelequesarebbero rimasti senza il loro unico mezzo di tra-sporto. Erano ormai undici giorni che la Trochitaera in mano a quei turisti e i ferrovieri, senza na-scondere la loro rabbia, cercarono di consolarcisuggerendoci una soluzione.

«Oggi arriva uno di quelli. Credo che sia cubanoo dominicano, è il loro interprete. Parlate con lui eforse vi lasceranno salire sulla Trochita» disse Mar-celo. Decidemmo di aspettare l’interprete chiac-chierando con il gruppo. Come tutti i patagoni, cia-scuno di loro aveva qualcosa da raccontare, ma di-scorrevano lentamente, come per non dare im-portanza a quello che dicevano.

«Avete visto la locomotiva che stiamo riparan-do? È un gioiello, una Maffei 350, tedesca, costrui-ta nel 1915. Non ci sono più macchine del genere innessun posto al mondo. Ne abbiamo due e sonoparte della storia della Trochita». [...]

L’arrivo di un insolente fuoristrada con lucci-canti paraurti cromati e fari sul tetto spense l’alle-gria nel capannone. L’autista faceva anche da in-terprete e parlava con un inconfondibile accentocubano. Con un gesto interruppe le dimostrazionidi servilismo del capostazione e, indicando il mio

socio che in quel momento scattava qualche fotoalla vecchia locomotiva tedesca, puntualizzò: «Leavevamo detto che, finché il treno era nostro, nonvolevamo attorno nessun giornalista».

Avevo intenzione di tranquillizzarlo spiegando-gli che non eravamo giornalisti, solo due viaggiato-ri che passavano per caso da lì, ma Marcelo fu piùsvelto: «Sono amici miei, volevano vedere l’offici-na e li ho invitati. E poi il treno voi l’avete soltantocharteado. Non è di vostra proprietà».

«Vogliamo salire sul treno, fare qualche foto, tut-to qui. Ci dai una mano?» domandò il mio socio.

Il cubano ci osservò con attenzione prima di ri-spondere. «Per cinquemila dollari vi portiamo allaprossima stazione. Solo andata». La stazione suc-cessiva era a una trentina di chilometri, un po’ me-no di un’ora di viaggio sulla Trochita.

«Allora dì ai tuoi capi che vadano a farsi fottere,solo andata» aggiunse il mio socio nel suo tono piùgentile. [...]

«Be’, siamo rimasti senza treno» osservai. Be-vemmo il mate in silenzio, fumammo una sigaret-ta. Il mio socio chiese se poteva scattare qualche fo-to all’officina e i ferrovieri acconsentirono con en-tusiasmo.

«Ragazzi» dichiarò Marcelo servendo qualche

Il convoglio sequestrato dai ricchi turisti texani,l’orgoglio di classe dei ferrovieri, il mate,la gente che guarda passare i vagoniLo scrittore cileno racconta il viaggiod’addio del mitico “Express”argentino a sud del 42° parallelo

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

bicchiere di vino, «voi siete venuti a fotografare laTrochita e la fotograferete».

Il mio socio e io ci guardammo decisi ad accetta-re qualunque cosa ci proponessero, perché a suddel 42° parallelo la fiducia nasce senza mezzi ter-mini, senza ambiguità né goffi richiami alla pru-denza.

«Vi aspetto domattina presto, alle sette, al cam-po da calcio. E portate qualche soldo per compra-re la nafta» suggerì Marcelo.

Il resto del pomeriggio lo passammo a visitare ElMaitén, prendemmo alloggio in una pensione dailetti duri e al tramonto andammo a mangiare in unristorante che ci sedusse col suo nome, PatagoniaExpress, e ci rimpinzò con uno dei migliori ma-tambre che avessimo mai assaggiato. Poi ci se-demmo in un parco a guardare le migliaia di stelleche illuminano il cielo della Patagonia. [...]

Come in tanti altri paesi delle lontane provincedel Sud, a El Maitén la gente aveva l’abitudine di se-dersi dentro la stazione a guardar passare il treno.È un’usanza che conferma l’esistenza del tempo edell’universo: se il treno è passato vuol dire che èpartito da un posto e va in un altro. Il mio socio e iobevevamo il vino osservando le stelle, El Maitén eraimmersa nel buio e in qualche angolo della steppa

i sequestratori della Trochita dovevano lamentar-si della scomodità dei vagoni mentre dalla sua di-gnitosa umiltà di immaginetta sbiadita la Madon-na di Luján doveva guardarli con occhi ancora piùtristi del solito, perché la tristezza è l’unica cosa chelasciano i vincitori al loro passaggio.

Il giorno dopo alle sette, interrompendo unapartita di calciatori mattinieri, andammo da Mar-celo, che ci aspettava accanto al suo vecchio ma im-peccabile 113 biplano Curtiss Falcon. [...]

Dopo aver sorvolato per dieci minuti la steppaseguendo i binari del treno, avvistammo la Trochi-ta. Il vecchio espresso patagonico avanzava lenta-mente, una grossa scia di fumo usciva dal comi-gnolo della locomotiva e subito veniva dispersa dalvento. Dalla pianura infinita, il vecchio treno ci fa-ceva segnali di vapore e fumo, ci invitava ad avvici-narci a lui, amico dai muscoli di ferro e dal cuore difuoco. Volammo sopra il treno, accanto al treno, difronte al treno, lo seguimmo quasi attaccati ai fian-chi nelle due direzioni, mentre i padroni provviso-ri della Trochita erano passati ai gesti osceni. [...]

Scendemmo dal Curtiss Falcon mezzo anchilo-sati e aiutammo Marcelo a coprire l’aereo con unpesante telone. Eravamo riusciti a fotografare laTrochita, il vecchio espresso patagonico, il leggen-

dario Patagonia Express, e ci consideravamo sod-disfatti, ma nell’officina i ferrovieri ci riservavanoancora una sorpresa.

La nostra conversazione fu interrotta dall’in-confondibile fischio di un treno e tornando nell’of-ficina vedemmo l’imponente Maffei 350 che in-nalzava una densa colonna di fumo e muoveva lebielle, facendo girare le ruote e trainando due car-rozze passeggeri.

«Eccolo, ragazzi. Il vecchio Patagonia Express.Volete farci un giro?» disse uno dei ferrovieri.

Ci guardammo a vicenda, guardammo anche iltreno che sbuffava per la voglia di partire verso lasteppa e stringemmo forte la mano a quegli uomi-ni che esibivano l’orgoglio più sano del mondo,quello del lavoro ben fatto, quello di essere parte diun insieme indispensabile: l’orgoglio di classe,semplicemente.

«I gringos sono andati verso nord, perciò noi an-dremo a sud» disse il macchinista.

Allora il mio socio ebbe l’idea più brillante. «E seavvisassimo la gente del paese che c’è il treno?».

Ed esattamente due ore dopo, con perfetta pun-tualità, la locomotiva mandò sbuffi di vapore chebagnarono di nebbia le banchine, il fochista co-minciò a buttare palate di carbone nella caldaia e

noi ci accomodammo sulle due carrozze in mezzoa una cinquantina di persone felici di poter nuova-mente contare sul loro unico mezzo di trasporto.

Quel viaggio fu una festa. Quel viaggio fu il piùbello della nostra vita, perché era nato dalla deter-minazione di un gruppo di uomini che, infischian-dosene delle rappresaglie che avrebbero subito,avevano deciso che due viaggiatori venuti da mol-to lontano dovevano essere testimoni del loroamore per il lavoro.

Era limpida l’aria della steppa, erano allegri i vol-ti affacciati ai finestrini delle carrozze, era compat-ta la colonna di fumo che usciva dalla locomotiva,era chiaro e onnipresente il fischio che annuncia-va il passaggio del treno, era dolce il vigore dellebielle che con tutta la forza dell’acciaio spingevanole ruote, e lo sferragliare del convoglio invitava a be-re il mate offerto dal passeggero accanto mentre leconversazioni passavano in rassegna tutte le cosedella vita. Fu un viaggio allegro, molto allegro, per-ché fu l’Ultimo Viaggio del Patagonia Express.

Traduzione Ilide Carmignani(© Luis Sepúlveda e Daniel Mordzinski 2011

By arrangement with Literische Agentur MertinInh: Nicole Witt e K. Frankfurt, Germany)

© 2011 Ugo Guanda Editore Spa)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

IL LIBRO

Ultime notizie dal Sud di Luis Sepúlveda

(Guanda, 168 pagine,16 euro), da cui è tratta

questa anticipazione, sarà in libreria

dal 3 novembre. Le foto, tratte dal libro,

sono di Daniel Mordzinski

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 32

DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

Sbarcò in America dall’Ungheria con 75 centesimi in tascae senza sapere una parola d’inglese. Ancora oggi, a cent’annidalla morte, il suo nome resta legato al più ambito premiogiornalistico. Ecco la storia dell’uomo che ai suoi redattori disse:“Ogni truffa ha bisogno di un segretoIl vostro dovere è provare a svelarlo”

L’anniversario

I VINCITORI DEL PREMIO

Caratteri di stampa

WASHINGTON

Di leggi bavaglio e di in-tercettazioni proibite,il figlio del mercanteebreo di Budapest non

poteva sapere nulla quando divenneeditore del suo primo giornale, nel1872, ma sui vizi e sulle paure del pote-re non aveva dubbi. «Non c’è truffa,non c’è malaffare, non ci sono corru-zione o disonestà che non abbiano bi-sogno del segreto per poter esistere»spiegò Joseph Pulitzer nel suo ingleseancora un po’ incerto ai redattori delSt. Louis Dispatch, il quotidiano delMissouri che aveva fondato. «Il vostrodovere è lacerare questi veli di segreto.La repubblica americana crescerà olanguirà insieme con la libertà dellainformazione».

A cento anni dalla sua morte, avve-nuta il 29 ottobre del 1911 a bordo del-lo yacht che teneva ancorato nel portodi New York, reso cieco dalle sedici oreal giorno, tutti i giorni, trascorse leg-gendo e scrivendo alla propria scriva-nia, il nome del «piccolo, vile ebreo chetradisce la propria gente» come lo in-sultarono i concorrenti del Sun spe-rando di alienargli le simpatie dei let-tori ebrei dopo la sua conversione alcristanesimo, continua a vivere nonsoltanto nel massimo riconoscimentogiornalistico, letterario e artistico delmondo, accanto al Nobel. Il messag-gio, l’esortazione, l’utopia, la retorica,del suo appello sono scolpiti, seppurenon sempre rispettati, nella cultura enelle aspirazioni di ogni giornalistaamericano, che sia una “grande firma”

Mr.

Pulitzer

VITTORIO ZUCCONI

riverita della stampa, un laccato “mez-zo busto” da teleschermo o una ragaz-za sconosciuta che arranca nel nuovooceano della Rete.

Come tanto spesso nella storia ame-ricana, c’era voluto un immigrato, unmiserabile sbarcato con le pezze al se-dere dopo che l’azienda granaria fon-data dal padre nell’Ungheria asburgi-ca era fallita, non per inventare, ma ri-scoprire la natura e il senso del «gran-de esperimento» della democrazia,quello che Thomas Jefferson avevariassunto, un secolo prima, nella mas-

sima: «Meglio una libera informazio-ne senza governo, che un governo sen-za libera informazione». Pulitzer, cheleggenda vuole fosse arrivato nel por-to di Boston a nuoto dopo essersi get-tato da una nave merci, non parlavaneppure l’inglese e quando volle ar-ruolarsi nel 1862 fra le Giubbe Blu delNord nella Guerra Civile, fu messo inuno speciale reggimento, il LincolnCavalleria del Massachusetts, doveerano stati concentrati tutti gli immi-grati di lingua tedesca.

Al giornalismo, che avrebbe reso ce-

lebre lui e che lui avrebbe cercato direndere una professione e non soltan-to un mestieraccio, arrivò attra-verso la propria ignoranza del-l’inglese. Si spinse nel Missou-ri, a St. Louis, perché la comu-nità tedesca era fortissima e pub-blicava un quotidiano, il Westliche Po-st, il “Post d’Occidente”, dove riuscì ainfilarsi, salendo i gradini fino alla pro-prietà e alla direzione. La sua fu unascalata prodigiosa, visto che aveva intasca soltanto i settantacinque cente-simi ottenuti vendendo un fazzoletto

1917

Herbert Bayard Swope

del New York Worldvince il primo premio

Pulitzer, per il reportage

sulla Grande guerra

“Inside German Empire”

pubblicato tra ottobre

e novembre 1916

1928

Grover Cleveland

del MontgomeryAdvertiser vince

nella categoria Editorial

Writing per i suoi articoli

contro il gangsterismo

e l’intolleranza

razziale e religiosa

1922

Per la prima volta

un disegnatore

vince il Pulitzer

È Rollin Kirby

con la vignetta

“On the road to Moscow”,

pubblicata

sul New York World

1966

Peter Arnett

della Associeted Pressvince nella categoria

International

Reporting

per i reportage

realizzati durante

la guerra in Vietnam

1973

L’inchiesta Watergate

di Bernstein-Woodward

sul Washington Postscuote gli Usa

Huynh Cong Ut, invece,

vince con una celebre

foto sugli effetti

del napalm in Vietnam

1991

Serge Schmemann

del New York Timesvince nella categoria

International Reporting

per i suoi reportage

sul processo

di riunificazione

della Germania

CARICATURA

Joseph Pulitzer

in una caricatura del 1895

YELLOW JOURNALISM

Una vignetta pubblicata nel 1898 mostra Joseph Pulitzer

(a sinistra) e il direttore di un giornale concorrente,

William Randolph Hearst, combattersi a suon di “yellow

journalism”: ovvero di giornalismo scandalistico

Accanto una prima pagina di The New York World, il giornale

di cui Pulitzer fu proprietario e dalle cui colonne lanciò

una campagna di sottoscrizione per la costruzione

del piedistallo della Statua della Libertà

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

Lavorò prima come “conduttore di muli”,poi acquistò giornali

di pizzo bianco ereditato dalla madre edormiva nei carri merci fermi agli sca-li. Al giornale era arrivato dopo averelasciato il solo lavoro che fosse riuscitoa trovare nel Missouri: quello di con-duttore di quattordici muli che lo fece-ro disperare. Ma che furono evidente-mente un’ottima preparazione perimparare a guidare una redazione.

Sia nel giornaletto in tedesco, poi alquotidiano principale di St. Louis, ilDispatch (che ancora esiste) e infine alNew York Worldche comperò grazie alsuccesso nel Missouri, la formula delsuo successo sarebbe sempre rimastaidentica. Un lavoro da mulo, ogni gior-no dalle dieci del mattino fino alle duedi notte con i lumi a petrolio, e un nasoimplacabile per gli scandali e la corru-zione che si nascondevano dietro ipanciotti e le catene d’oro dei politi-canti, dei boss, dei finanzieri, nell’A-merica della rivoluzione industriale edell’espansione selvaggia, dove il da-naro sporco era «più grande del Mis-sissipi», come scrisse. E redattori di-sposti a tuffarvisi senza timore di an-negare perché, coperti dal proprieta-rio-direttore, potevano nuotare senzamai andare a secco. Il World, che luicomperò al fallimento, con quaranta-

mila dollaridi perditea n n u e ,una som-

ma da mol-tiplicare per

cento in dollari dioggi, arrivò a vendere la

sbalorditiva cifra di seicentomila co-pie al giorno.

Il potere, naturalmente, non stet-te a guardare. Fu querelato, addirit-tura dal presidente Thedore Roose-

velt, più volte e sempre assolto. Ilconcorrente principale, quel WilliamRandolph Hearst inventore dello yel-

low journalism, del giornalismo scan-dalistico e romanzato, colui che ricor-dava ai dipendenti che «il solo doveremorale di un giornalista è vendere piùgiornali», lo assalì con gli insulti razzi-sti dalle pagine del Sun. Pulitzer ri-

sponde adottando la stessa formulaeditoriale, quella che il citizen CharlesFoster Kane in Quarto potere, il film percui Orson Welles si ispirò proprio aHearst, aveva riassunto in questa fraseai suoi: «Non abbiate paura di pubbli-

care notizie false, sono quelle che piac-ciono di più ai lettori». Ma alla fine ri-nunciò a questa gara al ribasso.

Ormai molto ricco — lascerà alla suamorte trenta milioni di dollari, una for-tuna — confinato sempre più nel suoyacht dalla cecità, Pulitzer decise diimprimere la propria impronta nel-l’industria che lo aveva arricchito e sal-vato dai muli e dai carri merce. Istituì,attraverso la Columbia University,quella facoltà di giornalismo che sa-rebbe stata poi il modello per ogni al-tra e il premio, al quale chi pubblica li-bri, articoli, servizi audio o video, in-chieste ambisce più che a ogni altro.Non certo per i soldi, visto si tratta diappena diecimila dollari. Il sogno diPulitzer, sempre inseguito e mai rea-lizzato del tutto, si sarebbe comunquetradotto in una lunghissima serie ditrionfi della libertà di stampa all’interodi norme e di regole protette da tutti itribunali fino alla Corte Suprema, dal-la battaglia contro i boss politici chestringevano in pugno New York finoalle rivelazioni sulle torture e le men-zogne attorno alla guerra in Iraq pas-sando per l’apoteosi del Watergate.

Chi visita New York, può vedere an-che oggi un pezzo della sua eredità,piantato nel mezzo del porto. È il pie-distallo sul quale poggia la Statua del-la Libertà, che Pulitzer pagò attraversouna sottoscrizione lanciata dal suoquotidiano, per trovare una colloca-zione alla gigantesca fanciulla di bron-zo fusa da Gustave Eiffel che giacevanei magazzini francesi. Dunque, sen-za Pulitzer e senza la sua fede nel gior-nalismo, non ci sarebbe la Libertà. Nelsenso della statua, ma non soltanto.

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Chiedere a un direttore qual è il Pulitzer a cui è più affezionato è un po’come chiedere a un genitore qual è il figlio a cui vuole più bene. Ma c’èun premio che non potrò mai dimenticare: 11 settembre 2001. I nostri

uffici erano proprio di fronte al World Trade Center, le finestre erano volatevia e il collasso delle Torri aveva reso gli ambienti tossici. I reporter e i redat-tori non potevano neppure entrare e così dovemmo trovare un posto alter-nativo nel New Jersey: i reporter in molti casi non potevano neppure comu-nicare con i loro capi, ma sapevano quello che andava fatto. Il risultato fu ungiornale assolutamente eccezionale. E se ogni Pulitzer è un premio specia-le, quella volta davvero tutta la redazione ne vinse il suo pezzettino.

Anche oggi — dopo i sedici premi con il Wall Street Journal — la sfida conProPublicaresta la stessa. Negli ultimi anni sono solo cambiati i mezzi: con l’a-pertura anche ai siti web come noi. Gli ingredienti sono grande lavoro di re-porting e grande lavoro nell’esposizione della notizia: possibilmente a gran-de impatto. Quando è arrivato il primo Pulitzer — due anni fa — eravamo giàconvinti della nostra scelta: un servizio online e no profit che produce inchie-ste in partnership con altre testare. Ma la straordinaria inchiesta di Sheri Finksui morti dell’ospedale di Katrina — pubblicata col New York Times Magazi-ne— ci ha dato una credibilità straordinaria. Perché tutti i premi sono impor-

tanti: ma nessuno come il Pulitzer regala questa risonanza mondiale.Un altro ingrediente è ovviamente la qualità del reporter. Però anche il

ruolo del capo è importante. Ricordo che un giovane reporter aveva scrittouna storia forte. Un farmacista era stato rapinato e minacciato con la pisto-la e da quel giorno aveva anche lui la pistola sotto la cassa. Un giorno si pre-senta un altro bandito e lo minaccia: quello spara e lo uccide. Il reporter ave-va raccolto la sua versione: cosa scatta nella testa di un uomo che uccide, ladisperazione per il ragazzo morto. La bozza arrivò nelle mani del capore-dattore: è impressionante così com’è, disse, ma sarebbe ancora meglio sepotessi raccontare un po’ anche del ragazzo. Il reporter spiegò che ci avevaprovato. E il capo: perché non ci lavori ancora? Attraverso l’agenzia di pom-pe funebri riuscì a risalire alla famiglia del ragazzo. Stavano fuori città. Liscovò. E quando bussò alla porta di casa scoprì che la madre non sapeva an-cora che il figlio era stato ucciso. Proprio lì gli si presentò anche il fratello: ap-pena uscito di galera. Risultato: da una grande storia venne fuori una storiasemplicemente eccezionale. Era il 1999 e Angelo Henderson e il Wall StreetJournal vinsero un altro Pulitzer.

(testo raccolto da Angelo Aquaro)

Dal Wall Street Journal a Propublica.orgcambiano i mezzi, ma non i fini

PAUL STEIGER

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1937

È l’anno di Anne O’Hare

McCormick

del New York Timesche vince nella categoria

Correspondance

per i dispacci

e gli articoli inviati

dall’Europa nel 1936

1945

Joe Rosenthal

vince nella categoria

Photography

per la celebre foto

dei marines

che piantano

la bandiera americana

a Iwo Jima

1964

Meriman Smith

della United PressInternational vince

nella categoria

National Reporting

per il lavoro

svolto sull’omicidio

Kennedy

1999

David Horsey

del SeattlePost - Intelligervince nella categoria

Editorial Cartooning

per una serie

di vignette

sullo scandalo Lewinski

2008

Jose Antonio Vargas

vince nella categoria

Breaking News

per il racconto

del massacro alla Virginia

Tech School. Nel 2011

Vargas dichiarerà

di essere un clandestino

2011

Per la prima volta

il premio va

a un’inchiesta

pubblicata online

Eisinger e Bernstein

di Propublica.orgvincono nella categoria

National Reporting

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA■ 34

DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

Spia, sposa medioevale, popolana, ragazza con la pistola,moglie svitata. Al cinema ha interpretato mille ruoli,nella vita non è mai stata diva. Da tempo lontanadai riflettori, ora che sta per compiereottant’anni ecco i suoi disegni, i ricordie le foto del suo album privato

SpettacoliPolvere di stelle

Quandoil cinema trovava del tutto na-turale essere intellettuale, quandoesisteva un pubblico vasto, popolare,che correva a vedere L’avventura eanziché ribaltare i sedili si entusia-smava per un’astrazione elegante

come l’incomunicabilità, Monica Vitti divennecelebre perché mormorava, nel film, «Mi fannomale i capelli». Era anche molto carina, seppureancora nel genere borghese (filo di perle, chemisiera pois, capelli biondi e lisci tagliati appena sotto leorecchie), genere che piaceva a Michelangelo An-tonioni, magari per criticarlo nei suoi film, comein Cronaca di un amore, La signora senza camelie,Le amiche. Si amavano, la ragazza romana non an-cora trentenne, uscita dall’Accademia di artedrammatica e da filmini come Le dritte di Amen-dola, e il colto regista non ancora cinquantenne,elegante, bello e severo. Nei film che fecero insie-

me, tra il 1960 e il 1964, si continuò con le malinco-nie e gli sguardi dolenti di varie nevrosi del viveremoderno; dopo L’avventura, ci furono infatti Lanotte (nevrosi della coppia), L’eclisse (nevrosi deisentimenti) e Ildeserto rosso, (nevrosi della societàdei consumi). Premi su premi, critici estasiati, an-che all’estero un trionfo, del resto allargato a tuttoil cinema italiano di quegli anni. Regista e attricevivevano quasi insieme, in due appartamenti unosopra l’altro con scaletta interna: persone squisi-tamente private, in tempi in cui i gossip si chiama-vano pettegolezzi e parevano molto ordinari, tan-to che quando il sodalizio si estinse, non si seppedavvero perché. Oppure non se lo ricorda più nes-suno. Forse tutta quella cinenevrosi li aveva ne-vrotizzati, forse i tempi erano cambiati, la cinein-comunicabilità si era insinuata anche nelle loro vi-te reali e tutti e due l’avevano finalmente giudica-ta barbosissima. Di fatto Monica aveva conosciu-to, proprio con Il deserto rosso, il direttore della fo-tografia Carlo De Palma che, uscita lei indenne

dall’aver lavorato con Mastroianni e con l’allorabellissimo Alain Delon, divenne il suo nuovo com-pagno. Michelangelo e Carlo, tutti e due amori eombre dei suoi anni belli, non ci sono più e lei, Mo-nica Vitti, compie ottant’anni il 3 novembre.

Non si sa perché c’è questa mania di celebrarela vecchiaia, per i rari centenari, poi, si organizza-no trionfi, in attesa impaziente di celebrarli anco-ra, anche più sontuosamente, alla morte. Ma leuscite di scena prima che cali il sipario non ralle-grano nessuno, soprattutto il vegliardo, che ma-gari ha vissuto pienamente, è stato una celebrità,ha dato il colore a un’epoca, e nel caso di MonicaVitti, ha donato bellezza, intelligenza, allegria,pensiero, garbo, alla nostra famosa commedia al-l’italiana. Ma i ricordi, ammesso che ci siano, nondanno un senso al presente quando le luci si spen-gono ad una ad una e niente le riaccende più. L’ul-timo film in cui è apparsa è stato il poco fortunatoScandalo segreto, diretto e interpretato da lei nel1990, quindi ventuno anni fa, quando ancora por-

tava con la sua solita grazia disinvolta le belle gam-be, la figura slanciata, i capelli biondi e arruffati, lamagnifica voce roca. Nel settembre del 2000 hasposato il fotografo-regista Roberto Russo, che vi-veva con lei da ventisette anni, da quell’anno perlei fortunato che è stato il 1973, quando aveva gi-rato tre film, tra cui Polvere di Stelle in cui, con Al-berto Sordi, cantava «L’amore è un treno, che fi-schia sereno» e sgambettava nel ruolo di vedette diuna scalcinata compagnia di varietà negli annidella Seconda guerra. Il loro incontro era avvenu-to sul set di Teresa la ladra, ispirato al bel romanzodi Dacia Maraini, diretto da Carlo De Palma. Il gio-vane Russo, chiamato come fotografo di scena, ri-

Buoncompleanno

Monica

NATALIA ASPESI

La bellezza della commedia

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

dadori), una specie di autobiografia nebulosa deisuoi pensieri e delle sue angosce: «Lo smarrimen-to mi stringe alla gola come un boa trasparente.Non posso dimostrare che ci sia, ma lui mi avvol-ge e mi striscia sul viso, promettendo orrori…». In35 anni di cinema, un tempo lunghissimo perun’attrice, Monica ha lavorato in 55 film, certe vol-te ne ha girati anche tre in un anno. E dal momen-to in cui ha abbandonato la seriosità (definita daOreste Del Buono «la nefasta ombra di Antonio-ni») che lei pareva comunque non prendere sul se-rio, è diventata grande. Andavamo a vedere i filmcon lei e Sordi, o Tognazzi, o Proietti, o Manfredi, oMastroianni (e persino Benigni), perché era allorala sola donna bella cui era concessa quella comi-cità con cui rivelava alle donne come si poteva ri-dere di se stesse senza farla tanto lunga, e agli uo-mini come non prendersi troppo sul serio perchéle donne potevano inchiodarli alla loro presun-zione virile con il fascino dell’ironia. Spia dei servi-zi segreti, fata inseguita da un bruto, sposa me-

dioevale, ragazza con la pistola, popolana tra dueamori, stella del varietà, Tosca, Ninì Tirabusciò,Mimì Bluette, moglie svitata, moglie cornificata,moglie cornificante, moglie pazza, Monica Vittinon è mai stata una diva, ma una attrice di grandetalento, forse la più grande, davvero, del cinemaitaliano. I registi andavano con lei sul sicuro, Mo-nicelli e Zampa, Loy, e Scola, ma anche gli stra-nieri, da Cayatte a Buñuel a Losey, incapaci peròdi capirne la leggerezza raffinata con cui ci ha di-vertito tanto. Gremese le ha dedicato un bel librocurato da Laura Delli Colli: è del 1987 e natural-mente è introvabile, forse andrebbe ristampato.Film dopo film, mostra quanto la sua bellezza, lasua ironia intelligente, la sua bravura, abbiano re-sistito agli anni, siano del tutto contemporanee,tanto da cancellare le tante piccole star del cine-ma italiano di oggi, deformate dalla chirurgia,pessime attrici, costrette a divertire un pubblicotriste con una tetra sguaiataggine.

mase folgorato da quella bella attrice che riuscivacol suo talento a far ridere con classe, e che pure alui sembrava nascondere una segreta inquietudi-ne, una richiesta muta di aiuto. Ci fu, ancora unavolta, una specie di passaggio del testimone, sulset: da Antonioni a De Palma, da De Palma a Rus-so: un compagno, un marito, che a quella signoraper lui infinitamente preziosa ha dedicato tutta lavita, per amarla, proteggerla, rallegrarla, curarla;dagli anni del suo splendore e della celebrità, lun-go la lenta discesa verso una malattia che a poco apoco l’ha isolata da se stessa e dagli altri.

Un anno fatale deve essere stato il 1995, quandoscrisse il suo secondo libro, Il letto è una rosa(Mon-

In casa mia c’era sempre molto da ricorda-re, come un pegno da pagare per continua-re a vivere. Ti sei ricordata di lavarti i denti,

di fare i compiti, di andare da zia Giulia, diaspettare, di non parlare, di non ascoltare, dinon capire? Come se, senza la memoria, nonsi avesse il permesso di continuare a vivere.

«Perché hai dimenticato di chiudere la fi-nestra?».

«Mi piaceva aperta, forse».Dunque avevo il dovere di ricordare. Ma

non sempre. Il precetto di mia madre era: «Tusei una bambina e non devi ascoltare i discor-si dei grandi. Ma se per caso afferri una parola,la devi subito dimenticare».

Oggi scrivo non per ricordare, ma per rein-ventarmi tutto, per cancellare e ricostruire vi-si e fatti che mi girano da tanto tempo intornoe ridono insieme a me; non di me. Lasciatemil’emozione, e tenetevi pure la memoria. Ionon la voglio, perché è una truffa, e non la sipuò nemmeno portare in tribunale perchévincerebbe lei.

La memoria non è con me, ma contro di me.Sono anni che provo ad allontanarla, cancel-larla, l’ho anche presa a schiaffi, a spintoni, elei subisce tutto pur di restarmi in testa comeun cappello di carta velina. Io non la voglio e leilo sa. Ma qualche volta mi cade in braccio e mitocca cullarla. L’ho sentita anche ridere, ieri.

Non voglio più storie complicate, non voglioil passato, voglio solo dei giorni chiari, sempli-ci, senza costrizioni, senza cose da fare, da ca-pire, da accettare. Mi piacerebbe una passeg-giata molto lunga tra gli alberi. Ne ho propriobisogno, ma non ritroverei la strada del ritor-no. Preferisco uno sgarbo, alla memoria; certo,molto meglio un bacio o una gita al mare.

Ma allora come mai facevo l’attrice? Nientedi più naturale per me, quando recito ho unamemoria di ferro. È la realtà che mi risulta ne-bulosa, non Shakespeare.

(Tratto da Il letto è una rosa,Mondadori, 1995)

La memoriaè contro di me

MONICA VITTI

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IL DESERTO ROSSO

(1964)

È il primo film a colori

di Michelangelo

Antonioni. Famosa

la battuta della Vitti

“Mi fanno male i capelli”

LA RAGAZZA

CON LA PISTOLA

(1968)

Diretta da Mario Monicelli

per la prima volta

interpreta

un ruolo comico

DRAMMA

DELLA GELOSIA

(1970)

Di Scola, con Mastroianni

innamorato e la Vitti

indecisa tra lui

e Giancarlo Giannini

POLVERE DI STELLE

(1973)

Diretto e interpretato

da Alberto Sordi

Successo clamoroso

anche per la canzone

Ma ’ndo Hawaii

IL FANTASMA

DELLA LIBERTÀ

(1974)

Buñuel la vuole per il suo

inno al surrealismo

È l’ennesima

trasformazione

i film

A TAVOLA

Nelle foto in bianco e nero a sinistra,

con Michelangelo Antonioni e Vittorio De Sica;

con Luis Buñuel e Jean-Claude Brialy

ne Il fantasma della libertà. Sopra con Al Pacino,

Marina Ripa di Meana e Francesco Rosi

CON IL MARITO

Qui sopra, l’attrice

con Marcello

Mastroianni

in Drammadella gelosiaIn alto, nelle foto

a colori, Monica Vitti

con il marito

Roberto Russo

e alcuni

disegni originali

tratti dal libro

Il letto è una rosa(Mondadori)

Nella foto grande,

la Vitti sul set

de Il deserto rosso nel 1964

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

NextRitorni

Quando sarà finito il petrolio continueremo a guidare automobili,viaggiare in aereo e illuminare case e strade. Con cosa? “Con un nuovotipo di carburante tratto dalle piante che coltiveremo nei deserti e negli oceani”Parola di Robert Laughlin, premio Nobel per la fisica,che traccia la sua idea di futuro ancorata a leggi scientifiche

SAN FRANCISCO

«Proiettiamoci nel futuro: quando gli esseri uma-ni non bruceranno più carbone, petrolio o gasnaturale. Continueremo a guidare qualche ti-po di auto? Viaggeremo in aereo? Da dove verrà

la luce per l’illuminazione?» Comincia così l’ultimo saggio di RobertLaughlin, premio Nobel per la fisica, docente all’università diStanford nel cuore della Silicon Valley californiana: Powering theFuture (Basic Books, 2011). Puntando sulle proprie competenze,parla da fisico, non da economista né da scienziato dell’ambiente:questo gli consente di tenere i piedi per terra, ragionando su vinco-li e leggi della fisica fondamentali. E sfocia su una conclusione sor-prendente: dovremo continuare a fabbricarci qualcosa che asso-migli a petrolio, benzina e cherosene, perché né l’idrogeno né l’a-tomo né il solare potranno completamente sostituirsi all’efficienzadi questi carburanti. Ma li produrremo sinteticamente grazie all’a-gricoltura. «Non sottraendo raccolti alla stessa agricoltura che ali-menta gli esseri umani; bensì coltivando oceani e deserti».

Laughlin adotta un approccio originale per riuscire a parlare al-la sinistra e alla destra, agli ambientalisti e agli “industrialisti”: siproietta in un futuro inevitabile, «quando i carburanti fossili nelleviscere della Terra saranno finiti», lasciando ad altri le diatribe sul-la data esatta in cui ciò accadrà. Non vuole schierarsi con il partitodei “limiti dello sviluppo” che vede un esaurimento imminente delpetrolio, né con gli esperti alla Daniel Yergin secondo cui l’innova-zione tecnologica ci consentirà di valorizzare nuovi giacimenti e dispostare più in là il giorno dell’“ultima goccia”. Tutto questo nongli sembra troppo rivelante, come spiega quando lo incontro alWorld Affairs Council di San Francisco.

Come si fa a evitare di schierarsi con i profeti dell’esaurimentoimminente delle risorse, o con gli ottimisti del progresso tecno-logico?

«Basta scegliere un orizzonte temporale un po’ più lungo, peresempio due secoli. Nell’arco di vita della nostra Terra equivale a unbattere di ciglio; ma anche nella storia dell’umanità è un periodo bre-ve: appena sei generazioni. A quel punto sarà iniziata l’Era post-fos-sile, su questo non c’è dubbio».

Davvero si possono escludere nuove scoper-te di giacimenti finora ignoti, e nuove tecnolo-gie che rendano economicamente sostenibiliqueste nuove estrazioni?

«È vero che sono state fatte nuove scoperte digiacimenti simil-petroliferi, per esempio nellesabbie del Canada e del Venezuela. Ma lo U. S.Geological Survey ha dimostrato in modo ine-quivocabile che le nuove scoperte non sarannosufficienti a compensare il declino. Le riservecomplessive dell’Arabia Saudita, per esempio,già entro sessant’anni entreranno in una “zonad’instabilità”, e questo è un arco temporale checi costringe a riflettere seriamente: riguarda già inostri nipoti. È questo il problema che io mi pon-go: esercito i miei studenti a interrogarsi su comevivranno i nostri discendenti».

La risposta lei la dà, com’è giusto, da scien-ziato della fisica.

«Spiego che non è immaginabile un futurocon aeroplani a batteria; per quanto migliori latecnologia delle batterie ci sono delle leggi dellafisica che lo impediscono. Così come non è pensabile l’aereo da tra-sporto a cellule solari, sempre in virtù di leggi fondamentali dellafisica. Un carburante come il cherosene, usato oggi nei jet, ha ca-ratteristiche ottimali di densità, efficienza energetica, sicurezza. Adifferenza dell’idrogeno che ha controindicazioni di pericolosità.In quanto al nucleare, il suo ruolo nell’equazione energetica del fu-turo sarà quello di un calmiere dei prezzi: qualora i costi di tutte lealtre energie dovessero salire a livelli socialmente e politicamenteinaccettabili, allora le opinioni pubbliche accetteranno di fare ri-corso in parte al nucleare».

Di qui la conclusione del suo saggio: quando non potremo piùderivare il cherosene o la benzina dal petrolio, dovremo fabbri-carceli. Entra in gioco la nuova agricoltura, e anche a questa lei ar-riva usando le leggi della fisica.

«Sul nostro pianeta le piante hanno sequestrato CO2 dall’aria permilioni di anni. In quest’attività loro sono professionisti, noi siamodilettanti. Perciò non ho dubbi: la risposta sarà l’agricoltura. Quan-do sarà finito l’ultimo giacimento di energia fossile, la nuova fontesarà l’agricoltura, non qualche tecnologia da inventare».

I biocarburanti vengono prodotti già da tempo, con le con-troindicazioni che conosciamo: fanno concorrenza all’alimenta-zione umana, contendono gli stessi terreni coltivabili che servo-no a sfamarci.

«L’intera superficie attualmente arabile degli Stati Uniti non sa-rebbe sufficiente, se dovessimo riconvertirla solo ai biocarburan-ti, per darci l’autosufficienza nell’era post-carbonica. Perciò nonpossiamo pensare di uscirne con l’agricoltura tradizionale. Solocoltivando gli oceani e i deserti ci riusciremo. La tecnologia esistegià, è quella della sintesi sperimentata dalla Germania al Sudafri-ca, molto simile anche a quella che la Shell e altre compagnie usa-no per la conversione del gas naturale. Consentirà di produrre conl’agricoltura carburanti di sintesi con la stessa densità, efficienzaenergetica e sicurezza di quelli che oggi deriviamo dal petrolio. Cisaranno problemi politici da risolvere, come la sovranità sulle ac-que extraterritoriali e il ruolo delle correnti. Ma la vita continuerà,grazie all’agricoltura».

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EnergiaBioFEDERICO RAMPINI

Ultima goccia

Le riservedell’Arabia Sauditaentreranno in una“zona di instabilità”entro 60 anniQuesto ci costringea riflettere: riguardagià i nostri nipoti

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Robert B. Laughlin

Metteremo dei fiorinei nostri serbatoi

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

Alla fine ci salva semprela cara vecchia agricoltura

CARLO PETRINI

Premettendo che ogni previsionesu come sarà il mondo tra due-cento anni è un esercizio che si

lascia volentieri ai premi Nobel, la vi-sione nel nuovo libro di Robert B. Lau-ghlin offre spunti interessanti. Il temaè l’energia, ma soprattutto l’agricoltu-ra. La tanto bistrattata agricoltura, ri-tenuta da moltissimi un settore margi-nale, data così tanto per scontata daessere trascurata, lasciata per troppotempo e con troppo potere in mano aun sistema agroindustriale globaleche ha finito con il metterla in ginoc-chio, prima nei paesi poveri e ora an-che in quelli ricchi. E sempre con ef-fetti nefasti per ambiente, contadini econsumatori.

Laughlin sostiene che tra due seco-li l’agricoltura sarà fondamentale percontinuare a garantirci la vita. Diceche il settore agricolo sarà il principa-le produttore di energia nell’era post-fossile. L’idea di coltivare oceani e de-serti per non far entrare in competi-zione cibo ed energia è molto affasci-nante e neanche tanto fantascientifi-ca. Però bisogna ricordare che il cibostesso è energia, perché ci nutre e ci famuovere e perché cresce grazie alla fo-tosintesi clorofilliana, dunque all’e-nergia del sole. L’agricoltura è semprestata, lo è oggi e sempre sarà ciò che cigarantisce la vita.

Una volta presa coscienza di questoassunto banale ma un po’ troppospesso dimenticato, va però fatto undiscorso su come dovrebbe essere l’a-gricoltura del futuro. Che si debbacambiare profondamente, che la sidebba rinnovare è un atto dovuto an-che per il palese fallimento del model-lo intensivo-industriale che ha domi-nato l’ultima metà di secolo. Che l’in-terazione tra produzione di cibo e pro-duzione di energia sia già nelle cose èdimostrato poi da come facilmentemolte aziende agricole facciano già ledue cose insieme. Il problema è chequando prevalgono la concentrazio-ne, l’inseguimento di presunte econo-

mie di scala, l’idea per cui l’agricolturaè come uno qualsiasi dei settori indu-striali — e risponde alle stesse leggieconomico-produttive — cibo edenergia saranno sempre in competi-zione tra di loro. Non bisogna fare “ci-bo oenergia”, ma “cibo e energia”. Po-tremo coltivare gli oceani, i deserti eanche gli altri pianeti, ma senza cam-biare il nostro modo di pensare conti-nueremo sempre a risolvere un pro-blema creandone un altro.

Sono sicuro che ci saranno innova-zioni importanti in campo energetico,e tecnologie sempre più pulite persfruttare direttamente o indiretta-mente l’energia solare (l’unica vera,enorme, sicura, perenne centrale checi fa piovere addosso, in ogni momen-to, enormi quantità di energia) contutte le forme che ne derivano. Ma civorrà la consapevolezza che tutto que-sto andrà realizzato in un sistemacomplesso che non dovrà più esseregovernato in maniera centralizzata. Civorrà un sistema capillare, diffuso, incui le comunità e le persone diventa-no produttrici di cibo ed energia primadi tutto per se stesse e poi per gli altri,in rete tra di loro. È necessaria una de-mocratizzazione della produzioneenergetico-agricola, con tecnologieaccessibili che si diano come obiettivoprimario la sostenibilità dei processi enon la possibilità di realizzare specu-lazioni. Già ora vediamo come biogase fotovoltaico, che potrebbero esseredei modi perfetti per integrare la pro-duzione agricola a livello aziendale, innome del profitto e dei grandi numeripossano diventare altamente insoste-nibili, ponendosi come alternative, enon complementari, a un’agricolturache così com’è risulterà sempre per-dente, siccome non riesce più a gene-rare entrate dignitose per i contadini.Per garantire il futuro non sarà tantoquestione di quali tecnologie ci inven-teremo, ma piuttosto in quale para-digma le vorremo calare.

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Derivano dalla trasformazione

di sostanza organica (carbogenesi),

sviluppatasi nel corso di milioni

di anni. Sono di questo tipo

i combustibili tradizionali

come il petrolio, il carbone

e il gas naturaleGL

OSSA

RIO

combustibili fossiliSono prodotte da fonti

che si rigenerano come il sole,

il vento, l’acqua o l’agricoltura

Non sono “esauribili” e il loro utilizzo

non pregiudica la reperibilità

di risorse energetiche

per le generazioni future

energie rinnovabiliTutti quei materiali di origine

animale e vegetale che non hanno

subito processi di fossilizzazione

utilizzati per produrre energia

Si tratta generalmente di scarti

dell’agricoltura, dell’allevamento

e dell’industria

biomasseSi ricavano dall’etanolo

e dall’alcol etilico prodotto

dalla fermentazione di vegetali

ricchi di zuccheri (mais, canna

da zucchero, barbabietola)

o dalla spremitura di piante

oleoaginose (girasole, colza)

biocarburanti biogasSi produce sottoponendo

la biomassa (animale o vegetale)

a “digestione”, processo

di decomposizione del materiale

organico da parte di alcuni

batteri che sviluppa anidride

carbonica, idrogeno e metano

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LA DOMENICA■ 38

DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

Benvenuti nella settimana di Hal-loween, ovvero All Hallows Eve, vigiliadi Ognissanti. Da vivere a metà tra ga-stronomia e commemorazioni, bi-scotti da impastare e visite ai cimiteri.Malgrado l’uso di fantocci, lenzuoli

animati, zucche vuote illuminate dalla luce dellacandela e il bussare a tredici porte offrendo tricks-or-treats — dolcetti o scherzetti — sia sbarcato in Ame-rica con l’immigrazione europea, la tradizione celti-co-anglosassone di festeggiare santi e morti non ciappartiene. Eppure, una scia di ritualità gastro-pro-fane legate a quei giorni corre tra Piemonte e Liguria,in Friuli (dove la sera del 31 ottobre l’intero paese diChiopris si accende dei lumini delle zucche, battez-zate musons), in Toscana (dove si chiamano zozzi),Campania, Lazio e Sardegna, dove c’è la fiera dei ritidelle Animeddas e del su mortu mortu, con i bambi-ni travestiti che bussano alle porte chiedendo doni.

Più in generale, al di là di feste, zucche intagliate eserate fintamente spaventevoli re-importate più permoda che per convinzione, l’Italia resta figlia di unatradizione contadina che, in occasione di Santi,Morti e anniversario della vittoria della prima guer-ra mondiale, prevedeva riunioni familiari accompa-gnate da lunghe soste a tavola. Freddo, orti ormai or-fani delle produzioni estive, voglia di tepore e di cibodi conforto. Da qui, il trionfo di zuppe e dolci, con lazucca regina indiscussa (meglio se raccolta dopouna gelata, che aumenta la quota zuccherina).

È proprio la tradizione dei piatti dedicati alle feste,dolci in primis, a unirci, da una parte all’altra dell’o-ceano, nel sacro nome della zucca. Del resto, la co-cutia (da cui cocuzza, ancora in uso al sud, tramuta-

I saporiTricks-or-treats

ta in cozuccae e infine zucca), messicana di origine earrivata in Europa con i conquistadores spagnoli, faallegria al solo vederla: colorata, polposa e piena divirtù.

Botanici e nutrizionisti la adorano, in quanto ipo-calorica (18 calorie per 100 grammi), ricca di vitami-na A e C, potassio, calcio, fosforo, fibre. In più, i semi— ricchi di acidi grassi essenziali, omega-3 e omega-6, vitamine e minerali — sciacquati e tostati in fornosono preventivi e terapeutici dei disturbi urinari eprostatici.

Difficile chiedere altro a un ortaggio capace di re-sistere settimane intere lontano dall’orto (purchéconservato al fresco e al buio) o in freezer, sotto for-ma di polpa sbollentata. In quanto a cuochi e pastic-ceri, il magico potere zuccherino senza zucchero(come per l’anguria) la rende perfetta per dessert aprova di diabete e bambini in odore di sovrappeso,celiaci (essendo gluten-free) e dannati della dieta.

Se volete scoprire tutto quello che avreste volutosapere sulla zucca e non avete mai osato chiedere, ilvostro posto è Mantova, dove fino all’8 dicembre è inprogramma la quindicesima edizione di “Di zucca inzucca”, che coinvolge agriturismi, ristoranti e botte-ghe in un susseguirsi di corsi di cucina, lezioni di in-taglio vegetale, gare culinarie, mercati contadini, ce-ne a tema. Per i seguaci della religione del raviolo dizucca, invece, due santuari da non mancare: “Al Pe-scatore” di Canneto sull’Oglio e “Il Rigoletto” di Reg-giolo, dove la zucca, alla faccia di streghe e diavolet-ti, tocca vette celestiali.

Zucca

LICIA GRANELLO

È colorata, polposa,ricca di vitamineMa anche ipocaloricae a prova di diabeteProdotto tipicodelle feste di novembre,ora rivisto e correttoin versione Halloween

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Un mondoa formadi cocuzza

Dolce

NapoliDetta “lunga” o “piena”,

è una cucurbitamoschata grande,

giallastra, allungata,

svasata alla base,

con maturazione

tardiva. Adatta

alle minestre

MantovaHa forma globosa

e costoluta, la torta(o melone): buccia

giallo uniforme

o screziata, polpa

soda e zuccherina,

ideale per il ripieno

dei tortelli

ChioggiaChiamata “marina”

per la vicinanza

alla laguna, è una

cucurbita maximadalla spessa buccia

verde. Polpa giallo-

arancio resa saporita

dalla salsedine

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Qui con il tortello non si scherza, mica zucche daHalloween. Qui, nel Mantovano, per i tortelli sirompono amicizie, madri disconoscono figlie,

mariti tornano sotto il confortante tetto materno perscappare da cucine impure. Ci si sfida a singolar ten-zone con le zone di confine, rivalità che partono in al-legria innaffiate dal lambrusco e finiscono negli studidegli avvocati. Un centimetro più giù e giurano che laloro ricetta è quella sacra, benedetta da Dio e dagli uo-mini nel corso dei secoli. Un centimetro più su e gli in-gredienti mutano. Cambiano colori e sapori. Appaio-no sacrileghe salamelle, sprizzate di pomodoro bla-sfemo. Qui si scrivono libri serissimi sull’argomento.La metafisica del tortello (Edizioni tre Lune) di StefanoScansani, giornalista studioso di tradizioni e di ali-mentazione, è un specie di bibbia in materia. Basta leg-gere qualche pagina a caso per capire di cosa stiamoparlando. E parliamo pure di convivenza, di multiet-nicità ben prima che ci pensassero i politici, perché iltortello che è mantovano e solo mantovano (alla larga,a proposito di convivenza civile, ferraresi e cremone-si) ha però origini comuni con piatti ottomani ed ebrei.Sapori di imperi lontani. Minacciati dalle innovazioni,come il rosso del pomodoro.

Così scrive Scansani degli intrusi color porpora:«Eversivi. In larga parte della Bassa mantovana e del-l’Alto ferrarese capita una cosa curiosa, bislacca, incor-

reggibile. I tortelli di zucca vagano nel rosso, si tingonoesteriormente di rosso, il loro gusto vira al rosso». Per-ché i tortelli non vanno sporcati con altro che il burro fu-so. Qualche anabattista anarchico in vena di eresie cibutta sopra persino le salamelle, equivocando sullachiave del successo dei tortelli, ovvero quel sublimecontrasto tra dolce e amaro, con punte di piccante chericordano la cucina indiana, quel gusto che qui chia-mano il dols-e-brüsk.

E poi le dispute sulla forma: «sacchetto ripiegato,quadrato, rettangolare o triangolare, o un cappellettoemilianizzante e ipertrofico, grosso, grossissimo, dellaserie tortello di nome e di fatto», recita sempre lo Scan-sani. Ma ogni massaia, qui ce ne sono ancora, manto-vana ha la sua ricetta e la sua idea, appunto, metafisicasu come deve essere il tortello Doc. Ultima generazionequella del Trenta o giù di lì che ancora custodisce gelosisegreti. Tanto che un fornaio mantovano con il fiuto de-gli affari ne ha prese una manciata, le ha messe in cuci-na e sforna «tortelli fatti in casa» su scala industriale. Per-mettendo a giovani spose, leste a buttar via la confezio-ne, di fare bella figura e di non essere costrette all’esilio.Che qui l’ostracismo ancora esiste e ha la forma miste-riosa di un tortello. Ma, infine, dopo le liti è sempre su-blime punto di incrocio, alimento povero e comune diterre sparpagliate dalle acque di pianura e confuse dal-la nebbia. Che cancella il rosso dei tortelli e ne esalta ildols-e-brüsk.

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DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

LA RICETTA

Tortino con cuore morbidoalla liquirizia

300 gr. polpa di zucca

150 gr. di burro

100 ml. acqua

100 gr. zucchero

1/2 bacca di vaniglia

150 gr. farina

8 gr. lievito

100 ml. panna

100 gr. cioccolato fondente

1 cucchiaio di liquore

alla liquirizia

MASSIMO VINCENZI

Sulla strada

Mantova e i fratelli tortelli

DOVE DORMIRELA CASA DI MARGHERITA

Via Broletto 44

MantovaTel. 349-7506117

Doppia da 80 euro, colazione inclusa

CASA POLI

Corso Garibaldi 32

MantovaTel. 0376-288170

Doppia da 130 euro, colazione inclusa

AGRITURISMO CORTE VIRGILIANA

Via Virgiliana 13, località Pietole di Virgilio

MantovaTel. 0376-448009

Doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE COMPRAREPANE&PASTA TRUZZI

Via XX Settembre 4

MantovaTel. 0376-322427

PASTIFICIO L’AGNOLINO

Via Libertà 99, località Porto Mantovano

MantovaTel. 0376-300861

COSE BUONE

Piazza Mazzini 13, frazione Polesine

PegognagaTel. 0376-525270

DOVE MANGIAREOSTERIA NEGRI

Largo Martiri della Libertà 14

GonzagaTel. 0376-528182

Chiuso dom. sera e lun., menù da 30 euro

ALLA NUOVA MARASCA

Piazza Alberti 19

MantovaTel. 0376-322620

Chiuso lunedì, menù da 30 euro

OSTERIA DA PIETRO

Via Chiassi 19

Castiglione delle StiviereTel. 037-6673718

Chiuso mercoledì, menù da 55 euro

Pumpkin pieIl dolce-culto di Halloween

è una crostata di pasta

brisée con farcia di zucca

lessata, amalgamata

con zucchero,

sciroppo d’acero,

uova e panna liquida FrittelleZucca cotta al forno

avvolta nella stagnola,

frullata con zucchero,

uova e scorza d’arancia,

aggiungendo poi farina

e poco lievito. Dopo

la frittura, zucchero a velo

TortaBurro montato a crema

con lo zucchero, prima

di lavorarlo con tuorli,

latte e lievito. Prima

di infornare si incorporano

i bianchi a neve. Alla fine,

cioccolato fuso

CrespelleFarina, sale, uova, latte,

olio per le cialde

Al centro purea di zucca

cotta nel latte, profumata

con scorza d’arancia

In forno con una lieve

besciamella dolce

CremaCottura a fuoco dolce

di zucca, miele d’acacia,

uvetta, limone e arancia

a fettine. Si schiaccia

con la forchetta,

aggiungendo altra uvetta

ammorbidita nel rum

Gli indirizzi

L’uruguaiano

Matias Perdomo –

ristorante

“Pont de Ferr”,

Milano –

è uno dei giovani

più interessanti

della nuova

gastronomia italiana

Dal mix felice

di materie prime,

creatività

e tecnica nascono

piatti originali

e golosi,

come questo tortino,

ideato per i lettori

di Repubblica

Ingredienti per 4 persone

Cuocere la zucca al forno privata dei semi e tagliata in quarti,

coperti singolarmente con carta stagnola per un’ora a 170 gradi

Sbollentare la panna in un pentolino

Versare sul cioccolato tritato. Aspettare un paio di minuti

e frullare con il frullatore a immersione

Aggiungere il liquore e versare negli stampini del ghiaccio

Una volta raffreddati, riporre nel freezer

Sciogliere il burro a bagnomaria

Aggiungere la zucca e frullare

Mescolare acqua, zucchero e vaniglia, portare a ebollizione

per creare una consistenza sciropposa, poi far raffreddare

Amalgamare lo sciroppo con zucca, uova, farina e lievito

Frullare fino a raggiungere una consistenza omogenea

Coprire con carta da forno degli stampini individuali,

riempiendoli con il composto fino a tre quarti

Incorporare la pastiglia congelata di cioccolato e liquirizia

Cuocere in forno a 190 gradi per 10 minuti. Lasciare riposare

qualche minuto prima di servire con panna montata

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LA DOMENICA■ 40

DOMENICA 23 OTTOBRE 2011

Doveva diventare medico comesuo padre, scelse di “vivere di sport”Quando nel ’68 i carri armatientrarono nella sua Praga eraa Palermo dove iniziava ad allenare

Serie C, poi B, poi A,ora di nuovo la BUna lunga carriera senzacompromessi. “Quelloche chiedo sonoapplausi se vi è

piaciuto lo spettacolo,fischi se vi siete annoiati”Perché la verità è più importante dei gol

PESCARA

Bisogna passare tra i suoisilenzi. E nel suo schemapreferito: pause lunghe esigarette. Bella faccia, da

film western: abbronzato, occhi azzur-ri, un po’ felino, un po’ sornione. Sorri-so disincantato. Autoironico, non malenella terra di Flaiano. Uno che la fa cor-ta, però la sa lunga. Il solo a dire che il cal-cio doveva uscire dalle farmacie e dagliuffici finanziari. Era il ’98. Fece scanda-lo lui, non lo scandalo. Un uomo disport, in senso lato, di quelli che prefe-riscono il gioco al risultato, un allenato-re di pallone, per molti un santone chepredica ingenuità, per altri un alieno.Più attaccato alla verità che al gol. Perquesto fatto fuori da un sistema calcioche non prevedeva onestà e decenza.Era il reietto, quello che sputava nelpiatto, bisognava emarginarlo, boicot-tarlo, condannarlo all’esilio, anzi all’in-ferno. Lui però dice: «Io sono normale,sono gli altri a essere anormali. Sonostato fuori per scelte altrui, non mie. Ionon ho mai rovinato le società e non so-no mai stato sotto inchiesta».

Zdenek Zeman ritorna sotto i riflet-tori. È sempre più celebrato, ha disce-poli ovunque, è venerato come queiprofessori che se ne stanno in posti de-filati a fare lezioni grandissime, specia-lità miracoli, non importa se allena ilPescara in serie B. Lui in panchina nonsi dimena, non esulta al gol. La sua è sta-ta definita: «l’entusiasta staticità diun’iguana». Zemaniano è diventato unaggettivo: significa essere zen, andare

avanti per la propria strada, crederenella bellezza di un’azione non nellacertezza di un risultato (che però spes-so arriva, ma dopo). Ora esce per mini-mum fax Il ritorno di Zeman, un ritrat-to-diario di Giuseppe Sansonna, libropiù due dvd (Zemanlandia e Due o trecose che so di lui, 18,90 euro). Vanno intanti da lui, a cercare una frase, un pen-siero trasgressivo, un qualcosa che nonsia melassa, formuletta da dire in tv. Selo dice Zeman significa che è una cosascomoda, estranea al compromesso, eforse anche alla mentalità italiana.

Infatti Zdenek è boemo, nato a Pra-ga, allora Cecoslovacchia, suo padreKarel era un primario dell’ospedale, lamadre Kvetuscia casalinga. «Papà vo-leva che anch’io diventassi medico, maa me piaceva lo sport. Quando mi sonoiscritto all’università non mi hannopreso perché a medicina c’era il nume-ro chiuso, e per dieci mesi ho lavoratoin una fabbrica farmaceutica, chiesi ilturno di notte, così di mattina potevoallenarmi. Non era un lavoro difficile,più che altro c’era da controllare tem-perature e macchinari, però in quel pe-riodo ho dormito poco e mi sono stan-cato molto. Il mio soprannome insquadra era “Pistone” perché in campomi muovevo molto. E in campo porta-vo sempre due palloni, perché c’eranoragazzi che non ne avevano. Eravamoamici di Zatopek, ma vederlo nella di-visa dell’esercito, faceva effetto».Quando a Praga nel ’68 entrano i carriarmati russi, Zeman è in Sicilia, ospitecon la sorella di suo zio, Vycpalek. «Ave-vo vent’anni, leggevo Kundera, amavoil cielo senza nuvole di Palermo». Nel’69 c’è il rogo di Jan Palach, niente piùPrimavera, basta con Dubcek, «Ricor-do tutto. Palach doveva essere il primodi una serie, il popolo soffriva, bisogna-va far vedere che non tutti accettavanoquell’invasione amica. Ma purtroppopassò anche l’idea che un matto si eradato fuoco. Anche se io non credo chemorire per un’idea valga mai la pena».Dal ’69 al ’75 Zeman si ferma a Palermo.«Il sud mi piace, i vicini si fanno sentire,mi invitavano spesso a pranzo: vuolefavorire? Uscivo di casa la mattina, tor-navo di notte. Ho preso il diploma Isef,seguito molti sport: nuoto, pallavolo,calcio, pallamano. Per i ragazzi che ve-nivano a giocare al campo, nella so-cietà di quartiere accanto alla Favorita,era motivo di aggregazione. Nella pra-tica quotidiana facevo da padre, mi ri-conoscevano autorità, gli stessi genito-

ri mi pregavano di passare messaggi aifigli». Dal Carini passa a fare il prepara-tore atletico al Bacigalupo, la squadrapalermitana dei fratelli Dell’Utri, dovec’è anche il procuratore nazionale an-timafia Piero Grasso e il senatore Vizzi-ni. «In Sicilia non ho mai incontratocomportamenti mafiosi, non dico chela mafia non esiste, ma la mia esperien-za diretta non la contempla, forse sa-pevano che io venivo da fuori e non ciprovavano». È vera la storiella raccon-tata dal dottor Gino Governanti, il far-macista e presidente di Carini, che so-stiene che per farla correre le dava duepasticche di Villescon e come ingaggioduemila lire per la benzina? «È un ri-cordo un po’ romanzato, è vero che cidava delle pilloline a me e a mio cuginoe noi le buttavamo nel canaletto». E og-gi i calciatori come sono? «Troppo im-mersi nell’elettronica e in Internet. Ionon posso proibire Facebook, peròposso provare a dire che stare da solidavanti a un video non va bene, è unmondo troppo chiuso, non è quella la

vera vita. Non può contare più l’ingag-gio che il collettivo. I ragazzi di oggi nonsono cattivi, ma molto individualisti,non guardano attorno e nemmeno al-l’altro. E attorno c’è una crisi che si puòtoccare: prima mezza città andava aCortina, ora è piena di negozi falliti».

Tecnici stranieri come Ferguson,Wenger, Hiddink in Italia non hannomai allenato. Solo un caso? «Si vede cheai nostri presidenti non piacciono. Vo-gliono investimenti a brevissimo ter-mine. E vista dall’altra parte l’Italia è ri-schiosa. In tribunale durante il proces-so per Calciopoli un avvocato mi ha rin-facciato di non aver vinto nulla. Mi so-no meravigliato: che c’entrava? Era unmodo per diffidarmi, per dirmi: stai zit-to tu, perdente e invidioso del successodegli altri. Non contava la verità di quel-lo che dicevo, la denuncia del malaffa-re, di un sistema corrotto, ma il mio cur-riculum di allenatore. Avrei potuto ri-spondere: state zitti voi che avete solorubato. Ma non l’ho fatto, non sono co-sì». Ecco, appunto, com’è Zeman, do-po quarant’anni di vita italiana e unacittadinanza ottenuta nel ’75. «Mi pia-ce stare con i giovani, anche se a ses-santaquattro anni mi sento invecchia-to, lo accetto, ma l’età mi disturba. Nonleggo più, guardo sport in tv, ho un gi-nocchio che mi fa male, per cui ho ini-ziato a giocare a golf. Vorrei ricomin-ciare, e farei le stesse cose. Ho lo stessosogno: vivere nello sport e di sport. Fir-mo sempre un contratto annuale perlasciare liberi entrambi a fine stagione.Mi emoziona una bella combinazione,un gesto tecnico perfetto, in allena-mento alcuni giorni fa siamo riusciti afarlo. E preferisco centravanti piccoli,sono più agili, si muovono meglio.Chiedo applausi se vi è piaciuto lo spet-tacolo, fischi se vi siete annoiati. Quan-do ero al Foggia nel ’94 sono andato aprendere il presidente, Pasquale Casil-lo, che usciva dal carcere di Poggiorea-le, e poi spesso sono andato a trovare luie il fratello, agli arresti domiciliari. Cer-co di capire chi è in difficoltà, chi haproblemi, gli ero anche riconoscente diavermi scelto».

Di Zeman si dice: uno che vince lepartite perse e perde quelle vinte. «Sivince e si perde, succede a tutti. Ma a mesuccede più che agli altri. Si può fare gole si può subirlo, mi piace provarci, cer-care un disegno, certe verticalizzazionile ho prese dall’hockey. Bisogna inse-gnare qualcosa ai giocatori, migliorarli,non solo occuparsi del risultato. La cul-

tura sportiva si insegna così. Si chiamagioco perché non sai come va a finire, selo sai prima vuol dire che non lo è. Mi af-fido ai giovani, nel Pescara ho fatto esor-dire dei ’91, ’92, ’93, non amo la confu-sione, preferisco le squadre organizza-te che sanno quello che fanno». Zemanè stato il primo a far vedere il futuro aTotti. «No, il futuro ce l’aveva già dentro.Quando l’ho allenato era un ragazzoche aveva voglia di trasgredire perchéaveva compagni di squadra più grandi.Gli ho solo detto che se faceva menostupidate poteva arrivare in alto e re-starci». È anche stato il primo a far ve-dere che un certo calcio non aveva piùfuturo. «Quello lo vedevano tutti, masono stati zitti, forse non volevano spa-ventarsi: come si fa a spendere più diquanto incassi? Le società di calcio so-no gestite male, fanno acquisti che nonpossono permettersi e alla fine qualcu-no pagherà. Ho dichiarato che il calcioè un malato di cancro curato con aspi-rine e resto della stessa idea. Non è cheio sono avanti, è che gli altri spesso simettono una benda sugli occhi e sullabocca. L’ho detto: io alla fine sono an-cora nel calcio, Moggi, no. Anche se de-vo rettificare: sarebbe squalificato, maproprio fuori non è».

Quando Wojtyla morì, Zeman si fece,come tutti, sei ore di coda in piazza a SanPietro. «Sono cattolico, rimasi colpito,ma ci andai per un altro motivo. L’ave-vo conosciuto in udienza, quando an-cora stava bene e sciava, non era comegli altri, emanava qualcosa di forte e dispeciale, energia, sentimento». Chissà,forse intima simpatia tra chi allenavaanime e chi allena spiriti.

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Quando Jan Palachsi diede fuocoavevo vent’annie leggevo KunderaMa non credovalga la penadi morireper un’idea

Zdenek Zeman

EMANUELA AUDISIO

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Repubblica Nazionale