dolci rime da un angolo d'europa

12
209 Matteo Veronesi DOLCI RIME DA UN ANGOLO D’EUROPA Appunti sulla poesia a Imola fra Arcadia e Scuola classica 209-220 14-09-2015, 20:04 209

Upload: matteo-veronesi

Post on 10-Dec-2015

39 views

Category:

Documents


4 download

DESCRIPTION

Saggio storico-critico sulla poesia classicistica ad Imola fra Settecento e Ottocento.

TRANSCRIPT

Page 1: Dolci rime da un angolo d'Europa

209

Matteo Veronesi

DOLCI RIME DA UN ANGOLOD’EUROPAAppunti sulla poesia a Imola fraArcadia e Scuola classica

209-220 14-09-2015, 20:04209

Page 2: Dolci rime da un angolo d'Europa

210

Nella pagina precedente:

Alessandro Dalla Nave, Affreschi della Farmacia dell’Ospedale di Imola, particolare.

209-220 14-09-2015, 20:04210

Page 3: Dolci rime da un angolo d'Europa

211

Portami ancora, tu antico poetanel tuo lezioso giardino.Profuma ancora, lucente di rugiada,fresca e fragrante la selva dei suoi fiori. Eduard Mörike, Brockes

Non è casuale l’interesse che prima Car-ducci, poi – su esortazione di Benedetto

Croce – Renato Serra nutrirono nei confron-ti delle istituzioni culturali – in apparenza cosìsterili, svagate, come sottolineò, fra gli altri,in pagine feroci, Giuseppe Baretti – della pro-vincia letteraria italiana: accademie, cenaco-li, salotti, “Colonie” arcadiche il cui fascinopuò risiedere, ancor oggi, proprio nel loroumbratile ed eburneo isolamento, nella loroapparente immota sospensione sul diveniredel tempo, nel loro alessandrino ripiegamentosull’esercizio letterario come puro fatto for-male, estetico, come otium nobilmente edaristocraticamente inutile ma – come questebrevi note cercheranno di mostrare – nonnecessariamente chiuso e sordo ad una di-mensione più vasta, e tale, anzi, da accoglie-re in sé, e restituire filtrati, attutiti, ma pro-prio per questo riplasmati non senza una qual-che originalità defilata e quieta, gli echi e iriflessi di un più largo moto di pensiero, e, senon altro, il perpetuarsi, il protrarsi e il persi-stere di quella grande tradizione classica chedella cultura europea aveva costituito la ma-trice prima e il codice comune.Leggendo, oggi, anche se per puro interessestorico e documentario, testi come gli Elogid’illustri imolesi di Tiberio Papotti (ad esem-pio quello di Giovanni Battista Felice Zappi:«... e il vedi in tutto spirante soavità e tene-rezza, laddove con arte maestra non soloesprime, ma gradua quasi e concatena i motie il sentire dell’animo»: e sembra, quasi, dileggere, se non Serra, almeno Carducci); o,prima ancora, risalendo a ritroso lungo la li-nea che conduce, per gradi, quasi impercet-tibilmente, attraverso una maturazione e unapprofondirsi e un comporsi d'idee e forme,dall'Arcadia alla Scuola Classica, la ancoroggi utile Istoria letteraria della città d’Imoladi Francesco Maria Mancurti; leggendo quel-le pagine, dicevo, si ha come la sensazionedi trovarsi in un microcosmo linguistico estilistico che riflette quelllo, analogo, dellaprovincia culturale – un succedersi assiduo,sussurrante, rassicurante di pensieri codifi-

cati e condivisi, di parole chiave ricorrenti edelimitanti un piccolo e coerente sistema let-terario, di clausole ritmiche e sintattiche di-gnitose, composte, modeste proprio nel sen-so della medietas, di una compiutezza armo-nizzata ed appagata.Un filo sottile ma sostanziale di continuitàstorica lega, dicevo, l’Arcadia provinciale –nel nostro caso la “Colonia Vatrenia”, da Va-trenus, o Vaternus, nome latino, attestato inMarziale, del fiume che bagna Imola – allaScuola Classica Romagnola: lega, in altreparole, quello «scelto drappello» di cui di-scorreva il Bettinelli in Del risorgimentod’Italia (III, Poesia), «non guasto per sensi ecostumi, non avvilito da fatiche o da passio-ni, perfezionato dagli ottimi studi e nutrito aquelle piene sorgenti di Virgilio e del Petrar-ca» – ossia i due Classici per eccellenza, au-rei ed eburnei, assoluti e puri, quanto maicristallini e spirituali –, al «piccolo mondo,spirante sana aura di dottrina e di buone let-tere, in cui si rispecchia pacata e nitida l'im-magine di un vasto movimento della culturanon pure romagnola, ma italiana», del qualeparlava, rievocando la Scuola Classica Ro-magnola, Renato Serra in un quasi dimenti-cato articolo su Gaetano Gasperoni.1Ma non si deve credere che questo classici-smo provinciale e remoto si traduca, invaria-bilmente, nelle forme algide, disanimate edimmote dell’accademismo. È un contesto,questo sette-ottocentesco, capace di offrireanche un'opera sorprendente, per molti aspettistraordinaria (tra discernimento e farragine,caos e volontà di classificazione, furor scrip-torius irrefrenabile, soggettiva ossessione elodevole e preziosa volontà documentaria)come le Pitture della città d’Imola di Gio-vanni Niccolò Villa2: vi è, per così dire, inquel «guazzabuglio» e in quello «zibaldone»,come l’autore stesso definisce la propria tor-renziale e divagante promenade fra le mag-giori e minori e minime testimonianze arti-stiche cittadine, una sorta di contraddizione,o di difficile equilibrio, fra il gusto ancoraquasi barocco per un’erudizione debordante

209-220 14-09-2015, 20:04211

Page 4: Dolci rime da un angolo d'Europa

212

e l’elogio di un ideale estetico neoclassico –quello che animava Cosimo Morelli nellaprogettazione del Duomo – nutrito di «eurit-mia», «giuste proporzioni, ornati di buongusto», attenzione ad evitare ogni eccesso.Se, poi, ci spostiamo al primo Ottocento, frale ultime eredità dell'Arcadia e la pienezzadella Scuola Classica, incontreremo un testo– di sorprendente consonanza foscoliana –come l’inno Alle Grazie, del 1814 (edito daGaleati nel 1833), di Nicola Gommi Flami-ni, amico di Leopardi: «Di mia timida cetera/ Sacro a voi l’armonia, / Voi che spiraste inumeri, / Onde l’alma rapia, / Alla fanciullalesbia / E al canuto di Teo molle Cantor» (ri-ferimenti, questi ultimi, a Saffo e ad Anacre-onte).Peraltro, Gommi Flamini, conoscitore dellapoesia inglese, poteva ben aver recepito daKeats quell’aspirazione ad una ellenica, mar-morea e insieme eterea, armonia; e di Byron,dal canto terzo del Don Juan, Gommi Fla-mini traduce, non senza finezza, e con qual-che libertà, il Canto del poeta greco: «O fiorvago di Grecia, / Salvete, isole care! / (…)Dove la lesbia vergine / Suo fiero amor can-tò! / E Delo emerse, e il fulgido / Dio quivinacque; e indora / perennemente ed anima /Campi e colline ancora. / Ma tutto sparve.Ed unico / il vostro sol durò!». Dove, al raf-fronto con l’originale («The isles of Greece...»), spiccano, accanto all’adozione di unmetro tipico dell’ode settecentesca, l’uso diun lessico («indora», «anima») addirittura piùvivido di quello dell'originale («Eternal sum-mer gilds them yet») e un senso ancor piùmalinconico ed ombroso, leopardiano appun-to, del crepuscolo degli dei e del tramontodelle illusioni («Ma tutto sparve»).Ma sorprendenti, ancora, sono le consonan-ze foscoliane dell’inno Alle Grazie: «Invantenta volubili / note sull’arpa dia, / e allegriballi modera / all’ore e all'armonia / di cele-sti, Tersicore, / E di ninfe mortali almo pia-cer».Vi è, qui, come in Foscolo, insieme alla neo-classica ricerca dell’armonia, il senso del-l’inafferrabilità e dell’indicibilità con cui laparola si scontra quando entra in contatto conle subitanee epifanie della bellezza («... ap-pena veggo / il vel fuggente biancheggiar frai mirti», nel celebre frammento della Danza-trice).Del resto, negli archivi della Biblioteca Co-munale di Imola, fra le carte Scarabelli-Gom-mi Flamini, si conserva, dell’autore, una bre-ve dissertazione (stesa in quella prosa limpi-da e armoniosa che, come detto, segna quasiil passo e il respiro di questo umanesimo diprovincia) in cui è citato il Perì Orchéseos, il

Trattato sulla Danza, di Luciano di Samosa-ta, da cui si apprende che la danza «armoniz-za le anime di chi la contempla», e che danzaè anche l’Armonia del cosmo, stelle pianetiorbite (e ad una danzatrice è dedicata l’odedi Dionigi Strocchi O sulla sponda Argiva..., in cui si ravvisa solitamente il massimoesito poetico della Scuola Classica Romagno-la).Certo, per l'ampiezza dei suoi interessi e del-le sue relazioni (con Byron, oltre che conLeopardi, egli fu anche in corrispondenza) eper la sua duplice formazione, classico-mo-derna, Gommi Flamini meriterebbe uno stu-dio più attento.E, sempre in materia di consonanze fosco-liane in questi oscuri imolesi, tra i Versi pub-blicati nel 1803, a Ferrara, da Matteo MarcoBeltramini, dimenticato pittore-poeta tossi-gnanese, autore, fra l’altro, di una elegantetraduzione (in Italia, diceva Serra nelle cele-bri pagine Intorno al modo di leggere i Gre-ci, per vezzo per ozio per tradizione cultura-le, «si è tradotto sempre») dei Caratteri diTeofrasto, stesa in un italiano limpido, mo-deratamente puristico, si incontrano sia uninno A Venere, dai toni lucreziani e ovidiani(«O voluttà della natura madre / (…) Tu, chedel Caos la notte tenebrosa / dissipando, faivivere, e fecondi»), sia un’ode Per la Conva-lescenza di Francesco Maria Mancurti, il giàcitato erudito e storico della letteratura, in cuisi auspica che proprio le Grazie possano por-gere un nettare divino, un «aureo mistico /licore eletto», che risanerà l’amico.Piccolo ma prezioso tempio consacrato al-l’arte, alla civiltà e alla memoria fu la Far-

Carlo Maratta, ritratto dellafiglia Faustina.

209-220 14-09-2015, 20:04212

Page 5: Dolci rime da un angolo d'Europa

213

macia dell’Ospedale, impreziosita da affre-schi di Angelo Gottarelli e Alessandro DallaNave: immagini che celebrano quell’armo-nia di arte e natura, di materia e ingegno, cheera, nella visione classica, l’arte medica.L’inaugurazione, nel 1794, fu accompagna-ta da un florilegio di componimenti poeticiin cui (accanto al valore della civiltà, dellamemoria, degli antichi e nobili esempi, valo-re vichiano e, ancora una volta, foscolianoante litteram) affiora quell’estetica della com-penetrazione, o addirittura dell’agone, di Na-tura e Arte, che, di origine tardo-Rinascimen-tale e Barocca, trovava eco nell’Imola sette-ottocentesca (se è vero che di paesaggi daornare di «edifizi … ideali», quasi metafisi-ci, dell’opportunità di «riunire la natura e l’ar-te», di «fare un raro innesto di quanto ha l’unadi più studiato, su quello che l’altra presentadi più semplice», scriveva Francesco Alga-rotti a Prospero Pesci, del quale si conserva-no, nel Museo Diocesano di Imola, due Sto-rie dell’Antico Testamento dove – quasi inanticipo, poeticamente, sulle Visioni del Va-rano, e in sintonia con certi sonetti di Fausti-na Maratti Zappi, come Bosco caliginoso,orrido, e cieco – rovine desolate, senza tem-po né nome, ma evocanti una defunta armo-nia, una classicità sfumata nel non-tempodella perdita, si fondono con una vegetazio-ne e un’atmosfera sfumate, nebulose – la stes-sa caligo nella materia pittorica e nel direpoetico – che evocano a loro modo, con com-posta inquietudine, l’assenza-presenza delDivino3 – e lo stesso si potrebbe dire per cer-

ti dipinti di Alessandro Dalla Nave, come Au-tunno, a Palazzo Ginnasi, popolati di astrat-te, oracolari figurazioni sepolcrali, piramidiobelischi tabernacoli cappelle colonne tron-cate, sullo sfondo di una natura malinconi-camente, autunnalmente idillica, enigmatica-mente impassibile).Proprio il connubio, o la contesa, di Natura eArte («Di natura arte par, che per diletto /l'imitatrice sua scherzando imiti», per citareTasso) sono celebrati, nella raccolta perl’inaugurazione della Farmacia, in un sonet-to non spregevole, da Francesco Scarabelli,canonico e poeta: «Qual loco è questo, in cuinatura ed arte / Con bella industre gara in-siem contende? / E i rari doni e l’opre suestupende / Con vaga pompa e simmetria com-parte?» (dove quel «comparte», usato daDante, Par XXVII 16 e Inf XIX 12, con rife-rimento a Sapienza e Provvidenza Divine,varrebbe da solo a mostrare come l’idealeclassico della simmetria e dell’euritmia po-tesse fondersi con un’etica cristiana); men-tre il celebre medico Luigi Angeli, qui nellameno nota veste di poeta, con il più impe-gnativo carme in endecasillabi sciolti Il Tem-pio della Salute ripercorreva la storia ed esal-tava il valore della medicina – trovando peròil tempo di indugiare, non lontano dalla poe-tica del sensismo, sui giochi di luce che laluna e il sole e gli astri – benché solo effigia-ti, nella solita ambivalenza di Arte come Na-tura – potevano ricamare sulle cromie pre-ziose e fantasiose della decorazione: «... e ilsettemplice raggio / variamente rifratto a co-lor vario / Pinge, ed alluma la magion bea-ta».Ma è necessario, ora, fare un passo indietro,e tornare alle radici – riconducibili al primoSettecento, con l’Accademia dell’Arcadia –di questo classicismo sette-ottocentesco.I coniugi Giovanni Battista Felice Zappi eFaustina Maratti Zappi sono oggi confinatinel limbo dei minori, se non dei minimi. Epuò sorprendere, allora, l’attenzione con cuiessi venivano letti (del resto, le loro Rimeconobbero vasta diffusione e numerose edi-zioni) da autori come Foscolo e Leopardi.Al primo, in una lettera del 7 maggio 1802,il maestro Melchiorre Cesarotti raccoman-dava cautela nel fare «entrar i quaderni nelleterzine, senza posa di verso, né interruzionedi sentimento» (ossia nell’attuare quella con-tinuità logico-sintattica, tipica di Foscolo, chetravalica le divisioni fra le strofe, e àltera lacorrispondenza di metro e sintassi, forma epensiero): un’audacia, questa, che poteva,secondo il Cesarotti, scusarsi solo in casi ec-cezionali, fra i quali il «bel sonetto dellaMaratti sull’Allegoria della Tempesta» (Ahi

Carlo Maratta, ritratto dellafiglia Faustina (disegno).

209-220 14-09-2015, 20:04213

Page 6: Dolci rime da un angolo d'Europa

214

che si turba, ahi che s’innalza e cresce: effi-cace, quasi preromantica rappresentazione,fortemente sonora e visiva, con l’immaginestessa, quasi – ut pictura poesis – , ad evoca-re o a suscitare il suono della tempesta inte-riore che agitava la poetessa – affine alle fo-scoliane «secrete / cure che al viver mio fu-ron tempesta», e che inducono a desiderarela quiete dell’estremo porto – peraltro, pe-trarchesco poteva essere l’archetipo comunedella vita come travagliata navigazione).Ancor più significativo il caso di Leopardi,che elogia, nello Zibaldone (28 e seguenti,dunque nel periodo, decisivo, della forma-zione giovanile), i versi di Giambattista Feli-ce Zappi, trovandovi (specie nel Museod’Amore, che peraltro appare, oggi, pur nellavivezza e nella rapidità incalzante del versobreve e cantante, forse meno significativo dialcuni suoi sonetti) addirittura «i semi di unAnacreonte», «qualche lampo di bella novi-tà» e una «composta vivacità».E, in un altro appunto dello Zibaldone (30-31), Leopardi, fissando una squisita, del tut-to soggettiva impressione di lettura, parago-nava «l’effetto indefinibile che fanno in noile odi di Anacreonte» ad un breve e profu-mato soffio di vento nell’afa dell’estate, aduna vaga repentina sensazione di allegria, ri-storo, vitalità, che non è, però, possibile fer-mare, analizzare, perché «già quello spiro èpassato», «quella sensazione indefinibile èquasi istantanea», e, ad una seconda lettura,«vi restano in mano le parole sole e secche»,e «appena vi potete ricordare in confuso lasensazione che v’hanno prodotta un momen-to fa quelle stesse parole». Ebbene, dice Le-opardi, «questa sensazione mi è parso di sen-tirla, leggendo (oltre Anacreonte) il solo Zap-pi».Si sarebbe tentati, di fronte a questa paginasplendida, di fare il nome, se non di Bergsono di Proust (per la «durée réelle», e il «per-pétuel mouvement» degli istanti che si sus-seguono e fuggono), almeno di Renato Ser-ra, per la squisita, inimitabile capacità di tra-durre in immagine metafora similitudine ana-logia l’essenza e la risonanza interiori di unasensazione di lettura; o si sarebbe tentati, al-meno, di pensare alla celebre poetica del vagoe dell’indefinito, e alle improvvise e fugaciconsolazioni della bellezza e dell’illusione.O piuttosto, per tornare al nostro argomento,si sarebbe tentati di riprendere in mano, congli occhi di Leopardi, i versi di Zappi e diAnacreonte, per cercare di afferrare anche noiqualche refolo o spiro di quel vento odoroso.Cosa certo non facile, tanta è la distanza ditempo, sensibilità, situazioni storiche – «lanostra voce», per citare ancora Serra, «non è

la loro voce»4.Come scrisse, nell’elegia per la morte del fi-glioletto degli Zappi, Rinaldo, Pier JacopoMartello (che, fra l’altro, alla Maratti dedicòil Davide in corte, associando, nella letteradedicatoria, secondo un’estetica di originerinascimentale che dal Trattato della pitturadi Leonardo andava alle Rime di Michelan-gelo, la natura intellettuale, ideale, specula-tiva dell’arte del padre pittore, Carlo Maratta– arte capace di fondere nella propria Ideaquanto di più elevato e puro vi era nella mol-teplicità delle idee umane – a quella della fi-glia, nei cui versi «colori immortali», colo-res retorici analogicamente affini alle sfuma-ture delle tele, rivestivano uno “spirito”, unesprit, un ingegno raro e prezioso5), la Musadello Zappi è, paradossalmente, una Musafemminea, tenera, delicata, tanto quanto vi-rile è invece quella della moglie.Le armonie dello Zappi, secondo il Martel-lo, erano degne di una «ninfa leggiadra e gra-ziosa», tanto «che diventa in sua man fior ciòche tocca»6 (preziosa eco, forse, per que-st’idea finissima della trasfigurazione poeti-ca come metamorfosi floreale, del Ronsarddegli Amours: «... Afin que vif et mort, toncorps ne soit que roses»).Ed è, forse, proprio una certa gratuità del-l’atto poetico, una ricerca consapevolmentefine a se stessa del canto, della musicalità,del puro suono, della limpida e armoniosasonorità in cui, virgilianamente («formosamresonare doces Amaryllida silvas ...»), si ri-solvono, e dissolvono, così la natura, il pae-saggio, come l’amore stesso: «... ma non micrede il colle, il fiore, il rivo / che per vezzodel canto io fingo amore» (X); «solco un va-sto oceàno e veggio, o parmi, / non lungi ilporto e canto inni d'amore» (XII) – è questaper così dire gratuità, dicevo, questa quasipuerile e trasognata, dolcissima e smemora-ta, eppure letterariamente consapevole, insen-satezza, a poter paradossalmente avvicinare,per certi aspetti, questa poesia ad una sensi-bilità moderna – viene in mente, quasi, laSirenetta della Gioconda di D’Annunzio,«che cantò / per cantare, per cantare / percantare solamente».Ma c’è, inoltre, in quel solcare l’oceano del-l’esistenza – il «gran mar de l’essere» dan-tesco – continuando a cantare d’amore an-che in vista del porto, anche all’appressarsidell’ultimo approdo, qualcosa di quel nessosottile ed inquietante fra amore e morte, frail piacere o la consolazione illusori degli «er-rori», delle illusioni, del «vago imaginar», dei«cari inganni», e l’ossessiva, tangibile onni-presenza del «solido nulla», del Male imme-dicabile.

209-220 14-09-2015, 20:04214

Page 7: Dolci rime da un angolo d'Europa

215

E questa ambivalenza dell'Amore, illusoriamaschera del nulla, altra faccia della Morte,è sottilmente avvertita dallo Zappi: ad esem-pio nel componimento LVI, tipica egloga digusto virgiliano, ove da un lato vi è l’ideaneoplatonica – che si ritroverà nella Bellez-za dell’universo del Monti – dell’Amorecome forza ordinatrice che plasmò la mate-ria informe, traendo il cosmo dal nulla o dalcaos («la mente augusta, eccelsa, eterna, /detta Amor, perché amando il tutto fuore /trasse dal nulla e amando or lo governa»),dall’altro il paradosso dell'’Amore che, conl’ansia e l’angoscia che l’accompagnano, por-tò la Morte nel mondo degli umani – para-dosso posto nella forma senecana del cotidiemorimur, della morte che avviene ogni gior-no, scandita dallo stillicidio degli istanti cheinesorabilmente consumano il tempo che ciè dato: «L’alma allora imparò morir che sia,/ né morir solo, ma morire ogni ora».E anche nel poemetto Il Museo d’Amore, chetanto suggestionò il giovane Leopardi (forseanche per il modo in cui vi si intreccianoestrosamente suggestioni letterarie diverse,dai Dialoghi di Luciano alla Stultitiae Lausdi Erasmo alla straniata e straniante luna ario-stesca), all’illusorietà della bellezza («quelche veder mi parve, / fur visioni o larve» –quasi, mi si perdoni l’audacia estrema, l’un-garettiana ninfa-larva che «languiva / e rifio-riva») si accompagna, veicolata proprio dal-l'Amore, la coscienza della Morte: «Nol so:so ben che Amore / con barbaro furore / del-la mente il bel raggio / mi toglie e guida amorte». «Ma perir mi dà ’l ciel per questaluce»; «quel dolce desio ch’Amor mi spira /

menami a morte», aveva del resto cantato ilPetrarca, grande archetipo comune.Per converso, nella canzone leopardiana IlRisorgimento, proprio una cantabilità arca-dica, ma quasi ironicamente straniata, pote-va da un lato sottolineare il paradossale ride-starsi della Musa inaridita dalla disillusione,dall’altro mitigare la coscienza, pur semprevigile, dell’avversità del fato e dell’indiffe-renza della natura7.E verrebbe voglia, se lo spazio lo consentis-se, di riprendere in mano Anacreonte e rileg-gerlo con gli occhi del giovane Leopardi,accostandolo, sulle sue orme, allo Zappi: evi si troverebbe, appunto, accanto alle im-magini fugaci, dissolte in pura musica, dibellezza e d’amore, la consapevolezza dell'ine-sorabile essere per la morte. Glykeroù d’oukétipollòs / biótou chrónos léleiptai: «Non resta /più lungo tempo della dolce vita».Ma vi sono altri aspetti che potrebbero rac-comandare lo Zappi all’attenzione dello stu-dioso d’oggi: ad esempio il parallelo fra l’ar-te letteraria e quella figurativa (quasi in anti-cipo sui dibattiti che alla fine del secolo sa-ranno destati dal Laocoonte di Lessing), ca-paci la prima di rappresentare istante peristante il divenire e lo svolgersi di una vicen-da nel tempo, la seconda di fissarli o evocarlio suggerirli nella fissità, e insieme nella mul-tiforme simultaneità, dell’immagine (ed ecco,allora, fermata nella mobile compostezza delverso, la gestualità monumentale del Mosèdi Michelangelo: «Tal era allor che le sonan-ti e vaste / acque ei sospese a sé dintorno ...»,o, quasi a contrapporre la serenità contem-plativa dell’arte al tumultuoso e sanguinoso

Prospero Pesci, «Paesaggiocon rovine».

209-220 14-09-2015, 20:04215

Page 8: Dolci rime da un angolo d'Europa

216

divenire della storia, la statua di Cesare: «...qual sei qui fermo oltre il costume, / tal fossistato al Rubicone in riva»); o, ancora, i lacer-ti o i barlumi, quasi, di una visione metafisi-ca o di una teologia della storia, come là doveil poeta legge, nei sibillini, e danteschi, «vo-lumi del destino», la caduta dell’Impero Ot-tomano, o immagina una ideale Arcadia ce-leste (quasi dantesche «Atene celestiali») chereplichi e sublimi quello spazio ideale e ide-alizzato che è, già sulla terra, l’Accademiad’Arcadia («anche in cielo Arcadia nostra èbella» – sebbene sulla terra, da Sannazaro aPoussin, anch’essa possa essere visitata dal-la Morte).Ma, forse, anche quella pura musicalità dicui si diceva ha, in certo modo, una matricemetafisica. Nel Filalete, Biagio Schiavo (chepure, a torto o a ragione, rimproverava alloZappi di aver banalizzato il petrarchismo pla-tonizzante interpretandolo in chiave superfi-ciale, salottiera, mondana, decorativa) vede-va, rifacendosi a Marsilio Ficino, nella mu-sicalità petrarchesca un riflesso o un’eco dellearmonie celesti del Timeo platonico: un’ar-monia «più intima e più alta che traduce inversi e in piedi e in numeri le celesti armo-nie, imitandole con certi numeri di voci e dimoti dell’anima»8.E uno stesso intreccio, quasi prefoscoliano,tra musicalità della parola, sinergia fra le arti,valore supremo dell’Armonia e della Memo-ria, mostra – pur se in chiave cristiana – ilsonetto – Alfin col teschio d’atro sangue in-triso – occasionato dalla Giuditta del Cardi-nale Ottoboni, su musica di Alessandro Scar-latti (sonetto in cui, forse, in certi effetti disuono, in certi giochi d’eco nei singoli versie da un verso all'altro, non è forzato avvertirel’eco dei melismi che, nella partitura, enfa-tizzano le parole chiave – «Vien dal Ciel ciòch'opro e tento… / Non è soggetto il Cielo aleggi umane»9): «Chiara di te memoria / fin-ché il sol porti, e ovunque porti il giorno» –difficile non pensare alla chiusa, celebre, e diben altra intensità ed incisività, dei Sepolcri:«... e finché il sole / risplenderà sulle sciagu-re umane».La poesia di Faustina Maratti Zappi, poi, var-rebbe da sola a mostrare come l’Arcadia fem-minile non possa certo essere ridotta ad unmero intrattenimento mondano, salottiero,esteriore, ma sia, al contrario, sorretta, in al-cuni casi, da una cultura letteraria, e anchefilosofica, tutt’altro che esile.È merito di Tatiana Crivelli l’avere eviden-ziato lo spessore culturale che sorreggeva l'ap-parente leggerezza, l’esteriore superficialità,dell’Arcadia femminile (anzi dell’Arcadia ingenere, «molle», «effeminata», «snervata»,

secondo lo stereotipo critico che da alcunepagine del Baretti dedicate proprio allo Zap-pi con i suoi mondani e frivoli «sonettini tut-ti pieni di Amorini» – come se il poeta imo-lese non fosse stato capace anche di scolpire,con mano potente, con «man che ubidisce al’intelletto», il sonetto sul Mosè di Miche-langelo, che ha in sé la vigoria racchiusa nel-la mobile immobilità della scultura «visibileparlare» – arriverà al De Sanctis per esseresolo in parte attenuato e sfumato dal Croce,e infine lasciato sostanzialmente intatto e iner-te, con rare eccezioni, dalla storiografia suc-cessiva).Si tratta, invero, come la Crivelli suggeriscecitando Kundera, di una leggerezza spessoinsostenibile10 (basti pensare ai sonetti, strug-genti, che la Maratti, accomunata fra l’altroal sodale Pier Jacopo Martello da questo tre-mendo lutto e da questa profonda sorgentedi canto doloroso, dedicò al figlio morto); diuna leggerezza che si accompagna, per di più,ad una precisa coscienza storica, ad un sensodella continuità, alla percezione distinta diun rapporto strettissimo, assoluto, sovrasto-rico – quasi un terreno e umanissimo corpusmysticum –, come di madre a figlia o di so-rella a sorella, che congiunge tutte le inter-preti, tutte le voci potenti o fragili, connotateo stereotipate, di quella sorta di coro som-merso che è la poesia femminile.Ed è emblematico che Diodata Saluzzo DiRoero (la cui Musa d’ombre e di rovine nonera lontana dal Cesarotti, da Foscolo, da Leo-pardi) potesse dirsi, in un sonetto, agli alboridi un Ottocento ormai preromantico, fiera diaver raccolto il testimone, anzi il «bacolo»,il bastone pastorale, di «Aglauro vaga, /ch’Itali carmi fe’ suonare a l'etra», sebbenesmarrita ne fosse, oramai, la «cetra» inimita-bile (dove, sotto l’apparenza leggiadra, fittisono i richiami dotti, dalla platonica catena,nello Ione, che unisce gli Dei ai Vati e i Vatiai rapsodi, alla lucreziana fiamma della vita,«lampas vitai», che trascorre di generazionein generazione, fino agli oraziani «Itali mo-di», alle «care Itale note» che saranno diMonti, di Foscolo, di Carducci).E, sempre a proposito della Maratti, è ancorala Crivelli a ricordare11 lo squisito simposiofilosofico (tale, quasi, da rievocare certe de-licate, pacate, mistiche e insieme raziocinanti,atmosfere del platonismo rinascimentale,quali si respirano negli Asolani del Bembo onei Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo) atte-stato dal tomo terzo delle Prose degli Arca-di, edito a Roma nel 1718, e che coinvolse,fra le altre, la fiera e tormentata PetronillaPaolini Massimi («sol del nostro valor l'uo-mo è tiranno») e la stessa Maratti.

209-220 14-09-2015, 20:04216

Page 9: Dolci rime da un angolo d'Europa

217

Quest’ultima, in veste di Sibilla – o quasi diplatonica Diotima, di iniziatrice, in veste ga-lante, e insieme quasi sacrale, ai dimenticatimisteri d’amore –, aveva definito l’essenzadell’Amore come Cristallo.Per la Paolini Massimi, quel Cristallo sim-boleggiava lo specchio dell’autocoscienza, lasapienza filosofica che l’anima attinge, pla-tonicamente, attraverso la meditazione ispi-rata da un amore sublimato ed intellettualiz-zato (l’Anima contempla, «come in uno spec-chio», le immagini della Bellezza che si sonoimpresse nello spirito fino a correre il rischiodi restare irretita, come Narciso, nelle pro-prie stesse cogitazioni, insieme passionali edintellettuali).Sottilissima è la risoluzione dell'enigma cheviene offerta dalla Maratti: l’immagine – qua-si l'emblema o l’«impresa», di gusto ancoraun poco secentesco – del Cristallo allude alladuplice natura dell’Amore: da un lato l’aspet-to terreno, terrestre, materiale, minerale, oscu-ro come le profondità millenarie da cui af-fiora il quarzo, «Cristallo di Monte»; dall’al-tro, il cristallo come luce, quella che l’attra-versa e che esso filtra e moltiplica, come fuo-co dell’amore intellettuale, che «arde tuttociò che d’impuro, di grave, e di materiale truo-va d’attorno all'anima, e la fa, qual fiammapurificatrice, alzare alla sua sfera» (parole,queste, in cui riecheggia tutta una secolaresapienza amorosa, dallo Stilnovo a Ficino alBruno degli Heroici Furori, e che parrebbe-ro quasi far già intravedere quella «fiammagemmea», quella «gem-like flame», di cui

arderanno, nel secondo Ottocento, gli estetiinglesi).In questo Settecento mondano e insieme pla-tonico, classico ed eburneo eppure in parteancora ingegnoso e concettistico, galante maa volte dolente, salottiero eppure, spesso,autenticamente petrarchesco, la visione diBiagio Schiavo (petrarchismo come platoni-smo assoluto, puro, incorporeo, intellettua-le) può coesistere con quella, più distaccata,di Muratori commentatore del Canzoniere(Petrarca come poeta animato comunque dauna passione umana e terrena, benché intel-lettualizzata, interiorizzata, e resa astrattadall'impossibilità stessa di appagarla).Entrambe le visioni (Amore come desiderioe passione e Amore come affinamento d’ani-mo e d’intelletto), del resto, affiorano e s’in-trecciano, armoniosamente – ma non senzaironica e maliziosa dialettica, ostile alle «ca-tene immaginarie» e alle «prigioni ideali» –,nel Congresso di Citera di Francesco Alga-rotti, leggiadra rilettura settecentesca – inchiave di romanzo, o meglio di “operetta” –della tradizione del simposio filosofico in-torno alla natura d’Amore12.E un’erudizione finanche eccessiva, sottilis-sima, intrisa della filosofia di Cartesio da leitanto amato, rivela la dissertazione della stes-sa Maratti a difesa del sonetto Con frontecrespa e sguardo aspro e severo, edita per laprima volta da Bruno Maier in appendice allamonografia già citata.In queste pagine, la poetessa difende la pro-pria rappresentazione – in apparenza contrad-dittoria, in realtà sfaccettata e irta d’antitesicome il sentimento stesso – dell’Amore comepassione e gelosia, e dunque come fuoco egelo, entusiasmo e conflitto, trasporto ed an-goscia. Antitesi ben petrarchesca; e, comePetrarca (ma anche sulla scorta del Traité despassions di Cartesio, che metteva in guardiada quella «espèce de crainte», da quella sor-ta di sottile acuto ossessivo timore di perde-re l'oggetto amato, che è la Gelosia), la poe-tessa risanava, o cercava di risanare, le feritedella gelosia, le ombre del passato, così comegli sconvolgimenti del lutto, nell’equilibrio enell’armonia, classici e melodiosi, della for-ma.Una forma letteraria che, anche nel suo caso,inclinava ad una fusione di linguaggi espres-sivi diversi. Figlia del pittore Carlo Maratta(che ne fece un placido ed assorto ritratto, diuna floridezza rinascimentale, ma esprimen-te, in qualche modo, quella stessa passione equello stesso dolore razionalmente domina-ti, contenuti, misurati, come respinti nel buiodell’interiorità – quasi «calore di fiamma lon-tana», avrebbe detto Foscolo), al dipinto del

Carlo Maratta, «Tuccia».

209-220 14-09-2015, 20:04217

Page 10: Dolci rime da un angolo d'Europa

218

padre raffigurante la vergine Vestale Tuziadedicò un sonetto, Questa, che in biancoammanto e in bianco velo, il quale dava voceal «parlar muto» dell’immagine (espressio-ne che ricalca, com’è evidente, quella, plu-tarchea, della pittura come «poesia muta»,póiesis sioposa), e, in certo modo, esplicita-va – ut pictura poesis – i valori semantici rac-chiusi nei dettagli del dipinto.Se da un lato, nel quadro, il candore del velo,la purezza dell’incarnato, la compostezza delviso verginale, il terso lucore dell’acqua rin-viavano ad una simbologia classico-cristia-na di purezza (la classica lustratio come affi-ne al battesimo, la verginità comune allaMadre di Dio e alle Vestali), dall’altro il so-netto richiama, con la pennellata di un verso,tutto questo sistema di valori: «di fuor tralu-ce il bel candido cuore» (con una sorta diconio dantesco-petrarchesco, fra il «traluce-re» paradisiaco della gloria divina e lo sgo-mento del poeta di Laura: «di fuor si leggecom’io dentro avvampi»).E non è possibile, in conclusione, dedicareche poche pagine ad una figura che merite-rebbe, invece, ampia e decisa rivalutazione,quella di Camillo Zampieri, che – oggi di-menticato – era però omaggiato, alla morte,da Vincenzo Monti come un nuovo Orfeo(«Piangean le Muse sull’avel che spento / DelVatreno racchiude il terzo Orfeo»13).Il suo nome è tutt’al più ricordato per avere,fra i primi, negato, o almeno messo in dub-bio, l’autenticità dei Canti di Ossian, tradottida Melchiorre Cesarotti, e destinati a fortunae risonanza larghissime.Ma è bene rammentare che a ciò Zampierigiunse non per via filologica, bensì sulla basedi una poetica severamente classicistica chelo induceva a guardare con diffidenza a queiversi cupi, gementi, contrastati, a quella na-tura primigenia, remota, selvaggia. «Ex te-nebris saeclorum etiam effodiuntur ab altis»,si legge in De Ossiano poeta, breve carme indistici elegiaci raccolto nei Carminum libriquinque editi a Piacenza nel 1771: i poeti «siscavano fin dalle fonde tenebre dei secoli»,fino ad estrarne addirittura un selvaggio «Cel-ta», oltraggio derisorio per la «divina Poe-sis» (e c’è, in questa divinizzazione della poe-sia, già tutto lo spirito della Scuola Classica,fino all’eredità che ne raccoglierà Carducci).Riduttivo sarebbe vedere nell'opera dello Zam-pieri solo un'espressione di pensiero reazio-nario (malgrado il suo poema Tobia fosse, di-chiaratamente, una confutazione delle teorieilluministiche – di quei «novi Sofi» cui delresto il Parini, anch’egli legato in fondo al-l’eredità dell’Arcadia, guarderà, nel Giorno,con un interesse non scisso dalla diffidenza).

Nei suoi Carmina latini, il cattolicissimoZampieri reinterpreta, originalmente, il lasci-vo Catullo nella chiave di un’idealizzazionequasi stilnovista della donna. Il suo è «can-didulus probusque amor», un amore candi-do e castissimo, pur nella venustas, nella gra-zia, catulliana; un amore, però, comunquecapace di suscitare un platonico-cristianoenthousiasmòs che eleva quel sentimento allestelle: «hunc amorem / Iam mens praetrepi-dans ad astra flagrat / Astutum lepido vocareversu» (I, 2). Uno stesso dolore, uno stessofato impassibile («dura quies», «ferreus som-nus»: quiete ostinata, ferreo sonno è la morteche ha colpito, non ancora decenne, «ut al-bulus columbus», il piccolo Tommaso DellaVolpe) segnano il destino dell’uomo e la vitadella natura.La vigna delle Sacre Scritture, «Sacrarum Lit-terarum Vinea» (II, 32), è cinta e difesa dalmistero della parola divina, da una fitta edinviolabile corona di tenebre, «corona per-petuis opaca dumis». Essa non concede i pro-pri frutti al razionalismo ostinato e pervicaceche tenta di violarla, o che addirittura la con-sidera un’aberrazione del pensiero. Del re-sto, a Bologna, l’imolese Camillo Ettorri, te-orico (fra i primi, se non il primo) di un Buongusto contrapposto agli eccessi del Barocco,vedeva nel Verbo Divino, nella Parola incar-nata in Cristo, nelle sue parabole immediatema proprio per questo illuminanti, il perfettoesempio di un’espressione sublime e insie-me umana e terrena, alta e profonda eppurevicina alla realtà e all'esperienza14.I versi di Zampieri sembrano pervasi da quel-la stessa fusione di classicità e cristianesimoche anima – certo dietro indicazione dellostesso committente – gli affreschi di sogget-to biblico, opera di Angelo Gottarelli, ador-nanti le sale del suo palazzo imolese: una stes-sa serenità spira dalla natura, dalle architet-ture, dagli incarnati, dai volti, li avvolge e lieleva15.E proprio alla poesia teologica Zampieri de-dicò la sua più impegnativa opera in italiano,quel Giobbe esposto in ottava rima, edito aBologna nel 1763, che, presente nella biblio-teca di Leopardi, poté forse offrire qualchesuggestione alla rilettura (orfana, a differen-za della visione del poeta cristiano, di qual-siasi fiducia nella Provvidenza Divina) chequesti diede del pessimismo biblico16.Basti citare, qui, la rievocazione, notturna erisonante, del passo (Giobbe 4, 12) in cui èevocato il «Verbum absconditum», la parolaocculta e appena bisbigliata, della divinità,la verità inaccessibile ed imperscrutabile: «Iostesso ignota / Voce sì come d’indistinto echeto / Romor notturno, e che parea remota,

209-220 14-09-2015, 20:04218

Page 11: Dolci rime da un angolo d'Europa

219

/ Intesi risonar nel più segreto / placido orror,quando su l’ale immota / La notte rende ognianimal quieto»; l’ampia parafrasi di Zampieridel passo, lapidario (Giobbe 5, 7), in cui sidice che «homo ad laborem nascitur et avisad volatum» («l’uomo istesso / per la fatica,e pel travaglio è nato … / A questo fine luiformò Natura», mentre all’uccello fu dato «ilremigio de l’ali avventurato / Su per gli spazide l’aria») può avere offerto (insieme ad altriantecedenti, fra cui poco indagato è forsequello degli Uccelli di Aristofane) un qual-che spunto al Leopardi dell’Elogio degli uc-celli; infine (ma i richiami potrebbero molti-plicarsi) l’idea, già implicita nel testo biblico(«Numquid Deum quispiam docebit scien-

tiam», 21, 22) e poi ampiamente sviluppatadal pensiero cristiano, che il volere divino nonsia subordinato o commisurato al bene o almale, al vantaggio o allo svantaggio, dell’uo-mo, ma perduri imperscrutabile nella sua as-solutezza, può prefigurare (anche se in modimetafisici, danteschi, di poesia teologica, lon-tana dal materialismo leopardiano) la stessaimpassibilità e la stessa lontananza che Leo-pardi attribuirà alla Natura matrigna: non sideve credere che l’«Eccelso Dio, che ne l’em-pireo regno / Beato in sé beatitudine span-de», «Prenda regola, o faccia alcun disegno /Per utile, che il mondo in lui tramande».E non c’è, forse, modo più consono, per con-cludere questo excursus, che soffermarsi sualcune riflessioni, del tutto moderne, che ilpur classicista Zampieri sviluppava intornoal modo in cui la modernità (la sua, come lanostra) può rapportarsi all’antico: ossia perframmenti, lampi, intuizioni, attraverso unvelo di alterità e di perdita, una prospettiva,deserta e insieme limpida, di lontananza.Introducendo la citata edizione piacentina del1771, Zampieri paragonava lo sguardo di chicerca, attraverso l’elegia latina, le vestigiaesigue e disperse, quasi del tutto perdute, lagrazia fragile e svanita, i «lineamenta sparsaatque seiuncta», di quella greca – l’occhio dichi tenta, come faceva Dionigi Strocchi, clas-sicista faentino, e come farà Foscolo di lì apoco, di percepire l’eco franta e perturbatadella Chioma di Berenice di Callimaco attra-verso la traduzione-riscrittura di Catullo –all’attitudine di Michelangelo, che scrutavacon sguardo fisso e rapito, «oculis haerenti-bus ac defixis», un busto mutilo, immaginan-do nell’aria e nella luce, nel vuoto della di-stanza storica e della perdita irrimediabile, lameraviglia svanita.Anche se dell’Arcadia e del Classicismo noiabbiamo non solo le opere compiute, ma ad-dirittura un patrimonio sovrabbondante edebordante, le nostre sono pur sempre unaricerca e una cernita, quasi archeologiche, diframmenti e gemme rari e sepolti e dispersi,voci da far rivivere nuovamente nitide, dis-solto quel roco velo di polvere che inevita-bilmente ce ne aliena.Arcadia – scriveva Benedetto Croce sui Qua-derni della Critica nell'Aprile del ’46, in unaprimavera satura di sangue e insieme di spe-ranza – è «nome che suscita immagini di pacee di gentili piaceri, quali la pace consente».Non che quell’epoca fosse immune dal pe-renne, pervicace scontro di civiltà – se pro-prio alle vittorie contro i Turchi lo Zappi po-teva dedicare sonetti monumentali e roboan-ti. Ma – fosse pure ozio erudito, vuoto esteti-smo, o addirittura allucinazione storiografi-

Frontespizio delle Rime deiconiugi Zappi.

Frontespizio del Giobbe diCamillo Zampieri.

209-220 14-09-2015, 20:04219

Page 12: Dolci rime da un angolo d'Europa

220

NOTE

1 «Il Cittadino», Cesena, agosto 1910.2 Meritoriamente riedite per le cure di Claudia Pedrini e con una finissima prefazione di Andrea Emiliani, La

Mandragora, Imola 2001.3 O. Orsi, Una quieta Arcadia di provincia, in Alessandro Dalla Nave imolensis “pittore di molto merito”, ivi

2013, pp. 68-69.4 I componimenti dei coniugi Zappi si possono leggere nell’edizione curata da Bruno Maier (autore inoltre

dell’ancor oggi utile monografia Faustina Maratti Zappi, L’Orlando, Roma 1954), Poesie, Fulvio Rossi, Napoli1954.

5 Séguito del Teatro Italiano di Pier Jacopo Martello, Parte Prima, Dalla Volpe, Bologna 1723, p. 271.6 Opere, VII, Bologna 1729, p. 236.7 Vedi l’attenta analisi di Marco Antonio Bazzocchi, L’edizione bolognese dei Versi, in Leopardi e Bologna,

Olschki, Firenze 1999, pp. 233-246. In generale, Leopardi e il Settecento, ivi 1964. Fondamentale documentola Crestomazia italiana curata da Leopardi, riedita per le cure di Giusepe Savoca, Einaudi, Torino 1968 (loZappi vi figura con cinque componimenti, invero non dei più felici, fra cui quello della famigerata metamorfosionirica in «cagnoletto», che, onnipresente nelle antologie, tanto ha nociuto all’immagine e alla fortuna dell’au-tore).

8 Il Filalete, Geremia e Tabacco, Venezia 1738, II, pp. 641-642. Vedi il saggio di Elisabetta Graziosi, Vent’anni dipetrarchismo, in La Colonia Renia, a cura di Mario Saccenti, Mucchi, Modena 1988, vol. II, pp. 186-187 (e, peri rapporti fra la Maratti e Martello, il contributo di Maria Grazia Accorsi, Pastori a teatro, p. 355).

9 Vedi l’attenta analisi di Maria Rosa De Luca, Giuditta versus Oloferne, «Musica Docta», II, 2012, pp. 107-121,musicadocta.cib.unibo.it

10 La donzelleta che nulla temea, Iacobelli, Roma 2014, pp. 7 sgg.11 Ibidem, pp. 79 sgg.12 Si veda la pregevole edizione curata da Daniela Mangione (Millennium, Bologna 2003).13 V. Monti, Poesie varie, Resnati, Milano 1839, p. 11.14 Vedi il citato contributo di Maria Grazia Accorsi, Pastori a teatro, p. 347.15 Rinvio a Il volto nascosto della città, Editrice Compositori, Bologna 2002, pp. 136 sgg.16 Come segnalato, en passant, da Paolo Rota nel suo – per ben altri e ben più importanti aspetti prezioso –

Leopardi e la Bibbia, Il Mulino, Bologna 1998.

ca – sia permesso anche a noi, ancora, vaga-re per quei preziosi, artefatti, variegati giar-

dini – per quei freschi e remoti horti con-clausi.

209-220 14-09-2015, 20:04220