testo verità del potere cianografica- (3)

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Boulé è metafora dell’assemblea, cioè di un luogo in cui si esercita non la discussione fine a se stessa, ma il confronto al fine di deliberare e giudicare. Scegliendo come emblema questa figura della democrazia antica, la Collana intende presentarsi come uno spazio per un confronto e un dialogo che non si limita al profilo speculativo, né si chiude in steccati disciplinari, ma fa interagire discipline differenti alla ricerca di percorsi in cui teoria e prassi si fecondano vicendevolmente. Essa nasce dal lavoro realizzato dalla Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme e dal Centro Studi sul Pensiero Contemporaneo di Cuneo ma, al tempo stesso, si propone come luogo aperto a riflessioni sulle più rilevanti questioni pubbliche che attraversano la contemporaneità.

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Boulé è metafora dell’assemblea, cioè di un luogo in cui si esercita

non la discussione fine a se stessa, ma il confronto al fine di deliberare e giudicare.

Scegliendo come emblema questa figura della democrazia antica,

la Collana intende presentarsi come uno spazio per un confronto e un dialogo

che non si limita al profilo speculativo, né si chiude in steccati disciplinari,

ma fa interagire discipline differenti alla ricerca di percorsi in cui teoria

e prassi si fecondano vicendevolmente. Essa nasce dal lavoro realizzato dalla Scuola di Alta Formazione

di Acqui Terme e dal Centro Studi sul Pensiero Contemporaneo di Cuneo ma,

al tempo stesso, si propone come luogo aperto a riflessioni sulle più rilevanti questioni pubbliche

che attraversano la contemporaneità.

BOULÉ

Collana di Filosofia e Scienze umane

collana diretta da

Graziano Lingua e Alberto Pirni

Comitato Scientifico

Gerardo Cunico, Félix Duque, Jean-Marc Ferry,

Barbara Henry, Maurizio Pagano, Ugo Perone

Verità del potere, potere della verità

a cura di

Alberto Pirni

Edizioni ETS

www.edizioniets.com

Volume pubblicato con il contributo di:

Comune di Acqui Terme

Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria

Istituto Nazionale Tributaristi

© Copyright 2012 Ciascun autore è detentore del copyright (©) del proprio saggio pubblicato in

questo volume

EDIZIONI ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa

[email protected] www.edizioniets.com

Distribuzione

PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]

ISBN 978-884673459-4

Prefazione del Sindaco di Acqui Terme

In qualità di Sindaco di Acqui Terme, è per me un piacere ed un onore presentare il volume Verità del potere, potere della verità. Tale volume costituisce il frutto più recente di una tradizione culturale che si rinnova ormai dal 1998, anno in cui partiva la prima edizione della Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme. Il volume e la Collana editoriale che lo ospita, nata per raccogliere gli studi originati in questa occasione nella nostra Città, lasciandone così traccia nel corso degli anni, è il suggello di un’attività culturale alla quale siamo particolarmente affezionati. La Scuola di Alta Formazione rende infatti Acqui meta annuale di un pubblico sempre crescente di ricercatori e cultori del sapere filosofico, che trascorrono qui alcuni giorni, tra discussioni vivaci e sincere e momenti di piacevole loisir, pensando alle risorse culturali, paesaggistiche e termali del nostro territorio, che siamo lieti ed onorati di far conoscere e di condividere con loro.

Confidiamo dunque di poter proseguire nel rinnovare questa significativa tradizione culturale, che si inserisce per altro nell’ambito delle iniziative promosse nell’ambito del Premio Acqui Storia, una delle «colonne» dell’attività culturale della Città.

La Scuola di Alta Formazione non sarebbe tuttavia possibile senza importanti collaborazioni, che è qui gradito obbligo ricordare. Sul piano scientifico essa si avvale della sinergia con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (Napoli), il Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia dell’Università di Genova e con l’Istituto di Diritto, Politica e Sviluppo della Scuola Superiore Sant’Anna di Studi Universitari e di Perfezionamento – Pisa. Non meno significative sono le collaborazioni con Enti e Istituzioni territoriali e nazionali, che concorrono a sostenerne la realizzazione: il Lions Club di Acqui Terme Host, la Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, la Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, l’Istituto Nazionale Tributaristi.

Al mio più sincero ringraziamento nei loro confronti, per un

6 Verità del potere, potere della verità impegno di grande respiro e costanza, deve essere unito l’Istituto Superiore «Parodi» di Acqui Terme, che contribuisce a rendere fruibile questa preziosa occasione di aggiornamento e confronto filosofico ai propri Docenti e Allievi. Un ringraziamento finale e personale desidero infine esprimerlo al Dott. Alberto Pirni, che ha concepito l’iniziativa e che, di anno in anno, continua a seguirne la realizzazione.

Acqui Terme, 1 ottobre 2012

Enrico Silvio Bertero Sindaco di Acqui Terme

Prefazione del Presidente della Fondazione

Cassa di Risparmio di Alessandria

La Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria è da molti anni tra i soggetti che sostengono la Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme, di cui questo volume raccoglie, opportunamente rielaborati e arricchiti, i frutti dell’edizione 2009. Si tratta di un’iniziativa di chiaro prestigio culturale, sia per l’esclusiva collaborazione tra Università e Istituti di ricerca di riconosciuto livello internazionale che essa realizza, sia per la qualità dei relatori e dei borsisti coinvolti, sia, non da ultimo, per la crescente risonanza nazionale ed internazionale che ha saputo in questi anni richiamare intorno a sé.

Tuttavia, tra gli altri punti distintivi, è la particolare centralità che la Scuola offre ai giovani ricercatori, di volta in volta borsisti, a rendere per noi qualificante la partecipazione a tale manifestazione. La promozione della ricerca scientifica e il sostegno alle giovani generazioni rientrano, infatti, tra gli obiettivi di questa Fondazione, che la Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme riesce ad interpretare appieno.

Sono queste le ragioni che ci hanno motivato e ci motivano a sostenere la Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme, vero e proprio laboratorio di ricerca e fruizione culturale di altissimo livello e ampia capacità di divulgazione, che di anno in anno viene offerto alla Città di Acqui Terme e all’intero territorio della nostra Provincia.

Alessandria, 2 ottobre 2012

Pier Angelo Taverna Presidente della Fondazione

Cassa di Risparmio di Alessandria

Prefazione del Presidente dell’Istituto Nazionale

Tributaristi

L’Istituto Nazionale Tributaristi, che mi onoro di rappresentare in questa sede, ha intrapreso da alcuni anni la strada dell’affiancamento alla Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme in qualità di Istituzione sostenitrice. Si è percorsa e si sta percorrendo tale strada con convinzione, a partire dall’unanime positivo riconoscimento che circonda l’iniziativa, di cui questo volume costituisce solo la più recente testimonianza. L’idea di un seminario aperto al pubblico, che ospita alcuni dei più prestigiosi docenti e intellettuali rispetto al tema proposto, il ruolo riservato ai giovani borsisti, che sono anche chiamati a presentare un proprio contributo, il respiro internazionale dell’insieme, che apre opportunamente la riflessione a contesti anche molto differenti dal nostro: tutto questo insieme di rilevanze ci hanno motivato e ci motivano in questa direzione.

Le tematiche di anno in anno affrontate, per altro, toccano alcuni dei punti di più vasta attualità e di sempre rinnovato bisogno di riflessione per il presente e il futuro delle nostre società. Quest’anno il tema del potere e la sua pretesa di verità insieme, all’opposto, al fascino e alla rilevanza che la sfera della verità e il suo autentico o presunto possesso possono esercitare su molteplici contesti concreti tocca un nodo concettuale di grande rilevanza, che nella sua apparente intrinseca difficoltà aiuta tutti noi a familiarizzare con una dimensione complessiva del vivere associato che dalla quotidianità del vissuto vorrebbe e, forse, dovrebbe coinvolgere appieno le sfere più ampie della politica e dell’economia.

Questo è stato ed è lo stile della Scuola di Alta Formazione acquese: portare l’università fuori dall’università, per rendere alla comunità dei cittadini un servizio che è e rimane al fondo intrinsecamente pubblico: la divulgazione della ricerca e lo stimolo per una riflessione il più possibile ampia, che non deve cessare di esaurire la propria spinta

10 Verità del potere, potere della verità propulsiva, nel nostro presente e, soprattutto, per le nuove generazioni.

Roma, 30 settembre 2012

Riccardo Alemanno Presidente dell’Istituto Nazionale Tributaristi

Un binomio (im-)possibile?

Alcune considerazioni preliminari su verità e potere

1. Visti da lontano

I due lemmi che si è scelto di porre a tema sono tra quelli che “fanno tremare le vene e i polsi”; almeno ad un primo sguardo certo intimoriscono, per la quantità di risonanze e riferimenti concettuali che necessariamente evocano e portano con sé. Ciò avviene non solo perché sia “verità” sia “potere” appartengono a pieno titolo al novero delle parole più antiche della filosofia occidentale, ma anche perché non hanno mai cessato, lungo tutta la loro plurimillenaria storia, di essere discusse, interpretate, chiamate in causa, financo “brandite”, dall’una o dalle altre parti di innumerevoli dispute e altrettanto incalcolabili conflitti. A tal punto è vasto il loro raggio di impiego che solo in maniera compromissoria riusciremmo a circoscrivere un elenco di aggettivi tramite i quali connotare quelle dispute e quei conflitti. Ci è forse più facile immaginare una significativa intensità che li ha accompagnati e, magari, continua ad accompagnarli: è scontato affermare come intorno a questioni di verità o di potere l’attenzione e la tensione degli “interlocutori”, reali o fittizi, sia sempre (stata) molto alta, a volte anche in maniera del tutto indipendente dalla posta effettivamente in gioco nella situazione specifica.

Ma se la storia che diremmo “esperienziale”, ovvero concretamente vissuta, dei dissidi possibili in nome dei due lemmi è costitutivamente eccedente ogni racconto possibile, sorte non dissimile ha certo la storia intellettuale o concettuale dei medesimi, che solo a prezzo di significative dicotomizzazioni potrebbe essere abbracciata con uno sguardo d’insieme.

A fronte di tali evidenti premesse, se si cercasse di abbracciare il volume con uno sguardo d’insieme, si potrebbe facilmente giungere ad una triplice pre-comprensione, che appare spontaneo proporre in

12 Verità del potere, potere della verità forma interrogativa. Si tratta di un volume molto, forse troppo ambizioso, che in poche pagine e lungo una serie dopotutto circoscritta di autori pretende di dire qualcosa di nuovo non solo su uno, ma addirittura su due lemmi così carichi di storia e interpretazioni? Oppure, proprio pensando alla eccezionale densità di tali lemmi, si tratta di un volume del tutto (o per molta parte) pleonastico, che si limita a “saccheggiare” liberamente la storia del pensiero, limitandosi a riportare alla luce qualcosa di noto, rileggendo per l’ennesima volta qualcosa di già letto? In ultimo ma non da ultimo, quand’anche potesse evitare tali non positivi apprezzamenti, il volume, presentando una precisa silloge di autori e temi, non si presta alla critica di parzialità, limitatezza, incompletezza alla quale parimenti è esposta ogni raccolta di interventi che possa apparire più o meno vicina ad una silloge antologica?

Consapevole della possibilità di tali interrogativi, il lavoro che qui si presenta intende percorrere un intento certo sostanzialmente più modesto, ma al tempo stesso, si auspica, in grado di aggiungere qualcosa al dibattito scientifico sempre rinnovantesi intorno a tali concetti. L’intento che ne ha animato l’articolazione è quello di avvicinare universi semantici, quali quelli circoscritti dai due termini richiamati dal titolo, che di per sé potrebbero pensarsi scissi, separati, semplicemente auto-sussistenti. Detto diversamente, è dalla volontà di creare connessioni che possono scaturire differenti angolature attraverso le quali inquadrare ognuno di essi, nel reciproco rapportarsi all’altro1. La connessione può portare, suggerire, creare le condizioni della novità, del diverso modo di inquadrare concetti che, diversamente, potrebbero pensarsi come altrettante monadi, virtualmente (o viziosamente, ad avviso di chi scrive) auto-legittimate ad un discorso centrato solo su loro stesse. Le parole e i concetti hanno senso e ricevono significato non solo a partire da ciò che sono stati, dai sensi e significati che hanno posseduto nel loro passato, ma anche – e in forma spesso del tutto decisiva – dalle vicinanze o lontananze, dai collegamenti o estraneità con le quali sono state presentate nell’interlocuzione a noi immanente. Non bisogna certo perdere la

1 Il riferimento, indiretto e suggestionale prima che disciplinarmente convergente, è al

volume di J.-L. Amselle, Branchements. Anthropologie de l’universalité des cultures, Frammarion, Paris 2001 [Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, trad. it. di M. Aime, Bollati Boringhieri, Torino 2001].

Un binomio (im-)possibile? 13

consapevolezza storica, rispetto ad esse, ma non bisogna arrestarsi ad essa, se si vuole restare fedeli al paradigmatico monito hegeliano, che circoscrive l’intero compito del filosofare facendolo coincidere con la comprensione del proprio tempo in pensieri2. È certo il linguaggio a creare, più o meno spontaneamente e consapevolmente, connessioni, inedite e scontate, e il significato della parola non può non essere anche funzione del suo esserci, del suo accadere entro l’insieme di parole nel quale essa è inserita. 2. Pensare la relazione

Inscritta in questa direzione, l’analisi corale che qui si presenta si colloca idealmente lungo un tentativo metodico già esplorato in altra sede. Si tratta, rispetto ai concetti che si intende discutere, del tentativo di suggerirne la concretezza, intesa come forza euristica ed esplicativa e, al tempo stesso, di tenerne presente l’opacità, intesa come la difficoltà a porne in atto una “presa”, ovvero una “prensione cognitiva” univoca ed unitaria. Nel fare ciò, si pone in atto una ‒ si crede ‒ salutare pratica critica nei confronti di tali concetti; si tratta, in altri termini, di “graffiarne la superficie”, di stimolare un esercizio di riscatto dall’ovvio, dal presuntivamente conosciuto che sembra guidare il nostro primo pensiero, quando si pensa a parole e lemmi a tal punto usati, da poter risultare “usurati” da quell’infinito impiego e indistinguibili rispetto al preciso sembiante semantico che si intendeva evocare in quella determinata occasione di dialogo e confronto3.

Accompagnano certo opportunamente la riflessione sulla “connessione” concettuale che si è qui tentata alcune parole di Hans-Georg Gadamer, pensatore che ha dedicato un’attenzione davvero rilevante al tema della verità in quella che egli ha definito come «l’epoca dell’ermeneutica»: «Non una già elaborata convenzionalità,

2 Il riferimento è qui invece a G.F.W. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, in G.W.F.

Hegel, Gesammelte Werke, Hamburg, Meiner 2009, pp. XXI-XXII, p. 15 [Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio, con le Aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, trad. it. di G. Marini e B. Henry, Roma-Bari, Laterza 2005, p. 15]).

3 Mi sia consentito il rinvio, a questo proposito, al volume nel quale si è innanzitutto avviato questo cammino: A. Pirni (a cura di), Globalizzazione, saggezza, regole, ETS, Pisa 2011 e, in esso, a Id., «Graffiare la superficie dei concetti: alcune considerazioni preliminari», pp. 11-26.

14 Verità del potere, potere della verità non il peso di previe schematizzazioni dalle quali veniamo sovraccaricati è il linguaggio, ma la forza generativa e creativa di fluidificare senza posa un tale tutto»4.

In questo alveo si collocava e si colloca l’impegno originario del volume: se è il linguaggio a costituire la forza “fluidificante” e al tempo stesso “connettiva”, che mentre riporta alla mente rinnova il pensiero che si fa parola, l’obiettivo era appunto avvicinare i “bordi”, i potenziali “confini” di universi concettuali apparentemente distanti e matericamente non affini; è come se, per così dire, si cercasse di connettere un liquido ad un solido, dell’acqua ad una pietra, fuor di metafora: l’idea di verità, appunto, a quella di potere.

Tuttavia, interpretato da un altro punto di vista, se il linguaggio è il nostro modo di “fare contatto con il mondo”, di creare e dare forma a ciò che noi diciamo “mondo”, il linguaggio che si rende parola e insieme di parole non può dirsi estraneo alle due coordinate fondamentali che, seguendo la paradigmatica prospettazione kantiana interna all’Estetica trascendentale della prima Critica, possono definire ogni mondo possibile: lo spazio e il tempo.

Conseguentemente, esiste sia una dimensione spaziale, sia una temporale, un “dove” e un “quando”, ai quali si correlano sia la verità sia il potere, che si è in questa sede cercato di rendere esplicito e di esplorare e di cui si vorrebbe dare conto in forma sintetica.

Può innanzitutto essere circoscritta una dimensione spaziale, alla quale si correlano entrambi i concetti di verità e di potere. Se ci si rivolgesse in primo luogo a quest’ultimo concetto, si potrebbe pensare che la domanda spaziale rispetto ad esso si correli naturaliter alla dimensione del territorio, del confine e della corrispondente legittimità del suo esercizio5. Per altro verso, la persistenza della dimensione spaziale rispetto all’universo della verità può pensarsi come coestesa alla situazione specifica, la quale supporta il mantenimento delle condizioni che ne costituiscono l’effettuarsi: una determinata affermazione, uno specifico ordine di fattori ed eventi è (e forse

4 H.-G. Gadamer, Jusqu’à quel point la langue préforme-t-elle la pensée?, in «Archivio di

Filosofia», XLI (1973), n. 2/3, pp. 63-70, p. 70 [Fino a che punto il linguaggio preforma il pensiero?, ora in Id. Verità e metodo 2, trad. e cura di R. Dottori, Bompiani, Milano 2001, pp. 167-174, p. 174].

5 Si tratta però di confini, territori e legittimità che possono e debbono essere pensati nella duplice prospettiva dell’interiorità e dell’esteriorità. Come si dirà un poco oltre, è proprio questo uno dei punti, una delle liminarità messe a fuoco nel volume.

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rimane) vero solo entro un determinato contesto di interlocuzione e di selezione, appunto, di specifici fattori ed eventi. L’esempio più banale potrebbe essere proposto a partire dalla classica dicotomia “piove/non piove” tipica della filosofia analitica del linguaggio: l’affermazione “piove” è vera, in relazione alla coordinata spaziale, solo se e fino a quando si resta all’interno dell’area nella quale insiste la perturbazione atmosferica che causa il fenomeno, ovvero solo entro un perimetro spaziale determinato. Questo, dunque, un primo e logicamente evidente ambito di qualificazione spaziale dei due lemmi.

Per altro, ripensando al nesso potere/spazialità, non può non essere tenuta sullo sfondo almeno un’ulteriore consapevolezza. Le forme entro le quali il potere si manifesta, nell’età contemporanea, appaiono sicuramente da inquadrare rispetto all’estrema complessità dei sistemi sociali che le attraversa, ma anche, non da ultimo, rispetto al costante oltrepassamento, da parte della politica che innanzitutto le incarna, dei luoghi tradizionali e canonici del suo manifestarsi. In questo caso, esiste (certo ancora) la possibilità di pensare il potere in senso topico, come innanzitutto coesteso alla dimensione della statualità e delle sue molteplici ramificazioni, comprendendolo così nella concrezione istituzionale più longeva della modernità, ma si fa certo sempre più inevitabile il suo inquadramento in senso meta-topico, ovvero come relazione insistente sì in un determinato spazio, ma proveniente da spazi spesso neppure concomitanti e rispondenti a logiche spesso del tutto autonome, esplicitamente avulse da quella preliminare spazialità che ne sopporta le conseguenze6.

Tale riflessione potrebbe certo prospettarsi anche rispetto all’altro lemma oggetto del presente volume. In altri termini, anche la prospettiva semantica aperta dal concetto di verità e adeguata al contemporaneo continua a possedere e sviluppare una dimensione topica, che si va sempre più precisando nel senso della previsione tecnologica di quanto accade o può accadere, ma certo contiene anche una dimensione meta-topica, per la quale possiamo dire che è vero, e recante conseguenze per un determinato contesto, ciò che si è realizzato o rivelato (e comunque è stato compreso) come “vero” ad

6 Rispetto a questo punto, sul quale non è possibile in questa sede trattenersi più

ampiamente, mi sia consentito il rinvio a L. Bazzicalupo, Politica identità potere. Il lessico politico alla sfida della globalizzazione, Torino, Giappichelli 2007; della stessa autrice, cfr. anche il saggio «Potere e biopolitica», in L. Cedroni e M. Calloni (a cura di), Filosofia politica contemporanea, Le Monnier Università, Firenze 2012, pp. 155-173.

16 Verità del potere, potere della verità una distanza del tutto remota. Anche in questo caso, a fianco di immediate affinità con l’ambito della religione, che invece il concetto di potere avvicina più mediatamente, lo sviluppo delle tecnologie informatiche7 e della virtualità8 hanno aperto ambiti problematici e di possibilità del tutto inediti rispetto al passato, che l’interpretazione filosofica del presente non può forse più evitare di porre a tema.

Conformemente a quanto sopra prospettato, accanto a quella appena tracciata, appare possibile rinvenire anche una dimensione temporale legata ai due concetti qui evocati, un “quando”, che fa parimenti parte del nostro modo di fare contatto con il mondo, nel senso primariamente fenomenologico e linguistico del suo realizzarsi.

Sotto questo profilo, se dovessimo provare a indicare la specificazione temporale più intuitivamente correlata al concetto di potere, potremmo forse individuarla nel suo rapportarsi al presente. Il potere – e soprattutto chi lo esercita – è per lo più poco “interessato” al passato, a ciò che ha costitutivamente esaurito la sua capacità di essere costruito e prospettato diversamente da come è stato (e quando ne è interessato, lo è solo in funzione di rendere il passato strumento di legittimazione del presente). Il potere appare invece più linearmente correlato al presente e alla sua gestione, alla volontà di plasmarlo secondo un determinato orientamento. Al più, potremmo pensare la gestione del potere come orientata al presente in vista della sua perpetuazione in via indefinita – e in questo senso, per altro, correlato al futuro.

Si apre forse da qui la possibilità di contemplare una divaricazione tra potere e politica, che vengono spesso – e non sempre a ragione – semanticamente sovrapposti fino al reciproco coincidere. La politica, pensata nella sua ispirazione originaria, appare sempre costitutivamente correlata all’idea di progetto. Se la politica, in un suo primo e compromissorio significato, può essere pensata come la

7 Solo per fare un esempio triviale, basti pensare alla “verità” circa il valore di borsa di

un determinato titolo e alle sue conseguenze su molteplici altri contesti, nei quali parimenti non si può che constatare la sua “verità”, nonostante l’insopprimibile consapevolezza dell’effimero che essa reca con sé.

8 Il riferimento vorrebbe qui alludere alla possibilità del controllo “in remoto” di molteplici processi in determinati contesti senza la presenza di un operatore, ovvero ad attività in ambienti difficilmente raggiungibili dall’uomo. In questi casi la “verità” e insieme l’effettività della procedura è totalmente indipendente dalla contestualità e compresenza fisica dei fattori e attori che la determinano.

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prospettazione della migliore convivenza per il maggior numero di persone possibile, essa non può non “vivere” il presente come un ne-cessario “scarto”, come una differenza rispetto a qualcosa che deve ancora potersi realizzare, come qualcosa di sempre inadeguato a quella peculiare e insieme molteplice idea di convivenza della quale va indefettibilmente cercando la realizzazione. Mentre la politica, per così dire, è inevitabilmente affetta da presbiopia, il potere non può sottrarsi al suo destino di miopia: “guarda” il vicino concentrandosi su di esso, sapendo di poter avere solo un’immagine sfocata del lontano e sapendo di non essere in grado, con ogni probabilità, di condizionarlo per la propria auto-realizzazione, per il proprio auto-perpetuarsi.

Se ora spostiamo l’attenzione sul concetto di verità, a differenza del potere si potrebbe affermare che essa appare “co-estesa” all’intera dimensione temporale. La verità si innesta sul presente, nel momento in cui si realizzano le condizioni per cui si può dire di qualcosa, che è “vero”. In questo senso, la dimensione che diremmo “temporale” della verità appare del tutto sovrapponibile a quella che si individuava come la sua dimensione “spaziale”. Ma la verità, pensata secondo altre connotazioni semantiche, può intuitivamente correlarsi ad un passato al limite dell’assenza di storicità, al momento originario di un messaggio che è stato “detto” o rivelato una volta per tutte; che era, è e resta vero al di là e al di sopra di ogni temporalità possibile. Si potrebbe affermare che il vero è l’eterno, l’immutabile, il talmente remoto dall’essere del tutto al di fuori di tutte le temporalità possibili. In questo stesso significato, si può affermare che la verità guarda al passato per intenzionare il futuro, per cercare di restaurare, in un tempo (ancora) non presente, quella stessa idea che di cui si è per la prima volta avuta conoscenza – in qualsiasi modo quest’ultima si possa intendere – in un altro tempo, non (più) presente.

Se si volesse portare ad alcune conseguenze la digressione fino a qui proposta, si potrebbe affermare che in questo senso verità e potere si ritrovano: nell’essere entrambi relativi, ovvero concetti relazionali e correlati ad altro da sé: non esiste il potere in sé come non esiste la verità in sé – ovvero non ne esistono usi linguistici disponibili dotati di significato: l’impiego semantico accreditato di tali concetti, rinvenibile in tutte le tradizioni linguistiche, antiche e moderne, li connota infatti come regolarmente connessi a preposizioni, semplici o articolate, che in quanto tali associano il concetto ad altra parte del discorso o più semplicemente ad altro

18 Verità del potere, potere della verità concetto. Sia il potere sia la verità sono sempre di e per, ovvero su o contro qualcosa o qualcuno. Analoga direzione ci indica la più comune loro aggettivazione: se l’avvicinarsi alla dimensione della relatività (potere relativo o verità relativa) già restituisce la relazionalità o meglio la dipendenza di tali concetti da uno o più elementi o concetti ad essi esterni – siano essi l’insieme dei cittadini che periodicamente elegge propri rappresentanti o il verificarsi concomitante di determinate condizioni in un determinato spazio/tempo –, non diversa sorte accompagna la loro potenziale o pretesa assolutezza: quest’ultima, pensata in connessione al potere o alla verità, allude infatti solo al carattere di piena autosufficienza del loro prodursi o stabilizzarsi, ma assolutamente non annulla l’intrinseca esigenza di relazione: non esiste potere assoluto che non pretenda di esercitarsi su o contro qualcuno e non è parimenti pensabile verità assoluta che non sia oggetto di utilizzo di alcuni su o contro, ma anche per altri. Analogo convincimento, come facilmente riscontrabile, potrebbe verificarsi se si provasse ad accostare altre coppie aggettivali a tali concetti, quali ad esempio “parziale/imparziale” o “giusto/ingiusto” e così via.

Insomma il territorio della relazione risulta essere la porzione di spazialità concettuale che, innanzitutto, i due concetti condividono. Conseguentemente, sondare questo territorio è stato il primo compito al quale i lavori qui racchiusi sono stati chiamati a offrire riscontro. In forma pressoché coestesa al primo e in ideale prosecuzione dell’esercizio di “riscatto dall’ovvio” al quale sopra si faceva riferimento, è stato per altro proposto un secondo compito. Esso ha inteso porre sotto ulteriore indagine il concetto di relazione, allargandone la sfera di applicabilità: si è così cercato di sondare non solo il carattere di relazionalità che ognuno dei due concetti costitutivamente possiede ed esercita verso l’esterno, verso l’altro da sé, ma anche la relazionalità potenziale che l’uno può costruire ed esercitare nei confronti dell’altro. Si è convenuto di fare ciò nuovamente adoperando le potenzialità che il linguaggio offre, ovvero mettendo in relazione, di volta in volta, il sostantivo del primo concetto alla forma aggettivale del secondo e viceversa, ponendosi così, in particolare, la duplice e speculale domanda se la verità possa essere potente e il potere vero, o, in altri termini, chiedendosi se la verità eserciti, possa diventare una forma di potere o un potere possa diventare una forma di verità.

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3. Uno sguardo più ravvicinato

Intorno a queste domande ha preso avvio l’idea iniziale del volume e nel tentativo corale di offrire ad esse risposte se ne è quindi consolidata l’articolazione, ora sotto gli occhi del lettore, organizzata in tre parti. I titoli individuati per tali parti disegnano un’ideale metafora visiva di esplorazione del territorio di duplice relazionalità tra i due concetti principali che si è sopra preliminarmente evocato. Tuttavia, come esplorare e pensare quel territorio? Offrendo aperture di sfondo e inquadramento complessivo dei suoi confini, costruendo panoramiche più dettagliate di alcune sue ampie porzioni, non trascurando, infine, l’opportunità di disegnare alcuni primi piani dedicati a “emergenze territoriali” di chiara rilevanza. Da qui, per ipotetici cerchi concentrici, i titoli delle tre parti di cui il volume si compone.

Il contributo di Salvatore Natoli avvia così la prima parte del lavoro (Aperture), tenendo innanzitutto di fronte a sé l’esigenza di “dire la verità sul potere”, ovvero coglierne e svelarne le sue caratteristiche di fondo e le sue modalità funzionali. In un lungo dialogo attraverso i classici, antichi e contemporanei, viene così tracciato un percorso di esplicitazione di una microfisica del potere che, volgendosi al suo punto di scaturigine, non può non porre a tema il concetto di soggetto e di potere su di sé che quest’ultimo deve esercitare, se e nella misura in cui intenda divenire interlocutore consapevole delle infinite (e infinitesime) dinamiche di potere che ne connotano l’esistere. Giunge per altra via a focalizzare i confini di un territorio dai profili certo frastagliati il contributo di Luigi Alfieri, che conduce ad allargare le possibili implicazioni di ogni discorso sul potere, una volta che quest’ultimo si distenda oltre il foro interiore e raggiunga alcune delle sue proteiformi dimensioni intersoggettive. Ora seguendo decostruttivamente le tesi di Schmitt, ora sondando e discutendo le riflessioni di Elias Canetti, è così il tema della guerra ad essere indagato, per un verso, quale correlativo oggettivo del potere, per l’altro, quale luogo di incubazione di un suo ulteriore meccanismo fondativo: la sopravvivenza nei confronti del suo frequente irresponsabile dispiegarsi.

Ma esiste un’altra porzione di quel territorio di relazionalità che necessitava di essere indagata, e su questo si è incentrato il contributo

20 Verità del potere, potere della verità di Michele Nicoletti, indagando il rapporto tra verità e potere all’interno della forma di vivere politico democratico. Argomentando contro il tentativo talvolta superficiale di elidere le questioni di verità dal terreno della democrazia, affermando che quest’ultima dovrebbe ispirarsi solo a principi di tolleranza per e equidistanza da ogni assunto veritativo, l’autore richiama il classico legame tra democrazia e verità, di cui rivendica la perenne validità: una post-truth-democracy non potrebbe a lungo restare un regime democratico, se si pensa a questioni essenziali come la verità giudiziaria, storica e scientifica, ma anche alla più complessiva ricerca delle procedure della ragione argomentativa per giungere alle decisioni pubbliche che ambiscono alla massima condivisibilità, senza dimenticare le sfide ultime dell’etica.

Pur nella consapevolezza di non poter racchiuderlo integralmente, non è stato per altro trascurato un altro lato di quel territorio, ovvero l’esigenza di pensare la relazione verità/potere all’interno di una prospettiva di genere. A questo tema si è dedicato il contributo di Anna Loretoni, che si è incentrato sul carattere innanzitutto metodico e decostruttivo degli studi di genere, volto ad indagare le categorie politiche della modernità attraverso un progressivo disvelamento delle strategie di “normalizzazione” mimetica, da tali categorie poste in essere, nei confronti delle differenze. Sono così affrontati sia il binomio identità/riconoscimento, sia la questione relativa al sistema delle capacità e dei diritti all’interno del quadro liberale e dal punto di vista delle dinamiche di potere.

Questa prima serie di contributi ha dunque offerto altrettante aperture su un territorio che, a questo punto, poteva essere sondato un poco più da vicino. A questo compito si sono dedicati i lavori ospitati nella seconda parte del volume (Panoramiche).

Il primo di essi, di Giacomo Pezzano, pone per altra via il tema del reciproco rapportarsi tra potere e verità, indagandolo sotto la chiave antropologica della ricerca di stabilità: è tale inesauribile ricerca, che coincide con la ricerca della verità possibile per l’uomo, a rappresentare il tentativo di evitare l’instabilità che, costitutivamente, connota l’umano essere-aperto-al-mondo. Ma il concetto di verità possiede una propria fondamentalità non solo a livello esistenziale, ma anche – e conseguentemente, forse – a quello morale. È a quest’ultimo che si rivolge il contributo di Samanta Airoldi, impegnato a riscattare l’irrinunciabilità di un discorso sulla verità anche, anzi innanzitutto, a

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partire della discrasia tra mondo oggettivo dei fatti e mondo intersoggettivo delle norme.

Sono però proprio questi ultimi gli ambiti di discorso che rimandano alla possibilità e doverosità della discussione pubblica, del pluralismo tipico del vivere democratico, del relativismo delle opinioni. E a questa ulteriore “panoramica” è stato quindi data voce critica e analitica per il tramite del contributo di Alfonso di Prospero. Ad esso, quasi prolungandone idealmente il filo argomentativo, si lega il lavoro di Valerio Nitrato Izzo, che si interroga su un prius, un momento preliminare rispetto alla stabilizzazione della verità possibile e comunque, magari, transeunte: è quanto rappresentato dal concetto e dalla pratica del conflitto, che sta al diritto indirizzare e alla giustizia contenere in forme pur sempre non distruttive del vivere comune.

Quando ciò non avviene – o non riesce più a verificarsi, specie se lo scenario è quello dei rapporti internazionali – il conflitto per la verità e/o per il potere diventa sinonimo di guerra. Ed è a questo ulteriore sembiante che si rivolge l’attenzione di Monia Andreani, interrogandosi in particolare sulle fenomenologie del sopravvissuto e dell’inerme, a partire dalla dinamica classica tra carnefice/vittima, qui riferita alle finora inedite possibilità distruttive tipiche della contemporaneità. Sulla stessa linea si inserisce anche il lavoro di Davide D’Alessandro, imperniato a comprendere la novità dell’essere o pensarsi in guerra, oggi, nella consapevolezza ‒ purtroppo non sempre patrimonio pubblico e condiviso ‒ di un destino globale di non-ritorno da tale esperienza.

Tali esplorazioni più dettagliate di singole porzioni del territorio liminare tra verità e potere hanno indubbiamente lasciato intravvedere altri dettagli e alcune chiare “emergenze territoriali”, ovvero profili teorici di portata classica, che sembrava opportuno non trascurare, anzi porre sotto una lente d’indagine più ravvicinata. Altri autori del volume si sono ad essi dedicati, secondo le loro inclinazioni di ricerca, ed ora tali contributi ne ospitano la terza parte, dedicata, appunto ad alcuni primi piani.

Il lavoro di Miryam Giargia si dedica alla figura di un classico esattamente al crocevia tra i due lemmi evocati dal titolo: Thomas Hobbes. La sua prospettiva viene indagata a partire dall’uso della mitologia, illuminante per comprendere il modo in cui egli risolve il rapporto tra verità e potere: i miti, antichissimo strumento di stabilità socio-politica, si rivelano ancora di grande utilità in campo civile,

22 Verità del potere, potere della verità contribuendo alla conservazione della pace a tutti i livelli. Lo stesso crocevia è al centro dell’analisi del contributo di Federico Bonzi, che si concentra invece sulla figura di Montesquieu, per molti versi cartina di tornasole dell’età dei Lumi. La sua produzione giovanile è così indagata al fine di illuminare, nel quadro del perenne confronto di verità e potere, il nesso tra antropologia e politica che egli seppe mirabilmente dipingere.

Prosegue l’analisi, anche spostandola cronologicamente, il lavoro di Riccardo Roni, che si addentra tra le pieghe del progetto nietzschiano della volontà di potenza, indagando in particolare il senso e i limiti del «contromovimento» nei confronti del nichilismo che la volontà di potenza intende suscitare e il singolo individuo, capace di rendersi interprete di quest’ultima, incarnare storicamente.

Seguendo idealmente la scia nietzschiana, si immergono quindi più direttamente all’interno del XX secolo i due contributi successivi, dedicati entrambi ad una multifocale lettura di una porzione della riflessione di Hannah Arendt di indubbio interesse rispetto al tema. Il lavoro di Federica Castelli si sofferma sul trittico concettuale verità, menzogna e potere, chiedendosi se e come sia possibile la verità in politica e ripercorrendo, nel cercare la risposta, la strada ex negativo suggerita dalla filosofa tedesca circa il rapporto tra politica e menzogna. David Ragazzoni si interroga invece sullo spazio che la verità può avere all’interno di un contesto politico democratico, ragionando in particolare sulla riproponibilità dei concetti di opinione (doxa) e amicizia (philia), strumenti fondamentali per la “democrazia degli antichi”, come la vicenda socratica esemplificò in maniera paradigmatica.

Concludono l’esplorazione dei primi piani due lavori dedicati ad altrettanti autori francesi contemporanei che hanno sviluppato modalità di pensare le relazionalità tra verità e potere di indubbia influenza per l’attuale dibattito. Gianvito Brindisi, prendendo avvio dalle riflessioni dedicate da Michel Foucault ai “giochi di verità” e “rapporti di potere”, ne indaga in particolare la tenuta concettuale in direzione di una teoria critica del diritto che trova nella ridefinizione del concetto di “giudicabile” il suo fulcro prospettico. Alessandro Esposito ritorna quindi sul nesso verità/potere nella sfera democratica, analizzando le riflessioni di Jean-Luc Nancy. La democrazia si configura così, criticamente, come il luogo originario di una “verità anarchica”, di dissoluzione di ogni certezza e fondamento

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e, al tempo stesso, come lo spazio per la manifestazione e condivisione della singolarità di tutti e di ciascuno.

Il volume, infine, ospita un ampio repertorio bibliografico, elaborato da Francesco Pigozzo, la cui suddivisione tematica, si confida, costituirà strumento per ulteriori ricerche sui temi rientranti nel medesimo territorio che si è qui variamente cercato di solcare.

L’effetto complessivo che si produce – o che il curatore del volume vorrebbe si producesse –, al termine di uno sguardo ravvicinato all’insieme dei lavori che lo compongono, potrebbe forse richiamare la visione di un prisma, di un cristallo, tanto articolato e inesauribile, se ci si perde a seguirne le linee della luce che lo attraversa, quanto di facile prensione, unitarietà e compattezza, se considerato un poco più da distante e come oggetto fisico in sé concluso. Come si diceva in apertura, ognuno dei temi, preso per sé, ha aperto e continua ad aprire infinite piste di ricerca. Cercando di comprenderli nella loro relazione e tensione reciproca, non si intendeva – né si sarebbe certo potuto! – circoscriverne la portata, bensì aprire uno spazio di indubbia vastità e complessità, sul piano sia storico sia teorico, ma che pareva consentire uno sguardo d’insieme e, al fondo, unitario. Se questa aspettativa ha ottenuto i margini per essere soddisfatta, sta ora al lettore giudicarlo.

Il presente volume è il frutto dei lavori presentati nell’ambito dell’undicesima edizione della Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme, realtà di sincera condivisione scientifica ma di altrettanto aperto dibattito che dal 1998 si rinnova, grazie innanzitutto alla sensibilità delle Amministrazioni comunali che si sono succedute alla guida della Città. A loro, e in particolare al Sindaco Danilo Rapetti e al nuovo Sindaco Enrico Bertero, deve quindi essere rivolto un primo e sincero ringraziamento. Un secondo e ulteriore ringraziamento va all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, partner storico dell’iniziativa, che è inserita nell’autorevole ambito delle attività da tale meritoria realtà promosse e supportate nella loro diffusione su scala nazionale e internazionale. Ma la Scuola non potrebbe realizzarsi senza il sostegno finanziario di alcune Istituzioni, locali e non, che da anni rendono possibile a insigni relatori e a moltissimi giovani e promettenti studiosi di “portare l’università fuori dall’università” e condividere le loro ricerche in una sorta di scuola di etica pubblica pensata nella e in

24 Verità del potere, potere della verità qualche modo dedicata anche alla Città e al territorio che la ospita. Un nuovo e rinnovato ringraziamento deve per questo essere rivolto all’Istituto Nazionale Tributaristi, alla Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, alla Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, al Lions Club di Acqui Terme.

Concludendo, un grazie sincero desidero inviarlo ai Professori Gerardo Cunico e Barbara Henry, che da anni accompagnano questa iniziativa, con una vicinanza intellettuale che va di pari passo con la loro autentica passione per il confronto filosofico e per il “far crescere” le più giovani generazioni di studiosi.

In ultimo ma non da ultimo, nel consegnare il volume alle stampe, un ringraziamento particolare va al Dott. Francesco Pigozzo, che ne ha seguito l’iter redazionale con grande dedizione e competenza, aiutandomi in maniera significativa a portare a termine il lavoro.

Acqui Terme – Pisa, agosto 2012

Alberto Pirni

Parte prima Aperture

La verità sul potere e il potere su di sé

Salvatore Natoli 1. La verità sul potere

In prima battuta la questione non è se il potere dica la verità – ossia qual è il rapporto tra il potere e la verità; si tratta piuttosto di iniziare strategicamente col cercare la verità sul potere – verità nel senso greco-heideggeriano di alethèia, di «disvelamento», indipendentemente dalla correttezza di questa etimologia. Si tratta insomma di svelare quel che il potere è. Per inciso, si potrebbe aprire, già a questa altezza, un primo problema, di carattere ontologico, perché è lecito domandarsi se intendiamo adottare una concezione statica o dinamica dell’essere del potere: quel che il potere è o quel che il potere mette in atto. Come funziona il potere? A questa seconda formulazione, più dinamica, intendo in realtà fare riferimento: svelare come funziona il potere per esporne in qualche modo la verità. Non a caso nella storia della filosofia politica – soprattutto in età moderna, da Machiavelli sino a Weber – il tratto fondamentale nel processo di disvelamento del potere è stato il disincanto. Questo perché una caratteristica del potere è proprio di incantare e di presentarsi come verità: il potere ha bisogno di consenso e deve perciò «farsi valere».

Per favorire tale disvelamento, parto da alcuni luoghi propri che cercano di definire il potere e di coglierne l’agenda: in altre parole il rapporto tra potere e forma, o le forme del potere, forme della politica. Nel tentativo di definire il potere, fin dall’antica Grecia, lo si è messo in relazione con la presenza di forze conflittuali in campo – potenzialmente distruttive le une con le altre. Solone dice che per tenere a bada i conflitti si è fatto lupo in mezzo ai cani. In questo senso il potere si deve immaginare come quel tipo o composizione di

28 Verità del potere, potere della verità forze che «dà forma»: in ciò abbiamo l’anello di passaggio tra potere e politica, tra Macht e Herrschaft; la forza weberianamente diventa signoria, comando. Se si accetta come descrizione preliminare una analitica del potere secondo la quale esso dà forma a forze in conflitto, dobbiamo dire che c’è un nesso stretto fra il potere e la guerra. Machiavelli era molto chiaro su questo: la prima cosa cui il Principe deve pensare è la guerra.

Si possono distinguere notoriamente due tipologie di guerra. Il primo tipo è la guerra tra forze scomposte, che possiamo chiamare in senso improprio la guerra civile, nella misura in cui esista già la città; più in generale, si tratta del conflitto tra gli uomini in senso hobbesiano, quindi fin da prima che si istituisca la città. E infatti un problema centrale per lo stesso Hobbes è proprio il seguente: come si spiega il rapporto tra la guerra come condizione naturale dell’uomo e la guerra civile? La risposta è che nella città, ossia dove ha sede il comando, la guerra «naturale» sotto forma di guerra civile può sempre riattivarsi. Infatti il timore fondamentale per Hobbes era la sedizione, soprattutto in relazione alle guerre esterne. La guerra esterna è invece una guerra ordinata perché presuppone che ci siano degli Stati che hanno già consolidato la pace interna: senza pace interna, insomma, non puoi intraprendere la guerra esterna. Uno dei drammi della politica e delle sue tecniche, ma più in generale della condotta umana, è che tra i mezzi per sconfiggere l’avversario esterno non c’è solo il conflitto di potenze ma anche la sollecitazione della guerra al suo interno, per indebolirlo e renderlo più facilmente battibile. Troviamo esempio di questa strategia nella tradizione comunista internazionalista: siccome la guerra non era tra Stati, bensì tra classi, bisognava allora che dentro uno Stato capitalista si scatenasse la guerra delle classi; perciò si faceva uso strumentale della lotta di classe al fine di fomentare la sedizione interna. Questa tecnica in realtà ha attraversato l’intera storia dell’agire politico: basta rileggere Tucidide per rendersene conto.

Riassumendo dunque, la guerra sarebbe condizione naturale dell’uomo e porterebbe alla necessità di comando, cioè di stabilizzazione: ecco un altro termine che ci conduce a un ulteriore nucleo tematico. Stabilizzazione vuol dire infatti, nel nostro contesto, innanzitutto territorio. Su questo, Carl Schmitt ha dato delle indicazioni: se non c’è terra, non c’è nomos, non c’è spartizione, non c’è insediamento, non c’è Stato. Facendo un volo mentale per intuizione,

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si capisce tra l’altro in che situazione ci troviamo adesso e che cosa significava la rivoluzione geopolitica. Restando al modello hobbesiano, la guerra è la condizione perché si instauri un potere legittimo. La nozione di legittimità è di epoca moderna, quindi piuttosto recente, perché in una concezione organicistica come quella platonico-aristotelica il potere non necessita di legittimazione; doveva semmai essere buono, perché, come per tutti gli enti naturali, l’opposizione dirimente è quella tra sanità e malattia: le città sono sane o malate, quindi se c’è un potere buono che media il conflitto e fa giustizia, la pace si mantiene; se invece non media il conflitto e non fa giustizia, l’ordinamento perisce. Aristotele lo spiega nella Politica, quando evidenzia che senza mediazione si produce una lotta tra diseguali; vale a dire tra chi ha il potere e chi lo vuole conquistare. Da questo punto di vista, la lotta è perpetua e necessita di un potere che la stabilizzi, bilanciando le istanze soggettive.

Cosa vuol dire allora «potere buono»? Potere efficace. Ma qui abbiamo una traslazione tra potere buono e potere efficace, nel senso che se il potere efficace è tale in quanto distribuisce equamente, allora è anche buono: nulla è dunque più efficace del bene. Allo stesso modo, l’efficienza del corpo è un segno della sanità; un corpo è malato se non è efficiente. Secondo il modello organicista degli antichi, quando invece il potere non è buono, quando è corrotto, crolla da sé perché produce dissoluzione. Evidentemente i costi sono elevati: c’è il rischio della ribellione e della tirannide, descritte numerose volte nel mondo antico. Il potere non buono ha pertanto una sua nemesi.

Quando emerge il tema della legittimità? Nella modernità, quando la dinamica del potere non è più pensata nella forma dello stato come organismo: ma a che titolo i singoli – questa è la novità del moderno – possono accettare di essere comandati? Si assume come originaria la guerra e non la pace; il modello organico invece presupponeva come preliminare la salute, per mantenere la quale c’erano degli «obblighi di igiene» (il potere deve essere sano, quindi buono). In una situazione in cui, al contrario, si parte dalla soggettività e non più dalla comunità organica, non si assume insomma l’organismo ma si assumono i soggetti, sorge il rischio dell’anarchia: i soggetti infatti sono potenzialmente anarchici. Da qui la questione: a quale titolo si può rinunciare al diritto di resistenza, si può rinunciare al comando? Bisognava allora trovare un elemento comune in base al quale fosse conveniente per tutti obbedire, cedere al proprio diritto di resistenza.

30 Verità del potere, potere della verità Sta qui la prima grande invenzione, la prima grande formalizzazione del potere. Questo elemento comune è la morte; la direzione del potere diventa, come dirà Weber, monopolio della forza legittima. Quindi c’è una ragione quasi ontologica, non a caso si parla di diritto di natura, per cui gli uomini decidono di essere comandati e diventano insieme, contemporaneamente, sudditi e cittadini. Non c’è perciò bisogno della prova del tempo, come nel modello organico: perché il buono diventi cattivo, infatti, perché il sano si ammali, ci vuole del tempo. Nel modello astratto hobbesiano, invece, tutto è automatico e contemporaneo: il potere è la sua forma. E quindi è la sua verità, perché si giustifica in base alla forma. Lo schema è quindi formalistico, costrittivo in base alla forma. Con tutte le imperfezioni del salto, potremmo dire velocemente: Hobbes – Kelsen, il potere è la sua forma. Al fondo rinveniamo un modello matematico: il potere, rappresentando la sua forma, esprime la sua verità e diventa convincente. Di conseguenza, la forma del potere è anche la sua ideologia, perché tale forma ha una dimensione di dimostrazione tale da farla risultare cogente. Nessuno infatti accetterebbe mai di essere ucciso.

Già Hume, però, applicandosi all’analitica del potere da empirista o pragmatista ante-litteram – il centro della sua ricerca sono gli «abiti», ma anche lui si avvarrà di esperimenti logici, formulando alcuni paradossi che poi Kant prenderà sul serio – sostiene in vari luoghi della sua opera, e in particolare nei saggi morali, che, per quanto la forma hobbesiana sia convincente, il potere non sta in piedi per quella forma; sta in piedi perché concretamente ci sono delle forze dominanti che danno forma. È insomma l’effettività della forza che produce la forma, e non la forma del contratto che genere il potere. Questa seconda ipotesi non si è mai verificata. È il potere in atto che ex-post, in quanto forma, si dà forma; e quindi, nel momento in cui viene esercitato, deve avere e presentarsi una sua verità. Proprio perché nei fatti dà la pace – se vi riesce –, dice ex-post che lo Stato nasce per dare la pace. Lo Stato non nasce perché i cittadini stipulano un contratto e rinunciano alla loro libertà. Il modello di Hume è pragmatista, abitudinario, nietzschianamente genealogico. Di fatto, «rovescia la partita». Foucault potrà perciò convertire la formula di Clausewitz, che assume come normale la politica («la guerra è la politica proseguita con altri mezzi»): la politica è il seguito della guerra. È la guerra che trova nella politica la sua stabilizzazione, perché

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l’elemento del conflitto è originario. In questo si avverte ancora la presenza di Hobbes, ma a Hobbes mancava la dimensione genealogica, perché il suo problema era di rendere convincente l’accettazione della soggezione: doveva perciò formalizzare. Il discorso humeiano invece – ma vale anche per Machiavelli – cerca di dire come quella forma si impianta: qual è la dinamica delle forze che permette l’instaurarsi di una forma.

Abbiamo perciò da un lato una forma logica – il presentarsi della verità del potere in base alla sua forma – e dall’altro lato una verità del potere in base al suo formarsi. La forma del potere, come la concepisce ad esempio Hobbes, si presenta in modo quasi intemporale: una sorta di teorema matematico, sta in piedi perché in qualche modo è inconfutabile. D’altronde Hobbes è un geometra, propone una geometria sociale quando pensa allo Stato: ne traccia una genesi logica. Perché per convincere tutti è necessario trovare un argomento razionale tale che diventi irrazionale un’eventuale condotta che non si muova dentro quella forma. Tuttavia, si osserva che la condotta dissidente continua a sussistere nonostante la procedura. Insomma non è poco avere ragioni, ma le ragioni formali o procedurali non bastano: ne servono anche altre. La genealogia, semplicemente, non si contenta di ragioni formali: vede piuttosto i processi materiali in base ai quali i poteri si impiantano. Da questo punto di vista, nella prospettiva del disvelamento del potere, non si può cogliere una dinamica di potere se non attraverso la sua effettività – il modo e le forme del suo impiantarsi. Hume, e per certi versi lo stesso Aristotele, sono in ciò precursori dei contemporanei antropologi e simili che si occupano di questo problema. Vale la pena, in particolare, soffermarsi per un attimo, da questo nuovo punto di vista, su Aristotele. Pur non essendo un genealogista è comunque un fenomenologo: cioè, non scrive la Repubblica, ma si presenta come un comparatista riguardo alle costituzioni concrete e ai modelli organizzativi delle città esistenti; anche se poi vede che il meccanismo di fondo è regolatore, tale per cui i poteri si impiantano soltanto in quanto danno forma e quindi si rappresentano poi formalmente.

Tutta la questione del consenso nasce in effetti da qui: che cosa è infatti il consenso se non un potere che vince e che si presenta perciò come garante della vita e della pace, cioè un potere buono? Nel momento in cui dalla guerra si passa alla pace, e tale passaggio non avviene d’un colpo solo per contratto, ma attraverso processi di

32 Verità del potere, potere della verità stabilizzazione dei poteri, si comincia a sperimentare il vantaggio della pace (almeno finché non si entra in successive situazioni entropiche). Siamo passati così da una dimensione difensiva, caratterizzata da un’istanza di sicurezza come la difesa dalla morte, a una dimensione di welfare: dalla sicurezza all’assicurazione. Una volta stabilizzata la pace, nella pace puoi sviluppare cittadinanza. Come dice Foucault, quindi, si passa da un potere che è potere di morte a un potere che sempre di più è amministratore di vita; quando il potere organizza, non è più solo qualcosa che difende, bensì qualcosa che produce. Per Foucault il potere è tale in quanto organizza e produce.

Sviluppando una fenomenologia, un’analisi, un’antropologia del potere nella tradizione occidentale (il discorso cambierebbe per le altre tradizioni, sebbene non manchino elementi di «familiarità», come direbbe Wittgenstein) ci accorgiamo in modo molto evidente che il potere, da potere di interdizione diventa produttore di azione. Niklas Luhmann ne ha dato forse una formulazione convincente, affermando che la natura del potere (Macht) è tanto più realizzatrice di sé quanto più fa pace; un potere che interdice, un potere impediente, invece, riduce la sua stessa dimensione di potere. Se il potere impedisce, genera una dinamica di auto-paralizzazione: alla fine mette in prigione la società, diventa statico e finisce inevitabilmente per saltare. Ecco perché il potere deve avere consenso: il consenso è una forma della riproduzione del potere – una delle forme. Il consenso a sua volta sta in piedi se il potere produce attività: il consenso nasce da un implementazione della società nel suo complesso. Non è la società comunicativa di Habermas che produce il consenso, è la produttività del potere che produce il consenso. Il kantismo eticizzante di Habermas non spiega il processo: appartiene alle utilissime deontologie, non alle analitiche del potere. Con tutte le critiche che si possono fare alla loro unilateralità, circa i processi di formazione del potere, avevano tutto sommato capito molto di più i francofortesi di prima generazione. Horkheimer e Adorno sono arrivati più lontano nella critica della società: non a caso in loro l’elemento critico-depressivo prevaleva su quello gnomico-consolatorio.

Riprendendo il filo del discorso, secondo il modello di Hume il potere si impianta e da questo punto di vista, quindi, c’è stato più o meno sempre. La grandezza di Machiavelli è proprio di essersi posto questo tipo di problema: come si formano e come si conservano gli Stati? Di qui una sorta di diagnostica del potere che prende in

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considerazione il tema della guerra e della pace, del «lione» e della «golpe», dell’astuzia del potere. Evidentemente Machiavelli ragiona in termini di principato. Sotto un profilo «sociologico», e da questo punto di vista molto più convincente, Guicciardini compie la stessa operazione. In Guicciardini c’è un totale disincanto nella descrizione dei dispositivi e delle organizzazioni, delle «macchine» sociali. La Storia d’Italia ad esempio offre una descrizione socio-politica molto empirica (le alleanze, i contratti e così via), in cui è già visibile la stratificazione sociale. Machiavelli è un grande analista formale delle passioni e delle dinamiche strutturanti, ma manca il «micro», a differenza di Guicciardini che invece dà un’interpretazione più prosaica del potere, come un insieme di macchine e di dispositivi. Insomma, propone una lettura analoga a quella che in seguito farà, meno bene di lui a mio parere, Foucault quando in Sorvegliare e punire affermerà che il potere è l’insieme dei dispositivi di organizzazione. Guicciardini non parla di dispositivi, tuttavia descrive le alleanze fra i principi studiando il gioco molto interessante tra i moti pulsionali delle passioni individuali, cioè il gioco degli interessi, e le macchine organizzative; che non sempre funzionano: infatti ne vengono evidenziati efficienze e deficit.

Quindi il potere, da sempre, è campo di forze. Se lo osserviamo con senso storico, nell’arco temporale delle civiltà, vediamo che esso struttura la società secondo modalità proprie, diverse nel tempo. Leggendo le pagine di Assmann su potere, ideologia, identità, credenza, è possibile trovare la presentazione di alcuni modelli di strutturazione sociale: l’egizio, il greco e il giudaico. La questione di fondo che viene affrontata è il rapporto identità – memoria: come si forma un’identità, e quindi la circolazione stretta tra miti e riti, le pratiche quotidiane e le rappresentazioni di queste pratiche che originariamente sono mitologiche e poi diventano filosofiche. Sono ordini discorsivi che riguardano ciò che si fa e ciò che non si può fare (riti), ciò che si deve fare e ciò che se non si fa è sottoposto a sanzione. Il punto che interessa il nostro discorso è il seguente: in questi casi, dov’è allora il potere? Nel modo stesso in cui si struttura una società. Si pensi ad esempio a Dumézil e alla sua analisi della stratificazione sociale per caste secondo la struttura tripartita: Jupiter, Mars, Quirinus. Se noi vogliamo parlare di potere dobbiamo dunque studiare le dinamiche strutturanti le società, perché è in base ad esse che storicamente il potere si è selezionato. Nelle società, di volta in volta, alcuni gruppi – e si tratta di vedere quali e perché – sono

34 Verità del potere, potere della verità diventati egemoni, il che significa titolari della regolazione dei rituali sociali, assumendo un ruolo normativo (di insegnamento e amministrazione delle norme). In ultima analisi, questa è una vera analisi del potere; le altre strade si riducono invece a forme astratte che non spiegano i processi, le genesi del potere stesso.

Ecco perché oggi, parlare davvero del potere significa ragionarne in termini di complessità sociale. Soltanto uno studio sistemico delle società complesse ci permette di capire come esso funzioni. Il deficit analitico della posizione alla Rawls – molto importanti, perché poi è bene trovare delle modalità di accordo – dipende dal fatto che in definitiva adottano un modello deontologico; in altri termini, essendo altamente prescrittive, si caratterizzano per l’insufficienza del livello descrittivo della società. Ora, è chiaro che per organizzare una società devi prescrivere, trovare dei modelli: ma essi sono a loro volta il frutto di una lunga storia, costituita di profondi processi genealogici. Se allora vogliamo analizzare come funziona il potere nella società oggi, dobbiamo essere capaci di descriverne l’assetto, la struttura: quindi i rapporti tra sotto-sistemi, le coerenze e incoerenze fra loro. Altrimenti il rischio è di non capire affatto come realmente funziona il potere.

Nelle società a noi lontane nel tempo, arcaiche, o nelle società ormai discorsive, cioè caratterizzate dalla scrittura e dagli interpreti delle norme, si produce una selezione dei gruppi dirigenti. Storicamente questi emergono nella misura in cui sono deputati alla regolazione di riti, miti, norme. Nelle società semplici abbiamo i regolatori delle norme e coloro che in qualche modo le eseguono. Precisiamo: non per comando; c’è anche il comando, ma prima ancora viene la funzionalità, perché miti e riti, per dirla alla Wittgenstein, sono «forme di vita». Per inciso, è il discorso che io stesso faccio in riferimento all’etica, quando affermo che non è una deontologia, se non in seconda battuta, bensì innanzitutto una ontologia. Nasciamo in un regime morale che determina il modo in cui ci regoliamo – il bambino impara delle regole, le quali sono strategie di riuscita. E questo è d’origine «morale». Perciò le morali sono strategie di felicità. Nietzsche era un immoralista e contraddiceva alla sua stessa genealogia; infatti, nel saggio Sull’utilità e il danno della storia per la vita diventa un avanguardista per l’oblio. È un libro sbagliato questo di Nietzsche, ma egli quando sbaglia è particolarmente illuminante perché produce processi di paradossizzazione – non di provocazione, quella si fa nei talk show –, al livello del pensiero matematico o degli

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stoici. Ebbene, proprio Nietzsche, notoriamente avverso alle morali, osserva che queste diventano «morali» in accezione negativa quando la ragione per cui sono nate cade nell’oblio. Quando sono nate, cioè, non erano morali nel senso statico, bensì erano dinamiche funzionali dei processi sociali. La Genealogia della morale si occupa in modo doppio proprio di questo: in quanto libro genealogico, spiega come sono nate le cose e poi le contrasta. Se fosse stato un genealogista vero, non avrebbe dovuto condannare, perché così facendo trasforma un processo in valore e lo tratta come disvalore, suscitando l’idea che ci può essere un tempo in cui non ci sarà più morale – cosa che, in altri luoghi, dice di non essere possibile. Per questo in fondo si tratta un libro sbagliato; eppure, Nietzsche è forse l’unico filosofo che abbia la caratteristica di far capire delle cose sbagliando. Il fatto è che sbaglia in modo patetico. Ci sono quelli che sbagliano in modo nascosto, argomentano e generano un meccanismo di finzione che vela l’errore. Invece in Nietzsche si vedono contemporaneamente l’errore ma anche la rivelazione. Davvero da questo punto di vista è un autore pericoloso; e per questo motivo raramente sono state scritte cose intelligenti su Nietzsche.

Tornando al potere, è altrettanto vero che si nasce in sistemi regolari e al loro interno si selezionano gli «operatori» funzionali del mantenimento del sistema, ovvero i soggetti normativi. In breve, nelle società semplici il potere è insieme: religione, diritto, legge. Fa crescere la società. Ma nel momento in cui la società cresce, si stratifica. E nel momento in cui essa si stratifica, il potere non può più stare nelle mani di uno solo, perché si specializza, innescando quindi un processo di differenziazione funzionale – sul tema non si può non fare riferimento a Durkheim e Weber. Si crea un assetto sempre più policentrico. Constatiamo perciò che il potere, nella storia occidentale e soprattutto nella modernità – a partire dalla quale subisce una grandissima accelerazione –, si distribuisce. Per questa ragione Foucault suggerisce la necessità di procedere a una «microfisica» del potere, perché il potere in sostanza è il gioco stesso della differenziazione: ogni strato sociale rappresenta un potere e per fare stare insieme una società bisogna comporre interessi sempre più differenziati e molteplici.

Un interesse produce rappresentanza e per questa strada, non per quella del contratto hobbesiano, si arriva ai Parlamenti; dalla società cetuale si passa ad una società funzionale. Già la prima era stratificata,

36 Verità del potere, potere della verità ma essa lasciava poche possibilità di passare da un ceto all’altro. Si tendeva a rimanere ereditariamente nello stesso ruolo. Era difficile che il figlio di un artigiano non facesse l’artigiano a sua volta, per diventare, ad esempio, avvocato. Le vie d’ascesa, di norma, consistevano nell’attraversare corporazioni oblique, anche qui con grandi difficoltà: per esempio farsi preti era uno strumento di elevazione sociale, ma permaneva la divisione fra basso e alto clero (per diventare cardinale dovevi essere insieme prete e aristocratico); oppure si poteva sfruttare la mobilità matrimoniale, soprattutto a dominanza maschile (un uomo che sposando una ragazza di ceto inferiore la elevava). Mobilità insomma molto lente. Quando invece, con l’aumento della produzione e l’allargamento delle basi sociali, queste diventano forze importanti della società, si instaura una differenziazione per funzioni; e la caratteristica di una funzione – come aveva già capito Menenio Agrippa – è che non è fungibile. Si pensi a una società che distingue medici ed avvocati, in cui gli uni non possono svolgere l’attività degli altri, ma che ha bisogno di entrambi: si creano due forze corporative che cercano rappresentanza e di cui si tratta di comporre gli interessi. All’origine dei parlamenti vi sono i bisogni di una macchina politica, che produca mediazione nella differenziazione sociale degli interessi sempre crescente. A partire dalla Magna Charta Libertatum, dall’habeas corpus, frutto di corpi sociali che ormai pesano, forze in atto che il povero Giovanni Senzaterra non può che riconoscere.

Quindi il potere si differenzia, si moltiplica, si articola. Si comincia a sperimentare, appunto, che le cause della guerra – che pure si fa e si continua a fare – non sono in assoluto economiche. Non lo erano neanche prima, solo che il garante della pace, il Principe, era rassicurante e quindi il sistema di obbedienza limitava l’insubordinazione. Nella modernità, il sistema di obbedienza diminuisce e l’insubordinazione è limitata dalla mediazione: cresce quindi costantemente la mediazione sociale, dentro gli Stati – parlamentarizzazione – e tra gli Stati, in politica estera.

Verità sul potere e potere su di sé 37

2. Il potere su di sé

Parto proprio da quanto detto in conclusione della prima parte, circa i modelli fortissimi di differenziazione sociale come fonte d’emersione di soggettività. Non a caso, in effetti, Hobbes pone al centro della sua analisi gli individui.

Nel mondo antico, classico e medievale, c’è una concezione della soggettività completamente diversa da quella moderna. Il potere su di sé – se prendiamo come topos la Grecia classica – è strettamente legato all’esercizio del potere. Suggerisco una scansione temporale in cui individuo alcuni modelli fondamentali. Nella polis il rapporto tra esercizio del potere e potere su di sé era centrale; anzi, attorno a questo nesso si organizzava la paideia dei greci, nel senso che se non si governa il proprio desiderio non si può esercitare il potere – la Repubblica di Platone è il riferimento classico al riguardo. Il rischio altrimenti è di tendere naturalmente a prevaricare, cioè alla tirannia: invece di essere «lupo tra cani», come diceva Solone, diventi anche tu un cagnaccio e dissolvi la società. Nel mondo antico, le sfere politica ed etica coincidono, proprio perché potere e bene erano l’interfaccia l’uno dell’altro, secondo un modello organico; in breve: se non sei buono nel governo, e non puoi esserlo se non sei buono tu (perché ancora non c’è la differenza funzionale), tendi a prevaricare. Il mondo antico possedeva perciò in qualche modo una dimensione di soggettività. Non è il caso qui di soffermarsi sul rapporto tra interiorità ed esteriorità e sul problema della nascita del mondo interiore, sulla questione se – in altre parole – il mondo antico avesse o non avesse interiorità. Non è il caso di chiarire se l’anamnesi platonica produce interiorità oppure è un rapporto d’astrazione rispetto all’idea del bene.

Lasciamo pure da parte la questione interiorità – esteriorità, ma soffermiamoci sulla «stilistica della soggettività»: da Teognide fino ad Aristotele, chi governa deve avere la mesotes, la misura di sé per dare misura alla giustizia. In questo modo il governo del desiderio diventa un’educazione alla politica. Nell’Erotica, la IV parte dell’Uso dei piaceri, Foucault studia la pederastia degli antichi – sarebbe sbagliato parlare di «omosessualità», in quanto essa è un’idea moderna – analizzandola come una componente della paideia: si trattava di formare il giovane al governo; attraverso una relazione d’amore si insegnava a sviluppare una relazione di potere. Nella precettistica degli antichi, quindi, era

38 Verità del potere, potere della verità vietato corrompere il giovane con donativi, viziarlo; malgrado l’asimmetria di età, l’obiettivo era di produrre una simmetria di posizione, perché a differenza dell’amore coniugale, caratterizzato da un rapporto di subalternità – la moglie era sostanzialmente la «prima figlia» e non era protagonista delle nozze che venivano concordate tra l’uomo e il padre –, nella relazione tra uomini c’era un’elezione di eros; dato che il fine era formare il cittadino – pensate all’Alcibiade di Platone –, il giovane doveva essere educato a controllare il desiderio. Quindi non poteva essere corrotto né mercificato. Si vede quindi come anche i legami di intimità – che poi erano allo stesso tempo legami di ceto nell’assetto dell’epoca – diventavano una modalità di selezione dei gruppi dirigenti. La formazione alla capacità di comando non era solo in senso tecnico ma anche in senso emotivo. Questa paideia mancava ai cittadini «scomposti», del demos. Non è casuale che la Repubblica di Platone ponga con insistenza la questione: fino a che punto si può includere il demos? Possiamo produrre una pedagogia collettiva? La formazione fa tutt’uno dunque con l’idea della città; resta sempre forte la differenza tra chi comanda e chi esegue, però dentro una visione della polis e grazie a una formazione al linguaggio, in particolare al linguaggio politico come l’elemento discorsivo in base al quale i cittadini potevano entrare in relazione tra loro. Se leggete Jaeger, scoprite che il grande pedagogista della Grecia antica era Isocrate: è la storia del popolo; il suo non è il linguaggio retorico, ma il linguaggio della comunità, o meglio, la retorica come formazione discorsiva.

La cura di sé era insomma la condizione essenziale per un esercizio adeguato del potere e per la sua stessa continuità. Il modello è in ogni caso fortemente asimmetrico nella partecipazione al potere: ci sono ceti sociali elevati e ceti sociali marginali, nonché le arti e i mestieri, le professioni, che non potevano ambire a posizioni di governo. Da un lato abbiamo quindi la polarità “grande individualità” (compos sui); e dall’altro? Per tutti gli altri funzionava il modello esemplare: la grande individualità diventa modello di condotta, secondo una pedagogia mimetica non inclusiva – perché non dà accesso al potere –, ma che indica nel potere una condotta da seguire. Questo in Platone si trasforma nel problema di come si insegna la virtù: c’è un «matematismo» della virtù? Oppure, come dice Aristotele, la saggezza si apprende dagli uomini saggi?

Facendo un grande salto, vediamo adesso una seconda modalità

Verità sul potere e potere su di sé 39

della soggettività, cioè quella moderna. Nella modernità la polarità è opposta, la necessità è quella di rendere efficiente il potere. Come abbiamo visto, questo è tanto più efficiente quanto più fa fare; di conseguenza il fine è attivare i soggetti. Ma in che modo? Secondo un modello che unisce un processo altissimo di individualizzazione a un altrettanto alto processo di serializzazione. I soggetti, i corpi, devono esser resi attivi – quelli che Foucault chiama i «corpi docili» – attraverso l’addestramento in ambiti particolari, per portare il massimo di efficienza. È la divisione del lavoro di cui parla Adam Smith. L’addestramento elevato comporta una forte individualizzazione (nell’esercito, nelle cancellerie e così via): weberianamente, il soggetto deve essere attivato nella forma «massimo risultato minimo sforzo». Ciò implica un’economia dei movimenti, dei tempi. Foucault porta esempi molto convincenti circa l’attivazione dei corpi nell’organizzazione dell’esercito. Questo lavoro di individualizzazione comporta che tutti, sempre di più, entrino in dinamiche di potere; con la precisazione che i poteri sono sotto-sistemi funzionali, seriali.

In tale situazione tutti esercitano un potere dentro un sotto-sistema. Qual è il prodotto, nel tempo, di tale modello? Una soggettività singolare. Perché, soprattutto nell’ultima fase della modernità, questi soggetti, che sono in prima battuta produttori, diventano anche consumatori. L’elemento del consumo attiva il desiderio – e nella nostra società sono ben presenti dinamiche di consumo passivo: il potere si conserva non solo perché induce alla prestazione, ma anche nel senso che trae dal desiderio la fonte del suo arricchimento. Se siamo in una società in cui è la provocazione del desiderio a produrre ricchezza, allora il corpo pulsionale diventa centrale. A questo si associa la nuova esperienza dell’«io multiplo». Il lavoratore sta in una prestazione d’opera; ma chiunque esso sia, diventa in modo crescente anche fruitore (diretto o indiretto) di prestazioni esterne altrui. Ad esempio: il lavoratore ha figli? Li manda a scuola. In quanto produttore appartiene a un sistema, in quanto padre appartiene a un altro (la scuola) di cui non ha competenza. Infatti si chiede: in quale scuola lo mando? Qual è la scuola migliore? O, in altro contesto: da quale medico vado? Questo riguarda tutte le diverse prestazioni sociali. La società costantemente richiama i soggetti a passare da un ambito all’altro.

L’«io multiplo» è uno dei motivi dello stress della nostra società, perché è lacerato da prestazioni che non entrano totalmente nel suo

40 Verità del potere, potere della verità dominio; quindi rischia di essere prescritto o etero-diretto. È un io che ha un deficit di conoscenze rispetto alle istanze: vorrebbe stare sempre in pari, ma non è detto che ce la faccia. Il problema allora è, a mio parere, tornare al modello antico della formazione di sé, della formazione del proprio desiderio; ma, è chiaro, non più nella forma di un ceto politico. Ognuno è chiamato a esercitare una «politica di se stesso», cioè una capacità di calcolare la propria potenza e una capacità di sottrazione – ciò che significa problematizzazione – rispetto alle prestazioni costrette. In altre parole, siamo in una società in cui si ricevono costantemente input che possono produrre condotte da riflesso condizionato e se non calcoliamo la nostra potenza, il nostro desiderio, non valutiamo. Il risultato è un meccanismo di eccesso di provocazione e una sottodeterminazione cognitiva rispetto a questo eccesso. Per uscirne, l’unico modo è sottrarsi. Questo significa chiedersi: perché devo fare tutto, perché ho necessità di tutto? È una capacità selettiva che deve partire non tanto dalla provocazione – non avendone la competenza –, ma dalla competenza di sé, cioè da quello che possiamo. Allora la modulazione del desiderio, il tema cioè della virtù, diventa importante oggi come principio di problematizzazione e soggettivizzazione.

Un esempio elementare di ciò è, nel consumo, la capacità di distinguere tra il necessario e il superfluo. Spesso ci troviamo in situazioni, soprattutto nelle crisi, in cui non è possibile porre la differenza tra necessario e superfluo, perché siamo toccati anche nel necessario. Ma in questo troviamo una variante interessante: è davvero necessario o è diventato necessario per un abito sociale che lo ha reso tale? L’ovvietà del necessario molte volte è essa stessa non problematizzata. Di qui l’impalpabile riaffiorare delle virtù quanto meno come esigenza, come bisogno di governare la propria potenza, di plasmare il proprio desiderio in una dimensione sociale che riconosce il diritto a desiderare. In altre culture questo diritto invece non c’era, per molti versi; una minore differenziazione sociale, una minore provocazione generavano obbedienza, che per un lato ti costringeva, per l’altro ti esonerava dalle scelte. Da un certo punto di vista, quindi, ti metteva in una condizione di naturale adeguamento o di trasgressione: diventavi disobbediente, ma sapevi a che cosa disobbedivi (meccanismo che peraltro abbiamo visto saltare nel ‘68). Dunque anche nella trasgressione eri normato, nel senso che essa era l’altra faccia dell’obbedienza: ti dava identità. Quando invece non hai

Verità sul potere e potere su di sé 41

più norme – perché sei costantemente provocato – chi ti dà l’identità? Infatti viviamo in una società dove si sviluppano dinamiche perverse, in una società che non è più capace di trasgredire in ragione dell’abolizione delle regole. Non le danno neanche i genitori, perché anche in famiglia prevale il meccanismo della sazietà, mentre una volta funzionava la dinamica dell’autorità. Sazio il tuo capriccio così non mi dai fastidio, oppure, se non lo sazio secondo quanto tu mi dici, ti sazio lo stesso deviando il tuo desiderio, secondo un modello compensativo: ti metto dinanzi alla televisione, ti do la merendina, cioè ti metto a tacere riempiendoti. È un’obesità psichica che distrugge la possibilità della critica. Rispetto a tutto ciò, l’elemento della sottrazione è un modo per restituire al soggetto la possibilità della critica. La sottrazione quindi non è rinuncia, è distanza, capacità di problematizzazione.

Questo modello permette alla soggettività di guadagnare potere su di sé e quindi di problematizzare i poteri? E nel caso specifico aiuta a ridurre l’ordine delle provocazioni e nello stesso tempo ad aumentare l’accesso critico alle prestazioni? Come noi, nella società, possiamo far diventare tale modello, tale dinamica, una struttura funzionante? Come la possiamo fare diventare una pedagogia collettiva? Una volta preso per buono il modello, in che modo il potere su di sé può essere organizzato? Perché se è organizzato, diventa un potere che organizza il potere su di sé: ciò che non è necessariamente una contraddizione. Si tratta solo di vedere come, di decidere cioè quale pedagogia collettiva si può impiantare per stabilire soggettività libere, nuclei di libertà – laddove il nucleo di libertà coincide con il nucleo di resistenza. Se non hai capacità di resistenza, non hai capacità di libertà. In una società della provocazione, soltanto se resisti decidi; altrimenti, o sei perverso o sei frustrato, e nel mondo giovanile constatiamo proprio dinamiche che tendono alla perversione o alla depressione. Serve la competenza del desiderio come responsabilizzazione, analoga all’esercizio degli epicurei, i quali si nutrivano o praticavano il sesso di giorno in giorno sempre di meno; ma non per rinuncia, per poter vedere quale era il grado zero di differenza tra il necessario e il superfluo – fin quando ne posso fare a meno?

È questa la logica dell’ascesi come esercizio, non come rinuncia. Una volta capito quel che puoi o non puoi, allora scegli, ma sai già quanto è in tuo potere e quanto invece sei nel potere di altro. Evidentemente il discorso assume una particolare rilevanza in quella

42 Verità del potere, potere della verità che ormai va divenendo sempre di più una società di individui. E questo in bene e in male: come rivendicazione di una sempre più ampia libertà e insieme come pretesa di un’impossibile autosufficienza. Ma non per questo meno proterva.

Guerra, politica e democrazia in Carl Schmitt ed Elias Canetti

Luigi Alfieri

1. In un passo famoso del saggio Il concetto di «politico», Carl Schmitt propone la sua definizione dicotomica e polemologica del «politico» nel quadro di una complessiva dicotomicità della realtà umana, assunta come un dato auto-evidente, tale da fornire un modello universale.

Assumiamo che sul piano morale le distinzioni di fondo siano buono e cattivo; su quello estetico, bello e brutto; su quello economico, utile e dannoso oppure redditizio e non redditizio. Il problema è allora se esiste come semplice criterio del «politico», e dove risiede, una distinzione specifica, anche se non dello stesso tipo delle precedenti distinzioni, anzi indipendente da esse, autonoma e valida di per sé.

La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind). […] Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri, essa corrisponde, per la politica, ai criteri relativamente autonomi delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello e brutto per l’estetica e così via1.

1 C. Schmitt, Il concetto di «politico» (testo del 1932), in Id., Le categorie del «politico», a cura di

G. Miglio e P. Schiera, trad. di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972 (rist. 1988), p. 108. È noto che quest’edizione italiana, strettamente seguita dall’autore per quanto riguarda la scelta e l’adattamento dei testi che vi sono compresi, potrebbe essere considerata quasi un’opera autonoma nella bibliografia schmittiana. Andrebbero anche considerati due profili, che meriterebbero entrambi un approfondimento scientifico che neppure si tenterà in questa sede: quanto questo adattamento abbia avuto una portata attualizzante, ma appunto per

44 Verità del potere, potere della verità

L’argomentazione non appare irresistibile, anzi a ben guardare è singolarmente fragile. Riguardo alla morale, l’impostazione dicotomica è lungi dall’essere ovvia. A un pensatore esperto di teologia2 e certo non ignaro del dibattito sulla teodicea non dovrebbe sfuggire che è di vitale importanza per tutta l’etica cristiana che bene e male non stiano sullo stesso piano, che il male non abbia la stessa consistenza ontologica del bene e che anzi possa essere riassorbito concettualmente in esso (privatio boni), per non parlare dell’assenza di una simile contrapposizione nell’etica kantiana, dove il bene in quanto dovere è definito del tutto indipendentemente dal male, che non ha come tale alcuna autonomia concettuale, o dello sforzo di superarla da parte di un pensatore ben noto a Schmitt come Nietzsche. Si potrebbe dire che quella di cui parla Schmitt è una sorta di etica popolare, di non grande spessore filosofico. Peggio ancora stanno le cose riguardo alle altre dicotomie: sarebbe davvero difficile identificare un teorico di estetica che fondi l’arte sul contrasto tra bello e brutto e forse addirittura impossibile trovare un economista che fondi la sua scienza sull’opposizione tra utile e dannoso o su concetti chiaramente relativi e privi di senso al di fuori di una misurazione numerica come redditizio e non redditizio. Anche in questi casi sembra di trovarsi in una dimensione banalizzante e non molto articolata, quella del «mi piace/non mi piace» o del «mi conviene/non mi conviene». Si può pensare che un’impostazione così semplicistica possa fornire una valida analisi del concetto di «politico»?

Sembra piuttosto che l’argomentazione debba essere rovesciata. Non dall’universale dicotomicità delle sfere in cui si divide l’esistenza umana si deve dedurre l’esigenza di un’analoga struttura definitoria del concetto di «politico», ma dall’esigenza, non scientificamente asettica, di una riconduzione del politico alle categorie della guerra deriva l’assunzione, indimostrata e indimostrabile pur se viene data per assodata, che in tutti i piani dell’agire umano si proceda per contrapposizioni di stampo polemologico. La guerra è il punto di partenza, è la guerra che deve essere fondata come atto politico per

questo «denazificante» e assolutoria riguardo alla figura di Schmitt, e il ruolo non solo scientifico ma «militante» che quest’opera ha ricoperto nel fornire legittimazione ideologica alla svolta «decisionista» della politica italiana negli anni successivi. Non stiamo parlando, in nessun senso, di un libro innocuo.

2 Il miglior testo a me noto sulla dimensione teologica di Schmitt (e non soltanto), è M. Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Morcelliana, Brescia 1990.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 45

eccellenza e posta come essenziale e imprescindibile. E a questo punto si direbbe che Schmitt si lasci travolgere senza soverchia resistenza da una suggestione eraclitea e trovi molto agevole il passaggio vertiginoso a una visione dell’intero campo dell’attività umana sub specie belli 3.

Ma c’è di peggio. La petizione di principio polemologica carica di una tensione insostenibile lo stesso concetto di «politico» e determina un suo avvitamento aporetico. Schmitt, infatti, assume correttamente il principio, storicamente e sociologicamente inevitabile, della non riducibilità della nozione di politico a quella di Stato, e si trova però a doverlo mantenere in costante rapporto con una dimensione nell’era moderna insuperabilmente statuale, come appunto quella della guerra.

La distinzione concettuale fra Stato e «politico» è proprio lo spunto originario da cui muove il saggio: lo Stato è definito dal «politico» e non lo definisce, dunque il concetto di politico va costruito separatamente da quello di Stato, che ne deriva.

Il concetto di Stato presuppone quello di «politico».

Per il linguaggio odierno, Stato è lo Status politico di un popolo organizzato su un territorio chiuso.

Ma in tal modo viene data solo una prima descrizione, e non una definizione concettuale dello Stato: di essa non vi è neppure bisogno qui, dove ci occupiamo dell’essenza del «politico». Possiamo lasciare in sospeso quale sia l’essenza dello Stato: una macchina o un organismo, una persona o un’istituzione, una società o una comunità, un’azienda o un alveare o forse una «serie fondamentale di procedure». Tutte queste definizioni e modelli anticipano troppo l’interpretazione, l’attribuzione di significato, l’illustrazione e la costruzione del concetto e non possono perciò costituire il punto di partenza più adatto per una trattazione semplice ed elementare. […]

A questo punto non è possibile dir di più. Tutti i caratteri di questa definizione – status e popolo – acquistano il loro significato solo grazie all’ulteriore carattere del

3 Mi riferisco naturalmente al celebre frammento 53 Diels-Kranz: «Il conflitto (polemos) è

padre di tutte le cose e di tutte è re: e gli uni fece dei, gli altri uomini: gli uni servi, gli altri liberi». Cito da Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano e G. Serra, Fondazione Lorenzo Valla - Arnoldo Mondadori Editore, s. l. (ma Milano) 1980, p. 13 (per il testo greco, p. 12). Nell’ed. Diano il frammento reca il numero 14.

46 Verità del potere, potere della verità

«politico» e divengono incomprensibili se viene fraintesa l’essenza di quest’ultimo4.

Se il «politico» fonda lo Stato, lo precede logicamente e

cronologicamente e sussiste anche prima e senza di esso. Coerentemente, Schmitt polemizza infatti contro le definizioni del «politico» che lo deducono, esplicitamente o implicitamente, dalla statualità o da aspetti di essa5. Ci si aspetterebbe però che il concetto di statualità, in quanto fondato da quello di «politico», non possa poi prescinderne e non possa dunque esistere qualcosa come uno «Stato non politico». Ma proprio qui dobbiamo constatare una prima incidenza destabilizzante della definizione polemologica del «politico». Se il «politico» coincide con la dicotomia amico/nemico, dove lo Stato agisce in maniera irriducibile alla dicotomia agisce al di fuori del politico, dunque può sussistere una statualità non politica, e quindi uno Stato non fondato sul fondamento della statualità, che evidentemente, se non si vuole riconoscere che il fondamento non è fondante, deve essere assunto come uno Stato infondato e perciò come una sorta di apparenza senza sostanza, un presunto Stato che non è uno Stato o è un anti-Stato. Il punto chiama in causa, non casualmente, lo Stato democratico, significativamente assunto come Stato totale. Lo Stato democratico si occupa di troppe cose che esulano dalla diade amico/nemico, si occupa della società nel suo insieme, tende addirittura a identificarsi con essa. Lungi dal ricavarne un dubbio sull’esaustività della diade riguardo al politico, Schmitt ne ricava un’implicita certezza sull’impoliticità e non-statualità della democrazia.

Invece l’equiparazione di «statale» e «politico» è

scorretta ed erronea nella stessa misura in cui Stato e società si compenetrano a vicenda e tutti gli affari fino allora statali diventano sociali e viceversa tutti gli affari fino allora «solo» sociali diventano statali, come accade necessariamente in una comunità organizzata in modo democratico. Allora tutti i settori fino a quel momento «neutrali» – religione, cultura, educazione, economia – cessano di essere «neutrali» nel senso di non-statali e non-

4 C. Schmitt, Il concetto di «politico», cit., p. 101. 5 Ivi, pp. 101-105.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 47

politici. Come concetto polemicamente contrapposto a tali neutralizzazioni e spoliticizzazioni di settori importanti della realtà compare lo Stato totale proprio dell’identità tra Stato e società, mai disinteressato di fronte a nessun settore della realtà e potenzialmente comprensivo di tutti. Di conseguenza, in esso, tutto è politico, almeno virtualmente, e il riferimento allo Stato non basta più a fondare un carattere distintivo specifico del «politico»6.

È un brano sottilmente ambiguo, che potrebbe essere letto in vari

modi anche contrapposti tra loro. In se stesso – e se la struttura complessiva del saggio lo consentisse – potrebbe essere letto persino come un elogio della democrazia in quanto superamento dei limiti originari del «politico», fino alla completa politicizzazione del sociale. Potrebbe essere letto come un accostamento del concetto di democrazia a quello – già all’epoca presente in riferimento al fascismo italiano7 – di totalitarismo, preparando il terreno alla possibilità di vedere in esso la forma compiuta della democrazia, al di là delle categorie obsolete della democrazia liberale. Potrebbe essere letto infine – e ritengo che questa sia la lettura più conforme alla logica interna del saggio e soprattutto ai suoi orientamenti e condizionamenti impliciti – come negazione della natura tanto politica quanto statale della democrazia. Se tutto è politico, nulla lo è in senso specifico e caratterizzante, se lo Stato si occupa di tutto, non resta nulla che sia peculiare dello Stato, infine e soprattutto se l’estensione del campo della politica viene a coincidere con quella dell’economia, questa fagocita e annulla l’essenza stessa della politica e dello Stato8. In tutti i casi, l’elemento concettualmente destabilizzante resta l’assunzione dell’esistenza di uno Stato non politico o non specificamente tale – quale che sia poi la valutazione che se ne dà – e quindi di un modo di intendere la «politica» che non sia riconducibile alla purezza concettuale del «politico»9. Con la conseguenza inevitabile

6 Ivi, pp. 105-106. 7 Cfr. D. Fisichella, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, La Nuova Italia Scientifica,

Roma 1987, pp. 14-15. Come Fisichella documenta, l’aggettivo «totalitario» viene usato per la prima volta da Giovanni Amendola nel 1923, il sostantivo «totalitarismo» da Lelio Basso nel 1925, sempre in riferimento al fascismo, che si appropria di questi termini facendone delle autodefinizioni elogiative (nel 1925 lo stesso Mussolini, nel 1928 Giovanni Gentile).

8 Cfr. C. Schmitt, Il concetto di «politico», cit., pp. 107-108. 9 In seguito, a conferma di questa difficoltà di collocare nel concetto di «politico» la

48 Verità del potere, potere della verità che la purezza concettuale del «politico» non definisce, o non definisce sempre, la «politica». Questo, a rigore, ne imporrebbe il ridimensionamento da categoria universale a variabile storico-sociale: il «politico» sarebbe una politica, propria di una forma storica dello Stato. Cambierebbe così tutto il quadro della questione e diverrebbe insostenibile l’assunto di fondo di Schmitt. Il quale è consapevole della difficoltà e tenta variamente di risolverla nello sviluppo del suo ragionamento, non senza aggravarla progressivamente. Uno spunto poco appariscente ma assai rivelatore in proposito è presente già nella breve digressione storica che segue la presentazione dello Stato democratico come Stato totale impolitico, nella quale si tenta un recupero del «politico» all’interno dell’impoliticità: in fondo lo Stato liberale con le sue «neutralizzazioni», contrapponendo il religioso, il culturale, l’economico, il giuridico, lo scientifico al «politico» riprenderebbe esso stesso la diade logica amico/nemico, mentre a propria volta lo Stato totale sarebbe la «negazione polemica […] dello Stato neutrale»10. Così però la struttura polemica del politico viene ad avere un’interpretazione meramente metaforica, che è esattamente quello che in seguito Schmitt nega con grande forza.

I concetti di amico e nemico devono essere presi nel

loro significato concreto, esistenziale, non come metafore e simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico-privato, come espressione psicologica di sentimenti e tendenze private. Non sono contrapposizioni normative o «puramente spirituali». […]

Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere11.

Quanto concreta sia la diade polemica, Schmitt lo chiarisce poco

democrazia, le forze democratiche sono definite come «essenzialmente politiche», in quanto però siano polemicamente «dirette verso lo Stato totale»: ivi, p. 156.

10 Cfr. ivi, pp. 106-107. 11 Ivi, pp. 110-111.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 49

oltre, quando precisa che il politico ha costitutivamente a che fare con l’uccidere.

Nel concetto di nemico rientra l’eventualità, in termini reali, di una lotta. Questo termine va impiegato prescindendo da tutti i mutamenti casuali o dipendenti dallo sviluppo storico della tecnica militare e delle armi. La guerra è lotta armata fra unità politiche organizzate, la guerra civile è lotta armata all’interno di un’unità organizzata (che proprio perciò sta diventando problematica). L’essenza del concetto di arma sta nel fatto che essa è uno strumento di uccisione fisica di uomini. Come il termine di nemico anche il termine di lotta dev’essere qui inteso nel senso di un’originarietà assoluta. Esso non significa concorrenza, non la lotta «puramente spirituale» della discussione, non il simbolico «lottare» che alla fine ogni uomo in qualche modo compie sempre, poiché in realtà l’intera vita umana è una «lotta» ed ogni uomo un «combattente». I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica12.

Senza dubbio, questa è una buona definizione della guerra: seria,

onesta, non edulcorata da pudori «umanitari». Ed è importante per gli sviluppi del ragionamento che qui si propone che Schmitt insista nel fondare la guerra sulla possibilità reale dell’uccisione, mettendo da parte ogni mascheramento idealistico della concretezza fisica e cruenta della lotta armata. Il problema è che questa definizione della guerra dovrebbe valere senza residui come definizione del «politico», escludendo ogni distanza tra due concetti che a questo punto non sono più due. Il «politico» è la guerra, o almeno la concreta possibilità di essa e il decidere in vista di questa possibilità. Non certo nel senso che sia atto politico soltanto fare la guerra, ma nel senso che decisione propriamente politica è solo la decisione circa la guerra, anche semplicemente la decisione di prepararsi a questa eventualità o addirittura la decisione di non farla, mentre tutti gli altri possibili usi del termine «politica» sono meramente derivati e «parassitari»13.

12 Ivi, pp. 115-116. 13 Cfr. ivi, pp. 112-113.

50 Verità del potere, potere della verità

La guerra è solo la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha bisogno di essere qualcosa di quotidiano o di normale, e neppure di essere vista come qualcosa di ideale o di desiderabile: essa deve però esistere come possibilità reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il suo significato.

Tutto ciò non vuol però assolutamente dire che l’essenza del «politico» non sia altro che guerra sanguinosa e che ogni trattativa politica debba essere una battaglia militare, né che ogni popolo sia ininterrottamente posto, di fronte ad ogni altro, nell’alternativa di amico o nemico, e che la corretta scelta politica non possa consistere proprio nell’evitare la guerra14.

La guerra segna l’orizzonte di possibilità del politico, che senza

guerra non esisterebbe. Questo non comporta però la costanza della guerra, la sua onnipresenza o anche la sua frequenza, e neppure comporta che il decisore politico debba mirare in ultima istanza a fare la guerra non appena i rapporti di forza saranno favorevoli.

La guerra non è dunque scopo e meta o anche solo

contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico15.

Si potrebbe dire che decisione politica è propriamente quella che

interviene in un contesto intrinsecamente conflittuale e che tiene conto nel suo farsi di tutte le complesse interrelazioni possibili riguardo a questo contesto: la decisione di fare la guerra come quella di non farla, la decisione di stipulare alleanze come quella di rifiutare un certo possibile alleato, facendone per ciò stesso un eventuale possibile nemico, la decisione di rispettare un trattato come quella di infrangerlo, la decisione di armarsi o anche quella di limitare gli armamenti, ecc. E questo senza dubbio identifica credibilmente come «politico» lo spazio del rapporto esterno fra Stati sovrani. Ma come si configura allora il rapporto dello Stato con i propri cittadini e il rapporto dei cittadini fra loro?

14 Ivi, p. 116. 15 Ivi, p. 117.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 51

2. Nella comunità degli Stati manca un’istanza super partes che prevenga o regoli il conflitto, dunque il conflitto è la sola possibile soluzione di se stesso. Non esiste neppure lo spazio concettuale per la pace. Essa stessa, se assunta in senso radicale come valore, è soltanto un prendere una posizione necessariamente conflittuale riguardo al conflitto, un voler fare «guerra contro la guerra»16. Per questo la natu-ra del «politico» non viene mutata dall’affermarsi della concezione della guerra come disvalore, dalla crescente difficoltà di volerla aper-tamente e dall’assunzione come luogo comune che la sola politica giusta sia una politica di pace. Anche questo è un prender posizione riguardo alla guerra che ne presuppone la permanente possibilità, anzi contribuisce a creare questa stessa possibilità. La decisione di opporsi strenuamente alla guerra è la più polemica di tutte le decisioni: facen-do della guerra il nemico assoluto si classifica dentro la categoria del nemico chiunque non condivida la propria posizione riguardo alla pace, e in tal modo lo si sospinge verso il più radicale disconoscimen-to, verso una condizione di costitutiva disumanità e perciò di uccidibi-lità illimitata. La «guerra contro la guerra» è la peggiore di tutte:

Se la volontà di impedire la guerra è tanto forte da non temere più neppure la guerra stessa, allora essa è diventata un motivo politico, essa cioè conferma la guerra, anche se solo come eventualità estrema, e quindi il senso della guerra. Attualmente questo sembra essere un modo particolarmente promettente di giustificazione della guerra. La guerra si svolge allora nella forma di «ultima guerra finale dell’umanità». Tali guerre sono necessariamente particolarmente intensive e disumane poiché, superando il «politico», squalificano il nemico anche sotto il profilo morale come sotto tutti gli altri profili e lo trasformano in un mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma dev’essere definitivamente distrutto, cioè non deve essere più soltanto un nemico da ricacciare nei suoi confini. Dalla possibilità di tali guerre appare in tutta chiarezza che la guerra come possibilità reale sussiste ancor oggi, il che è importante per la distinzione di amico e nemico e per la comprensione del «politico»17.

16 Cfr. ivi, p. 119. 17 Ivi, pp. 119-120.

52 Verità del potere, potere della verità

Anche lo sforzo di superare le categorie del «politico» rifiutando radicalmente la nozione di «nemico» conferma l’insuperabilità di tale orizzonte, che anzi viene solo estremizzato: non si vuole che esistano più nemici, dunque non si vuole che chiunque potrebbe essere nemico esista più. E per converso, ogni possibile guerra viene giustificata dal preventivo rifiuto di riconoscere legittimità politica alla controparte. Schmitt è qui tragicamente acuto nel comprendere che la più «umanitaria» e benintenzionata di tutte le guerre, la prima guerra mondiale, lungi dall’espellere la guerra dall’orizzonte del politico, aveva posto le basi per la definitiva disumanizzazione della guerra, consegnandola all’orizzonte tecnologico dello sterminio di massa. Ma non si tratta solo di riconoscere che qui Schmitt, partendo dall’esperienza della prima guerra mondiale, «profetizza» la seconda, peraltro senza che questa «profezia» riesca a erigere un qualche argine morale o giuridico contro quello che stava per accadere e di cui la presa di potere di Hitler avrebbe creato i presupposti solo pochi mesi dopo la pubblicazione del saggio. Si tratta anche di riconoscere che il nostro stesso orizzonte storico non è cambiato sotto questo profilo, che tuttora non siamo capaci di rifiutare la guerra senza portarne all’estremo la logica. La critica schmittiana alla Società delle Nazioni potrebbe essere riproposta nei confronti dell’ONU ed essere assunta come una valutazione in presa diretta degli eventi a noi contemporanei18:

La Società delle Nazioni di Ginevra non elimina la

possibilità di guerre, così come non elimina gli Stati. Essa anzi introduce nuove possibilità di guerre, permette le guerre, stimola guerre di coalizione ed accantona una serie di ostacoli alla guerra nella misura in cui legittima e sanziona alcune guerre e non altre19.

L’orizzonte della politica estera resta definitivamente hobbesiano:

nell’assenza e forse nell’impossibilità di un Leviatano sovrastatale, la comunità degli Stati non esce dallo status naturae della guerra

18 Scrivo nel maggio-giugno 2011. Sul paradosso della «guerra per la pace» e sui

fondamenti costituzionali di questo paradosso, e contro la singolare mitologia giuridica secondo cui la nostra Costituzione «vieta» la guerra, rinvio al mio La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra, Morlacchi, Perugia 2008, pp. 182-187.

19 C. Schmitt, Il concetto di «politico», cit., p. 141.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 53

virtualmente infinita. Solo che – assai poco hobbesianamente – questo status naturae viene definito come il «politico», e come tale viene a coincidere anche con la sfera della sovranità interna degli Stati. Che è dunque una singolare sovranità, che non ordina, non pacifica, non unifica, bensì divide e mobilita, anche in questo caso, in vista di una possibile esplosione conflittuale. La dimensione propriamente politica della vita interna degli Stati è quella della virtuale permanente possibilità della rivoluzione20 e della guerra civile:

Quando all’interno di uno Stato i contrasti fra i partiti politici sono divenuti «i» contrasti politici tout-court, allora viene raggiunto il grado estremo di sviluppo della «politica interna», cioè diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amico-nemico di politica estera, bensì quelli interni allo Stato. La possibilità reale della lotta che dev’essere sempre presente affinché si possa parlare di politica, si riferisce allora conseguentemente, in presenza di un simile «primato della politica interna», non più alla guerra fra unità nazionali organizzate (Stati o Imperi), bensì alla guerra civile21.

Appunto la dimensione della guerra civile è quella decisiva per comprendere che in Schmitt la sfera del «politico» è ben lungi dal coincidere con quella dello Stato. Al proprio interno, lo Stato è solo uno degli attori del conflitto politico, e non necessariamente il principale. La natura politica di un raggruppamento umano coincide senza residui con la sua capacità di distinguere amici e nemici e di essere parte di un conflitto che ha costantemente la possibilità di trasformarsi in guerra civile. Quindi anche associazioni originariamente di altra natura diventano politiche non appena assumono questa capacità, che le colloca sullo stesso piano dello Stato e le «autorizza» a tentarne il rovesciamento o la conquista. È senza dubbio la forza, almeno virtualmente armata, a conferire qui l’unica possibile legittimità, e non sussiste una superiore o anche solo diversa legittimazione dello Stato.

20 Cfr. ivi, p. 113. 21 Ivi, p. 115.

54 Verità del potere, potere della verità

Una comunità religiosa che, come tale, porta guerra, sia contro gli appartenenti ad altre comunità religiose, sia in altro modo, è, oltre ad una comunità religiosa, una unità politica. Essa è un’entità politica anche se ha una possibilità di incidenza su quel processo decisivo solo in senso negativo, se cioè è nella condizione di impedire, con un divieto, la guerra ai suoi membri, cioè di negare in modo decisivo la qualità di nemico di un avversario. Lo stesso vale per un’associazione di uomini a fondamento economico, ad esempio per un trust industriale o un sindacato. Anche una «classe» in senso marxista cessa di essere qualcosa di puramente economico e diventa un’entità politica se giunge a questo punto decisivo, se cioè prende sul serio la lotta di classe e tratta l’avversario di classe come nemico reale e lo combatte, sia come Stato contro Stato, sia nella guerra civile all’interno di uno Stato22.

È dunque radicalmente impossibile una condizione permanente di

pace, tanto all’esterno quanto all’interno dello Stato. Anzi, tale condizione è addirittura impensabile entro l’orizzonte del politico. Un popolo che decidesse di rendersi totalmente inerme e di non fare mai la guerra, contro nessuno e in nessun caso, non riuscirebbe certo a pacificare la politica internazionale: l’unico risultato sarebbe che «scompare semplicemente un popolo debole»23. Allo stesso modo però perderebbe la propria natura politica, e metterebbe in crisi la natura politica del proprio Stato, e perciò la stessa sussistenza di questo, una forza politica interna che rifiutasse radicalmente tanto la guerra esterna quanto la guerra civile.

Se la forza politica di una classe o di un gruppo […] si estende all’interno di uno Stato, tanto da poter impedire ogni guerra all’esterno, senza però avere la capacità o la volontà di impadronirsi del potere statale, di porsi cioè come criterio di distinzione fra amici e nemici e di condurre la guerra in caso di necessità, in tal caso l’unità politica è distrutta24.

22 Ivi, pp. 120-121. 23 Ivi, p. 137. 24 Ivi, p. 121; cfr. anche ivi, p. 122.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 55

Ne risulta una situazione alquanto paradossale relativamente al mantenimento dell’ordine e dell’unità del corpo politico. La guerra esterna, almeno come concreta e imminente possibilità, rappresenta la condizione ideale per il rafforzamento e la durata dello Stato, in quanto crea una mobilitazione unitaria e coesa di tutte le forze sociali interne ad esso. La guerra esterna è il miglior antidoto alla guerra civile e alla rivoluzione. Per converso, le forze interne allo Stato acquistano natura politica soltanto in quanto mirino ad orientarlo verso la guerra esterna o in quanto mirino alla conquista, all’occorrenza anche violenta, del potere interno. Neppure la politica interna esiste come politica se non in vista della guerra, col risultato alquanto paradossale che la politica estera unifica lo Stato mentre la politica interna lo divide, la politica estera lo rafforza e la politica interna lo indebolisce, e quindi la politica interna mette lo Stato nelle condizioni peggiori possibili per svolgere un’attività efficace di politica estera. La politica estera è status naturae, in maniera perfettamente hobbesiana; ma, in maniera assolutamente non hobbesiana, neppure nella politica interna troviamo propriamente lo status civitatis. Il cittadino è tale solo in quanto sia potenzialmente combattente, ed è indifferente se lo sia per lo Stato o contro lo Stato, perché lo Stato è nella guerra civile e non al di sopra di essa, ed anzi si potrebbe concludere che una politica interna pienamente pacificata non sarebbe affatto una politica e che quindi uno Stato pienamente coeso e concorde non sarebbe neppure uno Stato perché sarebbe composto unicamente da elementi non politici (a meno che questa coesione interna non trovi espressione nella guerra esterna). Il Leviatano è assente, il bellum omnium contra omnes non è la condizione da cui la politica fa uscire, ma è la politica stessa. È assai rivelatore in quest’ottica che il più diretto ed enfatico riferimento a Hobbes presente nel saggio lo esalti non come teorico della sovranità in quanto fondamento dello status civitatis, ma precisamente come teorico del bellum omnium contra omnes:

In Hobbes, un pensatore davvero grande e sistematico, la concezione «pessimistica» dell’uomo, la sua esatta comprensione che proprio la convinzione, presente nelle due parti antagoniste, di essere nel buono, nel giusto e nel vero provoca le ostilità più violente, e alla fine addirittura il bellum di tutti contro tutti, devono essere intese non come parti di una fantasia paurosa e sconvolta, e neanche solo come filosofia di una società borghese

56 Verità del potere, potere della verità

fondata sulla libera «concorrenza» (Tönnies), ma come i presupposti elementari di un sistema di pensiero specificamente politico25.

Dove è da considerare che viene denotato come «specificamente politico» precisamente quello che in Hobbes è l’impolitico, l’insostenibile dimensione prestatuale dello status naturae da cui tanto la ragione quanto la legge divina impongono di uscire. Come pure è da considerare che per Hobbes nello status naturae non ci sono affatto «due parti antagoniste» (che sarebbero ciascuna al proprio interno ordinate e dirette da una guida politica, tanto da potersi fare la guerra, e non sarebbero quindi nello status naturae al proprio interno ma solo all’esterno, esattamente come gli Stati, e quindi sarebbero degli Stati), ma non esiste, al contrario, nessuna possibilità di raggruppamento stabile e istituzionale e perciò nessuna possibile dimensione di ordine condiviso. Il bellum è tutto, in Hobbes, tranne che guerra in senso politico: non c’è amico e nemico, ma soltanto nemici reciproci26. Davvero singolare è dunque che Schmitt passi per essere – anche per lui stesso – il più importante pensatore hobbesiano della contemporaneità, quando è piuttosto un radicale anti-hobbesiano27.

In questa dirompente confusione concettuale ha un ruolo decisivo, evidentemente, proprio la celebre concezione schmittiana della sovranità come decisione sullo stato d’eccezione, e quindi come concetto limite, nel senso che riguarda l’estremo28. Questa concezione è esplicitamente ripresa nel saggio sul concetto di «politico»:

In ogni caso è sempre politico il raggruppamento orientato al caso critico. Esso è perciò sempre il raggruppamento umano decisivo, e di conseguenza l’unità politica, tutte le volte che esiste, è l’unità decisiva e «sovrana» nel senso che la decisione sul caso decisivo,

25 Ivi, pp. 149-150. 26 Per un breve tentativo di delineazione sistematica del pensiero di Hobbes, rinvio al

mio La spada e il pastorale. L’unità del potere sovrano nella teologia politica di Hobbes, in G. M. Chiodi e R. Gatti (a cura di), La filosofia politica di Hobbes, FrancoAngeli, Milano 2009, pp. 125-141.

27 Può darsi però che quest’incongruenza di Schmitt metta in evidenza una nascosta contraddizione di Hobbes stesso: la tensione irrisolta tra la violenza costitutiva del sovrano e l’esigenza che il sovrano pacifichi la vita interna dello Stato. Cfr. in proposito L. Alfieri, La stanchezza di Marte, cit., pp. 49-58.

28 Cfr. C. Schmitt, Definizione della sovranità, in Id., Le categorie del «politico», cit., pp. 33-41.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 57

anche se questo è il caso d’eccezione, per necessità logica deve spettare sempre ad essa29.

Qui la nozione di sovranità e la nozione di «politico» vengono addirittura a coincidere. E il terreno in cui si incontrano e si sovrappongono è ancora una volta la guerra. Sovrano è chi ha la forza di decidere circa la guerra (non necessariamente, è ormai chiaro, di decidere per la guerra). E questa decisione sovrana è anche la sola decisione propriamente politica. E non importa quale soggetto la compia: chiunque ne sia in grado è il sovrano. Quindi lo Stato non è l’unico sovrano, anzi addirittura non necessariamente è sovrano, perché non necessariamente lo Stato ha forza e volontà sufficienti per tali decisioni. S’intende che in tal caso si dissolve, o si sottomette ad altri Stati più forti conservando la qualità di Stato solo in apparenza e per altrui concessione30. Mentre qualunque forza interna allo Stato, anche originariamente non politica, diventa politica, e perciò sovrana, nel momento in cui, evidentemente anche contro lo Stato esistente, riesce a creare il raggruppamento amico/nemico e a costituirsi come parte di una lotta, in grado di sostenerla ed eventualmente di vincerla. Il sovrano è parte, non è super partes. Non unifica, divide. Non impone la pace, ma la lotta.

Ciò che importa è sempre solo il caso di conflitto. Se

le controforze economiche, culturali o religiose sono così forti da determinare da sé sole la decisione sul caso critico, ciò significa che esse sono divenute la nuova sostanza dell’unità politica. […] Comunque vadano le cose, l’orientamento al possibile caso critico della lotta effettiva contro un nemico effettivo fa sì che l’unità politica sia necessariamente l’unità decisiva per il raggruppamento amico-nemico – ed allora è unità sovrana in tal senso (e non in qualsiasi senso assolutistico) – oppure che essa non esista per niente31.

29 C. Schmitt, Il concetto di «politico», cit., p. 122. 30 Cfr. ivi, p. 129. Per un’applicazione di questo criterio schmittiano all’era nucleare, da

cui derivano però esiti assai poco schmittiani circa il rapporto tra politica e guerra, rinvio ancora a L. Alfieri, La stanchezza di Marte, cit., pp. 42-44 e 126-128.

31 C. Schmitt, Il concetto di «politico», cit., pp. 122-123.

58 Verità del potere, potere della verità

È quindi del tutto evidente, ormai, che muovendo da questi presupposti esiste un’unica possibilità di ricondurre il «politico» e lo Stato entro la prospettiva effettivamente hobbesiana della pacificazione leviatanica, cioè di riconoscere alla decisione sovrana un’efficacia unificatrice in politica interna. Riguardo alla dimensione interna dello Stato, Schmitt inverte, si potrebbe dire, l’ironico concetto di «guerra per la pace» in un concetto di «pace per la guerra», o meglio di pace nella guerra. Se la guerra esterna produce l’esistenziale unità dei cittadini nel comune sforzo di lotta, c’è un solo modo di estendere quest’effetto alla dimensione interna dello Stato, ed è che lo Stato come tale ricerchi, identifichi e proclami un nemico interno contro cui radunare in una solida coalizione tutte le altre forze sociali presenti in esso, cioè che lo Stato stesso si faccia promotore della guerra civile.

Il compito di uno Stato normale consiste […]

soprattutto nell’assicurare all’interno dello Stato e del suo territorio una pace stabile, nello stabilire «tranquillità, sicurezza e ordine» e di procurare in tal modo la situazione normale che funge da presupposto perché le norme giuridiche possano aver vigore, poiché ogni norma presuppone una situazione normale e non vi è norma che possa aver valore per una situazione completamente abnorme nei suoi confronti.

Questa necessità di pacificazione interna porta, in situazioni critiche, al fatto che lo Stato, in quanto unità politica, determina da sé, finché esiste, anche il «nemico interno»32.

A questo punto, Schmitt dichiara lealmente, senza infingimenti, la

strutturale instabilità concettuale del proprio ragionamento. Il politico può solo oscillare tra i due poli della guerra esterna e della guerra civile, lo Stato unifica e stabilizza solo in quanto chiama di volta in volta alle armi contro un nemico esterno o contro un nemico interno. Ma in questo secondo caso – Schmitt è esplicito – lo Stato si autodissolve nell’attesa della decisione del conflitto che nuovamente lo fonderà, riunificandolo e proiettandolo nuovamente, finché l’unità regge, verso la guerra esterna: non esistono altre possibilità. La guerra civile, infatti, è il «superamento dello Stato come unità politica

32 Ivi, pp. 129-130.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 59

organizzata, pacificata al suo interno, chiusa territorialmente e impenetrabile ai nemici. Il successivo destino di questa unità sarà poi deciso dalla guerra civile»33. Ma dov’è allora la stabilità, la sicurezza, l’ordine interno? Dove si può ravvisare la situazione normale che consente l’esistenza della norma? Dove, quando e come si esce dall’abnorme? Gli interpreti schmittiani di Schmitt34 non trovano nulla su cui interrogarsi in questa vertigine?

In realtà il principio d’ordine c’è e Schmitt lo vede, lo identifica e lo nomina. Solo che centrando coerentemente su di esso il proprio ragionamento, Schmitt dovrebbe rivedere la propria concezione della guerra stessa. Dovrebbe cioè riconoscere che esistono due forme della violenza politica, non riconducibili ad un unico principio e non in grado dunque di produrre un concetto unitario di «politico». E non si tratta tanto della dualità tra guerra esterna e guerra civile – quest’ultima è guerra a pieno titolo, e potrebbe essere condotta esattamente come lo è la guerra esterna – quanto della dualità irriducibile di figure contrapposte del nemico. Il nemico interno non è tale allo stesso titolo del nemico esterno. Il nemico esterno è un pari: è un altro Stato o comunque un’altra unità politica sovrana. Nei suoi confronti non si può vantare nessuna forma di superiorità morale, religiosa o di altro tipo. Nulla gli si può imputare di diverso da ciò che viene legittimamente fatto contro di lui. Ma il nemico interno non è un pari. Sebbene Schmitt parli di guerra civile, questa terminologia è del tutto impropria secondo la sua stessa concezione della guerra. Perché l’atto con cui si dichiara guerra in questo caso è un bando. Si tratta cioè di «forme più o meno acute, automatiche o efficaci solo in base a leggi speciali, manifeste o celate in prescrizioni generali, di bando, di proscrizione, di estromissione dalla comunità di pace, di collocazione hors la loi, in una parola di dichiarazione di ostilità interna allo Stato»35. La dichiarazione di guerra, in questo caso, è un atto di criminalizzazione. Che ha come struttura portante l’unilateralità e univocità dell’applicazione di forza, non la reciprocità bellica. È un conflitto asimmetrico: una sola delle due parti ha il potere di identificare l’altra come nemica, una sola delle due parti ha il potere di

33 Ivi, pp. 130-131. 34 Non intendo evidentemente gli specialisti di Schmitt, ma i suoi esaltatori acritici o

poco critici, che sono stati e sono ancora oggi una (piccola) legione, abbastanza equamente divisa tra «destra» e «sinistra».

35 C. Schmitt, Il concetto di «politico», cit., p. 130.

60 Verità del potere, potere della verità dichiarare la guerra, la forza non è equamente distribuita, e proprio questo squilibrio di forze è condizione imprescindibile per l’unificazione dei più forti contro il più debole. Tra pari ci si dichiara la guerra, ma solo il più forte può bandire o proscrivere il più debole, e non è probabile che si bandisca o proscriva qualcuno da cui si potrebbe effettivamente essere sconfitti. La guerra può essere vinta o persa, ma il conflitto contro il nemico interno è vinto in partenza, se no non avrebbe senso, se no sarebbe un gratuito suicidio dello Stato. La guerra civile, qui, è una maschera ideologica, ed è difficile pensare che Schmitt non ne fosse ben consapevole. Non si tratta di amico/nemico: si tratta di tutti contro uno, cioè della struttura tipica della violenza persecutoria36. E questo spiega come possa trattarsi di un procedimento di unificazione e pacificazione, cosa che la guerra civile evidentemente non sarebbe. È qui che effettivamente in Schmitt appare il Leviatano: non come sovrano hobbesiano che garantisce l’ordine con un’equa e legale applicazione di violenza e paura distribuita tra tutti i sudditi, ma come meccanismo di consenso che unifica e orienta i sudditi mobilitandoli contro un nemico che non può vincere.

A questo punto, è chiaro qual è la forma del «politico» che viene definita dalle categorie schmittiane, tra i due poli della guerra e della persecuzione. Non certo lo Stato di diritto, non certo la democrazia, ma neppure lo Stato assoluto di ispirazione hobbesiana. Si tratta inequivocabilmente dello Stato totalitario. Esattamente come c’era già in Italia e in Russia37, esattamente come di lì a pochi mesi ci sarebbe stato in Germania. Non si può certo banalizzare un pensatore della statura di Schmitt facendone semplicemente un nazista: si può anzi dare per scontato che, nonostante le sue dirette compromissioni col regime, non lo sia stato mai. Ma non si può per questo non vedere che

36 Cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, trad. it. di O. Fatica ed E. Czerkl, Adelphi, Milano

19862, pp. 113-22. Sulla funzione ordinatrice della violenza persecutoria in Girard, rinvio al mio Dal conflitto dei doppi alla trascendenza giudiziaria. Il problema politico e giuridico in René Girard, in L. Alfieri, C. M. Bellei, D. S. Scalzo, Figure e simboli dell’ordine violento. Percorsi fra antropologia e filosofia politica, Giappichelli, Torino 2003, pp. 17-51.

37 Non è un caso che Schmitt difenda, contro il liberalismo, la natura politica (precisamente nel suo senso) del socialismo e dello Stato socialista: cfr. C. Schmitt, Il concetto di «politico», cit., pp. 120-121 e 160-161. Con questo non si vuole negare che la polemica schmittiana contro il liberalismo abbia delle ottime ragioni: cfr. specialmente ivi, pp. 132-133.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 61

le condizioni di pensabilità del nazismo sotto lo specifico profilo politico-giuridico siano state fissate da Schmitt più nettamente che da ogni altro: e coincidono esattamente col suo concetto di «politico».

3. Elias Canetti utilizza materiale concettuale molto simile a quello

di Schmitt – e probabilmente non per caso38 – ma con esiti nettamente contrapposti. Ciò che può rendere interessante e non gratuito l’accostamento di due autori così complessivamente lontani, è che Canetti sembra effettivamente risolvere alcuni problemi che in Schmitt rimangono prigionieri di tensioni aporetiche.

Anzitutto, Canetti sa dare un nome a quell’«estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione»39 che Schmitt riferisce costantemente al «politico» senza però riuscire a coglierlo nella sua specificità: lo chiama massa.

Fenomeno enigmatico quanto universale è la massa

che d’improvviso c’è là dove prima non c’era nulla. Potevano trovarsi insieme poche persone, cinque o dieci o dodici, non di più. Nulla si preannunciava, nulla era atteso. D’improvviso, tutto nereggia di gente. Da ogni parte affluiscono altri; sembra che le strade abbiano una sola direzione. Molti non sanno cos’è accaduto, non sanno rispondere nulla alle domande; hanno fretta, però, di trovarsi là dove si trova la maggioranza. Nel loro movimento c’è una determinazione che ben si distingue da un’espressione di semplice curiosità. Si direbbe che il movimento degli uni si comunichi agli altri, ma non si

38 Schmitt non compare nella pur vastissima bibliografia di Massa e potere, ma

quest’assenza non è indicativa di una mancata conoscenza: è più probabile che, come in altre assenze clamorose, soprattutto quella di Freud, vi si debba leggere un rifiuto polemico. Le assonanze concettuali sono talmente prossime che penso si debba dar per scontata una conoscenza, per quanto parziale o indiretta, dell’opera di Schmitt da parte di Canetti. Oltre agli spunti analizzati in questo saggio, ritengo da segnalare anche il valore simbolico-identitario che Canetti attribuisce al mare in riferimento all’Inghilterra, con una movenza di pensiero che sembra difficile non mettere in rapporto alla visione schmittiana del conflitto fra le potenze «terragne» – l’ Orso – e quelle «marittime» – la Balena. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, trad. it. di F. Jesi, Adelphi, Milano 1981, pp. 204-205; C. Schmitt, Terra e mare. Una considerazione sulla storia del mondo, a cura di A. Bolaffi, Giuffrè, Milano 1986, specialmente pp. 71-78; C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, trad. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, specialmente pp. 214-224.

39 C. Schmitt, Il concetto di «politico», cit., p. 109.

62 Verità del potere, potere della verità

tratta solo di questo: tutti hanno una meta. La meta esiste prima che le abbiano trovato un nome ed è là dove il nero è più nero – il luogo dove la maggioranza si è radunata40.

Pur essendo il fondamento di ogni forma di raggruppamento umano, e perciò anche della politica, quella di massa non è in Canetti una nozione che abbia una valenza politica immediata. Essa raggiunge anzi profondità esistenziali tali da essere prossima alla dimensione della vita in quanto tale. Lungi dall’essere un fenomeno moderno, legato all’industrializzazione e alle metropoli, la massa è per Canetti un fenomeno perenne, antico quanto l’uomo, anzi in alcune sue forme – la massa aizzata e la massa in fuga – più antico dell’uomo stesso, radicato nel mondo animale41. A caratterizzare la massa nella sua forma originaria, cioè la massa aperta o naturale, è l’estremo senso di sicurezza e unità che si realizza cercando rifugio gli uni negli altri, nella pluralità indistinta che tutti accomuna: un’esperienza che Canetti definisce come «capovolgimento del timore di essere toccati»42. E questo radunarsi securizzante trova il suo culmine in quella completa fusione emotiva che viene denominata scarica [Entladung], che nell’istante senza durata in cui trova la massima intensità realizza pienamente quel profondo senso di uguaglianza nel superamento di tutte le distanze sociali che è la vera ragion d’essere della massa aperta.

All’istante della scarica i componenti della massa si

liberano delle loro differenze e si sentono uguali. In particolare, dobbiamo intendere le differenze

imposte dal di fuori: differenze di rango, di condizione, di proprietà. Gli uomini, in quanto singoli, sono sempre coscienti di queste differenze, che pesano su di loro e li spingono con forza a staccarsi gli uni dagli altri. Ciascun uomo ha un suo posto preciso nel quale si sente sicuro, e con i gesti esprime efficacemente il suo diritto di tener lontano da sé tutto ciò che gli si avvicina. Egli sta come un

40 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 19. 41 Cfr. ivi, pp. 58-65. Per una più completa trattazione della massa «aperta» in Canetti,

anche in rapporto alla sua origine animale, rinvio al mio saggio La morte felice. Osservazioni sulla dinamica della massa aperta, in L. Alfieri e A. De Simone (a cura di), Leggere Canetti. «Massa e potere» cinquant’anni dopo, Morlacchi, Perugia 2011, pp. 115-148.

42 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 17-19. Su questo concetto fondativo di tutto il discorso canettiano sulla massa, cfr. L. Alfieri, La morte felice, cit., pp. 115-122.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 63

mulino a vento in un’immensa pianura, pieno d’espressione e mobile: non c’è nulla fino al prossimo mulino. La vita intera, come egli la conosce, è impostata su distanze; la casa in cui egli rinserra se stesso e la sua proprietà, l’incarico che riveste, il rango cui aspira – tutti servono a creare, consolidare, ingrandire distacchi. […]

Solo tutti insieme gli uomini possono liberarsi dalle loro distanze. È precisamente ciò che avviene nella massa. Nella scarica si gettano le divisioni e tutti si sentono uguali. In quella densità, in cui i corpi si accalcano e fra essi quasi non c’è spazio, ciascuno è vicino all’altro come a se stesso. Enorme è il sollievo che ne deriva. È in virtù di questo istante di felicità, in cui nessuno è di più, nessuno è meglio di un altro, che gli uomini diventano massa43.

Si comprende bene perché qui non siamo ancora nell’ambito del

politico. Il concetto canettiano di massa aperta esprime precisamente l’unica forma del sociale in cui non vi siano distanze e gerarchie, quindi neppure potere, quindi neppure legge, quindi neppure applicazioni istituzionali di violenza. Non per questo si tratta di un concetto irenico o di una felice utopia: è precisamente la paura universale, il «timore di essere toccati» a spingere verso la massa come in una fuga, la massa può – anche se non necessariamente deve – esercitare forme estreme di violenza contro chiunque sembri portare in sé anche un vago sentore dell’esterno minaccioso da cui si cerca rifugio gli uni negli altri, e Canetti non tace né sull’impulso di distruzione né sul senso di persecuzione della massa44. Ma c’è una ragione fondamentale per cui in Canetti, con una movenza molto hobbesiana45, la massa naturale è una sorta di status naturae da cui

43 E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 20-22. 44 Cfr. ivi, pp. 22-24 e 27-28. 45 Per un celebre elogio che Canetti rivolge a Hobbes, misurando però accuratamente la

propria distanza da lui, cfr. E. Canetti, La provincia dell’uomo, trad. it. di F. Jesi, Adelphi, Milano 1978, p. 158. Da questo brano Roberto Esposito prende le mosse per la sua intelligente interpretazione di Hobbes: cfr. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, pp. 3-5. Il rapporto tra massa aperta e massa chiusa in Canetti non è comunque sovrapponibile a quello tra status naturae e status civitatis in Hobbes. La differenza non è tra bellum e pace sotto l’autorità del sovrano, ma tra scarica e durata; e soprattutto non c’è nessuna superiorità razionale o morale della massa chiusa sulla massa aperta, anzi la massa chiusa è una massa depotenziata e in qualche modo mancata, che può però ritornare alla piena espansività della massa aperta tramite il fenomeno dello scoppio

64 Verità del potere, potere della verità exeundum est. Non è però una ragione hobbesiana: non c’è nessun bellum all’interno della massa, non ci sono conflitti tra individui perché non ci sono individui, la massa respinge la violenza e la paura fuori di sé e preme con tutta la propria forza contro questo margine esterno, come in uno sforzo disperato ma tutt’altro che impotente di forzare fino l’ultima barriera, quella stessa della morte. Semplicemente, questo sforzo non può durare. La massa sorge per caso, non ha nessun controllo sulle sue condizioni di esistenza, è legata ad uno stato di intensa compenetrazione emotiva che è destinato a cedere presto di fronte alle necessarie esigenze differenziatrici legate alla stessa sopravvivenza individuale. Ben presto ognuno deve tornare in se stesso, a casa sua, nel suo rango e nel suo ruolo, nella sua solitudine perennemente minacciata46. Ma dalla massa aperta si può uscire anche verso un’altra direzione, appunto hobbesianamente: dalla massa naturale verso la massa artificiale, o meglio istituzionale. La massa che non ha più la scarica e l’uguaglianza, ma acquista in compenso capacità di durare, che diviene un aggregato capace di resistere alle periodiche inevitabili ricadute nelle solitudini individuali, ed anche alle morti individuali dei suoi componenti. La massa che ora diviene appunto entità politico-giuridica, al cui interno si creano forme di potere condiviso, leggi, prescrizioni, orientamenti programmati dell’azione collettiva. La massa che diviene istituzione: la massa chiusa.

La massa chiusa rinuncia alla crescita e si preoccupa soprattutto della durata. Di essa spicca innanzitutto il confine. La massa chiusa si insedia. Nell’atto in cui si confina, crea la propria sede; lo spazio che riempirà le è stato assegnato, e può paragonarsi a un vaso in cui si versa del liquido e di cui si conosce la capienza. Gli accessi a tale spazio sono contati; non vi si può penetrare in un modo qualunque. Il confine viene rispettato: può essere di pietra, di solida muraglia. Forse è necessaria una cerimonia particolare per essere accolti; forse bisogna versare una certa tassa d’ingresso. Quando lo spazio è stato sufficientemente riempito, non può più entrare nessuno. […]

Il confine impedisce un incremento sregolato, ma in

[Ausbruch]. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 24-27.

46 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 22.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 65

compenso ostacola e ritarda il deflusso. La massa guadagna in durata ciò che sacrifica in possibilità di crescita. Essa è difesa da influenze esterne che potrebbero esserle ostili e pericolose. In particolare però essa conta sulla ripetizione. È sempre nella prospettiva di ricostituirsi che la massa accetta, illudendosi, la propria dispersione. L’edificio la aspetta, è lì per lei, e fintanto che esiste i componenti della massa vi si raduneranno come sempre. Lo spazio appartiene loro anche quando subisce il riflusso e nel suo vuoto ricorda il tempo dell’alta marea47.

Due sono dunque gli elementi costitutivi della massa chiusa: il

confine e la ripetizione. Il primo è contemporaneamente un ostacolo e una garanzia: rallenta e limita allo stesso modo sia il flusso sia il riflusso. Non tutti e non sempre possono entrare nella massa: c’è un limite, una soglia. Potrà essere una barriera fisica, un muro; potrà essere una barriera politico-giuridica, la frontiera di uno Stato; potrà essere una barriera rituale, una cerimonia di ammissione o iniziazione; potrà essere una barriera amministrativa, l’accertamento da parte di un’autorità di determinati requisiti; potrà essere una barriera economica, un biglietto d’ingresso da pagare. In tutti i casi, c’è un punto preciso in cui termina il fuori e inizia il dentro, un controllore che si colloca sul limite e custodisce il passaggio ed una procedura istituzionalizzata che regola il superamento del confine. La massa non potrà crescere velocemente e indiscriminatamente, quindi non potrà raggiungere la soglia critica della scarica, ma in compenso anche la sua disgregazione viene controllata e limitata. Anche per uscire ci saranno controlli o cerimonie, in qualche caso uscire potrà essere più difficile che entrare o sarà addirittura proibito, praticamente sempre l’uscita sarà comunque parziale, temperata da una sorta di obbligo-promessa: si esce, ma per ritornare, si esce, ma il luogo fisico o simbolico dell’adunanza c’è sempre e si continua ad appartenervi, si mantiene una presenza virtuale al suo interno. Tutti coloro che vi hanno titolo potranno/dovranno ritornarvi indefinitamente, certe appartenenze, «spirituali» o ereditarie, potranno addirittura essere eterne. L’aver varcato una volta la soglia per entrare lascia qualcosa addosso, come una sorta di cambiamento di natura: appunto il diritto-promessa del ritorno, della ripetizione. Si ritorna a casa propria, ma in attesa. Si sarà

47 Ivi, p. 20.

66 Verità del potere, potere della verità riconvocati, l’alta marea tornerà, si riempirà di nuovo il luogo destinato, verrà il tempo di celebrare nuovamente l’unione. Si torna a casa, ma la massa è per sempre.

Questa però, dice Canetti, è un’illusione. Con la promessa del ritorno, la massa accetta di disperdersi, si fa artefice della propria dissoluzione, e quando si riunirà non otterrà che una nuova dissoluzione, con la promessa di riunirsi per dissolversi di nuovo. Per questo la durata della massa chiusa, che pure può essere millenaria, si accompagna sempre ad una dimensione di debolezza e delusione, come ad un eterno non ancora. E per questo occorre un puntello esterno del limite che gli dia forza e faccia crescere il livello energetico dell’esservi dentro, incrementando il senso dell’appartenenza e il significato dell’appartenere. Ed è precisamente qui che in Canetti riappare Schmitt:

[…] la massa non si sente mai sazia. […] C’è una

qualche impotenza nel suo sforzo di durare. A questo fine, l’unica via promettente è la formazione di doppie masse: processo, in cui l’una massa si commisura sull’altra. Quanto più sono vicine in forza e intensità, ambedue commisurandosi durano in vita48.

Per la comprensione di questo passaggio decisivo, è importante considerare che la dimensione della massa doppia è una conseguenza del tutto coerente della struttura stessa della massa chiusa. È cioè una conseguenza del suo confinarsi. Il confine genera un dentro e un fuori. Anche per la massa aperta c’è un fuori, ma è diverso, perché non c’è confine. C’è solo una provvisoria incompiutezza: non si è ancora esaurito il processo che, se potesse durare indefinitamente e non fosse contrastato dall’indebolimento della coesione interna della massa che è prodotto dalla sua stessa espansione e termina necessariamente con la disgregazione completa, porterebbe alla massa assoluta e universale che ingloba tutti49. Per la massa aperta, l’impossibilità di inondare totalmente il fuori segna il suo fallimento; per la massa chiusa, la

48 Ivi, pp. 26-27. 49 Questa sorta di irrealizzabile utopia della massa aperta può trovare espressione solo

in proiezioni simboliche, soprattutto quella del mare, che racchiude in sé qualunque cosa vi cada o vi confluisca senza subire mai alcun detrimento e senza incontrare alcun rischio di dissoluzione. Cfr. ivi, pp. 96-98.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 67

definitività di un fuori rispetto al quale chiudersi è condizione di esistenza. Non c’è chiusura senza confine: la massa chiusa è fondata dal proprio confine. Che è ambiguo, perché la definisce, ma per ciò stesso la nega, è la sua condizione di possibilità, ma anche la minaccia che su di essa continuamente incombe. E il confine è anche doppio, perché non c’è solo quello che divide chi appartiene alla massa e chi non vi appartiene: c’è anche un confine che taglia trasversalmente l’appartenenza alla massa, anzi ogni singolo appartenente ad essa, ed è precisamente l’impossibilità di appartenere totalmente, di essere esauriti dall’appartenenza. C’è sempre un’irriducibilità dell’io al noi, c’è sempre un punto di fuga dalla massa verso l’individualità singolare e irrelata. Al di là del confine esterno c’è il nemico, almeno potenziale; al di là del confine interno, e perciò dentro la massa, c’è la peggiore delle minacce, il potenziale traditore che ognuno è. La minaccia esterna rafforza, la minaccia interna è quella realmente pericolosa, da cui la massa è presto o tardi disgregata.

L’aggressione esterna alla massa può solo renderla più

forte. […] L’aggressione dall’interno, invece, è veramente pericolosa. […] L’aggressione dall’interno si appella a voglie individuali. Essa è considerata dalla massa un ricatto, un’azione «immorale», poiché contrasta con la sua convinzione di fondo chiara e pulita. Chiunque appartiene a tale massa porta in sé un piccolo traditore, che vuole mangiare, bere, amare e starsene tranquillo. […] La massa è sempre una sorta di fortezza assediata, ma assediata in senso duplice: essa ha il nemico dinanzi alle mura, e ha il nemico in cantina50.

Qui la dimensione schmittiana è evidente. Come il politico in

Schmitt, la massa chiusa esiste in una costante tensione conflittuale verso un esterno almeno potenzialmente ostile, e in una costante mobilitazione contro i fattori di dissoluzione interni. Nemico esterno e nemico interno dunque? Decisione circa la guerra esterna o decisione circa la guerra civile? Senza dubbio tutto questo è presente in Canetti, ma, a differenza che in Schmitt, in cui la conflittualità è esaustiva del politico, nella massa chiusa canettiana si tratta di un caso particolare, estremo e finale di un fenomeno più generale. La

50 Ivi, pp. 27-28.

68 Verità del potere, potere della verità contrapposizione fondamentale non è amico/nemico, ma uguale/diverso, interno/esterno, noi/loro. A far funzionare il sistema è la differenza, non la guerra, sebbene anche in Canetti la differenza possa generare guerra (o persecuzione). Quella che conta è la solidità del confine, da intendere soprattutto come capacità di generare identità e senso. È quando la differenza dentro cui cerchiamo di chiuderci non è abbastanza chiara, quando non è capace di dirci chi siamo e dove stiamo andando, quando la promessa della ripetizione è diventata stanca routine e cominciamo a sentirci delusi dalla nostra appartenenza di massa, che una forte pressione esterna sul confine, reale o immaginaria che sia, riesce a dare nuova vitalità e nuova durata alla nostra identità collettiva. Per questo la massa doppia è la forma più chiusa della massa chiusa, in cui le due componenti ostili tra loro si tengono in vita a vicenda.

4. È importante considerare che una massa doppia non è la stessa cosa di due masse. Si tratta piuttosto di una massa sola divisa in due, o, come anche afferma Canetti, di due masse che costituiscono però un unico sistema51. La contrapposizione più o meno ostile è anche, anzi è fondamentalmente, una complementarità. Il premere dell’una massa sull’altra raddoppia il confine, lo consolida per entrambe, è un reciproco dono di durata. Anzi, è il vero e proprio conferimento di identità dell’una all’altra. Ciascuna massa dice all’altra, presentandosi come elemento di contrasto, che cosa ciascuna massa è. L’una è condizione dell’altra: condizione di esistenza e condizione di pensabilità. Senza una massa, l’altra non potrebbe neppure essere nominata. Uomini e donne, vivi e morti, amici e nemici52. Amici e nemici sono un caso di massa doppia, certamente importante, ma non unico. Potremmo dire che sono la variante ostile della complementarità. Tenendo conto che anche dove la complementarità è più forte – uomini e donne – non manca la tensione ostile53, così come d’altra parte neppure la radicale ostilità della guerra esclude la complementarità.

51 Cfr. ivi, pp. 75-76. 52 Cfr. ivi, pp. 75-87. 53 Cfr. ivi, pp. 76-78.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 69

Per la massa la più sicura e spesso la sola possibilità di conservarsi consiste nell’esistenza di una seconda massa cui riferirsi. Può darsi che si affrontino e si misurino nel gioco; può darsi che si minaccino gravemente l’un l’altra; l’aspetto o l’immagine intensa di una seconda massa non permettono alla prima di disgregarsi. Mentre in una schiera le gambe stanno accostate alle gambe, gli occhi fissano altri occhi di fronte. Mentre le braccia si muovono in cadenza comune, le orecchie si tendono in attesa del grido che giungerà dalla schiera opposta. […] Tutto ciò che fanno gli uni è condizionato dall’azione o dall’intenzione degli altri. L’opposizione incide sulla contiguità. Il confronto che provoca in ambedue una particolare attenzione modifica il tipo di concentrazione all’interno di ciascun gruppo. Per un gruppo è necessario restare insieme finché i membri del secondo gruppo non si siano separati gli uni dagli altri. La tensione fra i due gruppi determina una pressione sulla propria gente. […]

L’una massa tiene in vita l’altra […]54.

Amico/nemico. Freund und Feind55. È esattamente la dicotomia schmittiana, ed è difficile dubitare che derivi proprio da Schmitt. Come pure schmittiano è il punto centrale nella concezione canettiana della guerra: niente metafore, niente idealismi edulcoranti, tutta la concretezza possibile, il più spietato realismo nella delineazione della violenza radicale. «In guerra si tratta di uccidere»56, proprio come in Schmitt. Però l’assonanza è meno decisiva di quel che sembrerebbe, il contesto è completamente diverso. Per Schmitt, la guerra è l’essenza del politico, ed è dunque il momento per eccellenza istituzionale, quello dell’unificazione di tutte le forze sociali sotto un’unica guida e in vista di un unico scopo, il momento in cui trionfa la sovranità, l’apoteosi non molto hobbesiana del Leviatano. In Canetti si tratta sempre di massa, e se è vero che la massa chiusa è la forma istituzionale della massa, come Canetti la definisce esplicitamente57,

54 Ivi, p. 75. 55 Cfr. ivi, p. 76. Per il testo tedesco, cfr. E. Canetti, Masse und Macht, Carl Hanser Verlag,

München-Wien, s. a. (ma 1994, rist. 2010), p. 72. Si tratta del vol. III dei Werke. Da notare che Jesi traduce al plurale («amici e nemici»), ma Canetti usa il singolare, esattamente come Schmitt.

56 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 80. 57 Cfr. ivi, pp. 24-25.

70 Verità del potere, potere della verità quindi ha natura politico-giuridica, sebbene Canetti si tenga accuratamente lontano dall’utilizzazione esplicita di queste categorie58, è anche vero però che la massa doppia della guerra è una massa scoppiata, esplosa, cioè tornata da chiusa aperta59. Quindi la guerra come tale non appartiene in Canetti al «politico» – alla chiusura istituzionale della massa – ma al prepolitico/impolitico, all’immediatezza esistenziale della vita minacciata dalla morte.

La minaccia consiste nel fatto che qualcuno si riconosca il diritto di uccidere. Ogni individuo di un gruppo sottostà alla medesima minaccia; rivolgendosi contro ognuno, la minaccia rende tutti uguali. Da un determinato momento che è lo stesso per tutti, e cioè dall’istante della dichiarazione di guerra, la medesima cosa può accadere a ognuno. L’annientamento fisico, contro il quale si è altrimenti difesi dalla vita nella propria società, si fa vicinissimo proprio a causa di quella società, dell’appartenenza a essa. Su tutti coloro che costituiscono un determinato popolo sembra quasi pendere la più terribile delle minacce. Migliaia di persone, a ciascuna delle quali è stato detto nel medesimo istante: «Tu dovrai morire», si riuniscono fra loro per allontanare il pericolo di morte. Esse cercano di attrarre rapidamente tutti coloro che potrebbero cadere sotto la medesima minaccia; si radunano in grandi concentrazioni e, per la difesa, si sottomettono a una direzione comune delle operazioni60.

In Canetti sono distinti, e persino contrapposti, due momenti che

in Schmitt costituiscono invece un continuum. Per Schmitt, appartengono a pari titolo al «politico» tanto la guerra effettivamente combattuta quanto la guerra virtuale, in quanto oggetto di una decisione estrema e perciò sovrana che potrebbe essere benissimo quella di non farla. Per Canetti, la guerra effettivamente combattuta e quella meramente virtuale, a cui ci si prepara e su cui si decide in una condizione che è ancora quella di pace, sono due fenomeni diversi. Due nazioni tradizionalmente ostili la cui politica consiste nel

58 In Massa e potere appaiono pochissime volte il sostantivo «politica» o l’aggettivo

«politico»; non si parla quasi mai di «diritto» e di «giuridico». 59 Cfr. ivi, p. 26 e p. 86. 60 Ivi, p. 86.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 71

prevenire l’una le minacce dell’altra tenendosi costantemente pronte alla guerra sono senza dubbio una massa doppia amico/nemico perfettamente schmittiana, ma non sono ancora la guerra. La loro costante preparazione alla guerra, che in quanto tale è però ancora al di qua della guerra, ha una precisa manifestazione istituzionale: gli eserciti. E gli eserciti non sono masse, sono «cristalli di massa»61: strutture chiuse, rigidamente gerarchiche e perciò individualizzanti, lunghe catene di comando in cui ogni anello sta dietro un altro e prima di un altro, in un posto preciso che è solo suo e acquista senso e vitalità precisamente quando il comando lo raggiunge62. Paradossalmente, dunque, in Canetti non sono gli eserciti a fare la guerra. Gli eserciti sono il catalizzatore che in caso di guerra unifica, consolida e indirizza quelle masse chiuse che sono le nazioni63, portandole ad un grado di intensità che sconfina nella massa aperta. Sono due masse nazionali a combattersi, non semplicemente due eserciti, ma appunto nel combattersi le due masse chiuse «scoppiano» insieme, fino a costituire un’unica cruenta massa:

Lo scoppio di una guerra è innanzitutto lo scoppio di due masse. Una volta costituita, ciascuna di tali masse si preoccupa essenzialmente di durare nell’atteggiamento e nell’azione, il cui abbandono significherebbe una rinuncia alla vita stessa. La massa bellica agisce sempre come se tutto all’esterno di essa fosse morte […]64.

All’esterno della massa bellica tutto è morte, in un duplice senso: i

nemici che assalgono e minacciano incarnano il rischio imminente di essere uccisi, e nello stesso tempo rappresentano dei morti potenziali, sono coloro che bisognerà uccidere per non esserne uccisi, che bisognerà uccidere prima di esserne uccisi. Ciascun combattente è per il suo nemico un vivo che dovrebbe essere morto per non morire al suo posto, e in questo modo tutto si confonde in un unico amalgama di provvisoriamente vivi che sono potenzialmente morti:

61 Cfr. ivi, pp. 88-90. 62 Specificamente sull’esercito, cfr. ivi, pp. 380-382. Non posso approfondire qui il pur

decisivo tema del comando: debbo rinviare al mio La morte felice, cit., pp. 122-139. 63 Sulle nazioni come masse chiuse (in una maniera peculiare che richiederebbe un

lungo discorso, e che Canetti assimila alle religioni), cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 201-204.

64 Ivi, p. 86.

72 Verità del potere, potere della verità

Se si considerano insieme ambedue le parti

combattenti, la guerra offre l’immagine di due masse doppiamente intrecciate. L’esercito più grande possibile tende a determinare il più grande gruppo possibile di nemici morti. Esattamente lo stesso si può dire per la parte opposta. L’intreccio deriva dal fatto che ogni partecipante a una guerra appartiene sempre, simultaneamente, a due masse: per la propria gente, egli appartiene al numero dei guerrieri viventi, per l’avversario al numero dei morti potenziali e augurabili65.

In Canetti si scindono i due momenti, esistenziale e politico, che in

Schmitt sono invece in continuità, anzi coincidenti. Decidere la guerra o preparare la guerra è atto politico, avviene all’interno della massa chiusa, istituzionale. Fare la guerra è atto esistenziale, impolitico: avviene entro una peculiare massa aperta, doppiamente intrecciata, in cui è questione del confronto con la morte e dello sforzo di non morire, a spese di qualcun altro66. La decisione politica di fare la guerra è la decisione di uscire dalla politica, di lasciarsi risucchiare da una dimensione profonda e terribile che ha tutte le connotazioni del bellum hobbesiano – a cominciare dall’impoliticità – tranne una: non ha a che fare con gli individui. Nel rinviarsi l’un l’altro la morte, ognuno rifiuta la propria individualità tanto quanto quella dell’altro, precisamente perché rifugge dall’essenza dell’individualità, il guardare in faccia, da soli, la propria morte.

La morte, da cui in verità ciascuno è sempre minacciato, dev’essere proclamata come condanna collettiva perché ci si possa opporre ad essa attivamente. Ci sono, per così dire, dichiarati tempi di morte durante i quali la morte si volge verso un intero gruppo determinato, scelto arbitrariamente. «Ora si va contro tutti i francesi», oppure «Ora si va contro tutti i tedeschi». L’entusiasmo con cui gli uomini accolgono una dichiarazione di tal fatta, ha la sua radice nella vigliaccheria del singolo dinanzi alla morte. Da solo, nessuno vorrebbe guardarla in faccia. È già più facile

65 Ivi, pp. 84-85. 66 Sulla reciproca irriducibilità dei due momenti, cfr. L. Alfieri, La stanchezza di Marte,

cit., pp. 93-96 e 103-106.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 73

in due, quando due nemici eseguono per così dire la reciproca condanna; e non è più affatto la medesima morte quando migliaia la affrontano insieme. Il peggio che possa capitare agli uomini in guerra – e cioè morire insieme –, risparmia loro la morte individuale che essi temono più di tutto67.

In questa dimensione esistenziale profonda, la massa e il potere

vengono a coincidere proprio nella loro impoliticità più radicale. Nel senso specificamente canettiano, infatti, il potere non è decisione, comando, capacità normativa, guida politica, ma sopravvivenza.

L’istante del sopravvivere [Überleben] è l’istante della potenza. Il terrore suscitato dalla vista di un morto si risolve poi in soddisfazione, poiché chi guarda non è lui stesso il morto. Il morto giace, il sopravvissuto gli sta ritto dinanzi, quasi si fosse combattuta una battaglia e il morto fosse stato ucciso dal sopravvissuto. Nell’atto di sopravvivere l’uno è nemico dell’altro; e ogni dolore è poca cosa se lo si confronta con questo elementare trionfo68.

Il fatto che la guerra metta a disposizione di chiunque, in una

situazione di piena uguaglianza, la sostanza stessa del potere, è probabilmente ragione non ultima dell’incredibile facilità con cui la guerra ottiene consenso, della sua intensissima seduttività69. Nella morte dell’altro – di cui non si è comunque considerati colpevoli neppure quando la si è direttamente provocata, trattandosi di una morte «buona», innocente – si riceve indietro per un attimo la propria individualità, rafforzata, legittimata, consolidata dalla beata sensazione di unicità invulnerabile che è la gioia del sopravvivere, pronta per essere giocata sino in fondo subito dopo, nuovamente dissolta nella massa cruenta per affondare tra i morti o riemergere ancora, trionfante, in una nuova realizzazione di potere70. E a segnare l’impoliticità di questo momento, vale soprattutto la considerazione che si sopravvive a tutti i morti, non solo a quelli nemici. Anche la morte dei propri

67 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 86-87. 68 Ivi, p. 273. Per il testo tedesco, cfr. E. Canetti, Masse und Macht, cit., p. 267. 69 Sul punto, rinvio ancora al mio La stanchezza di Marte, cit., p. 106. 70 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 273-275.

74 Verità del potere, potere della verità compagni è una vittoria, per quanto dolorosa:

Di fronte a questi mucchi di caduti, il sopravvissuto è

il privilegiato, il favorito dalla sorte. È portentoso che egli conservi la sua vita, mentre altri che un istante prima erano con lui l’hanno perduta. I morti giacciono inermi; egli si erge fra di essi, e pare quasi che la battaglia sia stata combattuta affinché egli sopravvivesse. Ha stornato da sé, sugli altri, la morte. Non che egli abbia sfuggito il pericolo. In mezzo ai suoi compagni, egli ha affrontato la morte. Essi sono caduti. Egli vive e trionfa.

Chiunque sia stato in guerra conosce questa sensazione di superiorità sui morti. Magari può essere mascherata sotto l’afflizione per i compagni caduti; ma i compagni sono pochi, i morti sempre molti. La sensazione di forza che scaturisce dal sopravvivere è fondamentalmente più forte di ogni afflizione: è la sensazione di essere eletti fra molti che hanno un comune destino71.

È in questo modo, dunque, che Canetti scioglie la contraddizione

da lui stesso notata, che poi è il paradosso fondamentale di tutta la concezione moderna, post-hobbesiana, della politica. Si fa parte di una società per cercarvi sicurezza, ma proprio quest’appartenenza espone a un rischio più grande, quello di essere uccisi soltanto per quest’appartenenza72. Lo stesso principio fonda l’ordine e il disordine, la ricerca della sicurezza è quanto di più insicuro vi sia. Canetti distingue i due momenti, secondo una logica certo assai più hobbesiana che schmittiana. Il bellum è impolitico, l’ordine politico, finché esiste, esclude la guerra. Non l’eventualità della guerra, non la preparazione della guerra, neppure la decisione circa la guerra: il normale rapporto fra le nazioni è una massa doppia amico/nemico perfettamente schmittiana. Ma la guerra fonda l’ordine in quanto eventualità, in potenza e non in atto. Finché funge da confine fra due masse che ne determina la reciproca chiusura, e quindi conferisce solidità e durata. Quando scoppia, le masse scoppiano con lei e si intrecciano insieme in un’unica, cruenta massa aperta, in cui tutti, amici e nemici, collaborano alacremente ad uno stesso compito, la

71 Ivi, p. 274. 72 Cfr. supra, p. 70 e nota 60.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 75

produzione di morti e di sopravvissuti in una piena, perfetta condivisione di potere. La guerra dunque non è il politico, ma il suo limite e il suo scacco, l’ennesimo fallimento della massa chiusa, la rivelazione della sua intrinseca fragilità. E certo l’universo dell’impolitico è molto più forte, radicato, esistenzialmente «autentico» rispetto a quello del politico, che è un debole, deludente e provvisorio tentativo di uscirne senza potersene mai lasciare alle spalle il nucleo esistenzialmente dolente e rovente, l’inaccettabilità del dover morire. Però il politico canettiano, ben differentemente da quello schmittiano, non ingloba la guerra, non coincide con la guerra, non si risolve nella legittimazione sostanzialmente incondizionata73 della guerra. Dalla guerra non si separa mai, ma la tiene al limite, la confina nel proprio confine, e se il confine viene meno, anche il politico scompare. La guerra – non solo quella civile – nell’ottica canettiana è la morte del «Dio mortale» di Hobbes.

5. Lo conferma, con eleganza geometrica, l’unica trattazione specifica che Canetti riservi alla dimensione interna della politica, il paragrafo di Massa e potere dedicato al sistema parlamentare74. Per Schmitt, come si è visto sopra, neppure la politica interna di uno Stato può prescindere dalla guerra: o è guerra civile o non è politica, col paradosso inevitabile che l’ordine – la sovranità stessa – esiste soltanto nel suo mettersi in gioco, solo nel rischio estremo e mortale. Canetti è perfettamente d’accordo: anche la politica interna è guerra e nient’altro che guerra. Però, appunto, quella forma della guerra che riesce a restare al di qua della violenza, ancora all’interno della massa chiusa, senza provocarne lo scoppio, che sarebbe la fine della massa chiusa e perciò anche del «politico». Anzi, proprio la politica interna, nell’epoca moderna, offre una preziosa, inedita possibilità. La guerra non ha bisogno di restare virtuale, può accadere, anzi deve farlo: l’essenza del sistema parlamentare consiste precisamente in una guerra senza fine, che è del tutto compatibile con l’ordine istituzionale, anzi ne assicura direttamente la durata. Non occorre in questo caso confinare la guerra al limite della massa doppia: la guerra anzi viene al

73 Solo formalmente condizionata quindi, come è chiarissimo in Schmitt. 74 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 224-227. Nelle pagine che seguono sono

largamente debitore del bel saggio di R. Escobar, Decidere senza uccidere, in L. Alfieri e A. De Simone (a cura di), Leggere Canetti. «Massa e potere» cinquant’anni dopo, cit., pp. 97-114.

76 Verità del potere, potere della verità centro, è il perno intorno a cui ruota il sistema. È sufficiente – ma è anche essenziale alla sopravvivenza del sistema – che venga confinata la morte. Il sistema parlamentare è una guerra senza morti75. Non per questo – e sembrerebbe che Canetti voglia prevenire precisamente un’obiezione di tipo schmittiano – è una guerra per modo di dire, puramente metaforica. È una guerra a pieno titolo, che dispiega sino in fondo la sua logica specifica, tranne in un unico punto, però essenziale: non si tratta più di uccidere. Ma precisamente questo fa della democrazia parlamentare la forma «perfetta» della guerra civile: quella a cui ci si può abbandonare in piena tranquillità di coscienza, a cui si può consentire senza avvertire alcun contrasto con l’appartenenza comune e senza mettere in discussione la solidità e durata della massa chiusa.

Il sistema bi-partitico del parlamento moderno si avvale della struttura psicologica di eserciti in battaglia. Questi ultimi nella guerra civile sono davvero presenti, seppure con riluttanza. Non si uccide volentieri la propria gente: un senso della stirpe agisce sempre contro le guerre civili cruente e di solito le conduce alla fine in pochi anni o ancor prima. Ma i due partiti del parlamento possono misurarsi più ampiamente. Essi combattono rinunciando ad uccidere76.

È un punto da sottolineare: il conflitto parlamentare non è una

forma attenuata, simbolica, meno autentica di guerra civile: anzi, è guerra civile pienamente dispiegata, portata sino in fondo. Forse non è così storicamente né psicologicamente vero che le guerre civili sono più brevi delle altre guerre o che in esse è più difficile e doloroso uccidere il nemico, ma senza dubbio una guerra civile troppo lunga e devastante metterebbe in serio pericolo l’unità nazionale. Nel sistema parlamentare la guerra civile può essere perenne senza che l’unità nazionale sia minimamente in questione. Né bisogna pensare che l’intensità del conflitto in questo caso sia più tenue o addirittura che

75 È il caso più importante e più specificamente studiato da Canetti, ma non è l’unico.

In conclusione della sua opera, Canetti dedica una breve riflessione a un analogo cambiamento in atto proprio nei conflitti esterni, nella guerra tra le nazioni, che tende ad assumere forme incruente ma non per questo impolitiche, come nelle competizioni sportive o nei conflitti economici. Cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 566-568.

76 Ivi, p. 264.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 77

non ci sia vero conflitto. Proprio nel momento della decisione, quello in cui si determina chi è il vincitore e chi è il vinto, la tensione è massima e giunge a una dimensione esplicita di violenza. Ma ci si trattiene al di qua dell’uccidere, e non per spirito di pace, ma perché c’è un modo più preciso e inequivocabile dell’uccidere per determinare chi è il più forte. Nella guerra cruenta può restare lungamente incerto chi abbia il sopravvento, nella guerra parlamentare non c’è nessun dubbio, basta contare i voti.

In una votazione parlamentare non c’è altro da fare

che verificare sul posto la forza di ambedue i gruppi. Non è sufficiente conoscerla a priori. Un partito può avere 360 deputati, l’altro solo 240: la votazione rimane determinante come il momento in cui davvero ci si misura. È una sopravvivenza dello scontro cruento, che si compie in molteplici modi: con la minaccia, l’oltraggio, l’eccitazione fisica, la quale può perfino spingere a picchiare o a lanciare oggetti. Ma il conteggio dei voti segna la fine della battaglia. Si deve riconoscere che 360 uomini hanno vinto su 240. La massa dei morti resta interamente fuori del gioco. All’interno del parlamento non ci devono essere morti77.

Non esiste una visione più schmittiana di questa coerente

riconduzione alla guerra del conflitto parlamentare. È da sottolineare, sotto questo profilo, che Canetti evita accuratamente di usare la parola democrazia, sebbene indubbiamente parli di una forma del «politico» a cui da secoli si attribuisce pacificamente – eventualmente con qualche riserva o qualche precisazione – appunto tale nome. Vuole evitare qualunque impressione che si parli qui di qualcosa come consenso, dialogo, deliberazione razionale. Il sistema parlamentare è uno strumento efficacissimo per la misurazione della forza, e non misura assolutamente nient’altro. In particolare, non determina affatto chi abbia ragione, precisamente come non lo fa la guerra.

Nessuno ha mai creduto davvero che l’opinione del numero maggiore in una votazione sia, per la preponderanza [Übergewicht]78 di quello, anche la più saggia. Volontà sta

77 Ivi, pp. 224-225. 78 Recepisco qui una correzione alla traduzione italiana proposta da R. Escobar, Decidere

78 Verità del potere, potere della verità

contro volontà, come in guerra; a ciascuna delle due volontà s’accompagna la convinzione del proprio maggiore diritto e della propria ragionevolezza; tale convinzione è facile da trovare, si trova da sola. La funzione di un partito consiste propriamente nel conservare vive quella volontà e quella convinzione79.

Si potrebbe forse dire che qui Canetti, grazie proprio ad una logica

rigorosamente schmittiana, risolve uno dei problemi classici della teoria democratica: perché la minoranza deve accettare di essere vincolata dalla maggioranza? Perché è la stessa cosa della guerra, risponde Canetti. Non c’è nessun bisogno del consenso del vinto per determinare chi sia il vincitore: lo determina, del tutto oggettivamente, la maggior forza di quest’ultimo. Ma non per questo il vinto deve cambiare opinione e volontà, non per questo deve dare ragione al vincitore. La vittoria non dimostra nulla al di fuori di se stessa, non è una misura di verità, di giustizia, di diritto. Il vinto non deve obbedire a nulla o consentire a nulla, semplicemente deve riconoscere che non è lui il più forte, e questo proprio non lo potrebbe negare. Ma potrà essere lui il più forte un’altra volta, perché c’è sempre un’altra volta. Anche sotto questo profilo il conflitto parlamentare è una sorta di guerra perfetta, perché non finisce mai, non ha nessun bisogno di finire. Si vincono o si perdono solo battaglie, nessuno vince o perde definitivamente la guerra, e nessuno mai ne è escluso una volta per tutte: non ci sono morti. E quindi la vittoria conferma la forza del più forte, ma non diminuisce la forza del più debole, non gli preclude nessuna prospettiva futura: lo lascia esattamente come era. Il vinto non ubbidisce al vincitore: continua semplicemente a combattere, l’unica misura di consenso che gli è strutturalmente richiesta è precisamente quella indispensabile perché la lotta continui, perché il sistema di massa doppia possa durare. Solo se uscisse dal gioco il vinto si arrenderebbe. Nel riconoscere chi è oggettivamente il più forte, il vinto rimette in discussione la vittoria dell’avversario nello stesso momento in cui la ammette. Resta intatto, invulnerabile, in un certo senso invitto. Purché non vi sia morte.

senza uccidere, cit., pp. 104-105 e n. 20.

79 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 225.

Guerra, politica e democrazia in Schmitt e Canetti 79

L’avversario, battuto nella votazione, non si rassegna affatto, poiché ora improvvisamente non crede più nel suo diritto; egli si limita piuttosto a dichiararsi sconfitto. Non gli è difficile dichiararsi sconfitto, giacché non gli accade nulla di male. In nessun modo è punito per il suo precedente atteggiamento ostile. Se davvero temesse un pericolo di vita, reagirebbe ben diversamente. Egli conta piuttosto sulle future battaglie. Al suo numero non è imposto alcun limite; nessuno dei suoi è stato ucciso80.

È chiaro però che questa vittoria della logica schmittiana la ribalta. Il «politico» può davvero coincidere con la guerra, la guerra con il «politico». Ma solo a condizione di non giungere all’estremo, alla decisione ultima. Solo a condizione che non vi sia il sovrano. Non c’è nessun sovrano nel sistema parlamentare. Certamente non lo è il “popolo”, ma neppure lo è il parlamento, ma neppure lo è la maggioranza. Nessuno decide in ultima istanza: non esiste l’ultima istanza. Non esiste neppure propriamente la decisione, se non come atto contingente che deve comunque sempre mantenersi compatibile con l’equilibrio del sistema, e non può quindi portarlo mai all’estremo. E questo consente una visione coerente del rapporto tra guerra e politica che mantiene la continuità tra la politica esterna e la politica interna. Nella politica esterna esiste la decisione estrema, appunto quella di fare la guerra, ed esiste anche il sovrano, colui che può decidere di farla. Ma questa decisione estrema è anche ultima: è la decisione di far scoppiare la massa doppia, di dissolvere il sistema precipitando nell’esistenziale prepolitico dell’uccidere e del sopravvivere (che sono esattamente la stessa cosa), in cui non esiste più il sovrano, ma solo il sopravvissuto. Nella politica interna, nell’ambito del sistema parlamentare la decisione estrema non esiste, non esiste la sovranità, perché la morte è espulsa dal sistema. La morte non serve a decidere, il sistema non ne ha bisogno; e se la morte vi tornasse dentro, il sistema crollerebbe. Per questo, osserva Canetti, l’atto di votare, il deporre la scheda nell’urna, ha un valore sacrale. Lo ha in un senso molto preciso, direi tecnico: è un rituale. Più precisamente ancora: è un rito esorcistico, il rito di espulsione della morte.

80 Ibidem.

80 Verità del potere, potere della verità

L’elettore può passare dall’una all’altra battaglia elettorale; le loro mutevoli sorti hanno per lui, se è politicamente orientato, la massima attrattiva. Ma il momento in cui egli effettivamente vota ha poi qualcosa di sacro; sacre sono le urne sigillate che contengono le schede; sacra l’operazione di conteggio.

La solennità di tutte queste operazioni deriva dalla rinuncia alla morte come strumento di decisione. Con ogni singola scheda la morte è per così dire spazzata via. Ma ciò che l’avrebbe provocata, la forza dell’avversario, è registrato scrupolosamente in un numero. Ma chi si prende gioco di quei numeri, chi li confonde, li falsifica, lascia nuovamente spazio alla morte e non se ne accorge. Entusiastici amanti della guerra, che si beffano volentieri della scheda elettorale, manifestano così solo le loro intenzioni sanguinose. Schede elettorali e trattati sono per loro unicamente miseri pezzi di carta. Che essi non siano bagnati di sangue appare loro spregevole; valgono per loro solo decisioni che esigono sangue81.

È questa, dunque, per Canetti, la condizione di esistenza del «politico» in quanto tale. Che il confine resti solido e non venga mai varcato. Che la massa chiusa non scoppi. Che la guerra venga istituzionalizzata, e perciò diventi fondamento dell’ordine e non elemento di dissoluzione del sistema. Che la morte vi resti prigioniera, confinata in una virtualità inespressa. Che non vi siano mai quelle decisioni estreme e sovrane «che esigono sangue». Che i trattati siano osservati e le schede elettorali rimangano inviolate. Che ci si trattenga al di qua dell’estremo. La logica di Hobbes – tenuto conto delle ovvie differenze di linguaggio e di contesto – non mi sembra lontana, quella di Schmitt sì, e molto. La differenza non è piccola, e mi pare non consentire neutralità. Molto schmittianamente, qui si è chiamati a una decisione. E una sola decisione mi pare possibile. Quale, a questo punto non dovrebbe essere dubbio.

81 Ivi, pp. 226-227. Appunto questa sacralità che Canetti riconosce alle operazioni elettorali mi rende difficile aderire all’interpretazione di Escobar, secondo cui quella di Canetti è una concezione squisitamente proceduralistica della democrazia: cfr. R. Escobar, Decidere senza uccidere, cit., pp. 107-108. Mi sembrerebbe piuttosto che appunto in quanto le procedure sono riti – tutt’altro che puramente simbolici e formali – di espulsione della morte, Canetti attribuisca alle procedure medesime un valore sostantivo estremamente forte. La differenza tra uccidere e non uccidere non è formale.

La democrazia e il potere della verità

Michele Nicoletti

La questione della «verità» è tornata ad intrigare la riflessione sul

politico. La sua ricomparsa sulla scena – dopo qualche tempo di messa tra parentesi – è stata legata negli ultimi tempi all’irruzione nell’orizzonte del politico di movimenti che nell’esprimere una loro posizione sui temi dell’agenda politica – con particolare riferimento alle questioni di bioetica – hanno rivendicato la necessità che le decisioni politiche fossero in qualche modo ancorate a delle verità di carattere religioso o filosofico o morale per evitare che l’individuazione del bene comune venga affidata alla semplice misurazione delle forze in campo e dunque alla ragione del più forte.

Di fronte all’ergersi di questa pretesa – che si è tradotta talvolta in aperto e fattivo intervento di autorità religiose in materia non solo di principi, ma anche di concrete scelte legislative e politiche – si è reagito rivendicando alla politica, e in special modo alla politica liberale e democratica, il suo non essere legata a questa o a quella visione del mondo e dunque la necessità di neutralizzare nello spazio politico il riferimento alla verità come elemento di pericoloso integralismo, portatore di intolleranza e di alterazione della fondamentale laicità delle istituzioni pubbliche, almeno così come concepite nel nostro ordinamento costituzionale.

Di fronte al ripresentarsi della questione della verità sulla scena politica, le preoccupazioni sono del tutto legittime e, ancor più, salutari per tutti. Il secolo scorso con i suoi regimi totalitari ci ha ben mostrato che cosa possa dire una stretta coniugazione dei due termini: ogni «regime della verità» ha ben presto prodotto un’ammorbante «verità di regime» che altro non era che costruzione ideologica e alla fine menzogna, come accade a ogni ideologia che sia disposta, per

82 Verità del potere, potere della verità affermare se stessa e il potere dei propri sostenitori, a calpestare l’essere umano, la sua dignità e il suo concreto darsi nelle persone in carne ed ossa. Ma forse proprio la riflessione sul regime della menzogna può essere un buon punto di partenza per individuare qualche potenzialità positiva e liberatrice di una declinazione – certo non assolutista e autoritaria – del rapporto tra verità e politica. Al rischio della menzogna e di un suo regime sono esposti non solo i regimi totalitari, ma – come drammaticamente ci conferma anche la situazione italiana – quei regimi in cui la manipolazione dell’informazione è strumento quotidiano della lotta per la conservazione del potere. 1. Il regime della menzogna e la ricerca liberatrice della verità

La società può, sempre di nuovo, finire vittima di false rappresentazioni della realtà e queste false opinioni non sono solo il frutto di errori individuali casuali. Sono anche il frutto di relazioni sociali, di relazioni di potere. Nell’eterno gioco di aumentare il proprio potere, ogni individuo cerca di acquisire per sé il potere di un altro essere umano per usarlo come uno strumento al proprio servizio. Cerca di usare l’altro per il proprio piacere, per aumentare la propria potenza. Per fare questo si può naturalmente costringere l’altro con la violenza, cosa che sempre accade, ma per rendere stabile e duratura una relazione di dominio è necessario elaborare una visione del mondo che giustifichi la sottomissione dell’uno all’altro. Di qui l’elaborazione di rappresentazioni della realtà sociale che asseriscono la superiorità di alcuni individui su altri individui, degli uomini sulle donne, dei ricchi sui poveri, dei neri sui bianchi. Quando queste rappresentazioni si solidificano nella realtà sociale e si impongono attraverso i secoli – come è stato per la giustificazione della inferiorità «naturale» della donna rispetto all’uomo o dello schiavo rispetto al padrone – esse non si lasciano cancellare da una semplice discussione, dal semplice presentarsi di un’opinione diversa. Esse resistono con la forza, radicate nel potere e nelle coscienze dei dominatori e spesso anche dei dominati. La falsa rappresentazione divenuta opinione comune ha una straordinaria potenza inerziale e solo un faticoso lavoro della ragione, della speranza e della lotta può arrivare a scalfirle. In questo lavoro la ricerca della verità anche sul piano sociale e

La democrazia e il potere della verità 83

politico, ossia la messa in questione dell’esistente e la ricerca del vero bene comune e delle giuste relazioni tra gli individui, manifesta tutta la sua forza liberatrice.

Per questo nella tradizione occidentale siamo soliti legare la nascita del politico e delle prime forme di democrazia nella Grecia antica alla nascita della «filosofia», ossia di quella ricerca razionale del vero di cui sono figlie e la filosofia e la scienza e la stessa teologia. E questa ricerca avveniva non solo nello spazio privato, ma anche nello spazio pubblico. È sulla piazza che Socrate conduce la sua incessante ricerca della verità, mettendo in questione le opinioni consolidate, la cultura dominante e i rapporti di potere esistenti. La sua critica si rivolge contro il falso sapere rappresentato dalle «opinioni» correnti e contro il falso potere che mira a conquistare il consenso attraverso il compiacimento dell’altro. È questo il cattivo servizio della «retorica», dell’arte del persuadere, di quest’arte «culinaria» – come si legge nel Gorgia – che mira a compiacere l’altro per renderlo schiavo. La ricerca della verità – che invece non compiace, ma irrita, perché mette in discussione le facili certezze e i privilegi esistenti – è liberatrice: non mira a fare dell’altro un servo, ma un signore, perché possa condurre da sé la propria vita. La ricerca della verità si mostra qui intimamente legata non solo a un modo di pensare e di essere individuale, ma anche a un modo di convivere. I cercatori della verità vogliono la libertà per sé e per gli altri e instaurano dunque forme di convivenza che noi oggi definiamo democratiche: individui che si vogliono liberi e si riconoscono uguali e che dunque accolgono come legittime solo le decisioni che sono da loro stessi assunte. L’autogoverno della ragione sulle passioni nella vita individuale diventa il modello sociale della comunità che si autogoverna dandosi leggi razionali. Questa ricerca della verità si esprime nell’antica Grecia non solo attraverso forme di sapere e di pratica comunicativa, ma anche attraverso istituti politici come la parresìa, il diritto di esprimersi con franchezza, di parlare liberamente, di dire la verità nella pubblica assemblea sulle questioni pubbliche, temi che non a caso godono oggi di rinnovata attenzione come attestano le riflessioni di Michel Foucault1.

È chiaro: fin dall’inizio questo rapporto tra democrazia e verità non è affatto un rapporto di conciliazione, ma piuttosto di dialettica. Il

1 Cfr. M. Foucault, Discourse and truth. The problematizations of Parrhesia, Evanston Ill. 1985

(trad. it. di A.Galeotti, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma 1996).

84 Verità del potere, potere della verità caso Socrate è emblematico. La democrazia apre lo spazio pubblico alla libera discussione, ma poiché la logica della democrazia attribuisce la forza determinante alla decisione del maggior numero, la sua logica può essere interpretata come una logica della forza. In essa prevale la decisione dei più indipendentemente dal suo contenuto veritativo e tale decisione può giungere a schiacciare e mettere a tacere la ricerca della verità. Per questo lo stesso Socrate, proprio in regime democratico, può finire messo a morte perché non intende rinunciare alla ricerca della verità: anche il regime popolare può finire schiavo delle false opinioni e della logica del dominio.

I regimi totalitari del Novecento sono un esempio formidabile di questo «incantamento» collettivo o – per dirla con Bonhoeffer – di questo «instupidimento», frutto di una società in cui il valore dominante è divenuto l’ostentazione della potenza:

Osservando meglio, si nota che qualsiasi ostentazione

esteriore di potenza, politica o religiosa che sia provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini. Sembra anzi che si tratti di una legge socio-psicologica. La potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri. Il processo secondo cui ciò avviene, non è tanto quello dell’atrofia o della perdita improvvisa di determinate facoltà umane – ad esempio quelle intellettuali – ma piuttosto quello per cui, sotto la schiacciante impressione prodotta dall’ostentazione di potenza, l’uomo viene derubato della sua indipendenza interiore e rinuncia così, più o meno consapevolmente, ad assumere un atteggiamento personale davanti alle situazioni che gli si presentano. Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente, ma con slogan, motti ecc. da cui egli è dominato. È ammaliato, accecato, vittima di un abuso e di un trattamento pervertito che coinvolge la sua stessa persona. Trasformatosi in uno strumento senza volontà, lo stupido sarà capace di qualsiasi malvagità, essendo contemporaneamente incapace di riconoscerla come tale. Questo è il pericolo che una profanazione diabolica porta con sé. Ci sono uomini che potranno esserne rovinati per sempre. Ma a questo punto è anche chiaro che la stupidità

La democrazia e il potere della verità 85

non potrà essere vinta impartendo degli insegnamenti, ma solo da un atto di liberazione. Ci si dovrà rassegnare al fatto che nella maggioranza dei casi un’autentica liberazione interiore è possibile solo dopo essere stata preceduta dalla liberazione esteriore, fino a quel momento, dovremo rinunciare ad ogni tentativo di convincere lo stupido2.

2. La coscienza che resiste e lo spazio della critica Tuttavia, nonostante la potenza inaudita che manifesta, il regime

della menzogna non ha una potenza infinita. Per quanto tenti di imporre il suo dominio, esso non riesce, come vorrebbe, a dominare del tutto l’animo umano. Forse la sua imperfezione gli impedisce di realizzare il sogno di un controllo totale, forse un germe ineliminabile di libertà resta a covare sotto la cenere nel cuore umano, forse davvero un dio o un demone giunge a salvare sull’orlo dell’abisso e scuote dal torpore. Restano pur sempre vere le parole che Adam Michnik ha rivolto dalla sua prigione al generale Kiszczak, ministro degli interni del generale Jaruzelski:

Nella vita di ogni uomo, generale, arriva un momento

in cui per dire semplicemente “questo è nero e questo è bianco” bisogna pagare molto caro […]. In quel momento, il problema principale non è sapere quanto si deve pagare, ma se il bianco è bianco e il nero è nero. Per far ciò bisogna conservare una coscienza […]. Generale, si può essere un potente ministro degli interni, avere alle spalle un potente impero che domina dall’Elba a Vladivostok, sotto di sé tutta la polizia del paese, milioni di spie e milioni di slòti per comprare pistole, cannoni, sistemi d’ascolto e informatori o giornalisti rampanti, ma ecco uscire dall’ombra uno sconosciuto che vi dice: “Ciò non lo farai”. È questo la coscienza»3.

2 D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft, a cura di

C. Gremmels - E. Bethge in collaborazione con I. Tödt, Kaiser, Gütersloh 1998 (trad. it. di A. Gallas, Resistenza e resa, Queriniana, Brescia 1996, p. 66).

3 Citato in P. Valadier, Eloge de la conscience, Seuil, Paris 1994 (trad. it. di L. Bacchiarello, Elogio della coscienza, SEI, Torino 1995, p. 6).

86 Verità del potere, potere della verità

Qualcuno insomma non si piega e dalla bassura della menzogna

riesce ad alzare lo sguardo. Ma per fare questo ci vuole del coraggio: «Bisogna essere integri – ha scritto Nietzsche – fino alla durezza nelle cose dello spirito per poter sopportare la mia serietà e la mia passione; bisogna essere abituati a vivere nelle montagne, a vedere al di sotto di sé la meschina ciarlataneria attuale della politica e dell’egoismo dei popoli; è necessario, infine, esser diventati indifferenti, e non domandare mai se la verità sia utile, se per qualcuno sia fatale...»4.

Dunque l’affermarsi della libera ricerca della verità nella società non è senza conflitti. Implica una lotta, una disponibilità al patire. E tuttavia anche la sofferenza patita dai cercatori del vero non è il segno di una sconfitta. La stessa morte di Socrate non è leggibile come la fine di una speranza in una politica diversa: in una dimensione più profonda, quella morte disvela anche la debolezza e la nullità di ogni potere dispotico, rivela il suo limite radicale, il suo non essere assoluto, il suo non potere dominare del tutto l’animo umano. Il Socrate che resiste – come tutti coloro che resistono al potere che si fa totalitario – dimostra con la propria vita che il potere non può tutto, che la coscienza disarmata è più forte di lui e pone così le basi per un diverso potere che di fronte alla coscienza si ferma, come davanti a un limite invalicabile e in fondo, come davanti alla propria fonte. Sì, perché da lì deriva la legittimità del potere dell’uomo sull’uomo: dal consentire della sua coscienza5.

In questa prospettiva il riferimento alla verità non elimina lo spazio pubblico, ma anzi lo rende possibile nel senso che colloca principi e valori, miti e simboli, nonché forme e procedure, elementi costitutivi di una unità politica, su di un orizzonte in cui è possibile argomentare attorno ad essi, proprio a partire dalle loro pretese di verità: li sottopone cioè alla possibilità della critica.

4 F. Nietzsche, Der Antichrist, Vorwort, in Nietzsche Werke (KGA), VI, 3, p. 165 (trad. it.

L’Anticristo, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1970, VI, 3, p. 167). 5 Sul tema si vedano le osservazioni di H. Arendt, Truth and Politics, in Id., Between Past

and Future. Eight Exercises in Political Thought, The Viking Press, New York 1968² (trad. it. Verità e politica, a cura di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995).

La democrazia e il potere della verità 87

3. La democrazia «sensibile alla verità»

Per tutto questo mi pare si possa sostenere che la democrazia – nella sua forma moderna di ordinamento che prevede non solo l’esercizio del potere da parte del popolo, inteso come totalità dei cittadini, nel rispetto dei fondamentali principi di libertà ed uguaglianza, ma anche la formazione della volontà politica sulla base di un giudizio relativo alle cose comuni attraverso le procedure della ragione argomentativa – sia una forma di governo «sensibile alla verità» (Habermas), e una «post-truth democracy» non potrebbe essere a lungo una democrazia6.

Perché una democrazia – giova ricordarlo – non è soltanto un meccanismo di elezione da parte del popolo dei propri capi, ma è prima di tutto il potere di darsi delle leggi attraverso una discussione in cui posizioni diverse si confrontano. La democrazia non è solo forma di governo in cui le decisioni vengono prese a maggioranza. In essa la decisione è il frutto di una procedura argomentativa in cui gli attori si esprimono liberamente e con pari dignità e che attraverso il confronto di posizioni diverse valutano i pro e i contro di ciascuna alternativa. È questa, fin dalle sue origini storiche, la forma tipica delle democrazia, ossia la decisione tramite discussione, come espresso chiaramente dal famoso «elogio della democrazia» pronunciato da Pericle:

Le medesime persone da noi si curano nello stesso

tempo e dei loro interessi privati e delle questioni pubbliche: gli altri poi che si dedicano ad attività particolari sono perfetti conoscitori dei problemi politici; poiché il cittadino che di essi assolutamente non si curi siamo i soli a considerarlo non già uomo pacifico, ma addirittura un inutile. Noi stessi o prendiamo decisioni o esaminiamo con cura gli eventi: convinti che non sono le discussioni che danneggiano le azioni, ma il non attingere le necessarie cognizioni per mezzo della discussione prima di venire all’esecuzione di ciò che si deve fare7.

6 J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006. 7 Tucidide, Storie, II, 40 (trad. it. La guerra del Peloponneso, Mondadori, Milano 1971, vol. I,

pp. 124-125).

88 Verità del potere, potere della verità Nel confronto le posizioni diverse vengono messe a confronto non solo nella loro capacità di esprimere interessi e passioni diverse, ma anche nel loro contenere o meno giudizi al cui preteso valore veritativo la discussione continua a fare riferimento.

Con tutto ciò la democrazia può ben dirsi una forma di ordinamento «sensibile alla verità». È sensibile alla verità sul piano giudiziario. Ha bisogno di accertare la verità dei fatti, che cosa è realmente accaduto non solo laddove sorgano controversie tra i cittadini, ma anche a proposito dell’agire dei pubblici poteri. L’esercizio corretto di questa funzione così fondamentale per la vita di una società è possibile solo sulla base di un forte riferimento alla verità, che nei nostri ordinamenti non è affidato solo alla onestà dei cittadini, ma è rafforzato anche da una serie di strumenti giuridici e politici che cercano di dare ad esso piena effettività: si pensi al dovere della verità ossia all’obbligo di «dire la verità» da parte dei testimoni nel corso di un processo (obbligo spesso accompagnato da una promessa solenne o da un giuramento e protetto da severe sanzioni in caso di trasgressione) oppure al diritto alla verità contenuto nel diritto all’informazione, che non si esprime solo nella possibilità di accedere alle informazioni fornite dai mezzi privati e pubblici di comunicazione, ma anche nel diritto di petizione, di interrogazione del governante, nella commissione d’inchiesta e nel relativo dovere di rispondere da parte dei governanti. Tutti noi sappiamo quanto lontani dalla democrazia sono invece i regimi dell’occultamento della verità nonché i regimi dell’indifferenza nei confronti dell’accertamento della verità dei fatti. Le riflessioni di Hannah Arendt in occasione della pubblicazione dei cosiddetti Pentagon Papers (i documenti che rivelavano la manipolazione delle notizie sulla guerra del Vietnam da parte di agenzie governative USA)8 mi paiono ancora oggi molto significative.

Non solo sul piano giudiziario, ma anche sul piano storico è difficile pensare che una democrazia possa essere indifferente alla verità. La cancellazione o l’alterazione del passato è un tratto tipico dei regimi totalitari e oggi difficilmente si potrebbe accettare che una democrazia possa essere indifferente nei confronti della verità storica, relativa ad esempio all’esistenza o meno dei campi di sterminio, e si

8 Cfr. H. Arendt, La menzogna in politica. Riflessioni sui «Pentagon Papers», a cura di O.

Guaraldo, trad. it. di V. Santini, Marietti, Genova-Milano, 2006.

La democrazia e il potere della verità 89

esige piuttosto che una società sappia riconoscere pubblicamente verità ad essa scomode per potersi dire pienamente democratica, come accade, ad esempio, nei confronti della Turchia a proposito del trattamento subito dagli Armeni. Tale interesse per la verità storica si manifesta nelle democrazie non solo attraverso strategie di «non occultamento» della verità, ma anche attraverso investimenti di risorse pubbliche per sostenere e promuovere la ricerca storica anche quando ciò dovesse portare al riconoscimento di errori o colpe commessi dalle forze politiche al potere. In alcuni casi si giunge a perseguire e punire chi nega la verità di un dato accadimento storico, come accade con i «negazionisti» dello sterminio ebraico operato dai regimi totalitari del ventesimo secolo. Non si può convivere con la falsificazione di ciò che è avvenuto. La falsità alla lunga avvelena l’aria. L’esempio del Sud Africa che, pur in mezzo a mille difficoltà, ha intrapreso la via della ricostruzione basandosi sui principi dell’accertamento della verità dei fatti e della riconciliazione è un esempio importante. Non c’è riconciliazione autentica senza riconoscimento di ciò che è accaduto. Una democrazia non può tollerare di fondarsi su falsità storiche, per rispetto delle vittime ma anche di se stessa.

La democrazia è sensibile alla ricerca della verità operata dalla scienza. Nessuno si sognerebbe oggi di basare una politica ambientale, sanitaria, economica, ignorando le evidenze scientifiche, pur nella consapevolezza che ogni acquisizione della scienza è sempre parziale e rivedibile, ma proprio questa natura di apertura a una più profonda verità rende le società interessate alla ricerca e spinge le democrazie a sostenerla anche economicamente in tutte le sue dimensioni.

Inoltre, la democrazia è sensibile alla verità che si manifesta nella ricerca filosofica e in quella religiosa. È stato Jürgen Habermas a sottolineare l’importanza di questa forma di ascolto della sapienza contenuta nelle tradizioni religiose per un arricchimento della conoscenza dell’umano, in particolare di quella dimensione umana che ha a che fare con la vulnerabilità, il fallimento, la malattia, insomma il venir meno della vita e della sua pienezza. Secondo Habermas la sapienza religiosa sarebbe in grado di custodire sensi e significati di tale condizione umana che la mera ragione stenterebbe da sola ad acquisire. Di qui la necessità di un continuo confronto tra ragione

90 Verità del potere, potere della verità secolare e sapienza religiosa per un lavoro di «apprendimento reciproco»9.

4. Verità provvisorie e aperture

È chiaro che in tutti questi casi si parla di «ricerca della verità». Non solo nel caso della verità storica, giudiziaria e scientifica, ma anche nel caso delle verità filosofiche e morali. È banale, ma doveroso ricordare che la stessa verità in ambito filosofico si configura come oggetto di continua ricerca e non come oggetto di possesso esclusivo. L’etimologia del termine – «amore della sapienza» appunto e non «possesso», ché quest’ultimo è privilegio degli dei – dovrebbe chiarirne bene la natura di disciplina aperta. Se è vero che nel suo sviluppo storico la filosofia è stata concepita anche come «sapere assoluto», lo stesso si potrebbe dire della conoscenza storica o scientifica, che oggi si concepiscono invece come discipline costitutivamente aperte.

Quando si dice dunque che la democrazia deve essere sensibile alla verità, si intende chiaramente riferirsi alla libera ricerca della verità e non alla imposizione di una verità di Stato, nonché a procedure di ricerca affidate a esperti del settore e a risultati comunque sottoposti al loro giudizio, alla discussione aperta. Tutto ciò, chiaramente, ha il carattere della rivedibilità. E tuttavia, a ben guardare, nei diversi settori questa ricerca è fatta non solo di perenne apertura, ma anche di momenti in cui la decisione politica deve pur assumere un punto di vista come proprio. È il caso del procedimento giudiziario che dopo una prassi aperta e rivedibile assume una serie di elementi come accertati e li pone a base di una decisione che si esprime in una sentenza. Ma anche sul piano storico, la ricerca, pur sempre soggetta a revisioni, finisce per produrre risultati che vengono fatti propri dalle istituzioni politiche e che vanno a formare la memoria storica collettiva ufficiale di un paese, con le sue date, i suoi luoghi emblematici, le sue interpretazioni ufficializzate dall’insegnamento e dai manuali scolastici. Gli stessi risultati della ricerca scientifica, il cui carattere sempre aperto e perennemente falsificabile è ormai ampiamente riconosciuto, vengono assunti dal decisore politico come

9 J. Habermas - J. Ratzinger, Etica, religione e Stato liberale, a cura di M. Nicoletti, Morcel-

liana, Brescia 2004.

La democrazia e il potere della verità 91

dati sulla cui base assumere scelte in materia di politica sanitaria o di gestione del territorio. Dunque il potere politico non è solo sensibile alla ricerca della verità, ma assume anche come veri i risultati via via conseguiti da questa ricerca. E ciò riguarda non solo gli ambiti giudiziario, storico e scientifico, ma anche l’ambito morale. Si pensi, ad esempio, alle attività dei comitati di bioetica, volti non solo a promuovere la ricerca, ma anche a fornire pareri e supporti alle decisioni sulla base di giudizi aventi, almeno in parte, pretese veritative. Ma si pensi anche alle grandi Dichiarazioni dei Diritti, i cui principi si ritenevano poggiare su un solido fondamento veritativo. Così si apriva la Dichiarazione di Indipendenza del Congresso degli Stati Uniti d’America sancita il 4 luglio 1776: «Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità».

Dunque la democrazia ha bisogno di una costante apertura alla ricerca della verità. Ma è certo vero che sul suo terreno ogni attore deve accettare che questa ricerca rimanga aperta e libera e che cioè in essa sia dato spazio alla diversità e al pluralismo, giacchè ogni avvicinamento umano alla verità è sempre parziale e frammentario e se pretendesse di essere definitivo e assoluto finirebbe non solo per negare i diritti degli altri ma la natura stessa della verità ultima, capace di darsi infinitamente. Se un qualche accostamento alla verità pretendesse per sé l’esclusiva e, ancor più, pretendesse di farsi valere sul piano politico con le ragioni della forza coercitiva, negherebbe la propria origine: quell’amore del vero rivendicato in faccia alla menzogna.

Perciò il modello su cui poggia l’ordinamento democratico non può non essere un modello perennemente aperto, posto che, come si è detto, pone il potere sovrano nelle mani della volontà dei cittadini e dunque nella loro possibilità di determinare liberamente le forme e i modi della propria convivenza. Tale processo di autocorrezione trova

92 Verità del potere, potere della verità – è vero – un suo limite evidente nel rispetto dei principi che mantengono in vita la democrazia stessa e cioè la possibilità di ulteriori espressioni della libera autodeterminazione di un popolo. Sono esclusi perciò da processi di correzione e revisione quei principi di libertà e di uguaglianza di tutti i cittadini, che stanno alla base della democrazia. Rispetto a questi principi è evidente che la democrazia stessa non può essere indifferente, né relativistica. Negarli significherebbe negarsi. E non è un caso che gli stessi ordinamenti costituzionali contemporanei sottraggano alla decisione delle maggioranze, comunque qualificate, un nucleo essenziale di principi e di diritti fondamentali che costituiscono le condizioni di possibilità stesse del darsi della democrazia.

Ma ciò non significa che questi principi non possano essere discussi e ricompresi in modo sempre più approfondito, come ha mostrato lo sviluppo storico della sensibilità nei confronti dei diritti dell’uomo e delle relative forme di tutela giuridica di tali diritti. E ciò non significa nemmeno che il modo concreto e storico, in cui tali diritti debbano trovare concrete garanzie e relativi bilanciamenti, non possa essere soggetto a valutazioni diverse e pluralistiche e non debba essere costantemente riveduto.

5. Il dialogo e la libertà

Per questo, se è vero che vi è un nucleo comune sottratto alla decisione delle mutevoli maggioranze – perché costituisce il nocciolo di una più profonda ed esistenziale decisione politica di una intera comunità, venendo meno la quale la comunità stessa muterebbe radicalmente la sua forma politica –, è vero che questi principi divengono effettivi nella storia solo attraverso la mediazione di una volontà che li pone in essere, e tale volontà si esprime sempre attraverso incarnazioni particolari e contingenti, ordinamenti provvisori e discutibili. La deliberazione politica, dunque, pur non potendo e non dovendo ignorare i risultati cui perviene la libera ricerca della verità, non mette in discussione né sottopone a votazione assunti veritativi, ma assume decisioni di natura pratica in ordine alla tutela dei diritti in una particolare situazione storica. Su questo piano «pragmatico-politico» la democrazia si nutre certamente di

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un’attitudine relativistica10 e chi pretendesse di attribuire a determinate soluzioni pratiche un valore assoluto finirebbe per non cogliere la natura inevitabilmente contingente e particolare della decisione politica e di travolgere lo spazio democratico come spazio della libera discussione tra persone a cui va riconosciuto un pari diritto ad avanzare soluzioni pratiche ai problemi comuni.

Sarebbe un’offesa alla verità negare la vera natura del politico, che è spazio mondano, che non può essere ricavato per deduzione da princìpi o modelli astratti, ma ha da essere costruito nella storia. Difendere le ragioni della verità impone anche di difendere le ragioni della realtà nella sua parzialità e della contingenza storica, del suo essere intreccio complesso non solo di attività razionali, ma anche di interessi materiali, di istinti, di passioni. Esige anche il rispetto dell’articolarsi della ragione in un suo uso pratico e non solo teoretico. Avere presente che il proprium dell’agire politico non è quello di essere atto applicativo di princìpi, ma atto creativo di condizioni storiche e sociali in cui sia possibile applicare dei princìpi, in cui sia possibile – per tutti – esercitare liberamente e pubblicamente la ricerca della verità.

Così la ricerca della verità, quando si sposta sul terreno politico, non può non farsi carico anche della costruzione di condizioni storiche e sociali di possibilità per sé e per gli altri di ricerca della verità. Per questo la ricerca della verità in democrazia deve farsi carico non solo dell’espressione della propria posizione, ma anche del mantenimento dell’orizzonte comune in cui la propria e le altrui posizioni possano venir rappresentate. La difesa della propria concezione, pur fondamentale e irrinunciabile, non può comportare l’indifferenza nei confronti della conservazione di quell’ordine politico – giusto e pacifico – all’interno del quale è possibile ad altri esprimere liberamente la propria concezione e dunque concorrere alla mia come all’altrui ricerca della verità. Se il riferimento alla verità ha da essere preso sul serio sul piano politico esso non può essere risolto in un richiamo ideologico. Esso pone invece con chiarezza il tema della «realizzazione», ossia della costruzione di condizioni storiche concrete all’interno delle quali possa effettivamente darsi la tutela di quel bene che è la ricerca della verità e il suo darsi. Senza un’attenta

10 E.W. Böckenförde, La democrazia come principio costituzionale, in Id., Stato, Costituzione,

Democrazia. Studi di teoria della costituzione e di diritto costituzionale, a cura di M. Nicoletti e O. Brino, Giuffré, Milano 2006, p. 449.

94 Verità del potere, potere della verità considerazione dell’importanza della costruzione e del mantenimento di questa «cornice» – così ben espressa nelle nostre società democratiche dalle «cornici» degli ordinamenti costituzionali – il riferimento a questa o quella verità diventa vuoto agitare parole e idee, spesso improduttivo, talvolta distruttivo.

Ora, è chiaro, che la prima condizione del darsi di un’autentica ricerca della verità per sé e per tutti, è la libertà. Libertà che è condizione, ma anche prodotto della ricerca della verità. La stessa libertà radicale che la verità ha da riconoscere a ogni uomo per potersi accostare a lui, la deve riconoscere anche la democrazia: non vi è autentica democrazia senza un radicale rispetto della libertà di coscienza. Senza questo rispetto, la democrazia si trasforma in una tirannide della maggioranza che pretende di piegare i pochi alla volontà dei molti. Questa radicale libertà si spinge fino al punto di poter esprimere anche punti di vista diversi rispetto a quelli fondanti la stessa comunità politica. Anche nei confronti dei dissidenti, la democrazia rifiuta di ricorrere alle ragioni della forza. È precisamente nell’accordare alla coscienza del singolo questa garanzia che l’ordinamento democratico si realizza come ordinamento della libertà e dell’uguaglianza e non come mero ordinamento della forza del maggior numero.

Questo metodo della libertà esige non solo una cultura della libertà sul piano teoretico come su quello pratico, ma anche un ordinamento istituzionale delle libertà. Libertà delle istituzioni politiche. Libertà delle istituzioni in cui si pratica la ricerca della verità: comunità religiose, scuole e università, organi di informazione, associazioni culturali e artistiche, organi giudiziari. La dialettica tra democrazia e verità ha bisogno anche di una dialettica costruttiva tra istituzioni libere, ciascuna forte della propria autonomia. Non è un caso che gli ordinamenti costituzionali siano anche ordinamenti che custodiscono queste diverse autonomie.

Questa dialettica, per non essere distruttiva, ha bisogno non solo di armonizzazioni costituzionali, ma anche di un’etica della saggezza democratica che si nutra dei valori antichi e perenni della democrazia, quali il rispetto e il riconoscimento reciproco, il gusto per la comunicazione delle proprie ragioni e per l’ascolto delle ragioni altrui, l’impegno a non usare la forza per modificare le opinioni degli altri, né le regole comuni della vita collettiva. Senza questa saggezza la relazione tra la ricerca della verità e la ricerca di un governo

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democratico non potrebbe dispiegare quelle energie creative di cui il nostro oggi ha bisogno. 6. Un’altra filosofia, «più civile»

Vi è qui bisogno non di una declamatoria ricerca della verità o di

un’astratta proclamazione di principi, ma – per dirla con Thomas More – di un’alia philosophia civilior11, ossia di una filosofia diversa, più civile, più appassionata alla vicenda collettiva degli uomini nella storia, più capace di convivere con le loro imperfezioni, con il male presente, e tuttavia intransigente nella lotta contro di esso. Questa diversa filosofia, più civile, deve tentare di coniugare politica, rispetto della verità e ricerca del giusto non attraverso il ricorso ad autorità o a strumenti coercitivi, ma attraverso il rispetto della coscienza. Lo stesso More, che pure da governante aveva usato lo strumento del potere coercitivo anche nei confronti dei dissidenti, da prigioniero nella Torre giunse a un pieno riconoscimento del dovere di rispettare sempre la coscienza. E seppe così coniugare il rispetto radicale della propria coscienza – così esigente da obbligarlo, per difendere quelle ragioni della verità che nessun principe o parlamento avrebbero potuto modificare, a disubbidire al suo re, fino all’ultimo riconosciuto come legittimo sovrano –, con il rispetto della coscienza altrui, rifiutando di brandire la verità come strumento di lotta e di condannare quanti avevano ritenuto, in coscienza, di seguire strade diverse12.

11 T. More, Utopia, a cura di E. Surtz - J. W. Hexter, in The Complete Works of St. Thomas

More, Yale University Press, New Haven-London 1974, vol. IV, p. 98. 12 Cfr. T. Moro, Il dialogo del conforto nelle tribolazioni, a cura di M. Nicoletti, Rubbettino,

Saveria Mannelli 2011.

«Il piacere di disilludere» Disvelamento e decostruzione attraverso il genere

Anna Loretoni

1. Una breve premessa metodologica

Nell’affrontare in una prospettiva di genere il tema della complessa relazione tra potere e verità, vorrei prendere le mosse da quella che ritengo debba costituire una premessa metodologica importante e che si potrebbe sintetizzare nel richiamo alla finalità non solo critica ma, in modo assai più impegnativo, decostruttiva promossa dai cosiddetti gender studies. Si tratta, a mio parere, di una vera e propria strategia filosofica, che lavorando sui concetti fondamentali della teoria politica ne ridefinisce i contenuti e i contorni, cercando di cogliere in essi, attraverso una operazione di vero e proprio smontaggio, quegli elementi dimenticati ed oscurati che, riportati alla luce a partire dall’assunzione di una nuova visuale, danno vita a narrazioni diverse. Parallelamente, questa strategia, capace di mettere in stretta correlazione i concetti sia con i presupposti non espliciti del discorso, sia con i contesti concreti, contribuisce alla de-essenzializzazione e de-naturalizzazione delle stesse categorie, producendo un generale slittamento a favore dell’ipotesi del costruttivismo sociale. Inoltre, leggere la realtà sociale attraverso il prisma del genere consente alle scienze sociali di ampliare lo sguardo, inverando al tempo stesso il nucleo più significativo di quella relazione tra individuo e potere che il liberalismo ha da sempre interpretato con sano spirito critico, accresciuto talvolta da un altrettanto fruttuoso scetticismo istituzionale. Nella prospettiva che qui si è deciso di adottare c’è dunque continuità tra l’impegno liberale verso la libertà degli individui

98 Verità del potere, potere della verità e l’impegno femminista verso la libertà delle donne, tra l’invito del liberalismo a diffidare e a contestare i poteri e l’aspirazione alla libertà consapevolmente esplicitata negli studi di genere. Non si tratta certo di un nesso, quello tra liberalismo e femminismo, che si intende qui proporre sic et simpliciter come se si trattasse di un modello convergente di riferimento normativo o filosofico-politico. Al contrario, la linea di continuità, ri-costruttivamente estrapolata, si mostra feconda proprio perché è in grado di mettere in luce i limiti della tradizione liberale attraverso l’analisi degli scarti, delle aporie e delle contestualizzazioni che vengono alla luce sulla base di una rilettura di genere, valorizzando al tempo stesso le potenzialità di contestazione del liberalismo verso istituzioni, poteri e culture che tendono a mantenere i soggetti in condizioni di diseguaglianza, vulnerabilità, oppressione. 2. Lo sguardo critico sulla cittadinanza

Tenendo presente questo framework metodologico vorrei concentrarmi sull’analisi del concetto di cittadinanza, proprio perché esso può rappresentare un buon esempio di ciò che ho definito come strategia critico-decostruttiva1. Nell’affrontare il concetto di cittadinanza a partire da una prospettiva di genere, l’ampia letteratura ci restituisce pressoché unanimemente una riflessione che ne accentua il carattere dilemmatico. Il rapporto donne-cittadinanza si è svolto lungo un crinale difficile e articolato, che occorre ripercorrere con un’attenzione specifica, anche perché le importanti acquisizioni teoriche che da questa nuova prospettiva si possono dipanare sono, al contrario, rese invisibili oppure occultate dalle analisi che si sviluppano da un posizionamento neutrale delle scienze sociali, che rappresenta senza dubbio l’interpretazione mainstream degli studi sullo sviluppo della modernità politica2.

Innanzitutto c’è da fare una notazione di carattere storico, ma

1 Nell’utilizzare il concetto di decostruzione non posso non richiamare la riflessione di

J. Derrida. In modo particolare, quello sviluppo della dimensione politica della decostruzione che si avvia con lo scritto Pre-giudicati. Davanti alla legge, a cura di F. Garritano, Abramo, Catanzaro 1985.

2 La riflessione sulla cittadinanza di genere è molto ampia. Qui ho tenuto presente in modo particolare gli aspetti critici proposti da M.L. Boccia, La differenza politica. Donne e Cittadinanza, Il Saggiatore, Milano 2002.

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gravida di rilevanti implicazioni teoriche: per le donne il modello di cittadinanza ricostruito da Thomas Marshall e fondato sulla progressiva acquisizione di diritti civili, politici e sociali, viene ampiamente disatteso3. L’appartenenza delle donne alla comunità politica non segue questa medesima scansione temporale e il tragitto ne risulta rovesciato, avendo avuto per le donne i diritti sociali la priorità nelle dinamiche di inclusione. L’accesso all’istruzione e alle attività sociali, insieme alla tutela del lavoro femminile, sono infatti tra le richieste più diffuse già a partire dal Settecento, anche in quanto ritenute risorse primarie per acquisire l’indipendenza (sibi sufficientia) quale condizione imprescindibile del soggetto moderno. Oltre a questo rilievo di tipo storico, che produrrà significative conseguenze sulla cittadinanza politica delle donne, gli studi di genere evidenziano la natura ambivalente della cittadinanza nel suo complesso. Seppur capace di spostare lo sguardo ex parte populi, dalla tradizionale visuale ex parte principi, a partire dalla prospettiva di soggetti dapprima esclusi e poi progressivamente inclusi, la cittadinanza presenta un doppio volto, connaturato alla stessa dinamica inclusiva di chi sin dall’origine viene lasciato fuori e solo successivamente incluso. Se, da una parte, la rivendicazione e la conquista della cittadinanza rappresentano un riconoscimento di soggettività dei nuovi attori nei confronti del potere politico, dall’altra parte, gli studi di genere hanno messo in luce quanto le concrete strategie di inclusione, se non combinate con i racconti di vita di chi chiede (o rifiuta) di essere incluso, contribuiscano di fatto a rafforzare l’insieme delle istituzioni e delle regole, finendo con l’assumere una valenza conservatrice. Secondo Marion Young, la forza propulsiva dell’inclusione viene rovesciata nel momento in cui si chiede ad un gruppo escluso di partecipare socialmente a partita però già iniziata, con regole pre-fissate e in un contesto che risulta perciò regolato da «diritti fuori taglia»4. Se la logica presupposta è quella del neutro-universale, la differenza sarà vista sempre come devianza dalla norma, come alterità che non sarà mai del tutto conosciuta, ma sempre conservata, relegata magari nel privato, in ciò che non si può e non si vuole vedere. In questo specifico contesto, il carattere inclusivo

3 T.H. Marshall, Citizenship and Social Class, Cambridge University Press, Cambridge 1950 (trad. it. di P. Maranini, Cittadinanza e classe sociale, UTET, Torino 1976).

4 Si veda a questo proposito: Y.M. Young, Justice and the Politics of Difference, Princeton University Press, Princeton 1990 (trad. it. di A. Bottini, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano 1996); G. Zincone, Da sudditi a cittadini, Il Mulino, Bologna 1992.

100 Verità del potere, potere della verità della cittadinanza opera come un potente fattore di omologazione, riconducendo la diversità dei bisogni e delle identità ad un’unica forma politica e giuridica di soggettività. Come opportunamente ricostruisce Maria Luisa Boccia, sebbene il paradigma della cittadinanza muova da una disparità di possesso, l’inclusione non intacca la disparità di senso: cosa specificamente vuole una donna e le donne5. Se l’inclusione non mette in campo una ridefinizione sostantiva delle strutture dello spazio pubblico, il modello implicito di cittadino, foggiato per astrazione sul maschio-adulto-occidentale-borghese, finisce con l’avere una funzione escludente, rappresentando un impedimento per chi a quel modello non corrisponde. Nel caso delle donne, esse vengono a trovarsi in una condizione di double bind. Da una parte le donne devono conformarsi al modello maschile per poter essere incluse, mettendo tra parentesi i tratti che con quel modello non collimano; dall’altra, le vincola ad un processo di mascheramento e di mimesi, costringendo le donne ad apparire come se fossero uomini, interiorizzando o adottando così modelli comportamentali e culturali che finiscono per ledere l’auto-confidenza con il proprio mondo interiore, oltre che incidere sulla stima e il rispetto di sé6.

Oltre a ciò, a produrre effetti controversi nel difficile rapporto tra donne e cittadinanza è la distinzione tra spazio pubblico e spazio privato, connessa ad una valutazione assiologia che determina tra i due ambiti un preciso ordine gerarchico. Il luogo decisivo dell’agire degli individui nel mondo è lo spazio pubblico, dove si muovono attori autonomi, liberi, responsabili; allo spazio privato, dimensione biologica della riproduzione della vita attraverso la cura, è assegnata un’importanza secondaria e sussidiaria. Senza questa distinzione, a lungo trascurata dalla teoria politica, noi non capiremmo la stessa gestazione della cittadinanza moderna. Alla definizione dei due ambiti fa da fondamento l’idea che ci sia uno stretto nesso tra donna, corpo, vita fisica e necessità, per un verso, e un altrettanto solido legame tra uomo, logos e polis per l’altro7. Ed è la stessa esclusione della dimensione donna-corpo-vita fisica-necessità che viene riconfermata,

5 Si veda M.L. Boccia, op. cit., p. 113. 6 Cfr. E. Galeotti, La politica del rispetto, Laterza, Roma-Bari 2009. 7 Nel ricostruire questa separazione, che fonda una distinzione biologica tra femminile e

maschile, Adriana Cavarero ripercorre in chiave filosofica il fatto che la polis abbia liquidato e infine sconfitto la dimensione del corpo-donna, facendone con ciò il suo temibile altro. A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della modernità, Feltrinelli, Milano 1995.

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con la modernità, dal patto tra fratelli, come ricostruisce Carole Pateman nell’analisi del patriarcato moderno8. Secondo questa ipotesi, infatti, le teorie contrattualiste che forniscono legittimazione teorica all’affermazione di una progressiva libertà narrano soltanto una parte della storia, quella delle relazioni sociali e politiche fondate sul patto, vale a dire sull’accordo volontario tra individui. Se però il contratto originario, come atto di genesi dell’ordinamento politico della polis moderna, confuta in modo autorevole il patriarcato e lo status assegnato per nascita, lasciandosi alle spalle il patriarcato del padre, dà vita, tramite il contrattualismo, ad un nuovo patriarcato fraterno, quello che scaturisce dal patto fra uomini. Lo slittamento che si compie è significativo: non è più il potere dei padri che assoggetta le donne, ma il potere degli uomini in quanto uomini, così da far emergere in forma palese, sebbene elusa anche dalle teorie del contrattualismo contemporaneo, che l’origine del diritto politico va reperita nella struttura immutabile del diritto sessuale.

La combinazione tra omissione della famiglia e linguaggio ingannevolmente neutro rispetto al genere fa sì che anche nel pensiero politico recente la maggior parte dei teorici continui ad evitare il tema, eminentemente politico, della dimensione dello spazio privato e della cura9. Il fatto che gli esseri umani siano partoriti come infanti indifesi e non come i presunti attori autonomi che popolano le teorie politiche è oscurato dall’implicito presupposto extra-teorico della famiglia strutturata secondo il genere. Ancora una volta è il punto di vista prescelto a rimescolare le carte e a decostruire antiche certezze, cambiando radicalmente la narrazione. Nella prospettiva di chi mette al mondo figli è assurdo presupporre che nasciamo liberi; al contrario, quando nasciamo siamo dei neonati inermi e così rimaniamo a lungo: privi di libertà e bisognosi di cura, esseri essenzialmente deficitari. Diveniamo liberi solo se chi si è preso cura di noi ci ha fornito gli strumenti per esserlo. In questa nuova interpretazione del modo in cui gli individui vengono al mondo e poi lo abitano viene rimessa al centro la figura della dipendenza, e quindi della relazione con l’altro; un concetto che la divisione del lavoro all’interno della famiglia,

8 C. Pateman, The Sexual Contract, Stanford University Press, Stanford 1988 (trad. it. di C. Biasini, Il contratto sessuale, Editori Riuniti, Roma 1997).

9 Si veda a questo proposito l’analisi critica condotta da S.M. Okin, Justice, Gender and the Family, Basic Books, New York 1989 (trad. it. di M.C. Pievatolo, Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico, Dedalo, Bari 1999).

102 Verità del potere, potere della verità fondata su base biologica, tende invece ad occultare, condizionando così in modo significativo lo sviluppo di quella coscienza di noi stessi e delle relazioni con gli altri che è all’origine dello sviluppo morale10.

Gli studi di genere hanno inoltre mostrato, con il tempo e in forma sempre più chiara, che l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica in ragione della struttura e degli interessi della comunità familiare risulta fondativa della loro cittadinanza parziale e limitata. Se è a partire dall’incapsulamento familiare che la dimensione pubblica dell’identità delle donne deve ritagliarsi uno spazio, le difficoltà dell’inclusione delle donne nella struttura politica della società non sarebbero solo o tanto un fenomeno di ritardo o di resistenza, ma sintomi di quella opposizione originaria che aveva costruito le donne come non-cittadine proprio in quanto affidava loro il ruolo essenziale di mogli e madri di cittadini, vale a dire di soggetti in primo luogo custodi dell’unità familiare11. È questo modo di interpretare la famiglia che elude le questioni di giustizia, dapprima producendo e poi mantenendo immutate le disuguaglianze, facendo delle relazioni familiari un nodo problematico per le teorie della cittadinanza. Quale corpo separato rispetto alle dinamiche di ampliamento di libertà, responsabilità e uguaglianza che investono lo sviluppo della dimensione pubblica nella modernità, la famiglia si mostra contesto particolarmente refrattario. Ne è prova il fatto che questo corpo intermedio tra l’individuo e lo Stato non fu collocato entro il linguaggio filosofico politico moderno, né entro quello giuridico dei diritti e dei doveri dei cittadini, concepiti come individui atomizzati, isolati e privi di legami, caratterizzati unicamente dalle responsabilità verso lo spazio pubblico. Sulla base di questa interpretazione la famiglia viene intesa come «base naturale» dell’esistenza maschile, una

10 Il riferimento va qui al lavoro di C. Gilligan, In a Different Voice. Psychological Theory and

Women’s Development, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1982 (trad. it. di A. Bottini, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1987). Si veda anche V. Held, Feminist Morality. Transforming Culture, Society and Politics, The University of Chicago Press, Chicago 1993 (trad. it. di L. Cornalba, Etica femminista. Trasformazioni della coscienza e famiglia post-patriarcale, Feltrinelli, Milano 1997).

11 A definire l’ambivalenza del familismo italiano in termini di cittadinanza di genere hanno dato un contributo assai significativo i molti lavori di Chiara Saraceno. Di questa autrice si vedano almeno: The Ambivalent Familism of the Italian Welfare, in «Social Politics», (1994), n. 1; La dipendenza costruita e l’interdipendenza negata. Strutture di genere della cittadinanza, in G. Bonacchi e A. Groppi (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Laterza, Roma-Bari 1992.

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condizione pre-politica che si colloca in una sfera separata rispetto al libero incontro tra cittadini maschi, attori nella comunità politica. In questo modo, le differenze interne all’unità familiare gerarchicamente strutturata non si palesano, restano nascoste, e possono essere confinate ai margini della scena pubblica, sia originariamente grazie all’esclusione di uno dei due generi dai diritti civili e politici, sia, successivamente, per via della rimozione del quadro privato e familiare dalla sovranità del diritto pubblico.

Non è un caso che la critica femminista si sia rivolta assai duramente verso il cosiddetto «diritto alla privacy», un diritto che spesso ha fatto sì che ogni interferenza dall’esterno nella vita familiare fosse interpretata come violazione della privacy, impedendo pertanto alle donne di essere protette dalla violenza domestica e dalle forme di discriminazione interne a questo ambito. Come scrive Catharine MacKinnon, che a lungo si è occupata di questo tema, il diritto alla privacy rafforza: «quella divisione tra pubblico e privato che […] esclude il privato da ogni possibilità di intervento correttivo pubblico e al suo interno depoliticizza la soggezione delle donne»12. Ciò significa che il test della giustizia pubblica si ferma davanti alla soglia delle pareti domestiche, facendo slittare la distinzione pubblico/privato sul terreno del pubblico/domestico, e trasformando il diritto alla privacy nel diritto a non recare disturbo agli attori che esercitano oppressione, abusi e violenza sulle donne. Anche in relazione a questo punto si possono leggere le motivazioni che hanno spinto gli studi di genere a sottolineare i limiti di una concezione negativa della libertà nel senso di libertà come rifiuto di qualsiasi interferenza. Una concezione della libertà del tutto inadeguata per coloro che non sono favoriti dalle condizioni economiche, sociali e politiche esistenti, i cui limiti risultano evidenti se, oltre a considerare le ipotetiche interferenze che ci impediscono di fare qualcosa, ci si sposta sul piano della effettiva possibilità di fare quel qualcosa rispetto al quale non si è impediti. Da questa critica alla libertà negativa emerge una relazione triadica, in cui libertà significa essere liberi da x per poter fare y e in base alla quale ciò che conta non è solo il piano dell’assenza di interferenze, ma quello delle effettive opportunità che

12 C. MacKinnon, Feminism Unmodified. Discourses on Life and Law, Harvard University

Press, Cambridge (MA) 1987, p. 162.

104 Verità del potere, potere della verità seguono quell’assenza13. La libertà negativa viene a costituire una premessa necessaria della fenomenologia della libertà, una sorta di libertà in potenza, ma non la garanzia del suo farsi atto, per il quale si rendono necessari specifici interventi da parte delle istituzioni politiche, sia in termini di rimozione degli ostacoli, sia in termini di politiche pubbliche abilitanti.

Come nota opportunamente Saraceno, la divisione tra responsabilità pubbliche e responsabilità private rispetto ai bisogni da soddisfare trova un vero e proprio fondamento ontologico nella divisione del lavoro fra i sessi, che fornisce a sua volta un diverso volto alle forme di dipendenza che caratterizzano la struttura delle relazioni tra i generi nella società. Mentre la parziale o totale dipendenza economica delle donne dai mariti è apertamente manifestata nei codici sociali, la dipendenza dei mariti dal lavoro di cura delle mogli è rimossa e non tematizzata come tale. Ed ecco allora che l’originaria ambivalenza presente nella configurazione della cittadinanza femminile assume fattezze di vero e proprio dilemma, rafforzato dai codici culturali e dalla persistenza degli stereotipi. Se infatti le donne, subordinando al lavoro di cura la loro partecipazione al mercato del lavoro, non riescono ad acquisire cittadinanza economica ed autonomia; quelle che invece svolgono il lavoro di cura in aggiunta al lavoro remunerato devono affrontare innumerevoli tensioni, nel difficile obiettivo di trovare un equilibrio fra vita familiare e vita lavorativa. Come è possibile che le donne svolgano tutto il lavoro domestico e di cura, senza l’aiuto dell’altro genere o della collettività, riducendo con ciò fortemente la loro libertà civile, sociale, politica? Se non si riconoscono i diritti di chi si prende cura dei non autosufficienti (bambini, malati, invalidi, anziani) non si attribuisce né valore sociale a quel lavoro, né alcun diritto a chi ha bisogno della cura. Ragionare in termini di cittadinanza compiuta per le donne significa, quindi, riflettere anche sulle varie forme di dipendenza di cui è piena la vita associata e da cui dipende la stessa vita individuale. Dare per scontate queste realtà relegandole allo spazio impolitico del privato, comporta sia una negazione della loro legittimità in quanto possibile fonte di diritti sociali, sia un mancato riconoscimento del pesante vincolo che di fatto la dimensione della cura crea alla piena cittadinanza di chi si fa

13 G. MacCallum, Negative and Positive Freedom, in «Philosophical Review», LXXVI (luglio

1967), n. 3, pp. 312-334.

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carico di questa particolare declinazione del lavoro14. 3. Promesse non mantenute

L’accurata analisi della coppia pubblico/privato si è associata, negli studi di genere, a quella relativa all’identità femminile, quale dimensione strutturalmente interna a quella divisione e al tempo stesso ad essa sussidiaria. Ancora una volta, va qui rilevato uno scarto tra l’acquisizione teorica che vede nella modernità il progressivo sviluppo di un’esperienza identitaria a carattere elettivo e autonomo da una parte, e la definizione dell’identità femminile dall’altra, connotata da caratteri essenzialistici, biologistici e ascrittivi. Dal momento che il genere non è un vestito che si può scegliere di indossare al mattino, ma qualcosa che ci connota e identifica, al di là della nostra volontà, occorre fare i conti con questa dimensione ascritta che definisce i contenuti dell’identità femminile e che segna inequivocabilmente le relazioni delle donne nei diversi spazi della vita sociale, anche nel contesto contemporaneo. All’interno di un più vasto progetto teorico che intende mettere in discussione la dimensione eterodiretta dei contenuti identitari, gli studi di genere hanno criticamente affrontato quel perdurante richiamo alla dimensione naturale dell’identità femminile che, paradossalmente, sembra rappresentare un solido e solitario ponte tra ancien régime e fase moderna. Nel corso della modernità, infatti, si ripropone una definizione dell’identità femminile che richiama in primo luogo l’essenziale e naturale funzione interna allo spazio privato e della cura, lasciando di fatto alle donne assai poca libertà di costruire in forma autonoma, e se necessario dissidente, la propria esperienza identitaria, sia nel primario spazio privato loro assegnato che nelle progressive acquisizioni di ruoli e funzioni interni alla dimensione pubblica. Sebbene lo spazio privato sia stato spesso gestito dalle donne esercitando autonomia e sovranità, ciò non ha intaccato il fatto che è proprio nella contigua sfera pubblica – ritenuta socialmente più rilevante – che risulta difficile per loro acquisire riconoscimento in quanto soggetti liberi e autonomi. Emanciparsi da

14 Su questi temi si veda la riflessione di M. Nussbaum, Women and Human Development.

The Capabilities Approach, Cambridge University Press, Cambridge 2000 (trad. it., Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, il Mulino, Bologna 2001).

106 Verità del potere, potere della verità un’identità imposta dall’esterno, lesiva del bisogno umano vitale di un positivo riconoscimento delle proprie aspirazioni, è per il genere un passaggio quanto mai necessario per superare la rappresentazione di quella subalternità che si ripropone, in forme sempre rinnovate, nell’esclusione prima e nella imperfetta inclusione poi delle donne dalla e nella polis democratica. L’appartenenza ascrittiva delle donne ad un’identità femminile caratterizzata da tratti di subordinazione si rivela a tal punto opprimente che le donne hanno messo in atto molteplici strategie di uscita dalla gabbia identitaria dell’essenzialismo femminile, cercando di portare a compimento il nesso stringente tra autonomia, potere su di sé e costruzione dell’identità che definisce i tratti genealogici del soggetto moderno15.

All’altalenante dispiegarsi del processo di acquisizione di autonomia da parte delle donne si sono però opposte e tuttora si oppongono molte resistenze, ben al di là dell’acquisizione giuridica della piena parità e della particolare attenzione che il legislatore ha riservato al genere e alla questione delle pari opportunità. A restare nella sostanza immutata, anche oltre i risultati acquisiti tramite la fase emancipazionista del femminismo, è la struttura del dominio maschile, il rapporto di dominio tra i generi, che si mantiene anche in presenza dei pur rilevanti miglioramenti sociali e politici rintracciabili nell’effettiva vita delle donne, non solo nella famiglia, ma nell’insieme degli spazi e dei sottospazi sociali. Come ha sottolineato Pierre Bourdieu, si tratta di una costante trans-storica, di cui ogni politica di trasformazione dovrebbe essere consapevole se non vuol condannarsi all’impotenza16. Nel disvelare l’inconscio che governa i rapporti tra i sessi, si mostra non solo la ontogenesi individuale dell’identità, ma anche la filogenesi collettiva del dominio, la storia immobile «dell’inconscio androcentrico». I mutamenti che hanno caratterizzato la condizione delle donne mascherano una permanenza di strutture invisibili che emergono chiaramente all’interno di un’analisi che, sulla base di una lettura critica dell’identità, legge insieme la divisione del

15 Con potere su di sé intendo quella forma di sovranità sulla dimensione corporea ed

esistenziale che permette ad un individuo di scegliere il proprio piano di vita con modalità tendenzialmente indipendenti dai condizionamenti esterni, sia di tipo materiale che immateriale, ma non in forma irrelata rispetto ai cosiddetti «altri significativi» e ai legami sociali.

16 P. Bourdieu, La domination masculine, Edition du Seuil, Paris 1998 (trad. it., Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998).

«Il piacere di disilludere» 107

lavoro nell’economia domestica e quella che si produce nel mercato del lavoro, mettendo in luce le alternative illogiche ma dotate di straordinaria e perdurante forza che le donne si trovano a contrastare. Spesso infatti, le donne che ricoprono posizioni di grande responsabilità pagano questo riconoscimento in ambito professionale con un minor successo in quello privato, lungo una declinazione che va dal celibato al divorzio, dalla maternità tardiva alle difficoltà nella relazione con i figli. La condizione speculare è altrettanto evidente per quelle donne che godendo di successo nell’ambito privato vivono, come contropartita, una rinuncia parziale o totale alla piena realizzazione di sé.

I tratti del dominio maschile, per riprendere l’espressione utilizzata da Bourdieu, non attraversano solo la storia in senso diacronico, ma riguardano sincronicamente anche la maggioranza delle culture contemporanee. In questo più ampio contesto di ricerca, l’assunzione del prisma del genere ha fatto sì che la riflessione prendesse avvio dalla condizione di oppressione e di diseguaglianza in cui versano i soggetti subalterni – donne e bambine in primo luogo – all’interno delle varie culture. Tramite una radicale presa di distanza da interpretazioni essenzialistico-biologistiche di cultura, e promuovendo invece un’opzione di tipo costruttivistico, si è vieppiù accreditata una concezione di cultura come insieme di significati sociali in parte condiviso in parte conflittuale; un complesso, articolato e mutevole, di valori, principi, visioni del mondo, che emergono dalle continue interazioni tra gli individui17. Detto in altri termini, la cultura è un artificio fluido che gli attori dello spazio pubblico, in vario modo, contribuiscono a definire. Seguendo la direzione indicata da Benedict Anderson, la stessa costruzione delle comunità nazionali è la risultante di una «imagined community» che si costruisce nel tempo attraverso il ruolo svolto da élite politiche e intellettuali e non per via ascrittiva e naturale, a partire da una spazialità territoriale determinata oggettivamente18.

17 Su questo tema si veda: S. Benhabib, The Claims for Culture. Equality and Diversity in the

Global Era, Cambridge University Press, Cambridge 2002 (trad. it., La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, il Mulino, Bologna 2005); S. Song, Justice, Gender and the Politics of Multiculturalism, Cambridge University Press, Cambridge 2007.

18 B. Anderson, Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, Verso, London 1991(trad. it., Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma 1991).

108 Verità del potere, potere della verità

Risulta allora necessario non solo lo slittamento che dalla singola cultura porta alla pluralità delle culture, su sollecitazione del multiculturalismo, ma anche la constatazione che le appartenenze culturali sono il frutto di complessi processi storici piuttosto che il risultato di statiche entità primordiali, ambiti spesso internamente contestati e continuamente rinegoziati, sia dai propri membri, sia dall’interazione reciproca tra i gruppi. Il compito della teoria non è dunque solo quello di guardare alla presenza dei gruppi, sottolineando la rilevanza di questa dimensione identitaria anche per la cittadinanza democratica, bensì quello di indagare al loro interno per scorgere meglio i soggetti che li abitano e le eventuali diaspore19. Ancora una volta è la strategia del disvelamento a far emergere i caratteri artificiali e perciò stesso incerti e mutevoli delle identità culturali, incapaci di coesistere come tessere musive sulla scena dello spazio pubblico. Ad una concezione dell’identità individuale come processo aperto e incompiuto dovrebbe dunque associarsi la prospettiva di un dialogo complesso tra le culture, un’immagine non visiva ma acustica di creazione e ri-creazione tra noi e l’altro, tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo. Se tra le promesse della modernità vi è anche la possibilità, da parte degli individui, di ri-costruire incessantemente le loro identità in modo autonomo, fluido e dinamico, la stessa definizione sostantiva dell’appartenenza culturale non può essere il prodotto di un’ascrizione eterodiretta. Essa va piuttosto intesa quale frutto di un atto volontario, che è a sua volta capace di contestazione interna, conflittualità e dissenso. Una differenziazione che è utile prendere in considerazione è quella proposta da Marilyn Friedman tra comunità volontarie e comunità non volontarie20. Se i caratteri delle comunità di origine in cui ci troviamo a vivere – famiglia, chiesa, scuola – sono inadeguate rispetto alle nostre aspirazioni identitarie, gli individui devono avere la possibilità di indirizzarsi verso quelle comunità che invece più corrispondono al loro progetto di vita, ricollocandosi entro nuovi

19 È questa l’operazione che si è rivelata assai produttiva in termini analitici, inclusi gli

esiti contraddittori o discutibili di tale approccio, proposta da S.M. Okin, Is Multiculturalism bad for Women? (trad. it., Diritti delle donne e multiculturalismo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007).

20 M. Friedman, Feminism and Modern Friendship. Dislocating the Community, in S. Avineri e A. de-Shalit (a cura di), Communitarianism and Individualism, Oxford University Press, Oxford 1992, pp. 101-119.

«Il piacere di disilludere» 109

contesti di significato. A questo secondo gruppo appartengono ad esempio le comunità che si sviluppano all’interno del contesto urbano e i social network ad esse collegate. Il passaggio dalle comunità involontarie a quelle volontarie non rappresenta affatto una perdita del valore della comunità, ma – al contrario – un incremento della rilevanza che esse assumono, proprio in quanto scelte, per gli individui. Un tale passaggio, infatti, consente non tanto la costruzione del Sé ma la sua ri-costruzione, anche quando ciò che risulta condiviso è una condizione di oppressione.

Ravvisate le profonde relazioni che la cultura intrattiene con il genere – dalla sfera domestica alla definizione delle questioni relative a vita, morte, matrimonio, divorzio, sessualità – ciò che viene alla luce, e che in altre analisi rimane occultato, sono le condizioni di diseguaglianza e di oppressione in cui versano donne e bambine. Le stesse tesi del relativismo culturale, da una parte, e del multiculturalismo, dall’altra, militano a favore di una concezione statica di cultura, connotata da tratti prettamente biologici, in base alla quale o le identità culturali vengono preservate nel loro complesso – una sorta di tutela della specie compiuta per via amministrativa – oppure vanno verso il definitivo collasso. In queste ipotesi, la configurazione dello spazio pubblico appare caratterizzata da enclave culturali che coesistono come monadi, reciprocamente chiuse in se stesse, con il rischio di veder perduta quella capacità individuale di contestazione e di dissenso rispetto alle istituzioni culturali, politiche e religiose che rappresenta un guadagno irrinunciabile del carattere progettuale ed elettivo dell’identità moderna21. Nel progetto moderno, infatti, l’individuo, emancipato da appartenenze e ruoli precostituiti e immutabili, è capace di affermare, se necessario, anche un’identità contro, esprimendo dissenso e se necessario defezione. La critica mossa dalla prospettiva dei communitarians rispetto all’astratto individualismo di tradizione liberale, pur condivisibile nel richiamo al radicamento del Self in termini contestuali, mostra i suoi limiti tanto nel non contemplare la possibilità del dissenso rispetto alle culture di provenienza, quanto nel non richiamare il fatto che gli individui,

21 Questo mi pare essere il limite principale della stessa prospettiva del multiculturalismo così come è stata avanzata da Charles Taylor, Multiculturalism and the Politics of Recognition, in A. Gutmann, Multiculturalism an the Politics of Recognition, Princeton University Press, Princeton 1992 (trad. it., Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano 1993).

110 Verità del potere, potere della verità immersi nelle comunità di provenienza, esercitano la libertà di ricostruire se stessi in nuove e volontarie dimensioni intersoggettive. Alla formulazione di questa critica gli studi di genere hanno fornito un contributo fondamentale.

Parte seconda

Panoramiche

Il potere della verità e la verità come potere: l’instabilità come verità umana

Giacomo Pezzano

Sapere e/è potere: il sapere è l’unica vera via per potere e il potere dà vita a un vero e proprio sapere. Il sapere, con il Sofista platonico, è intrinsecamente potere (kratos), esercizio di una forma di controllo sulle cose, di messa in atto di una violenza (bia) che è quella del logos che intende appropriarsi del proprio oggetto, della verità. Parafrasando la nota affermazione baconiana, scientia e(s)t potentia, in almeno tre sensi: 1) il rapporto verità-potere come rapporto ambiguo tra conoscenza e azione (che, da Talete alla tecnoscienza contemporanea, permea l’esistenza umana); 2) il rapporto verità-potere come messa in atto di pratiche di potere con effetti di verità (secondo quanto soprattutto Foucault ci ha insegnato); 3) il rapporto verità-potere come «questione politica», come la questione della politica.

Tuttavia, ma proprio per andare alla radice di tale ambiguità, qui ci soffermeremo sul profondo significato antropologico e antropogonico della verità, sul fatto che l’uomo è un essere instabile, tanto che non solo la sua verità è di ricercare la stabilità tramite il potere sulle cose, ma che la verità stessa è uno degli strumenti più importanti e «potenti» in questa ricerca di stabilità: in questo deve essere, suggeriamo, individuata la ragione profonda (radicata nella costituzione organico-biologica dell’uomo prima di tutto) del legame tra verità e potere.

È a Nietzsche1 che dobbiamo la piena presa di coscienza di tutto

1 Per le citazioni nietzschiane indicheremo opera e parte e/o paragrafo dell’opera,

facendo riferimento all’edizione tedesca Werke, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, de Gruyter, Berlin und New York 1967-2004, e alle traduzioni italiane: Opere, 2 voll., a cura di F. Desideri, Newton&Compton, Roma 1993; e La volontà di potenza. Saggio di una

114 Verità del potere, potere della verità ciò, a quel Nietzsche che riconobbe che «l’intero apparato della conoscenza è un apparato per astrarre e semplificare – non orientato verso la conoscenza, ma verso il dominio [Bemächtigung] delle cose: “scopo” e “mezzo” sono tanto lontani dall’essenza quanto i “concetti”. Con lo “scopo” e i “mezzi” ci si impadronisce [bemächtigt] del processo (si inventa [erfindet] un processo che si può afferrare), ma con i “concetti” ci si impadronisce delle “cose” che formano il processo»2. Nietzsche vide, in realtà, ancora più in profondità, perché non solo colse nella ragione la destinazione al dominio, ma ne descrisse anche la genesi come un processo di dominio che diventa istituzione3.

La verità di cui ci parla Nietzsche è immediatamente esercizio e ricerca di potere, è l’effetto originario del potere (del controllo della realtà ai fini della sopravvivenza) ed è la causa primaria di ogni conseguimento di potere. Se la domanda è «perché il nesso verità-potere è così complesso?», la risposta crediamo sia «per via della costituzione biologico-organica dell’uomo». Menschliches, Allzumenschliches, ancora una volta.

Aprendo Su verità e menzogna in senso extramorale (1873), Nietzsche scriveva:

in un qualche angolo remoto dell’universo che fiam-

meggia e si estende in infiniti sistemi solari, c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti sco-prirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e men-zognero della «storia universale»: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire. – Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventa-re, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l’intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente. Per

trasvalutazione di tutti i valori. Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche, trad. it. di A. Trevis riveduta da P. Kobau, Bompiani, Milano 1994. Abbreviazioni: UWL: Su verità e menzogna in senso extramorale; VP: Volontà di potenza; MM: Umano, troppo umano; JGB: Al di là del bene e del male; GM: Genealogia della morale; UB: Considerazioni inattuali.

2 VP, 503. 3 Cfr. ivi, 514.

L’instabilità come verità umana 115

quell’intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulterio-re, che conduca al di là della vita dell’uomo [es gibt für jenen Intellekt keine weitere Mission, die über das Menschenleben hinau-sführte]4.

Per Nietzsche, l’intelletto (e, con esso, der ganze Erkenntniß-Apparat) altro non è che «qualcosa concesso proprio solo come strumento ausiliario alle più infelici, alle più fragili, alle più transitorie delle creature, per conservarle un minuto nell’esistenza [nur als Hilfsmittel den unglücklichsten, delikatesten, vergänglichsten Wesen beigegeben ist]», ossia è il mezzo per la conservazione dell’individuo che «sviluppa le sue forze più importanti nella simulazione; infatti è questo il mezzo attraverso cui si conservano gli individui più deboli, meno robusti, visto che a loro è negato di condurre la battaglia per l’esistenza con le corna o con i morsi laceranti degli animali feroci»5.

È proprio nell’uomo che «quest’arte della simulazione tocca il suo culmine», ed è a questo punto che si apre la «questione della verità»:

in quanto l’individuo vuole conservare se stesso di

fronte ad altri individui, in uno stato di cose naturale egli si serve dell’intelletto per lo più soltanto per la simulazione; ma poiché l’uomo vuole anche esistere, sia per bisogno sia per noia, socialmente e come in un gregge, stipula un pat-to di pace e si adopera per cancellare dal suo mondo al-meno il più brutale bellum omnium contra omnes. Questo pat-to di pace porta qualcosa con sé, che è come il primo pas-so verso il raggiungimento di quell’enigmatico impulso alla verità [rätselhaften Wahrheitstriebes]. A questo punto cioè viene fissato [fixiert] ciò che da allora in poi dovrà essere la «verità», il che significa che si è trovata una connotazione vincolante e uniformemente valida delle cose [eine gleichmä-ßig gültige und verbindliche Bezeichnung der Dinge] e che la nor-ma linguistica istituisce anche le prime regole della verità; sicché si chiarisce qui per la prima volta il contrasto di ve-rità e menzogna6.

4 UWL, I. 5 Ibidem. 6 Ibidem.

116 Verità del potere, potere della verità

La verità, pertanto, non è altro che risposta a un impulso (der Trieb zur Wahrheit), risposta all’esigenza di conservare la vita e di evitare ciò che può essere dannoso o distruttore: risposta al bisogno di controllare il mondo per sopravvivere, primo strumento di potere, che nasce a sua volta come effetto di quel potere originario che è il potere della vita a perseverarsi. Secondo Nietzsche, uno degli elementi fondamentali per permettere la fissazione della verità è il linguaggio, la parola, «riflesso sonoro di uno stimolo nervoso» 7:

il significato della lingua per l’evoluzione della cultura consiste nel fatto che in essa l’uomo pose un proprio mondo accanto all’altro [eine eigene Welt neben die andere stel-lte], un luogo che egli riteneva tanto solido da potere, ap-poggiandosi a esso, scardinare il resto del mondo e farsene signore [er für so fest hielt, um von ihm aus die übrige Welt aus den Angeln zu heben und sich zum Herrn derselben zu machen]. […] Nella lingua egli riteneva di possedere veramente la coscienza del mondo. Il plasmatore del linguaggio non era così modesto da credere di dare semplicemente designa-zioni alle cose, egli immaginava piuttosto di esprimere con le parole la più alta sapienza sulle cose [er drückte vielmehr, wie er wähnte, das höchste Wissen über die Dinge mit den Worten aus]; in effetti la lingua è il primo gradino dello sforzo ver-so la scienza. Anche qui, è la fede nella verità trovata quella da cui sono sgorgate le più poderose sorgenti di energia8.

Dominare la vita (über das Leben zu herrschen): a questo scopo

l’intelletto, «quel maestro di simulazione»9, nasce e mette in moto i meccanismi, le maschere, del linguaggio e della verità. Quest’ultima, perciò, è la dimenticanza dell’istinto di potere che la ha originata, è l’irrigidimento e la sclerotizzazione di un atto costruttivo e costitutivo primigenio, è l’espressione suprema dell’umanità, suprema perché strumento principe per la sopravvivenza, la verità è antropomorfica ed ha la forma del potere che «(si) fa istituzione» dimenticandosi in quanto potere10:

7 Ibidem. 8 MM, I, 11. 9 UWL, II. 10 Si ricordi che in UB, II, I è sottolineata l’importanza dell’oblio ai fini del mantenimen-

to e del potenziamento della vita.

L’instabilità come verità umana 117

che cos’è dunque la verità? Un esercito mobile di me-tafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, ab-bellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga con-suetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vinco-lanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come mo-nete. […] Noi abbiamo preso atto del dovere di mentire secondo una salda convinzione, di mentire cioè tutti in-sieme in uno stile vincolante per tutti. Ora, certamente l’uomo si dimentica che le cose stanno così; dunque egli mente nel modo indicato, inconscientemente e per con-suetudini secolari – e proprio attraverso questa incoscienza, proprio attraverso questo dimenticare egli perviene al sen-timento della verità [nun vergißt freilich der Mensch, daß es so mit ihm steht; er lügt also in der bezeichneten Weise unbewußt und nach hundertjährigen Gewöhnungen – und kommt eben durch die-se Unbewußtheit, eben durch dies Vergessen zum Gefühl der Wahrheit]. […] Qui si può di certo ammirare l’uomo come un potente genio della costruzione [gewaltiges Baugenie], ca-pace di ergere su fondamenta mobili e per così dire sull’acqua corrente un arco concettuale infinitamente complicato; e di certo per trovare stabilità su tali basi biso-gna che la costruzione sia fatta di ragnatele, così leggera da lasciarsi trasportare dalle onde e così salda da non essere soffiata via dal vento. In questo modo l’uomo, come genio costruttivo, s’innalza al di sopra delle api: queste costrui-scono sulla cera, che esse raccolgono dalla natura [aus der Natur zusammenholt], egli invece sulla più sottile materia dei concetti, che deve fabbricarsi da sé [aus sich fabrizieren muß]. Egli è da ammirare – ma non a causa del suo impulso ver-so la verità, verso la conoscenza pura delle cose. Se qual-cuno nasconde un oggetto dietro un cespuglio, e poi torna lì a cercarlo e lo trova, non è che per lui ci sia molta gloria in questo cercare e trovare: ma proprio così stanno le cose quanto alla ricerca e alla scoperta della «verità» entro l’ambito della ragione. […] La verità è antropomorfica e non contiene un solo singolo punto che sia «vero in sé», reale e universalmente valido, al di là della prospettiva dell’uomo. […] Soltanto attraverso la dimenticanza di quel

118 Verità del potere, potere della verità

primitivo mondo di metafore, soltanto attraverso l’indurimento e l’irrigidimento di una originaria massa di immagini sgorgante con flusso impetuoso da quella facoltà originaria che è la fantasia umana, […] solo se l’uomo si dimentica di sé come soggetto e anzi come soggetto che crea artisticamente, egli può vivere con tranquillità, con sicu-rezza e con coerenza [lebt er mit einiger Ruhe, Sicherheit und Konsequenz]11.

Tutta la logica «si basa su premesse che non trovano corrispondenza alcuna nel mondo reale [denen Nichts in der wirklichen Welt entspricht], per esempio sulla premessa dell’uguaglianza delle cose, dell’identità della stessa cosa in momenti diversi»12, per permettere all’intelletto di liberarsi, di «mostrare la via e gli strumenti a un povero essere desideroso di vivere [einem armen Individuum, dem es nach Dasein gelüstet, den Weg und die Werkzeuge zu zeigen]», di dare vita a «quella smisurata struttura concettuale appigliandosi alla quale quel miserabile che è l’uomo si salva durante la sua vita [an das sich klammernd der bedürftige Mensch sich durch das Leben rettet]» e di diventare così «lui padrone e togliersi dal volto l’espressione del bisogno [ist er jetzt zum Herrn geworden und darf den Ausdruck der Bedürftigkeit aus seinen Mienen wegwischen]»13.

Nietzsche afferma che come per l’ape è naturale costruire l’alveare, o per il ragno tessere la tela, così il genio costruttivo dell’uomo si esprime nella costruzione dell’edificio della verità («con quella stessa necessità con cui il ragno tesse la tela [mit jener Notwendigkeit, mit der die Spinne spinnt]»14), costruzione tanto più notevole in quanto crea in qualche modo tutto da sé, inventa o crea ex nihilo una struttura stabile che risponda all’instabilità, all’esposizione al bisogno e alla debolezza che caratterizzano l’essere umano, l’animale umano come animale malato15, e che accomuna linguaggio, scienza, arte – ogni prodotto dell’umano:

11 UWL, I. 12 MM, I, 11. 13 UWL, II. 14 Ivi, I. 15 Non deve sfuggire il fatto che tale nota espressione nietzschiana (GM, III, 13) appare

legata alla naturale instabilità ed esposizione al pericolo dell’uomo, che lo porta però a sfidare il destino e a cercare il coraggio necessario a ottenere la supremazia.

L’instabilità come verità umana 119

allo stesso modo in cui l’ape allestisce le sue celle e nello stesso tempo le riempie di miele, così la scienza lavo-ra instancabilmente a quel grande colombarium dei concetti che è il cimitero delle intuizioni, e vi costruisce sempre nuovi e più alti piani, e puntella, ripulisce, rinnova le anti-che celle e anzitutto s’adopera per riempire quello smisu-rato edificio a compartimenti e collocarvi in ordine l’intero mondo empirico, ossia il mondo antropomorfico. […] Quell’impulso verso la formazione di metafore [Trieb zur Metapherbildung], quell’impulso fondamentale dell’uomo di cui neppure per un attimo non si può non tenere conto, perché allora non si terrebbe conto dell’uomo, è in realtà non represso e anzi a malapena controllato, dal momento che con i suoi prodotti evanescenti, ossia i concetti, viene edificato un nuovo mondo, regolare e saldo come un ba-luardo [eine reguläre und starre neue Welt als eine Zwingburg]16.

Il tratto distintivo animale/uomo è per Nietzsche proprio la

capacità umana di architettare e innalzare ordinamenti stabili in grado di stabilizzare quel caos di fronte al quale l’uomo si trova esposto, infermo e debole, incapace altrimenti di sopravvivere17, dando vita a un gioco di dadi al cui interno è Wahrheit «l’uso di qualsiasi dado conformemente alle prescrizioni: contare con precisione i punti segnati, tenere cataloghi esatti e non sovvertire mai l’ordine gerarchico e la successione delle classi»18.

La verità, pertanto, rappresenta proprio la prima espressione del bisogno di stabilità, giacché «der Mensch das noch nicht festgestellte Thier ist»19. Potremmo anche dire: dall’affermazione «rationale animal est homo» a quella per la quale egli è l’animale la cui natura è quella di costruire la razionalità stessa. Ma questo significa che l’uomo è l’animale tecnico, l’animale chiamato a trasformare attivamente il mondo, a ritagliarsi un mondo (Welt) a partire da quell’enigma muto che è per lui l’ambiente circostante (Umgebung), giacché se l’ape e il ragno compiono la loro attività necessariamente, ossia meccanicamente, perché regolati e determinati dall’istinto, l’uomo ordina il caos sì sempre in modo «necessario», ma stavolta nel senso che è per lui necessario rispondere in modo creativo

16 UWL, II. 17 Cfr. anche VP, 466-715. 18 UWL, I. 19 JGB, 62.

120 Verità del potere, potere della verità (e libero, grazie al suo «genio costruttivo») al fatto di non essere necessitato, non determinato dall’istinto, non irrigidito nell’univocità della spinta istintuale, perché anzi capace di governare i vari istinti amplificandone la portata, di reindirizzarli moltiplicandone le sfumature: «l’uomo, al contrario dell’animale, ha cresciuto dentro di sé una grande quantità di istinti e impulsi contrastanti: grazie a questa sintesi è il padrone della terra»20.

Queste tematiche, com’è noto, hanno avuto largo spazio nell’antropologia filosofica novecentesca (legata soprattutto ai nomi di Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen21, ma non dimentichiamo che il mito di Prometeo ha sempre narrato l’«originaria carenza» umana come matrice della «naturale tecnicità umana»): l’idea di fondo è che la natura dell’essere umano è quella di essere tecnico, in quanto se l’animale (generalizzazione che si rende necessaria a livello analitico) è già dotato dall’istinto e dal corredo biologico proprio della specie di appartenenza dei mezzi per sopravvivere e per trascorrere la propria esistenza, l’uomo invece è aperto al mondo, chiamato a crearsi un mondo tramite l’azione, tramite la trasformazione di quanto incontra, tramite la tecnica: l’animale vive chiuso nella propria Umwelt, nel mondo-ambiente tipico della specie di appartenenza, mentre l’uomo agisce e vive nella Welt che costruisce, la sua caratteristica specifica è quella della Weltoffenheit, dell’apertura al mondo come ciò che deve però attivamente aprire per potere sopravvivere e, soprattutto, bene-vivere. L’uomo è costretto per natura a superare la natura: la natura non lo ha dotato del corredo istintuale-pulsionale e biologico-organico atto a sopravvivere senza mediazioni, senza la creazione di mezzi e di strumenti, senza la cultura; l’uomo è (come narra anche la Genesi) nudo di fronte al mondo, chiamato così a vestirsi (in senso non metaforico, innanzitutto). Non si fraintenda: è evidente che l’uomo, pur essendo in questo senso «sprovvisto» di mezzi specifici per la vita, è – proprio per tale motivo – il più provvisto delle capacità di elaborare attivamente i mezzi di cui manca. In altri termini: che l’uomo sia tecnico significa sì che egli è Mängelwesen, ma anche che è proprio in tale mancanza che trova la propria forza, le proprie possibilità, la propria libertà. La complessità che caratterizza l’uomo (si

20 VP, 966. 21 Autori che nelle loro opere hanno sviluppato sistematicamente anche le intuizioni

nietzschiane dell’uomo come animale malato (Scheler) e non ancora stabilizzato (Gehlen).

L’instabilità come verità umana 121

pensi solo a livello di dotazione cerebrale) è quindi una complessità a-specifica, che – paradossalmente – lo determina a determinarsi da sé.

Che la tecnica sia l’essenza dell’uomo significa anche (e soprattutto, ai fini del nostro discorso) che l’uomo è costretto ad avere una qualche forma di potere sulle cose per poter sopravvivere, ed è qui che si innesta il discorso nietzschiano sulla verità come strumento di sopravvivenza, come risposta originaria al bisogno e all’indigenza, alla nudità, caratterizzanti l’umano: è a partire da qui che occorre pensare il nesso verità-potere, la verità dell’uomo è il suo dover aver potere sulle cose per avere un mondo, non solo e non tanto immediatamente nel senso manipolativo, ma – ancor prima – in quello per cui per orientarci nel mondo dobbiamo costruircelo (già percettivamente), dobbiamo operare delle selezioni, per ritagliare il nostro mondo, la nostra verità, a partire da quel caos indistinto al quale siamo sottoposti e che siamo, in cui siamo gettati.

«Senza specie umana, non c’è verità»22: quell’immaturità biologica che nell’uomo inibisce i processi di accrescimento e che, prendendo distanza dall’ambiente, rinvia l’impatto diretto con esso, costringe in seguito l’uomo a prendere contatto attivo con esso, e questo significa che l’uomo incontrerà non più l’ambiente da cui ha preso le distanze, ma il mondo attivamente ritagliato, e questo mondo sarà quello ritenuto vero, sarà la verità come ciò che l’uomo incontra e che gli permette un orientamento costante e affidabile. Solo un essere la cui verità è di essere instabile e immaturo potrà (dovrà) maturare tramite la costruzione di una stabile verità: questa la straordinaria intuizione nietzschiana.

22 J. P. Sartre, L’essere e il nulla, trad. it. di G. del Bo, revisione a cura di F. Fergnani e M.

Lazzari, il Saggiatore, Milano 2002, p. 579.

La necessità del concetto di Verità in Morale

Samanta Airoldi

1. Introduzione

Del concetto di «verità» si sono occupate teorie differenti e, assai spesso, in conflitto tra loro. Tra le più note ricordo la teoria corrisponden-tista, la teoria coerentista, la teoria utilitarista1.

La prima affonda le sue radici nella celebre asserzione aristotelica: «Vero è dire che l’essere è e il non essere non è. Falso è dire che il non essere è e che l’essere non è». A partire da qui prese le mosse il primo Wittgenstein il quale definì la verità in termini di corrispondenza tra linguaggio e mondo: un’asserzione è vera se descrive uno stato dei fatti che ha luogo nel mondo; altrimenti è falsa. Suddetta teoria, a mio avviso perfettamente funzionante se limitata al mondo oggettivo dei fatti, non fornisce, tuttavia, alcuna risposta sulla verità o falsità di si-tuazioni che trascendono il mondo dei fatti oggettivi, non ci dice nulla in merito al mondo sociale delle norme in cui pure siamo quotidiana-mente inseriti.

La teoria coerentista, invece, afferma essere vero ciò che è «coerente». Il concetto di coerenza, purtroppo, è assai vago in quanto se si pre-tendesse che un’asserzione o un fatto fossero coerenti con ogni altra asserzione o fatto esistenti allora si pretenderebbe decisamente troppo e non vi sarebbe asserzione o fatto alcuno che si potrebbero dire «ve-ri»; tuttavia se bastasse che un’asserzione fosse coerente con qualche altra asserzione o un fatto fosse coerente con qualche altro fatto allora tale requisito sarebbe del tutto insufficiente a stabilire la verità e non sarebbe, inoltre, possibile distinguere un racconto di cronaca da una

1 Cfr. N. Vassallo, Teoria della conoscenza, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 12-24.

124 Verità del potere, potere della verità fiaba in quanto anche in una fiaba le asserzioni e i fatti potrebbero risultare coerenti tra loro.

La teoria utilitarista sostiene essere vero ciò che ci è utile. Il proble-ma fondamentale, a mio avviso, è: utile a chi? L’utilità non è certo la medesima per tutti i soggetti; dovrebbero quindi esistere tante verità quante sono le utilità? Un secondo problema nasce dal fatto che ciò che è utile oggi potrebbe non esserlo più domani; ma allora con il mu-tare di ciò che è utile dovrà mutare anche ciò che è vero? Questo cri-terio mi appare assai contro-intuitivo. 2. Dal paradigma mentalistico al paradigma comunicativo

Sollevare una pretesa di validità significa richiedere il consenso in-tersoggettivo per l’azione linguistica formulata; la validità di un’azione linguistica è, per così dire, il suo «merito» al riconoscimento intersog-gettivo2. Le azioni comunicative si suddividono in: constatative, regolative, espressive. Ad ognuna di queste categorie fa da sfondo un determinato «mondo»:

– Mondo oggettivo dei fatti nel caso di azioni constatative. – Mondo sociale delle norme nel caso di azioni regolative. – Mondo soggettivo delle esperienze nel caso di azioni espressive.

In base alle diverse azioni linguistiche di cui si serve il parlante, di vol-ta in volta, mette in risalto una specifica pretesa di validità:

– Con un’azione constatativa il parlante solleva una pretesa di Ve-rità, ovvero pretende di dire qualcosa di vero riguardo al mondo og-gettivo dei fatti.

– Con un’azione regolativa il parlante solleva una pretesa di Giu-stezza, ovvero pretende che la sua modalità interattiva sia ritenuta cor-retta sulla base delle norme socialmente valide.

– Con un’azione espressiva il parlante avanza una pretesa di Veridi-cità, ovvero pretende che gli altri credano alla veridicità con la quale rivela qualcosa del suo mondo interiore cui egli ha accesso privilegia-to.

Le assunzioni mentalistiche di fondo della gnoseologia ruotavano intorno ai concetti di «soggettività» e «autocoscienza»3: «il soggetto

2 Cfr. G. Cunico, Critica e ragione utopica, Marietti, Genova 1988, p. 106. 3 J. Habermas, Verità e giustificazione, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 230.

La necessità del concetto di Verità in Morale 125

conoscente può dischiudersi una sfera privilegiata di esperienze vissu-te immediatamente accessibili e assolutamente certe, se si indirizza non direttamente agli oggetti bensì, riflessivamente, alle proprie rap-presentazioni di oggetti»4. Il modello mentalistico della conoscenza dà origine principalmente a due problemi:

1. Incomunicabilità: se ognuno conosce il mondo tramite le sue pro-prie private rappresentazioni mentali cui egli soltanto ha accesso come potrà comunicare con gli altri circa un mondo che ciascuno potrebbe rappresentarsi in maniera differente? Venendo meno l’oggettività del mondo verrà meno anche quella base comune condivisibile da tutti a cui rifarsi per avanzare la proprie pretese di validità nell’ambito di a-zioni comunicative.

2. Idealismo: posto che le strutture mentali tramite cui ciascuno si rappresenta il mondo fossero uguali per tutti, il suddetto problema di incomunicabilità verrebbe risolto; ma chi potrebbe garantire che tali strutture mentali rappresentino il mondo esterno in modo fedele e non diano luogo, invece, ad illusioni circa esso? Se tutti hanno accesso al mondo esterno non direttamente ma solo per mezzo di rappresen-tazioni mentali, come si può essere sicuri che un mondo esterno esista realmente e non sia solo il frutto di queste stesse rappresentazioni? 3. Habermas e il modello consensualistico di «verità»

Habermas cerca una soluzione che gli consenta di rimanere all’interno del linguaggio e, al contempo, di non ridurre il concetto di verità a quello di «giustificazione». Egli parte dall’assunto che la verità non può essere ridotta ad accettabilità, ma, tuttavia, tra le due esiste pur sempre una forte connessione: «anche se la verità non è un con-cetto di successo, noi presupponiamo che una giustificazione di “p”, riuscita secondo i nostri criteri, deponga in favore della verità di “p”»5.

Il passo che egli compie per colmare il divario sussistente tra i due concetti consiste nell’introdurre «condizioni ideali di accettabilità» le quali hanno il compito di decentrare la prospettiva dei partecipanti al discorso dal contesto concreto in cui operano a tutti i possibili conte-sti di giustificazione. Un’asserzione vera si distingue da una giustificata

4 Ibidem. 5 Ivi, p. 281.

126 Verità del potere, potere della verità o accettata razionalmente in virtù della sua accettabilità in tutti i con-testi possibili; detto altrimenti un’asserzione per conquistarsi il titolo di «vera» deve poter essere accettata a prescindere dal contesto speci-fico in cui viene messa a tema, di per sé, deve saper resistere ad ogni possibile tentativo d’invalidazione.

Questa concezione di «Verità» si rifà ad un tipo di conoscenza an-tifondazionalista e olistica: gli attori non escono mai dalla dimensione linguistica, non si confrontano mai con la realtà nuda e spoglia. In questo senso la soluzione ottenuta non è certo esaustiva ma è, tuttavi-a, funzionale a restituire quel tanto di certezza necessaria a muoversi nella prassi quotidiana. Una volta riscattata discorsivamente la pretesa di verità sollevata, seppur non raffrontata al mondo oggettivo al di fuori del medium linguistico, può tornare ad essere utilizzata a-problematicamente nell’agire comunicativo; agli attori sociali non ser-ve di più per muoversi ingenuamente e con una buona dose di certez-za. Tuttavia, proprio la consapevolezza del carattere non assoluto ma fallibilistico del concetto di verità così ottenuto, ostacolerà un atteg-giamento dogmatico nei confronti del mondo e del sapere acquisito e favorirà la disposizione a mettersi in discussione.

A prima vista gli enunciati assertivi che compaiono in azioni lin-guistiche constatative sembrano comportarsi verso i fatti in modo analogo a quello in cui gli enunciati normativi che vengono usati in azioni linguistiche regolative si comportano nei confronti delle rela-zioni interpersonali6. Tuttavia una norma è, al contempo, più autono-ma e meno autonoma di un fatto.

È più autonoma perché il suo valore e la sua validità non sono vincolati alla forma dell’atto linguistico. La spiegazione di questo è data dal fatto che le pretese di verità hanno la loro sede unicamente nelle azioni linguistiche in quanto si riferiscono ad un mondo oggetti-vo che di per sé non ha alcun valore e che, pertanto, di per sé non solleva alcuna pretesa. Le pretese di giustezza si trovano, invece, da subito inserite in un mondo sociale che avanza da se stesso delle pre-tese di validità; pertanto esse hanno la loro sede principalmente nelle norme e solo secondariamente nelle azioni linguistiche7.

D’altro canto, in un altro senso, le norme sono meno autonome dei fatti. Infatti le prime necessitano di attori che le pongano in atto,

6 Ibidem. 7 Ivi, p. 68.

La necessità del concetto di Verità in Morale 127

mentre i secondi esistono o non esistono a prescindere da qualsivoglia presenza umana. I fatti possono esistere anche senza nessuno che li constati; le norme perdono il loro senso senza qualcuno che le attua8. 4. John Rawls: rinuncia al concetto di «verità»

A seguito delle Dewey-Lectures del 1980, Rawls, preoccupato del sempre crescente pluralismo sociale e, soprattutto, ideologico delle società moderne sottolinea il carattere «politico» della sua concezione della giustizia9. Con tale attributo il filosofo vuole evidenziare la neutralità della sua teoria rispetto alle diverse visioni del mondo.

A tale proposito avrebbe dovuto essere funzionale, nell’intento rawlsiano, anche il concetto di «consenso per sovrapposizione»10, ovvero quel consenso che risulta dalla parziale intersezione delle diverse visioni del mondo lasciando ognuna così come è, senza creare fenomeni di incoerenza o provocare rivisitazioni forzate delle diverse dottrine comprensive: in altre parole tutti i cittadini possono dare il loro consenso alla concezione della giustizia proposta da Rawls e ai due principi che da essa conseguono, pur mantenendo ciascuno la propria personale visione del mondo. Nell’ottica di Rawls (o, per meglio dire, nelle sue speranze) la concezione della giustizia da lui proposta si integra perfettamente all’interno di qualunque dottrina ragionevole.

La critica di Habermas si inserisce proprio a questo punto. Il filosofo tedesco si sofferma ad analizzare il ruolo occupato all’interno della teoria rawlsiana da due concetti ritenuti portanti:

1. Il concetto di «consenso per sovrapposizione». 2. Il concetto di «ragionevole»11.

In questa sede mi occuperò soltanto del secondo di suddetti concetti. Il concetto di «ragionevolezza» è suscettibile di due differenti interpretazioni:

1. Ragionevole come «moralmente vero». 2. Ragionevole come meditato, tollerante12.

8 Ivi, p. 69. 9 Ivi, p. 74. 10 Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, trad. it. di G. Rigamonti, Edizioni di Comunità,

Milano 1994, pp. 124-154. 11 J. Habermas, L’inclusione dell’altro, cit., p. 74.

128 Verità del potere, potere della verità La prima opzione viene abbracciata da Habermas; la seconda da Rawls.

Nella concezione della giustizia di John Rawls la ragionevolezza viene a configurarsi come una sorta di iper-tolleranza nei confronti di ogni visione del mondo purché anch’essa ragionevole, dove per «visione del mondo ragionevole» il filosofo intende qualunque visione del mondo che rinunci ad imporsi e si dimostri, a sua volta, tollerante nei riguardi del pluralismo. La ragionevolezza rawlsiana, pertanto, viene spogliata di ogni contenuto cognitivo rischiando di far precipitare tutta la teoria in un pericoloso scetticismo dei valori.

Tanto Habermas quanto Rawls manifestano il loro rifiuto e per il realismo etico e per il soggettivismo etico. Il primo, proprio delle concezioni giusnaturaliste, vede la dimensione normativa appiattirsi su quella descrittiva: esiste un ordine naturale delle cose a cui la nostra mente non può far altro che adeguarsi; giusto e sbagliato esistono in natura, non sono frutto dell’accordo tra gli uomini13. Il secondo interpreta la giustizia come un sentimento morale; si agisce in un modo piuttosto che in un altro spinti da mere preferenze soggettive. Secondo i fautori di quest’ultima concezione la questioni morali non possono essere giudicate né vere né false in quanto sono tutte riconducibili alla scelta arbitraria del singolo14.

Ben distante da concezioni del primo tipo la teoria rawlsiana, con un concetto di ragionevolezza troppo debole per rivendicare qualunque pretesa normativa, rischia di precipitare in dottrine del secondo tipo. L’errore principale di Rawls consiste nel credere che una concezione politica non possa essere vera se vuole rendere conto del pluralismo sociale e ideologico; detto altrimenti, secondo Rawls, se una dottrina politica avanza una pretesa di verità allora diventa per forza intollerante e non può costituire la base di un consenso per sovrapposizione che sia conciliabile con le diverse visioni del mondo.

Rawls commette l’errore di concepire la «verità» unicamente in termini di «verità oggettiva», ovvero avente come referente il mondo oggettivo dei fatti; ma una simile pretesa, propria delle proposizioni assertorie, non può certo essere avanzata da proposizioni normative

12 J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano 2002, p. 78. 13 Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, a cura di E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 2004, pp.

51-64. 14 Ibidem.

La necessità del concetto di Verità in Morale 129

aventi lo scopo di regolare le interazioni tra le diverse parti15. Habermas si propone di restituire al concetto di ragionevolezza

tutta la portata cognitiva necessaria affinché possa avere sufficiente forza normativa e vincolante all’interno delle moderne società pluraliste senza, per questo, sfociare nell’intolleranza. La verità di cui Habermas parla non è la verità oggettiva degli enunciati assertori, ma la verità intersoggettiva degli enunciati normativi; verità che, nell’orizzonte di un’etica pubblica, viene ad assumere il nome di Giustezza.

La situazione ideale prospettata dal filosofo tedesco si rivela più modesta ma più esigente rispetto alla posizione originaria rawlsiana. È più modesta in quanto non riparte da capo immaginando una situazione in cui astratti decisori razionali devono, per così dire, «dimenticare» la propria identità, la propria posizione, la propria personalità, in una parola la propria vita; Habermas non costruisce dal nulla una situazione ideale, semmai la «ricostruisce» a partire dalle concrete situazioni argomentative in cui quotidianamente cittadini in carne ed ossa si trovano ad interagire avanzando, ciascuno, le proprie rispettive pretese di verità, giustezza e veridicità16.

Le idealizzazioni che stanno alla base della situazione argomentativa prospettata da Habermas riguardano gli assunti che i partecipanti all’argomentazione devono implicitamente ammettere: pariteticità di tutti i parlanti, rinuncia all’uso della violenza come strumento di persuasione, veridicità. Non si riferiscono, come nella teoria rawlsiana, agli oggetti trattati in sede di argomentazione; «esse lasciano intatte l’identità dei partecipanti e la materia di controversia proveniente dal mondo della vita»17.

I partecipanti alla situazione argomentativa, a differenza dei decisori razionali rawlsiani, devono aver ben presenti i propri interessi e le proprie esigenze, come anche gli interessi e le esigenze altrui; interessi ed esigenze che, nel corso di un dibattito intersoggetivamente condotto, vengono reinterpretati alla luce del loro carattere sociale e socialmente determinato. In altre parole, nel pensiero habermasiano, non esiste soggettività senza intersoggettività; il singolo diventa propriamente tale solo all’interno della società e, pertanto, anche quei

15 Ivi, pp. 64-70. 16 Cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 379-457. 17 J. Habermas, Teoria della morale, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 170.

130 Verità del potere, potere della verità bisogni che vengono ritenuti naturali o soggettivi affondano le proprie radici nella dimensione intersoggettiva.

Secondo Habermas «gli esseri viventi solamente socializzandosi possono individualizzarsi»18. È quindi evidente che in questa prospettiva non soltanto la ragione è pubblica ma anche il suo uso, in questioni di comune interesse, non può che essere tale se non si vuole approdare ad un mero compromesso di dubbio valore normativo. Ognuno, nella situazione argomentativa ideale prospettata da Habermas, avendo ben chiare le esigenze proprie e altrui, deve calarsi nel ruolo di tutti gli altri e assumerne la prospettiva. Questo procedimento, a differenza che nel pensiero rawlsiano, devono compierlo tutti quanti insieme e non ciascuno per conto proprio. Fin da subito la situazione argomentativa ideale si caratterizza per il formarsi di una prospettiva «del noi» cui la prospettiva dell’ «io» è indissolubilmente legata.

Tutti i partecipanti al discorso arrivano ad un accordo razionalmente motivato per la medesime ragioni in quanto tutti hanno ragionato insieme sottoponendo a giudizio le visioni proprie e altrui alla luce di un paradigma intersoggettivamente condiviso. In questo modo il consenso raggiunto si fa garante della stabilità sociale in quanto affonda le sue radici soltanto in quei valori pubblici accettati da tutti e, pertanto, non rimarrà vittima di eventuali scontri tra valori pubblici e non pubblici, essendo questi ultimi relegati alla solo sfera privata e non facendo mai comparsa sulla scena politica.

18 Ivi, p. 11.

La necessità del concetto di Verità in Morale 131

Bibliografia

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Habermas, Jürgen, Etica del discorso, a cura di E. Agazzi, Laterza, Roma- Bari 2004.

Habermas, Jürgen, Teoria della morale, Laterza, Roma- Bari 1994. Habermas, Jürgen, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano 2002. Habermas, Jürgen, Verità e giustificazione, Laterza, Roma- Bari 2001. Rawls, John, Liberalismo politico, trad. it. di G. Rigamonti, Edizioni di

comunità, Milano 1994. Rawls, John, Una teoria della giustizia, trad. it. di U. Santini, Feltrinelli,

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Teoria della razionalità, pluralismo democratico e ruolo degli intellettuali

Alfonso di Prospero

1. Il dibattito sull’induzione nel corso del Novecento è legato al nome di autori, quali Popper e Carnap, il cui interesse era rivolto alle implicazioni che potevano riguardare i metodi di ricerca impiegati dalla comunità scientifica. Il presupposto implicito è stato quindi di accettare dei requisiti di intersoggettività e condivisibilità delle proposte teoriche che vengono sottoposte al giudizio della comunità dei ricercatori. Si è sottovalutato così il significato tendenzialmente soggettivista del ragionamento induttivo1: persone diverse, partendo ciascuna da un proprio bagaglio di esperienze e credenze, saranno portate a ricavare generalizzazioni induttive di contenuto diverso, ma questo comporta poi che, anche nel caso in cui le rispettive conclusioni siano in reciproca contraddizione, ciascuna potrà ritenere di avere una legittimazione epistemologica (perlomeno di tipo procedurale, ma questo dovrebbe essere già sufficiente per potersi considerare «razionali») per continuare a considerare corretta e accettabile la propria conclusione. Una domanda pertinente diventa allora la seguente: se questo schema di analisi viene esplicitamente accettato da una delle persone in causa, in che modo questa persona dovrebbe poi valutare la «razionalità» delle affermazioni dei suoi avversari?

1 In questo lavoro non possiamo darci l’obiettivo di trattare in maniera più dettagliata il

problema dell’induzione, ma ci limitiamo ad assumere, come premessa per il nostro ragionamento, l’ipotesi che la mente umana funzioni secondo una forma di induttivismo rigoroso (tento un’analisi più accurata della questione in un volume in corso di pubblicazione su La logica della semplicità. Comunicazione e ontologia nel «Tractatus» di Wittgenstein).

134 Verità del potere, potere della verità

Se si considera il ragionare per induzione come una necessità che conduce, a priori, un soggetto epistemico a generalizzare sulle proprie esperienze, una conseguenza che legittimamente si può trarre potrebbe essere che qualcosa che è riconosciuto come comportamento «necessario» o «naturale», difficilmente potrà essere imputato come colpa. Ad impossibilia nemo tenetur.

In realtà però il fatto che io debba ritenere naturale che i soggetti epistemici che osservo tengono conto ciascuno, inevitabilmente, delle proprie esperienze, non implica che io, a mia volta, debba sentirmi in dovere di riconoscere come «vere» le loro conclusioni: la mia identità e le mie convinzioni si radicano nelle mie esperienze, e i diversi «soggetti» epistemici che osservo possono svolgere in realtà solo il ruolo di oggetto di rappresentazione. Vale a dire: condurrò varie operazioni di inferenza per ricostruire quale sia il loro proprio punto di vista, ma in ogni caso tutto sarà vincolato alle mie proprie capacità di ricostruire le loro credenze.

Tale prospettiva, anche grazie alla sua accentuata connotazione psicologica, può essere collocata nel quadro dell’epistemologia genetica di Piaget: l’idea di base è che ogni essere umano, dalla nascita, procede gradualmente a costruire la propria immagine del mondo, in particolare servendosi di generalizzazioni induttive e deduzioni (traducibili essenzialmente, nei termini di Piaget, nei concetti di accomodamento ed assimilazione) che consentono al soggetto epistemico di uscire dall’egocentrismo infantile e acquisire via via una conoscenza più oggettiva, articolata e «decentrata» del reale. Se si applica questa impostazione alla costruzione e definizione della nozione di «persona», ne segue che, nel momento in cui osservo altri soggetti epistemici, comunque risulto essere, a mia volta, legato al mio proprio punto di vista, in base al quale un soggetto che parta da premesse diverse dalle mie – e arrivi così a generalizzazioni diverse – sarà comunque da considerarsi – da me – in errore. Ovviamente, in quanto soggetto epistemico, non posso negare che la mia conoscenza sia estremamente incompleta e limitata, ma un’idea di questo tipo può essere formulata nei termini di una certa misura di indeterminatezza che i nostri giudizi hanno: nei casi in cui osservo un soggetto epistemico e penso che, su qualche questione, egli ne sappia più di me, posso farlo solo attraverso mie rappresentazioni, che necessariamente posso prendere solo per vere (altrimenti non potrei considerarle le «mie» rappresentazioni) e che mi «danno» tutto ciò che so sui contenuti

Teoria della razionalità, pluralismo democratico e intellettuali 135

epistemici posseduti da quella persona.

2. Il senso della posizione che stiamo suggerendo è che non è possibile aderire ad una forma «letterale» di relativismo (pena la contraddizione) ma è possibile conservare almeno una parte importante delle sue intuizioni di fondo: i diversi soggetti epistemici sarebbero determinati ciascuno dal proprio patrimonio di esperienze, e legittimati epistemologicamente (in un senso le cui implicazioni precise andrebbero chiarite con un adeguato lavoro di approfondimento) a trarre le generalizzazioni induttive conseguenti.

Inoltre: fin qui, è ancora possibile concludere che ogni soggetto epistemico, in quanto tenuto a rispondere soltanto alla propria esperienza (la propria identità, la propria biografia, la propria storia) non debba preoccuparsi di tener conto anche di quella altrui. Questo però non può significare che la conoscenza del punto di vista altrui possa perdere di interesse o importanza: semplicemente si utilizza una teoria del significato (linguistico e non) che lo identifica come risultato delle inferenze (induttive e deduttive) che ciascun soggetto autonomamente svolge sugli altri soggetti, e non come insieme e ri-combinazione di elementi inclusi in una specie di «deposito» dei significati che pre-esiste in qualche modo ai parlanti e ai loro atti di interpretazione-inferenza2.

Il fatto che poi, in vari casi, proprio la propria esperienza sembri indicare la necessità di tener conto di quanto hanno da dire gli altri, creerebbe una serie di paradossi che obbligherebbero comunque ad una riformulazione dell’idea. La direzione di fondo, in termini intuitivi, è di rendere del tutto tautologica e «vuota» la conclusione del ragionamento: «Ognuno è se stesso» e «Ognuno deve essere se stesso» sono, in un senso ovvio, un’affermazione e una prescrizione che nessuno può contraddire o violare («A=A», «A deve essere A»). Se l’esperienza di una persona le dice che, per risolvere un certo problema, dovrà imitare (o comunque tener conto del giudizio di) una

2 Un tale approccio alla teoria del linguaggio, che J. Habermas chiama «semantica

intenzionale» – vedi la Theorie des kommunikativen Handelns, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981 (trad. it. di P. Rinaudo, Teoria dell’agire comunicativo, il Mulino, Bologna 1986) –, può essere ritrovato in P. Watzlawick et al., Pragmatic of Human Communication, Norton, New York 1967; (trad. it. di M. Ferretti, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971), o in G. Bateson, Steps to an Ecology of Mind, Ballantine Books, New York 1972 (trad. it. di G. Longo, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976).

136 Verità del potere, potere della verità qualche altra persona, questo, per lei, significherà «essere se stessi».

La stessa teoria che qui si propone, sembra implicare quindi che un interlocutore debba trovare in sé e nel proprio vissuto qualche motivo per interessarsene e, nel caso, accettarne le conclusioni (così come per qualunque altra affermazione): in generale una richiesta di questo tipo è in realtà ovvia, ma nel nostro caso è interessante che essa possa essere dedotta logicamente dai presupposti della teoria in quanto tale, e non semplicemente essere accettato come dato di fatto, accertabile empiricamente in maniera indipendente.

Logicamente può apparire un paradosso la conseguenza che si può trarre, per cui un oppositore, la cui esperienza di vita gli dica che questo tipo di epistemologia non è neppure da prendere in considerazione (al limite anche per motivi ricollegabili solo a pre-giudizi o pigrizia), dovrebbe essere da me considerato come epistemologicamente e razionalmente legittimato a giudicare così (anche se questo poi non significa che una tale teoria sia falsa). Ovviamente non è in discussione che in concreto sicuramente molti interlocutori penseranno di rifiutare una tale teoria, ma qui sollevo piuttosto la questione de jure per cui io stesso devo pensare contemporaneamente: 1) che il mio oppositore sia legittimato – epistemologicamente – a criticarmi, e 2) che comunque le mie affermazioni che vengono criticate siano ugualmente vere. Se io stesso considero legittima (proceduralmente) la critica del mio oppositore, gli strumenti che posso ritenere di avere (legittimamente) a disposizione per predisporre la mia risposta, saranno diversi che se considero intrinsecamente sbagliata e irrazionale la sua posizione. Una «semantica» (nel senso di Luhmann) di questo genere è adatta – mi sembra – per esprimere le intuizioni alla base del dibattito democratico, che per definizione prevede: 1) un livello più basilare di principi e concetti condivisi con gli stessi avversari, 2) un livello più caratterizzante che distingue tra loro gli opposti schieramenti.

Ma come dovrebbe avvenire il confronto con chi non condivide i principi dell’agire democratico? L’idea di base è che l’orientamento verso un’epistemologia di un tale tipo, debba nascere, nel vissuto e nell’esperienza di una persona, in funzione dell’osservazione e dell’esperienza di un sistema sociale sempre più differenziato e articolato, e quindi necessariamente «plurale» (Luhmann e Habermas sono gli autori che possono offrire gli elementi più significativi su questo punto).

Teoria della razionalità, pluralismo democratico e intellettuali 137

Nel caso in cui un mio interlocutore ritenesse che la mia proposta teorica presuppone – nei fatti – un livello di articolazione del sistema sociale (e quindi delle esperienze di vita) che in realtà non è ancora a disposizione (o che forse non può essere «tollerato» da esseri umani per limiti intrinseci alle capacità di pensiero della nostra specie), dovrei considerare il suo giudizio un episodio di disconferma della mia teorizzazione, o più esattamente un evento che limita (anche se magari di poco, considerato in quanto episodio singolo) la portata e l’applicabilità delle mie posizioni nei processi di interazione sociale. Naturalmente in concreto, prima di accettare un tale rifiuto, dovrò fare quanto posso per rendere chiaro il contenuto della mia proposta, altrimenti non avrebbe neppure senso considerare un rifiuto e una smentita quello che mi viene opposto: il mio interlocutore adotterà una sua «grammatica» – che wittgensteinianamente conterrà in modo implicito tutta la sua propria «forma di vita» – ed è a quella grammatica che devo fare riferimento se voglio farmi intendere.

3. Per provare a rendere almeno un poco più preciso il contenuto

della nostra ipotesi, possiamo tornare ad utilizzare l’epistemologia di Piaget. Quello che qui più ci interessa è il concetto di intelligenza «senso-motoria» (cronologicamente la prima forma di intelligenza che il bambino possiede), cioè la capacità di procedere nell’azione secondo una logica interna all’azione in quanto tale, senza che sia necessario fare riferimento a forme di consapevolezza e di autocoscienza. Il fatto stesso che questo tipo di intelligenza si costituisca mediante l’organizzazione di schemi di azione riproducibili dal soggetto secondo modalità più o meno stabili (salvo l’acquisizione di nuove esperienze e conoscenze – o salvo anche la dimenticanza o perdita temporanea di dati o abilità motorie), mostra che uno stesso tipo di logica può applicarsi tanto al pensiero (sotto forma di inferenza logica di tipo induttivo), quanto all’azione (sotto forma di riflesso condizionato o in generale di riproduzione di uno stesso schema di comportamento più o meno specifico, in presenza di segnali ambientali riconosciuti come simili). Nella nostra prospettiva, potremmo parlare di utilizzo di generalizzazioni «induttive» condotto nel primo caso al livello della coscienza, nel secondo a livello inconsapevole o «latente», ma comunque effettuato in maniera sistematica e oggettivamente coerente. Possiamo chiarire meglio la questione ricorrendo a La presa di coscienza di Piaget:

138 Verità del potere, potere della verità

se la coscienza fosse soltanto uno specchio, le

basterebbe riflettere oggettivamente quelli che sono i movimenti dell’azione vera e propria fino ad allora non-coscienti per ottenere una «rappresentazione» [...] in realtà, è soltanto una ricostruzione, ma laboriosa, come se non corrispondesse a nulla di già conosciuto al soggetto stesso, e che presenta rischi di omissioni e di deformazioni proprio come se si trattasse di spiegare un sistema esterno di connessioni fisiche3.

In generale, il processo con cui si arriva ad essere in grado di compiere un’azione è diverso da quello con cui si arriva ad essere capaci di descriverla (o, nel caso, spiegarla). La prospettiva induttivista che qui viene adottata ci porta a sostenere quindi che, parimenti, dovranno essere diversi anche i particolari insiemi di esperienze che dei due diversi tipi di processo possono considerarsi premessa necessaria. In maniera corrispondente, sul piano sociologico è sicuramente plausibile affermare che l’attore sociale utilizza abilmente ed efficacemente dei patterns di azione (ad es. appresi attraverso l’educazione e l’imitazione), ma senza essere cosciente (e senza neppure porsi la questione) delle ragioni reali per cui quelle modalità d’azione sono effettivamente efficaci («funzione manifesta» versus «funzione latente»): «l’offuscamento di determinati aspetti dell’azione, di determinate cause o di determinate conseguenze, contribuisce a determinarne il senso»4. L’idea sarebbe quindi che l’oppositore che rifiuta un’epistemologia induttivista nella propria riflessione cosciente, a livello pratico comunque agisce coerentemente con essa.

4. Se si ammette questo insieme di considerazioni, ne segue che chi

voglia difendere un’etica pluralista non può considerarla un valore metastorico che sarebbe quindi auspicabile ritrovare in ogni epoca e in ogni società – giudicando «imperfette» (a vario titolo) le società che non lo riconoscono. La disposizione di un soggetto – o di un’intera società – a cercare di valorizzare una pluralità di contenuti culturali

3 J. Piaget, La prise de conscience, Presses Universitaires de France, Paris 1974 (trad. it. di S.

Stefani, La presa di coscienza, Etas Libri, Milano 1975, pp. 191-192). 4 N. Luhmann, Soziologische Aufklärung, Westdeutscher Verlag, Kòln-Opladen 1970 (trad.

it. di R. Schmidt, Illuminismo sociologico, il Saggiatore, Milano 1983, p. 77).

Teoria della razionalità, pluralismo democratico e intellettuali 139

ecc., deve sorgere dall’interno del sistema (psichico e sociale) stesso, come strumento per trovare un assetto organizzativo più efficiente.

In questo quadro il compito che l’intellettuale può darsi è quello di fornire una «semantica» (nel senso di Luhmann), ossia un «vocabolario» di termini concettuali che siano riconoscibilmente accettati nella discussione pubblica: ciò che così si offre alle singole persone è la possibilità di fare affermazioni – con costi non troppo elevati, grazie anche all’utilizzo proprio di quei termini – che siano espressione più efficace delle loro identità e delle loro esigenze. L’alternativa sarebbe in realtà che – venendo a mancare un vocabolario condiviso più complesso e articolato – la singola persona si troverebbe, di fatto, con strumenti più limitati (anche su di un piano strettamente strategico) per descrivere e fare accettare la propria identità con le sue proprie specificità.

Una filosofia induttivista potrebbe essere appunto questo: una «semantica» che, se accolta da una persona, la metta in grado di «leggere» la diversità senza esserne a nessun titolo «turbata». In un senso ovvio le verità di cui ci si sente possessori non implicano, per poter continuare ad essere riconosciute come tali da se stessi, che anche altri debbano accoglierle. Una convinzione molto diffusa in filosofia dà per scontata la coincidenza intersoggettivo-oggettivo, ma è corretto piuttosto affermare che, per quanto, di fatto, spesso una tale sovrapponibilità delle due dimensioni risulti del tutto confermata, concettualmente invece le due dimensioni rispondono a criteri identificativi diversi: per fare un esempio banale, se l’unico testimone di un delitto muore prima di rendere la sua testimonianza, la verità «oggettiva» sul delitto non dipenderà in alcun modo dalle convinzioni espresse al riguardo anche da tutta una collettività di persone che non avessero però elementi adeguati per giudicare.

Nei processi di elaborazione culturale (con implicazioni anche per la politica), un «partito» conservatore sarebbe allora quello che dà alle persone che vi si riconoscono, la possibilità di esprimere la propria valutazione che il livello di complessità del sistema non può essere ulteriormente incrementato (perlomeno nelle decisioni da prendere all’ordine del giorno). Un «partito» teso al cambiamento sarebbe quello che dà ai suoi aderenti la possibilità di esprimere la propria valutazione (sempre – consapevolmente – soggettiva e basata sulla propria esperienza) che il livello di complessità (e di efficienza sistemica) possa essere incrementato. Ai due «partiti» possiamo far

140 Verità del potere, potere della verità corrispondere rispettivamente: al primo, un utilizzo sistematico ma inconsapevole dell’induzione (con un prevedibile effetto conservatore); al secondo, un maggiore riconoscimento della «relatività» dei punti di vista rispetto alla propria base induttiva – riconoscimento che consente una maggiore flessibilità cognitiva ed un maggior decentramento e «de-soggettivazione» del pensiero. In ogni caso però, la copertura epistemologica per sostenere le proprie ragioni (quali che esse siano) sarebbe data dall’esperienza e dal vissuto delle persone che le sostengono.

In più: la «presa di coscienza» descritta da Piaget (e quindi, nella nostra discussione, quello che possiamo chiamare «induttivismo cosciente») presuppone – evidentemente – una varietà relativamente maggiore di inputs per avere esecuzione, e tanto più (parlando molto in generale) sarà estesa, coprendo ambiti diversi dell’esistenza, tanti più inputs richiederà: la pluralità e varietà dei dati e delle esperienze, in questo senso, diventa funzionale e anzi necessaria per la stessa esistenza di quello che ho chiamato induttivismo cosciente, e quindi per l’accettazione dell’etica che qui si sta proponendo. Una tale pluralità quindi non solo non potrebbe «turbare», ma anzi agirebbe da «carburante» per un punto di vista come questo, purché quest’ultimo sia sufficientemente avanzato – in termini di complessità e articolazione strutturale – da poter dar conto (teoreticamente) delle identità altrui che vengono osservate, considerate in quanto oggetto di conoscenza, e non come «soggetto», quindi senza postulare in alcun modo che si debba dar conto della «verità» dei giudizi affermati dai portatori di quelle identità (la qualifica di «veri» può essergli rifiutata: se la mia esperienza spinge in tale direzione), ma solo dell’esistenza di persone che pronunciano quei giudizi ritenendoli veri (questo è il dato con cui è comunque interessante confrontarsi, non che i giudizi in questione debbano essere poi tutti presi per veri o anche solo plausibili – pretesa che creerebbe le contraddizioni più ovvie del relativismo). La mia idea sarebbe cioè che le contraddizioni del relativismo (e dell’anti-relativismo) vadano affrontate tenendo conto di questa distinzione: le identità altrui sono (rispetto a me) oggetto di conoscenza. Devo tenerne conto non in quanto portatrici di «verità», ma in quanto canali per raccogliere nuove informazioni (e in quanto «dati» – oggetto di conoscenza – esse stesse), sulle quali sarò io a dovermi pronunciare. Posso valutare – sotto certe condizioni – che sia mio interesse raccogliere il maggior numero possibile di tali

Teoria della razionalità, pluralismo democratico e intellettuali 141

informazioni, ma questo non significa che ci si deve vincolare a riconoscere come «vere» le credenze altrui di cui abbiamo stabilito l’esistenza. Al limite, inoltre, una logica e una filosofia induttivista che operi su dati che la disconfermano, potrebbe portare – proprio per coerenza con se stessa – al proprio abbandono.

Questo discorso non esclude però un ruolo significativo per gli strumenti «teorici» (in senso lato) che le persone impiegano per interpretare la propria stessa esperienza, e che gli intellettuali in una società avrebbero il compito di contribuire a definire. L’importanza delle semantiche via via proposte sarà in qualche modo marginale, dato che la disponibilità ad interessarsene e ad accoglierle dovrà sempre nascere dai processi endogeni ai vari interlocutori: se una semantica che viene proposta deve ancora essere introdotta, non potrà certo esserlo nei termini che essa stessa impiega, dato che per definizione questi ultimi non sono ancora noti – o accettati – dall’interlocutore. Parlando più in generale, si può dire che la stessa forza epistemologica di un’argomentazione dovrà essere misurata tenendo conto anche – e in maniera essenziale – dei bisogni concreti e di tutta la situazione di partenza (valori e obiettivi, piani d’azione, vincoli esterni ecc.) in cui si trovano le persone cui ci si rivolge.

Compito dell’intellettuale sarebbe quindi non «rivelare verità» ad un pubblico di non-competenti, ma piuttosto quello di dare visibilità (e legittimazione) pubblica ad un repertorio di opzioni, tra le quali la persona possa selezionare, sulla base della propria esperienza e della propria identità, quella che la esprime e descrive meglio. Compito dell’intellettuale è quello di facilitare (e legittimare socialmente) la visibilità delle identità e, in questo modo, lo scambio delle informazioni. È in questo modo che si possono rendere le persone più libere di essere se stesse.

«Essere se stessi» è, in un senso ovvio ma fondamentale, una tautologia: non si può non essere se stessi. Ma dover parlare di sé, utilizzando un vocabolario che falsifica la propria esperienza, perché altri vocabolari non sono resi disponibili nella società in cui si vive, questo è un costo che una semantica (una cultura) adeguate, possono rendere almeno in parte eliminabile.

142 Verità del potere, potere della verità Bibliografia essenziale Bateson, Gregory, Steps to an Ecology of Mind, Ballantine Books, New

York 1972 (trad. it. di G. Longo, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976).

Habermas, Jürgen, Theorie des kommunikativen Handelns, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1981 (trad. it. di P. Rinaudo, Teoria dell’agire comunicativo, il Mulino, Bologna 1986).

Luhmann, Niklas, Soziologische Aufklärung, Westdeutscher Verlag, Kòln-Opladen 1970 (trad. it. di R. Schmidt, Illuminismo sociologico, il Saggiatore, Milano 1983).

Luhmann, Niklas, Sozial Systeme. Grundriβ einer allgemeinen Theorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1984; (trad. it. di A. Febbrajo e R. Schmidt, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, il Mulino, Bologna 1990).

Piaget, Jean, La construction du réel chez l’enfant, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1937 (trad. it. di G. Gorla, La costruzione del reale nel bambino, Nuova Italia, Firenze 1975).

Piaget, Jean, La prise de conscience, Presses Universitaires de France, Paris 1974 (trad. it. di S. Stefani, La presa di coscienza, Etas Libri, Milano 1975).

Watzlawick, Paul et al., Pragmatic of Human Communication, Norton, New York 1967 (trad. it. di M. Ferretti, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971).

Prima della verità: il governo del disaccordo tra diritto e giustizia

Valerio Nitrato Izzo

In un’opera recente, Bernard Williams distingue tra due atteggiamenti principali nei confronti della verità1. Da un lato vi sarebbe il partito dei negatori, capeggiati da Richard Rorty, costituito da coloro che guardano con sospetto all’affermazione della verità, spesso arrivando a negarne finanche la sua possibilità. Dall’altro invece il partito del senso comune, formato da coloro ai quali il concetto di verità sta ancora a cuore e che difendono il valore da essa svolto nella vita ordinaria. La posizione di Williams, tesa a tracciare una genealogia che recuperi il valore della verità, cerca di salvaguardare il significato della veridicità quale elemento essenziale di critica e di disvelamento di apparenze ed inganni, senza liquidare come prive di importanza le preoccupazioni di quelli che vedono con sospetto nella proclamazione della verità un possibile strumento di coercizione e dominazione.

Se il trattamento della nozione di verità in questo modo riesce a catturare in modo adeguatamente preciso il nucleo essenziale delle questioni filosofiche che si agitano intorno a tale argomento, questa impostazione deve fare i conti con la tendenza odierna a separare sotto il profilo concettuale le idee di verità e giustizia, con una parziale rinuncia alla prima in favore della seconda. Appare significativo infatti che nell’incipit di una delle più influenti opere di filosofia politica degli ultimi decenni, Rawls abbia sottolineato che «la giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali così come la verità lo è dei sistemi di

1 B. Williams, Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, trad. it di G. Pellegrino,

Fazi Editore, Roma 2005, cap. 1.

144 Verità del potere, potere della verità pensiero»2, segnando un cambiamento di prospettiva nella riflessione filosofico-politica destinato ad esercitare una profonda influenza nel dibattito sul trattamento dei rapporti tra verità e giustizia. Così infatti, la giustificazione normativa degli assetti istituzionali non potendo più dipendere dall’imposizione di verità politiche assolute da imporre alla comunità, si fonda sull’individuazione di principi di giustizia fondamentali. Il costruttivismo politico rawlsiano fa a meno della nozione di verità nei giudizi morali, riservandola alle sole dottrine comprensive. Di nuovo, l’accento è spostato sulla concezione politica della giustizia e sulla sua ragionevolezza, che consentirebbe di dare espressione ad un pluralismo ragionevole che l’uso della verità per giustificare pubblicamente le scelte di una comunità politica non riuscirebbe a rappresentare per il suo carattere escludente3.

Muovendo da una costruzione teorica imperniata sulla decisività del linguaggio quale fattore ineliminabile per la ricerca del consenso tra i partecipanti alla discussione e giustificazione pubblica, anche Habermas separa l’idea di verità quale corrispondenza ad un giudizio morale per renderla maggiormente permeabile alla sfera comunicativa della giustificazione. La validità prescrittiva dei giudizi e delle norme morali non dipende più da un supposto raggiungimento di una verità morale quanto piuttosto « […] si misura sulla natura inclusiva di un accordo normativo raggiunto fra parti in conflitto»4. L’idea di giustizia quale verità morale del contenuto precettivo si distacca dal concreto contesto di riferimento per essere così trasformata in una procedura imparziale e inclusiva di formazione del giudizio. Dalla giustizia contenutisticamente intesa ci si avvicinerebbe ad una giustezza dei processi di formazione decisionale. Se il rapporto tra contenuto e forma appare così rovesciarsi, è opportuno ricordare che resta però aperta la possibilità costante di una revisione dei consensi già prestati, consentendo l’auto-correzione dei giudizi morali che coinvolgono gli agenti.

La categoria della verità viene dunque ritenuta inadatta per fondare e giustificare un ordine politico post-metafisico. Questa esigenza non

2 J. Rawls, Una teoria della giustizia, trad. it di U. Santini, a cura di S. Maffettone, Feltrinelli,

Milano 2008, p. 25. 3 J. Rawls, Liberalismo politico, trad. it di G. Rigamonti, a cura di S. Veca, Edizioni di

Comunità, Milano 1994, pp. 92-120. 4 J. Habermas, Verità e giustificazione, trad. it di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2001, p.

292.

Il governo del disaccordo tra diritto e giustizia 145

può però esimersi dal confrontarsi con le sfide che il pluralismo dei valori pone all’orizzonte politico e istituzionale contemporaneo. La necessità del consenso e della ricerca di principi condivisi non necessariamente fa scomparire le ragioni del disaccordo. L’etica moderna è infatti caratterizzata da quello che Piovani definì «agonismo etico»5. Negli ordinamenti costituzionali non si può sottovalutare che la protezione del pluralismo assiologico è mediata in gran parte dal giuridico. Il diritto quale tecnica sociale di relazione ma a sua volta oggetto di conflitto e divisioni nel suo concreto determinarsi, subisce un processo per alcuni versi similare nei confronti dell’idea di verità.

Nel pensiero giuridico il rapporto tra verità e diritto è assai complesso e di difficile sintesi. La verità giuridica è spesso una verità artificiale, costruita ad uso interno del discorso giuridico. Si pensi alle differenze che sussistono tra verità e autenticità. Laddove un documento pur contenendo falsità materiali risulti essere alterato, tale modificazione riguarda esclusivamente la sfera giuridica che vede violata l’autenticità del documento ma che poco o nulla ha a che vedere con la verità nel senso di veridicità riguardo alle affermazioni ivi contenute. Il diritto dunque, pur preoccupandosi di assicurare la ricerca della verità attraverso le pratiche giuridiche, deve fare i conti con i suoi intrinseci limiti. Lo stesso strumento del processo, per ragioni di ordine sia teorico che ideologico, nei suoi modelli concreti non sempre assume che la giustizia scaturisca necessariamente dalla verità intesa come verità materiale. Sotto la pressione dell’esigenza funzionale della risoluzione delle controversie, il processo riflette la cultura – non solo giuridica – di cui è prodotto. Ogni modello processuale riflette esigenze teoriche e ideologiche diverse. La verità però ritorna ad essere cruciale laddove l’indagine ponga l’accento anche sulla qualità della decisione, intesa quale rispetto delle garanzie dello stato costituzionale di diritto6.

Nel panorama giusfilosofico la massima hobbesiana «auctoritas, non veritas facit legem» ha tenuto banco a lungo, soprattutto tra i fautori del giuspositivismo, separando nettamente le indagini sul diritto in quanto norma statuita da quelle sul suo contenuto di

5 P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna (1961), Liguori, Napoli 2000, p. 147. 6 Cfr. M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Laterza, Roma-Bari

2009, pp. 97-122.

146 Verità del potere, potere della verità giustizia. Alla categoria della verità si sostituisce quella della validità che a seconda delle interpretazioni può essere intesa in varie combinazioni tra livello normativo e/o fattuale. L’orizzonte concettuale muta però quando si inizia a considerare il diritto non solo o non tanto un mero fenomeno di enunciati normativi sottoposti a possibile verificazione empirica, quanto piuttosto come una pratica sociale dipendente dall’attività di interpretazione del diritto in cui la domanda che ci si pone è fondamentalmente quella della verità pratica del diritto e non della verità della pratica7.

L’affermarsi degli stati costituzionali, basati su una concezione pluralistica della democrazia, ha favorito se non un allontanamento, quantomeno un certo distacco dalla nozione di verità assoluta anche in ambito giuridico, vista come una reminiscenza negativa dei totalitarismi. Il legame tra pluralismo dei valori e stato costituzionale, impedisce infatti l’affermazione di verità eterne e favorisce piuttosto la creazione dei presupposti per una ricerca della verità quale risultato provvisorio e rivedibile. L’imposizione di verità assolute è in contrasto con la libertà che la democrazia vuole proteggere. Secondo Zagrebelsky possiamo parlare di democrazia critica quando eliminiamo la presunzione di possedere la verità e la giustizia ma non ne consideriamo insensata la ricerca8. Eppure lo stato costituzionale non può rinunciare del tutto alla verità quale valore culturale. Il rapporto dei giuristi con il concetto di verità diventa quindi un rapporto complesso, pluristratificato9.

Se la categoria della verità appare subire una trasformazione sia nel rapporto con la nozione di giustizia che all’interno delle pratiche giuridiche, vorrei proporre un percorso teorico che miri ad una rivalutazione dell’idea del conflitto e del disaccordo come dimensione che pur non potendo fare completamente a meno dell’idea di verità, vi si collochi un momento prima.

Il conflitto, se correttamente inteso, non implica necessariamente un atteggiamento radicalmente oppositivo né significa esclusivamente declinare una visione conflittuale della politica di tipo schmittiano, fondata sul dualismo amico/nemico. Propongo, invece, di concepire il

7 Cfr. F. Viola, Diritto vero e diritto giusto, in «Persona y Derecho», (1991), n. 24, pp. 233-

265. 8 G. Zagrebelsky, Il «crucifige!» e la democrazia, Einaudi, Torino 2007, p. 7. 9 P. Haberle, Diritto e verità, trad. it di F. Fiore, Einaudi, Torino, 2000, p. 109.

Il governo del disaccordo tra diritto e giustizia 147

conflitto come relazione tra avversari in cui il diritto svolge un ruolo fondamentale nella costruzione del processo relazionale, nel senso chiarito da un autore come Julien Freund, che ha sottolineato la centralità del diritto nel passaggio dal modello polemico basato sul nemico a quello agonale dell’avversario10.

Il tema del conflitto recupera la sua attualità nel momento in cui la pervasività dei disaccordi sulla giustizia appare una conseguenza della sempre maggiore frammentazione valoriale delle democrazie liberali. Problematizzare questo punto significa sottolineare che la tendenza odierna al pluralismo dei valori, si riflette sulle strutture giuridiche, politiche ed istituzionali della democrazia, soprattutto successivamente all’introduzione degli strumenti costituzionali. L’opposizione tra monismo e pluralismo etico è infatti una contrapposizione di tipo filosofico sulla possibilità di un ordinamento costante e sempre possibile dei valori avversa al riconoscimento dell’inevitabilità del conflitto di valori che si pongono tra loro come incommensurabili.

Il riferimento alla necessità di opinioni divergenti al fine di salvaguardare insieme libertà e conoscenza costituisce uno dei contributi più importanti alla teoria liberale di John Stuart Mill che, nel suo scritto Sulla libertà (1859), difende vigorosamente la possibilità di esprimere opinioni diverse ed in contraddizione con quelle della maggioranza, considerandola espressione fondamentale della libertà individuale. In Mill è esplicito il collegamento tra difesa del pluralismo, tolleranza ed avanzamento del progresso scientifico e della conoscenza. La ricerca della verità è in questo ordine di idee strettamente collegata all’utilità sociale derivante dal libero confronto tra opinioni diverse. La lezione liberale di Mill si può considerare ancora attuale come denuncia dei costi del conformismo, oggi bene analizzati da Cass Sunstein. Il giurista nordamericano evidenzia infatti come le società beneficino di un incoraggiamento all’espressione del dissenso che possa mettere al riparo da atteggiamenti irriflessi di possibile riproduzione dell’errore11.

Vorrei ora affrontare molto brevemente il nesso tra democrazia e esperienza del dissenso. La riflessione che propongo parte dalla

10 J. Freund, Diritto e politica. Saggi di filosofia giuridica, trad. it di M.A. Leotta, a cura di A.

Carrino, Esi, Napoli 1994. 11 C. Sunstein, Why Societies Need Dissent, Harvard University Press, Cambridge (MA)

2003.

148 Verità del potere, potere della verità constatazione che ciò che contraddistingue davvero la democrazia come forma di governo non è il consenso quanto piuttosto la possibilità del dissenso e del disaccordo. Anche la polis si sarebbe fondata su un legame conflittuale, un collante sociale creato e mantenuto attraverso la rielaborazione e l’assorbimento delle discordie civili attraverso le istituzioni della democrazia12. La democrazia nascerebbe allora ab origine insieme al conflitto, differenziandosi per questa ragione da tutte le altre forme di governo, poiché è l’unica forma di governo che accetta le proprie contraddizioni interne al punto d’istituzionalizzare il conflitto, nonostante questo porti ad una fragilità di fondo ineliminabile, una indeterminatezza ultima secondo la caratterizzazione di Lefort13.

La sfida che il pluralismo etico pone alle nostre concezioni della democrazia e più in generale alla riflessione sulle strutture di governo delle nostre comunità è costituita non tanto dalla promozione e dall’aggregazione intorno ad un consenso ultimo, quanto piuttosto dalla gestione del disaccordo relativo a concezioni contrastanti del bene comune.

In questa prospettiva il concetto di disaccordo è in realtà una declinazione più generale della categoria di conflitto. Certamente non è facile arrivare ad una definizione univoca dell’idea di disaccordo. Questo dipende innanzitutto dal fatto che una definizione per opposizione, ad esempio al termine «consenso», soffrirà naturalmente delle ambiguità relative all’antonimo considerato, che risulterà dunque asimmetrico. In secondo luogo il disaccordo si presenta in molte forme e tipologie14. Non è possibile attardarsi qui nelle difficoltà di tipo definitorio. Ricorderò allora solo brevemente alcune delle caratteristiche in base a tre livelli di analisi, quello linguistico, quello concettuale e quello ermeneutico-assiologico che è quello che mi interessa maggiormente. Il disaccordo è un concetto intrinsecamente relazionale, essendo intersoggettivo. Questo aspetto aiuta a distinguerlo dal dilemma morale che è invece intrasoggettivo. Data la natura intersoggettiva del disaccordo, si pone allora l’aspetto linguistico come campo privilegiato d’analisi. Disaccordo potrebbe dunque essere il

12 È questa l’interpretazione di N. Loraux, La cité divisée. L’oubli dans la mémoire d’Athènes,

Payot, Lausanne 1997. 13 C. Lefort, Essais sur le politique: XIX-XX siècles, Seuil, Paris 1986, p. 29. 14 J. Waldron, Law and Disagreement, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 149.

Il governo del disaccordo tra diritto e giustizia 149

rigetto di una proposizione affermata da un interlocutore. Ovviamente in questo ambito l’accuratezza semantica dell’enunciato consente di poter evitare di confondere l’incomprensione col disaccordo. Dunque i disaccordi sono differenze d’opinione e di giudizio reali ed espresse tra membri di una comunità politica. Per Jacques Rancière: «Il disaccordo non è il conflitto tra colui che dice bianco e colui che dice nero: è il conflitto tra colui che dice bianco e colui che dice bianco, ma che non intende la medesima cosa»15. La proposta di Rancière aiuta a comprendere come si possa considerare il disaccordo in senso ermeneutico ma al tempo stesso come una lotta per l’affermazione della soggettività politica.

Si possono avanzare allora alcune tesi che serviranno come riferimento principale per il prosieguo del discorso. La prima afferma che l’interpretazione si colloca nel cuore stesso del disaccordo. Questo significa che la dimensione strettamente interpretativa dell’attività del discordare deve essere adeguatamente valorizzata per una comprensione del concetto di disaccordo che non si riduca all’analisi delle sue tipologie concettuali, ma che lo inserisca al centro di una prospettiva più generale riguardante le pratiche politiche e giuridiche. Si potrebbe dunque affermare che l’offerta di interpretazioni alternative è la forma che assume il conflitto come disaccordo. L’idea dell’offerta di interpretazioni alternative non deve essere intesa nel senso di un nichilismo interpretativo che miri alla destabilizzazione di qualunque significato normativo, anzi essa intende riportare la stessa possibilità di critica del diritto attraverso l’interpretazione ad una dimensione positiva, di affermazione dell’utilità dello strumento giuridico. Non è infatti il nichilismo interpretativo a poter spiegare la necessità della critica come disaccordo, proprio perché l’interpretazione deve necessariamente incontrare dei limiti che però vanno intesi come mobili e rivedibili: questa posizione è molto diversa dall’intendere che la stessa attività interpretativa non incontri nessun limite rispetto al testo, alle intenzioni dell’autore o all’interprete. Se così fosse, la stessa idea del disaccordo sarebbe irrimediabilmente svilita e non avrebbe nessuna utilità da offrire all’analisi teorica ed empirica degli ordinamenti giuridici. Una critica senza limiti, così come un’interpretazione senza limiti, finisce per annullare l’idea stessa

15 J. Rancière, Il disaccordo. Politica e filosofia, trad. it. di B. Magni, Meltemi, Roma 2007, p.

19.

150 Verità del potere, potere della verità di critica e di interpretazione.

I disaccordi giuridici possono essere definiti come disaccordi su questioni morali politicamente rilevanti16. Si tratta dunque di disaccordi che coinvolgono il diritto in quanto mettono in discussione principi fondamentali di giustizia e la definizione del giusto. Di recente José Juan Moreso ha difeso la tesi che in ambito giuridico possano esistere disaccordi genuini, nel senso di disaccordi che nascono su diverse interpretazioni dello stesso terreno comune, non costituendo questo fatto necessariamente il risvolto di un errore, come tendono a considerare gli approcci realisti17. Si può inoltre aggiungere che il fenomeno del disaccordo è tanto più importante dal punto di vista del partecipante: come sottolineato da Calsamiglia la domanda fondamentale del partecipante rispetto alla pratica giuridica è che cosa devo fare?, domanda che pur coinvolgendo l’aspetto dell’indeterminatezza è intesa come interrogazione sulle diverse soluzioni che il diritto può offrire18.

In chiusura vorrei sottolineare che l’idea, la prospettiva del disaccordo può essere qui intesa quantomeno in due diverse accezioni complementari. Innanzitutto la protezione del disaccordo può costituire uno strumento di orientamento ai fini dell’inclusione del pluralismo etico. La maggiore estensione di espressione del disaccordo in forme legittimate e non distruttive dell’agire comune è uno dei compiti che deve riflettersi nelle forme giuridiche, che andranno intese come strumento di protezione e garanzia dell’esperienza del dissenso. In una seconda prospettiva, particolarmente rilevante per la riflessione filosofico-giuridica, il disaccordo può essere inteso come costante possibilità di rivedibilità e messa in discussione di ciò che è stato deciso, pur se in forme argomentative. Si vede qui bene al lavoro il concetto di disaccordo come offerta di interpretazioni alternative.

In conclusione il tema del disaccordo giuridico può costituire un punto di vista cruciale per la comprensione delle trasformazioni del diritto in società che, sempre più complesse sotto il profilo

16 S. Besson, The Morality of Conflict. Reasonable Disagreement and the Law, Hart, Oxford-

Portland 2005, p. 22. 17 J.J. Moreso, Legal Positivism and Legal Disagreements, in «Ratio Juris», XXII (2009), n. 1,

pp. 62-73. 18 A. Calsamiglia, Una visione del diritto dal punto di vista del partecipante, in R. Guastini e P.

Comanducci (a cura di), Analisi e Diritto 1996. Ricerche di giurisprudenza analitica, Giappichelli, Torino 1996, pp. 57-76.

Il governo del disaccordo tra diritto e giustizia 151

assiologico, hanno oggi bisogno di una teoria del diritto votata all’inclusione della diversità e delle differenze e che sappia però allo stesso tempo evitare di rinunciare ai propri criteri di razionalità e scientificità, indicando nuovi strumenti per garantire la convivenza civile. Se la filosofia politica contemporanea tende ad abbandonare l’idea di verità in favore di quella di giustizia, prima della verità sarà necessario tenere conto della possibilità e dell’opportunità di una valorizzazione dei disaccordi sulla giustizia, di cui sono chiamati a rendere conto sia il diritto che la politica.

Anatomia politica della guerra globale: le figure del sopravvissuto e dell’inerme

Monia Andreani

Durante le principali guerre del secolo scorso lo scenario politico è mutato e si è inaugurata una versione asimmetrica del conflitto come omicidio generalizzato di civili. Il nuovo secolo si è aperto con un’ulteriore intensificazione di tale asimmetria: la guerra globale consiste nell’omicidio sempre unilaterale, e qualche volta pianificato, dei civili. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, è diventato evidente che l’equilibrio geopolitico, anche in relazione al rischio di guerra, presenta molte discontinuità con il panorama disegnato dalla seconda metà del XX secolo, perché attraverso il processo di globalizzazione, seguito anche alla caduta delle contrapposizioni tra i blocchi USA-URSS è cambiato lo spazio politico, e con esso tutti i termini di divisione e contrapposizione delle parti in gioco1. Lo scenario politico, dal punto di vista del rapporto tra sovranità e guerra, aveva subito radicali mutamenti già con l’avvento dell’era nucleare. Dopo la Seconda Guerra Mondiale gli Stati che non posseggono nel loro arsenale la Bomba atomica non possono essere più considerati sovrani. La sovranità esterna, infatti, non è data una volta per tutte, e «non si fonda in nessun caso su un titolo di legittimità che non sia la guerra»2. Tutti gli Stati che non possono vantare la possibilità di usare la Bomba non sono più sovrani, nel senso che non possono più essere titolari di un’azione di guerra – se non in coalizione e obbedendo a potenze nucleari. D’altro canto, chi ha la Bomba è condannato ad una sovranità che continua fino a quando rimane in possesso dell’arma di

1 Cfr. C. Galli, La guerra globale, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 10. 2 L. Alfieri, La stanchezza di Marte, Morlacchi, Perugia 2008, p. 42.

154 Verità del potere, potere della verità distruzione; per questo la Russia, nonostante i profondi mutamenti avvenuti dopo la caduta dell’URSS, è ancora uno Stato sovrano. La guerra che stabilisce sempre la sovranità esterna, quindi, non è più possibile, se non come un suicidio collettivo, perché si fonda sul possesso e sull’utilizzo potenziale della bomba atomica. Di conseguenza, la guerra è diventata una non-guerra, che è allo stesso tempo una guerra fredda o una pace nucleare tra Stati sovrani (detentori della bomba). Parallelamente, la Dichiarazione di guerra è scomparsa nella prassi politica internazionale, e anche la stessa parola «guerra» è stata sostituita da altre che corrispondono meglio all’orizzonte mutato. Tuttavia, come fa notare con logica stringente Luigi Alfieri, nel suo libro La stanchezza di Marte, quello che non è cambiato è il paradigma della violenza, ora però giocato nella dimensione della sovranità interna. In questo quadro si inseriscono il terrorismo e l’ormai decennale guerra volta a contrastarlo e ad annientarlo, che non è una guerra tra soggetti sovrani, bensì una guerra che uccide, fiacca e irrita i giganti nucleari, ma che non sposta la situazione sul piano internazionale – almeno fino al momento in cui il terrorismo internazionale non si dotasse di un pari arsenale nucleare. Di fronte ad eserciti più o meno regolari viene consacrata definitivamente la figura centrale di questa nuova forma di guerra: il suicide bomber, quasi sempre un civile che si trasforma in arma letale contro chiunque, senza distinzioni tra amico e nemico.

Dunque la guerra si è proiettata su scala globale, in ogni parte del mondo possono avvenire attentati che sono combattuti dalle forze militari e di polizia internazionale. Questa tipologia nuova di guerra, sfugge pertanto alla sola dimensione politica di guerra tra Stati sovrani e diviene quella che, sulla scorta delle riflessioni di Arendt3, possiamo individuare come dimensione di violenza generalizzata in cui si spezza definitivamente la distinzione tra spazio pubblico e spazio privato. Il suicide bomber facendosi esplodere uccide civili che si trovano a condividere spesso uno spazio quotidiano (mercati, luoghi di culto, stazioni, treni) e gli eserciti spesso colpiscono proprio i luoghi privati dove i presunti terroristi si rifugiano. La tecnologia bellica messa in campo dagli Stati Uniti nella guerra in Afghanistan è infatti proiettata verso una progressiva incursione che giunge fino nei piccoli spazi

3 H. Arendt, On Violence, Hacourt Brace & Company, New York 1970 (trad. it. di S.

D’Amico, Sulla violenza, Guanda, Parma 2001).

Anatomia politica della guerra globale 155

concessi alla vita privata dei nemici da colpire, anche in alcuni scenari geopolitici non interessati dalle operazioni terrestri. L’utilizzo di aerei senza pilota, comandati a distanza e con apparati di rilevazione e di analisi dei dati molto sofisticati, porta al paradosso di uccisioni di civili senza il rischio della morte da parte dei militari che hanno solo la licenza di uccidere, in una specie di morte programmata e messa in opera a distanza, nel segno della unilateralità.

Il 15 agosto nella sede della Cia di Langley, in Virginia,

alcuni funzionari stavano esaminando le immagini in primo piano di uno dei terroristi pachistani più ricercati del mondo: Baitullah Mehsud, il capo dei taliban in Pakistan. Era disteso sul tetto della casa di suo suocero a Zanghara, un villaggio del Waziristan meridionale. Era una calda notte d’estate, e con lui c’erano anche sua moglie e uno zio infermiere. A un certo punto si è visto chiaramente che Mehsud, malato di diabete e con un problema ai reni, si faceva fare un’iniezione endovenosa. Le immagini erano riprese dalla telecamera a raggi infrarossi di un Predator, un aereo senza pilota controllato a distanza, che sorvolava la casa a circa tremila metri di altezza. […] Le immagini erano rimaste abbastanza stabili anche quando dall’aereo erano partiti due missili Helfire. I militari statunitensi avevano assistito all’esplosione in diretta. Quando la nuvola di polvere si era dissipata, tutto quello che rimaneva di Mehsud era il tronco. Con lui sono morte altre undici persone: la moglie, il suocero, la suocera, un suo luogotenente e sette guardie del corpo4.

Dato lo spazio in cui oggi è combattuta, si rende sempre più

necessario tornare a riflettere sull’aspetto simbolico della guerra, attraverso le due figure contrapposte: quella del carnefice e quella della vittima. A tale proposito da un lato si affronta la figura del sopravvissuto così come sviluppata da Luigi Alfieri sulla scorta dell’opera di Canetti; dall’altra si analizza la figura della vittima inerme così come approfondita da Cavarero sulle tracce del pensiero arendtiano.

Alfieri analizza la guerra come «il culmine dell’esperienza umana»5

4 J. Mayer, The Predator war, in «The New Yorker», 26 ottobre 2009 (trad. it. La guerra dei

droni, in «Internazionale», 15 gennaio 2010, n. 829, p. 34). 5 L. Alfieri, La stanchezza di Marte, cit., p. 9.

156 Verità del potere, potere della verità e riprende, per svolgerla fino in fondo con coerenza, la celebre definizione di Elias Canetti secondo cui in guerra «si tratta di uccidere». Il libro si apre con una domanda rispetto al rapporto tra politica e verità. La frattura tra la dimensione filosofica e la prassi politica è individuata come originaria, le basi della politica si trovano, quindi, in uno spazio situato altrove rispetto alla razionalità apollinea e alla filosofia che ne è diretta discendente. Se si svolge un’analisi antropologico-filosofica dell’identità, in quanto dimensione collettiva che si coagula attorno ad uno spazio simbolico in cui è possibile costruire il senso del Noi, si può notare che il disporsi originario dei componenti del gruppo attorno ad un simbolo, che è di altra natura rispetto al loro essere viventi, innesca un processo di acquisizione di una identità collettiva. La differenza originaria è necessaria in quanto svolge la funzione di fulcro attorno al quale si può dire di essere tutti uguali – ovvero tutti differenti. Il simbolo che sta al centro del cerchio, attorno a cui si costruisce l’identità, è un confine assoluto e un confine interno, un perno attorno a cui tutti i componenti del gruppo girano insieme. In questo confine, che è allo stesso tempo «inaccessibile, intoccabile, privilegiato, impuro […]», Alfieri ritrova il senso del sacro6. All’origine dell’identità, quindi, non c’è l’autoreferenzialità, ma un girare attorno ad altro: «dunque diremo di essere quelli che hanno un non-noi comune. Un qualunque possibile non-noi comune. Un qualunque possibile non-noi, una qualsiasi dimensione del non-umano. Sarà spesso una dimensione animale. Chi siamo noi? Siamo i Parrocchetti. O gli Opossum. O i Lupi, i Leoni, i Gattopardi […]»7. René Girard interpreta questo elemento differente come il frutto di una uccisione originaria e collettiva, laddove alla base dell’uguaglianza c’è la differenza primaria, quella che si stabilisce tra molti vivi e un solo morto. Nel quadro di una conflittualità diffusa, emerge nel gruppo un elemento di differenza che caratterizza un solo individuo, e su questo si catalizza la violenza di tutti gli altri, che sono invece indifferenti rispetto a quella determinata specificità. Allora tutti coloro che sono uguali uccidono il diverso e così rendono manifesta la differenza originaria che è la Morte, rappresentata da un cadavere. In ogni uccisione che si ripete, ad essere uccisa simbolicamente è quella differenza che scombinava, che catalizzava il conflitto, ma quella

6 Ivi, p. 26. 7 Ivi, p. 27.

Anatomia politica della guerra globale 157

differenza è diventata la Morte. Al centro di questo cerchio della violenza sta la vittima che muore da innocente, quindi accettando la propria uccisione, senza la quale noi non saremmo noi, gli assassini, coloro che uccidono la Morte. Elias Canetti, al contrario, non identifica la violenza fondatrice della comunità con il mito del sacrificio della vittima, ma interpreta la scena originaria in maniera capovolta. Il confine è doppio: sia esterno che interno. Fuori c’è il Nemico che è il non-noi, la Morte esterna che ci assedia e che bisogna uccidere per poter rimanere vivi. Ma per uccidere la Morte esterna si ricorre al confine interno, che è anch’esso Morte, intesa come strumento per proteggere il gruppo. Così scrive Alfieri:

È il tragico paradosso dell’obbedienza, il rischio

estremo che viene corso da chi cerca definitiva sicurezza: per non essere uccisi si uccide, ma per poter uccidere bisogna essere uccisi. È così che intorno al centro si accumulano i morti, e per chi sta al centro non importa distinguere i morti altrui o quelli propri. Tutti i morti sono suoi, tutti lo rafforzano, lo innalzano, moltiplicano la sua capacità di diffondere intorno morte e obbedienza, e dunque ancora morte. In questa sopravvivenza, in questo vivere grazie ai morti e letteralmente sopra i morti, Canetti vede la sostanza del potere8.

Secondo Alfieri, entrambe le versioni della fondazione della

violenza umana all’interno del gruppo dei viventi sono giuste: né Girard, né Canetti hanno sbagliato, ma hanno ragione solo insieme. La Morte è il confine esterno, ma è anche il confine interno, è un non-noi che sta dentro e fuori. E questo è tanto più evidente se posto in relazione alla guerra, come paradigma della violenza, tra la seconda metà del XX e l’inizio del XXI secolo. Dopo i due orrendi estremi della Seconda Guerra Mondiale – la morte seriale nei campi di sterminio nazisti e la Bomba atomica che ha cancellato due città del Giappone e ha lasciato dietro di sé la scia della contaminazione nucleare e della morte differita –, la guerra ha assunto una nuova dimensione. E noi che continuiamo a funzionare come il gruppo originario, giriamo ancora attorno alla Morte, ma avendo diminuito e in molti casi reso virtuali le uccisioni. Ora la Morte per antonomasia è

8 Ivi, p. 33.

158 Verità del potere, potere della verità la Bomba che potrebbe uccidere tutti definitivamente ma che tuttavia rimane virtuale: infatti, data la sua potenzialità annichilente, nessuno vuole che scoppi per davvero. Ma la guerra continua ad esistere, così come la condizione della «sopravvivenza», strettamente connessa a livello simbolico alla morte degli altri. Il sopravvissuto è paradossalmente il suicide bomber, che nonostante la fine della propria vita, viene sublimato in una proiezione identitaria o in una visione del tutto escatologica. Sopravvivere è uccidere perché «il corpo dell’uomo è cedevole, esposto alle ferite, e molto vulnerabile nella sua nudità. Tutto può penetrarvi; ad ogni nuova ferita gli riesce più arduo portarsi sulla difensiva; e in un attimo per lui è finita»9. Chi sopravvive è chi vince in battaglia, ma anche chi si dà la morte per uccidere gli altri e con questo si consegna ad un Noi più forte e invulnerabile. Tuttavia, nella situazione della guerra attuale, dove anche il suicide bomber sopravvissuto è individualmente morto, emerge l’altra faccia della sopravvivenza, quella faccia che ci consegna all’umanità in quanto esseri viventi che sanno che devono morire. Come ci spiega Canetti, l’esperienza della morte degli altri fa consapevole chi è rimasto in vita della sua potenza, quindi «il vivo non si crede mai così alto come quando ha di fronte il morto, che è caduto per sempre: in quell’istante è come se egli fosse cresciuto»10. Quindi oggi il sopravvissuto, è anche chi si ritrova, altrettanto paradossalmente, in piedi di fronte ad un morto che egli non ha ucciso, un morto che è per caso caduto sotto un’azione di guerra irregolare e combattuta ovunque. Accanto al sopravvissuto, emerge la figura dell’inerme, come se fosse l’altra faccia dell’incarnazione della guerra attuale. La figura della vittima inerme della violenza suicida, quale punto di arrivo della depersonalizzazione dell’essere umano messa a punto nei campi di sterminio nazisti è analizzata da Arendt e Levi. La vittima dell’evento suicida o della violenza scatenata contro i terroristi diviene un inerme del tutto vulnerabile, che non è prodotto dalla fabbrica della morte, ma che è individuato e colpito per caso.

Chi è la vittima oggi? L’inerme è la vittima depersonalizzata costruita per la prima volta in un momento di svolta determinante, nella fabbrica della morte nazista. Adriana Cavarero, sulla scorta di Arendt e Levi, sottolinea come la fabbricazione della superfluità

9 E. Canetti, Potere e sopravvivenza, trad. it. di F. Jesi, Adelphi, Milano 2004, p. 17. 10 Ivi, pp. 16-17.

Anatomia politica della guerra globale 159

dell’essere umano compiuta nei campi di sterminio nazisti abbia prodotto la figura dell’internato come un inerme pervertito11. Questo inerme è privato a tal punto della sua condizione ontologica relazionale, del suo sé narrabile che ne costituisce l’identità12, che è ormai ininfluente la sua permanenza in vita o la sua morte. È come se la vulnerabilità, quale segno ontologico e fisico dell’esposizione agli altri, fosse del tutto spazzata via perché paradossalmente totalizzata: l’inerme del campo di sterminio è il totalmente vulnerabile e la sua vita è senza valore alcuno perché è come se egli fosse morto, data la prossimità che ha quotidianamente con la morte, e data l’impossibilità di tornare indietro alla sua condizione di unico e irripetibile. Al musulmano di Auschwitz rimane solo l’esposizione del suo corpo, che è unico, ma che è stato privato per sempre dell’irripetibilità propria dell’identità: è come se fosse un qualsiasi altro e non solo se stesso. Nella dimensione orrorista attuale, laddove siamo tutti potenziali vittime e potenziali sopravvissuti, accade qualcosa di diverso. L’inerme non è più un prodotto. Il passaggio ontologico dall’unicità «peculiarmente umana» alla «equivocità» dell’inerme pervertito è stato infatti compiuto in maniera esemplare già una volta e per sempre, quindi si è spezzata la linea dell’impossibile scissione delle due parti che caratterizzano la differenza umana. Oggi ci troviamo di fronte ad una nuova formulazione della «equivocità»: non c’è più un «singolo» che ha perduto la propria unicità ed è diventato un «qualsiasi», bensì un «qualsiasi» che è diventato «chiunque» senza che alcuna appartenenza geografica, territoriale o religiosa, possa impedire di coinvolgere questo chiunque nella scena di distruzione innescata dalla guerra al terrorismo. La violenza può esplodere in ogni luogo e in qualsiasi momento e rimettere in scena in maniera decontestualizzata e imprevedibile la privazione totale di ogni unicità, consegnando ciascuno alla morte: e non perché costui è un nemico da colpire o una vittima prescelta, ma per la fatalità che lo porta a trovarsi nel mezzo di una di queste esplosioni repentine e imprevedibili della guerra combattuta ovunque.

11 A. Cavarero, Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007, p. 105. 12 A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli,

Milano 1997.

160 Verità del potere, potere della verità

Cosicché, in senso proprio, più che di una circostanza si deve parlare di una condizione duratura, o se si vuole di un modo di essere, accollato a gran parte degli abitanti del pianeta benché con punte di intensità in zone calde, che fa coincidere il vulnerabile con l’inerme. Esposto unilateralmente al vulnus, l’inerme è il bersaglio di una morte violenta che eccede l’evento, pur atroce della morte stessa perché lo ha preventivamente degradato da singolare, a casuale13.

È come se l’essere inerme incarnasse la torsione politica della

vulnerabilità che è condizione, fisica e ontologica insieme, del soggetto unico consegnato alla relazionalità. Per analizzare ulteriormente il passaggio da «singolare» a «qualsiasi» di cui tratta Cavarero, incarnato pienamente dalla figura dell’inerme come prodotto della torsione orrorista della violenza, possiamo prendere ad esempio il riferimento fatto da Gilles Deleuze14 ad un personaggio dickensiano del romanzo Our Mutual Friend. Riderhood è una canaglia e pertanto detestato da tutti coloro che lo conoscono, ma, nel momento in cui viene ripescato dal Tamigi in fin di vita, tutti cominciano a prodigarsi per la sua guarigione. Egli ormai «è il suo guscio esterno e niente altro», e le persone che cercano di rianimarlo lo fanno perché sono riuscite a separare in lui la scintilla vitale dalla sua individualità di malvagio. La vita che tutti riescono ad amare nel momento estremo, nel momento di massimo pericolo non è la vita di Riderhood ma la vita intesa nel suo senso impersonale, di cui nessun volto è esaustivo e che non viene individuata da nessuna voce, da nessun nome di persona. «Questa massa flaccida di materia mortale intorno alla quale tutti si affannano» è una vita che ha perso la sua connotazione individuale e che è riconosciuta da tutti coloro che vivono e che dovranno morire come l’elemento comune, il termine impersonale che li tiene tutti insieme. Riderhood è reso un «qualsiasi» dalla depersonalizzazione, a causa della condizione di coma in cui si trova, e tutti si impegnano per rianimarlo e farlo guarire «come se» lui fosse un altro. Ma coloro che si prendono cura di quest’uomo sono

13 Ivi, pp. 104-105. 14 G. Deleuze, Immanence: une vie…, in «Philosophie», (settembre 1995), n. 47, pp. 3-7

(trad. it. di G. Passerone, L’immanenza: una vita…, in «Futuro Anteriore», (1995), nn. 3-4, pp. 7-11).

Anatomia politica della guerra globale 161

inquieti perché, in fin dei conti, sanno che egli è, seppure vulnerabile e in quel momento inerme, non un qualsiasi altro bensì se stesso e, nel caso ritornasse alla vita, proprio lui e non un altro riprenderebbe a comportarsi come sempre. Su questo aspetto dell’impersonalità della vita Roberto Esposito scrive:

Se lo leggiamo in sovraimpressione con le pagine di

Dickens cui si è già fatto riferimento, ci accorgiamo che tali caratteri emergono ancora una volta dal rovescio della tanatopolitica nazista: la vita che qualifica, spersonalizzandola, l’esperienza di Riderhood è, come nel laboratorio nazista, a contatto diretto con la morte. Ciò che viene chiamato «guscio esterno», o «massa flaccida di materia mortale», ha non poco a che vedere con i «gusci vuoti» e la «vita senza valore» di Binding e Hocke – con la carne da forno di Treblinka. Ma con una differenza di fondo che riguarda la direzione di marcia – non più dalla vita apparente alla morte, ma dalla morte apparente alla vita a cui Riderhood si risveglia15.

Il passaggio dalla morte, quasi raggiunta ma ancora apparente, alla

vita che rianima le membra di Riderhood, più che un cambio di direzione di marcia viene invece considerato da Deleuze quasi come una sorta di ripiegamento tra la vita e la morte, nel quale avviene lo svuotamento di personalità del soggetto nel suo momento più estremo. Inoltre, questa vita che diventa del tutto impersonale assume pienamente il carattere di singolarità, che tiene al riparo da ogni possibile articolazione di soggettività e oggettività. Secondo il filosofo francese, queste caratteristiche sono necessarie per poter ridare uno spazio ontologico alla concezione di una vita che sia esente da ogni possibile gerarchia interna16. Infatti nel momento in cui una vita non è più definita sulla scorta di un soggetto forte – che è il soggetto della metafisica e dell’umanesimo occidentale sempre maschio e bianco – si blocca ogni meccanismo di oggettivazione di quella parte di umanità che a questo soggetto forte non corrisponde. In questo modo la vita stessa smette di essere concetto manipolabile foriero di divisioni, e

15 R. Esposito, Terza persona, Einaudi, Torino 2007, p. 214. 16 A questo proposito mi permetto di rimandare a M. Andreani, Il terzo incluso. Filosofia

della differenza e rovesciamento del platonismo, Editori Riuniti, Roma 2007, pp. 183-199.

162 Verità del potere, potere della verità può assumere invece una valenza forte e che vada nella direzione di inquadrare la differenza tra gli esseri viventi senza classificarli secondo un ordine di valore interno.

Tuttavia la posizione deleuzeana non risulta convincente se misurata con la posta in gioco espressa dal passaggio da «singolare» a «qualsiasi» e da «qualsiasi» a «chiunque» propria del contesto della violenza attuale, dove il «chiunque» non è più prodotto da un discorso oggettivante e gerarchico attorno alla vita e non è frutto di una organizzazione della depersonalizzazione, ma è l’esito di un investimento casuale dell’evento di morte. Cavarero, con un approccio di metodo che proviene direttamente dalla filosofia femminista della differenza sessuale, abbraccia fino in fondo la necessità di considerare come centrali per un’analisi politica coloro che sono colpiti e spersonalizzati dall’evento di morte. In questo modo è possibile guardare alla dinamica della violenza a partire dalla prospettiva dell’inerme e non da quella di chi guarda l’inerme, di chi si prende cura della sua impersonale condizione. Infatti la figura dell’inerme come «chiunque» emerge nella ricostruzione di Cavarero quale operatore politico legato alla dimensione della violenza che permane anche dopo la massima depersonalizzazione espressa dall’eugenetica nazista e dalla seconda guerra mondiale. Pertanto risulta evidente da tale analisi che è proprio la riduzione da «singolare» a «qualsiasi» il nodo problematico del contesto politico della violenza orrorista, e questo non è risolvibile da tentativi che vadano nella direzione della negazione della singolarità e dell’unicità del singolo essere umano a favore dell’impersonalità della vita che sconfigge la morte.

Nella considerazione dell’inerme come «qualsiasi» prima e come «chiunque» poi non è così importante il passaggio dalla vita apparente alla morte. Infatti nel momento in cui è avvenuta la trasformazione dall’unicità all’equivocità data dal «qualsiasi», e il soggetto è stato svuotato della sua identità relazionale, la morte emerge come contigua alla vita, come da essa inseparabile. Cavarero ci invita ad assumere la prospettiva dell’inerme in quanto operatore politico sui generis della scena di violenza, dell’inerme che viene torturato, di quello che mostra la sua vulnerabilità perché colpito nell’infanzia o nell’infermità, oppure – semplicemente e nella maniera più orribile di tutte – di quello che viene colpito dal caso. Il crimine attraversa l’inerme e «va alle radici stesse di una condizione umana che viene offesa a livello

Anatomia politica della guerra globale 163

ontologico»17. È allora necessario riprendere la considerazione della vulnerabilità come rapportata alla dimensione relazionale, per poter delineare la prospettiva che ci appartiene in quanto, da un lato sopravvissuti, ma dall’altro inermi, tutti consegnati allo scenario di violenza e di crimine orrorista globale.

17 A. Cavarero, Orrorismo, cit., p. 45.

L’ermeneutica della guerra nella riflessione filosofico-politica contemporanea

Davide D’Alessandro

In guerra, ha scritto Canetti, si tratta di uccidere. La verità non suoni banale poiché, quando poniamo le domande: «Che cos’è la guerra? Perché si fa la guerra?», la maggioranza degli studenti risponde in vario modo: «serve a esportare la democrazia», «a riportare la pace», «a mettere fine alle dittature» o «a mostrare forza al Paese nemico».

No, niente di tutto questo. In guerra si tratta di uccidere. Quanti più nemici si uccidono, tanto più si è vincitori e si vede la propria gloria accresciuta. La guerra, evidentemente, non è ciò che proviene dalle narrazioni, grandi o piccole che siano. La guerra è inestricabilmente legata alla sopravvivenza, al potere, dunque alla morte. Il sopravvissuto guarda fiero e potente la montagna di morti. Egli si erge su di loro, ha affrontato la morte e, a differenza di loro, è riuscito a evitarla. Può godersi estasiato tutto il suo trionfo. Chi sopravvive al fuoco delle trincee nemiche ha il chiaro sentore di appartenere agli eletti. Più si sopravvive, più si diventa eroi. L’eroe è il migliore, colui che ha più vita. Lo scopo, dunque, è di far prevalere la massa dei vivi su quella dei morti, lasciando dietro le proprie spalle una fila sterminata di cadaveri.

Luigi Bonanate afferma che «nulla ha coinvolto nelle sue vicende in modo altrettanto intenso e totalizzante gli esseri umani quanto la guerra, con l’impegno assoluto che impone, la morte. Il dolore, le ferite e le sofferenze, la mobilitazione di ogni risorsa (economica come spirituale, industriale come scientifica, ideologica come religiosa), la distruzione di ogni tipo di bene, dai grandi monumenti alle biblioteche, dalle fabbriche alle case, senza consentire particolari distinzioni, tra civili e combattenti, tra giovani e vecchi, tra uomini e

166 Verità del potere, potere della verità donne, tra bambini e malati. Lo dice meglio di tutti Michel de Montaigne: “Quanto alla guerra, che è la più grande e pomposa delle azioni umane, mi piacerebbe sapere se vogliamo servircene come prova di qualche nostra prerogativa o, al contrario, come testimonianza della nostra debolezza e imperfezione; poiché invero sembra che la scienza di distruggerci e ucciderci a vicenda, di rovinare e perdere la nostra stessa specie, non abbia molto di che farsi desiderare dalle bestie che non la posseggono”»1.

Chi ha indagato a fondo sulla guerra sa che il tema ha percorso la mente di grandi filosofi (da Machiavelli a Hobbes, da Kant a Hegel, da Marx a Jünger, per giungere fino a Schmitt e Kelsen, citandone solo alcuni), conosce le tante domande, le celebri definizioni (di Clausewitz, di Wright, di Sorokin, di Bouthoul, di Sun Tzu), le diverse teorie (il realismo politico, la geopolitica, l’olismo sistemico), le dinamiche plurime e il rapporto cruciale con la politica, l’infinita letteratura su guerra giusta e ingiusta, l’interrogativo di Norberto Bobbio, se vi siano ancora guerre giuste e la distinzione tra legittimità e legalità, la pagina simmeliana che, per Roberto Racinaro, «scopre un rapporto drammatico tra “modernità” e “conflitto”: nella dialettica della cultura, la guerra non è solo patologia, ma può essere pensata come possibilità di guarigione»2. La guerra, dunque, anche come evento metafisico, l’affermazione della civiltà contro la civilizzazione tecnica, i mercanti (inglesi) da una parte e gli eroi (tedeschi) dall’altra.

La guerra che, a un certo punto, come nota Umberto Curi, «in tanti avevano creduto che potesse ormai essere considerata un evento superato, una sorta di anacronistico residuato di una fase ancora primitiva nell’evoluzione della cultura e della civiltà e hanno, invece, dovuto amaramente ricredersi, di fronte alla virulenza e alla pervasività con le quali armi e violenza hanno ripreso il sopravvento come metodo privilegiato di risoluzione delle controversie»3.

Pensare la guerra è centrare l’attenzione sull’uomo, avvalendosi come base teorica dell’ultimo libro di Luigi Alfieri e da lì ricavarne spunti che problematizzino la nostra contemporaneità. Posto che La stanchezza di Marte4 (ospitato in quel prezioso scrigno che è la Collana

1 L. Bonanate, La guerra, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 3-4. 2 R. Racinaro, «Sulla guerra» di Simmel, in «Il Mattino», 24 marzo 2005. 3 U. Curi, Pensare la guerra: l’Europa e il destino della politica, Dedalo, Bari 1999, p. 6. 4 L. Alfieri, La stanchezza di Marte. Variazioni sul tema della guerra, Morlacchi, Perugia 2008.

L’ermeneutica della guerra nella riflessione contemporanea 167

“Biblioteca di Cultura”, diretta da Antonio De Simone) è titolo bello e immaginifico, l’autore avrebbe potuto optare anche per Saggio sull’uomo, con qualche anno di ritardo rispetto a Cassirer. Perché, ancor prima di un testo sulla guerra, proprio di un saggio sull’uomo si tratta. Non solo perché, ovviamente, a fare la guerra sono gli uomini, ma soprattutto per le profonde riflessioni sulla sua natura, sul suo essere e non essere, sulla sua ormai conclamata banalità.

Confesso di essermi accostato con sospetto a un testo che, come avverte l’autore nell’introduzione, si è costruito da sé, composto da saggi sorti altrove, ma debbo dire che il libro, nella sua unicità e compattezza, c’è. Forse perché c’è l’uomo e l’uomo non ha bisogno di alcun filo che tenga insieme i capitoli; l’uomo, con tutto il proprio carico di pesantezza, invade, chiede attenzione, meditazione su di sé. Così, La stanchezza di Marte è un libro lucido, rigoroso, che inchioda, che ci inchioda. Già, perché spesso scriviamo e diciamo «uomo» o, peggio, «gli uomini», per allontanare lo sguardo da noi. Per uomini, quasi sempre, intendiamo, indichiamo, additiamo gli altri. Invece, gli uomini siamo noi, io-tu-egli-voi-loro, tutti noi, nessuno escluso. La grande responsabilità alla quale il libro ci chiama, una sorta di esame di coscienza individuale e collettivo, è la cifra saliente di un’operazione di svelamento, di smascheramento. Alfieri incide con precisione chirurgica, affonda il bisturi nelle carni, apre l’uomo, s’inoltra nei suoi abissi più oscuri e ce lo restituisce vittima e carnefice, perseguitato e persecutore, nudo. Dunque, autentico. Con la speranza di un nuovo progetto. Non da costruire. Un nuovo progetto da vivere. Il libro trova consapevolezza, acquisisce consistenza, forza, fin dalle prime pagine, perché l’autore coglie con nettezza il tragico errore umano: l’identità. Sì, va detto con chiarezza: l’identità è un tragico errore umano. Identità è parola avvelenata.

Argomenta Remotti: «Il veleno contenuto in questa parola così nitida e bella, così fiduciosamente condivisa, di impiego pressoché universale, può essere poco oppure tanto, impercettibile e quasi innocuo in un caso oppure pieno di conseguenze nefaste in un altro. Ma anche quando esso è impercettibile, la tossicità è presente in numerose idee che la parola contiene e, accumulandosi, può manifestarsi alla lunga, in maniera inattesa e imprevista. Perché e in che senso identità è una parola avvelenata? Semplicemente perché promette ciò che non c’è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo,

168 Verità del potere, potere della verità un’aspirazione. Diciamo allora che l’identità è un mito, un grande mito del nostro tempo»5.

Si chiede Alfieri: «Cos’è un simbolo d’identità?» e si risponde: «È necessariamente una differenza»6. Noi siamo diversi da Loro. E continua: «Noi siamo i Parrocchetti. Noi siamo i Figli del Sole. Noi siamo i Figli di Dio. Noi siamo la Grande Nazione. Noi siamo i Difensori della Libertà. Noi siamo i Veri Democratici»7. Ha ragione l’autore quando sostiene che La stanchezza di Marte non è un libro pessimista. Del resto, da lettori e da studiosi, chiediamo un’analisi implacabile della malattia chiamata uomo; vogliamo che emergano, senza sconti, le nostre malvagità, le nostre putrefazioni, persino la nostra matrice hitleriana; chiediamo di assistere alla morte della nostra morte, di guardarla in faccia. Perché noi, soltanto della morte abbiamo bisogno. Non di quella che un giorno arriverà, non di quella sempre al nostro fianco, che cerchiamo di esorcizzare, di scacciare, di ingannare. Abbiamo bisogno della morte qui e ora; di scendere, con Pavese, nel gorgo muti. Di morire a tutto ciò che siamo stati e abbiamo creato, distrutto e ricostruito per distruggerlo ancora. Vogliamo creare spazio, non ordine, alla perla sepolta dentro ciascuno di noi. Consentirle di venire fuori. Non di avere diritto di cittadinanza (anche i diritti possono essere pericolosi e violenti), ma di vivere. In una parola: di essere. Non contro le altre perle, ma insieme. Individualmente insieme, direbbe Bauman.

Faust, insomma, può salvarsi. Spiega Alfieri: «Senza per questo doversi pentire e tornare indietro. Può salvarsi progettando in grande l’umanità – e l’oltreumanità. È possibilissimo, naturalmente, che Goethe si sia sbagliato, ma dobbiamo scommettere su questo. Perché la sola via di pentimento e di ritorno è quella dell’uomo ammalato di Svevo: un’esplosione enorme che nessuno udrà»8.

La stanchezza di Marte ci aiuta a morire, non a uccidere la morte. Chi fa la guerra pensa di uccidere la morte. Di sopravvivere al cumulo di cadaveri. Ma la morte non muore. La morte ci sarà quando noi non ci saremo più. Il libro ci aiuta a vedere la morte, a non separarla dalla vita, poiché la malattia dell’uomo è proprio questa: separare, dividere,

5 F. Remotti, L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. XI-XII. 6 L. Alfieri, La stanchezza di Marte, cit., p. 23. 7 Ivi, p. 34. 8 Ivi, p. 164.

L’ermeneutica della guerra nella riflessione contemporanea 169

distinguere, differenziare, escludere. Non capire che non bisogna dividere ciò che Dio (se c’è un Dio) ha unito e non ricordare Stevenson: «È male lasciar cadere i legami che Dio decretò di stringere. Torneremo a esser figli della brughiera e del vento». L’altra parte è parte. L’ombra non è altro dalla luce. L’ombra è come il «cane» di Dürrenmatt. Vive con noi, respira con noi, non è altro da noi. Anzi, ha la forza di sopravvivere a noi.

Guerra e pace. Come morte e vita. Sembrano inscindibili. Richiamando il libro di Jankélévitch, che cita Epitteto e ricorda: «Senza la morte la vita non meriterebbe di essere vissuta»9, direi che senza la guerra, senza il pensiero della guerra, la pace non meriterebbe di essere ricercata e affermata. Non parlo solo della pace ricercata dai filosofi della politica, ma anche della pace invocata da un prete, da un «certo» prete, David Maria Turoldo, che ha scritto: «Alla base ci deve essere la morale per la pace. Vedete, nel nostro mondo tutto è competitivo, tutto è fondato sulla violenza e sulla sopraffazione. È competitiva la scuola, è competitivo il mercato, è competitivo il partito, è competitiva perfino la religione, se non stiamo attenti. […]. Tutti pregano e intanto si fanno la guerra. Spesso si discute se la guerra è giusta o è ingiusta. La guerra è impossibile! Questa è la nuova categoria che dobbiamo tutti acquisire. Oggi in caso di guerra non ci saranno più né vinti, né vincitori. E io ho imparato anche dall’ultima guerra mondiale che non ci sono liberatori, ma soltanto uomini che si liberano. Infatti, Hitler non è stato vinto, il nazismo non è stato vinto, il razzismo non è stato vinto. È stato solo emarginato, in attesa di esplodere ancora. Non ci sono liberatori. Provate a chiedere a tutta l’America Latina se esistono liberatori. Magari cominciasse con voi giovani questa nuova cultura della pace, come fosse una nuova aurora. Perché oggi la terra è una cosa sola, una nave sulla quale siamo tutti imbarcati e non possiamo permetterci che affondi, perché non ci sarà più un’altra Arca di Noè a salvarci. Il mondo è uno, la terra è una; e tutti insieme ci salveremo o tutti insieme ci perderemo. Deve scomparire il concetto di nemico, perché una civiltà fondata sul concetto di nemico, non è una civiltà, ma una barbarie. La civiltà è solo quella della pace»10. Però, scrive Curi: «Nella convinzione che non

9 V. Jankélévitch, La morte, trad. it. di V. Zini, a cura di E. Lisciani Petrini, Einaudi,

Torino 2009, p. 446. 10 D.M. Turoldo, La guerra, sconfitta di Dio, Colibrì, Milano 1993, p. 24.

170 Verità del potere, potere della verità vi sia altro modo di perseguire una “cultura della pace” di quello consistente nell’impegno rigoroso a pensare la guerra […]. Pensarne la strutturalità, rispetto alla vicenda storica dell’umanità, l’intrinseca coappartenenza alle dinamiche di crescita e trasformazione della società, l’intima consanguineità con il processo evolutivo della scienza e della tecnologia»11.

Domanda: e la religione o, meglio, le religioni? Che ruolo possono avere, le religioni? Gianni Vattimo, recensendo Il Dio personale di Urlich Beck, ha precisato: «Le religioni possono e devono avere un ruolo politico fondamentale nella costruzione di un mondo più giusto. Ma solo, pensa Beck e noi siamo d’accordo con lui, se, con una non facile trasformazione, sapranno sostituire alla dedizione alla verità (solo il nostro Dio è vero e salva, gli altri sono “dèi falsi e bugiardi”) il valore prevalente della pace»12.

Altra domanda: è possibile, con l’uomo, far scomparire il nemico? Fa bene Carlo Galli, attraverso Petrarca, a ricordarci che «dum erunt homines non deerunt hostes» ma, se finché vi saranno gli uomini non mancheranno i nemici, resta comunque un obbligo, almeno da parte degli uomini più avveduti, che hanno la forza quotidiana di interrogare sé stessi e le proprie azioni, di pensare la pace, di operare per la pace, consapevoli che la guerra è l’altra parte, inquietante e non eliminabile, nemmeno dalla legge, dal diritto, è l’altra parte che quando non c’è, sta solo dormendo. Come la morte.

Ha scritto Foucault: «La legge non è pacificazione, poiché dietro la legge la guerra continua a infuriare all’interno di tutti i meccanismi di potere, anche dei più regolari. È la guerra a costituire il motore delle istituzioni e dell’ordine: la pace, fin nei suoi meccanismi più infimi, fa sordamente la guerra. In altri termini, dietro la pace occorre saper vedere la guerra: la guerra è la cifra stessa della pace. Siamo dunque in guerra gli uni contro gli altri; un fronte di battaglia attraversa tutta la società, continuamente e permanentemente, ponendo ciascuno di noi in un campo o nell’altro. Non esiste un soggetto neutrale. Siamo necessariamente l’avversario di qualcuno»13.

Dunque, è ancora l’uomo, è sempre l’uomo a essere chiamato in

11 U. Curi, Pensare la guerra, cit., p. 8. 12 G. Vattimo, Se Dio è persona, la fede non appartiene alle Chiese, in «TuttoLibri», «La

Stampa», 26 settembre 2009. 13 M. Foucault, Bisogna difendere la società, a cura di M. Bertani e A. Ferrara, Feltrinelli,

Milano 2009, p. 54.

L’ermeneutica della guerra nella riflessione contemporanea 171

causa. Non può che essere l’uomo. Chi dice io, chi dice noi, avverte Foucault, non può occupare la posizione del giurista o del filosofo, vale a dire la posizione del soggetto universale, totalizzante o neutrale. Chi parla, chi dice la verità, fa valere la propria verità. Chi parla di diritti, fa valere i propri diritti.

Nel lontano 1945, in quel di Ojai, Krishnamurti ammoniva: «Ciascuno di noi ha creato questa civiltà, ha contribuito alla sua infelicità, è responsabile delle sue azioni. Noi siamo il risultato delle azioni e reazioni reciproche, questa civiltà è un prodotto collettivo. Nessun paese e nessun popolo è separato da un altro, siamo tutti interrelati, siamo tutti uno. Che lo riconosciamo o no, partecipiamo alla sfortuna di un popolo come partecipiamo alla sua fortuna. Non potete prendere le distanze per condannare o elogiare. Il potere che opprime è male, e qualunque gruppo abbastanza grande e organizzato diventa una fonte potenziale del male. Strillando sulle crudeltà di un altro paese, pensate di poter trascurare quelle del vostro. Non solo la nazione vinta, ma tutte le nazioni sono responsabili della guerra. La guerra è una delle massime catastrofi; il male più grande è uccidere un’altra persona. Se lasciate entrare questo male nel vostro cuore, spianerete la strada a un numero infinito di atrocità più piccole. Non condannerete la guerra in se stessa, ma colui che in guerra commette atrocità. Voi siete i responsabili della guerra, voi l’avete provocata con le vostre azioni quotidiane segnate dall’avidità, dalla cattiveria, dalla passione. Ognuno di noi ha costruito questa civiltà spietata e competitiva in cui l’uomo è contro l’uomo. Volete sradicare le cause della guerra e della barbarie negli altri, mentre dentro di voi continuate ad alimentarle. Ciò conduce all’ipocrisia e ad altre guerre»14.

Oggi può capitare (cronaca docet) di avere diciotto anni ed essere sgozzata da un padre che non accetta la tua relazione con un italiano. Puoi morire dissanguata in un boschetto di Montereale Valcellina, in provincia di Pordenone, perché sei marocchina, cioè musulmana, e tuo padre, che pure in Italia vive e lavora come aiuto cuoco, ha un tabù mai risolto verso l’unione con un cattolico. Unione impossibile ai suoi occhi, alla sua mente, al suo cuore. Sanaa Dafani è l’ultimo esempio di respingimento della diversità culturale. Questa volta non da parte italiana. Questa volta il barcone è stato respinto da chi è stato accolto e dentro quel barcone c’era un amore, un amore reciso per sempre.

14 J. Krishnamurti, Sul conflitto, trad. it. di G. Fiorentini, Astrolabio, Roma 2000, pp. 9-10.

172 Verità del potere, potere della verità Massimo, il ragazzo di Saana, si è salvato dalla furia omicida di quell’uomo che, con un gesto sconvolgente e feroce, ha voluto simbolicamente rinnovare la divisione del mondo. Eh già, perché lo abbiamo diviso questo mondo! Bianchi e neri, cattolici e mussulmani, Nord e Sud. O di qua o di là!

Dice bene Maalouf15, l’autore libanese molto critico verso le identità definite su una sola appartenenza, etnica o religiosa: «Dobbiamo ri-immaginare il mondo». Di qua e di là. Una nuova immagine del mondo passa attraverso la cultura ma, di più, la consapevolezza che l’uno è nemico dell’uomo, è chiusura impenetrabile, è morte. La pluralità è amica dell’uomo, è apertura senza confini, è vita. «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite», recita il titolo del libro di Barbara Spinelli, che scrive: «Tutto tende all’Uno: una è la radice culturale e politica dell’Europa, una la via per governare e sanare l’economia, una per costruire l’Unione europea. Da tempo si è smesso di contare oltre l’Uno. Eppure di pensare anche il due se non il tre ce ne sarebbe un bisogno grande. Se nel formulare un’opinione non vengo confrontato con forti obiezioni, sarò contento. Se sono un politico, avrò addirittura l’impressione che si sarà creata una sorta di pace. La pace dell’Uno non è tuttavia pace. È stasi. La verità, lasciata sola con se stessa, non splende più forte. Al contrario: si spegne»16. Come si è spenta Saana, vittima di una sola verità. Quella del padre. Ma, ho appena ricordato con Foucault, che chi dice una verità fa valere soltanto la propria verità. Mai quella universale.

Ancora Krishnamurti: «Se riflettiamo bene, siamo ben consapevoli delle cause della guerra: la passione, l’ostilità e l’ignoranza; la sensualità, la mondanità, la sete di fama personale e di continuità; l’avidità, l’invidia e l’ambizione; il nazionalismo con i suoi diversi stati sovrani, le frontiere economiche, le divisioni sociali, i pregiudizi razziali e le religioni istituzionalizzate. Non è possibile che ciascuno diventi consapevole della propria avidità, ostilità e ignoranza, e così se ne liberi? Ci aggrappiamo al nazionalismo perché è uno sfogo dei nostri istinti crudeli, criminali; in nome del nostro paese o di un’ideologia possiamo uccidere e ammazzare impunemente, diventare degli eroi, e più uccidiamo i nostri simili più onori riceviamo dal

15 A. Maalouf, L’identità, trad. it. di F. Ascari, Bompiani, Milano 2005. 16 B. Spinelli, Una parola ha detto Dio, due ne ho udite, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 7.

L’ermeneutica della guerra nella riflessione contemporanea 173

nostro paese»17. Vedete come ritorna il discorso sul Noi, stella polare dell’indagine

di Alfieri? Il Noi che ci separa sempre da Loro, il cancro che ci divora dall’interno. Noi siamo, in definitiva, quelli che possono e debbono eliminare Loro. In realtà, eliminando Loro eliminiamo anche Noi. Noi siamo Loro e Loro sono Noi. L’ossessione identitaria, del Nord e del Sud, d’Oriente e d’Occidente, bianca, nera e gialla, etero e omo, genera mostri. Mostri e morti. Milioni di morti. Lo straccetto di bandiera che sventoliamo è un semplice pezzo di stoffa, ma lo abbiamo rivestito d’autorità (e di morte), lo abbiamo issato a simbolo di identità, di differenziazione (e di morte): io sono tedesco, io sono americano, io sono ebreo, io sono palestinese, io sono italiano, io sono musulmano, io sono cattolico. Non riusciamo a dire: io sono niente. Un niente che potrebbe essere persino tutto, se solo sapesse di essere niente.

17 J. Krishnamurti, Sul conflitto, cit., p. 12.

Parte terza Primi piani

Verità, potere e miti in Hobbes٭

Miryam Giargia La storiografia ha finora dedicato poca attenzione alla ripresa della

mitologia classica da parte di Hobbes. Quando se ne è occupata, lo ha fatto in modo indiretto e circoscritto, in special modo all’interno di analisi sulla presenza di argomentazioni retoriche nei testi hobbesiani1.

È tuttavia possibile individuare alcune eccezioni a tale tendenza storiografica. Si tratta di studi che, pur non approdando a ricerche sistematiche riguardo all’uso che Hobbes fa dei miti, ne hanno offerto un’indagine approfondita e articolata. Si tratta, in particolare, delle ricerche di due studiosi: Robert Kraynak e Richard Hillyer. All’interno della ricostruzione di una «history of civilization» hobbesiana, Kraynak ha mostrato che Hobbes individua nel sapere mitologico uno dei primi linguaggi dell’umanità associata2. Hillyer si è invece soffermato su alcuni dei miti rielaborati da Hobbes, sostenendo che essi contengono una forma di legittimazione storico-teorica della scienza politica teorizzata da questo autore3.

Sono grata a Giorgio Lanaro, Agostino Lupoli e Nicola Marcucci per avere discusso ٭

con me alcune parti di questo articolo; ringrazio inoltre i partecipanti e gli organizzatori del convegno Verità del potere, potere della verità (Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme, 14-16 ottobre 2009) per le osservazioni che hanno avanzato in occasione del mio intervento, che ha costituito la base di queste pagine.

1 Alcuni riferimenti in tal senso sono rintracciabili in D. Johnston, The Rhetoric of Leviathan, Princeton University Press, Princeton 1986; Q. Skinner, Reason and Rhetoric in The Philosophy of Hobbes, Cambridge University Press, Cambridge 1996; R. Tuck, The Utopianism of Leviathan, in T. Sorell e L. Foisneau (a cura di), Leviathan after 350 Years, Clarendon Press, Oxford 2004, pp. 125-138.

2 R. Kraynak, Hobbes on Barbarism and Civilization, in «The Journal of Politics», XLV (1983), n. 1, pp. 86-109.

3 R. Hillyer, Hobbes’s Explicated Fables and the Legacy of the Ancients, in «Philosophy and

178 Verità del potere, potere della verità

In tempi più recenti, infine, all’interno di una complessiva ricerca sul mito politico, Chiara Bottici si è confrontata anche con le concezioni hobbesiane a tale riguardo4. L’attenzione di questa studiosa si è tuttavia concentrata soprattutto sull’invenzione di nuovi miti politici da parte di Hobbes, lasciando quindi in secondo piano la rilettura della mitologia antica offerta da questo filosofo.

A tale rilettura è invece dedicato il presente articolo. Si tratta di un’indagine che, sottolineando l’importanza teorica del ricorso di Hobbes alla mitologia classica, permetterà di meglio comprendere alcuni aspetti della complessa, ma fondamentale relazione tra verità e potere politico che caratterizza la sua filosofia politica. Nella valutazione hobbesiana, i miti sono infatti un linguaggio politico efficace sia da un punto di vista storico-descrittivo, sia normativamente, ovvero in quanto «elemento costitutivo del significante politico»5.

Per evidenti ragioni di spazio, considererò qui solo alcuni aspetti di tali problematiche, limitando la mia indagine a un unico testo hobbesiano – la Prefazione ai lettori del De cive – e rimandando i lettori ad altra sede per ulteriori approfondimenti6.

1. La verità politica è un «segreto di Stato»:

la strategia mitologica degli antichi

Hobbes decide di aggiungere la Prefazione ai lettori in occasione della ripubblicazione del De cive nel 1647. Suo scopo precipuo è in tale contesto quello di offrire alcuni chiarimenti preliminari riguardo al metodo e ai contenuti del suo scritto dedicato ai «doveri degli uomini»7. A tal fine, egli compie in queste poche pagine anche un confronto tra le sue tesi e quelle di coloro che, prima di lui, hanno

Literature», XXVIII (2004), pp. 269-283.

4 C. Bottici, A Philosophy of Political Myth, Cambridge University Press, Cambridge 2007. 5 F. Rigotti, Metafore della politica, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 24-25. 6 Mi permetto di rinviare il lettore al mio I miti di Hobbes (in preparazione). 7 T. Hobbes, De Cive: The Latin Version, a cura di H. Warrender, Oxford University Press,

Oxford 1983, p. 77 (trad. inglese, On the Citizen, a cura di M. Silverthorne e R. Tuck, p. 7; trad. it. di N. Bobbio, Elementi filosofici del cittadino (De cive), TEA, Torino 1994, p. 61). Sulle ragioni e le particolarità di questa prefazione, cfr. H. Warrender, Editor’s Introduction, in T. Hobbes, De Cive: The Latin Version, cit., p. 9; R. Tuck, The Utopianism of Leviathan, cit., p. 127.

Verità, potere e miti in Hobbes 179

trattato le stesse tematiche. Hobbes suddivide i suoi predecessori in due gruppi distinti. Il

primo gruppo risulta costituito dai «più antichi sapienti», come vengono definiti nella prima pagina della Prefazione8. Si tratta di alcuni individui che, in tempi antichissimi, si sono interrogati sui doveri degli uomini in quanto uomini e in quanto cittadini e che hanno elaborato a questo proposito una strategia di gestione del potere politico valutata da Hobbes come valida e legittima.

Kraynak ha definito «prophetic age» tale momento originario della vita associata descritto da Hobbes: in questa fase infatti i detentori del potere politico, agendo in stretta alleanza con il potere religioso e intellettuale, hanno dato al sapere civile la forma di scienza divina e di arte profetica9. Hobbes riconosce alla base di questa scelta la corretta comprensione, da parte degli antichi sovrani – supportati in ciò dalle autorità poetico-religiose –, del funzionamento e dei limiti intrinseci alla natura umana, oltre che dei rischi «naturalmente» connessi alla gestione del potere civile.

Intuendo quali calamità derivino dalla possibilità per tutti gli uomini di dedicarsi al sapere sullo Stato, essi hanno saggiamente deciso di «presentare la scienza politica avvolta in miti piuttosto che esporla in discussioni»10. Il sapere politico, «adornato di versi, o adombrato di allegorie», è stato quindi trasformato in un «segreto di Stato, talmente bello e sacro da risultare profanato in discussioni private»11.

Tale strategia politica risulta fondata su due assunti complementari: da un lato, implica una vera e propria divinizzazione del potere politico; dall’altro, e in termini direttamente corrispondenti, coincide con il mantenimento dei governati in uno stato di ignoranza rispetto agli affari della politica12. Questi due assunti collaborano attivamente all’instaurarsi di un perfetto equilibrio politico. Quest’ultimo coincide, come Hobbes sostiene non solo nel De cive ma anche in altre opere, con il conseguimento degli scopi primari di ogni associazione civile: l’obbedienza e il mantenimento della pace.

Secondo le parole di Hobbes, prima che gli uomini cominciassero

8 T. Hobbes, De Cive: The Latin Version, cit., p. 77 (trad. ingl., p. 7; trad. it., p. 61). 9 R. Kraynak, art. cit., p. 95. 10 T. Hobbes, De Cive: The Latin Version, cit., p. 78 (trad. ingl., p. 9; trad. it., p. 63). 11 Ivi, p. 77 (trad. ingl., p. 7; trad. it., p. 61). 12 Cfr. anche la Lettera dedicatoria, ivi, p. 74 (trad. ingl., p. 4; trad. it., pp. 56-57).

180 Verità del potere, potere della verità a discutere liberamente intorno alla scienza politica,

i sovrani non avevano da chiedere il riconoscimento

del loro potere, non avevano che da esercitarlo. Non difendevano la loro autorità con teorie, ma la usavano per punire i malvagi e difendere gli onesti. A loro volta, i cittadini non misuravano la giustizia secondo le opinioni di persone private, ma secondo le leggi dello Stato, ed erano mantenuti in pace non da discussioni, ma dalla forza di chi comandava. Anzi, veneravano il potere supremo come una divinità visibile, sia che risiedesse in un uomo solo, o in un’assemblea. E non si aggregavano ai sobillatori e agli ambiziosi, come ora, per sovvertire lo Stato, poiché non potevano neppure concepire di distruggere un ordinamento che serviva a conservarli: la semplicità di quei tempi non riusciva a pensare una tanto dotta stupidità13.

2. L’età dell’oro dell’umanità: dalla descrizione alla norma

L’apprezzamento hobbesiano nei confronti dell’uso dei miti

adottato dagli antichi sapienti non è tuttavia solo di carattere storico-descrittivo: in termini rintracciabili sempre nella Prefazione ai lettori, esso è anche di natura normativa.

Ciò emerge anzitutto dalle parole usate da Hobbes per illustrare concretamente la «prophetic age»: egli afferma infatti che, grazie alla strategia mitologica, in quest’epoca regnava la pace e che si trattava dell’età dell’oro dell’umanità14, stabilendo quindi una sorta di identità o coincidenza tra il racconto propriamente storico e la propria valutazione di merito al riguardo.

La storiografia ha osservato che tali affermazioni rimandano a una visione idealizzata dell’antichità e degli strumenti di potere politico utilizzati in tale epoca; di conseguenza, ha sottolineato il loro scarso rilievo al fine di comprendere la teoria politica hobbesiana15. Io ritengo, invece, che non si tratti di una semplice idealizzazione: Hobbes sta confrontandosi con un modo di affrontare e risolvere il

13 Ivi, pp. 78-79 (trad. ingl., p. 9; trad. it., pp. 65-66). 14 Ivi, p. 79 (trad. ingl., p. 9; trad. it., p. 64). 15 Si veda, ad esempio, D. Johnston, op. cit., pp. 126-127.

Verità, potere e miti in Hobbes 181

problema della convivenza civile certo diverso rispetto a quello implicito nella sua definizione di scienza politica. Diverso, ma a suo giudizio parimenti legittimo, dal momento che si è sviluppato a partire da un’adeguata visione del’antropologia umana e, di conseguenza, delle regole e dei comportamenti da seguire nel costituire e governare un’associazione civile.

Di più, la strategia mitologica dei più antichi sapienti ha per Hobbes ancora qualcosa da raccontare: contiene cioè alcuni elementi validi nel presente, da utilizzare nel mettere in atto la riforma filosofico-politica avanzata dal De cive. Rimanendo ora nel contesto della Prefazione, ciò è evidente se si considerano le osservazioni di Hobbes riguardo al secondo gruppo di autori che si sono occupati dei doveri degli uomini prima di lui: si tratta dei «filosofi morali».

3. Le nuvole di Socrate e Issione: il mito al servizio della scienza politica Già nella Lettera dedicatoria del De cive Hobbes individua nei filosofi

morali che lo hanno preceduto il suo principale bersaglio polemico. Si tratta degli esponenti di quella che in altri contesti viene da lui definita come falsa filosofia – ma anche vana, vacua, o vuota16. A differenza di ciò che è avvenuto in altri campi, come la geometria e la fisica – almeno stando a ciò che viene affermato nel De cive – da quando è nata la filosofia morale non ha infatti prodotto alcun risultato positivo17.

Nella Prefazione del De cive, per meglio illustrare le caratteristiche di questa falsa filosofia, Hobbes si serve – anche – del linguaggio mitologico. In termini specifici, per descriverne la nascita, egli mette in luce come al termine della «età profetica» Socrate sia stato il primo a interessarsi della scienza politica, senza tuttavia arrivare a comprenderla davvero18.

Agli occhi di Hobbes, gli errori di Socrate sono stati almeno tre. Egli non ha pienamente compreso la filosofia civile perché: 1) mosso esclusivamente dalle proprie passioni, si è dedicato esclusivamente alle

16 Anzitutto, in termini noti e a più riprese, nel Leviatano. Cfr. M. P. Krom, Vain

philosophy, the Schools and Civil Philosophy, in «Hobbes Studies», XX (2007), pp. 93-119. 17 T. Hobbes, De Cive: The Latin Version, cit., p. 75 (trad. ingl., p. 5; trad. it., p. 54). 18 Ivi, p. 77 (trad. ingl., pp. 7-8; trad. it., pp. 61-62).

182 Verità del potere, potere della verità questioni relative al governo dello Stato, tralasciando dunque tutto il resto; 2) ha poi considerato la scienza politica come una verità esistente in sé e per sé, bisognosa di essere semplicemente scoperta dall’uomo, e non come ciò che l’uomo può e deve costruire, a partire da un’analisi corretta della materia, della forma e, infine, del movimento dello Stato19; 3) ha infine ottenuto solo una visione parziale e confusa della giustizia, come se si trattasse di un oggetto in parte nascosto dietro a una nuvola.

Quest’ultimo riferimento è denso di significati. Anzitutto, richiama, rovesciandolo e complicandolo, il tradizionale giudizio su Socrate come colui che per primo portò la filosofia dal cielo sulla terra20. Nella lettura hobbesiana, non solo Socrate non è riuscito in ciò, ma ha ulteriormente complicato la situazione, frapponendo un terzo elemento tra la terra e il cielo: le nuvole. In termini connessi, il giudizio hobbesiano sembra rinviare direttamente anche alla parodia di Socrate formulata da Aristofane nella famosa commedia Le nuvole. In particolare, tale giudizio richiama direttamente l’immagine aristofanea di un Socrate dai modi e dagli intenti molto vicini a quelli dei sofisti, che invoca le nuvole-idee per puro interesse e che, per giunta, lo fa come se si trattasse di divinità, al contempo ineffabili e imprevedibili.

Socrate è perciò individuato come il pensatore col quale finisce l’età dell’oro, in cui erano le divinità a governare gli uomini, e inizia la nostra epoca, in cui sono invece degli uomini a dover governare sui propri simili e in cui ciascuno, prendendo se stesso come regola di verità, pretende di rendere legge la propria personale ed egoistica visione del mondo. Un cambiamento radicale, che corrisponde necessariamente all’emergere di una situazione di continuo confitto, verbale e/o reale, tra gli individui; situazione che sembra coincidere direttamente con la famosa descrizione dello stato di natura così come viene presentata nei principali scritti politici hobbesiani.

La scienza civile propriamente intesa nasce allora per Hobbes sotto il segno della confusione e – almeno in parte – dell’errore, i quali sono per giunta destinati a degenerare sempre più con la ripresa e lo sviluppo del messaggio socratico da parte di «Platone, Aristotele,

19 Secondo la definizione del proprio metodo offerta da Hobbes sempre nella Prefazione

al De cive: ivi, p. 79 (trad. ingl., p. 10; trad. it., p. 65). 20 Cfr., ad esempio, Cicerone, Tusculanae Disputationes, V, 4, 10.

Verità, potere e miti in Hobbes 183

Cicerone e tutti gli altri filosofi greci e latini». Dopo di loro, numerosi sono stati poi coloro che – non solo in campo filosofico – hanno bistrattato la scienza politica, considerandola come una «materia semplice» e perciò «accessibile a qualsiasi intelligenza meno che mediocre»21.

In termini significativi per questo articolo, la descrizione della nascita della scienza politica grazie a Socrate è direttamente connessa da Hobbes, sia nei contenuti sia nella terminologia adottata, con il racconto del mito di Issione, compiuto solo qualche pagina dopo, sempre nella Prefazione del De cive. Descrivendo il momento in cui, «scacciato Saturno, si incominciò a insegnare che si potevano prendere le armi contro i propri capi», Hobbes osserva come «gli antichi sapienti non solo si fossero accorti» dei pericoli insiti nella democratizzazione del potere politico, «ma lo avessero voluto rappresentare molto efficacemente in uno dei loro miti». Si tratta della favola di Issione che «accolto a banchetto da Giove si [era] innamorato di Giunone e le [aveva chiesto] amore. Ma gli s’offrì invece di Giunone una nube che aveva l’aspetto della dea, onde nacquero i Centauri, metà uomini e metà cavalli, razza turbolenta e combattiva»22.

Hobbes ricorre quindi a quella strategia mitologica degli antichi che aveva precedentemente descritto per ribadire e chiarire il suo giudizio sulla filosofia che lo ha preceduto. Il mito di Issione gli serve allora per illustrare, in un linguaggio comprensibile a un pubblico ancora sordo o comunque poco avvezzo al linguaggio della vera filosofia, le caratteristiche della falsa scienza politica sviluppata da Socrate e dai suoi discepoli; in termini specifici, per precisarne difetti e pregi.

La scienza politica socratica e post-socratica è certo valutata complessivamente in modo molto negativo. Se Issione si accoppia con una nuvola che ha le sembianze di Giunone ma che non è Giunone, anche Socrate, lo abbiamo visto, può avvicinarsi alla scienza politica – abbracciarla, come Issione – solo come se luccicasse attraverso una nube. Non può cioè toccarla veramente, intrattenere con essa una relazione autentica.

Tuttavia, come ben mette in luce la fine dell’allegoria, la ricerca di

21 T. Hobbes, De Cive: the Latin Version, cit., p. 77 (trad. ingl., p. 8; trad. it., p. 62). 22 Ivi, p. 79 (trad. ingl., p. 9; trad. it., p. 64).

184 Verità del potere, potere della verità Socrate contiene anche qualcosa di positivo. Le nuvole riproducono sì un’immagine falsata e vuota della giustizia, ma non ne impediscono completamente la visione. Una volta usciti in modo irreversibile – e in fondo inevitabile – dall’età dell’oro, l’attività di Socrate ha avuto il merito di sollecitare quella ricerca intorno alla giustizia che ha infine condotto alla riforma hobbesiana, ovvero di aver portato gli uomini sulla strada per la scoperta della vera filosofia.

In tal senso va letta l’immagine dei Centauri con cui si chiude la favola di Issione, la quale risulta presentata in termini di profonda ambivalenza. Queste creature, frutto dell’accoppiamento tra Issione e la nube con la forma di Giunone, sono per metà animali, ma per metà restano uomini. Allora, come afferma Hobbes:

Spogliata dall’allegoria, la storia viene a significare che

gli uomini, chiamati a prender parte alle decisioni dello Stato, desiderarono sottomettere al loro intelletto la Giustizia, sorella e sposa del potere supremo, ma impossessatisi solo di una sua immagine falsa e vacua come una nuvola, fecero nascere i dogmi biformi dei filosofi morali, in parte giusti e belli, e in parte brutali e bestiali, causa di tutte le lotte e le stragi23.

4. Conclusioni

L’analisi della Prefazione del De cive proposta in queste pagine dimostra che Hobbes riconosce nella mitologia classica un essenziale strumento politico, sotto almeno due aspetti. Si tratta di un riconoscimento anzitutto di carattere storico, come mettono in luce le osservazioni hobbesiane sul modo degli antichi sapienti di trattare gli affari civili. Accanto a tale riconoscimento, si assiste tuttavia nella Prefazione anche a una ripresa del mito da un punto di vista più propriamente normativo, in termini resi evidenti dalle valutazioni relative all’età dell’oro e soprattutto dalla rilettura della favola di Issione offerta in tale contesto. Hobbes ricorre quindi positivamente al linguaggio offerto dal mito anche all’interno del suo progetto politico.

Per comprendere meglio entrambi questi aspetti, può essere utile confrontare le affermazioni hobbesiane appena ricordate con quelle di

23 Ibidem.

Verità, potere e miti in Hobbes 185

Bacone. È nota l’influenza di quest’ultimo pensatore su Hobbes24. In

termini specifici, nella Prefazione Hobbes mostra di aver ripreso e rielaborato la «dottrina del mito»25 baconiana.

Nel De sapientia veterum, Bacone aveva infatti individuato due differenti funzioni del mito. Da un lato, lo aveva riconosciuto come «involucro e velame», ovvero come artificium occultandi della verità; dall’altro, aveva invece sottolineato la sua capacità di essere «luce chiarificatrice ed illustrazione» della verità stessa, e di divenire quindi una vera e propria ratio docendi, ovvero uno strumento elettivo di conoscenza e di interpretazione26.

Bacone si era poi concentrato su questa seconda funzione, allo scopo di affermare l’estrema utilità comunicativo-educativa del linguaggio mitologico; un’utilità riconoscibile tanto nel passato quanto nel presente.

Anche Hobbes, lo abbiamo visto, individua nei miti una forma di sapere originario e ritiene come Bacone che nell’antichità i miti abbiano svolto la duplice funzione di «involucro» e «illustrazione» della verità. Divinizzare il potere politico ha infatti avuto ai suoi occhi lo scopo precipuo di allontanare gli uomini dalla politica e si è tradotto direttamente nel mascheramento del sapere sulle cose dello Stato. Tale mascheramento, tuttavia, non rimanda in modo necessario alla negazione della verità: nelle mani di individui «illuminati», quali sono stati gli antichi sapienti, ha significato semplicemente la trasformazione della forma in cui la verità è stata presentata. Una trasformazione che si è rivelata, e può rivelarsi tutt’oggi, funzionale non solo al mantenimento della pace ma anche alla stessa comprensione della verità, per un’umanità ancora «grossolana», guidata dall’esperienza e soprattutto dominata dalle proprie passioni.

Nel presentare, nella Prefazione ai lettori del De cive, il proprio sistema filosofico, Hobbes è consapevole cioè di avere davanti a sé un pubblico non ancora avvezzo ai dettami della retta ragione. Al

24 Sui rapporti anzitutto biografici tra Hobbes e Bacone, cfr. ad esempio Q. Skinner, op.

cit., pp. 224-225; R. Tuck, art. cit., pp. 127-129. 25 P. Rossi, Dalla magia alla scienza, Einaudi, Torino 1974, p. 145. 26 F. Bacone, Della sapienza degli antichi, in Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, UTET, Torino

2009, p. 448. Su questi aspetti, cfr. M. Fattori, «Phantasia» nella classificazione baconiana delle scienze, in M. Fattori (a cura di), Francis Bacon, terminologia e fortuna nel XVII secolo, Seminario internazionale (Roma, 11-13 marzo 1984), Edizioni dell’Ateneo, Roma 1984, p. 127.

186 Verità del potere, potere della verità linguaggio di quest’ultima, decide allora di accompagnare quello del mito. Esso contribuisce infatti a mettere in evidenza l’errore in cui gli uomini sono caduti. Un errore che corrisponde a considerare il fantasma della filosofia come la vera filosofia, e dal quale prende propriamente le mosse la scienza politica hobbesiana, proponendosi propriamente come suo correttivo.

L’uso che Hobbes fa del mito nel proprio sistema normativo può perciò essere definito come propedeutico: il mito serve a smascherare, in modo particolarmente efficace, le falsità del passato e ad aprire così la strada alla riforma filosofica hobbesiana, ovvero all’instaurazione di una scienza politica «trattata con metodo» e «derivata con nessi evidenti e principi veri»27.

27 T. Hobbes, De cive: the Latin Version, cit., p. 78 (trad. ingl., p. 8; trad. it., p. 62).

Verità e potere: una relazione complessa nelle Lettres persanes di Montesquieu

Federico Bonzi

In questa comunicazione intendo trattare della relazione tra potere della verità e verità del potere prendendo in considerazione un’opera che si colloca agli esordi dell’Età dei Lumi: le Lettres persanes, pubblicate da Montesquieu nel 1721, ma la cui redazione sembra essere iniziata verso il 1717. Non è da sottovalutare questo dato cronologico, in quanto le Lettres persanes devono essere messe in relazione a un breve scritto accademico che risale, con tutta probabilità1, proprio a questi anni: l’Éloge de la sincérité.

Dopo avere presentato la centralità del nostro oggetto d’indagine in quest’opera alla luce della produzione giovanile di Montesquieu, in conclusione cercherò di mostrare come la relazione tra il potere e la verità venga sempre più posta in secondo piano lungo il percorso intellettuale del Président, prendendo in considerazione il funzionamento dell’honneur: la direzione dell’attività politica, infatti, non verrà attribuita esclusivamente alla volontà umana, ma anche a un’«impersonalità» che si può osservare anche in altri ambiti2.

Possiamo fin d’ora anticipare che, se il potere si configura come uno dei nuclei tematici fondamentali intorno ai quali è sempre gravitato l’interesse filosofico di Montesquieu, ciò che verrà a mutare sarà proprio il rapporto che esso intrattiene con la verità: intrinseco negli scritti giovanili, indiretto e mediato nell’opera del ‘48.

1 Cfr. R. Shackleton, A Critical Biography, Oxford University Press, Oxford 1961, p. 401. 2 Quali il livello istituzionale (distribuzione del pouvoir nelle puissances) e quello

economico (commercio).

188 Verità del potere, potere della verità 1. Sapere e potere.

Una ripresa dell’Éloge de la sincérité

Qual è «le véritable motif» che ha portato Usbek alla difficile decisione di lasciare la sua patria per Parigi?

Je parus à la Cour dès ma plus tendre jeunesse ; je le puis dire, mon cœur ne s’y corrompit point : je formai même un grand dessein ; j’osai y être vertueux. Dès que je connus le vice, je m’en éloignai ; mais je m’en approchai ensuite pour le demasquer. Je portai la vérité jusques aux pieds du trône ; j’y parlai un langage jusqu’alors inconnu ; je déconcertai la Flatterie ; & j’étonnai en même tems les adorateurs, & l’Idole3.

Usbek è stato costretto a partire, e dalla situazione della Corte che

gli impediva di essere «vertueux», e dalla minaccia portata alla propria sicurezza personale, da parte dei «Ministres».

Non può essere passata inosservata la ripresa dell’Éloge de la sincérité ‒ indicato già dalla ripresa del termine «flatterie». Si tratta, però, di una ripresa originale, come emerge dal brano seguente: «Mais quand je vis que ma sincérité m’avoit fait des ennemis ; que je m’étois attiré la jalousie des Ministres, sans avoir la faveur du Prince […]»4.

Siamo di fronte a un passo che, pur nella sua sinteticità, è pregnante. A Corte ciò che i ministri cercano di ottenere è la «faveur» del principe, utilizzando, a tale scopo, la «flatterie». Usbek, però, a ben guardare, più che affermare che vi sia della «jalousie» tra i ministri a causa di questa lotta reciproca per la «faveur» del principe, sottolinea che essa è rivolta dai ministri a colui che si differenzia dal loro comportamento, cercando di contrassegnare il proprio rapporto con il principe, e, quindi, il proprio atteggiamento politico, secondo il valore della «sincérité».

Possiamo osservare come, pur in merito allo stesso tema, le Lettres persanes si differenzino dalla prospettiva dell’Éloge. Intanto, se in quest’ultimo viene posto l’accento sull’aspetto teorico-psicologico

3 Montesquieu, Lettres persanes, in Id., Œuvres Complètes I, Voltaire Foundation - Istituto

Italiano per gli Studi Filosofici, Oxford-Napoli 1998, 8, p. 153 (corsivo mio). D’ora in poi LP, seguito dal numero della lettera.

4 Ibidem (corsivo mio).

Verità e potere nelle Lettres persanes di Montesquieu 189

della flatterie, indicandone la causa nell’«orgüeil»5, nell’opera del ‘21 sono le ripercussioni provocate da una certa politica che vengono a essere poste al centro dell’interesse, come si può dedurre dall’intreccio della vicenda. Si dovrà prestare attenzione che queste ripercussioni hanno come oggetto colui che si occupa di politica, e, a questo riguardo, la posizione di Usbek appare contrassegnata, se non da un’ambiguità, perlomeno da due funzioni che sarà necessario distinguere di volta in volta: se egli si può considerare come un suddito alla Corte persiana, allo stesso tempo è il padrone del proprio serraglio. Ma, anche alla Corte, non è un suddito qualunque: il fatto che si sia attirato l’ostilità dei ministri, indica come sia possibile, nelle giuste differenze, paragonarlo a un nobile francese. A questo riguardo, del resto, il gioco degli specchi investe, tra gli altri, anche l’ambito della religione: come era stato notato acutamente già da Gaultier, le osservazioni all’islamismo non fanno che celare una pungente requisitoria contro il cristianesimo6.

Questa ambiguità di Usbek sembra confermare la coerenza che, agli occhi di Montesquieu, deve connotare l’uomo politico: se verrà riferita esplicitamente all’homme de robe nel Discours sur l’équité, nelle Lettres persanes Usbek, alla fine del «romanzo», decidendo di non tornare a Ispahan, non avrà la possibilità di tenere fede al suo «grand dessein» di «être vertueux7», rinunciando, di conseguenza, a intervenire sulla politica del proprio Paese. Trattandosi, di fatto, di una sconfitta anche dell’Usbek suddito, oltre che dell’Usbek capo del serraglio, non potremo esimerci dal riflettere sulla constatazione, a questo punto non banale e non scontata, che si tratta della stessa persona. Potremmo ipotizzare che Montesquieu, a questo proposito, abbia mostrato come Usbek non fosse l’«homme sincère»8 che descrive l’Éloge de la sincérité, in quanto non ha saputo cogliere quegli aspetti, di indubbia connotazione negativa, che accomunano il serraglio alla Corte. E, in altre parole, non ha saputo mantenere una coerenza tra la dimensione pubblica e quella privata.

5 Montesquieu, Éloge de la sincérité, in Id., Œuvres Complètes VIII, Voltaire Foundation -

Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Oxford-Napoli 2003, pp. 138-139. 6 J.-B. Gaultier, nel suo Les Lettres persannes convaincues d’impiété, s.l., 1751, ritorna

sovente sul procedimento di «sovrapposizione» di Montesquieu, le cui critiche sono rivolte al Cristianesimo, pur essendo indirizzate, a livello espositivo, all’Islamismo.

7 Montesquieu, LP, 8, p. 153. 8 Montesquieu, Éloge de la sincérité, cit., p. 142.

190 Verità del potere, potere della verità

Il fatto che in questi anni la riflessione di Montesquieu sia incentrata sulla formazione morale dell’uomo, e, che, in particolare, venga sostenuta la necessità di una coerenza tra queste due dimensioni, è indicato dalla stessa struttura dell’Éloge: se nella prima si tratta «De la sincérité par rapport a la vie privée», la seconda è dedicata alla «sincérité par rapport au commerce des grands». Dal punto di vista concettuale la seconda parte non aggiunge niente di rilevante a quanto esposto in precedenza, ma è interessante notare che anche nel «commerce des grands», e, quindi, «à la cour»9, Montesquieu riconosca la necessità di questa «vertu».

Tornando alle Lettres persanes, il legame, qui ipotizzato, tra dimensione individuale e dimensione pubblica sembra rivelare la sua correttezza se applicato, ancora una volta, all’intreccio del romanzo, ma alla luce di una tematica di fondo già accennata in precedenza: il rapporto tra potere della verità e verità del potere.

Analizziamo ora questo rapporto a proposito di Usbek, per precisare in che termini le Lettres persanes riprendano il tema della coerenza morale. In seguito, mostreremo come il rapporto tra sapere e potere sia uno degli assi portanti dell’intera opera.

Nella prima delle Lettres, Usbek aveva fornito, come motivo del proprio viaggio, «l’envie de sçavoir […] pour aller chercher laborieusement la Sagesse»10. In virtù del fatto che, stando a Chardin, non era proprio dei costumi persiani dell’epoca intraprendere dei viaggi, è lecito chiedersi perché Montesquieu, che conosceva i Voyages en Perse11, scelga questa falsa motivazione.

Anzitutto, sul fatto che non si tratti del motivo reale, le parole di Usbek non danno luogo a fraintendimenti: «Je feignis un grand attachement pour les Sciences ; & à force de le feindre, il me vint réellement»12. Si potrebbe ipotizzare che Usbek scelga la ricerca della sapienza non solo, e non tanto, come uno tra i più verosimili motivi da fornire al principe, bensì in quanto ritenga che in essa potrebbe consistere la soluzione del problema che lo ha portato ad abbandonare la sua patria: in quest’ottica, la conoscenza di un’altra

9 Ibidem. 10 Montesquieu, LP, 1, pp. 140-141. 11 Cfr. il Catalogue de la bibliothèque de Montesquieu à La Brède, a cura di L. Desgraves et C.

Volpilhac-Auger, con la collaborazione di F. Weil, Voltaire Foundation, Oxford 1999, nº 2739.

12 Montesquieu, LP, 8, p. 153.

Verità e potere nelle Lettres persanes di Montesquieu 191

cultura, quella francese, potrebbe portare dei vantaggi al livello politico della Corte persiana.

L’errore fatale di Usbek, che si configurerà come la causa principale, seppure non esclusiva13, del tradimento di Roxane e del disordine del serraglio, sembrerebbe allora consistere nel non avere rilevato i punti di contatto tra il serraglio e la Corte persiana.

Siamo forse di fronte all’ammissione dell’impotenza della verità sul potere? Questa lettura avrebbe il torto di trascurare alcuni elementi narrativi delle Lettres persanes, degni d’interesse, che sfociano nel gesto estremo di Roxane.

Tirando le conclusioni in merito a Usbek, riteniamo che la sua esperienza metta in luce, in maniera drammatica, la difficoltà a mantenere una condotta coerente tra la dimensione pubblica e quella privata, e le conseguenze che ne possono derivare all’uomo politico. 2. Il sapere come condizione del potere:

il gesto estremo di Roxane

Ma non solo, al politico. Roxane, presa consapevolezza (verità) dell’ingiustizia di Usbek nella gestione del serraglio, decide di insorgere: non limitandosi a porre fine alla propria vita, avvelena anche i propri carnefici materiali, gli eunuchi (potere).

La Storia di Ibrahim e Anaïs mette in evidenza il rapporto che viene istituito tra verità e potere attraverso un aspetto che diverrà costitutivo del dispotismo nell’Esprit des lois: l’isolamento.

Per il momento, varrà la pena di mettere in risalto l’utilizzo sapiente, da parte di Montesquieu, di più livelli narrativi: la storia è contenuta in una lettera, la nº135, indirizzata a Usbek, di Rica, il quale, dopo avere fatto tradurre un romanzo persiano, l’ha inviato a una «Dame de la Cour» francese. Ma non è finita: il «Conte Persan», infatti, inizia con una breve descrizione di una donna persiana, Zulema, che, interrogata da una della sue «compagnes» intorno all’esistenza della vita ultraterrena, e sulla questione se il paradiso, secondo il Corano, fosse riservato esclusivamente agli uomini, racconta la storia di

13 Si consideri il ritardo nella ricezione della lettera di Usbek, nelle quale veniva data

l’autorizzazione al Grande eunuco di servirsi delle maniere dure (cfr. Ivi, 142 e 144); e l’incapacità del Grande eunuco temporaneo (Ivi, 143).

192 Verità del potere, potere della verità Ibrahim e Anaïs. Facciamo notare come non si tratti di una mera osservazione stilistica: l’abilità di Montesquieu, infatti, consiste nell’istituire delle relazioni significative tra questi diversi livelli narrativi.

Confrontando la breve descrizione di Zulema, che apre la favola, con un tratto di Anaïs che viene messo in luce esplicitamente nel corso del racconto, emerge come entrambe siano accomunate dall’attitudine a meditare, e, ciò che più conta, a finalizzare il frutto della loro riflessioni a un risultato pratico: Zulema, quello della parità tra uomini e donne; Anaïs, quello dell’insostenibilità della propria condizione, e di quella delle altre donne, all’interno del serraglio d’Ibrahim. Anaïs sacrifica la propria vita manifestando la propria sincerità: ancora, come nel caso di Usbek a Corte, si tratta di mettere in luce le conseguenze di un atteggiamento che pone la verità al centro delle priorità.

Ci sembra interessante analizzare la figura di Anaïs in funzione del gesto estremo di Roxane, al fine di poter comprendere cosa lo abbia scatenato.

Intanto, la condotta tragica di entrambe è improntata alla verità: il momento di ribellione viene a coincidere con la denuncia di ciò che realmente fanno (Roxane) o dichiarano (Anaïs). La favola di Anaïs esplicita questo aspetto in un modo estremamente pertinente alla sfera della verità:

Il [l’eunuque céleste] congedia tous les Eunuques ; rendit sa maison accessible à tout le monde ; il ne voulut pas même souffrir que ses femmes se voilassent ; c’étoit une chose assez singulière de les voir dans les festins parmi des hommes aussi libres qu’eux14.

Il gesto di togliersi il velo richiama alla mente proprio l’etimologia

greca della parola «verità»: il termine αλήθεια, come ben noto, è composto dall’alfa privativa a cui segue una radice che proviene dal verbo λανθανο.

Montesquieu viene ad approfondire l’aspetto della premeditazione, e il nesso che essa intrattiene con l’isolamento che, in questo caso, si configura come una sua imprescindibile condizione, a proposito di Roxane. Il suo gesto è stato il frutto di una condotta che, durante

14 Ivi, 135, p. 511.

Verità e potere nelle Lettres persanes di Montesquieu 193

numerosi anni, è stata caratterizzata dalla simulazione, dall’inganno, dalla finzione, ma che ha celato «toujours» la propria indipendenza all’insegna della libertà, come viene affermato al termine delle Lettres persanes:

Comment as-tu pensé que je fusse assez credule, pour m’imaginer que je ne fusse dans le monde, que pour adorer tes caprices? Que pendant que tu te permets tout, tu eusses le droit d’affliger tous mes desirs? Non : j’ai pu vivre dans la servitude mais j’ai toujours été libre, j’ai reformé tes Loix sur celles de la nature ; & mon esprit s’est toujours tenu dans l’indépendance15.

Circa il parallelo tra Anaïs e Roxane, si dovrà riscontrare una

escalation della tragicità all’interno del romanzo: se la vendetta di Anaïs è resa possibile grazie a una giustizia di matrice divina, appartenente, comunque, alla vita ultraterrena, la realtà delle Lettres persanes è molto più terrena, in accordo, non si potrà negare, all’insistente critica alla religione, che contrassegna l’intera opera.

Eppure, se abbiamo detto che Roxane sottolinea l’isolamento, condizione necessaria alla riflessione, che porta, a sua volta, alla ribellione, esso emerge in modo significativo anche da un’altra figura femminile: unica moglie di Usbek non solo ad avere una figlia, ma anche ad avere richiesto la separazione legale, Zelis sembra possedere la consapevolezza di cosa accade nel serraglio – diversamente da Fatmé o Zachi – , e manifesterà la propria ribellione al marito levandosi il velo e apparendo «à visage découvert devant tout le Peuple»16. Per quanto non sarà ella a ribellarsi a Usbek, la donna che riflette sembra configurarsi come una potenziale minaccia per la stabilità del potere.

Cercando ora di tirare le somme in merito al nostro oggetto d’indagine, sembra che la tesi che emerge dalla struttura narrativa di fondo delle Lettres persanes sia un’affermazione del potere della verità, o, in altre parole, della verità come condizione del potere. Infatti, l’impossibilità per Usbek di intervenire sulla situazione della Corte persiana non è dovuta a un’ammissione dell’inefficacia della verità a tradursi in potere, bensì, ancora una volta, a un errore che è lecito

15 Ivi, 150, p. 544. 16 Ivi, 139, p. 531.

194 Verità del potere, potere della verità ricondurre alla sfera intellettuale: Usbek, infatti, non ha colto gli aspetti in comune che la Corte persiana presenta con il suo serraglio, e, al contrario, Roxane si è ribellata a quest’ultimo in seguito a una riflessione maturata nel corso di anni. 3. Un’analisi del potere: dall’esigenza di coerenza etica alla distribuzione impersonale del potere

Il potere appare uno dei nuclei teorici di maggiore rilievo delle Lettres persanes, e l’attenzione che Montesquieu rivolge in numerose lettres alla figura dell’eunuco è da ricondurre a due motivi principali.

In primo luogo, la condizione dell’eunuco mostra come non venga meno, anche nell’uomo che subisce l’offesa più irreversibile al proprio essere, quale la castrazione, la pulsione a comandare. Il primo eunuco, infatti, ormai anziano, confessa:

Je me souviens toujours que j’étois né pour les [femmes] commander; & il me semble que je redeviens homme dans les occasions, où je leur commande encore. […] quoi que je les garde pour un autre, le plaisir de me faire obéïr, me donne une joie secrette17.

In secondo luogo, è già propria delle Lettres persanes la tesi secondo

la quale l’azione non deriva mai esclusivamente dalla volontà di una singola persona. Infatti si può constatare un’attenzione spiccata, da parte di Montesquieu, sull’incidenza delle donne e degli eunuchi sulle decisioni del principe, e, in parallelo nella società francese, sull’incidenza delle donne e dei ministri sulle decisioni del sovrano, come questa Pensée afferma, sottolineandone, tra l’altro, il rapporto tra verità e potere:

Les princes sont si fort environnés du cercle de leurs courtisans, qui leur dérobent tout et leur ôtent la vue de tout, que celui qui viendrait à voir clair serait comme Descartes, qui sortit des ténèbres de la vieille philosophie18.

17 Ivi, 9, p. 156. 18 Montesquieu, Pensées, in Montesquieu, Pensées. Le Spicilège, Robert Laffont, Paris 1991,

Verità e potere nelle Lettres persanes di Montesquieu 195

Ciò mi porta a considerare quest’opera come un’autentica «analisi del potere» alla luce di un’esigenza di coerenza etica, e, sia detto en passant, indica come l’oggetto d’indagine di Montesquieu, diversamente da quanto avviene nei contrattualisti, concerne l’organizzazione del potere, e non il problema della legittimazione del fondamento di obbligazione politica, che viene assunto come già risolto.

Accennando brevemente, in conclusione, a come il potere, nel corso della riflessione filosofica di Montesquieu, non intratterrà più, con la verità, quel rapporto nevralgico che caratterizzava la fase giovanile presa in esame, mi limito a portare un rilevante esempio.

Ritengo che il principio dell’honneur assuma una posizione privilegiata per quella che deve essere interpretata come una vera e propria svolta all’interno del percorso intellettuale del filosofo. Questo principe, agendo all’interno di una società di ordini nella quale ognuno di questi ultimi persegue il proprio intérêt, assicura il raggiungimento del bien commun: siamo di fronte, insomma, alla teorizzazione della dissociazione tra intenzione degli ordini sociali e risultato pratico ottenuto19.

Nell’Esprit des lois il tema della verità non intrattiene più un rapporto intrinseco con quello del potere. Il fatto che il principio della monarchia sia l’honneur, e non la vertu, lo indica nella maniera più significativa, come si può evincere dal seguente brano:

Il est vrai que, philosophiquement parlant, c’est un honneur faux qui conduit toutes les parties de l’État ; mais cet honneur faux est aussi utile au public, que le vrai le serait aux particuliers qui pourraient l’avoir20.

nº 1626, p. 514 (corsivo mio).

19 Montesquieu, De L’Esprit des lois, 2 voll., Garnier, Paris 1973, vol. I, III, 7, p. 32. Sul principio dello «honneur», mi permetto di rinviare a F. Bonzi, Esempio di metodologia e conferma storica del principio dell’onore: il libro XXVIII dell’Esprit des lois, in «Studi filosofici», XXXII (2011), pp. 77-112.

20 Ibidem.

196 Verità del potere, potere della verità

Questo non equivale a sostenere che l’honneur sia un concetto moralmente vuoto: basti pensare all’importanza del pensiero di Cicerone in merito all’elaborazione di questo concetto. Piuttosto, si potrà affermare che la moralità non viene più riferita, dal Presidént, all’individuo, come avveniva nel moralismo della fine del Grand siècle, ma, piuttosto, verrà considerata in una prospettiva più ampia, più comprensiva, che non attribuirà più alla volontà umana un ruolo esclusivo nella realtà effettuale.

L’arte per il potere. Nietzsche e il «contromovimento» della volontà di potenza

(1885-1889)

Riccardo Roni

Ogni fruttuoso e potente movimento dell’umanità ha creato contemporaneamente anche un movimento nichilistico.

Friedrich Nietzsche

1. Il monito di Zarathustra: «rendere pensabile tutto l’essere»

Per quanto il termine «volontà di potenza» risulti ancora una

nozione di frequentissimo uso, è ancora un termine molto problematico e solo parzialmente definibile. Per comprenderne il senso in relazione alla problematica in oggetto della presente indagine – l’arte1 – , prenderemo le mosse da alcune considerazioni svolte da Nietzsche2 nella seconda parte di Così parlò Zarathustra (sezione «Della

1 Cfr. W. Müller-Lauter, Über Werden und Wille zur Macht, de Gruyter, Berlin 1999; C.

Gentili, Dalla «metafisica da artista» alla «volontà di potenza come arte», in F. Totaro (a cura di), Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, Carocci, Roma 2002, pp. 93-101; G. Wohlfart, La volontà di potenza come arte, in F. Totaro (a cura di), Nietzsche tra eccesso e misura, cit., pp. 102-108; M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 20054, pp. 21-215.

2 Da ora in avanti, per i testi citati di F. Nietzsche, si farà riferimento all’edizione italiana delle Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 ss.

198 Verità del potere, potere della verità vittoria su se stessi» [Von der Selbst-Überwindung])3. In questo passo Nietzsche pone al centro l’azione di un soggetto capace di «orientarsi»4 in un ambiente complesso. Occorre mettere bene in chiaro fin da adesso, che la prospettiva privilegiata di osservazione per questa teoria dell’azione non è tanto la storia quanto il «pensiero»5: «Volontà di rendere pensabile [zur Denkbarkeit] tutto l’essere [Seienden]: così chiamo io la nostra volontà!»6. L’insieme degli avvenimenti distribuiti lungo il tempo che hanno visto protagonista o comunque presente l’uomo, devono rispondere a questa sorta di imperativo categorico rovesciato che prescrive, sempre prendendo le mosse da una prospettiva particolare (quella dell’intellettuale decadente7?) – e di qui il sovvertimento dell’eredità kantiana – di dover rendere pensabile tutto l’esistente. Resta fuori discussione che questa relazione (soggetto-mondo) non viene tradotta simultaneamente nella cornice aprioristica di un’integrazione necessaria, ossia nel quadro di un sistema che abbia tendenzialmente una sua autonomia e indipendenza, sollevato dalle problematiche degli incontri – e dei possibili scontri – fra i singoli.

Entro questo primo affresco della volontà di potenza come «pensiero», l’esistente si configura come il risultato di una serie di operazioni analitiche8, che lo devono poter rendere «levigato […] e

3 M. Montinari, Su Nietzsche, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 47-65 e Id., Che cosa ha detto

Nietzsche, Adelphi, Milano 1999, p. 133 ss. 4 Cfr. W. Stegmaier (Greifswald), Geist. Hegel, Nietzsche und die Gegenwart, in «Nietzsche-

Studien», (1997), n. 26, pp. 314-318. Per ulteriori spunti e approfondimenti, vedi anche W. Stegmaier, Philosophie der Orientierung, de Gruyter, Berlin 2008.

5 A scanso di fraintendimenti, Nietzsche ci ricorda che «i pensieri sono azioni», frammento 1 [16] autunno 1885-primavera 1886. Rimando inoltre al testo di P. Sedgwick, Nietzsche, Normativity, and Will to Power, in «Nietzsche-Studien», (2007), n. 36, p. 218.

6 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte seconda, Della vittoria su se stessi. 7 Cfr. P. Bourget, Saggi di psicologia contemporanea, a cura di F. Manno, introduzione di G.

Campioni, Aragno, Torino 2007. 8 Fin dalla produzione dei primi anni ‘70, Nietzsche dimostra una lucida consapevolezza

della totale dipendenza dell’io, definito anche «finzione regolativa», da un modello epistemologico rappresentato da una razionalità di tipo analitico-procedurale. Pensare secondo il principio di causalità significa stabilire un rapporto con i dati, analiticamente ordinati, di un’esperienza di ricostruzione – non sempre logica – di enti ed eventi ricondotti al sistema delle forze o grandezze che li determinano. In tutti questi casi, quali che siano i dati in questione, pensarli significa per Nietzsche «rispecchiarli», e la parola «riflessione» ha pertanto il significato di servirsi del pensiero solo come di uno «specchio». Cfr. frammento 19 [133] estate 1872-inizio 1873: «Ogni conoscere [Erkennen] significa un rispecchiare

Nietzsche e il «contromovimento» della volontà di potenza 199

soggetto allo spirito, come suo specchio [Spiegel] e immagine riflessa […]. Io – spiega Zarathustra – ho seguito le orme del vivente […] con uno specchio dalle cento facce ne ho catturato lo sguardo»9.

Indubbiamente questa procedura è orientata ad affinare le tecniche di controllo sulla realtà. È chiaro, però, che questa nozione di realtà, rientrando nella logica stessa della volontà di potenza, è soprattutto la conseguenza di una serie di assunzioni valoriali, «questa è la vostra volontà tutta intera […] anche quando parlate del bene [Guten] e del male [Bösen] e dei valori [Werthschätzungen]»10. Qualora si tenti di postulare entro tale cornice una possibile socialità dell’azione, Nietzsche paventa una relazione dotata di una forte organizzazione – e quindi con un suo significato– e ammette la possibilità di una piena comprensione dell’azione solo per coloro che creano i valori: «i non saggi, certo, il popolo – costoro sono come il fiume, su cui una barca scivola via: e nella barca sono i valori [Werthschätzungen] […] ciò che dal popolo viene creduto [geglaubt] bene e male si tradisce a me come un’antica volontà di potenza. Siete stati voi, saggissimi, a porre sulla barca quei passeggeri e a dar loro splendore e nomi orgogliosi, – voi e la vostra volontà dominatrice! [herrschender Wille]»11. Questa ultima nota, così gravida di conseguenze, pone in questione la presenza o meno – argomento ancora tutto da chiarire – di un contatto comunicativo fra i «creatori» di valori, da un lato, e i destinatari oggetto dell’azione sovraccarica di senso, dall’altro. Tutti questi aspetti si presentano, nel quadro normativo della volontà di potenza, come riconducibili ad un comune dispositivo: il rapporto comando-obbedienza12.

Questo ci riconduce sul terreno più proprio della volontà di potenza, ossia alla convertibilità infinita di ogni rapporto di dominio,

[Wiederspiegeln] in forme completamente determinate, che non esistono sin dal principio. La natura non conosce né figura [Gestalt] né grandezza [Grösse], piuttosto, le cose si presentano così grandi e così piccole solo per un soggetto conoscente». Vedi anche frammento 19 [140] estate 1872-inizio 1873: «Ogni figura [Gestalt] appartiene al soggetto. Si tratta di un cogliere [Erfassen] le superfici [Oberflächen]attraverso uno specchio [Spiegel]».

9 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte seconda, Della vittoria su se stessi. 10 Ibidem. Vedi anche il frammento 34 [176] aprile-giugno 1885: «Le morali e le religioni

sono il mezzo principale con cui si può fare dell’uomo quel che si vuole; presupposto che si abbia un di più di forza creativa e si sappia affermare la propria volontà creatrice su lunghi periodi di tempo, in forma di legislazioni e costumi».

11 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte seconda, Della vittoria su se stessi. 12 Cfr. P. Sedgwick, art. cit., p. 220.

200 Verità del potere, potere della verità da cui Nietzsche estrae i suoi criteri di interpretazione, i quali non escludono che anche nella volontà di colui che presta servizio possa nascondersi «la volontà di essere padrone». In questa fase, in cui occorre tuttavia escludere l’eventualità di facili generalizzazioni che potrebbero spingere ad una verifica di uniformità ricorrenti, la teoria della volontà di potenza può produrre, dal più originario orientamento all’individuale (inteso come «il più piccolo» che «si dà al grande, per avere diletto e potenza sull’ancora più piccolo»), ipotesi «sintetiche» sul carattere dell’azione sociale nonché ipotesi sul destino di sviluppo o di regressione delle azioni sociali. In questo quadro, nozioni come quella di «sistema sociale» sono pure astrazioni (in particolare se vengono lette alla luce della teoria della volontà di potenza), mentre assume un’importanza decisiva il mondo della vita; soltanto entro un tale contesto, in cui «la vita immola se stessa – per la potenza!»13, quelle prospettive possono arricchirsi di significato, ma solo dopo una serie di operazioni analitiche che impegnino il creatore di valori a cercare il filo di Arianna nel labirinto dei conflitti di forza (mondo degli istinti): ricerca, questa, che non è neppure diversa dalla esplorazione degli strumenti stessi del conoscere («la mia volontà di potenza cammina anche sulle gambe della tua volontà di verità!»14). È per questa ragione, occorre ribadirlo, che le questioni della vita, del volere-creare, dei valori e dell’azione-distruzione, si associano continuamente a quel modello – invasivo – di conoscenza «analitica» che pretende di esaurire in sé ogni condizione di realtà. A dimostrazione di ciò, sembra che il richiamo iniziale di Nietzsche al «pensare», intenda proprio fare riferimento a questa forma di controllo conoscitivo delle possibilità implicite nell’esperienza del mondo della vita. 2. Un grande compito:

«amministrare la terra come un tutto»

Dobbiamo a questo punto prendere le mosse dal fatto che Nietzsche sente davanti a sé «il destino, il grande compito e problema: come dev’essere amministrata la terra come un tutto ? E perché deve

13 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte seconda, Della vittoria su se stessi. 14 Ibidem.

Nietzsche e il «contromovimento» della volontà di potenza 201

“l’uomo” – e non più un popolo, una razza – essere allevato ed educato come un tutto?»15. La codificazione di un linguaggio rigoroso per il potere – «sempreché una tale volontà artistica di primo ordine abbia in mano il potere», precisa Nietzsche – non può essere un fatto formale come le teorie più diffusamente praticate della «parità di diritti» e della «pietà per tutti quelli che soffrono»16. È invece un fatto sostanziale, coincidendo praticamente con l’obbligo preliminare della chiarificazione dell’attrezzatura mentale da utilizzare (inventività) e della definizione delle strategie pratiche (arte della dissimulazione) per poter «avere ragione di una lunga pressione e costrizione», affinché la propria volontà di vita «debba crescere fino a diventare un’assoluta volontà di potenza e di strapotenza […] per l’innalzamento del tipo uomo»17. In questo caso, la morale rappresenta come il denaro un bene che l’agente accetta nel corso dello scambio («una morale che si propone di formare una casta dominante – i futuri signori della terra – deve, per poter essere insegnata, introdursi in connessione con la legge morale vigente e sotto il manto delle sue espressioni e apparenze»18), poiché egli sa che altri individui saranno pronti ad accettarlo come un mezzo di scambi futuri.

Purtuttavia, in Nietzsche non ogni agire che si esteriorizza può essere inteso come un agire sociale di «uomini vasti e profondi»: non è agire sociale quello di chi si orienta in direzione di «guerre nazionali, dei nuovi “regni”»19 e – ovviamente – non è agire sociale l’agire interiore che non abbia a confrontarsi con l’atteggiamento di altri individui e non sia da questi in una certa misura ispirato, come nel caso ben noto della preghiera solitaria degli asceti o della contemplazione20. Non è agire sociale un semplice contatto fortuito fra individui, come accade nella «vita leggera» dell’uomo moderno entro la «limitatezza nazionale delle “patrie”»21. Tutte le premesse

15 Frammento 37 [8] giugno-luglio 1885. 16 Ibidem. 17 Ibidem. 18 Ibidem. 19 Frammento 37 [9] giugno-luglio 1885. 20 Onde evitare semplificazioni sbrigative, occorre tenere presente questo breve

frammento, 1 [126] autunno 1885-primavera 1886: «Le vie che conducono al santo. Conclusione di “La volontà di potenza”», da leggere in connessione con il frammento 1 [129] autunno 1885-primavera 1886: «I santi come gli uomini più forti (grazie al superamento di sé e alla libertà, alla fedeltà, ecc.)».

21 Ibidem. Vedi anche il frammento 1 [149] autunno 1885-primavera 1886: «L’impero

202 Verità del potere, potere della verità teoriche richiamate consentono a Nietzsche di introdurre una prima tipologia – pratica – di agire determinato razionalmente rispetto ai valori della volontà di potenza: è il caso dell’«Europeo» dell’avvenire. Sono rintracciabili sullo sfondo alcune connessioni tra l’agire della volontà rispetto allo scopo («amministrare la terra come un tutto») e quello rispetto al valore («die Umwertung aller Werte») che Nietzsche cerca sempre di tenere in equilibrio. Mentre, da un lato, egli critica l’Europa a lui contemporanea, vedendola come il risultato – politico, economico e sociale – del «livellamento democratico», dall’altro guarda agli «uomini del Rinascimento» e ai Greci22 come ad un possibile antidoto alla «décadence». Visto retrospettivamente, nel modo in cui è posto, un tale riferimento polemico al modello democratico e socialista non può comunque essere convincente, così come non può essere sufficiente la risposta di Nietzsche alle molte questioni connesse al problema della sua legittimità politica23.

Il socialismo è solo un mezzo d’agitazione dell’individualista […] ciò che esso vuole, non è la società come fine dell’individuo, bensì la società come mezzo per rendere possibili molti individui. […] La predica morale altruistica al servizio dell’egoismo individuale: una delle più abituali falsità del diciannovesimo secolo24.

Benché si tratti – come ho avuto premura di mettere bene in

chiaro attraverso il richiamo a Lukács – di una posizione inaccettabile, il vero schema di base dell’agire pratico proposto da Nietzsche,

tedesco è cosa a me lontana, e non c’è ragione per me di essere, in relazione a una cosa che è tanto lontana, amico o nemico», e il frammento 1 [153] autunno 1885-primavera 1886: «NB. Contro l’opposizione tra ariano e semitico. Dove le razze sono mescolate, c’è la fonte di una grande cultura» e in particolare il frammento 2 [3] autunno 1885-primavera 1886: «Siamo in mezzo al pericoloso carnevale della follia nazionalistica, dove ogni possibile ragione se l’è svignata e dove la vanità dei più meschini popoli di secondo piano gridano i loro diritti di esistenza separata e di sovranità»; vedi anche frammento 2 [10] autunno 1885-autunno 1886. Vedi inoltre P. v. Tongeren, Nietzsche als «Über-Politischer Denker», in H.W. Siemens and V. Roodt (a cura di), Nietzsche, Power and Politics. Rethinking Nietzsche’s Legacy for political Thought, de Gruyter, Berlin-New York 2008, pp. 69-83. Su posizioni diverse vedi D.W. Conway, Nietzsche and the Political, Routledge, London 1997.

22 Frammento 5 [89], estate 1886-autunno 1887. 23 P. Sedgwick, art. cit., p. 204. G. Lukács, La distruzione della ragione, trad. it. di E.

Arnaud, 2 voll., Einaudi, Torino 1974, vol. I, pp. 338-339. 24 Frammento 10 [82] autunno 1887.

Nietzsche e il «contromovimento» della volontà di potenza 203

restando vincolato al secco rifiuto del «livellamento democratico», è una relazione sociale definita come «il tempo per una gerarchia degli individui»25, con una «posizione marginale della coscienza rispetto a ciò che propriamente muove e governa»26. Di conseguenza egli è portato ad escludere qualsiasi forma di relazione sociale su base individualistica27. Concettualmente esige un minimo di relazione reciproca fra gli attori in causa, mentre pretende che il contenuto sia il più variabile possibile28. Le relazioni sociali effettive che scaturiscono da questo modello sono pertanto la lotta fra poteri, le gerarchie, l’odio, la reverenza, lo scambio, la comunità di ceto o di classe, secondo dei significati che vanno ben oltre i confini del linguaggio politico ordinario29. Il «contenuto di senso», per usare una terminologia weberiana, è quello realmente attribuito alla relazione dagli «uomini davvero grandi», i quali auspicano che possa valere in assoluto, disprezzando così «la sorte dei molti»30.

Eppure per Nietzsche questo presuppone esattamente che tutti i partecipanti ad una relazione sociale non possano dare lo stesso contenuto di senso al loro agire – ragion per cui la relazione sociale deve restare unilaterale per la maggioranza – ma non per questo si perde il riferimento di senso, perché ciascuna delle parti dovrà essere indotta a orientare il proprio atteggiamento o comportamento unilaterale (individuale) alla luce delle aspettative degli «uomini davvero grandi». Si tratta in questo caso pur sempre di gradi, perché non può mai darsi una perfetta corrispondenza di aspettative, che è solo un caso limite, destinato a restare sullo sfondo come un progetto incompiuto. Il contenuto di senso di una relazione sociale basata su questi presupposti, può essere formulato in massime (a partire dalla lezione prima richiamata dello Zarathustra) delle quali le parti in gioco si aspettano reciprocamente l’osservanza e in conseguenza delle quali orientano il loro agire. Naturalmente questa dinamica si realizza

25 Frammento 39 [3] agosto-settembre 1885. 26 Frammento 39 [12] agosto-settembre 1885. 27 Nel frammento 1 [191] autunno 1885-primavera 1886, Nietzsche – dopo Hegel –

osserva che nell’antica Grecia «la collettività […] valeva sempre più dell’individuo! Solo che non ci è stata conservata».

28 Frammento 1 [58] autunno 1885-primavera 1886: «L’uomo come una pluralità di “volontà di potenza”: ciascuna con una pluralità di espressioni e di forme. […] l’“autocoscienza” è una finzione!».

29 P. v. Tongeren, art. cit., p. 71. 30 Frammento 40 [26] agosto-settembre 1885.

204 Verità del potere, potere della verità meglio quando la relazione è impostata su un agire istintivo31, rispetto allo scopo o al valore, restando fuori discussione che «i nostri impulsi si possono ridurre alla volontà di potenza», poiché «la volontà di potenza è l’ultimo fatto a cui perveniamo scendendo in profondità»32.

Grazie a questa garanzia di fondo, fra gli attori si rende possibile – in modo automatico – l’osservanza reciproca degli obblighi e dei diritti connessi all’accordo; essi si possono così scambiare la promessa di rispettare un certo atteggiamento nel presente e nel futuro e questo consente loro di operare con una certa sicurezza. In questo caso si ha un incontro fra due forme di agire: quella dei superpotenti, (forse) determinata razionalmente rispetto al valore e allo scopo33, e quella della maggioranza, determinata impulsivamente34 rispetto al valore e allo scopo, perché, in quest’ultimo caso, il rispetto dell’accordo non dipende tanto da un obbligo morale, razionalizzabile e condivisibile reciprocamente, quanto piuttosto dalla capacità di «incarnare [einzuverleiben] in se stessi il sapere e di renderlo istintivo [instinktiv]: un compito [Aufgabe] scorto soltanto da chi è giunto a comprendere [begriffen] che fino ad oggi si sono incarnati in noi solo i nostri errori e che tutta la nostra coscienza [Bewusstheit] si riferisce [bezieht] ad errori!»35. Queste nozioni di base sorreggono tutto l’impianto interpretativo nietzschiano della volontà di potenza e formano le categorie per interpretare il (relativamente) nuovo senso morale dell’uomo da lui proposto, il cui elemento razionale è solo una summa di astrazioni utili, motivate dalla volontà di potenza e finalizzate all’attuazione delle azioni e dei tratti del carattere36.

31 Frammento 1 [30] autunno 1885-primavera 1886: «A. Punto di partenza psicologico:

[…] – le brame si specializzano sempre più: la loro unità è la volontà di potenza (per prendere il termine dal più forte di tutti gli impulsi, che ha diretto finora ogni sviluppo organico)».

32 Frammento 40 [61] agosto-settembre 1885. 33 Si badi: «razionalmente» nel senso in cui lo intende Nietzsche, ossia istintivamente

funzionale alla gerarchia degli individui. 34 Ossia in modo automatico, irriflesso. 35 F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 11. 36 Frammento 1 [7] autunno 1885-primavera 1886.

Nietzsche e il «contromovimento» della volontà di potenza 205

3. L’ombra del nichilismo: verso un soggetto «senza radici e senza meta»?

Da questa prima serie di riflessioni, è emersa una questione cruciale. Nella tendenza all’uniformità (come risultato radicale dell’autolegislazione) sta la ragione ultima che spiega il ricorso nietzschiano all’estetica, che non potrebbe rivendicare alcuna vocazione al politico rispetto alla morale o alla stessa religione, qualora dovesse dedicarsi al solo esame dell’individuale in quanto tale, come unico ed irripetibile. Dopo aver consumato la sua rottura con Wagner, Nietzsche formula un interrogativo importante: «Fino a che punto l’arte penetra nell’essenza della forza?», fino al punto di «imprimere al divenire il carattere dell’essere». «Che tutto ritorni» – prosegue – «è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere: culmine della contemplazione»37.

Questo avanzamento del «divenire» verso l’«essere» si esprime soprattutto nello sviluppo dell’arte in luogo di metafisica, morale e religione. «Arte come volontà di superare il divenire, come “eternare”, con uno sguardo limitato, secondo una certa prospettiva; si ripete per così dire in piccolo la tendenza del tutto»38. Gli artisti, come «specie intermedia», sollevano il problema cruciale della qualità dell’esistenza nel mondo moderno39, essendo la loro arte «l’unica forza antagonistica superiore, contro ogni volontà di rinnegare la vita, come l’elemento anticristiano, antibuddistico, antinichilistico per eccellenza»40. Ad ogni modo, Nietzsche, pur restando sempre critico verso la nozione di «progresso», la fa interagire con il «contromovimento» (Gegenbewegung) dell’arte: «gli artisti […] determinano un’immagine di ciò che dev’essere – sono produttivi, in quanto effettivamente cambiano e trasformano; non come gli uomini della conoscenza che lasciano tutto com’è»41. E ancora: «Quanto

37 Frammento 7 [54] fine 1886-primavera 1887. 38 Ibidem. 39 Cfr. G. Campioni, Nietzsche. La morale dell’eroe, Edizioni ETS, Pisa 2008, pp. 59-69. 40 Frammento 17 [3] maggio-giugno 1888. 41 Frammento 9 [60] autunno 1887. Sempre nello stesso periodo, Nietzsche nel

frammento 9 [89] autunno 1887 scrive che «ammettere l’essere è necessario [nöthig] per poter pensare [denken] e dedurre [schliessen] […]. Il mondo fittizio di soggetto, sostanza, “ragione” ecc. è necessario: è in noi un potere [Macht] che ordina, semplifica, falsifica, separa artificialmente. “Verità” – volontà di padroneggiare la molteplicità delle sensazioni. […] Conoscenza

206 Verità del potere, potere della verità trionfo dell’artista c’è nel senso di potenza! […] L’arte e nient’altro che l’arte. Essa è la grande creatrice della possibilità di vivere, la grande seduttrice alla vita, il grande stimolante per vivere…»42. Ciò che conferisce alla condizione dell’uomo civilizzato rispetto a quella del selvaggio una nota razionale è la fede in una verità che, nel nome dell’arte, «non è pertanto qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, – ma qualcosa che è da creare [schaffen] e che dà il nome a un processo [Prozess], anzi a una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine: […] È una parola per la “volontà di potenza”» e questo bisogno (Bedürfniss) dell’uomo «inventa [erdichtet] già, come creatore, il mondo a cui lavora [arbeitet], lo anticipa: questa anticipazione (“questa fede” nella verità è il suo sostegno)» 43.

Nietzsche si domanda se contro il movimento nichilistico44 volto a svalutare la vita – che è uno stato latente ormai da millenni nella cultura occidentale – si possa creare un «contromovimento» (Gegenbewegung). Nietzsche crede che nella drammatica esistenza moderna, «in tutte le questioni politiche, anche nei rapporti dei partiti, perfino delle associazioni mercantili o di operai e imprenditori, si tratta di questioni di potenza – “che cosa si può fare?”»45. La perdita di libertà va considerata un esito più che una causa dell’inarrestabile, universale impotenza della ragione, che stende le sue ombre dappertutto, anche sui progetti socialisti: «In fondo noi BUONI

EUROPEI […], sempre più decisamente antiidealisti […] antirivoluzionari»46.

Questa lettura, come mostra Lukács, risulta pienamente comprensibile solo se inquadrata in un tentativo di «distruzione della ragione» ad opera di alcune forme più reattive e irrazionali di volontà

[Erkenntniss] e divenire [Werden]si escludono a vicenda. Conseguentemente la “conoscenza” dev’essere qualcosa d’altro; deve precederla una volontà di rendere conoscibile, una specie del divenire stesso deve creare l’illusione [Täuschung] dell’essere».

42 Frammento 11 [415] novembre 1887-marzo 1888. 43 Frammento 9 [91] autunno 1887. 44 Frammento 9 [107] autunno 1887. Cfr. K. Löwith, Il nichilismo europeo, trad. it. di C.

Galli, Laterza, Roma-Bari 2006, in particolare pp. 31-80 e la Prefazione di C. Galli, pp. VII-XXVIII. Id., Nietzsche e l’eterno ritorno, Laterza, Bari 1985. Vedi anche F. Nietzsche, Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide, trad. it. di S. Giametta, a cura di G. Campioni, Adelphi, Milano 2006. Da segnalare anche il saggio ivi contenuto di G. Campioni, Il «sentimento del deserto». Dalle pianure slave al vecchio Occidente (pp. 49-60).

45 Frammento 9 [121] autunno 1887. 46 Ibidem.

Nietzsche e il «contromovimento» della volontà di potenza 207

di potenza47. In questo senso, il termine «razionalizzazione» non può essere più sinonimo di una Versöhnung giacché adesso «la volontà di potenza può manifestarsi solo contro delle resistenze; cerca quel che le si contrappone […] finché il vinto sia passato interamente sotto il potere dell’aggressore accrescendolo»48. Nel quadro di una prospettiva orfana della ragione, l’ormai potente attenzione antropocentrica dettata dall’operare della volontà di potenza consente di porre, oltre l’arte, un problema antropologico di più ampia portata: quello dell’avvento o meno di una umanità come «soggetto molteplice» di «una specie più forte». Caduti i divieti di ispirazione morale-religiosa che bloccavano una realizzazione spontanea della soggettività umana, l’uomo creatore può comprendere e volere tutto questo consapevolmente per creare «le condizioni in cui un tale potenziamento sia possibile»49.

Come è evidente da questo passo, l’accrescimento della distanza rende impotente la ragione nella realtà50, ma è anche l’occasione migliore per ricondurre la molteplicità ad un ordine concettuale normativamente vincolante: «il mio concetto [Begriff], la mia immagine […] è, come si sa, la parola “superuomo”»51.

Il ricorso alla nozione di Übermensch presuppone tanto la consapevolezza dei forti limiti dell’io (individuo) tanto del potere normativo del sé (soggetto), unità sintetica in cui il cogito è un epifenomeno dell’attività corporea (istinti, pulsioni, affetti)52.

La «volontà di potenza» conferisce all’individuo – fugace e limitato

47 Cfr. G. Lukács, op. cit., vol. I, pp. 308-402. Come giustamente rileva anche Montinari,

«questa nuova interpretazione di tutto l’accadere si specifica in una regressione del pensare, sentire e volere nelle valutazioni, che a loro volta corrispondono ai nostri istinti, i quali sono riducibili alla volontà di potenza, che è l’ultimo fatto al quale sia possibile risalire (o discendere)», M. Montinari, Che cosa ha detto Nietzsche, cit., p. 142.

48 Frammento 9 [151] autunno 1887. 49 Frammento 9 [153] autunno 1887. 50 Per ulteriori spunti, rimando ancora a W. Stegmaier, Geist. Hegel, Nietzsche und die

Gegenwart, art. cit., p. 307 ss. 51 Frammento 10 [17] autunno 1887. 52 Vedi G. Abel, Bewusstsein-Sprache-Natur. Nietzsches Philosophie des Geistes, in «Nietzsche-

Studien», (2001), n. 30, pp. 1-43; N. Loukidelis, Quellen von Nietzsches Verständnis und Kritik des cartesischen cogito, ergo sum, in «Nietzsche-Studien», (2005), n. 34, pp. 300-309. L. Lupo, Le colombe dello scettico. Riflessioni di Nietzsche sulla coscienza negli anni 1880-1888, Edizioni ETS, Pisa 2006. P. Wotling, Il pensiero del sottosuolo. Statuto e struttura della psicologia nel pensiero di Nietzsche, trad. it. di C. Piazzesi, Edizioni ETS, Pisa 2006, pp. 37-53. R. Roni, La persistenza dell’istinto. Pulsioni vitali dell’esistenza, pres. di R. Bodei, Edizioni ETS, Pisa 2007, pp. 9-84.

208 Verità del potere, potere della verità – il «diritto»53 e l’opportunità di affermarsi come soggetto «sintetico», emancipandosi pertanto dai limiti imposti dalla comunità. Questa forma solida di soggettività plurale54 che viene prima della «sostanza»55, «deve parlare e agire con un estremo rispetto di sé, rappresentando [darstellt] la comunità [Gemeinschaft] nella sua persona [Person]» e in questo caso «la responsabilità per il tutto [Ganze] educa e permette al singolo uno sguardo vasto […] che egli per se stesso non si riconoscerebbe. Insomma: i sentimenti di sé collettivi [die collektiv–Selbstgefühle] sono la grande scuola preparatoria alla sovranità personale»56. In conclusione: per un verso tutte queste considerazioni non vogliono indurre a pensare ciò che Nietzsche non fece. Egli infatti non lasciò una sola riga che potesse fornire una qualche alternativa di contro ai fenomeni politici, morali o culturali verso i quali egli mosse le sue critiche. Molte delle considerazioni che egli scrisse restano dei veri e propri esperimenti mentali. Se abbiamo tralasciato di discutere i possibili effetti del pensiero nietzschiano nel contesto della modernità globale contemporanea, è soprattutto per la consapevolezza del rischio che una ricezione anarchica della nozione di individuo proposta da Nietzsche potesse scatenare forze selvagge in ordine a possibilità ormai prive di radici e senza meta. Eppure, da questa ricerca ci sembra tornare in primo piano – storicamente – un problema sul quale si è esercitata la filosofia fin da tempi remoti e che in Nietzsche è rimasto irrisolto: non tanto i reclami dell’individuo, quanto il bisogno morale di soggettività assieme alle possibilità pratiche della sua libertà.

53 Frammento 10 [53] autunno 1887: «Non crediamo a un diritto che non riposi sulla

potenza per farsi valere: consideriamo tutti i diritti come conquiste con la forza». 54 Vedi frammento 40 [42] agosto-settembre 1885. 55 Frammento 10 [19] autunno 1887: «Il concetto di sostanza è una conseguenza del

concetto di soggetto: non inversamente!». 56 Frammento 11 [286] novembre 1887-marzo 1888.

Le verità della Politica. Hannah Arendt sul rapporto tra Verità,

Menzogna e Potere

Federica Castelli 1. Hannah Arendt e lo spazio del politico

Era il 1972 quando il breve testo di Hannah Arendt, Lying in Politics1, apparve tra gli scaffali, come commento e riflessione a partire dai retroscena politici e sociali sottesi allo scandalo dei Pentagon Papers del 19712. Pochi anni prima, Arendt aveva diretto il proprio interesse critico all’intreccio tra Potere e Verità nel breve saggio del 1968 Verità e Politica, uno dei testi compresi nel volume Between Past and Future, assente però nella versione italiana3. Entrambi i testi, di notevole valore teorico e critico, si collocano ad una consistente distanza temporale e culturale rispetto all’attualità, pur sollevando nodi e

1 H. Arendt, Lying in Politics. Reflections on Pentagon Papers, Harcourt Brace Jovanovich,

New York 1972 (trad. it. di V. Santini, La menzogna in politica. Riflessioni sui «Pentagon Papers», a cura di O. Guaraldo, Marietti, Genova-Milano 2006).

2 Le 7000 pagine top-secret dei Pentagon Papers furono rese pubbliche nel 1971 sulle pagine del «New York Times», dopo una complessa operazione portata avanti da Daniel Elsberg volta a rivelare all’opinione pubblica americana le menzogne e gli omicidi commessi nel Sud-Est asiatico dal Governo americano. I documenti, redatti dal Dipartimento della Difesa americano sotto la guida del Segretario della Difesa Robert MacNamara, rappresentano il risultato di uno studio approfondito sulle strategie di guerra e sui rapporti tra il governo statunitense e il Vietnam durante il periodo che va dal 1945 al 1977. Sotto una complessa rete di calcoli statistici e scientifici da applicare alla realtà contingente della guerra, ciò che emerge dai documenti è l’opera di mistificazione e menzogna portata avanti dal Governo statunitense circa i reali obiettivi del conflitto.

3 H. Arendt, Truth and Politics, in Id., Between Past and Future. Eight excercises in Political Thought, Viking Press, New York 1968 (trad. it. di V. Sorrentino, Verità e Politica, seguito da La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 2004).

210 Verità del potere, potere della verità problematiche che sembrerebbero delle costanti del nostro presente. Il problema dell’attualità della riflessione arendtiana risulta essere tra i temi più dibattuti dal panorama critico contemporaneo, che procede ad una problematizzazione delle categorie del pensiero dell’autrice alla luce degli evidenti mutamenti che gli scenari politici attuali comportano. Difatti, se è pur vero che molte delle categorie elaborate dalla riflessione di Arendt sembrano collocarsi aldilà di una validità strettamente contestuale alle sue opere, è doveroso considerare come la distanza tra gli eventi e la scena culturale che fanno da sfondo al suo pensiero ed i nostri tempi sembri condannare all’inattualità buona parte della riflessione dell’autrice. Alcuni dei processi storici e culturali da cui Arendt sembra estrapolare i concetti chiave del proprio pensiero – come il totalitarismo, la società di massa – sembrano infatti muti in un panorama politico globale quale quello successivo agli eventi del 1989. Ciò che dunque questo piccolo saggio si propone di ottenere è, innanzi tutto, una valutazione critica capace di mettere a fuoco le possibilità del pensiero arendtiano circa il rapporto tra il Potere e le categorie di Menzogna e Verità, all’interno dello scenario politico contemporaneo, riproponendosi una chiara messa a tema della riflessione dell’autrice che sappia mettere in luce gli eventuali elementi di attualità di un pensiero che molti ormai sembrano destinare esclusivamente ad una interpretazione storiografica e filologica.

Alla luce di tale progetto, risulterà innanzi tutto necessaria una chiarificazione del concetto di spazio politico, inteso da Arendt come luogo della pluralità e dell’opinione e come realtà contingente, aliena da qualsiasi tentativo di sussunzione all’interno di spiegazioni universalistiche.

Partendo dalla categoria di Azione elaborata dall’autrice, motore e ragione della Politica, si perviene ad una sfera degli affari umani come luogo di connessione tra identità del singolo e pluralità umana, spazio di scambio e interazione che viene a basarsi sulla contingenza e sull’imprevedibilità che scaturiscono dallo statuto ontologico dell’agire stesso. L’azione – che, assieme al discorso, rivela l’unicità dell’individuo che agisce – è una realtà che esige di esser coniugata al plurale, che esige interazione. Questo agire in pubblico, nucleo della vita politica che distingue l’uomo come individuo plurale dalle specie animali, trova come sua ragione fondamentale la possibilità di formazione di opinioni nella sfera collettiva. È dunque, spiega Arendt,

La verità della Politica 211

la realtà labile e contingente dell’opinione ad esser la base dello spazio politico. La politica si basa su accordo e consenso, su persuasione ed opinione4. 2. Esiste la Verità in Politica?

La Politica, coincidendo con il luogo della pluralità e interazione umana, non si identifica dunque con un criterio stabile e immutabile che governa la realtà trascendendola, ma essa è luogo labile e contingente del cambiamento e dell’opinione, spazio dell’elaborazione di visioni della realtà sempre diverse da quella preesistente. Essa è azione e cambiamento, opinione e contingenza. In uno spazio pubblico così connotato risulta evidente come la categoria filosofica di Verità, intesa in modo assoluto e necessario, entri in diretto conflitto con l’ambito stesso del Politico. Questa infatti, rifacendosi alle categorie di univocità e universalità, allontana da sé ogni possibilità di dialogo e di confronto ed esercita sulle opinioni da essa difformi una coercizione logica che le trasforma in meri errori. La Verità filosofica non può delinearsi che come impolitica per natura5.

La Verità come pura coerenza porta alla negazione di ogni esistente che contraddica quanto questa asserisca, delineandosi come legge eteronoma sotto cui sussumere tutti gli eventi contingenti della realtà umana. Essa è indipendente dalla pluralità umana e assolutamente lontana dalla mutevolezza della sfera pratica degli affari umani; dinnanzi ad essa persuasione e dissuasione sono inutili. La Verità razionale prescinde dalla pluralità umana e la svaluta in vista della propria logicità, è tirannica e porta con sé il germe dell’egemonia culturale. Politica e Verità dunque, commenta Arendt, si autoescludono. Qualora una Verità venga immessa nell’ambito pubblico prescindendo dalla violenza della propria univocità, essa diverrebbe opinione politica; qualora la incarni e la dispieghi, essa distruggerebbe invece l’ambito del politico stesso.

4 Laddove ciò che Arendt individua con «opinione» non coincide con l’idea classica, che

vede in questa realtà il manifestarsi di un ambito conoscitivo cui manchi la certezza del noein, bensì con la dòxa, per l’autrice l’unica forma di sapere possibile in un mondo di «apparenza» – nel senso di coincidenza di essere e apparire nell’azione pubblica – proprio della realtà della Politica.

5 Cfr. H. Arendt, Truth and Politics, cit. (Verità e Politica, cit., p. 54).

212 Verità del potere, potere della verità

Ad ogni modo, ammettere una simile inconciliabilità non equivale affatto a limitare – ed «abbandonare» – l’agire politico alla sola dimensione dell’opinione, così come non implica la totale cancellazione della categoria di verità dalla sfera pubblica. Infatti, nonostante l’opinione sia un fattore politico ineludibile, rappresentando la motivazione e la garanzia alla base di ogni agire, essa richiede di essere ancorata a sua volta a qualcosa che fornisca una base di stabilità alle vicende umane. Vi è dunque in Politica bisogno di un criterio che fornisca questa stabilità alle azioni degli uomini, pur tenendo conto che questo – come ormai è apparso evidente – non è affatto rintracciabile in una Verità filosofica, che inserita nell’ambito morale lo distrugge e lo nullifica.

Nonostante la Politica si configuri essenzialmente come contingenza, essa ha però anche a che fare con la dimensione dell’accadere materiale. Vi è una fattualità contingente e data, che va a porsi come preesistente, come residuo ineliminabile e base stabile dell’agire umano; questa innegabile concretezza degli eventi fattuali – denotati da Leibniz come costituenti le «verità di fatto» – realizza per Arendt la «verità della politica». Difatti, spiega l’autrice, «la libertà di opinione è una farsa tranne quando l’informazione fattuale è garantita e i fatti stessi non sono messi in discussione»6. Le «verità di fatto» informano l’ambito politico senza costringerlo dietro un apparato metafisico.

Il loro statuto le colloca agli antipodi dell’asserzione di validità che caratterizza la verità obiettiva: proprio in virtù di questa loro connotazione che le rende così vicine e legate alla realtà contingente e mutevole degli affari umani, esse si rivelano come realtà vulnerabili e precarie, se poste dinnanzi alla cogenza di una presunta verità razionale. Nessuna verità fattuale possiede evidenza propria e può dunque essere posta al riparo dal dubbio, come accade invece ad una verità di ragione; i fatti permangono nella loro contingenza, nella potenzialità dell’essere altrimenti.

Una verità fattuale non incarna nessuna legge che la sussuma sotto una qualche coerenza: gli eventi sono accidentali, a volte puramente illogici, distanti da una qualsiasi filigrana razionale. Essa è fragilissima nella sua «banalità». Nessuno sforzo razionale potrà mai riparare alla perdita di memoria di una verità di fatto o alla sua manipolazione.

6 Ivi, p. 44.

La verità della Politica 213

3. La Menzogna come strumento politico

Fin dagli inizi della riflessione filosofica, la Menzogna, pur condannata sul doppio versante della morale e della teoresi, in quanto patologia dell’interazione sociale e arresto del percorso di conoscenza verso la Verità assoluta, sul piano della riflessione politica è sempre stata considerata come uno dei mezzi più accettabili, in quanto ritenuta il meno violento tra gli strumenti dell’agire pubblico. Nel passaggio da un ambito governato dai principi morali – o da un ambito di ricerca teoretica – all’ambito dell’agire pubblico, la Menzogna diviene strumento dell’esercizio pubblico del Potere. «Governare è far credere», scriveva Machiavelli tra le pagine de Il Principe.

Arendt rintraccia le ragioni dell’affinità tra l’ambito del Politico e quello della Menzogna a partire dalla considerazione della natura stessa dell’orizzonte delle interazioni umane e della realtà politica. Difatti, spiega l’autrice, la Menzogna e la categoria politica di Azione si legano insieme in base alla comune capacità di permettere all’essere umano, tramite la facoltà dell’immaginazione, un oltrepassamento, agito sia linguisticamente che attraverso un agire reale, della fattualità. In base a tale prospettiva, Politica e Menzogna condividono il potere dell’essere umano di andare oltre la situazione concreta, permettendo il cambiamento del mondo e rappresentando entrambe una attestazione della libertà dell’uomo7.

Eppure, è da considerare anche come al tempo stesso la Menzogna alteri e distrugga la comunicazione fra gli eguali, realtà essenziale dell’esercizio politico. Ai suoi eccessi, la Menzogna porta a sopprimere e superare l’ambito stabile della fattualità e rappresenta una violazione ontologica di quella realtà essenziale agli affari umani. Difatti, «il contrassegno della verità di fatto è che il suo contrario non è né l’errore né l’illusione [...] ma la falsità deliberata, o menzogna»8. Godendo di innumerevoli vantaggi rispetto al debole statuto della fattualità, come l’impunità e la sua infinita autonomia, l’inganno rischia di falsificare l’intero ambito del reale, compromettendo

7 Mentre, invece, l’asserire la Verità non porta al cambiamento del mondo o al supera-

mento della realtà. Un’asserzione vera riuscirebbe infatti a configurarsi come azione solo in un mondo laddove tutti si accingano a mentire.

8 Ivi, p. 59.

214 Verità del potere, potere della verità irrevocabilmente la facoltà di comprensione della realtà che ci circonda e annientando qualsiasi possibilità di giudizio. Il ricorso spregiudicato e sistematico alla menzogna è il pericoloso indice di una perdita di possibilità dello stesso agire di concerto alla base di ogni agire politico.

L’opinione tradizionale circa la pratica dell’inganno vede la Menzogna come mezzo legittimo e preferibile tra gli strumenti cui di solito ricorre il Potere, ma questo avviene solo a costo di un misconoscimento dell’impatto che l’inganno è solito riversare sulla dimensione evenemenziale della sfera umana, e dunque sulla Politica. Il ricorso alla finzione è connaturato e fisiologico allo spazio pubblico, fintanto che si mantiene esercizio saltuario, in cui possa dirsi tutelata la tessitura del reale. In caso contrario, la menzogna rischia di annientare il dato fattuale, sterilizzando lo stesso ambito del politico.

Secondo Arendt, a livello tradizionale l’utilizzo della Menzogna viene inteso come esercizio volto a preservare la segretezza degli arcana imperii utili al Potere. In passato, commenta l’autrice, il ricorso alla Menzogna si limitava ad un parziale velamento della Verità, riservato al governante il quale era tenuto ad applicarlo con misura, quasi come fosse «un farmaco», in vista del bene cittadino. Arendt rileva una netta frattura tra questo modo di intendere il ricorso alla Menzogna e l’esperienza moderna dell’esercizio della falsità. In particolare, spiega l’autrice, il regime totalitario segna l’apice critico del conflitto tra Politica e Verità.

L’esperienza totalitaria conduce la pratica della finzione a livelli prima d’allora inimmaginabili, portando ad un approccio alla realtà dei fatti del tutto nuovo rispetto alla valutazione tradizionale della datità. Legato ad un’ideologia da inverare assolutamente nel reale, il regime totalitario nutre un pieno bisogno di riscrittura della realtà, così da garantirsi coerenza e credibilità. In base a questa esigenza, l’azione totalitaria, potenziata dai nuovi strumenti propagandistici, arriva a porsi l’obiettivo di una sistematica ritessitura del fattuale. Nell’immensa costruzione teorica innalzata in nome di una Legge onnipervasiva, ogni fatto che si discosti dall’Idea è una pericolosa crepa che va a minare direttamente l’autorità del Potere. É necessario dunque che l’intero reale concordi con la Legge.

Nonostante i numerosi tentativi di porsi a distanza dal totalitarismo, le democrazie sorte dall’esperienza dei fascismi non sembrano riuscire a ripristinare un intreccio tra Politica, Linguaggio e

La verità della Politica 215

Verità che possa considerarsi al riparo da ulteriori degenerazioni, perdurando negli elementi alla base della deriva totalitaria e rivelandosi così come brodo di cultura di eventuali ulteriori degenerazioni politiche. L’atomizzazione e la massificazione, derivate dall’impossibilità di una reale azione politica, accentuano la deresponsabilizzazione politica dell’individuo e la sua perdita di cittadinanza in nome di una volontà eteronoma. La formazione di una casta autoreferenziale di politici di professione, l’organizzazione delle opinioni in schieramenti partitici, il passaggio da una politica basata sulla Realpolitik ad una politica intesa come luogo di diffusione di un logo nazionale portano l’intreccio di Politica e Verità a nuove derive critiche.

I Pentagon Papers testimoniano di come il rapporto tra Verità e Politica perduri nella sua problematicità. In essi si assiste – di nuovo – ad una totale svalutazione della sfera fattuale in nome di una Teoria – non più ideologica, ma stavolta «scientifica» – che pretende di approcciarsi in modo esaustivo all’intera realtà. Essi sono nutriti e intessuti di una «pseudoscienza» la cui immissione nella realtà degli affari umani, commenta Arendt, non può che rivelarsi nociva e che trova una pericolosissima deriva nella sua commistione con una inedita e inconscia pratica di autoinganno, che tende ad eliminare totalmente dalla realtà qualunque possibilità di sopravvivenza della nozione di verità fattuale. Con la pratica dell’autoinganno, il criterio di distinzione tra verità e menzogna viene a decadere anche per il bugiardo stesso. La verità viene perduta per sempre. 4. Conclusioni

Nonostante i mutamenti strutturali della società globale, la necessità di una riflessione sul rapporto tra Verità e Potere sembra persistere nell’interezza della sua urgenza e problematicità. La persistenza di logiche unitarie e di contenitori ideologici, il manicheismo gerarchizzante tra culture e luoghi del mondo globale – accentuate dagli avvenimenti post 11 settembre 2001 – la persistenza della noncuranza verso le verità fattuali, mettono in luce il valore della riflessione arendtiana, pur a distanza di anni dalla morte dell’autrice.

Secondo Olivia Guaraldo, interprete dei testi arendtiani su

216 Verità del potere, potere della verità Menzogna e Potere9, vi sono notevoli affinità tra l’analisi di Arendt e gli scenari della guerra in Iraq iniziata nel 2003, a partire dalla questione delle «armi di distruzione di massa» fino alla totale negligenza della datità fattuale che ha caratterizzato il conflitto. Tra gli scenari odierni e lo scandalo dei Pentagon Papers l’autrice rintraccia come solo elemento di differenza il mutamento nell’opinione pubblica che ha portato al venir meno di ogni forma di indignazione di fronte alla menzogna politica. È dunque chiaro come, nel momento in cui l’opinione pubblica corrente viene a perdere ogni interesse per la veridicità dei fatti e delle fonti, di fronte ad una politica essenzialmente mediatica e spettacolarizzata, le riflessioni arendtiane si rendano inevitabilmente attuali. Infatti, nonostante il tempo abbia condannato all’inattualità molte delle tesi dell’autrice, l’invito di Arendt a considerare gli effetti perversi delle finzioni sulla realtà a noi circostante e la messa in guardia da ogni «contenitore ideologico» – in quanto destinato a travolgere la fattualità – si rivela essenziale proprio alla luce di un tale nuovo tipo di politica.

Nell’era della globalizzazione risulta di vitale importanza per la sfera politica, proiettarsi oltre le finzioni mediatiche, alla ricerca di una dimensione radicata nella datità innegabile. In realtà, aldilà di questo, bisogna ulteriormente considerare come un pensiero – quale quello della Arendt – profondamente radicato nella dimensione contingente e trasformativa dell’azione, e profondamente legato alla realtà e alla concezione di politica come potere trasformativo, non possa mai rivelarsi del tutto inattuale, ma sia sempre lì, pronto ad insegnare qualcosa al nostro presente.

9 O. Guaraldo, La verità della politica, in H. Arendt, La menzogna in politica, cit.

La verità della Politica 217

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Guaraldo, Olivia, La verità della politica, in Arendt, Hannah, La menzogna in politica, Marietti, Genova-Milano 2006.

Quale cittadinanza per la verità in politica e in democrazia?

Per una rilettura di Philosophy and Politics di Hannah Arendt

David Ragazzoni

1. Introduzione

Della problematicità del rapporto tra verità e potere, la Arendt fu

sempre consapevole. Ella fu tra le voci che più acutamente colsero il disgregarsi delle certezze fondative della tradizione filosofico-politica occidentale, negli anni in cui l’Europa sembrava intenzionata a ridurre l’essere umano da «animale sociale» a «nuda vita»1.

Tale consapevolezza della crisi politica e culturale del proprio tempo è pervasiva nella Arendt: è la matrice di quel «dialogo ininterrotto», per usare le sue stesse parole, con la nuova, terribile politicità del proprio tempo quale emerge dalle pagine de Le origini del totalitarismo (1951); ritorna in forma problematica nel dialogo a distanza che ella intreccia con la tradizione marxista, cui dedica un progetto di ricerca subito dopo il ‘51, poi mai terminato. Ma il rapporto tra le due sfere – politica e filosofica – letteralmente monopolizza la mente e la mano della Arendt negli anni tra il ‘54 e il ‘61. Si tratta della terza e ultima fase in cui la sua riflessione può essere

1 G. Agamben, Homo Sacer: Sovereign Power and Bare Life, Stanford University Press,

Stanford 1998 (ove Agamben si richiama spesso alle pagine arendtiane di The Origins of Totalitarianism). Sul rapporto tra menzogna e politica nel contesto europeo del secondo conflitto mondiale scrisse pagine importanti nel ‘43, durante il proprio esilio negli Stati Uniti, anche Koyré: cfr. A. Koyré, Sulla menzogna politica, Lindau, Torino 2010.

220 Verità del potere, potere della verità idealmente ripartita, secondo l’ipotesi di lettura di Dana Villa2, e che potremmo indicare come gli anni della risemantizzazione dell’azione politica e della sfera pubblica. È un tentativo che l’allieva di Heidegger e di Jaspers persegue con sistematicità e a più riprese: nel ciclo di lezioni tenute nel ‘54 all’Università di Notre Dame (poi confluite in The Problem of Action and Thought after the French Revolution, di cui fa parte il saggio Philosophy and Politics); in The Human Condition (Vita activa, ‘58); nella raccolta di testi Between Past and Future (‘61). Proprio nell’edizione riveduta del ‘68 di quest’ultima opera sarà incluso un testo nato l’anno prima e intitolato Truth and Politics3, che costituisce lo sfondo ideale delle considerazioni che intendiamo di seguito esporre. Esso, infatti, tenta un’analisi non soltanto descrittiva ma anche normativa del rapporto tra due dimensioni che mai appariranno alla Arendt tanto inconciliabili, nella politica dei moderni, quanto dopo il processo ad Adolf Eichmann4: l’agorà della vita pubblica, costitutivamente animata dalla pluralità delle doxai, e l’indagine filosofica, teleologicamente protesa verso la ricerca dell’unica verità. A testimonianza di quanto caro questo tema sia per la Arendt, vale la pena ricordare le pagine del ‘72 di Lying and Politics. Reflections on the Pentagon Papers, dedicate al ricorso sistematico alla menzogna nella politica d’immagine degli Stati Uniti durante la guerra in Vietnam5.

2 D.R. Villa, Introduction: the development of Arendt’s political thought, in Id. (a cura di), The

Cambridge Companion to Hannah Arendt, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 1-21. Si veda anche S. Benhabib, Introduction, in Ead., R.T. Tsao e P. Verovsek (a cura di), Politics in Dark Times. Encounters with Hannah Arendt, Cambridge University Press, New York 2010, pp. 1-14.

3 Il saggio apparve per la prima volta nel ‘67 con il titolo Truth and Politics («The New Yorker», 25 febbraio 1967, pp. 49-88). L’edizione cui faccio riferimento per questo testo è H. Arendt, Verità e politica, seguito da La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, a cura di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995. Per un’acuta analisi di questo testo, rimando a J.S. Nelson, Politics and Truth. Arendt’s Problematic, in «American Journal of Political Science», XXII (1978), n. 2, pp. 270-301.

4 Al processo Eichmann, iniziato a Gerusalemme nel 1961, la Arendt dedica il reportage pubblicato tra il febbraio e il marzo del ‘63 sulla rivista «The New Yorker», poi confluito nello stesso anno nel volume Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil. Si veda, a questo proposito, S. Benhabib, Arendt’s «Eichmann in Jerusalem», in D.R. Villa (a cura di), The Cambridge Companion to Arendt, cit., pp. 65-85.

5 H. Arendt, Lying and Politics. Reflections on the Pentagon Papers, in Ead., Crisis of the Republic, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1972 (trad. it. La menzogna in politica, in Politica e menzogna, SugarCo, Milano 1985). Utili osservazioni su questo testo, e più in generale sul rapporto tra verità e politica nella Arendt, sono contenute nell’Introduzione di

Per una rilettura di Philosophy and Politics di Arendt 221

Perché una riflessione così ampia, nella produzione della Arendt, su quella che ella definisce, in apertura al saggio Philosophy and Politics, il «baratro tra filosofia e politica»? Si tratta di una frizione intrinseca alla natura delle due sfere, o è piuttosto l’esito di un percorso che vantava alle sue origini un overlapping consensus tra pluralismo delle opinioni (politica democratica) e incontrovertibilità del Vero (filosofia)?

L’audacia di tali domande, che animano le pagine arendtiane su cui di seguito ci soffermeremo, portano la sua mente a perforare «la corazza protettiva delle illusioni»6 del suo tempo. Come le scriverà Karl Jaspers nel luglio del ‘63: «Tu hai toccato molta gente nel nervo più sensibile, perché li hai colpiti nella menzogna della loro esistenza, e ti odiano [...]. La verità sarà colpita a morte, come disse Kierkegaard di Socrate e di Gesù»7. 2. Proposta di lavoro

L’analisi che proponiamo del rapporto tra verità e potere nella teoria politica della Arendt, pur tenendo presenti analoghi testi che l’autrice scrive dopo il ‘54, non può prescindere da uno sguardo puntuale al saggio in cui si è scelto di scavare in questa sede: Philosophy and Politics. Per una questione di chiarezza espositiva, richiameremo brevemente i temi più significativi che permeano la trama assai articolata di queste trenta pagine:

– le origini del divario tra filosofia e politica nel processo a Socrate e nell’impronta «anti-politica» e anti-pluralista della filosofia di Platone: è il grande tema dell’opposizione verità/opinioni, cui si lega la differenza tra sophos e phronimos;

– la tirannia della verità: la distinzione tra dialegesthai (maieutica) e peithein (la persuasione frutto della retorica), fondati su due diversi orizzonti di attesa; l’errore di Socrate nell’essersi rapportato ai giudici (pluralità di destinatari) con gli strumenti della dialettica, che può darsi soltanto come scambio a due;

Vincenzo Sorrentino a Verità e politica, cit., pp. 7-25.

6 Lettera di Hans Morgenthau ad Hannah Arendt del 31 marzo 1963, riportata in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt: For Love of the World, Yale University Press, New Haven-London 1982, p. 396.

7 Ivi, p. 402 (lettera di Karl Jaspers ad Hannah Arendt del 25 luglio 1963).

222 Verità del potere, potere della verità

– la rilevanza politica della maieutica socratica, e la sua attitudine nei confronti della doxa; il dialegesthai come dialogo tra amici, fondato sulla politicità dell’amicizia e sul valore della pluralità;

– l’essere insieme a se stessi: il dialogo con se stessi come condizione primaria per il corretto funzionamento della polis;

– il passaggio dalla filosofia politica di Socrate all’elitarismo filosofico, «anti-politico» e anti-pluralista di Platone;

– la rilettura arendtiana del mito della caverna; – la meraviglia: la differenza, ancora una volta, tra thaumazein e

doxazein; la necessità di riportare, oggi, la meraviglia alla base dell’attività politica; l’idea che l’uomo, «animale auto-interrogantesi», preceda e sia essenziale allo sviluppo dell’uomo come «animale politico».

Possiamo, come lettori, condividere o meno il giudizio di Margaret Canovan per cui la Arendt interprete dei classici, e di Platone in particolare, tenderebbe a vedere in loro più di quanto essi stessi intendessero dire8. Tuttavia, non è nostro interesse, in questa sede almeno, elaborare una lettura critica della scientificità della Arendt come storica della filosofia: ciò che intendiamo evidenziare, piuttosto, è la novità, e la problematicità, che la Arendt filosofa politica scorge nella diversa relazione di Socrate e Platone con la dimensione della polis. Si tratta di un passaggio cruciale – ella scrive in Philosophy and Politics – per capire le ragioni del divorzio tra filosofia e politica, e la conseguente perdita di cittadinanza della verità nella dimensione pubblica, l’ambito per eccellenza dell’agire. Ci soffermeremo in particolare su due dei sette punti sopra ricordati. Il primo è il tema, politico e filosofico insieme, della doxa, del dokei moi, così centrale per la maieutica socratica, che evoca il più generale rapporto tra verità e opinione e tra dialegesthai e peithein: «Cos’è doxa per Socrate? E cosa per Platone?» costituiranno i due interrogativi chiave in questo primo campo d’analisi.

Secondo punto: la rilettura proposta dalla Arendt del mito platonico della caverna. Nel micro Bildungsromanz del VII libro della Repubblica sono evidenziati tre «turning-points», ciascuno dei quali

8 M. Canovan, Socrates or Heidegger? Hannah Arendt’s Reflections on Philosophy and Politics, in

«Social Research», LVII (Spring 1990), n. 1, pp. 135-165. Giudizio con il quale, tra l’altro, mi sento di concordare, almeno per quanto attiene a un testo fortemente strutturato su una ri-lettura dei classici quale il saggio Che cos’è l’autorità?, in H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1999, pp. 130-192.

Per una rilettura di Philosophy and Politics di Arendt 223

provoca nel «filosofo in divenire» una perdita di orientamento: la perdita maggiore è da lui sperimentata al rientro nella caverna, nello spazio pubblico in cui sovrane sono le numerose doxai, e dove egli non sarà più capace di orientarsi in quanto ormai privo di lexis e praxis (discorso e azione), che nel logos di Socrate erano invece unite in un sol nodo. Al tempo stesso, però, la lettura propugnata dalla Arendt è assai innovativa: il conflitto distruttivo che Platone delinea tra il filosofo e la polis costituiva originariamente, nella maieutica socratica, un conflitto costruttivo che ciascun individuo era chiamato a sperimentare innanzitutto nella propria individualità. L’esito di questo diverso «spazio» del conflitto – pubblico per Platone, privato prima che pubblico nell’ottica socratica – conduce la Arendt a scoprire una concezione antropologica inedita nel suo Socrate: l’uomo costituisce, nella filosofia autenticamente politica di Socrate, un essere auto-interrogantesi, un «question-asking being» che è momento propedeutico, e anzi costitutivo, dell’uomo come «animale politico».

3. Doxa e philia: due strumenti per la politica democratica

La spiegazione del valore positivo, indispensabile per la politica, riconosciuto da Socrate alla doxa, prende le mosse, nell’analisi della Arendt, da una constatazione di fatto: Platone, prima di essere il padre della verità filosofica, è l’avversario dell’opinione. Su questo terreno il maggiore discepolo di Socrate ha conseguito la conclusione più anti-socratica che fosse possibile. L’intera sua proposta politica, consegnata alle Leggi, nasce come reazione al processo e alla condanna a morte di Socrate: non è possibile comprendere la genesi del divario tra filosofia e politica se non si torna indietro al 399 a.C., data che – sostiene la Arendt – ha per la tradizione filosofica occidentale una portata pari all’anno della morte di Cristo per il mondo cristiano9.

Il reato di Socrate è consistito, cioè, nell’aver ascritto all’orizzonte della filosofia nuove, inedite responsabilità: egli fu il primo a infrangere le barriere tra riflessione filosofica e attività politica, riconoscendo alla voce del «sapiente» diritto di parola nella deliberazione su ciò che è buono per gli uomini come corpo politico. Ancora oltre, egli rifiutò per sé l’idea del filosofo come sophos, del

9 H. Arendt, Philosophy and Politics, cit., pp. 73-75.

224 Verità del potere, potere della verità filosofo alla Talete che contempla gli astri del cielo ma è incapace di comprendere le anime dei cittadini: nella convinzione delfica di sapere di non sapere, egli era il portavoce non tanto di sophia quanto di phronesis. Come affermerà poco oltre la Arendt10, il conflitto tra filosofia e politica, tra filosofo e polis esplose non perché Socrate volle rivestire un ruolo politico, ma in quanto rivendicò per la filosofia un ruolo decisivo nella costruzione partecipata della polis.

Filosofia e politica, dunque, si configurano nell’ottica socratica come terreni contigui, da percorrersi simultaneamente da parte di chi è dotato di phronesis: la filosofia politica, in particolare, consente ai cittadini di acquisire consapevolezza della particella di verità presente nella propria doxa. Leggendo il Socrate della Arendt, sembrerebbe di potervi ritrovare i tratti principali che i teorici contemporanei della democrazia deliberativa auspicano11: la maieutica che Socrate esercita si fonda su un’idea autenticamente democratica della cittadinanza, in cui i due interlocutori si pongono a vicenda su un piano egualitario. La maieutica non è un indottrinamento, ma – come scrive la Arendt – un «give-and-take», un rilevare l’uno all’altro la propria personale e irripetibile prospettiva sul mondo. Come emerge dalle pagine di Verità e politica (1967), la verità filosofica, quando entra nella piazza pubblica, cambia la propria natura e diventa opinione, perché ha luogo «un vero e proprio metabasis eis allo genos, uno spostamento non solo da un tipo di ragionamento a un altro, ma da un modo di esistenza umana a un altro»12. Appropriarsi della doxa del proprio interlocutore, allora, significa comprendere come il mondo gli appare, rendergli manifesta la propria posizione nel mondo e al tempo stesso illuminare meglio quanto dokei moi. Si tratta della differenza fondamentale tra dialegesthai e peithein, che ha modo di esprimersi soltanto laddove si esce dal circoscritto ambito domestico per dialogare nell’agora. Alla domanda,

10 Ivi, pp. 77-78 e p. 91. 11 Non è un caso che la Arendt sia stata, e sia tuttora, tra i filosofi politici più apprezzati

nell’ambito delle teorie sulla democrazia deliberativa. Imprescindibili su questo versante: S. Benhabib, Models of Public Space: Hannah Arendt, the Liberal Tradition, and Jürgen Habermas, in C. Calhoun (a cura di), Habermas and the Public Sphere, MIT Press, Cambridge (MA) 1992, pp. 73-99; Ead., The reluctant Modernism of Hannah Arendt, Rowman & Littlefield Publishers, Lanham 1996; M. Passerin d’Entrèves, The Political Philosophy of Hannah Arendt, Routledge, London 1994; H. Pitkin, Conformism, Housekeeping and the Attack of the Blob: The Origins of Hannah Arendt’s Concept of the Social, in B. Honig (a cura di), Feminist Interpretations of Hannah Arendt, Pennsylvania State University Press, University Park 1995, pp. 51-83.

12 H. Arendt, Verità e politica, cit., p. 43.

Per una rilettura di Philosophy and Politics di Arendt 225

dunque, che avevamo sollevato in partenza – «Cos’è doxa per Socrate?», la Arendt risponde: «To Socrates […] doxa was the formulation in speech of what dokei moi, that is, of what appears to me»13. Da questo punto di vista, la differenza con Platone non potrebbe essere maggiore:

Socrates did not want to educate the citizens so much

as he wanted to improve their doxai, which constituted the political life in which he too took part. To Socrates, maieutic was a political activity, a give and take, fundamentally on a basis of strict equality14.

Di tale «uguaglianza stringente» le pagine di Philosophy and Politics

evidenziano soprattutto la componente amicale, dove la costruzione di un mondo pubblico condiviso procede attraverso il riconoscersi nell’altro: solo chi è abituato al dialogo con se stesso può realizzare il dialogo democratico che è l’atto fondativo di una comunità politica. Il contributo maggiore di Socrate va ravvisato, per l’autrice di Vita activa, nell’aver configurato il dialogo con se stessi quale condizione primaria per la vita democratica, nell’averne evidenziato la natura fortemente politica15. Nella philia, dunque, Socrate (e qui la lettura della Arendt ci pare particolarmente acuta) ravvede una politicità intrinseca, che ci è riconsegnata – ella scrive – in modo più chiaro da Aristotele, la cui filosofia politica in molti punti scavalca Platone per tornare a Socrate. I due paragrafi «Dialogue Between Friends» e «Together with Oneself» sono, su questo piano, strettamente legati, e costituiscono il corpo centrale del primo nucleo che abbiamo individuato in partenza nella trama argomentativa di Philosophy and Politics16.

4. La spoliticizzazione della filosofia

politica e il suo esito tragico

Perveniamo quindi al secondo macro-tema su cui abbiamo scelto di concentrarci in questa sede: la rilettura arendtiana del mito della

13 H. Arendt, Philosophy and Politics, cit., p. 80. 14 Ivi, p. 81 (corsivi miei). 15 Ivi, p. 89. 16 Ivi, pp. 82-84.

226 Verità del potere, potere della verità caverna, esito della riscoperta del Socrate politico dietro al Platone «anti-politico». La Arendt scompone la periagoge tes psyches in tre progressive perdite di senso, di orientamento.

La prima è quella dello scienziato che si distacca dalle opinioni della moltitudine e, letteralmente, cambia la propria posizione nel mondo, si volta, muta il proprio sguardo: secondo il significato di doxa che abbiamo evidenziato sopra, egli decide di scoprire come il mondo dokei moi, come gli si presenta da un diverso, più autentico punto di vista.

Il secondo «turning point» è dato dall’inappagato desiderio di una nuova prospettiva: il filosofo in divenire compie il gesto più audace della propria parabola, si volta nuovamente e abbandona la caverna. Esce dallo spazio pubblico condiviso, in cui il fuoco costituiva un criterio di orientamento sufficiente: approda in una pianura deserta, priva di uomini, senza societas. Ha perso il contatto con i propri concittadini, non può più parlare (condizione essenziale per il costituirsi della comunità democratica). Come mette in luce la Arendt, si tratta di uno status tragico: egli è ancora un mortale, non appartiene al cielo delle Idee, deve ritornare nella caverna.

È nella terza, ultima fase che egli scopre il dramma di essere ormai divenuto un apolide, straniero in ogni luogo. Non ha dimora nella pianura delle Idee, non è più capace di tessere il vincolo comunitario all’interno della caverna. Non è più abituato all’oscurità del primo stadio né alla luce fioca del fuoco del secondo: ha perso il proprio «common sense», il senso di orientamento. Cosa ancora più grave, egli è consapevole del valore relativo e fallace delle doxai, ma non ne possiede più neppure una per potersi orientare nel mondo pubblico condiviso dagli altri prigionieri nella caverna. Ciò che egli potrà riferire loro apparirà sempre e necessariamente come follia, come discorso privo di senso, come un non-senso o, in modo ancora più pericoloso, un contro-senso. Uno dei rilievi sicuramente più acuti con cui la Arendt conclude la propria rilettura concerne il rapporto tra parola, vista e azione: come ella rileva, i prigionieri della caverna si muovono in una condizione di pura contemplazione, del tutto scevra dalle attività fondative della vita politica quali la lexis e la praxis17. Essi

17 Non ci sembra fuori luogo richiamare qui il dibattito su democrazia e sfera pubblica

che impegnò nel cuore degli anni Venti del secolo scorso Walter Lippmann e John Dewey, i quali individuarono rispettivamente nella vista e nella parola i due tratti caratteristici della

Per una rilettura di Philosophy and Politics di Arendt 227

contemplano per il puro piacere di guardare: «sono dunque animati da vero spirito filosofico?», si chiede provocatoriamente la Arendt, che ha in mente, e richiama in nota, la Metafisica di Aristotele.

The cave dwellers, in other words, are depicted as

ordinary men, but also in that one quality which they share with philosophers: they are represented by Plato as potential philosophers, occupied in darkness and ignorance with the one thing the philosopher is concerned with in brightness and full knowledge. The allegory of the cave is thus designed to depict not so much how philosophy looks from the viewpoint of politics but how politics, the realm of human affairs, looks from the viewpoint of philosophy18.

Perché, dunque, il filosofo che ha potuto contemplare, seppur rapidamente, il cielo delle Idee, non riesce a comunicare con i potenziali filosofi (meglio sarebbe dire filosofi falliti) che risiedono nella caverna? In cosa, di preciso, consiste il suo dramma? Nelle pagine finali di Philosophy and Politics, la Arendt suggerisce di integrare l’allegoria del VII libro della Repubblica con altri due luoghi platonici: il passo del Teeteto in cui Platone individua l’origine della filosofia nella meraviglia; il passaggio della Settima Lettera in cui si interroga sugli scopi e sull’eterno oggetto della filosofia. In questi due luoghi testuali – scrive la Arendt – noi ritroviamo l’inizio e la fine della biografia intellettuale/formazione del filosofo che l’allegoria della caverna omette. La differenza tra il filosofo effettivo e i filosofi falliti non risiede nel fatto che questi ultimi non conoscano il pathos (nel senso greco di esperienza) del thaumazein: essi non saranno mai filosofi in quanto non osano neppure affrontare la meraviglia. Il filosofo, dunque, ritorna nella caverna, ma sarà privo di parola, in quanto la sensazione di meraviglia, quando si traduce in logos, assume forma non asseverativa, ma interrogativa. Essa suscita nello spirito autenticamente (non solo potenzialmente) filosofico domande che non possono avere risposta scientifica, proprio perché

democrazia del proprio tempo: alle masse che leggono i giornali ma non esercitano giudizio politico immortalate nelle pagine di Public Opinion si contrappongono i cittadini della «democrazia creativa» e dialogante di The Public and Its Problems.

18 Ivi, p. 96.

228 Verità del potere, potere della verità costitutivamente aperte a nuovi momenti di thaumazein.

È dunque possibile, oggi, una (nuova) filosofia politica, dopo la politicizzazione della filosofia da parte di Socrate e la sua successiva spoliticizzazione ad opera di Platone? La risposta, e la sfida della Arendt, è «sì»: la nuova scienza politica, ella scrive con lessico molto vicino al Tocqueville della Democrazia in America (esplicitamente citato proprio in conclusione di Philosophy and Politics), deve avere nella propria agenda il riconoscimento della pluralità dell’uomo, delle sue doxai, delle sue posizioni nel mondo, per fare di questa multiformità di sguardi l’oggetto del proprio thaumazein. Soltanto attraverso il recupero della meraviglia nell’ambito della teoria (non certo della pratica!) politica, potrà il filosofo contemporaneo recuperare la natura autenticamente politica dell’insegnamento socratico. Entro i confini del potere democratico – ci insegna la Arendt in questo breve, incisivo saggio – ad avere piena cittadinanza non è la verità imposta dall’autorità statuale, ma un insieme pluralistico di opinioni, a ciascuna delle quali deve essere ascritta pari legittimità e piena cittadinanza. È questo il discrimine autentico tra un regime democratico ed uno, invece, di tipo autocratico. Una conclusione, a nostro avviso, molto vicina a quella espressa, nel pieno del primo dopoguerra, da Hans Kelsen nelle pagine intense di Essenza e valore della democrazia (1923)19 e che ha lo scopo di ricordare alle fragili democrazie uscite dal trentennio di sangue quanto il processo a Socrate – così come quello a Gesù Cristo – possa ripetersi in ogni momento, laddove si pretenda di fondare la cittadinanza democratica sull’hobbesiano «Auctoritas, non veritas, facit legem».

19 H. Kelsen, La democrazia, il Mulino, Bologna 1995, pp. 145-152 («Democrazia e

concezioni della vita»).

Potere, diritto e verità nel pensiero di Michel Foucault

Gianvito Brindisi

1. Il presente contributo intende enucleare e approfondire talune

linee di metodo degli studi foucaultiani sul rapporto tra potere, diritto e verità, nella prospettiva di un’analisi delle forme di razionalità giudiziaria. Un siffatto tentativo poggia su di una duplice convinzione: che nell’ultimo secolo il montesquieuiano potere di giudicare sia tornato a far problema – soprattutto nelle nostre società complesse, dove al crescente ricorso alla funzione giurisdizionale si affianca, da parte di questa, l’assunzione di nuovi ruoli che replicano lo spazio del politico1 –, e che la messa in questione di ciò che è giudicabile e punibile in una società costituisca una delle fondamentali poste in gioco della genealogia foucaultiana, che cioè l’intimo nucleo dell’ethos critico di Foucault riguardo alla giustizia sia volto a innescare una nuova questione giudiziaria, alla stregua di quella che ha contribuito a produrre l’illuminismo penale di Beccaria.

Com’è noto, Michel Foucault ha indagato la storia della costituzione di sé da parte del soggetto umano, ossia la storia delle procedure, delle tecniche e dei saperi attraverso i quali l’uomo ha posto in essere delle strategie per il governo di sé e degli altri, e ha illustrato, nell’interezza della sua opera, le modalità di costituzione dei campi d’esperienza entro i quali il soggetto e l’oggetto sono prodotti e non cessano di modificarsi. Tre, nello specifico, sono i campi che Foucault ha sempre riconosciuto essere stati l’oggetto specifico del suo lavoro, e che ha qualificato come gli elementi costitutivi di ogni

1 Cfr. A. Garapon, Bien juger. Essai sur le rituel judiciaire, Éditions Odile Jacob, Paris 2001

(trad. it. di D. Bifulco, Del giudicare, Cortina, Milano 2007).

230 Verità del potere, potere della verità forma di esperienza: giochi di verità, rapporti di potere e forme di rapporto con sé e con gli altri. La filosofia critica foucaultiana, insomma, si è posta come un’analisi delle condizioni storiche a partire da cui si costituiscono i rapporti con la verità, con le regole e con se stessi. A tale approccio Foucault ha accompagnato la continua problematizzazione delle forme di sapere, nella misura in cui la verità non è mai politicamente indifferente, poiché «siamo giudicati, condannati, classificati, costretti a compiti, destinati a un certo modo di vivere o a un certo modo di morire, in funzione dei discorsi veri che portano con sé effetti specifici di potere»2, e perché, d’altro canto, la verità è una forza che può operare eticamente per la trasformazione del soggetto. Foucault ha parlato spesso al riguardo di regimi di verità, di una storia politica della verità, e più in generale di giochi di verità3, locuzioni afferenti a un campo di analisi che non riguarda tanto le condizioni formali dell’esistenza di enunciati veri, quanto le apparizioni storiche delle differenti forme di dire-vrai e del modo in cui gli uomini si legano tramite esse.

Pur non facendone un oggetto tematizzato della sua riflessione, Foucault non ha mai perso occasione di confrontarsi con la problematica del diritto, cogliendolo sempre nella sua molteplicità costitutiva e nella sua instabilità ontologica, e sempre sottolineandone l’importanza per la costituzione delle nostre forme di esperienza. Per quel che qui ci interessa, può rilevarsi non solo che le sue analisi sul diritto sono fortemente determinate da un’impostazione metodologica che lega soggetto, diritto e verità, ma che tra le loro tante dimensioni4, l’analisi delle pratiche giudiziarie conserva nel corso dell’opera foucaultiana il maggior numero di elementi metodologici costanti, consentendoci di comporre un discorso critico sul diritto centrato sulle manifestazioni e sulle trasformazioni del potere giudiziario in relazione al vero e al giusto e alle corrispondenti forme di soggettività5. D’altronde, più volte Foucault ha tenuto a precisare

2 M. Foucault, «Il faut défendre la société». Cours au Collège de France. 1975-1976, Seuil-

Gallimard, Paris 1997 (trad. it. di M. Bertani e A. Fontana, «Bisogna difendere la società». Corso al Collège de France (1975-1976), Feltrinelli, Milano 1998, p. 29).

3 Cfr. sul punto S. Natoli, La verità in gioco. Scritti su Foucault, Feltrinelli, Milano 2005. 4 Cfr. P. Napoli, Le arti del vero. Storia, diritto e politica in Michel Foucault, La città del sole,

Napoli 2002. 5 Ci sia consentito, al riguardo, di rinviare a G. Brindisi, Potere e giudizio. Giurisdizione e

veridizione nella genealogia di Michel Foucault, Editoriale Scientifica, Napoli 2010.

Potere, diritto e verità nel pensiero di Foucault 231

come tra le pratiche tendenti a legare l’individuo all’enunciazione della verità, quella giudiziaria rivestisse un ruolo di indubbio rilievo, integrando essa regimi di veridizione e tecnologie di trasformazione del soggetto. E d’altronde, da La verità e le forme giuridiche fino a Mal faire, dire vrai. Fonctions de l’aveu en justice6, è sempre stata sua ferma convinzione l’impossibilità di tracciare una storia della verità e della soggettività in Occidente senza aver analizzato la relazione esistente tra dire-vrai e juger nel processo penale7. Non resta dunque che esplicitare tale nucleo metodologico.

2. È opportuno sottolineare, innanzitutto, come le pratiche

giudiziarie si iscrivano nell’orizzonte delle tecnologie morali – vale a dire di tecniche matrici di ragion pratica dotate di un valore non ontologico, ma genealogico e strategico, in quanto storicamente oggetto di spostamenti e riutilizzazioni che conferiscono loro una portata ogni volta differente all’interno dei sistemi in cui sono utilizzate –, e come, in ragione del loro essere costitutive di soggettività, si caratterizzino in senso drammatico. L’apparente difficoltà di questa definizione può essere superata analizzando la distinzione tra codici morali e tecnologie morali sviluppata in particolar modo nella genealogia dell’etica di Foucault, ma risalente, come si vedrà, alla griglia analitica messa a punto in Sorvegliare e punire in relazione al rapporto tra codici, tecnologie e oggetti di giudizio.

L’importanza di tale distinzione può comprendersi alla luce della prospettiva genealogica con cui Foucault ha mostrato il carattere illusorio, nella nostra storia morale, tanto dell’unitarietà del concetto di cristianesimo8, quanto di una cesura storica tra paganesimo e cristianesimo legata all’austerità dei nostri codici morali. Le differenze correnti tra paganesimo e cristianesimo, e quelle interne al

6 Cfr. M. Foucault, A verdade e as formas juridicas, in «Cadernos da P.U.C.», (1974), n. 16,

pp. 5-133 (trad. it. di A. Petrillo, La verità e le forme giuridiche, in Id., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 2. 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 83-165); e Id., Mal faire, dire vrai. Fonctions de l’aveu en justice, ciclo di conferenze inedito tenuto all’Université Catholique de Louvain, su invito dell’Ecole de Criminologie della Faculté de Droit, nel 1981, e attualmente conservato presso gli archivi dell’I.M.E.C.

7 Cfr. M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., conferenza introduttiva, p. 17. 8 Cfr. M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978,

Gallimard, Paris 2004 (trad. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-1978, Feltrinelli, Milano 2005, p. 142).

232 Verità del potere, potere della verità cristianesimo stesso, possono intendersi cioè solo a patto di riconoscere nella storia morale non una storia dei codici o dei comportamenti, bensì la storia dei rapporti esistenti tra i codici e le modalità attraverso le quali i soggetti stabiliscono un rapporto con sé stessi. Individuando nel cristianesimo una riutilizzazione strategica e una riorganizzazione strutturale dell’esame e della direzione di coscienza propri dell’ellenismo greco-romano, Foucault adotta un’impostazione di metodo che gli consente di affermare che neanche la morale cristiana, nella quale l’elemento di codice è fortemente caratterizzato da una legalità accompagnata dalle istanze di autorità che la fanno valere, è riducibile esclusivamente al rapporto legge-sanzione, avendo altresì un lato dinamico costituito dalle tecnologie del sé. Foucault può così distinguere due regimi di verità cristiani fonti di tensioni perenni all’interno del cristianesimo: un regime corrispondente al codice morale, organizzantesi intorno alla manifestazione della propria fede e facente perno sull’atto di sottomissione e di obbedienza, e un altro corrispondente alla tecnologia morale e organizzantesi sull’atto e sull’obbligo di verità, nell’imperativo rivolto al soggetto di decifrarsi nella confessione come soggetto di desiderio9. Ed è in questo rapporto tra codice e tecnologia morale che deve riconoscersi per Foucaut una serie infinita di compromessi e attriti costituenti la caratterizzazione più propria della storia morale occidentale, segnata dalla perenne difficoltà di conciliare soggetto della legge e soggetto di verità, ermeneutica del testo ed ermeneutica del soggetto, fede come aderenza a un contenuto dogmatico e fede come performativo dire-vrai su di sé10.

Al livello del metodo, questa prospettiva troverà la sua definizione conclusiva in L’uso dei piaceri, dove è ulteriormente specificato che una cosa sono i valori e le regole prescrittive, un’altra i comportamenti reali degli individui, e un’altra ancora il modo in cui un individuo deve costituire se stesso «come soggetto morale che agisce in relazione agli elementi prescrittivi che formano il codice»11. I codici, i valori non dicono nulla dei modi in cui devono essere praticati, elaborati o realizzati, e il soggetto morale si costituisce in quanto tale a partire

9 È il tema trattato in M. Foucault, Du gouvernement des vivants. Cours au Collège de France.

1979-1980, inedito conservato presso gli archivi dell’I.M.E.C. a Caen. 10 Cfr. M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., conferenze III, IV e V. 11 M. Foucault, L’usage des plaisirs. Histoire de la sexualité II, Gallimard, Paris 1984 (trad. it.

di L. Guarino, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano 2004, p. 31).

Potere, diritto e verità nel pensiero di Foucault 233

dagli atteggiamenti in base ai quali si obbliga rispetto a essi. L’integrazione dei codici e delle proibizioni all’interno di un rapporto con se stessi è infatti sempre differente, poiché, quando pure il codice resti il medesimo, sono sempre articolati differentemente gli elementi che costituiscono il come dell’esperienza morale, vale a dire le sostanze etiche – le materie soggettive investite nella e dalla relazione etica, ossia la parte di sé circoscritta dall’individuo che costituisce l’oggetto della pratica morale –, i modi di assoggettamento – le ragioni per cui accettiamo gli obblighi morali e ci riconosciamo come sottomessi alla regola –, le tecniche che ci consentono di agire su noi stessi, di conoscerci, di controllarci e di trasformarci allo scopo di divenire soggetti morali, e infine i teloi, i fini verso cui tendiamo nei comportamenti morali, il modo d’essere che ci prefiggiamo di raggiungere.

Ora, sebbene differiscano in taluni punti, crediamo che la genealogia dell’etica e la genealogia della prigione presentino degli elementi metodologici costanti. A uno sguardo attento, infatti, nella misura in cui in Sorvegliare e punire, accanto al soggetto di diritto, Foucault individua una serie di oggetti o di materie soggettive punibili che vengono a costituire nel giudizio un doppio psicologico-morale operante al di sotto del codice, non si farà difficoltà a riconoscervi un principio di metodo assai affine a quello adoperato in L’uso dei piaceri. In relazione ai cambiamenti prodottisi nel sistema penale alla fine del XVIII secolo, Foucault ha infatti sottolineato che, al di là delle piccole modifiche apportate ad alcuni elementi del codice, la trasformazione più importante è stata quella prodottasi al livello dell’oggetto del giudizio penale con la creazione di una nuova oggettività. A mutare non è stata la definizione formale dell’elemento punibile, bensì la sua qualità, la sua sostanza: sotto il nome di reato si è cominciato a giudicare non più solo un oggetto definito dal codice, quanto tutta una serie di anomalie, perversioni, disadattamenti, oggetti non qualificabili giuridicamente, ma conoscibili scientificamente12. Il codice ha così preso a funzionare attraverso le procedure di oggettivazione del soggetto, ciò che ha comportato la creazione di nuove soggettività e conseguentemente una trasformazione delle forme dell’esperienza giuridica.

12 Cfr. M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris 1975 (trad. it.

di A. Tarchetti, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993, p. 17).

234 Verità del potere, potere della verità

3. Al fine di mostrare la sostenibilità di questa tesi e trarne ulteriori conseguenze metodologiche, è opportuno ricordare come quell’immensa mutazione che attraversa l’intero corso della storia occidentale, e «che fa sì che si passi da un giudizio penale che riguarda degli atti, a una strana azione giudiziaria che ha per oggetto un principio di razionalità e di misura, la verità manifestata dell’individuo intero»13, sia ricondotta genealogicamente da Foucault non tanto alle teorie penali, quanto alle pratiche che hanno costituito dal basso la razionalità dei nostri sistemi (tecnologie disciplinari, potere pastorale). Foucault ha evidenziato, ad esempio, come le modificazioni del tasso di credenza nella legittimità e nell’emissione della pena all’interno del regime della norma siano state determinate dall’abbassamento della soglia di descrivibilità dell’individuo (nascita delle scienze umane), e come questo sia stato reso a sua volta possibile dall’estensione del potere disciplinare, dalla legislazione sulle circostanze attenuanti e dalla conseguente trasformazione della discorsività psichiatrica, il tutto entro un processo che non ha un elemento determinante in ultima istanza. Nel moderno, insomma, potere punitivo e oggettivazione scientifica si sono concatenati nello spazio della prigione, e alla responsabilità dell’atto si è sostituita la pericolosità del soggetto, come all’uomo da punire l’uomo da trasformare, giungendo per questa via, e senza che fossero stati inventati l’infrazione psicologica o il crimine di carattere, alla necessità per il giudizio di reclamare la conoscenza del soggetto.

Tale ridefinizione della funzione giudiziaria e degli oggetti di giudizio a partire dall’oggettivazione dell’individualità operata dal potere disciplinare e dai saperi psy mostra inequivocabilmente come uno dei punti centrali di Sorvegliare e punire sia costituito non tanto dal disciplinamento, quanto dai modi di oggettivazione della soggettività14.

Se ciò è vero, riprendendo il ragionamento di metodo, crediamo sia allora proponibile una siffatta sintesi: la genealogia dell’etica presuppone che l’identità del codice morale non implichi l’identità dei modi in cui ci si può costituire come agenti morali, mentre la genealogia del diritto presuppone che l’identità del codice penale non implichi l’identità dei modi in cui un soggetto può ricadere nell’ambito

13 M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., conferenza introduttiva, p. 18. 14 Cfr. al riguardo M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 338.

Potere, diritto e verità nel pensiero di Foucault 235

di un’azione penale o essere giudicato e punito. Il diritto non è riducibile esclusivamente alla legalità e alla sanzione che segue alla trasgressione, ma possiede un elemento dinamico costituito dal modo in cui si mettono in gioco le materie punibili: come non è sempre la stessa parte di noi stessi o del nostro comportamento ad essere rilevante per il giudizio etico, così è pure per quello giuridico. Oltre alla materia soggettiva in cui un soggetto è scisso a partire dai discorsi e dalle pratiche che gli permettono di modificare il rapporto con se stesso (confessione del crimine o confessione di chi si è), vi è quindi da tener presente il modo di assoggettamento, vale a dire il complesso di ragioni che spingono un soggetto a riconoscere i suoi obblighi morali o giuridici e ad accettare in ultima istanza una determinata regola. Quanto alle tecniche attraverso le quali possiamo trasformare noi stessi allo scopo di divenire soggetti etici, esse hanno il loro corrispettivo, sul piano del potere-sapere, nelle tecniche che permettono di oggettivare il soggetto e di farne l’oggetto di una conoscenza e di un comportamento possibili. Quarto e ultimo elemento è il telos, il fine verso cui si tende in un comportamento morale, che trova la sua corrispondenza nel fine sotteso alla punizione di un soggetto e alla sua oggettivazione mediante un discorso di verità.

Quanto mostrato ci consente di sostenere che: 1) tanto in L’uso dei piaceri quanto in Sorvegliare e punire è possibile riconoscere in azione un metodo capace di indagare la costituzione dei campi di esperienza, e capace dunque, esaminando anche il modo in cui le procedure di oggettivazione e di soggettivazione, in tutta la loro eterogeneità, entrano in relazione con il codice, di assumere il rapporto del soggetto con sé e con gli altri come evento decifrabile in un campo di forze al cui interno il sapere e il potere costituiscono delle forme di soggettività; 2) la storia morale e quella del diritto possono intendersi secondo due prospettive conciliabili e aventi entrambe il loro modello nella pratica giudiziaria: si tratta di una pragmatica e di una drammatica storiche del discorso, ossia, rispettivamente, di un’analisi del potere, proprio del discorso, di costituire ambiti di oggetti, e di un’analisi degli effetti indotti dall’enunciazione sull’essere dell’enunciatore, fermo restando, in un caso come nell’altro, l’elemento tecnologico.

Una conferma a tali tesi può riconoscersi, ci sembra, nella decisione di Foucault di intraprendere in Mal faire, dire vrai una genealogia della confessione. Dal primo punto di vista è infatti a partire da questa genealogia che può comprendersi come sia una

236 Verità del potere, potere della verità medesima impostazione metodologica a condurre Foucault, nella riflessione sul cristianesimo, proprio a metà strada tra Sorvegliare e punire e L’uso dei piaceri, a distinguere un polo della fede e un polo della verità, e a far risalire agli attriti e ai compromessi tra questi due poli la difficoltà di conciliare, nella modernità, soggetto di diritto e homo criminalis; dal secondo punto di vista, una volta definita la confessione come «un atto verbale per mezzo del quale il soggetto, con un’affermazione su ciò che egli è, si lega alla verità, si pone in un rapporto di dipendenza nei confronti dell’altro, e modifica al contempo il rapporto che intrattiene con se stesso», l’analisi che la prenda a oggetto non può esimersi dal guardare a essa come a un’«arma nelle relazioni interindividuali», a un «modificatore di potenza in coloro che parlano», e infine a un «elemento interno a una struttura istituzionale»15.

Insomma, la dimensione drammatica e quella tecnologica mettono bene in luce le configurazioni particolari di una cultura, il privilegio che questa accorda a tale o a tal altra materia soggettiva, e i rapporti di assoggettamento operanti nella costituzione della soggettività. È la fusione di queste componenti a consentire a Foucault di ripercorrere la storia dei modi in cui il soggetto è stato ed è chiamato a riconoscersi in quanto tale, e al contempo la storia del potere costringente della verità.

4. Se si volesse ora individuare la specificità dell’analisi foucaultiana

relativamente al campo giuridico, essa, crediamo, consisterebbe nell’indagine di ciò che può definirsi la continua produzione e ridefinizione del giudicabile16, vale a dire delle ridefinizioni storiche degli oggetti di giudizio e dei soggetti di conoscenza, e dunque del divenire delle forme del giudizio nel campo più generale dell’economia delle relazioni di potere. Se per Foucault l’applicazione della regola, giuridica o morale, non è mai meccanica, e la sua messa a fuoco non si esaurisce in quella del cambiamento subito dai codici, necessario allora è analizzare le modalità attraverso le quali i giudizi si

15 M. Foucault, Mal faire, dire vrai, cit., conferenza introduttiva, pp. 9-10, e conferenza I,

p. 1. 16 Cfr. M. Foucault, La redéfinition du «judiciable», in «Justice», (1987), n. 115, pp. 36-39

(trad. it. di A.L. Carbone e A. Inzerillo, La ridefinizione del giudiziabile, in Id., La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, a cura di S. Vaccaro, Duepunti Edizioni, Palermo 2009, pp. 37-50).

Potere, diritto e verità nel pensiero di Foucault 237

articolano e si giustificano, valutare la confluenza di elementi eterogenei nell’«unità» giudicante, e scomporre quest’ultima al fine di far emergere i conflitti che la agitano – i rapporti di forza sottesi alle interrelazioni tra le discorsività che si agitano sulla scena processuale –, nonché le posizioni di valore che ne sono alla base. Non si tratta di muovere dai dati e dai linguaggi esistenti per mostrare su queste basi come possano darsi le condizioni di un giudizio giusto e di un enunciato vero, ma di guardare ai differenti giochi del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, e ai modi in cui i soggetti sono effettivamente legati nelle forme di veridizione-giurisdizione in cui si impegnano. Una simile analisi ci dirà qual è l’orizzonte di razionalità dei giudizi, la loro provenienza e la ragione per cui crediamo che siano in qualche maniera giustificati, consentendoci conseguentemente di modificarli.

Basti pensare, ad esempio, alle trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito i saperi della psiche, e al conseguente vertiginoso aumento del registro del patologico, per comprendere la necessità di problematizzare le nuove forme in cui si giudicano la responsabilità e la colpa. Ciò, in conclusione, a conferma della tesi secondo cui una lettura foucaultiana delle forme di razionalità giudiziaria non può che intendere il contesto giudiziario come una cartina di tornasole per la lettura dei rapporti di potere, dei giochi di verità e delle forme di soggettività del presente, e lo spazio del processo come uno dei luoghi in cui si decide il gioco strategico che può preludere a una riarticolazione possibile di un regime di verità, uno degli spazi in cui si formano strategicamente le categorie costitutive delle nostre forme di esperienza. Bibliografia Brindisi, Gianvito, Potere e giudizio. Giurisdizione e veridizione nella

genealogia di Michel Foucault, Editoriale Scientifica, Napoli 2010. Foucault, Michel, A verdade e as formas juridicas, in «Cadernos da P.U.C.»,

1974, n. 16, pp. 5-133 (trad. it. di A. Petrillo, La verità e le forme giuridiche, in Foucault, Michel, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 2. 1971-1977. Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 83-165).

Foucault, Michel, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard,

238 Verità del potere, potere della verità

Paris 1975 (trad. it. di A. Tarchetti, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993).

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Foucault, Michel, La redéfinition du «judiciable», in «Justice», 1987, n. 115, pp. 36-39 (trad. it. di A.L. Carbone e A. Inzerillo, La ridefinizione del giudiziabile, in Foucault, Michel, La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, a cura di S. Vaccaro, Duepunti Edizioni, Palermo 2009, pp. 37-50).

Foucault, Michel, «Il faut défendre la société». Cours au Collège de France. 1975-1976, Seuil-Gallimard, Paris 1997 (trad. it. di M. Bertani e A. Fontana, «Bisogna difendere la società». Corso al Collège de France (1975-1976), Feltrinelli, Milano 1998).

Foucault, Michel, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Gallimard, Paris 2004 (trad. it. di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-1978, Feltrinelli, Milano 2005).

Garapon, Antoine, Bien juger. Essai sur le rituel judiciaire, Éditions Odile Jacob, Paris 2001 (trad. it. di D. Bifulco, Del giudicare, Cortina, Milano 2007).

Napoli, Paolo, Le arti del vero. Storia, diritto e politica in Michel Foucault, La città del sole, Napoli 2002.

Natoli, Salvatore, La verità in gioco. Scritti su Foucault, Feltrinelli, Milano 2005.

Verità della democrazia e potere della distinzione in Jean-Luc Nancy

Alessandro Esposito

Nel mio intervento presenterò le recenti riflessioni politiche di Jean-Luc Nancy sul senso della democrazia. Preliminarmente, è bene fare due precisazioni.

La prima. Parlare del pensiero politico di Nancy, in questo caso della democrazia, è un compito tutt’altro che semplice, dal momento che il suo intero percorso filosofico si tiene in una dimensione ontologico-politica. Qui basterà tener presente che il suo approccio al politico non è quello del politologo, ma quello, precisamente, del filosofo che si interroga sul senso – del politico, della democrazia.

La seconda. Per quanto i termini «verità» e «potere» siano presenti nei testi che prenderò in considerazione, Nancy non li ha mai tematizzati singolarmente in modo esplicito e diffuso.

In ogni caso, a tal proposito, è decisivo sottolineare che la sua interrogazione sulla democrazia muove da una considerazione che vede nel nostro tempo «una tensione, frammista d’angoscia e di gaiezza, nei confronti di una impresentazione generalizzata: l’impresentazione di tutto quanto poteva costituirsi come senso, verità o fondamento»1. Come dire che il nostro tempo – il tempo definito «post-moderno» o, in maniera strumentale, della «fine delle ideologie» – è quello nel quale viene meno ogni orizzonte della certezza, quello nel quale le pienezze assolute del Senso, della Verità, e dunque anche

1 J.-L. Nancy, La comparution (De l’existence du «communisme» à la communauté de l’«existence»),

in J.-L. Nancy - J.-C. Bailly, La comparution (politique à venir), Bourgois, Paris 1991 (trad. it. di M. Armano, La comparizione (Dall’esistenza del «comunismo» alla comunità dell’«esistenza»), in Aa. Vv., Politica, Cronopio, Napoli 1993, p. 13).

240 Verità del potere, potere della verità del Potere, si confondono e sprofondano: per Nancy, in una parola, bisogna fare i conti col nichilismo, ovvero con le conseguenze, nel nostro caso politiche, della sentenza nietzschiana sulla «morte di Dio». È questo il milieu nel quale sono messi in gioco i termini «verità», «potere» e «democrazia».

1. Verità del potere, potere della verità: in tale implicazione reciproca si gioca lo stesso rapporto tra sapere filosofico e potere politico. Si tratta di un rapporto di essenziale co-appartenenza. Questa implicazione è evidente non solo nell’inaugurale progetto filosofico-politico di Platone che delinea una Città governata dai Sapienti, ma anche, per fare un esempio più attuale, nelle analisi di Guy Debord sulle nostre società da lui definite «capitalistico-spettacolari».

Per Debord, la società dello spettacolo è nella sua essenza «il regno autocratico dell’economia mercantile elevato ad uno statuto di sovranità irresponsabile, e l’insieme delle nuove tecniche di governo che accompagnano tale regno»2. Impostasi ormai su scala mondiale, in questa società, da un lato, «l’economia trasforma il mondo, ma lo trasforma solo in mondo dell’economia»3 e il divenir-mondo della merce è altrettanto il divenir-merce del mondo4; dall’altro, una delle tecniche di cui tale «regno» si serve per l’auto-riproduzione del proprio potere è l’utilizzazione strumentale del sapere, o meglio del «segreto» e del «falso».

Sebbene una logica unitaria sottenda il potere – cioè il dominio ideo-logico del Capitale e del profitto – per Debord il centro del potere è occulto, non identificabile in un Capo riconoscibile. Il potere si configura piuttosto come l’insieme delle molteplici lotte per la spartizione dei profitti5, nelle quali gioca un ruolo strategico la gestione dell’informazione e del «segreto» – e dunque di ciò che si può/non si può e di ciò che si deve/non si deve sapere – mediante un numero indeterminato di servizi segreti statali o parastatali6: «La

2 G. Debord, Commentaires sur la société du spectacle, Lebovici, Paris 1988 (trad. it. di P.

Salvadori, Commentari sulla società dello spettacolo, in G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 190).

3 G. Debord, La société du spectacle, Buchet-Chastel, Paris 1967 (trad. it. di P. Salvadori, La società dello spettacolo, in G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 69).

4 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 83. 5 G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, cit., p. 242. 6 Ivi, p. 243.

Verità della democrazia e potere della distinzione 241

nostra società è costruita sul segreto»7 e, continua Debord, «per ogni servizio segreto, […], un sapere deve diventare un potere»8.

2. In un saggio presentato ad un convegno tenuto a Genova nel

1980, Nancy sostiene che la filosofia, da Platone in poi, ha sempre pensato le politique proprio come articolazione di sapere e di potere, cercando di fondarlo secondo verità. Di conseguenza, ogni pensiero del politico «si erige» su una qualche variazione dell’imperativo «coloro che sanno devono regnare»9.

Che il politico si possa fondare vuole dire pensarlo come lo spazio in cui sia da realizzare l’essenza e la sostanza di una comunità, come lo spazio in cui si possa realizzare una comunità che identifica il legame sociale dei propri membri in una verità comune: questa comunità si configurerebbe come una totalità organica, chiusa su di sé nella forma dell’Uno.

I totalitarismi novecenteschi possono essere pensati proprio come dei tentativi di essenzializzazione-identificazione del politico. Ciò è consentito dall’ideologia nel senso della Arendt, cioè dalla logica di una Idea che sulla base di un unico concetto (Razza, Popolo, Classe, ecc.: oggi potremmo dire Capitale) si propone come spiegazione totale della realtà e si realizza riconducendo a questa logica unitaria tutto ciò che accade10.

Quello che devono sapere coloro i quali devono regnare è dunque il sapere della verità della comunità, cioè della sua natura, del suo interesse e della sua finalità: si tratta di un sapere totale, sostanziale.

Un tale pensiero del politico consiste allora nel concepire la polis come Soggetto, come Organismo unitario che possa infine auto-determinarsi e auto-realizzarsi. Qui viene presupposto che l’uomo possa disporre di un siffatto sapere e di un siffatto potere da essere in grado di fare della polis una costruzione unitaria ed organica11. Ciò non solo avviene nel progetto platonico, ma anche nella debordiana società

7 Ivi, p. 223. 8 Ivi, p. 227. 9 J.-L. Nancy, La Sovranità Persona, trad. it. di F. Ivrea Galletti e G. Moroni, in Aa.Vv.,

Sapere e Potere, Multhipla, Milano 1984, vol. I, pp. 29-30. 10 H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Brace & Co., New York 1951;

seconda edizione ampliata, The Word Publishing Company, New York 1958 (trad. it. di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, pp. 642-647).

11 J.-L. Nancy, La Sovranità Persona, cit., pp. 31-32.

242 Verità del potere, potere della verità spettacolare, nella quale ogni condizione di vita individuale e sociale è sottomessa al totalizzante principio capitalistico dell’equivalenza, cioè alla «realizzazione sfrenata delle volontà della ragione mercantile»12: in tale società «la totalità del mondo mercantile appare in blocco, come equivalenza generale di ciò che l’insieme della società può essere e fare»13.

3. Le riflessioni di Nancy ci mettono in guardia proprio da una tale

concezione – fondazionale, organicistica, totalizzante, identitaria, ma anche spettacolare nel senso sopra indicato – del politico: si tratta allora di decostruire questa «metafisica del politico» e di rilanciarne altrimenti il pensiero; si tratta di pensare il politico all’altezza del nichilismo, cioè dinanzi all’impossibilità di potersi fondare nel «nome di una verità definitiva inscritta nel cielo delle Idee»14.

Retrait du politique: con questa espressione15 Nancy indica che è impossibile fondare filosoficamente il politico, ovvero considerarlo come il «luogo dell’effettuazione di una essenza»16: l’«essenza» del politico consiste allora nell’indeterminatezza, cioè nell’essenziale ritrarsi di ogni essenza, di ogni fondamento e di ogni determinazione politica.

Ma quale politica, se non quella democratica, è pensabile all’altezza del ritrarsi e dell’indeterminatezza del politico? Nancy scrive: «La “democrazia” […]: è il ritrarsi del politico»17; «“La democrazia” rappresenta soltanto il senso indeterminato. Senso che resterebbe indeterminato, consistendo proprio in ciò la sua verità, una verità assolutamente vuota. […]. Verità senza figura né senso, verità dell’assenza di senso»18 e di fondamento.

Se il senso della democrazia consiste nell’indeterminatezza e nel

12 G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, cit., p. 194. 13 G. Debord, La società dello spettacolo, cit., p. 73. 14 J.-L. Nancy, Démocratie finie et infinie, in Aa. Vv., Démocratie, dans quel état?, La fabrique,

Paris 2009 (trad. it. di C. Milani, Democrazia finita e infinita, in Aa. Vv., In che stato è la democrazia?, Nottetempo, Roma 2010, p. 117).

15 Cfr. Aa. Vv., Rejouer le politique, Galilée, Paris 1981 e Aa. Vv., Le retrait du politique, Galilée, Paris 1983.

16 J.-L. Nancy, Rien que le monde, in «Vacarme», (2000), n. 11, p. 5 (trad. nostra). 17 J.-L. Nancy, La pensée dérobée, Galilée, Paris 2001 (trad. it. di M. Vergani, Il pensiero

sottratto, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 158). 18 J.-L. Nancy, Le sens du monde, Galilée, Paris 1993 (trad. it. di F. Ferrari, Il senso del mondo,

Lanfranchi, Milano 1997, p. 113).

Verità della democrazia e potere della distinzione 243

vuoto19, allora, il suo stesso principio – la sovranità del demos – risulta infondato, la sovranità è nulla: ecco il suo aspetto «anarchico» e il suo «scandalo».

Da un lato, scrive Nancy, la sovranità del popolo non si deposita in nessuna figura, essenza o forma determinabile. Essenzialmente non-figurale, la democrazia rinuncia a darsi una configurazione e una identificazione, implicando dunque qualche cosa dell’anarchia:

Se il popolo è sovrano, deve farsi carico di ciò che

Bataille intende quando scrive che la sovranità non è niente. Essa non si depone in nessuna persona, non si delinea in nessun contorno, non si erige in nessuna stele: essa è, semplicemente, il supremo. Niente al di sopra. Né Dio né Maestro. In questo senso democrazia vale anarchia20.

Dall’altro lato, tale «fondamento» anarchico fa della democrazia

uno scandalo: dal momento che non esiste alcun arché naturale o divino legittimante il suo potere, risulta scandaloso che il governo democratico possa fondarsi sul potere di chiunque, come si evince dalla procedura del sorteggio utilizzata dagli ateniesi per decidere la distribuzione dei ranghi: il sorteggio non solo garantisce che il potere non sia esercitato da chi lo desidera o ne è interessato per fini privati, ma permette, dice Rancière, il potere degli uguali, «il potere di coloro che non hanno nessuna ragione naturale per governare su coloro che non hanno nessuna ragione naturale per essere governati»21.

Come è noto, il primo a definire «anarchica» la democrazia è stato, polemicamente, Platone22: nella isonomica città democratica vi è infatti mancanza di senso, essa non è fondata nella pienezza di una

19 I termini «indeterminatezza» e «vuoto» sono gli stessi che utilizza Claude Lefort a

proposito dell’esperienza democratica. Cfr. C. Lefort, La question de la démocratie in Id., Essais sur le politique. XIX-XX siècles, Seuil, Paris 1986 (trad. it. di B. Magni, La questione della democrazia, in C. Lefort, Saggi sul politico. XIX-XX secolo, Il Ponte, Bologna 2007) e C. Lefort, L’image du corps et le totalitarisme in Id., L’Invention démocratique. Les limites de la domination totalitaire, Fayard, Paris 1981 (trad. it. di L. Savarino, L’immagine del corpo e il totalitarismo, in Aa. Vv., La filosofia di fronte all’estremo: totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino 2004).

20 J.-L. Nancy, Vérité de la démocratie, Galilée, Paris 2008 (trad. it. di R. Borghesi e A. Moscati, Verità della democrazia, Cronopio, Napoli 2009, pp. 62-63).

21 J. Rancière, La haine de la démocratie, La Fabrique, Paris 2005 (trad. it. di A. Moscati, L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli 2007, p. 58).

22 Platone, La Repubblica, VIII, 558c, 563d.

244 Verità del potere, potere della verità Verità e quindi non può produrre i titoli della propria legittimità.

Se così si può dire, la verità della democrazia è proprio la sua mancanza di senso, la sua originaria inadeguatezza al proprio principio fondante: dal momento che non può essere fondata ontologicamente, per Nancy la democrazia non può essere l’effettuazione di una essenza o di un senso23, non può cioè assumere la verità dell’esistenza in comune (rimettendosi all’idea di un diritto divino o naturale o a quella di un Mito nazionale ecc.) e si trova così nella condizione nichilistica di non saper porre la legittimità, prima e ultima, del proprio potere24.

4. Il rapporto tra democrazia e nichilismo risulta però ambivalente. Da un lato, la democrazia intrattiene una relazione così stretta col

nichilismo da rischiare di confondersi con la massima espressione nichilistica del nostro tempo: il dominio dell’economia capitalistica. Con spirito marxiano e debordiano, Nancy infatti sostiene che il principio a cui sottostà la nostra società è il principio di equivalenza il quale, attraverso il movimento del Capitale, dice che «tutto si equivale», che sensi, valori e fini sono interscambiabili, indistinti: il nichilismo infatti «non è altro che l’annullamento delle distinzioni, l’annullamento dei sensi o dei valori»25. (In tale indistinzione capitalistica Jean-François Lyotard vede l’«effetto terroristico» che si esprime nell’enunciato «siate commensurabili o sparite»26).

Dall’altro lato, la democrazia è però pensabile come ciò il cui compito sia proprio quello di non ridursi a tale indistinzione: essa – a partire dalla sua indeterminatezza, dal suo vuoto, dal suo scandalo anarchico – può infatti creare le condizioni per consentire una fuoriuscita dall’indistinzione nichilistica27. Tutto questo mette in gioco il pensiero del potere democratico.

La politica democratica è infondata e perciò non ha il potere di realizzare e mettere in atto una supposta verità (o senso o finalità) della comunità – viceversa si tratterebbe di un desiderio totalitario nel quale il politico fagociterebbe la stessa comunità.

La democrazia deve invece comprendersi al di qua, distinta rispetto

23 J.-L. Nancy, Le désir des formes, in «Europe», (2009), n. 960, pp. 211-212 (trad. nostra). 24 Ivi, p. 214. 25 J.-L. Nancy, Verità della democrazia, cit., p. 45. 26 J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Minuit, Paris 1979 (trad. it. di C. Formenti, La

condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2004, p. 7). 27 J.-L. Nancy, Verità della democrazia, cit., p. 45 e p. 50.

Verità della democrazia e potere della distinzione 245

all’esistenza (che è sempre esistenza in-comune), nella quale la molteplicità singolare-plurale di ogni forma-di-vita si afferma e vale, certo sullo sfondo indistinto e «senza misura» del nulla, ma ogni volta differentemente, irripetibilmente ed incommensurabilmente. In tale molteplicità si danno lo spazio e la possibilità per ogni gesto di senso e di valore.

Si tratta allora di rendere possibile la distinzione e la differenza di ogni singolare affermazione di senso e di valore: secondo un principio di inequivalenza28, l’enunciato democratico è «niente si equivale» e il compito della democrazia dovrebbe essere quello di esercitare un potere in grado di garantire che nessun senso e nessun valore pretendano di presentarsi come una figura compiuta e totalizzante del politico29.

«Penetrare in questo pensiero è già agire»30 in vista di un potere che consiste innanzitutto nel preservare e nel custodire l’assenza di ogni arché31, di ogni senso già dato, cioè di ogni forma di dominio e di ogni reductio ad unum. È attraverso un pensiero di questo tipo che è pensabile l’eguaglianza di tutti e di ciascuno, eguali nella propria infinita differenza.

Da questo punto di vista l’unica «legittimazione» possibile del potere democratico consiste nel limitare la propria potenza e la propria pulsione di dominio per rendere effettuabile la molteplicità infinita di ogni senso, di ogni fine e di ogni desiderio32 sui quali «il potere in quanto tale è privo di potere»33. Il potere infatti non solo attiene alla mera gestione dell’esistenza-in-comune, ma in esso si esprime anche una potenza ambivalente perché non pre-formata o pre-destinata: si tratta di una spinta (desiderio, conatus, volontà di potenza) che può tendere sia verso il dominio (assoggettamento) sia verso l’apertura e l’affermazione di una libertà incondizionata (soggetto in espansione, infinito). Si può allora dire che nella democrazia si esprime un pensiero affermativo per il quale la verità del potere è il superamento stesso del potere, il superamento del potere in quanto dominio in nome dell’eguaglianza nella libertà e della libertà nell’eguaglianza.

28 Ivi, p. 49. 29 Ivi, pp. 53-54. 30 Ivi, p. 64. 31 Ivi, p. 63. 32 J.-L. Nancy, Le désir des formes, cit., p. 213 (trad. nostra). 33 J.-L. Nancy, Democrazia finita e infinita, cit., p. 111.

246 Verità del potere, potere della verità

Verità sul Potere. Elementi di una bibliografia ragionata

Francesco Pigozzo

Il presente lavoro bibliografico intende offrire un aggiornato strumento di ricerca sul concetto e sul fenomeno del potere, anche con riferimento alle relazioni che esso intrattiene con il concetto di verità, con le teorie epistemologiche e con l’attività umana del conoscere. Data la centralità di entrambe queste tematiche per la ricerca nel campo di tutte le scienze umane e sociali – e quindi per la ricerca scientifica in generale, nella misura in cui essa è sempre prodotto dell’uomo –, è bene sottolineare subito le forzose limitazioni di cui un tale lavoro – inevitabilmente ma consapevolmente – soffre.

La prima è implicita nella scelta stessa di privilegiare il lato del potere nell’ambito di un’edizione della Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme che si era invece posta equamente, fin dal chiasmo poliptotico del titolo, tra potere e verità. Motivi di spazio impedivano evidentemente di raddoppiare il presente lavoro bibliografico e la scelta a favore del primo termine è stata dettata dagli interessi e dalle competenze dello scrivente. Le altre limitazioni derivano dalla scelta dei criteri che hanno determinato l’articolazione della ricerca bibliografica: dal più al meno restrittivo, i criteri cronologico, linguistico-culturale e disciplinare. Il periodo preso in considerazione non ha limiti inferiori ma ha come rigoroso limite superiore l’inizio del XX secolo: questo lavoro non ha insomma la pretesa di rappresentare una raccolta di fonti per una storia concettuale di medio/lungo periodo, né fornisce indicazioni circa i testi classici da tenere obbligatoriamente in considerazione in una prospettiva di filosofia politica. La concentrazione sul contemporaneo è parsa d’altronde il male minore, se si considera che anche in ambito conoscitivo il

248 Verità del potere, potere della verità presente è sempre costretto a confrontarsi con la tradizione e spesso in modo esplicito: per cui da Platone a Nietzsche, da Tucidide a Hobbes, Machiavelli o Marx e Engels, i maggiori autori ascrivibili a questo specifico filone di riflessioni rientrano almeno indirettamente nel raggio d’azione di questa bibliografia.

Quanto all’aspetto linguistico-culturale, lo sforzo è stato di soggiacere il meno possibile ai due principali imperativi che le attuali logiche di potere in ambito internazionale fanno gravare su ogni ricerca: la tendenza a privilegiare produzioni anglosassoni, la tendenza a privilegiare la propria produzione nazionale. Ciò detto, le competenze linguistico-culturali dello scrivente hanno comunque imposto una fortissima preponderanza di contributi in lingua inglese, francese, tedesca e italiana, con poche eccezioni spagnole e slave. Anche qui, mi sembra però interessante sottolineare che esistono parziali motivi di discolpa nelle condizioni oggettive della ricerca, perché da un lato il sostanziale eurocentrismo della bibliografia era già implicitamente dettato dalla delimitazione del tema affrontato e dall’altro lato la ricerca più recente di ogni parte del mondo tende sempre di più a fare in modo diretto i conti con le logiche di potere sopra ricordate e, in particolare, con l’attuale predominio della lingua inglese nel dibattito scientifico-culturale di livello internazionale.

Resta infine da sottolineare il taglio fortemente inter- e transdisciplinare prescelto, su cui avrò modo di soffermarmi nell’introdurre brevemente le singole sezioni della bibliografia. Da un punto di vista più strettamente redazionale, i testi sono di regola citati nella loro prima edizione (o, laddove rilevante, nell’ultima edizione rivista, con indicazione dell’anno di prima edizione) in lingua originale. Per i testi in lingua diversa dall’italiano, è anche indicata la traduzione più recente reperibile.

1. Il potere come concetto e come fenomeno storico-sociale

Questa prima sezione, la più ampia e complessa della bibliografia, privilegia i testi che – indipendentemente dalla loro estensione (si va dall’articolo alle monografie e, in qualche caso, alle raccolte di scritti) – contribuiscono in modo significativo alla definizione dell’oggetto stesso di ricerca e quindi alla discussione del concetto di potere. In base a questo criterio, l’elenco riunisce opere di carattere prettamente

Verità sul Potere. Elementi bibliografici 249

filosofico-speculativo con opere di carattere teorico o – in casi particolarmente rilevanti – anche analitico, provenienti dai più svariati settori della ricerca nel campo delle scienze umane e sociali. Sono stati esclusi e destinati ad altra sezione apposita solo i lavori che, sebbene rilevanti anche rispetto alla definizione del fenomeno o di singole sue manifestazioni, sono dedicati alla sua analisi in termini diacronici. Aa.Vv., Le Pouvoir, Beauchesne, Paris 1978. Aa.Vv., Review Symposium on Steven Lukes’ Power: A Radical View, in

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In questa breve sezione sono elencate alcune fondamentali opere, di carattere prevalentemente storico-sociale (età contemporanea inclusa), che permettono di impostare la ricerca sul potere adottando prospettive diacroniche di lungo periodo. Balandier, Georges, Le Détour. Pouvoir et modernité, Fayard, Paris 1985. Beck, Ulrich, Macht und Gegenmacht im globalen Zeitalter. Neue weltpolitische

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3. Potere: strumenti analitici per le scienze umane e sociali

In questa sezione, non a caso la più articolata della presente bibliografia, è fornita una rapida ma significativa panoramica del pluralismo metodologico stimolato dalla ricerca sul fenomeno del potere. A fronte dell’ampio spettro semantico e delle profonde trasformazioni diacroniche che lo caratterizzano, come mostrato dalle precedenti due sezioni, il concetto di potere mantiene un suo omogeneo valore euristico per tutte le scienze umane e sociali ed è fatto oggetto di metodologie analitiche nelle più varie declinazioni disciplinari. Nelle sottosezioni che seguono verranno ricordati volta a volta approcci antropologici, statistici, sociologici, politologici, filosofici, economici, psicologici, giuridici, di tecnica manageriale e organizzativa, tesi a misurare, empiricamente analizzare o istituzionalmente regolare il fenomeno del potere nelle sue diverse accezioni e manifestazioni concrete.

È bene ricordare qui, come strumento di ricerca interdisciplinare, la rivista specialistica di livello internazionale «Journal of Political Power» (nata nel 2008 e fino al 2010 intitolata «Journal of Power»), diretta da Mark Haugaard, e consultabile all’indirizzo internet: http://www.tandfonline.com/loi/rpow21 (consultato l’8 agosto 2012). Per ragioni di spazio, i contributi pubblicati su questa rivista non sono inclusi nell’elenco seguente e si rimanda perciò ad essa come complemento bibliografico.

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Quest’ultima sezione affronta la questione del rapporto tra potere

e verità da un punto di vista socio-politologico. I lavori elencati vogliono rappresentare nel loro insieme una solida base di partenza per la ricerca interdisciplinare sulle ricadute epistemologiche e, più in generale, gnoseologiche del fenomeno del potere, considerato nel suo aspetto più propriamente sociale e politico. Il criterio di selezione adottato tiene dunque in conto, ma cerca di superare, gli specifici percorsi di ricerca sul tema che hanno ormai un solido riconoscimento istituzionale: mi riferisco in particolare alla sociologia della conoscenza, alla teoria delle ideologie, all’analisi del discorso. Ciascun autore e testo citato, più o meno strettamente riconducibile a queste etichette disciplinari, apre in realtà prospettive bibliografiche e metodologiche ulteriori.

Resta invece inevitabilmente inesplorata, come ricordato fin dalla premessa, la questione preliminare su che cosa si possa e/o debba intendere con il concetto di "verità" secondo il dibattito filosofico e scientifico dell’ultimo secolo. A parzialissima compensazione, rimando qui a pochi volumi introduttivi di recente pubblicazione: Aa.Vv., La verità, numero monografico della rivista «Philosophical News»,

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274 Verità del potere, potere della verità

Tra gli strumenti specifici sul fenomeno delle ideologie politiche va invece segnalata la rivista di livello internazionale «Journal of Political Ideologies», attiva dal 1996 e diretta da Michael Freeden, consultabile all’indirizzo internet: http://www.tandfonline.com/loi/cjpi20 (consultato il 22 agosto 2012). Per ragioni di spazio, i contributi pubblicati su questa rivista non sono inclusi nell’elenco seguente e si rimanda perciò ad essa come complemento bibliografico. Albertini, Mario, Lo stato nazionale, il Mulino, Bologna 1997. Apter, David E., Ideology and Discontent, Free Press, New York 1964. Arendt, Hannah, Between Past and Future. Eight excercises in Political Thought,

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Gli autori

SAMANTA AIROLDI ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Filosofia nel marzo 2012 presso l’Università degli studi di Genova con una tesi dal titolo Universalismo e pluralismo in dialogo. Presso il medesimo ateneo aveva già conseguito nel luglio 2008 la laurea specialistica in Metodologia Filosofiche con la tesi Morale e agire comunicativo in J. Habermas. Durante il suo corso di studi si è occupata prevalentemente di filosofia morale e politica con particolare attenzione all’ambito dell’interculturalità e al confronto tra «Liberalismo» e «Comunitarismo» a partire dalle tesi di Habermas.

LUIGI ALFIERI è ordinario di Antropologia Politico-Culturale nella Facoltà

di Sociologia dell’Università di Urbino, dove presiede il Corso di laurea triennale in Sociologia e Servizio sociale e il Corso di laurea magistrale in Gestione delle politiche dei servizi sociali e della mediazione interculturale. Si è occupato del pensiero di Nietzsche, di Hegel, di mitologia e di simbolica politica, con particolare attenzione al problema del rapporto tra violenza e ordine. Ultimamente si è dedicato alla delineazione di un’antropologia filosofica della guerra. Tra le sue pubblicazioni: Storia e mito. Una critica a Eliade (ETS, 1978); Nel labirinto. Quattro saggi su Nietzsche (Giuffrè, 1984); Apollo tra gli schiavi. La filosofia sociale e politica di Nietzsche (1869-1876), (Angeli, 1984); Il pensiero dello Stato. Saggio su Hegel (ETS, 1985); in coll. con D. Corradini Broussard, Abissi. Meditazioni su Nietzsche (Giuffrè, 1992); in coll. con C. M. Bellei e D. S. Scalzo, Figure e simboli dell’ordine violento (Giappichelli, 2003); La stanchezza di Marte (Morlacchi, 2008). Ha curato con A. De Simone i volumi: Per Habermas (Morlacchi, 2009) e Leggere Canetti. «Massa e potere» cinquant’anni dopo (Morlacchi 2011).

280 Verità del potere, potere della verità MONIA ANDREANI insegna Diritti Umani presso l’Università per

Stranieri di Perugia e svolge attività di ricerca in Filosofia Morale presso l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Studiosa di filosofia francese contemporanea e di pensiero femminista, attualmente si occupa di filosofia della vita nel pensiero contemporaneo. Tra le sue pubblicazioni: Il terzo incluso. Filosofia della differenza e rovesciamento del platonismo (Editori Riuniti, 2007); curatela con A. Vincenti di Coltivare la differenza. La socializzazione di genere e il contesto multiculturale (Unicopli, 2011).

FEDERICO BONZI ha conseguito il diploma di Laurea magistrale presso l’Università degli Studi di Milano, presentando una tesi sulla figura del Legislatore nel pensiero politico di Jean-Jacques Rousseau. Attualmente sta terminando un Dottorato di Ricerca in Filosofia e politica all’Università degli Studi di Napoli «L’Orientale», in co-tutela con l’Université La Sorbonne. La ricerca dottorale verte sul principio d’«honneur» nell’opera di Montesquieu. Più in generale, il suo ambito di ricerca concerne il dibattito filosofico-politico del XVII e del XVIII secolo e in particolare il discorso sull’«onore» nell’Europa d’Ancien régime.

GIANVITO BRINDISI è dottore di ricerca in Filosofia del diritto presso

l’Università degli Studi di Napoli «Federico II». Collabora con le cattedre di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto e dello Stato dell’Università «Parthenope» ed è docente a contratto di Filosofia del diritto presso l’Università «Suor Orsola Benincasa». È redattore della rivista di critica filosofica on line «Kainos», e autore di saggi su Bourdieu, Deleuze, Foucault, Garapon, Neumann, sulla filosofia del diritto italiana del primo Novecento e sulla bioetica. Ha pubblicato il volume Potere e giudizio. Giurisdizione e veridizione nella genealogia di Michel Foucault (Editoriale Scientifica, 2010) e ha curato, insieme a E. de Conciliis, il volume Lavoro, merce, desiderio (Mimesis, 2011).

FEDERICA CASTELLI è dottoranda presso l’Università di Modena e

Reggio Emilia, dove porta avanti una ricerca sull’esperienza corporea nel contesto delle piazze in rivolta a partire da un punto di vista sessuato. Si occupa di filosofia politica e pensiero della

Gli autori 281

differenza sessuale, con particolare attenzione al pensiero di Nicole Loraux. È redattrice di «DWF- donna, woman, femme» e collabora con l’Associazione Internazionale delle Filosofe (IAPH). Ha pubblicato sul «Bollettino Studi Sartriani» (VI, 2010) e in «Ariel» (I, 2 2011). È coautrice, come membro del gruppo Verlan, del volume Dire, Fare, Pensare il presente (Quodlibet, 2011). Di prossima pubblicazione presso Laterza la traduzione di C. Taylor e J. MacLurie, Laicità e libertà di coscienza.

DAVIDE D’ALESSANDRO è dottore di ricerca in Etica e filosofia politico-

giuridica. Ha scritto, tra l’altro, i volumi: Musica e potere. Il direttore d’orchestra da Canetti a Furtwängler (Goliardiche, 2005); L’ombra della scrittura (Goliardiche, 2006); Morfologie del contemporaneo. Identità e globalizzazione (Morlacchi, 2009); L’impolitico e l’impersonale. Lettura di Roberto Esposito (Morlacchi, 2010); con A. De Simone Conflitti indivisibili (Morlacchi, 2011); Tra Simmel e Bauman. Le ambivalenti metamorfosi del moderno (Morlacchi, 2011); L’inestricabile intreccio. Vita & Morte: passaggi (Morlacchi, 2012).

ALFONSO DI PROSPERO è dottore di ricerca in Scienze sociali. Ha

vinto la borsa di studio «F. Iengo» nel 2001. Ha pubblicato articoli sui paradossi dell’induzione formulati da Nelson Goodman e da Carl Gustav Hempel sulla rivista «Itinerari», e sul relativismo culturale sulla rivista «Ratio Sociologica». È in corso di pubblicazione per le Edizioni Scientifiche (Chieti) un suo volume: La logica della semplicità. Comunicazione e ontologia nel ‘Tractatus’ di Wittgenstein. Oltre al dibattito sull’induzione e al pensiero di Wittgenstein, ha approfondito in particolare le opere di G. Bateson, N. Luhmann, J. Habermas, J. Piaget.

ALESSANDRO ESPOSITO è dottore di ricerca in Filosofia presso

l’Università di Genova. Ha svolto periodi di ricerca all’Université March Bloch de Strasbourg e all’Université Sorbonne Paris III. Studioso della filosofia politica francese contemporanea, si è occupato in particolare del movimento situazionista, del rapporto tra il pensiero di Guy Debord e quello di Karl Marx, degli aspetti politici della riflessione di Jean-Luc Nancy.

MIRYAM GIARGIA è dottore di ricerca in Scienze della Cultura e dal 2008

282 Verità del potere, potere della verità

è assegnista presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Ha dedicato una monografia e diversi articoli al pensiero morale e politico del Seicento e del Settecento, con particolare attenzione a Rousseau. Si possono qui ricordare: Disuguaglianza e virtù. Rousseau e il repubblicanesimo inglese (LED, 2008); Religione del cuore e religione della città. Rousseau, Bayle e i repubblicani inglesi, in M. Geuna e G. Gori (a cura di), I filosofi e la società senza religione (Il Mulino, 2011, pp. 353-392); Le Tricot de Rousseau, «Etudes Jean-Jacques Rousseau», 18 (2011), pp. 53-64.

ANNA LORETONI è professoressa di Filosofia politica presso la Scuola

Superiore Sant’Anna di Pisa. È Coordinatrice del PhD Course in Politics, Human Rights and Sustainability e del Direttivo del Centro Interuniversitario per la Ricerca sui Conflitti e la Pace (CIRPAC). È Presidentessa del Comitato Pari Opportunità della Scuola Superiore Sant’Anna. I suoi interessi di ricerca si muovono nell’ambito della dimensione internazionale, intorno ai temi della pace e della guerra, dell’integrazione europea, dell’identità politica, culturale e di genere. Tra le sue principali pubblicazioni: Pace e progresso in Kant (E.S.I., 1996); Teorie della pace. Teorie della guerra (ETS, 2005). Con B. Henry ha curato il volume The Emerging European Union. Identity, Citizenship, Rights (ETS, 2004); con B. Henry e A. Pirni Laicità e principio di non discriminazione (Rubettino, 2009).

SALVATORE NATOLI è ordinario di Filosofia Teoretica presso

l’Università degli Studi di Milano-Bicocca e insegna Storia delle idee nell’Università Vita-Salute, San Raffaele di Milano. In precedenza ha insegnato Logica nell’Università degli studi Ca’ Foscari di Venezia e Filosofia della politica nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Milano-Statale. La sua ricerca ha dapprima preso ad oggetto il problema della soggettività con particolare riferimento al nesso tra simboli, credenze e forme di vita. In questo quadro si sono sviluppate le indagini su passioni e affetti: dolore, felicità. Da ultimo verte intorno alla teoria dell’azione e più in generale sulle forme del fare. È nella redazione di varie riviste ed è ampiamente presente nel dibattito filosofico e culturale contemporaneo. Molte le sue pubblicazioni. Tra queste: L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale (Feltrinelli, 1986);

Gli autori 283

La felicità. Saggio di teoria degli affetti (Feltrinelli, 1994); Dizionario dei vizi e delle virtù (Feltrinelli, 1996); Dio e il divino. Confronto con il cristianesimo (Morcelliana, 1999); La felicità di questa vita (Mondadori, 2000); Stare al mondo (Feltrinelli, 2002); Il buon uso del mondo (Mondadori, 2010); L’edificazione di sé (Laterza, 2010).

MICHELE NICOLETTI è ordinario di Filosofia Politica presso l’Università

di Trento dove insegna nei corsi di laurea in Filosofia e Studi Europei e Internazionali e nella Scuola di Dottorato in Studi Umanistici. I suoi interessi di ricerca si concentrano sull’intreccio tra politica, antropologia e religione con particolare riguardo ad autori, temi e concetti coinvolti nella discussione sulla cosiddetta «teologia politica». Sul rapporto tra politica e religione ha coordinato numerosi progetti di ricerca a livello italiano ed europeo. Ha pubblicato monografie su Kierkegaard e Schmitt e sul rapporto tra «La politica e il male» e numerosi saggi in Italia e all’estero su autori come More, Hobbes, Rosmini, Guardini, Stein, Schmitt, Bonhoeffer, Barth. Ha curato edizioni critiche e traduzioni di opere di Antonio Rosmini, Edith Stein, Romano Guardini, Ernst-Wolfgang Böckenförde.

VALERIO NITRATO IZZO è dottore di ricerca in Filosofia del Diritto: arte

e tecnica della giurisprudenza – ermeneutica dei diritti dell’uomo presso l’Università degli Studi di Napoli «Federico II» dove collabora con le cattedre di Filosofia del Diritto e Teoria dell’Interpretazione e Argomentazione Giuridica. Ha svolto attività di ricerca post-dottorato presso il Centro di Ricerca sulle Istituzioni Europee (Università di Napoli «Suor Orsola Benincasa») e attualmente è impegnato in un progetto di ricerca post-dottorato presso il Centro de Estudos Sociais, Universidade de Coimbra. È membro della redazione della rivista «Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica».

GIACOMO PEZZANO, nato nel 1985 e laureato in Filosofia e Storia delle

Idee a Torino, è stato docente a contratto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della medesima Università ed è membro del direttivo del CESPEC di Cuneo (Centro Studi sul Pensiero Contemporaneo), con il quale collabora a un progetto di ricerca sulla cornice simbolica del legame sociale. È autore dei volumi La consulenza filosofica di fronte a un bivio. Il consulente filosofico: esperto in

284 Verità del potere, potere della verità

filosofia o filosofo? (Il Filo, 2008) e Tractatus Philosophico-Anthropologicus. Natura umana e capitale (Petite Plaisance, 2012), e di numerose recensioni, articoli, saggi ed e-books (un elenco è reperibile sul web: unito.academia.edu/GiacomoPezzano), incentrati soprattutto sulle tematiche dell’antropologia filosofica e sul ruolo socio-politico della filosofia.

FRANCESCO PIGOZZO è dottore di ricerca in Letterature Straniere

Moderne con una tesi interdisciplinare sulle Memorie di Louis di Rouvroy, duca di Saint-Simon, da cui ha tratto diversi articoli e contributi pubblicati principalmente in Francia. Si occupa attualmente della relazione fra teoria letteraria, psicoanalisi matteblanchiana e epistemologia delle ideologie politiche. Ha un assegno di ricerca in Scienza Politica presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, dove ha anche responsabilità organizzative in diversi progetti formativi sui temi dell’unificazione europea e della gestione delle diversità. Lavora inoltre per il Centro Studi sul Federalismo di Torino, dove è redattore del Bibliographical Bulletin on Federalism.

ALBERTO PIRNI è ricercatore t.d. di Filosofia politica presso la Scuola

Superiore Sant’Anna di Pisa. Fa parte del Collegio dei docenti del PhD Course in Politics, Human Rights and Sustainability, è Coordinatore della Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme. È inoltre membro del Comitato direttivo della rivista Cosmopolis, e del Comitato redazionale di Fenomenologia e Società e di Lessico di Etica pubblica. Tra le sue pubblicazioni: Il ‘regno dei fini’ in Kant (il melangolo, 2000); Charles Taylor (Milella, 2002); Filosofia pratica e sfera pubblica (Diabasis, 2005 – Menzione speciale Premio «Valitutti» 2005); con A. De Simone e F. D’Andrea, L’Io ulteriore (Morlacchi, 2005²); Kant filosofo della comunità (ETS, 2006); con B. Henry, La via identitaria al multiculturalismo (Rubettino, 2006 – Premio «Matteotti» 2006). Ha tradotto e curato di C. Taylor, La topografia morale del sé (ETS, 2004). Tra gli altri volumi da lui curati: Comunità, identità e sfide del riconoscimento (Diabasis, 2007); Logiche dell’alterità (ETS, 2009); con B. Henry, Der asymmetrische Westen. Zur Pragmatik der Koexistenz pluralistischer Gesellschaften (Transcript, 2012).

Gli autori 285

DAVID RAGAZZONI si è formato in Filosofia alla Scuola Normale Superiore ed è allievo del corso di perfezionamento (PhD) in Filosofia Politica della Scuola Superiore Sant’Anna; ha trascorso periodi di studio e ricerca a Yale e alla Columbia University. Suoi saggi sono stati accettati da numerose riviste, tra cui Rivista di filosofia, Ragion pratica, Materiali per una storia della cultura giuridica (ed. il Mulino). È co-autore e co-curatore del volume Il destino della democrazia. Attualità di Tocqueville (Edizioni di Storia e Letteratura, 2010). Con Nadia Urbinati è autore di un capitolo sulle teorie italiane del parlamentarismo liberale tra Otto e Novecento per il volume Parliament and Parliamentarism: A Comparative History of Disputes on a European Concept della European Conceptual History (Berghahn Books, forthcoming in 2013). Sta attualmente lavorando a una monografia sul pensiero politico di Carl Schmitt e Hans Kelsen e alla scrittura della sua tesi di dottorato su Rappresentanza politica e democrazia.

RICCARDO RONI è dottore di ricerca in Filosofia. È docente a

contratto di Didattica delle scienze naturali nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Urbino e cultore della materia di Psicologia generale presso l’Università di Pisa. È componente del Comitato scientifico della Rivista internazionale Revista Science Institute e membro del Seminario Permanente Nietzscheano promosso dal Centro Colli-Montinari di studi su Nietzsche e la cultura europea. Collabora con la Scuola di Alti Studi della Fondazione Collegio San Carlo di Modena. Tra le sue recenti pubblicazioni in volume: La persistenza dell’istinto. Pulsioni vitali dell’esistenza (ETS, 2007); Della soggettività morale. Tra Hegel e Sartre (Morlacchi, 2011). La costruzione dell’identità politica. Percorsi, figure, problemi (a cura di) (ETS, 2012).

BOULÉ Collana di Filosofia e Scienze umane 1. Globalizzazione, saggezza, regole, a cura di A. Pirni 2. Religioni e ragione pubblica. Percorsi nella società post-secolare, a cura di G. Lingua 3. Elena Porzio, Il pluralismo religioso: prospettive per un dia-logo fra le religioni 4. Ripensare la laicità, a cura di G. Lingua 5. La costruzione dell’identità politica. Percorsi, figure, problemi, a cura di R. Roni 6. Romina Perni, Diritto, storia e pace perpetua. Un’analisi del cosmopolitismo kantiano 7. Sara Mollicchi, Politica, verità e consenso. Saggio su Haber-mas e Putnam 8. Verità del potere, potere della verità, a cura di A. Pirni

Sommario

Prefazione del Sindaco di Acqui Terme 5Prefazione del Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio

di Alessandria 7Prefazione del Presidente dell’Istituto Nazionale Tributaristi 9 Alberto Pirni

Un binomio (im-)possibile? Alcune considerazioni preliminari su verità e potere 11

Parte prima Aperture

Salvatore Natoli

La verità sul potere e il potere su di sé 27 Luigi Alfieri

Guerra, politica e democrazia in Carl Schmitt ed Elias Canetti 43 Michele Nicoletti

La democrazia e il potere della verità 81 Anna Loretoni

«Il piacere di disilludere». Disvelamento e decostruzione attraverso il genere 97

290 Verità del potere, potere della verità

Parte seconda Panoramiche

Giacomo Pezzano

Il potere della verità e la verità come potere: l’instabilità come verità umana 113

Samanta Airoldi

La necessità del concetto di Verità in Morale 123 Alfonso di Prospero

Teoria della razionalità, pluralismo democratico e ruolo degli intellettuali 133

Valerio Nitrato Izzo

Prima della verità: il governo del disaccordo tra diritto e giustizia 143

Monia Andreani

Anatomia politica della guerra globale: le figure del sopravvissuto e dell’inerme 153

Davide D’Alessandro

L’ermeneutica della guerra nella riflessione filosofico-politica contemporanea 165

Parte terza Primi piani

Miryam Giargia

Verità, potere e miti in Hobbes 177 Federico Bonzi

Verità e potere: una relazione complessa nelle Lettres persanes di Montesquieu 187

Sommario 291

Riccardo Roni L’arte per il potere. Nietzsche e il «contromovimento» della volontà di potenza (1885-1889) 197

Federica Castelli

Le verità della politica. Hannah Arendt sul rapporto tra Verità, Menzogna e Potere 209

David Ragazzoni

Quale cittadinanza per la verità in politica e in democrazia? Per una rilettura di Philosophy and Politics di Hannah Arendt 219

Gianvito Brindisi

Potere, diritto e verità nel pensiero di Michel Foucault 229 Alessandro Esposito

Verità della democrazia e potere della distinzione in Jean-Luc Nancy 239

Francesco Pigozzo

Verità sul Potere. Elementi di una bibliografia ragionata 247 Gli autori 279

Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa

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