rivista sud numero 80

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sud RIVISTA EUROPEA REVUE EUROPÈENNE EUROPEAN REVIEW EUROPÄISCHE ZEITSCHRIFT REVISTA EUROPEA periodico di cultura arte e letteratura 80. LE GRAND SUD EST ARRIVÉ Libreria Dante & Descartes

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sudRIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA

periodico di culturaarte e letteratura

80.LE GRAND SUD EST ARRIVÉ

Libreria Dante & Descartes

sud2 80.

E poi la messa in ordine delle “sue” cose. I Grandi Sugheri degli anni ’70, le opere degli anni ‘80 lavorate coi collant. Ogni cosa di Renata rimanda l’e-co di una casa, di un quartiere. A Roma dal ’68, la sua prima casa è a piazza Colonna, con un’alta-na sulla piazza, su via del Corso, su uno dei panorami che rendo-no Roma Eterna. In via di Cam-po Marzio, a due passi da casa, un negozio, che ovviamente non c’è più, esponeva nelle vetrine una grande varietà di sugheri di tutte le dimensioni. Renata tra quei su-gheri vede le opere che ne avreb-be tratto. Una folgorazione. Ne compera quantità industriali (let-teralmente) e sfruttando un ampio salone della casa che sua madre, la contessa Marianna Prunas, ave-va preso in affitto a via Condotti, inizia a lavorarli. Ne escono opere dal formato anomalo, smisurate, colorate. Superfici lunari, omag-gio ai primi passi dell’ uomo sul-la luna (in fondo, per noi terrestri, un grande sughero che galleggia nella notte) e alla copertina “stori-ca” che suo fratello Pasquale ave-va concepito per Il Messaggero (LUNA PRIMO PASSO), il quo-tidiano romano dove da poco la-vorava. Lune tonde che formano lune tonde. Zero contiguo a zero contiguo a zero contiguo a zero in una catena circolare che suggeri-sce l’infinitudine degli universi.

Da un universo all’altro, a via dell’Oca, la casa successiva, con-divisa sempre col fratello Pa-squale fino a metà degli anni ’80, inizia l’era dei collant. Vicina di pianerottolo è Elsa Morante, in comune, oltre il pianerottolo, la passione per i gatti. Forse è anche in ricordo di Elsa che Renata re-alizza nel 2002 una sculturina di terracotta a muso di gatto. Mol-to tonda molto paffuta. Una luna piena con le orecchie. E un ferma-carte che ascolta i segreti di molte scrivanie.Finita l’era di via dell’Oca – sia-mo sempre negli ’80 - è il tempo di nuove case. Fino alla casa vis-suta con Piero Berengo Gardin, il compagno della vita. La memo-ria aggredisce dietro ogni porta, sotto ogni cuscino, tra le pagine di ogni libro, dal bianco/nero di ogni fotografia. Si tratta di usci-re dalle secche della nostalgia per trasformare i passaggi in fertile lavoro culturale. Mettere in ordi-ne e mettendo in ordine, scovare preziosi tesori di carta, archiviarli e renderli disponibili come ferti-lizzanti di nuove rinascite. L’eli-ca strappata si ricombina. Bastano anche piccoli frammenti di DNA per avviare future generazioni dai tratti orginali. Come questo SUD.

La creatività di Renata viene sempre dopo la fatica del lavoro d’archivio. Anche con i suoi su-

gheri, con i suoi collant, è sem-pre partita da materiali accumu-lati, ordinati, catalogati. Calze velate con calze velate, blu con blu, rosse con rosse. L’opera che trasmette artisticamente l’inter-vento di Renata Prunas sulle cose del mondo, non a caso si intitola Campionario ed è un vero cam-pionario delle possibilità espres-sive delle calze delle donne, in tutte le sfumature possibili.

Cresciuta in una famiglia noma-de, perché le famiglie dei milita-ri di carriera sono nomadi, Renata Prunas sa come affrontare traslo-chi e riordini, sa come fare entrare tutto in un cassetto. E di cassetti Renata Prunas ne ha decine e de-cine. Uno accanto all’altro, uno sopra all’altro, in una vertigine di memoria e poesia, come le sue lune di tappi di sughero. I casset-ti sono versi, non importa la su-perficie disponibile all’ingombro. Le cose vengono riposte con con-centrazione e cura, strette in un ordine a volte cronologico, a vol-te tematico, a volte materiale, nel senso che è la materia di cui sono fatte o la loro misura o la loro for-ma a guidarne l’archiviazione. Le cose ferme e strette, vicine vicine, parlano del loro senso segreto.Intere case, storie, persone, tra-mite immagini e oggetti utili alla loro evocazione, possono entrare nel vano di una credenza, in un

Non bella, non brutta, bellissima la giovane madre non guarda a destra non guarda a sinistra guarda soltanto suo figlio sale dalla strada da via Merulana che sale con lei nel mattino sul marciapiede non c’è spazio per altro avanza veloce la giovane madre capelli al vento nel sole gli occhi ne-gli occhi del figlio gli parla agitando le mani gli parla fitto senza vere parole lascia per un momento andare da sola la gigantesca carrozzina blu mentre spinge innanzi il busto abbassa il volto parla col suo bambino e ride con lui gli agita le lunghe mani davanti al viso in un movimen-to brevissimo e infinito lui le risponde concentrato e ridente le parla fitto senza vere parole il bambino ride agita le mani verso il viso della sua giovane madre non bella non brutta bellissima non c’è posto per altro nella strada nella città che sale con lei con il bambino la carrozzina blu è chiusa in una bolla impenetrabile di energia sono chiusi in una bolla di energia in movimento che cresce e si nutre di via Merulana il loro sguardo ciò che si trasmettono in questo momento è tutta la vita è tutta la vita per tutta la vita nulla può far loro del male per tutta la vita, è questo il legame che non lega ma nutre e libera non guarda a destra non guarda a sinistra la giovane donna altissima nel sole non vede nulla sai che vede ogni minima cosa nulla le sfugge nulla può farle male nulla può toccarla a ogni minimo assalto saprebbe reagire fulminea a tutto fa fronte è sicuro di tutto si nutre ogni energia assorbe mentre avanza ignara di tutto vede solo il bambino occhi negli occhi per sempre legati quegli occhi tu vedi le fiamme che incendiano l’aria il miracolo che accade, stamattina l’hai visto non c’era spazio per altro nella città

foto di Roger Salloch

LA COMPRESSIONETiziana Gazzini

“C’era una volta una fata, una fata regina …”. E’ l’incipit di Fiabe-sca, una fiaba erotica e molto lu-nare scritta da Renata Prunas ne-gli anni ‘80. Una fiaba di parole visive e coloratissime che navi-gano in uno spazio interstellare. Il mondo fatato di Fiabesca non conosce punti cardinali e quello che è a NORD può stare a EST o a OVEST e, naturalmente, anche a SUD. Se sposiamo per un attimo questa geografia mobile e galatti-ca gli ‘80, anni che l’hanno parto-rita, possono trasformarsi in 000. Sdraiato l’8, vedremo che si com-pone di due zeri affiancati ai qua-li si aggiunge un terzo zero che, come lo si gira, sempre zero resta. Una catena, l’inizio di una cate-na di zeri. Se poi questa catena la facciamo ruotare sul suo asse nel-lo spazio (anche interstellare va bene lo stesso) si genera una dop-pia elica. L’immagine della cate-na del DNA. E siamo oltre l’infi-nito matematico, che pure trova il suo simbolo nell’8 sdraiato, ed entriamo nel mondo fatato della vita e della trasmissione dei ca-ratteri ereditari, perché le catene si spezzano e si ricombinano con altre catene. E si è uguali a chi ha incrociato la sua elica e allo stesso tempo si è diversi.Se poi questa forma la immagi-niamo solida e la facciamo chiu-dere su se stessa, diventa un cilin-dro ad anello che non è chiuso per

niente, ma apertissimo sui segreti dell’universo, da noi considerato, a torto o ragione, vero e non fiabe-sco. Cose che succedono a Gine-vra, nell’acceleratore di particelle al CERN.

Usciti dalle favole e dimentican-do i bosoni di Higgs, se si sono masticati e digeriti gli anni del-la guerra e del dopoguerra e poi i ’50 e i ’60 e pure i ’70 può suc-cedere che si arrivi agli anni ’80 con sapori anche amari in bocca. Ma ogni sostanza commestibile è nutrimento, fonte di energia di-sponibile anche per il più impro-prio degli usi. La doppia elica della cifra gene-tica, sommata a luoghi, amicizie, amori, affetti familiari genera il gusto particolarissimo della ge-nealogia Prunas fatta di sangue e carte.Renata, erede attiva di que-sta importante dote di memorie e di archivi, proprio negli anni ’80, con la scomparsa del fra-tello Pasquale, si trova nella im-pellente necessità di affondare le mani anche nelle carte dell’e-popea di SUD. Traslochi, nuove case, riorganizzazione di biblio-teche domestiche fanno il resto. Un’impresa titanica che solo una fata regina può intraprendere. Lettere, cartoline, biglietti, minu-te, bozze, di Pasquale e dei suoi amici di SUD, soprattutto.

PASSAGESeverino Cesari

vecchio schedario d’ufficio come in un nuovissimo classificatore IKEA.

Non solo carte o sugheri o collant, negli archivi di Renata Prunas. An-che l’abitino fine ‘800 appartenuto alla madre Marianna, tutto pizzi e code, o quello indossato dal neo-nato Pasquale per il suo battesimo e l’abito da marinaretto di qualche anno dopo, quasi un flash-forward delle giacchette grigie di Monte di Dio. Tutto riposto con cura tra candidi fogli di carta velina.Tra una vestina d’epoca e l’altra, spuntano da altri cassetti raccon-ti scritti da Renata in diverse oc-casioni. L’audace fiaba Fiabesca, certo, e sono sempre gli anni ‘80 quando spunta Pulecenella e ‘o ci-nema una filastrocca per una per-formance in maschera grottesca e molto partenopea. In un altro cassetto, ecco i racconti della raccolta Napoli … statistica-mente parlando, scritti nel periodo successivo alla scomparsa dell’a-mato Piero, ricordando le avven-ture da giovane ricercatrice di mercato nei vicoli napoletani degli anni ’60. Le sorprese dei cassetti di Rena-ta sono inesauribili. La conserva-zione creativa è una forma d’ar-te. Comprime lo spazio e il tempo per rigenerarli all’infinito. Renata Prunas conosce l’arte della com-pressione.

PALINODIALuigi Spina

Non è vero che mi sono voltato in-dietro. Perché avrei dovuto farlo? Lei è sempre stata davanti a me.

Era lei che sapeva dove eravamo diretti. Ed è stata lei a voltarsi indie-tro. E mi ha detto: ‘Io vado avanti, tu prenditi tutto il tempo che ti ser-ve’. Mi conosceva bene. Sapeva che io non camminavo soltanto. Avevo bisogno di raccontarmi il cammino. Come se non potessi fare a meno, poi, di raccontarlo ad altri, nella sua perfezione e comple-tezza. E quando mi sono detto, una volta, che non volevo più costrui-re racconti né miti, il viaggio era stato bello, sì, ma fino a un certo punto, poi avevo solo continuato a camminare, con gli occhi rivolti in basso, né avanti né indietro, perché non avevo racconti da ricordare, ma solo oggetti, e luoghi, e animali, e suoni, un passaggio d’ali, una pie-tra, un ramo spezzato, qualche pra-to fiorito. ‘Tu prenditi tutto il tem-po che ti serve’. E ne è passato di tempo, forse troppo. Ho visto che a poco a poco scompariva all’oriz-zonte, dietro una curva più marcata. E sono rimasto solo. E sono tornato ai miei racconti. Ai miei racconti di lei, che a poco a poco diventava mito, e perdeva tutta la realtà degli sguardi con cui l’avevo amata. Ho continuato a guardarmi intorno, avanti, indietro, dovunque degli occhi mi rispondessero. Il cammi-no è stato lungo, forse troppo; ma ce n’è ancora da fare, e non dispero delle mie forze. Ho capito, in tutto questo tempo, che ogni cosa avvie-ne contemporaneamente, ed è un errore sostituire, togliere. Bisogna avere la capacità di aggiungere, di implicare e complicare, quasi di guardare in contemporanea, e nel presente, come nessun occhio o racconto può fare, l’avanti e l’in-dietro in un solo scatto. E quando, alla fine, capirò anch’io dov’ero diretto, forse non avrò bisogno di riprendere il racconto e di portarlo a una conclusione soddisfacente, al lieto fine sempre in agguato. In quel momento, come in uno spec-chio, potrò guardare me stesso in rapporto con l’indietro; ma non più, contemporaneamente, guarda-re in avanti. E sarà quella la morte.

sudRIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA 3

“Caro…ho tanta paura!” “Novanta!, la paura fa NOVAN-TA” era il grido possente nella sala cinematografica ogniqual-volta la dolce protagonista con bionda chioma acconciatissima intatta nel pieno dell’uragano, o del bombardamento, o della fuga, o della tempesta di mare, si stringeva al robusto petto del protagonista divo, manifestando la fascinosa femminea debolezza bisognosa di maschile protezio-ne.Il vocione, nelle allora fumo-se platee era ormai identificato come quello de fotografo Anto-nio (un tempo chiamato Toni-no) della giornalistica famiglia Grassi. Rito monocorde ripetuto, in gara con l’altro disturbatore di platee, lo scrittore Vittorio che rievocava suo padre Raffa-ele Viviani paragonando ad alta voce gli attori (sullo schermo ma anche sul palcoscenico) alle tristi sgraziate maschere di Razzullo e Sarchiapone. Presto smisi di vergognarmi d’essere in compagnia di tanta ostinazione, e poi quella procla-mazione di femminile angoscia cominciò a sparire dai film, e per fortuna mia non echeggiò mai in teatro. Smisi anche per-ché prevalse il racconto degli scherzi solenni gioiosi ma tal-volta anzi spesso graffianti (e suscitatori di ostilità ideologico-professionali sopravvissute nei decenni) che sortivano nelle gio-vanili epoche di SUD, la rivista politico-letteraria che Pasquale Prunas volle creare nella Napo-li del dopoguerra. Accadde per qualche tempo nell’alloggio del signor comandante della scuo-la militare Nunziatella, padre di Pasquale, poi nella casa affittata in gran fretta dopo giorni di ospi-talità in case amiche, quando fu intimato e militarmente eseguito da un giorno all’altro lo sfratto nei confronti di un alto ufficiale che aveva un figlio comunista e tollerava raduni sovversivi fra quelle antiche mura borboniche. Antonio ricordava sempre che la piccola Renata era ammalata quando i mobili e la famiglia furono letteralmente trasferiti sulla strada. Renata mi ha sempre ricordato di aver voluto molto bene all’allegro amico di suo fra-tello, il fotografo che suonava la chitarra e canticchiava volentieri, fotografava anche loro tutti di SUD, quando riusciva a trovare la pellicola. E che raggranellava qualche lira immortalando nella Villa Comunale soldati america-ni col fucile spianato che cattu-ravano un biondo tedesco con le mani alzate in segno di resa. Foto che diventavano subito vittorio-so messaggio alle famiglie negli States, dove nessuno s’accorgeva che il biondo prigioniero era un napoletano verace. Era il tempo in cui Armando De Stefano poi famoso pittore suonava il piano jazz nei dancing scandalizzan-do il suo maestro, e Raffaello Causa, futuro Soprintendente, faceva finta di suonare il trom-bone nella grande orchestra del San Carlo, che contava alcune decine di finti flautisti, violinisti, violisti, contrabbassisti. Quelli veri suonavano per tutti, e per tutti si sbarcava il lunario.L’Ottanta, come epoca, è stata invece tempo di sconforto e di paure ben diverse da quelle affer-mate dalle dive cotonate. L’ot-tuso sanguinario terrorismo non smise di fare vittime, in gara con la mafia e la delinquenza più o meno comune, più o meno altolocata. Gli amici Antonio

e Pasquale, senza sapere l’uno dell’altro, conclusero quasi insie-me i loro giorni nell’anno 1985. Mi fa piacere pensare che c’è stato per loro anche il tempo di sorridere, ridere, essere allegri come al tempo di Sud, magari quando sul “Messaggero” grafi-camente trasformato da Pasquale Prunas apparve quel maestoso NO a tutta pagina per salutare la vittoria del divorzio, magari quando andammo a vedere film come The Blues Brothers dove nessuna avrebbe mai detto “Ho tanta paura”.Per quella c’è tempo fino a 90. Anzi oltre.

Caro lettore, carissima lettrice di Sud, in nome della nostra ami-cizia vogliamo rassicurarti da subito. Alla tua collezione non mancano sessantacinque nume-ri che una solerte e stakanovista redazione avrebbe sfornato senza avertene comunicato l’uscita. Il numero ottanta è un extra del-la nuova serie di Sud rinato nel maggio 2003, è un desiderio, la volontà di tenere fede al patto che avevamo stretto con te quan-do sul numero quindici avevamo scritto in copertina: arrivederci. La rivista è qui, noi siamo qui, tra le tue mani preziose, impre-scindibili di lettore/lettrice e vo-gliamo provare a raccontarti con le voci di paesi distanti, attraver-so le nostre visioni, una fedele cronaca della mutazione in atto nelle nostre comunità, la trasfor-mazione dei popoli in masse di consumatori, il cambiamento delle prospettive in una curiosa inversione di marcia del futuro oggi più di ieri riconoscibile sol-tanto nel passato. Quale passa-to ci riserverà il futuro? Questo sembra chiedere l’hyppie alla zingara, nel disegno di Bridenne, e la risposta non sembra delle più ottimiste. I fumettari si sa, esa-gerano. Ci sono molte similitu-dini tra gli ottanta e questi anni zero. Il terremoto dell’Irpinia del novembre e l’attentato delle due torri, le rivoluzioni incruente dei paesi del blocco sovietico e le primavere violente del mondo arabo, gli attentati terroristici e le stragi di Ustica e Bologna come quelli terribili di Londra, Parigi, Madrid, la marcia dei quaran-tamila della Fiat e la fine della politica. Però degli anni ottanta che abbiamo voluto ricordare non si deve dimenticare, insieme alla straordinaria stagione arti-stica, quella consapevolezza dei limiti e insieme delle energie da mettere in campo per andare ol-tre. Per andarci insieme. Questo numero è dedicato agli anni ot-tanta di Renata Prunas che ci ha dato la possibilità di mantene-re sempre ben teso il filo rosso che unisce la nostra esperienza a quella formidabile inventata da suo fratello Pasquale nel 1945 tra le mura del rosso Maniero, settant’anni fa quando Sud, il Sud di Luigi Compagnone, Anna Maria Ortese, Raffaele La Capria, Antonio Ghirelli, Gianni Scognamiglio uscì da una tipo-grafia ai piedi di Montedidio. Ce lo racconta lei, ma questo non lo sa ancora. Lo saprà nel momento in cui glielo consegneremo manu militari, naturellement.

Sul finire 2012 quando France-sco Forlani, direttore artistico di Sud, annunciava “artisticamen-te” la fine della seconda serie di Sud – nato esattamente 10 anni prima nel maggio 2003, con il numero “0” uscito come inserto del quotidiano “Il Mattino” nella cifra record di 125.000 copie! – forse e senza forse lo fece solo per darci e darsi una “smossa” tanto che si corresse in corso di stampa, vergando la prima pagi-na con un rassicurante Au revoir!Allora, firmando con Francesco Forlani e il nostro impareggia-bile direttore responsabile Ele-onora Puntillo in terza pagina

RENATA E GLI OTTANTAEleonora Puntillo

IO CI STO...Giuseppe Catenacci

AU REVOIR (2)Francesco Forlani

sione, volendole fare un regalo speciale, decidemmo di dar vita, con il numero che avete tra le mani, alla terza serie di “Sud”.Il numero 1/2015, il primo della nuova serie, esce oggi 15 novembre 2015 e viene presen-tato nell’Aula Magna della Nun-ziatella intitolata a Francesco De Sanctis, esattamente 70 anni dopo la pubblicazione del primo numero della rivista uscito il 15 novembre 1945 e presentata nello stesso locale, allora sede della biblioteca della scuola.A questo punto, cari amici, non ci resta che sperare nella vostra

il mio pezzo, asserivo rispetto a una siffatta eventualità: IO NON CI STO!Il tempo di finire di leggere il numero di chiusura e così, con Eleonora e con quelli di “Sud”, incominciammo da subito a tra-mare per creare le condizioni per un “terza serie” della rivista, che poi era esattamente quello che Francesco Forlani voleva.L’occasione che tutti cercavamo, se volete l’ispirazione per ripren-dere, ce l’ha data anche questa volta un Prunas: Renata, sorella di Pasquale, compiendo i suoi ottanta anni.Infatti tutti noi di Sud per l’occa-

condivisione per la scelta ope-rata di dar vita a un nuovo corso della rivista e nel vostro sostegno nel portarlo avanti!Che questo numero, poi sia con-trassegnato con un 80 in onore degli altrettanti anni di Renata Prunas, come numero 1 della terza serie o con il n. 24 dell’in-tera storia di “Sud” poco impor-ta.L’importante è che siamo tornati e che resteremo!

progetto graficoe impaginazioneMarco De Lucawww.dlassociatesdesign.com

indirizzi redazioni: - via Generale Parisi, 16 80132 Napoli- Libreria Dante & Descartes via Mezzocannone, 55 80131 Napoli

presidente onorarioGiuseppe Catenaccidirettore responsabileEleonora Puntillodirettore artisticoFrancesco Forlanicoordinamento editoriale Paolo Graziano

sud

redazione NapoliLuca AnzaniMartina MazzacuratiFelice PiemonteseDomenico PintoRenata PrunasPaolo Trama

redazione ParigiAndrea IngleseLakis ProguidisPhilippe Schlienger

periodico di cultura arte e letteraturanuova serie n. 80 - novembre 2015

redazione TrentoSilvia BertolottiWalter NardonMassimo RizzanteStefano Zangrando

impianti e stampa La Buona Stampa S. Marco Evangelista (CE)

sud4 80.IERI L’ALTRO SUDAmedeo Messina via Monte di Dio (gli amici abi-

tano quasi tutti dalle parti della Nunziatella) è nominata redat-tore capo; vuole far leggere solo a Pasquale il suo racconto su un amore nato nel deserto africano al ritorno da un campo di con-centramento.Franco Rosi dice che non ne può più della borghesia napoletana che continua a idolatrare i pit-tori dell’ottocento, ma anche di quelli che adesso si inchinano al cosiddetto realismo e non ne può più di bandiere rosse e di fulgi-di destini della classe operaia, dice che l’oleografia proletaria va verso l’immoralità artistica e reazionaria, gli altri dicono di sì, bisogna dargli in testa, speria-mo che capiscano… Franco Rosi vuole occuparsi anche del cine-ma, in America e in Inghilterra stanno sperimentando il colore… gli dicono che non può firmare tutto, solo la sigla agli altri pezzi. Prunas ha un elenco di scrittori

– romanzieri e poeti – stranieri, soprattutto francesi e americani, di cui vuole pubblicare brani o recensioni. E poi c’è una scrit-trice già nota, Annamaria Orte-se, quella che fu premiata per il romanzo “Angelici dolori” nel 1937, che si trova a Napoli, sta cercando casa, forse anche lei sarà fra i collaboratori, è un nome importante.Prunas annuncia che scriverà un editoriale intitolato sempli-cemente e un po’ minacciosa-mente AVVISO rivolto a tutti, soprattutto agli amici comunisti e socialisti che hanno ancora l’aria dei cospiratori e sono guar-dinghi contro ogni novità perché la rivoluzione la possono fare solo loro. L’AVVISO lui intende concluderlo guardando al mondo intero, ha già scritto il poscritto e lo legge quasi tutto: “Una cosa vorrei aggiungere per gli uomini che ci leggeranno, meridionali e non meridionali. Vorrei evitare

l’equivoco di una testata così precisamente localizzata come SUD. Sud non ha il significato di una geografia politica né tan-tomeno spirituale: il Sud ha per noi il significato di Italia, Euro-pa, Mondo… la nostra naziona-lità di meridionali la sentiamo in noi come una condizione di europei. Perché Napoli è Italia, Europa, Mondo, allorché entri nelle coscienze che lo spirito è fuggito alla piccole massone-rie, alla costrizione materiale e morale di un paesaggio per i vieti stati d’animo turistici, all’accettazione supina d’un apparente stato di fatto, alla car-tolina col pino e il Vesuvio che fuma…”La questione soldi: Pasquale comunica che, non bastando a pagare la tipografia del dottor Dino Amodio, il suo misero sti-pendio di impiegato al Ministero per l’Africa italiana (di cui si prevede l’imminente scomparsa) ha venduto il cane, sissignore, un bel cane di razza che il padre gli aveva affidato ma che era diventato insopportabile, gelo-so, appena vedeva che estranei si sedevano intorno al tavolo con Pasquale, cominciava a fare il pazzo. Ha avuto una somma notevole, 5mila 250 lire. E non ha venduto solo il cane: anche qualcosa di oro e altro prelevato in casa.(SUD n. 1 esce il 1 novembre 1945, Quindicinale di Letteratu-ra ed Arte, Lire 20)

OGGI 1

Riunione di redazione di un giornale innominato

Lite violenta fra il caporedattore dello Sport e quello degli Interni: il primo vuole mettere in prima pagina almeno “di spalla” ossia a destra in alto con massima evi-denza a che se a due-tre colon-ne, la notizia che De Laurentiiis presidente del Napoli non vuole vendere Hamsik e che Berlusco-ni presidente del Milan invece vorrebbe il ritorno di Kakà al Milan. Quello degli interni urla che la gente vuole leggere solo gli scandali, sesso e mazzette: quindi se di Berlusconi si deve parlare, il titolone va fatto su Arcore-Hardcore, su Lele Mora ed Emilio Fede, sulle ragazze e sui regali, quindi niente Berlu-sconi sportivo “di spalla”, che se lo tengano nello sport.Il Direttore impone il silenzio e decide: è vero, la “ggente” com-pra il giornale per sapere quante volte Berlusconi ha fatto bunga-bunga perciò non si discute.C’è la protesta dei ventimila insegnanti che perdono il posto: pagina internaCi sono quegli operai sulla gru da quindici giorni che non scen-dono e dormono lassù, le moglie e i figli li guardano e talvolta piangono si potrebbe fare un bel servizio su lavoro sindacati crisi… No niente da fare, pagina interna poche colonne sia pure in alto, un paio di foto al massimo ma niente interventi dei sindacati che stanno sullo stomaco a tutti.

IERI 1

Riunione di redazione un gior-no di ottobre 1945 in casa del comandante della NunziatellaLa città semidistrutta è occupata dagli Alleati. La guerra continua a nord, Poche scuole riapertei napoletani cercano dispera-tamente lavoro comunque; il fotografo Antonio Grassi con amico biondo in divisa tedesca e un rotolo di filo spinato fa foto ricordo di militari USA col fucile spianato che catturano nazista (l’amico biondo) con le mani in alto che esce da dietro una trin-cea (muretto di palazzo distrutto dalle bombe).Raffaello Causa con un trom-bone e molti altri con altri stru-menti fanno finta di suonare nell’orchestra al San Carlo tanto nessuno se ne accorge, in platea i militari fanno un gran casinoArmando De Stefano suona jazz in un locale notturno e di mattina fa i ritratti agli ufficiali inglesiDiscussione molto accesa in casa del Colonnello Oliviero Prunas (da sempre antifascista, non ha fatto molta carriera per questo, ha una biblioteca assai ricca, inusuale per un militare) coman-dante della Scuola Militare Nun-ziatella. Un suo lavoro teatrale è stato molto apprezzato da Piero Gobetti, al quale l’ufficiale lo aveva mandato senza “racco-mandazione”. Il figlio Pasquale, ventenne, appassionato di gior-nalismo e di grafica editoriale, ha radunato suoi amici e ha detto che bisogna partire con questo giornale che lui da un pezzo sente di “portare nella pancia”.Luigi Compagnone è d’accor-do, vuole fare un editoriale di invettiva contro quelli della sua età che se ne stanno andando da Napoli, stanno fuggendo perfino in America.Maurizio Barendson ha in mente una riflessione sugli artisti che devono piantarla col romanti-cismo e occuparsi della realtà sociale e dei problemi del dopo-guerraIl fotografo Grassi dice che può fare foto ma per ora poche, per-ché sta per finire il grande rotolo di pellicola che aveva trovato buttato fra i rifiuti del coman-do inglese, dove lavora; mostra ridendo il cappotto militare inglese che gli ha regalato l’am-miraglio Cunningham e racconta perché: nel deposito di munizio-ni a Rivafiorita era scoppiato un incendio su un camion carico di munizioni, tutti fuggivano, poteva saltare in aria tutta la collina di Posillipo, lui aveva tolto il freno ed era saltato giù mentre il camion finiva a mare, per la paura quasi se la faceva sotto… anzi, era corso a casa a cambiarsi.Gianni Scognamiglio il poeta che non guardava le donne ma ormai sposatissimo con la sua Lorenza ha portato una poesia di Pierre Emmanuel e un com-mento: è un dialogo fra il Papa e il PopoloPasquale Prunas ha due poesie e una lettera (al fratello Luigi) di Giaime Pintor, morto sfracellato

su una mina mentre tentava di arrivare a Napoli a piedi, dopo aver consegnato messaggi e armi a una formazione partigiana nel Lazio.Antonio Ghirelli, proprio lui che un paio di mesi fa aveva scritto su L’Unità che tutto il nostro gruppo era “contro il Partito, la disciplina, la speranza che ci siamo liberamente dati”, ci ha ripensato e vuole collaborare: ha preparato un racconto su quello che si prova vedendo Napoli da lontano che sembra uguale, e avvicinandosi si scopre una real-tà terrificanteGiuseppe Patroni Griffi (che già ha trovato casa a Roma, dove si trasferirà fra poco e da dove dice di voler fare corrispondenze) ha scritto un racconto sulla morte di suo padre quando lui era un ragazzo e sul bellissimo Ansel-mo che lui aveva spiato a far l’a-more con la figlia del portinaioCarla De Riso, la bellissima di

foto di Bob Noto

sudRIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA 5Il direttore si raccomanda: scri-vere al meglio, letterariamente parlando, la “gggente” ossia i lettoriè meglio che si perdano sulla bel-lezza delle parole, sulla sintassi acrobatica, sulla foto che è tanto grande che si piglia mezza pagi-na, sul disegnone che va da una pagina all’altra, così la notizia di merda diventa una gran cosa…Il Direttore si raccomanda pure di insistere col suscitare polemi-che, macché dibattitiiiii! Devono essere litigi sciarre sceneggiate anche a male parole fra esponen-ti politici, sennò la gggente non si appassiona e legge solo i titoli. Appena uno dice qualcosa tele-fonate al suo avversario chieden-do di rispondergli per le rime…e continuate così almeno per una settimana: si può fare partendo da quello che ha detto il sindaco alludendo al capogruppo della minoranza che alludeva al vice-sindaco quando ha parlato della questione edilizia alludendo a quel tal costruttore che…

IERI 2

Riunione di redazione in casa del comandante della Nunziatella a metà dicembre 1945

Il Numero 1 di SUD ha venduto bene, e non c’è un errore di stampa, tranne quel “Rosellini” che sembra fatto apposta per-ché ripetuto sempre con una “s” mentre Pasquale sa bene come si chiama quel regista, solo che per tutto il pezzo “ciacca e medica”, si tratta del film “Roma città aperta” con la Magnani. La riu-nione stavolta è proprio esigua, ma nei pochi presenti l’entusia-smo è notevole.Ora bisogna mantenere le pro-messe, Pasquale ha parecchio materiale per il secondo numero, sì, vuole vedersela proprio lui e dare il tempo agli altri di elabo-rare qualcosa di nuovo. Ci sono un sacco di lettere di consenso, la gente ci ferma per la strada per dire che sono d’accordo, la reda-zione non nasconde l’entusia-smo anche se stavolta la riunione è molto ristretta: molti sono al lavoro per sbarcare il lunario, il fotografo Antonio Grassi ha mandato una foto molto “bru-ciata”, si vede un vicolo con una bottega di indumenti usati e due bambine sull’uscio e un porto-ne con l’insegna “Ostetrica”, è molto scura, ma con lo scarto di pellicola inglese non si può poi fare molto di più, e Prunas dice che la metterà su un suo pezzo che parla del cinema francese e dell’ispirazione di Zola, insom-ma un richiamo fotografico alla miseria, ai bassifondi, alla con-dizione attuale della città.Giuseppe Patroni Griffi da Roma ha mandato un servizio sulla rea-zione “quacchera” del pubblico che ha più volte interrotto lo spettacolo “Adamo” di Marcel Achard per la regia di Luchino Visconti. Proteste e indignazio-ni perché si parla di un uomo che abbandona la sua donna per andarsene con un amico: è acca-duto che contro i disturbatori si sono scatenati i sostenitori e la piéce – assolutamente modesta nei contenuti e con recitazione reticente – si è concluso con grandi applausi e ripetute chia-mate, tutto eccessivo e immerita-to. Patroni Griffi ha m,andato la seconda puntato del suo raccon-to “ritratto di giovane”, Prunas annuncia che farà un editoria-le sulla crisi del cattolicesimo visto che Raffaele La Capria ha portato un poemetto a più voci intitolato “Cristo sepolto” in cui rappresenta Cristo che un giorno

dell’anno 1943 (quello dei cento bombardamenti a tappeto sulla città) passa nella galleria della Metropolitana dove a migliaia hanno cercato scampo, e invo-cano imprecano piangono e Cri-sto chiede al padre di lasciarlo vivere tra loro. La Capria ha portato un saggio su Christopher Isherwood, così si può iniziare una rubrica di letteratura stra-niera.Anche Tommaso Giglio, un altro di quelli che se ne sono andati a Roma e che anzi annuncia che si trasferirà a Milano, ha mandato un bella poesia “Ballata d’amore e di morte”.Grande notizia: Prunas annun-cia che è arrivato il racconto di Ghirelli “Città del Sud”, e che lui cercherà di incontrarlo per capire che cosa si dice nel Partito Comunista di Sud e del gruppo. C’è silenzio da quelle parte, e la cosa è preoccupante. (SUD n. 2 esce puntualmente il giorno 1 dicembre Quindicinale di Letteratura ed Arte Lire Venti)

OGGI 2

Riunione di redazione in un giornale innominato

Il direttore s’è convertito al nuovo verbo di chissà chi e ha deciso che il quotidiano deve diventare sempre più una rivista quotidiana come un settimana-le o un quindicinale che però esce ogni giorno e però deve anche insistere sui fatti politici e quindi l’approfondimento deve sembrare tale ma dati i tempi di lavorazione del quotidiano deve per forza essere veloce e poco….profondo, visto che non c’è tempo per approfondire…! E poi nessuno faccia la lagna che stiamo ripetendo sempre le stesse cose: da quando una ven-tina di pagine sono dedicate al superpresidente, alle sue ville, alla moglie che vuole divorziare e vuole qualche miliardo in più, le vendite sono alle stelle e la pubblicità pure. Il presidente ha detto che l’oppo-sizione vuole mandarlo a casa, e lui non ha che il problema della scelta, visto che ne ha sei di case, anzi grandi ville, sparse per il mondo. E dov’è la notizia?Sissignore, è una affermazione cafona e oscena a fronte di tanta gente che paga l’affitto, ma non avete sentito l’applauso dell’inte-ro auditorium quando lui ha detto quelle parole? Leva da mezzo…! Non facciamo moralismi inutili che nessuno se ne frega… Vede-te di intervistare qualcuna delle ragazze, se non vogliono, inter-vistate il portinaio, se non c’è lui che parli sua moglie o suo figlio o uno della casa di fronte che ha visto il viavai di automobili.E cercate bene che non ci sia di mezzo anche qualche trans, non vi dimenticate come è andata l’altra volta con quel presidente della regione. I trans c’entrano sempre. Non si sa ancora chi ha ammazzato l’amica del trans? Bisognerebbe sollecitare chiede-re a che punto sono le indagini? E chi se ne frega, mica è uno scandalo sessuale, non ci sono mogli che scoprono con chi sta-vano e scappano.Piuttosto: è scomparsa una ragazza in un paese del Nord, sicuramente l’hanno uccisa, sicuramente l’hanno violentata in chissà quanti, sono extraco-munitari, se non sono africani sono sicuramente napoletani o calabresi, almeno otto pagine piene di foto voglio un grafico in cui si veda la casa, la distanza dalla palestra dove è stata vista la ragazza, intervista ai genitori ai nonni ai fratelli ai cugini ai

vicini al prete , poi l’elenco dei precedenti di ragazze uccise da extracomunitari, da napoletani e da calabresi. No, niente allusioni a Cogne con quella mamma che nega di aver massacrato il figlio, quelli non sono meridionali. No, niente statistiche delle ragazze scomparse nel nulla al Nord, perché quelle che scompaiono al Sud sono sicuramente di più ma non ci sono dati ufficiali a conferma.Lo so che siamo un giornale che deve occuparsi anche di cultura, ma come, ci diamo una decina di pagine al giorno alla cultura! E non è vero che siamo ripetitivi: certo, Vittorio Sgarbi che fa il pazzo domina, ma il giornale si vende anche per questo. Certo l’arte moderna bisogne-rebbe spiegarla un po’ meglio, ma poi va a finire che le gallerie non ci danno la pubblicità, togli di mezzo sta storia. Ah, il famoso critico ha detto che quando un autore moderno muore le sue opere deveono esse-re sepolte con lui, visto che solo con lui vivo significano qualcosa e si vendono? Mi pare proprio che ha ragione, chissà come gli è scappata questa affermazio-ne… Si vede che lui sa bene come stanno le cose, accidenti! Sono certo che non ripeterà mai più il concetto. Leva da mezzo sennò perdiamo la pubblicità dei Musei.Inchieste?, denunce? La gente ne ha piene le palle. Fatemi vedere queste segnala-zioni. La compagnia telefonica fa fun-

zionare male il server per indur-re l’utente a chiedere aiuto e a pagare 30 euro per la verifica e sentirsi dire che il problema è del suo computer mentre invece è del server che infatti torna a funzionare bene poco dopo. 30 euro per una verifica sono una bella somma… Però le pagine intere di pubblicità chi ce le dà, l’utente o la compagnia? Leva da mezzo!La compagnia di comunicazione ha cancellato dagli elenchi tele-fonici un sacco di nomi e numeri: hanno chiesto, con una lettera in linguaggio politichese e citando articoli e leggi, se volevano tute-lare la loro privacy, tutti hanno risposto di sì, mica potevano capire che significava cancel-larsi dall’elenco. E infatti gli elenchi telefonici hanno fatto la cura dimagrante. E sulle “Pagine bianche Ondine” quando chiedi un nome o un numero esce sem-pre risposta negativa, ma intanto la richiesta l’hai pagata cara… Sì, ma chi ci fa la pubblicità? Leva da mezzo!La compagnia ferroviaria ha can-cellato dagli elenchi i suoi nume-ri, non si può più chiedere orario o informazione? Che imparino tutti a usare il computer. Anche i settantenni.Leva da mezzo!E poi adesso tutti vanno in auto-mobile. Oggi abbiamo otto pagi-ne di speciale motori.

IERI 3 Il Numero doppio, 3-4 di Sud è uscito in ritardo il 15 gennaio

1946, non c’è stata riunione di redazione prima, s’è visto tutto Pasquale Prunas l’infaticabile, ma è addirittura di 12 pagine ed è davvero strepitoso!Lo dicono tutti nella riunione dopo l’uscita, una delle tante occasioni di vedersi e parlare e ascoltare.Tommaso Giglio ha scritto da Milano parole commosse, giu-dizi entusiasmanti, ha riportato anche quello che ha sentito in giro, perfino da Roma: “Il terzo numero è un capolavoro, sono contento, ti dico che qui sono tutti contenti e ripetono che a Milano non sono stati capaci i giovani di fare una cosa come questa… Sono commosso per questo che sei riuscito a fare nel sud, a Napoli, nella nostra città…Intanto sento che a Roma hai riscosso molto successo tra i letterati. Mi dicono che Bigia-retti, Sinisgalli, Luchino Viscon-ti, ammirano il tuo giornale. Le mie congratulazioni. Davanti al coraggio che hai avuto tu nell’inferno di Nespoli, ci si sente veramente commossi”. E’ un numero tutto dedicato alla poesia, con una bellissima composizione di Luigi Com-pagnone “Napoli 1944” scrit-ta poco dopo l’insurrezione di fine settembre 1944, la fuga dei tedeschi inseguiti dai com-battenti napoletani e l’arrivo – finalmente! – degli alleati il primo giorno di ottobre.“Questa è la mia città senza grazia/qui gli uomini vivono dannati/ in una feroce tristez-za.” Sono i primi tre versi, forse

rimarranno per sempre. Al di sopra c’è uno splendido disegno al tratto l’autore è M.A. Mac Donald, forse uno pseudonimo.“Momento polemico della poe-sia è invece il titolo di apertura, a firma di Tommaso Giglio, e poi dentro ben tre pagine, ha fatto tutto Raffaele La Capria: un lungo saggio di Poesia ingle-se contemporanea con brani di Tomas Stearns Eliot, William Auden, Stephen Spender, Cecil Day Lewis, Dylan Thomas , i versi li ha tradotti lui stesso, proprio belli. Ma come ha fatto ad avere tutta quella roba scono-sciuta o quasi in Italia? Dudù – così lo chiamiamo tutti, gli amici e a casa, mentre suo fratello più piccolo Peppino viene chiamato Pelos – ha detto d’aver conosciu-to un ragazzo americano in una libreria, cercava poesie di Rilke, avevano preso a scambiarsi i libri. Ecco perché.Luigi Compagnone s’è anche scatenato con una intera pagina su Franz Kafka di cui è usci-ta finalmente la ristampa de Il Processo. C’è un nuovo col-laboratore, un giovane capace che ha tradotto un racconto di Thomas Wolfe, si chiama Ennio Mastrostefano, lui e la sorella di Pasquale, Chicca, si guarda-no intensamente, il giovane non manca mai agli incontri, è stato fra gli organizzatori della proie-zione privata del documentario inglese “The true Glory” gentil-mente concesso dal British Infor-mation Office. E prossimamente Sud proietterà “un importante film in prima visione assoluta per l’Italia”: così dice lo stel-loncino, mantenendo il mistero sul titolo.Molto affollati, per fortuna, anche i balletti, ossia le feste danzanti con offerta a piacere per SUD che si fanno nel bel salone della Nunziatella, un balletto fece incassare oltre 20mila lire.

OGGI 3

Riunione di redazione in un periodico innominato

DIRETTORE: bisogna insiste-re su questa storia del nucle-are e del petrolio. No, sorry, del petrolio meglio che non se ne parla perché ‘sto Gheddafy potrebbe tirare fuori che lui è socio di qualche presidente del consiglio… l’hanno già scritto? Meglio così, ci hanno dato un buco e non ce ne frega niente così noi possiamo insistere sul nucleare che non è inquinante come il petrolio e forse sarebbe meglio non farsi prendere dalla paura peerò il petrolio serve sempre…C’è ‘sta storia della fusione fred-da, che costerebbe molto più poco, energia da potersi produrre addirittura in piccolissimi impian-ti…mi sembrano tutte balle.Chi ce la da la pubblicità, l’ente del petrolio o i quattro scienziati pazzi della fusione fredda?E quelli del solare e dell’eolico e roba varia ce la danno la pubbli-cità? No. Allora togli di mezzo!Come sta la situazione della munnezza a Napoli? Sempre peggio. Bene, tutte le foto pos-sibili, insistere che la colpa è del Comune, anzi di Bassolino alla Regione… come? Sono due anni che lui non c’è…! Giusto! allora niente colpa della Regione, la munnezza devono tenersela in casa, meglio un bel servizio su quel che dice quel comico urlan-te, Grillo, sì, sì, quello ha avuto un bel po’ di voti meglio dargli un po’ di spago. Chi è che propone un ragiona-mento sugli inceneritori?

foto di Bob Noto

segue a pag.23

sud6 80.

Marco CingolaniL’attentato al Papa, 1990

GLI ANNI ’80 COME

CAPRO ESPIATORIOGiulio Ciavoliello

Un amministratore pubblico nonché parlamentare europeo propone in televisione un bonus rivoltella, mostrando l’arma, in-vitando i cittadini a farne uso in caso di necessità. La sospensione della fruizione di un monumento a causa di un’assemblea sinda-cale viene stigmatizzata mentre non accade altrettanto se la fru-izione di un altro monumento viene sospesa perché affittato a un’azienda privata. La traversata a nuoto dello stretto di Messina da parte di un esponente politi-co porta voti al suo partito. Un sindaco censura una mostra in cui si mostrano grandi navi che attraversano il centro storico di Venezia, lo stesso che propone di vendere capolavori per rimediare al deficit di bilancio del comune. Nel comune di Sanremo molti di-pendenti fanno timbrare il cartel-lino a colleghi, percependo uno stipendio che casomai retribuisce anche gli straordinari. Potrebbe continuare all’infinito l’elenco di episodi che attestano la degenerazione della politica in spettacolo, l’utilitarismo diventa-to dogma, l’ingenuità dei cittadi-ni, l’incapacità di reagire e anche solo di riflettere adeguatamente, la presunzione di essere furbi e di non passare per fessi. Molti intellettuali collocano ne-gli anni Ottanta l’inizio di tale processo, l’origine della tragedia, quasi la causa di una serie di tra-gedie in quel decennio.Quegli anni li ho vissuti da adul-to giovane, con consapevolezza

e gioia di vivere. Vi sono en-trato con un bagaglio di espe-rienze limitate ma significative degli anni Settanta, avendovi frequentato scuola superiore e gran parte dell’università. Una volta laureato, proveniente dalla provincia campana ho vissuto “la Milano da bere”. In questa città, come nel resto dell’Italia, molti come me hanno agito mettendo insieme dovere e piacere, co-struzione ed evasione, consumo e conoscenza, fra trasmissione di contenuti e abbandono all’in-trattenimento. La partecipazione politica si riduceva, il dibattito su molte questioni veniva meno perché ritenuto non più vitale. Del resto la stanchezza rispetto a determinati rituali si avvertiva da tempo. Vi ricordate il dopo spet-tacolo in Io sono un autarchico di Nanni Moretti, l’insofferenza per il dibattito? Il film è del 1976. Si è parlato di “riflusso” per indi-care una regressione dal pubbli-co al privato, dall’essere all’ap-parire, dall’impegno per grandi cambiamenti alla cura di sé e dei propri interessi. Ragionare per opposte polarità può servire come semplifica-zione, per riconoscere meglio il prevalere di determinate tenden-ze. Ma ragionare in tal modo non serve perché non si colgono a pieno complessità dei fenomeni, positive contraddittorietà, ambi-valenza di tante situazioni. Molti hanno confuso la superficie con la superficialità, la leggerezza con l’inconsistenza, l’attenzione

Il fondo può essere osservato, rag-giunto soltanto grazie a un trans-, unattraverso, grazie a cui apparire, essere visto o pensato. Abita sem-pre dietro, o sotto; ha l’abitudine di non essere mai sottomano né a prima vista. Così il fondo è da raggiungere, svelare, avanzando o scavando. (Lo si avvicina per passione ma poi lo si tocca per disperazione. E poi qualcuno, una volta toccato il fondo, comincia a grattare...). Ma allora, ciò che traspare e il trasparente? E invece no, per il momento ciò che viene alla luce, che traspare, è solo apparente (ma qui, una volta tanto l’apparente sta dietro, sul fondo, non davanti, sul-la superficie)…Schermatura, difesa, protezione; ri-paro e custodia per ciò che, di sotto, appare. Dalle vetrine dei negozi, dei mobili, delle sale di esposizione alle veline e alle so-vraccoperte trasparenti dei libri, al vetro o al cellophane per alimenti … La vita stessa può entrare tutta in una sfera di cristallo. Quando invece interessa guardare nelle oscurità e tra le veline del presente e del passato (le cataratte del pote-re o i suoi fantasmi, trasparenti e invisibili) è la politica a mostrarsi cristallina, pulita, trasparente, dal-lo sguardo lucido e dai Palazzi di Vetro. Qui le idee, i programmi e i discorsi si propongono chiari nel-la sostanza e trasparenti nella for-ma, come in quei souvenir in cui entrano città da ammirare e capo-volgere o come, ancora meglio, negli oggettini di vetro soffiato, fatti solo d’aria e di superficie trasparente. Invece della materia oscura, il “soffio creatore” model-la ora il vetro, l’aria stessa sembra

coprirsi di vetro assumendo for-me precise: pensieri soffiati, idee divenute cristallo fragile (La fra-gilità diventa poi fatalità quando si pensa alle bolle di sapone...).Nella “civiltà del plexiglas” lo schermo è il vetro del televisore, del monitor, di un microscopio, ma è anche la lastra di una ra-diografia e, perché no, i finestrini di un treno o di un pullman per viaggi organizzati. Lo schermo trasparente è schermo proprio in quanto nello stesso tempo avvici-na e separa, rende visibile e irrag-giungibile, allontana un mondo facendolo familiare e quotidiano. Un rapporto con le cose fondato sulla familiarità con l’intangibile, con particolari effetti sulla nostra percezione del desiderio e del suo dileguarsi. E’ da questo fondo che traspa-iono le ragioni di un fallimento. Dal programma hegeliano della realizzazione dello spirito asso-luto, della piena autotrasparenza della ragione - condizione eman-cipata e disalienata dell’uomo, annullamento del limite tra teoria e prassi, tra fatto e valore - l’u-topia occidentale dell’assoluta “autotrasparenza” ha scoperto l’impossibilità della propria defi-nitiva realizzazione proprio nella società contemporanea in cui, pa-radossalmente, la tecnologia sem-bra da una parte rendere possibile il “punto di vista di un soggetto centrale” - la trasparenza di una storia universale - costituendo invece, per una sorta di entropia, una moltiplicazione e stratifica-zione di centri di storia, cioè di sguardo e di discorso.Hanno molto successo, intanto, quegli orologi da polso il cui ve-tro non protegge più il fondo-qua-drante ma lascia trasparire, come la sabbia nella clessidra, tutta la verità degli ingranaggi e dei mec-canismi...

alle apparenze con l’assenza di idee. Considerare un decennio in ter-mini univoci è un errore, sempre, che si verifica anche nel caso de-gli anni Ottanta. Serve a mettersi in fuga rispetto a responsabilità che sono politiche e di ogni in-dividuo, come cittadini, come consumatori, come telespettatori. Succede così che pochi si senta-no coinvolti nell’aver accettato che una cosiddetta Seconda Re-pubblica abbia sistematizzato e perfezionato molte patologie della cosiddetta Prima Repub-blica. Continuiamo a rimuovere alcuni aspetti. Non c’è una nor-mativa che affronti i conflitti di interesse. Tutti si sono arresi alla rivincita del caporalato. Conti-nuano ad essere ammesse le so-cietà segrete. E l’elenco potrebbe continuare.Quando collochiamo negli anni Ottanta l’origine del male, rive-liamo la necessità di trovare un capro espiatorio per negatività di allora e successive, cui contribu-iamo e davanti alle quali faccia-mo finta di niente o blateriamo.

Però la trasparenza è protezione considerandola nell’accezione(e anche l’ “accezione”è superficie in sovrapposizione)…ricominciamo: però la trasparenzaè protezione, considerandolanell’accezione di superficie di funzioneovvero elemento di stratificazionea schermatura e quindi protezionetra un punto dato di osservazionee un fondo-merce in esposizioneper esempio la vetrina di un negozioo la velina, il cellophaneculturale intorno a libri,CD, DVD, polli, peperoni…quella trasparenza che evidenzia(per una certa sua luminescenza)con che cura e che attenzionepreserviamo integrità, purezzae pulizia. Capito, sì, com’è?...Tu mi dirai… La polvere, dirai…Appunto, l’altro strato, insommal’attentato alla trasparenza.Ma ci si passa il panno,il piumino, lo scopettonesulle cose polverose:è questo che intendiamoper passato: lo straccioanche di prova che noi siamopolvere da rendere al mondoma, intanto che ci siamo,anche da togliere: così noirinveniamo (ci facciamo vivi)nel rinvenimento delle forme velatedalla polvere o in polvere ridotteo frammentate, che ricomponiamo(come fosse un nostro compimento).Insomma, togliere la polvereè restituire le mancanze a noi.E l’evidenza di quel che mancaè, in ultimo esempio, trasparenzaovvero tratto limpido d’unionetra noi e il consumo, tra noie la messa in mostra e in attrazioned’ogni cosa di là da…Così l’acquirente credeche questa sia quell’altra vitae tocca in questa il fondo senza fondo

della ripetizione dei bisogni.Ma la polvere che balla di trala trasparenza illuminataè la più persuasiva illustrazionedel pensiero che fa una pensataleggera come polvere che balla,svelata dalla luce di traverso.È questo il ballo: che tuttoil resto è volentieri perso.L’umanità non ha che gli occhi lucidi,non chiede altro che la commozioneovvero quelle lacrime che a strati,prima di cadere, fanno brillare gli occhicome cristalliere, e in quelle sfereentra la vita come nelle palle,due palle così d’occhi,come i tuoi occhi che mi fannodue palle di sguardo addossoquando tu mi guardi.E io cosa posso?Nient’altro che esserechiaro nella sostanzae trasparente nella formaper il tuo sguardo lucidoe faccio anch’io le palledi vetro, di sapone,di mio cristallo fragile:sono limpido, chiaro, precisose la fragilità (ossia la propensionealla lesione, alla frammentazione)è il nulla da nascondere (si notiche gli autori frammentariprediligono le frasi scrittebrevi come labbra, aperte, di ferite)ovvero tu puoi romperee io ti posso romperee noi possiamo romperele nostre palle fragiliBene, balliamo,

DI LÀ DAPasquale Panella

ABISSI SUPERFICIALILucio Saviani

sud 7RIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA

Un giorno ho incontrato il gran-de Jaufrè, come lo chiamava Montale:

Jaufrè passa le notti incapsulatoin una botte. Alla primalba s’alzaun fischione e lo sbaglia. Poco dopo c’è troppa luce e lui si ri-addormenta

Quando un incontro importante resta unico, ogni gesto, ogni pa-rola, ogni dettaglio della scena prende un’aria poetica.

Era l’estate del 1982. Non avevo ancora diciannove anni. Ero seduto al bar della piccola stazione di San Donà di Piave. L’eterna provincia veneta! Aspettavo un treno per Venezia, concentrato sulle Poesie d’a-more di Nazim Hikmet, il poeta turco, amico di Majakavoskij. Leggevo un rubai (molto tempo dopo ho appreso che si trattava di una forma metrica tradizio-

nale arabo-persiana), scritto da Hikmet nel 1933 a Istanbul, esattamente trent’anni prima di morire stroncato da un infarto sul pianerottolo del suo apparta-mento moscovita. Estate del 1963. L’estate in cui sono nato. Coincidenze. La fame di coincidenze è il pane quotidiano della giovinezza. Ne ricordo una quartina:

Finito, dirà un giorno madre Naturafinito di ridere e piangeree sarà ancora la vita immensache non vede non parla non pensa

Versi semplici, epici, antichi che cantano ciò che gli antichi poeti hanno sempre cantato: l’amore per la vita, l’inesorabilità della morte, l’amore, nonostante tutto, per la «vita immensa» dopo la nostra morte.All’improvviso una domanda. «Poeta?». Un signore sul-la cinquantina, dal volto un po’ sofferente e con un brac-cio ingessato, si avvicina al mio tavolino e, dopo un mo-mento d’esitazione, si siede. «Chi io?», faccio imbarazzato. «Beh, non vedo in giro nessun altro giovane Nazim? Le piace-rebbe diventare come lui?». «Qualcosa scrivo», rispondo. «Sa, ha avuto una vita avventuro-sa e difficile, battaglie politiche, esilio, condanne, anni di carcere, grandi lontananze, pochi ritorni. Ma è rimasto giovane fino alla fine, in colloquio… Scusi, mi pre-sento, sono Goffredo Parise, forse ha già letto qualche mio libro?». «Purtroppo no». Vorrei non es-sere lì. Mi salva il frastuono di un treno merci. Faccio però in tempo a notare nei suoi occhi un lampo di tristezza. «Forse lei è troppo giovane. Di che anno è?».

«1963. Proprio l’anno in cui Nazim Hikmet è morto: angina pectoris. Il 1963 è anche l’anno delle Furie». «Quali furie?», domando. «Il romanzo di Guido Piovene che ho amato molto e su cui ho anche scritto. Era piuttosto un so-gno. Ma Piovene oggi è dimenti-cato. Un vicentino come me, ma non proprio uno scrittore italia-no… Non lo conosce, vero?».«No». Il mio Trieste-Venezia era proba-bilmente già passato. La persona che doveva venire a prendere Parise e accompagnarlo in auto alla sua casa di Ponte di Piave tardava. Il dialogo durò non so quanto tempo. E sempre con lo stesso schema: il grande Jaufrè esponeva il tema: la malizia vi-centina – di cui era impregnata l’opera di Piovene –, la vita e le case sul Piave, Roma, la fatica dei Sillabari, i premi letterari, lo Strega che aveva appena vinto, il

Viareggio del 1963 che per ragio-ni politiche Piovene non aveva vinto, la «poesia che va e viene», la pigrizia produttiva dell’artista, le difficoltà del nuovo romanzo, ripreso dopo tanto tempo, «Il faut avoir une idée, mais une idée va-gue», come ha detto Picasso, l’ultimo viaggio in Giappone, Kawabata: «Legga assolutamen-te Kawabata. Ma fra vent’anni», La casa delle belle addormenta-te, la giovinezza, la vecchiaia. E il piccolo Nazim nella sua vita immensa e immensa ignoranza...Non c’era ostentazione nelle sue parole. E neppure l’ombra del maestro cerca-discepoli – «la poesia non ha eredi». Lo scrit-tore era semplicemente in collo-quio, cioè era rimasto giovane. «Incapsulato» nella botte di un corpo sofferente, precocemente invecchiato (solo molto tempo dopo avrei saputo delle operazio-ni al cuore, l’insufficienza renale, la dialisi), era in contatto perma-nente con la «vita immensa, che non vede, non parla, non pensa», che è oltre la desolazione per la nostra morte, che è amore, no-nostante la nostra morte. E se a, volte, il contatto veniva meno, se l’ex cacciatore per «troppa luce» si addormentava, il suo fiuto per la bellezza in ogni caso non lo tradiva: avrebbe sentito «l’odore del sangue» di un artista-fagiano a chilometri di distanza.Oggi, se non conosco che un solo romanzo di Piovene, lo devo al fatto che sono rimasto fedele a quell’incontro con Parise, troppo intenso e irripetibile per permet-termi di allontanarmi dalla solita fame di coincidenze. «Piovene è uno scrittore impor-tante, ma allo stesso tempo lo sento lontano».«Lontano da cosa?». «Dalla riserva di caccia dei miei temi».

«È stato se non sbaglio proprio Piovene che a proposito delle Furie ha detto: “Lo ritengo netta-mente il mio migliore romanzo e quello che ha approfondito certi motivi che sono costanti fin dal-la mia giovinezza; giacché anche questo vorrei aggiungere: l’uomo si accresce, si accresce per acquisi-zioni critiche, per indagine intellet-tuale, ma quello che sono i motivi fondamentali della poetica e anche della poesia di un artista sono sem-pre gli stessi”». «Sì, è vero, l’uomo s’accresce, s’accresce, ma per quanto il nostro colloquio silenzioso continui nel tempo, gli elementi arcaici della natura, i colli, l’odore dei corpi, le formazioni e le deformazioni della bellezza umana che per la prima volta ci sono venuti incontro, si ostinano a compiere giri concen-trici sopra le nostre teste incappuc-ciate. Come folaghe o fischioni a cui continuiamo a sparare finché non ci addormentiamo…».

«Come uno dei temi di Piovene: la mente che mente a se stessa senza rendersi conto di mentire». «In altre parole la malitia. Ah la tradizione cristiana! I Padri della Chiesa la definivano un ambiguo e incoercibile desiderio-repulsio-ne (beh, forse non utilizzavano proprio queste parole…) nei con-fronti del bene in quanto tale».

«Questo non fa di Piovene uno scrittore cattolico, né uno scritto-re religioso, se non di quell’uni-ca religione possibile – come ha scritto Parise: quella della verità». «Sì. Ma ricordati che la religione della verità, nell’interpretazione di Parise, era ciò che per Piovene l’uomo moderno ha perduto, ciò in cui non riesce più a credere. È cenere di un fuoco che si è spento chissà quando e che ricopre i no-stri volti decrepiti». «L’arte non può raccontare che il male, perché esso solo, per così dire, ha materia, pervade i nostri appetiti e i nostri pensieri. Queste sono ancora parole di Guido. Che ne pensi?».«Non so. Mi chiedo: da dove vie-ne il male per uno scrittore che non crede in Dio? Dov’è il male per chi non può cadere nel bara-tro agostiniano dove nessuno ti confessa?». «Parise diceva che la risposta po-teva forse trovarsi tra “il tortuo-so, labirintico e solitario lavorìo del cervello”, proprio della “vi-centinità”, intesa come “mono-maniaca aspirazione al perfetto” e l’Europa centrale di Kafka ri-bollente di letture talmudiche e cabalistiche». «Detesto l’eterna provincia vene-ta! Detesto il marchio minorita-rio per gli scrittori di razza! Non ho mai letto Kafka seguendo in-terpretazioni talmudiche o caba-listiche. E nemmeno Svevo. Gli ebrei esistevano solo per Hitler.

E poi dov’è il senso della forma, lo humour in Piovene? Sei pro-prio sicuro che la sua visiona-rietà coincida con la fusione di reale e inverosimile che Kafka è riuscito a realizzare? E quella sua promiscuità spesso comica, sei davvero in grado di ritrovarle nei romanzi di Piovene? E il riso di Zeno che gioca con la propria coscienza lo senti risuonare tra i colli veneti?».«La confessione di Zeno è una bouffonnerie». «Appunto. Mentre la confessio-ne è per Piovene la forma assolu-ta, per giungere a una definizio-ne dell’autenticità, della verità. Non sono sicuro che in essa non ci sia più traccia delle domande agostiniane. Magari attraverso il binocolo de l’esprit géométrique del giustiziere settecentesco, per dirla ancora con Parise».«Il senso della corruzione dei corpi e dell’immaginazione che li rendi visibili, compensati e

giustiziati dalla passione intellet-tuale che li dissolve».«Sì, ecco. Oppure la necessità dei fatti, unita all’impossibilità o difficoltà di accedere al perso-naggio: chi sono Angela, Teresa, Antonio, la donna che si chiama “la pianta acquatica” se non ri-velazioni di questa impossibili-tà?».«La malizia vicentina unita alla malitia, figlia di acedia di Agostino, entrambe figlie ille-gittime della passione clinica di sezionare con l’intelletto i corpi in eterna decomposizione delle furie private, storiche, mitiche». «Forse. Ma c’è anche un’al-tra possibilità: che il male di Piovene sia ancora quello di Baudelaire, che la sua malitia sia un’ulteriore metamorfosi de l’ennui, che la forma della con-fessione sia il campo di battaglia di una lotta mortale per trasfor-mare la malitia in qualcosa di positivo. Qualcosa, comunque, che non ha niente a che vedere con lo snobismo».«Ma con il decadentismo sì».«Mah! La letteratura moderna è tutta decadente! Fino a Flaubert rappresentava un tutto: era uno dei rami della vita, della società, come la politica, la Borsa. Poi ha cominciato a perdere la sua su-premazia. E da allora continua a vivere o a sopravvivere come Adamo ed Eva in fuga dall’Eden dopo il peccato originale: che per la letteratura è l’aver avuto fino ad un certo momento un caratte-re universale, poi definitivamen-te perduto».«Parise diceva che Piovene con quelli della sua generazione – Comisso, Gadda – apparteneva alla last generation, perché ave-va avuto il tempo di assaporare ancora, sia pure in mezzo alle distruzioni e alle guerre, il frutto proibito di quell’universalità».

«Forse è così. Forse le Furie sono anche la confessione tragi-ca, non rassegnata e violenta, di un definitivo distacco. Un addio al paradiso perduto dell’aspira-zione romanzesca di rivelare la totalità del mondo e dell’uomo che coincide con un addio all’in-ferno delle ombre private, e non solo private, del suo passato. Un duplice sopralluogo».«Sarà… Ma tutto questo parlare di ultime generazioni, inferno e paradisi perduti mi ha messo un po’ di nostalgia. La verità è che sono stanco. Ho sonno. Certo che, incapsulati per l’eternità dentro queste botti, si sta scomo-di. Manca l’aria».«In compenso il tempo per spa-rare a folaghe e fischioni è illi-mitato…». «Senti Jaufré...».«Dimmi Nazim…».«Ti ricordi Kawabata? La casa delle belle addormentate?».«Sì, certo».

«Alla fine l’ho letto. È sta-to nell’estate del 1963. Ero a Berlino, quattro giorni prima di partire per Mosca. Da mesi non avevo notizie di mia moglie né di mio figlio. Mi sentivo stan-co come adesso. Non riuscivo ad alzarmi dal letto. Eguchi, il protagonista, mi ha tenuto sve-glio, in vita, un’intera notte. La disperazione per la vecchiaia mi è sembrata improvvisamente una cosa remota. E così la mancanza di mia moglie, e di tutte le donne che ho amato. Ho anche pensato che forse solo nel sonno siamo davvero in colloquio con «la vita immensa» dopo la nostra morte. «E hai scritto una poesia?’«No, mi sono ricordato di un ru-bai che avevo scritto trent’anni prima, a Istanbul. Vuoi ascoltar-ne una quartina?»«Abbiamo tutto il tempo».

Finito, dirà un giorno madre Naturafinito di ridere e piangeree sarà ancora la vita immensache non vede non parla non pensa.

Tratto da Un dialogo infinito. Note in margine a un massacro, Effigie, Milano 2015 (in uscita)

UN GIORNO DI AGOSTO DEL 1982Massimo Rizzante

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soltanto perché in quel caso avrei qualcosa da raccontare. Ma già a questo punto bisogna spiegare: il 9 ottobre fu il giorno in cui forse si decise tutto, quel primo lune-dì dopo il 40° anniversario della DDR (il 7 ottobre), quando gli ospiti di Stato se n’erano ormai andati e su Lipsia incombeva la minaccia di una «soluzione cine-se». Nonostante i tentativi di inti-midazione, 70.000 persone mani-festarono per le strade del centro. Per la prima volta non c’erano agenti in uniforme a bloccare il percorso e far disperdere i di-mostranti. E per la prima volta fu percorso per intero l’anello intorno al centro cittadino. Solo a partire dal 9 ottobre fu messo in pratica da entrambe le parti l’imperativo «Niente violenza!». Anche se a uno non venivano in mente le parole di Goethe – «Da qui e oggi comincia una nuova epoca della storia del mondo e voi potete dire di esserci stati» – tuttavia quella che si provava era una sensazione di questo tipo. Qualunque cosa fosse successa, avremmo potuto competere con il 17 giugno 1953.Già il lunedì 2 ottobre, quando

i pochi striscioni erano ancora piccoli, così da poter essere ar-rotolati e portati sotto la giacca per poi passare di mano in mano sopra le teste, girava il motto Visafrei bis Shanghai!, «sen-za visto fino a Shanghai». Fin dall’inizio si trattava del mondo intero! E dell’ammissione del Neues Forum e dei nuovi partiti sulla scena politica, e dell’acces-so ai media, e di libere elezioni, e soprattutto di democratizzare il proprio mondo. Il motto decisivo era: «Noi siamo il popolo!». Si trattava davvero di riprendersi in mano il paese. In fabbriche, scuo-le, università, in teatri e istituti si iniziò a eleggere in posizioni di-rettive coloro che godevano del-la fiducia della maggioranza. Era questa la vera rivoluzione. Chi ci avrebbe più fermato? Giorno dopo giorno la realizzazione di un «socialismo dal volto umano» sembrava sempre più inevitabile.Delle manifestazioni di Lipsia, questo atto di sovranità, ci sono pochissime immagini, e queste poche sono scure, confuse e per nulla spettacolari. Proprio come le immagini della Tavola roton-da in Polonia o delle riforme in

Fotografando la cupola del Pantheon - Romafoto di Rino Bianchi ©

Dov’ero il 9 novembre 1989: è la domanda che mi fanno più spesso. Di regola chi me la pone assume un’espressione gioiosa, come se in quel modo procu-rasse un piacere anche a me. In questa data, infatti, si possono combinare felicemente, chia-mandole in causa entrambe, la dimensione personale e quella storica. Quando io poi ammetto che quella sera d’autunno andai a letto presto e che perciò posso solo dire: «Quando mi svegliai, il muro non c’era più», la delusione è palpabile.Alle domande ulteriori mi piace rispondere che il vero crollo del muro era già avvenuto con l’a-pertura dei confini ungheresi il 10 settembre. E che ovviamente il crollo del Muro di Berlino mi sorprese, certo, e ovviamente mi fece piacere, come potrebbe es-sere altrimenti? Tuttavia, quando di lì a poco vidi la gente in coda davanti all’«Ufficio circondaria-le della polizia popolare» per ot-tenere il timbro che autorizzava a visitare legalmente l’Ovest, mi preoccupai: se adesso vanno tutti nell’Ovest, chi verrà più alle no-stre manifestazioni di piazza?

Ma perché sono diventato così recalcitrante a parlare del 9 no-vembre? Forse perché non ho nulla da raccontare? Perché nell’Ovest ci andai per la prima volta solo alla fine di novembre di quell’anno? O perché c’erano cose più importanti?Il crollo del Muro è senza dub-bio una cesura storica. Nella memoria ufficiale esso copre e domina l’intero autunno 1989 e persino gli altri 9 novembre, quelli del 1938 e del 1918. Il crollo del Muro appare così chia-ro e inequivocabile! Le persone si riversarono da Est a Ovest, dalla dittatura verso la libertà. E si sa bene in cosa sfociarono i cambiamenti. Sottinteso: doveva andare così. E ancora: così si è voluto.Per me il crollo del Muro fu un evento eclatante fra altri. E non ebbe niente, assolutamente nien-te a che fare con considerazioni di tipo nazionale. Un cammino comune, addirittura un’unifica-zione di Repubblica Democratica e Repubblica Federale? E come? Ridicolo!Preferirei di gran lunga che mi si chiedesse del 9 ottobre. Non

VIVIAMO DI

RIMOZIONEIngo Schulze

Traduzione di Stefano Zangrando

Ungheria. Le immagini dei ri-fugiati nelle ambasciate della Repubblica Federale o della gen-te che balla sul Muro, invece, le conoscono tutti.Passando oggi in automobile da-vanti al Museo Storico Tedesco di Berlino, si vede la copia di un manifesto assai tardo, che mostra i contorni delle due Germanie as-sieme allo slogan: «Noi siamo un popolo».Non ricordo con precisione quando questo motto, scritto in origine su un adesivo della CDU occidentale, sia penetrato nelle manifestazioni, ma fu nelle pri-me settimane dopo il crollo del Muro. L’espressione «un popo-lo» era fatta per revocare la di-chiarazione di sovranità e con ciò la stessa rivoluzione. «Noi siamo il popolo» contro «Noi siamo un popolo». Non che uno abbia so-stituito l’altro, fu invece una lotta fra i due per prevalere nelle ma-nifestazioni. E il museo mostra il vincitore.Nella settimana che precedette le elezioni del 18 marzo 1990, Helmut Kohl batté la Germania orientale in un’instancabile tour-née elettorale. La sua mossa

sud 9RIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA

vincente fu quella di stringersi al cuore la CDU orientale, che era completamente caduta in di-scredito: se votate lei, votate me. Eccola, la traccia di melassa oc-cidentale. Il suo successo fu stre-pitoso, la nostra sconfitta assolu-ta. 2,9% al Neues Forum, 48% all’alleanza elettorale messa in piedi da Kohl, di cui ben il 40,6% ai Blockflöte della CDU, ossia i «flauti dolci», com’erano chia-mati i cosiddetti «partiti di bloc-co» o alleati del partito maggiore nella Repubblica Democratica. Adesso era chiaro in quale dire-zione si sarebbe andati. La mag-gioranza aveva deciso. Non era quello che avevo sempre voluto?Nel febbraio 1990 avevo fon-dato con degli amici un foglio settimanale che accompagnas-se la democratizzazione del Paese (ognuno al proprio posto).

Scrivevamo ancora, con gran rombo di grancassa, che, se pro-prio non si fosse ottenuta un’au-tonomia, si sarebbe almeno giun-ti a un’unificazione dei due stati, e non all’adesione di uno all’al-tro. Sarebbe stata anche un’oc-casione per l’Ovest, che avrebbe così potuto riformare il proprio sistema. Ma anche questo rimase fuori discussione. Quel che ave-va fatto l’Ovest era giusto, quel che aveva fatto l’Est era sbaglia-to. E da allora in poi si sarebbe fatto soltanto quel che era giusto. Potevamo star contenti di aver superato lo scoglio dell’unifi-cazione monetaria senza dover dichiarare fallimento come tutte le grandi aziende della città di Altenburg. Un anno dopo il ma-gnifico autunno, il nostro giorna-le lottava per la sopravvivenza. Invece di battermi per la demo-

crazia o per il «diritto al lavoro» che si era estinto con l’adesione alla Repubblica federale, presto mi ritrovai a bazzicare soltan-to nuovi mobilifici e conces-sionarie d’automobili. Dovevo infatti cercare di soppiantare la cosiddetta concorrenza, gli altri giornali e fogli commerciali che sgomitavano come noi per pub-blicare annunci, e che avevano persino assunto la nostra segre-taria e quindi possedevano il no-stro portafoglio clienti, mentre noi sentivamo la mancanza sia dell’una che dell’altro. Li odiavo tutti, quei «concorrenti», perché puntavano a minare la nostra esi-stenza professionale, anzi la no-stra esistenza tout court – come noi la loro. Nell’autunno 1989 avevo fatto esperienza di come rivendicazione e prassi potessero combinarsi. Si trattava, come ho

detto, del volto umano della so-cietà, quindi della dignità di noi tutti, di un mondo migliore. Ma che aspetto aveva il mio volto, adesso? Deformato dalla rabbia? In preda al panico? Perplesso? Braccato? Quel che facevo gior-no dopo giorno non era forse contrario a ciò che ritenevo buo-no e giusto? Mi ero mai contorto davanti a un funzionario come facevo adesso davanti al proprie-tario del più grande mobilificio della regione?Parlare e scrivere di questo mi sembra necessario soprattutto perché, in seguito al 1989, sono sorte in tutto il mondo nuove condizioni che consideriamo ov-vie, naturali, e che forgiano il no-stro presente. E siccome le consi-deriamo naturali non ne parliamo più, le diamo per scontate, come se le cose non fossero mai state

diverse. È naturale che debba esserci crescita (ormai perfino il fatturato stimato nel contrab-bando di droga e sigarette viene conteggiato all’interno del PIL), è naturale che i ricavi nell’e-conomia privata siano l’ultima ratio. Non conta ciò di cui vi è bisogno, ciò che rende possibi-le una sopravvivenza ecologica, economica, sociale ed etica. Se il 60% della devastazione am-bientale causata dagli svizzeri avviene all’estero (e nel caso dei germanici non sarà molto diver-so), questo significa che viviamo di rimozione nel vero senso della parola. Ormai è praticamente im-possibile andare a far spese per una settimana senza commettere una qualche porcheria che, se ne fossimo immediatamente con-sapevoli, ci farebbe orrore. Solo le cifre virtuali e le entità dei

capitali finanziari sono comple-tamente inaudite, e quindi assur-de. E benché abbiano perduto da un pezzo qualsivoglia copertura reale, l’imperativo del continuo incremento esponenziale che le contraddistingue continua a de-cidere delle buone e cattive sorti dell’umanità.Per molto tempo fui convinto di poter parlare con fiera convinzio-ne goethiana del 1989 e delle sue conseguenze. Oggi però sento molto più affini l’incertezza e la confusione del giovane Fabrizio del Dongo, protagonista della Certosa di Parma di Stendhal, che aggirandosi sul campo di bat-taglia di Waterloo chiede: «Ho veramente partecipato a una bat-taglia?». Poiché solo oggi, un po’ alla volta, inizio a comprendere ciò che hanno provocato i muta-menti di allora.

foto di Philippe Schlienger

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QUATTUORFrancesca Bellino e Ahmed Hafiene

AL DI LÀ

DELL’AL DI QUAPasquale Panella

La notizia del Nobel per la pace al quartetto per il Dialogo nazio-nale tunisino è stata una sorpresa anche per noi che abbiamo sem-pre creduto nell’eccezionalità della Tunisia e nella forza della sua società civile. Non è mai facile assegnare un Nobel per la pace in tempi di guerre, ma questa volta la scelta del Comitato di Oslo ci è sem-brata adeguata, giusta e in sin-tonia con l’unicità della storia tunisina. Questo piccolo paese che affaccia sul Mediterraneo ce la sta mettendo proprio tutta per cercare di non lasciarsi affossare da crisi economica, estremismi e terrorismo. Si ribella, reagisce, lotta. Non si arrende. E’ dunque un riconoscimento meritato che va a tutto il corag-gioso popolo tunisino che dal 14 gennaio 2011, giorno della fuga del dittatore Ben Ali, non ha mai smesso di credere in una vita li-bera e in una democrazia plura-listica. La Tunisia oggi rappresenta un’Eccezione e la sua vivace e attenta società civile è ammirata e lodata in tutto il mondo per aver contribuito a dar vita a un reale momento di “pace” nella Tunisia post-rivoluzionaria e per non es-sersi abbattuta dopo due terribili attentati terroristici, al Museo del Bardo a marzo e sulla spiaggia di Sousse a giugno di quest’anno. Questo Nobel arriva proprio nel momento giusto per infondere nuova forza al paese, preoccu-pato per l’instabilità della vici-na Libia e scoraggiato da una stagione turistica deludente e da

un’economia che stenta a riatti-varsi. Grazie al premio la Tunisia po-trà sentirsi meno isolata e potrà rendersi conto di trovarsi sotto i riflettori mondiali. Il paese oggi, infatti, gode di stima a livello internazionale per essersi distin-to nel panorama maghrebino e mediorientale come la nazione del dialogo e del consenso. La Tunisia è stata capace di sogna-re e attuare un processo di tran-sizione democratica nel cuore del Mediterraneo, mentre tutte le nazioni intorno si stavano di-sgregando pian piano.Il Nobel va inteso come un pre-mio ai cittadini tunisini, per loro natura, aperti, moderati e pacifi-sti. Ognuno ha fatto la sua parte, dalle organizzazioni che com-pongono il Quartetto - Sindacato dei lavoratori (Ugtt), Sindacato patronale (Utica), Lega dei dirit-ti dell’Uomo, Ordine degli avvo-cati -, il cui ruolo è stato centrale per uscire dalla crisi politica e mesi di stallo e tensioni aggra-vatesi nel 2013 dopo gli omicidi di Choukri Belaid e Mohamad Bramhi, agli attivisti, gli intel-lettuali, i giornalisti, gli artisti, i blogger, i rapper, le casalinghe, gli studenti e i martiri. Il primo leader a invitare la classe politica al dialogo sin dal 2012 era stato proprio il com-pianto Choukri Belaid che oggi i tunisini ricordano e per lui tengono vivo l’orgoglio di aver conquistato un Dialogo senza al-cuna mediazione esterna. Il Quartetto per il dialogo na-zionale tunisino è stato forma-

to poco dopo il suo assassinio, nell’estate del 2013, quando il processo di democratizzazio-ne rischiava di frantumarsi. Le quattro organizzazione già citate “hanno dato vita a un processo politico pacifico alternativo in un momento in cui il Paese era sull’orlo della guerra civile”. Questo processo è stato “de-terminante per consentire alla Tunisia, nel giro di pochi anni, di creare un sistema costituzionale di governo che garantisce i diritti fondamentali di un’intera popo-lazione, a prescindere dal sesso, dalle convinzioni politiche e dal credo religioso”.Inoltre, parliamo di un Nobel uni-co e originale anche perché non ha una faccia popolare da postare sui social network. L’immagine migliore per sintetizzarlo po-trebbe essere una bandiera della Tunisia, la stessa bandiera sven-tolata, appesa o portata sulle spalle dai manifestanti durante i cortei cominciati a fine 2010 per chiedere dignità, lavoro e libertà. Anche se alcuni commentatori hanno sottolineato l’indifferenza di parte della popolazione alla notizia, o addirittura preoccu-pazioni alle possibili intrusioni nelle scelte economiche del pae-se da Banca mondiale e FMI, il premio ha portato tanta fiducia ai cittadini ed è percepito dai più come una spinta a fare meglio. Rappresenta la molla per difen-dere tutti i risultati ottenuti finora e a fare passi avanti nel processo democratico, nella ripresa econo-mica e nella sicurezza sociale. La Tunisia oggi è un cantiere

Le grafie, gli intrecci, le tarsie,velami e vetrerie,trame e plexiglassono schermi fermi, prede inermi dell’abilitàche hal’immagine di rompere con gli argini gli indugie dare a tela visione diun film, un meccanismo, il marmo della Pietà,la visione dicittà agitate con le neve e navi e vele imbottigliate e disabbia e illusionenei Palazzi di Vetro in cuisaponose politiche e moralitàfanno bolle iridate,fanno lacrime comeluccicanti cin cinMa se tuvedi lo schermo, tunon vedi niente più,vedi il nulla, tuE ci sono stoffe di una tale trasparenza chenon c’èdifferenza tra l’ormai banale e trita nuditàdi un ree la tua che èla reggia in cui si aggira, nuda, l’autoritàdi una legge chesostituisce con le cosce la coscienza e le tue angosce conchiappe e appetiti,con le natiche l’etica...E tu falla finita con integritàe intontite bontà,sappi che in nuditàtu non sei più di un reTutto è schermo malo schermo è il nulla, e il tutto è tutto quanto al di làdello schermo maper un riflesso che fa il fesso sopra un vetro trasparente, noicosa vediamo?L’illusione di un’anima,gli occhi nostri, e noi siamo quel riflesso là,noi, quel fesso cosìsullo schermo cosàche ci crede al di qua

aperto su molti fronti, soprattut-to in campo giuridico. Ci sono molte nuove leggi da approvare per allinearle alla nuova Carta Costituzionale. Ci sono tanti diritti, realtà invisibili, da intro-durre nella pratica e nel rispetto quotidiano, tra cui la libertà di coscienza che per il paese rap-presenta un altro primato: la Tunisia è l’unico paese arabo a considerarla nella Costituzione. La Tunisia si distingueva già dagli altri paesi arabi per la modernità del codice di stato personale e per i diritti concessi alle donne. Nel paese, ad esem-pio, la poligamia non è ammes-sa sin dal 1956. E poi c’è lo Stato da difendere e da fortificare. Per la sua storia, dunque, ma anche per il suo presente, la Tunisia pur essendo un paese fragile e sotto attacco, rappre-senta un orgoglio per tutto il Mediterraneo. E’ vero, la vita quotidiana non cambia con un Nobel. La vo-glia di scappare dal paese resta per molti giovani. Corruzione, disoccupazione, ingiustizie so-ciali, violenza, autodistruzione e rischio terrorismo non sono problemi risolvibili da un rico-noscimento, ma il Nobel può contribuire a nutrire la speran-za utile oggi per guadagnare nuova forza e andare verso il futuro.

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meritano di essere onorati coloro che sono innanzitutto liberi».Dove porre l’accento? Qual è la causa primaria? La libertà o l’onore? Che vuol dire Rabelais? Che per queste grandi e serie questioni dobbiamo accontentar-ci di un gioco del linguaggio, di frasi svuotate dall’interno di ogni possibile ascendente sulla realtà?Niente affatto. Rabelais parla di una situazione umana che non potrebbe essere più concreta. Gli uomini a cui pensa nell’estrat-to sopra riportato – ma anche nell’intera opera – non sono pro-dotti del linguaggio. Al contra-rio, sono loro a sostenerlo e ad adattarlo alla loro condizione. Rabelais parla in questo modo perché li ascolta parlare.E, come si direbbe, da dove essi parlano?Un po’ dispiace che la trasla-zione non ci aiuti a localizzare bene il “luogo”. La traslazione dice che questi uomini vivono «nella buona società». L’origina-le è invece più esplicito su questo punto: leggiamo che sono uomi-ni «conversants en compagnies honnestes» («avvezzi alle buone compagnie»). Tutto allora diven-ta chiaro: si fa ciò che si vuole solo se si frequentano compagnie oneste e aperte alla conversazio-ne di tutti con tutti. Rabelais non parla della libertà in abstracto e neanche dell’onore d’altronde, ma di quello che succede all’ab-bazia di Telème. La libertà la si esercita quando le condizioni di vita lo richiedono, l’onore lo si conquista per mezzo delle proprie azioni e, sempre all’ab-bazia, si discute di tutto questo con i propri compagni di tutti i giorni. Rabelais non disquisisce sulla libertà umana in genera-le; non gioca a fare il filosofo o la guida spirituale. Mette in scena un gruppo di amici votato all’apprendimento e all’esercizio della libertà di ciascuno. Se si fa astrazione di questo legame amichevole, si evade dal concre-to della situazione e, d’un trat-to, il testo rabelaisiano diventa impercettibile o, ancor peggio, si disgrega in frammenti che gli esegeti, sempre più numerosi, ricompongono a modo loro.All’interno di un siffatto gruppo umano, la libertà acquisisce chia-ramente un senso nuovo, rispetto

Non è un caso se, nel suo breve testo introduttivo, François Tail-landier attira la nostra attenzione sul senso delle parole. Quest’an-no inauguriamo un nuovo ciclo di Incontri sulla libertà ed è normalissimo veder affiorare, sin dal principio, la questione semantica.Che cosa significa la parola libertà?Capisco la diffidenza che agli scrittori ispira l’idea di occupar-si di questo termine: oggi così tanto logorato e snaturato, vero ? Sicuro, ma scelgo di schierarmi dalla parte di Viktor Šklovskij, capofila del formalismo russo, il cui breve testo del 1914, che ha lanciato il movimento, s’intitola La resurrezione della parola.Iniziamo dall’inizio.Ossia dall’etimologia.È sorprendente constatare che, in latino, una parola tanto fon-damentale per il nostro imma-ginario e la nostra civiltà non abbia niente in comune con quella greca. In greco, libertà si dice έλευθερία (elefteria). Apparentemente, come dicono i linguisti, la parola deriva dal verbo έλεύσομαι (elefsomai), che vuol dire «io vengo». Vengo al mondo. Vengo alla vita. Da dove ? Dal caos, dal nulla, dal non essere. Non importa: la paro-la non ci dice niente su quel che precede l’avvenimento dell’esse-re; denota soltanto la sua sorpre-sa e la sua gioia di manifestarsi. Se la parola greca che significa libertà serve ad esprimere una realtà ontica, la parola latina ci colloca nel divenire. Liber iden-tifica le persone, le città e i popo-li che non sono soggetti ad altre persone, città e popoli. Il greco è rivolto verso la condizione pri-maria dell’essere, il latino verso la sua vita interna, per così dire. Il greco sorvola e ingloba l’esse-re e, di conseguenza, incentiva il pensiero sull’essere (fa della filosofia); il latino apre l’essere per seguirlo, mescolandosi ad esso, nelle sue ambiguità, nei suoi conflitti, nelle sue scoperte e conquiste (fa la Storia). Noi discendiamo dal matrimo-nio greco-latino: dal matrimonio, non dalla fusione. Se, in futuro, il nostro cervello continuerà a funzionare normalmente, cioè secondo natura, da qualche parte,

nei suoi scomparti meno esposti alle nuove tecnologie, risuone-ranno sempre le due nozioni, irriducibili l’una all’altra, che i nostri antenati hanno concepito della libertà: la libertà “assoluta” dei Greci e la libertà “relativa”, la libertà circoscritta nella realtà storica, dei Romani. A questo riguardo, mi si potrà ribattere che, essendo noi lingui-sticamente disgiunti dalla parola di origine greca, siamo neces-sariamente disgiunti dalla liber-tà come valore umano assoluto. Non lo credo. Nel nostro cervel-lo, non sono depositati soltanto i segni delle parole, ma anche la loro aura. E l’aura della libertà “greca”, recuperata, assimilata e arricchita dal cristianesimo, è stata travasata nel latino. Ma, a partire da qui, si sviluppa tutta un’altra storia a cui varrà forse la pena dedicare un intero Incontro.Così andava il mondo fino a Rabelais.Con Pantagruele (1532), entra in scena una nuova configurazione semantica della libertà. In questa configurazione, si fondono, in maniera incontestabile, l’eredità greca e l’eredità latina, ma il risultato finale non assomiglia né all’una né all’altra di queste ere-dità. E, dal momento che Rabe-lais non era un lettore di Hegel, non si tratta della loro sintesi. Non si tratta nemmeno dell’in-venzione isolata di uno spirito solitario, del concetto ipotizzato da uno scrittore o del senso che si può carpire ricorrendo alle diverse branche del sapere. È una creazione allo stesso tempo indi-viduale e collettiva; una creazio-ne sorretta dall’opera di Rabelais nel suo insieme. Senza questa nuova libertà, l’opera di Rabelais resta lettera morta. Viceversa, senza quest’opera ci è impos-sibile capire cosa determina il fatto che questa libertà sia estra-nea sia a quella dei Greci che a quella dei Romani, ma resti lo stesso capace di far sorgere e di sostenere un mondo, un mondo completamente nuovo.Fortunatamente, per un miraco-lo che solo l’economia estetica sa produrre, il senso di questa nuova libertà è concretizzato dall’opera stessa. Il mio pen-siero va certamente alla cele-bre abbazia e, più nello specifi-

co, al minuscolo capitolo 57 di Gargantua (1534): «La regola dei Telemiti e il loro modo di vivere»1. È il capitolo più breve di tutta l’opera, lungo solo due pagine, e mi diverte immaginare che l’artista non abbia trascurato, nelle sue innumerevoli digres-sioni, di esporre in bella vista il cuore stesso, il cui sangue vivifi-ca l’opera letteraria che inaugura i Tempi moderni. Cito il primo paragrafo di questo capitolo che ha l’impronta di un manifesto.

Tutta la loro vita si svolgeva non secondo leggi, statuti o rego-le, ma secondo il volere di cia-scuno, il loro libero arbitrio. Si levavano da letto quando loro piaceva; bevevano, mangiavano, lavoravano, dormivano, quando ne avevano voglia; nessuno li svegliava, nessuno li forzava a bere o a mangiare o a fare qual-siasi altra cosa. Così aveva sta-bilito Gargantua. La regola del convento era racchiusa in un solo articolo:

FA CIÒ CHE VUOI

Giacché gli uomini liberi, ben nati e bene educati, avvezzi alle oneste compagnie, hanno di lor natura (ed è ciò che i Telemiti chiamavano onore) un istinto, uno stimolo che sempre li spinge ad azioni virtuose e li tiene lonta-ni dal vizio; mentre, allorché, per vile soggezione o per violenza, sono oppressi e asserviti, volgo-no la nobile inclinazione per la quale spontaneamente tendevano alla virtù, ad abbattere ed infran-gere quel giogo; perché, se vi è un’azione proibita, è quella che noi intraprendiamo e, per tutto ciò che ci è negato, ci struggiamo di desiderio.

Va da sé che una lettura veloce non basta per comprendere la nozione di libertà di cui si tratta in questo passaggio. Bisogna sof-fermarsi: soppesare ogni parola;

senza perdere di vista l’opera nella sua integralità. Soprattutto, senza dimenticare che quest’ope-ra si pone in dialogo permanente con la grande eredità letteraria greco-latina.In effetti, a proposito di questo dialogo, quando Rabelais pensa agli uomini «liberi» e «bene edu-cati», senza dubbio resta fede-le alla nozione latina di libertà. D’altronde, in questo non fa che allinearsi alla sua epoca: secondo il Dizionario storico della lin-gua francese, da Calvino a Mon-taigne, tutti gli impieghi della parola «libertà» non sono che delle varianti del fondo seman-tico latino. Tuttavia, prima che la frase riguardante gli uomini «liberi» sia terminata, si scopre che questi stessi uomini sono dotati di un «istinto» chiamato «onore» che li spinge sempre «ad azioni virtuose». Così, Rabe-lais, senza annunciarlo, produce un amalgama civilizzazionale straordinario: perché il soggetto, all’interno della stessa frase, è allo stesso tempo storico ed eter-no, relativo ed assoluto, latino e greco. Giacché l’istinto non è qualcosa che si coltiva. L’uomo, sembra dire il testo, ne dispone proprio in quanto uomo. L’uomo è qui inteso come valore asso-luto: un valore che definisce il suo posto nell’universo. L’uomo, sempre secondo il testo, è quella creatura che, grazie ad uno sti-molo che agisce in lui sin dalle origini, è orientato verso il Bene.Come si può giustificare un simi-le sincretismo storico-essenziali-sta? Certo, avremmo potuto dirci che tutto è permesso a questo grande erudito che non è riuscito ad allontanare la caraffetta di vino dalla sua lucerna e andare oltre. Solo che Rabelais ci ritor-na su. Nella frase successiva, ci imbattiamo nella stessa miste-riosa struttura linguistica, salvo il fatto che ora i ruoli sono ora invertiti. La libertà si sposta dalla parte dell’assoluto, di ciò che è consustanziale all’uomo (visto che, com’è scritto, nella natura stessa dell’essere umano vi è il fatto di struggersi per ciò che gli è negato), e l’onore dalla parte dei mezzi atti a conseguirla.È come se Rabelais dicesse: «sono liberi coloro che si com-portano in modo onorevole e

80-Quatre vins di Frédérique Giacomazzi

sud 11RIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA

a quello che gli conferivano i Greci (di acquisizione univer-sale) e i Romani (di progetto da realizzare). Chiamerò que-sta terza versione della libertà che, ripeto, non toglie nulla al valore e alla portata delle altre due, esistenziale o, il che è lo stesso, romanzesca. Ciò implica che l’uomo scopre la sua libertà quando è riflessa negli occhi di un amico, descritta attraverso le parole di un amico, difesa dal pensiero di un amico. Questo tipo di libertà è qualcosa in più di un bene comune. In ogni caso, diventa impossibile ridurla ad uno di quei “beni” dei quali i dif-ferenti schieramenti umani s’im-possessano al fine di consolidare e perpetuare la loro esistenza alias la loro identità.Esibito in maiuscolo, il solo obiettivo collettivo di Telème, per quanto paradossale possa sembrare – ma non dimenti-chiamo che stiamo leggendo un romanzo -, è quello di incitare ciascuno dei suoi ospiti a fare ciò che vuole, il che gli procurerà piacere. A condizione, s’intende, che non perda mai la stima dei suoi amici.Perché, vedete, all’abbazia si conversa, si discute. Si discute prima, durante e dopo la soddi-sfazione del piacere individuale; all’abbazia ci si parla, continua-mente. Non è il problema della “coabitazione” dei diversi indi-vidui a preoccupare i Telemiti, ma quello del dialogo. Essi non aspirano al rispetto reciproco, ma al merito. E il merito è qualcosa che si discute.Evidentemente, Rabelais gioca con le nozioni di libertà che hanno concepito i Greci e i Romani. Ma questo non per «decostruirle». Anche per lui, come per i suoi grandi precur-sori, vale un principio fondato-re, un motivo ontologico: quello della discussione tra amici.

Su Le Monde del 3 maggio 2014, la corrispondente da Washington ci informa che «alcune femmini-ste americane operano per libe-rare la lingua dalle connotazioni sessiste». La battaglia si dispiega su più fronti, senza tralasciare quello dei pronomi: «In un’epoca di tentazioni androgine, alcune associazioni studentesche hanno lanciato un movimento a difesa della libertà di scegliere il pro-prio pronome. Esse reclamano la generalizzazione dei prefer-red gender pronouns, i pronomi prediletti in funzione del sesso scelto dall’individuo».Sembra che nessuna delle tre varianti della libertà, che ho appena tratteggiato molto appros-simativamente, sia applicabile in questo caso specifico. Rispetto a quella dei Greci, il senso è capo-volto: non si passa più dal caos al mondo, ma dal mondo al caos. Rispetto a quella dei Romani, non vi è nessun vincolo esterno da abbattere, dal momento che l’«androgino» è già nell’aria (fa vendere). Rispetto a quella di Rabelais … ma Rabelais tesse l’elogio degli «uomini liberi», non dei montoni, a cui del resto ha riservato una sorte poco invi-diabile.Detto ciò, una quarta variante si profila all’orizzonte – per non dire, come richiede l’ottimismo, che essa ha già spazzato via le altre tre dalla faccia della Terra: la libertà della stampa di arruo-lare il mondo intero nel partito unico della Stupidità.

QUASI IMPERCETTIBILELakis Proguidis

Traduzione di Simona Carretta

MODE D’EMPLOIFrancesco Forlani

L’Atelier du roman, che ha dedi-cato uno dei suoi primi numeri a Rabelais (n ° 5, Inverno 95), non poteva che scegliere una sede più appropriata per i suoi rencontres ovvero proprio il paese natale di colui che ha immaginato e descritto l’Abbaye de Thélème. Les Rencontres de Thélème hanno l’ambizione di essere parte di una lunga tradizione let-teraria al centro della quale è ben visibile la scritta che Rabelais ha inciso sul frontone della famo-sa Abbazia: fa’ ciò che vuoi. Sud era presente all’incontro di quest’anno dedicato al tema del gioco. Abbiamo chiesto a Lakis Proguidis di pubblicare in ante-prima la sua nota di benvenuto. Il testo di Marek Bienczyk è stato pubblicato sul numero 81 (marzo 2015). I due testi rappresentano per noi un’occasione di riflessio-ne sul ruolo politico della lettera-tura ai nostri giorni.

1 N.d.T.: Per la versione italiana delle citazioni di Rabelais, si è fatto riferimento alla traduzione di Augusto Frassineti: vd. François Rabelais, Gargantua e Pantagruele, vol. I, BUR, Milano 1998.

sud12 80.a farsi raccontare la storia della sua vita. Queste le parole di Plenty-Coups: «Non ti ho nean-che raccontato una minima parte di quello che ci è successo quan-do ero giovane. Posso guardare indietro e dirti un sacco di cose sulla guerra e sui furti di cavalli. Ma da quando i bisonti se ne sono andati non è successo più nulla. Il cuore dei miei uomini è caduto a terra e nessuno lo ha raccolto. Non ci sono stati più canti. D’altronde questa parte della mia vita la conosci bene quanto me. Quello che c’è stato dopo che i bisonti se ne sono andati lo hai visto anche tu». Da quando i bisonti se ne sono andati non è successo più nulla. È una frase che colpisce e scuote il lettore un po’ come il famo-so adagio di Bartleby: I would prefer not to. Nella postfazione Lear dice di averla sentita per la prima volta vent’anni prima di scrivere il libro e che, da allora, lo ha sempre accompagnato. E poi: «è arrivato il giorno in cui ho dovuto riprenderla, ho dovu-to rispondere a questa frase». Questo libro ne rappresenta, appunto, la risposta. Da quando i bisonti se ne sono andati non è successo più nulla, dice dunque il capo Plenty-Coups. Sta parlando della fine di un mondo. L’inchiesta filo-sofica e etica di Jonathan Lear parte da qui, cioè dallo sguardo rivolto al passato di un popolo che affronta la fine del proprio modo di vivere.Secondo Lear la storia di Plen-ty-Coups solleva una questione etica di ampia portata, che va ben oltre il suo tempo, lanciando una sfida che arriva fino a noi: come si fronteggia la possibile scomparsa di una cultura? La

Dato che siamo nel paese dell’u-topia, sorella della malinconia, vi parlerò della catastrofe facendovi il riassunto di un libro il cui titolo suona più o meno così: La spe-ranza radicale. L’etica di fronte alla devastazione culturale. È un titolo molto generale, ma la sto-ria raccontata è assolutamente particolare. L’autore, Jonathan Lear, pone alcuni interrogativi importanti: come vivere in un mondo che ha perso ogni senso, in un mondo del dopo la cata-strofe? Può ancora esistere una speranza? Se sì, in che lingua la si può formulare? E continua: che ne è di noi nel momento in cui la nostra cultura scompare di colpo? Come ci dobbiamo orga-nizzare per sopravvivere? Come possiamo prendere, in piena crisi, decisioni di vitale importanza se non possiamo più vivere secondo i valori che avevano fondato la nostra esistenza?Il libro di Lear è appassionante soprattutto per chi da piccolo amava le storie dei pellerossa (grazie a Piotr Nowak per aver-mene parlato). E questa pas-sione, questo trasporto, si sente bene nelle critiche uscite finora. Con un po’ di malinconia, certo, anch’io sono stato conquistato dalle parole che Plenty-Coups –1 capotribù dei Corvi e prota-gonista del libro – ha pronun-ciato in punto di morte negli anni venti davanti al giornalista americano Lindermann, venuto

1 Conosciuto anche come Molti-Trofei, ma la traduzione più esat-ta sarebbe forse Molti-Colpi, per il valore altamente simbolico che gli indiani d’America riconosce-vano al numero di colpi di ascia da guerra, anche non mortali, in-ferti al nemico (n.d.T.).

fine di un mondo avviene quando più nulla provvisto di senso può accadere; e questo può succedere in qualsiasi momento e ad ognu-no di noi. Ogni cultura è estre-mamente vulnerabile, nessuna realtà è completamente protetta dal rischio di annientamento. La situazione in cui si sono trova-ti i Corvi (una tribù minore, a rischio di totale estinzione intor-no al 1860-1870) può diventare la situazione di ognuno di noi: come si affronta l’eventualità che il nostro tempo sia giunto a ter-mine? Lear parla della disgrega-zione di un complesso di nozioni che tenevano insieme una cultu-ra, che le davano un’unità densa di significato; è la storia della fine della tribù dei Corvi e, in via allegorica, anche di una qualsiasi cultura particolare, anacronisti-ca, sopraffatta da un cambio di civiltà. In questo senso è anche un possibile racconto di ciò che stiamo vivendo noi oggi, un rac-conto che dice come i nostri tratti particolari (qualunque essi siano) si dissolvono, per fondersi nel pentolone dei valori universali. Da quando se ne sono andati non è successo più nulla. Cosa vuol dire? La prima risposta potrebbe essere di ordine psicologico: i Corvi sono caduti in una profon-da depressione. È l’interpretazio-ne più facile, quella che va da sé, perché è apparentemente la più logica. Ma Plenty-Coups non ha sofferto di depressione, anzi, è rimasto molto attivo fino alla morte. Coltivava la terra della riserva con la sua tribù, portava i frutti del raccolto alle fiere agricole. Le domande da fare sono quindi di ordine etico e ontologico: com’è possibile che la fine di una forma di esistenza dia a coloro che la vivevano la

percezione che più nulla possa accadere? Bisognerebbe insom-ma riflettere sulle implicazioni di un’eventualità di questo tipo. Se si dice che dopo qualcosa più nulla è successo significa che si è toccato un limite della possibilità umana. Qual è dunque questa possibilità umana di esistenza che si realizza quando più nulla accade ?Una volta scomparsi i bisonti, la loro forma tradizionale di vita è finita. I Corvi hanno perso i punti di riferimento, hanno perso i principi che sostenevano le narrazioni delle loro esistenze. I Corvi appartenevano a quelle formazioni culturali che gli sto-rici chiamano «tribù della Pra-teria». La loro cultura sociale e materiale era puramente militare, le imprese di caccia e la guerra contro le altre tribù (i Sioux, nello specifico) ne modellavano l’immaginario. Ogni gesto valo-roso, coraggioso, contribuiva a fortificare il loro universo comu-ne e quindi la loro identità indivi-duale. Un Corvo non era nessuno al di fuori della tribù, era tutto al suo interno. Cos’è successo, dunque, dopo la «scomparsa dei bisonti»? La cul-tura di tipo militare si è esaurita. Non solo i comportamenti e le azioni che prima davano gloria e onore hanno perso ogni valore, ma vengono per giunta conside-rati criminali. Il soggetto-Corvo, l’io-Corvo, si costruiva nell’i-dentificazione con un gruppo sociale, con il ruolo che era chia-mato a interpretare in società, si costituiva come colui che ha un compito da svolgere per tutta la vita, un dover-diventare. Ormai, però, in quanto soggetto-Corvo ha smesso di esistere, di lui è rimasta una persona-fantasma

che è stata testimone della morte dell’io-soggetto. Solo un testimone di questo tipo può proferire una frase così enig-matica: poi, più nulla è successo. Le nozioni di cui Plenty-Coups si serviva nella sua vita anteriore si sono svuotate e sono state sostituite da concetti compren-sibili sia per i bianchi che per i Corvi. Plenty-Coups non poteva né voleva servirsene per raccon-tare la sua storia. Ecco perché ha detto a Lindermann: «Questa parte della mia vita la conosci bene quanto me». Però vedre-mo che in realtà, nelle nuove e molto mutate circostanze della vita – dopo che i bisonti se ne sono andati –, si era comunque creato lo spazio per una riflessio-ne importante, cioè per rispon-dere alla domanda capitale: cosa possiamo fare quando il nostro mondo ha smesso di esistere? Solo dopo aver risposto, un gior-no, forse, le cose potranno acca-dere di nuovo. Ma chi può dare una risposta a questa domanda? La storia di Plenty-Coups mostra che benché determinate possibilità antiche siano esaurite, ciò non significa che quelle stesse possibilità non potranno ripresentarsi un giorno. Ed è proprio per realizzare una cosa di questo tipo che ai Corvi serviva un nuovo poeta. Qualcu-no che si rivolgesse al passato della tribù senza risvegliarne la nostalgia o proporne un’imita-zione, un surrogato, ma sapesse mostrare ai Corvi nuove forme di esistenza possibile. Un poeta: il solo, cioè, che sappia creare uno spazio colmo di significati, che sappia godere – come solo un poeta sa fare – della libertà creatrice per inventare una nuova sfera di possibilità. E che sappia

PLENTY-COUPSMarek Bieńczyk

Traduzione di Francesca Lorandini

foto di Salvatore Di Vilio

sud 13RIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA

che, proprio laddove non c’è più spazio per comportamenti auten-tici, possono rinascere compor-tamenti autentici.Ci si può preparare psichicamen-te ad affrontare la distruzione di una cultura? Come potranno i Corvi far fronte alla devastazio-ne se continuano a valutare l’ar-dimento e la libertà secondo la tradizione antica? Plenty-Coups ha capito che solo una nuova concezione dell’audacia e della libertà può salvare sia l’audacia che la libertà. E ha proposto ai Corvi una nuova visione delle cose. Nel racconto di Plenty-Coups i sogni che ha fatto intorno ai nove-dieci anni hanno un ruolo centrale. Presso i Corvi vigeva l’usanza di mandare i giovani ragazzi a passare una notte in montagna in modo che lassù, in piena solitudine, potessero sognare. Pensavano infatti che i ragazzi di un’età che potremmo dire pre-rimbaldiana avessero un contatto diretto con gli dei. Una volta tornati, i ragazzi raccon-tavano i loro sogni; gli anziani, riuniti in consiglio, li interpreta-vano. I sogni appartenevano alla comunità e acquisivano un senso all’interno di un’interpretazione collettiva. Plenty-Coups ha fatto così alcuni sogni di essenzia-le importanza per il futuro dei Corvi. Ha sognato, una volta, che un vortice inghiottiva tutti i bisonti della prateria; un’al-tra volta, che i quattro elementi in tempesta si scatenavano su una foresta secolare. La foresta andava completamente distrutta, ma resisteva un albero, uno solo, su cui aveva trovato rifugio una cinciallegra – simbolo di sag-

gezza per gli indiani d’America. Davanti a quest’albero ha visto un vecchio dal volto familiare – era proprio lui, lui stesso, Plenty-Coups, cinquant’anni dopo. Questi sogni interpretati dai capi tribù hanno permesso di crea-re quella che potremmo definire una nuova struttura della realtà. Avendo capito che la minaccia di distruzione totale proveniva tanto dai Sioux che dai bianchi, i Corvi hanno deciso – per farla breve – di collaborare con l’eser-cito federale. Come una specie di Mosè, Plenty-Coups condurrà il suo popolo convinto che non esi-sta altro modo per sopravvivere al cataclisma. Il solo essere vivente soprav-vissuto alla tempesta, la cincial-legra sognata da quel giovane ragazzo (che più tardi diventerà capo Plenty-Coups), proponeva un modello di coraggio diverso da quello che i Corvi aveva-no imparato. Lear stesso ripro-duce questo modello in termini aristotelici: parla del coraggio, della virtù, del bene, riferendosi espressamente all’Etica di Ari-stotele. Vuole dimostrare che l’audacia di Plenty-Coups è di tutt’altro tipo rispetto a quella di Toro Seduto, capo dei Sioux. Il coraggio di quest’ultimo è nutrito di nostalgia, fa leva sul desiderio di conservare o ricon-quistare le antiche forme di esi-stenza; è un valore basato su un ottimismo facile e senza futuro: «andremo sul campo di battaglia e ci batteremo fino alla vitto-ria!» Per Aristotele però le azioni temerarie, risultato dell’ottimi-smo, non rappresentano il vero valore. Il coraggio è il giusto mezzo tra viltà e temerarietà, un

giusto mezzo trovato dalla ragio-ne. Grazie a quest’altra forma di ardimento Plenty-Coups ha potuto proporre alla tribù una via di salvezza, una sopravviven-za possibile. Plenty-Coups non era un ottimista, sapeva perfet-tamente ciò a cui i Corvi anda-vano incontro collaborando con la Repubblica Americana. Lear contrappone questa speranza – che chiama speranza radicale – al cieco ottimismo dei Sioux e del loro capo. Poiché la speranza di Plenty-Coups non ha niente a che fare con quel tipo di ottimi-smo, Lear può qualificarla come radicale. La speranza di Toro Seduto è quasi una certezza, Plenty-Coups cerca invece un senso che è altro-ve, affronta un vuoto, non è sicu-ro di niente, non sa di cosa è fatta la sua speranza. È una speranza che non ha direzione né scopo preciso. La speranza radicale, rispetto a una speranza «nor-male», è un sentimento vuoto, senza contenuto; è una speranza debole, non ha una direzione, è

una speranza fine a se stessa. È radicale perché mira a un bene futuro che però non si lascia immaginare; non sappiamo cosa può essere questo bene. La radi-calità sta nel fatto che la cultura in crisi, persa la convinzione di avere un senso, si dirige verso una soluzione che ancora non esiste. Non c’è nessun ottimi-smo, la speranza radicale rende possibili il coraggio e la libertà benché la situazione rimanga del tutto incomprensibile e inaffer-rabile. Plenty-Coups ha certo sognato che la strada per la salvezza passava per l’alleanza con i bian-chi; ma prima ancora ha sognato come sopravvivere alla propria morte. Dare un senso alla propria morte era una virtù sconosciuta, nuova, andava appresa. La speranza radicale è legata anche al fatto che Plenty-Coups è rimasto fedele al suo sogno pre-monitore, non ha mai smesso di credere che gli era stato accorda-to un potere visionario. In questa sua perseveranza c’è qualcosa di

invincibile, una qualche forma infallibile di coraggio, una liber-tà. Grazie a questa perseveran-za i Corvi potranno superare la propria morte e inventare nuove modalità di vita. Plenty-Coups sapeva di meritare di essere il capo perché si sentiva in grado di far fronte a un cambiamento storico radicale, sapeva di poter affrontare una situazione di quel tipo, sapeva di essere il solo a potersi cimentare con la nuova realtà. Il sogno di Plenty-Coups ha permesso ai Corvi di farsi forti di una speranza che diceva: «se vi fate guidare dalla sag-gezza della cinciallegra, soprav-vivrete (qualsiasi cosa questo significhi – la tribù, nella sua sostanza, si è conservata rela-tivamente bene), manterrete il dominio sulle vostre terre (qual-siasi cosa questo significhi – nella riserva la tribù ha con-servato la parte sostanziale del proprio territorio). Si potrebbe dire che Plenty-Coups ha trasmesso ai Corvi un modello, una «vita, istruzioni

per l’uso», che ha permesso di sopravvivere alla distruzione di un complesso di nozioni di base. E la loro azione è legittimata dal fatto che questo modello si man-tiene (i Corvi sono la tribù che meglio ha preservato la propria integrità) ben al di là del baratro.Il riassunto frammentario che ho fatto non rende giustizia alla complessità del bel libro di Jonathan Lear, di cui si pos-sono fare diverse letture. Una lettura storica (che può facil-mente tacciare Lear di un certo conservatorismo, contestando la scelta dei Corvi in termini di efficacia ma anche di etica: per altre tribù sono semplicemente dei traditori); una lettura roman-zesca (Plenty-Coups come per-sonaggio di un Bildungsroman). Mi sembra però che la lettura allegorica emerga naturalmente. Allegorica e universale, com’è suggerito dal titolo del libro, che pone il problema della libertà meglio di qualsiasi altro libro che io abbia letto negli ultimi anni.

foto di Marco De Luca

sud14 80.

Agli Amici che ci hanno lasciato.Ai new wavers con i quali ho condiviso lunghi tratti di cam-mino.Alle donne e agli uomini di oggi che, un disco nero corvino tra le mani, sorridono ancora inquieti ma colmi di esperienza e di Vita

“Senti cosa ti faccio ascoltare” lei disse girandogli le spalle, mentre le sue unghie laccate di nero dilaniavano la plastica che bloccava l’uscita del vinile. Lui guardava quelle spalle, il collo rasato, il nero corvino dei capelli cercando di indovinare che disco stava sottraendo dal silenzio del-la custodia. Era stato un buon dj set, dedicato agli amanti del buio e del suono che produceva. Qual-cosa però era rimasto in sospeso, come una sete di puro ascolto an-cora non placata. “Si chiamano Neon, pensavo li mettessi questa sera...forse non li conosci”, lo disse con aria di presa in giro, come qualcuno che sa il fatto suo, che sa dove vuole arrivare. “Li ho già proposti in radio, nel-la mia trasmissione settimanale hai presente? Io conduco Night Zone”.“Night Zone di RadioAt-tiva?”, chiese lei con finto fare sorpreso. “Si, è molto seguita sai. Tornando ai tuoi Neon, que-sto è il loro terzo ep “My Blues is You” per la KinderGarten. Sta-sera non li ho fatti girare perchè ho prestato il vinile ad un amico che non è venuto a riportarmer-lo”. Una risposta farcita forse di troppe informazioni, una pri-ma mossa d’attacco in un gioco antico come il mondo che stava prendendo vigore dentro un mo-nolocale all’ultimo piano di una strana torre con un unico balcone vista sulla direttiva ferroviaria Padova – Rovigo – Ferrara.“Che ne diresti di cambiare di-sco?”, le chiese mentre la side A stava finendo. Si era messo alla ricerca affannosa di un vinile preciso, nel marasma di lp’s ac-catastati in quella valigia da dj mai troppo capiente. Era un pic-colo capolavoro appena acqui-stato da cui non riusciva a stac-carsi. Aveva urgenza d’ascolto.“Che ne pensi eh? Lasciamo da parte le sequenze dei segnali elettronici, facciamo che di sce-na fiorentina stasera ne abbiamo ascoltato e ballato anche troppa. Ora vieni con me che ti porto a Londra. Accomodati sul divano e chiudi gli occhi, il resto lo faran-no loro”. “Loro chi?”, chiese lei

distendendosi sul vecchio sofà recuperato chissà dove.“Si chia-mano Opposition, questo è il loro secondo album”, rispose mentre il braccio del giradischi si appog-giava dolcemente sulla superfi-cie nera di solchi ancora vergini. .“Caspita se mi piace! Pianoforte? Senti che intro! Dai spiegameli dj, chi sono e cosa fanno?” pro-nunciò questa frase guardandolo diritto negli occhi con un misto di ironia e spavalderia, come sapesse che spettava a lei quella mossa e doveva essere avvolgen-te, irresistibile, definitiva.Lui raccolse ad una ad una quelle briciole lasciate cadere di propo-sito e rispose con tono impostato, da cultore: “Intimacy è ciò che non ti aspetti di questi tempi, è altro dal dark, dal post-punk. E’ inaspettato reggae bianco so-stenuto da un basso da brividi. E’ un drumming che non lascia mai la presa mentre accompagna una chitarra che emana oscu-ra e luminescente elettricità. E’ voce che ti culla urlando, non so come spiegartelo, credo questo disco contenga materiale estre-mamente innovativo in ambito new-wave. Il perfetto dialogo tra il basso di Marcus Bell e la chitarra di Mark Long è qualcosa che mi commuove...senti, senti che aperture, come si avvicina-no e allontanano. Sembra quasi una danza. E pensare che incido-no per la stessa major di quegli scoppiati dei Genesis, quella del Cappellaio Matto”. Il suo bravo lavoro lo fa anche Kenny Jones però, lo stesso ingegnere del suo-no che aveva prodotto anche il loro primo lp lo scorso anno”.“E che mi dici dei testi?” chie-se lei con gli occhi semichiusi, oramai abbandonata, persa nella dolcezza della notte e del suono. “I testi sono neri di disperazione, ovvio. Manca però quel tocco maledettamente affascinante che possedeva, per esempio, Ian. La forza degli Opposition non sono i testi ma gli arrangiamenti e la potenza evocativa del suono”. Durante quella sorta di invo-lontaria lectio magistralis si era disteso al suo fianco pensando all’alba in arrivo e ai chilometri che lo separavano da casa e dal lavoro del giorno dopo. Era la solita botta di schizofrenia...tutto sotto controllo. “Cosa gli avrà detto la testa a Ian, finirla in quella maniera”, un filo di voce appena lo riportò alla realtà, vicino ai lineamenti di un viso che iniziava a piacergli, a piacergli molto. “Lascia perde-re, non pensarci. Io credo che tra qualche anno, il senso di sacralità che riveste ciò che ascoltiamo e viviamo svanirà e probabilmen-te riusciremo a capire il motivo reale di quel gesto. Solo la buo-na musica rimarrà tale, compre-so questo disco che continuerà a girare procurandoci ancora belle sensazioni”. Era giunto il mo-mento, quei brani si erano rive-lati colmi di magia ma ne man-cava uno, il più bello, il sublime. Avvicinandosi alle sue labbra pronunciò solo alcune semplici parole: “Ti offro l’ultima traccia della notte, è perfetta. Pianoforte e spoken words null’altro, si inti-tola ‘I Became a New Man’, un titolo profetico...forse”. I tasti bianchi e i tasti neri ini-ziarono a donare bellezza, quella bellezza nella quale ora si stava-no perdendo due ragazzi, illumi-nati dalla luce fioca di un’alba del 1983.

Fab K di Bob Noto

I BECAME A NEW MANMirco Salvadori

MADRID

MI UCCIDEMiguel Gallego Roca

Traduzione di Luigi Bosco

Madrid mi uccide. Si chiamava così uno dei fanzine della Madrid della metà degli anni Ottanta. A Madrid si era ucciso molto, era la “città da più di un milione di cadaveri” di cui parlava il triste e entomologico Dámaso Alonso, amico di García Lorca, in uno dei libri di poesia più importan-ti del dopoguerra, Figli dell’ira (1944). Madrid era stata la città di Fran-co, della sua guardia mora, degli incontri vigilati e delle cospira-zioni. Madrid era la città dove durante 24 ore, dalle otto del mattino del 22 novembre 1975 fino alla stessa ora del giorno successivo, mezzo milione di persone passarono dinanzi alla “camera ardente” del dittatore installata nel Palazzo d’Oriente. Ora, a metà degli anni Ottan-ta, Madrid uccideva in un altro modo: con i suoi cocktail fatti di notte, alcol, droga e musica. Vomitare a Madrid, o di ritorno in provincia, era una forma di energia. Molti possono esser stati gli ide-ologi di ciò che si conosce come “movida madrileña” però chi la legittimò intellettualmente fu il sindaco di Madrid dal 1979 al 1986: Enrique Tierno Galván, detto “il vecchio professore”, cattedratico esiliato di Diritto politico a Princeton, traduttore di Ludwig Wittgenstein e Edmund Burke, molto interessato ai movi-menti di massa e alla rivoluzione francese. È proverbiale il suo invito al “divertimento” durante un festival rock celebrato nel Palazzo dello sport di Madrid nel 1984: «Rockettari! – disse – chi non si sia ancora fatto che si faccia e attenzione!». Come non amare uno così? Quell’esi-liato così serio e calmo, con un po’ di gobba come Andreotti, che si faceva fotografare assieme alle attrici con le tette di fuori. Madrid, amici, era una festa. Dopo arrivavano le post sbronze e i conti in sospeso. Intanto era un inferno molto divertente. La mattina l’ETA faceva un massa-cro in centro. Il pomeriggio notte si facevano riunioni in antri e locali, si faceva incetta di alcol e droga, con un sottofondo musi-cale piuttosto vario: Ragazza di ieri di Nacha Pop, Scuola del calore di Radio Futura, Mi piace essere una troia di Le Volpi, o Voglio essere il tuo cane di Para-lisi Permanente.Tornavo a Granada dopo circa sei ore di autobus, con lo stomaco sottosopra, rimmel sugli occhi, e la sensazione di aver passato la notte con una sposa zombi. Madrid, non c’erano dubbi, era una festa.La schiuma dei giorni di que-sti anni non risparmiava rischi: l’eroina e l’AIDS fecero il loro lavoro. Nemmeno risparmiava le contraddizioni: la Spagna aveva smesso di essere un’anomalia europea più simile a un paese dell’orbita sovietica che al Porto-gallo. La rivoluzione dei garofa-ni del 1974 non era l’unica cosa che gli spagnoli invidiavano del paese limitrofo di fine anni Set-tanta: dall’altro lato della fron-tiera c’erano anche casinò, come pure sale che esibivano soft-porn ad Avignon. Sentendoci europei ci sentivamo molto spagnoli. Dal 1984, già durante il primo governo socialista, fino al 2000, inizio della seconda legislatura di Aznar, la Spagna, che sempre aveva vissuto un po’ concentrata su se stessa, era un paese con una

alta autostima e innamorato di sé. Ciò era abbastanza insolito: ci piacevamo. La sinistra, la destra e i nazionalismi (basco e catala-no, più il basco che il catalano all’epoca) inscenavano la discor-dia ma esisteva un “consenso” di fondo. Credo che non fosse mai accaduto, tranne in quel mondo che descrive Américo Castro in Al-Andalus.La verità è che la cultura spa-gnola di questa decade è molto ricca. Soprattutto il suo cine-ma. Arrebato (1979), del male-detto Ivan Zulueta è un film molto anni Ottanta e allo stesso tempo universale: il fascino per le immagini, l’assuefazione alle

rappresentazioni. Prima, un anno dopo la morte del dittatore, usci-va Il disincanto (1976), diretta da Jaime Chávarri, un documen-tario che raccontava la decaden-za e il disagio della eccentrica famiglia di uno degli intellettuali del regime: Leopoldo Panero, un grande poeta mistico. Uno dei suoi figli, problematico ma geniale, Leopoldo Maria Panero, fu chiamato ad essere uno dei poeti centrali della controcul-tura a partire da Così si fondò Carnaby Street (1970), libro di poesia amato da donne, bambini, androgini e raffinati. Poi sarebbe arrivata la volgarità glamour di Almodovar. La scena di Pepi,

Luci e Bom (1980) dove Bom piscia in faccia a Luci, la sado-maso, mentre suona una mar-cia da processione durante la settimana santa, possiede molte risonanze surrealiste passate da un villaggio della Mancha.Un capitolo a parte meritano i due film di Victor Erice Lo spi-rito dell’alveare (1973) e Il Sud (1983). Forse è proprio Erice quello con più valore di questi anni, il vero classico spagnolo degli anni Ottanta che ci offrì un linguaggio con cui trattare il silenzio, per trasformare la cen-sura, l’occulto, in un linguaggio di altissima qualità.

15RIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA sudINTRO

Nel romanzo The Dispossesed - an ambiguous utopia, la grandiosa scrittrice di science fiction letteraria Ursula K Le Guin immagina un pianeta doppio, in cui le due metà sono separate da un muro invalicabile: nel primo, Urras, trionfa una civiltà tecnologica, florida, capitalistica, basata sul denaro e sul lavoro; nel secondo, Anarres, impera invece un’ideologia anarchica, basata sull’adesione alla Natura e a un profondo sospetto per le macchine.Il romanzo è uscito nel 1972, quando il mondo era effettivamente diviso in due, e questa brutale separazione ha (anche) originato di decenni di violenza politica nei paesi europei e sudamericani.L’Italia è stato uno dei paesi in cui questa violenza ha scolpito in modo più potente l’immaginario e i destini politici di tutte le generazioni successive a quella del post-1968.

Il fotografo Gigi Cifali ha fotografato, con l’autorizzazione e l’aiuto delle autorità competenti, i corpi di reato - oggetti, proiettili, armi, vestiti - riguardanti i processi legati alle stragi e agli assassinii del terrorismo di destra e di sinistra in Italia, tra il 1969 e il 1981.

La mostra sperimentale Un giorno come raffiche di mitra - curata dallo scrittore Gianluigi Ricuperati - non è tuttavia incentrata sul valore storico indiscutibile di questi documenti, che non aveva bisogno di nulla per emergere nella sua assoluta evidenza e necessità.Si tratta piuttosto di esercitare uno sguardo dalla distanza, una pratica di lontananza, e ripensare attraverso queste straordinarie immagini scattate con il banco ottico, e presentate sui tavoli di un ufficio, non dissimile dai tanti archivi e centri di smistamento che affollano il sistema burocratico di ogni paese, come reliquie e stazioni di una favola antropologica nerissima. Una favola purtroppo vera, ma che nondimeno possiede le caratteristiche narrative di una festa mutata in tragedia.

Così come nel romanzo di Ursula K Le Guin, anche nella Storia dell’Occidente negli anni settanta, due visioni opposte del mondo e della vita si sono scontrate producendo risultati molto simili, nelle loro spe-cifiche differenze: il calvario che ne è seguito viene dunque raccontato sovrapponendo i corpi di reato, assolutamente documentali, alla visionaria prosa del romanzo, che in punti specifici rivela convergenze e assonanze profonde e rivelatorie.

L’omicidio Moro, la strage di Piazza della Loggia, i vestiti, le pistole, le frasi sbagliate e deliranti dei ciclostili dei terroristi, risuonano grazie alla finzione nella loro verità più assoluta. Le splendide, terribili, immagini di Gigi Cifali appaiono così come conseguenze finali di un leitmotif che va aldilà della pur fon-damentale ricostruzione storica: il precipizio su cui tutti camminiamo quando lasciamo che il mondo degli umani venga subordinato al mondo delle idee.

NOTIZIA

Cosa sono i corpi di reato e come vengono gestiti:I corpi di reato sono le cose sulle quali o per mezzo delle quali è commesso il reato, nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo. I corpi di reato hanno una particolare rile-vanza probatoria e per questo l’art. 253 del c.p.p. prevede che l’autorità giudiziaria ne disponga il sequestro con decreto motivato.Le cose sequestrate sono affidate in custodia agli Uffici Corpi di Reato presso i Tribunali e quando ciò non è possibile la custodia avviene in luogo diverso presso terzi, ossia in depositi di ditte private specializzate.La custodia onerosa presso terzi, se non coordinata con la massima diligenza, arreca danni erariali esorbitanti: “Il magistrato che omette o ritarda l’adozione dei provvedimenti in ordine alla destina-zione dei beni sequestrati, e il funzionario che non esegue o ritarda l’esecuzione del provvedimento di restituzione o vendita della cosa sequestrata, sono responsabili di eventuali danni erariali conse-guenti al protrarsi della custodia” (circolare 15/3/06 Dip.A.G.).Così da evitare indebiti prolungamenti con conseguenti spese inutili, deve essere monitorato anche quanto viene depositato presso gli Uffici giudiziari. La capacità di immagazzinamento degli spazi destinati alla conservazione di reperti nei Tribunali è molto limitata e per non ricorrere in maniera ingiustificata a ditte esterne, puntuali ispezioni e rigorosi rilevazioni annuali controllano che i reperti legati a processi conclusi vengano correttamente smaltiti. Tuttavia il giudice può procedere anche prima della chiusura dell’iter giudiziario in caso di trasferimenti di competenza, restituzione all’a-vente diritto quando non si dimostra più utile ai fini penali e qualora risulta deteriorabile. I corpi di reato vengono distrutti, messi all’asta e ceduti in beneficenza, a musei criminali e a istituti di interesse scientifico-culturale.

FAR

POLITICAL TERRORISM

AS NEWS FROM

A DISTANT STAR

Images and Signs: Italy, 1969-89 di Gigi CifaliUna mostra narrativa a cura di Gianluigi Ricuperati

ČZ Škorpion vz. 61 cal. mm 7.65 submachine gun - Found in the Brigate Rosse hideout in Viale Giulio Cesare 47 during the arrest of Adriana Faranda and Valerio Morucci (Rome, 29.05.1979), Images and Signs: Italy, 1969-89, Gigi Cifali, 2013-15

La mitraglietta Škorpion - ritenuta essere l’arma utilizzata per l’uccisione dell’On. Aldo Moro -, è stata ritrovata il 29 Ottobre 1979 durante l’arresto di Adriana Faranda e Valerio Morucci in un appartamento di Roma in Viale Giulio Cesare al numero 47, di proprietà di un’ex militante di Potere Operaio, Giuliana Conforto. Dopo l’uccisione del Presidente della DC, i terroristi Faranda e Morucci sono usciti dalla colonna romana delle Brigate Rosse e hanno formato il Movimento Proletario Resistenza Offensivo (MPRO).

The wooden box (opened) containing the timer of the rudimental unexploded bomb discovered in Milan’s Central Station on the 154 Trieste - Paris train (Milan, 08.08.1969), Images and Signs: Italy, 1969-89, Gigi Cifali, 2013-15

Cassetta di legno con timer e pile della bomba rudimentale inesplosa trovata sul treno 154 Trieste - Parigi in sosta alla Stazione Centrale di Milano. È legata alla serie di attentati dell’8 e 9 Agosto 1969, per i quali sono stati condannati Franco Freda e Giovanni Ventura di Ordine Nuovo.

sud16 80.

Beniamino Servino

Rubik Cathedral, Antistress contro la paura della morte

L’OTTANTAGiusi Marchetta

L’ultima volta che sono tornata a Caserta, è venuto pure lui per conoscere mamma. È stato bra-vo: ha bevuto il caffè e ha detto che era buono, si è tenuto il gatto addosso e ha fatto finta di niente quando lei mi ha fatto notare che gli restano pochi capelli. Alla fine della visita è sceso in cortile a fumare e a lasciarci un po’ da sole per dirci le cose che davanti a lui non avremmo detto. Più tardi l’ho trovato sulla pan-china difronte a fissare il palaz-zo. – E quella? È una crepa sottile, un lungo ghi-rigoro che rompe la monotonia rossa della facciata.– L’Ottanta – dico e basta. Sono trentacinque anni che sento que-sta risposta e non c’è mai stato bisogno di aggiungere altro. Fa sì con la testa. Ha capito. Pensa al terremoto, ai morti se-polti sotto le proprie case. Lo pensa perché non sa niente di Carmela e non sa che tutto è crollato per colpa sua.

Abitava nel nostro palazzo, al piano di sotto, con la madre e un padre che quando Carmela era molto piccola avevamo visto sa-lire su un’ambulanza e che non era più tornato. Sapevamo che era vivo perché la moglie anda-va a trovarlo in clinica una volta a settimana, lasciando la figlia a chiunque si offrisse di tenerla, ma di che malattia si trattasse a noi bambini non era dato saperlo. Del resto ci sembrava normale e perfino giusto. Molti di noi già avevano già capito che il mon-do degli adulti era molto simile al teatro della parrocchia: dietro le quinte Calabrò era il salumie-re che se capitava bestemmiava con trasporto; quando usciva sul palco con la tonaca di don Bosco gli cambiava pure la voce. In compenso conoscevamo mol-to bene lo spazio tra le panchi-ne del cortile e il campo giochi, quel morso di terra invaso dalle erbacce dove i ragazzi buttavano le cartelle per fare le porte e gio-care a pallone. Passavamo interi pomeriggi sedute sui marciapie-di grigi tra le palazzine: inventa-vamo storie o vendevamo pac-cottiglia ai passanti. Qualcuna portava le sue bambole, a qualcun’altra non era permesso e dovevamo darci appuntamen-to sotto il suo balcone a un’ora precisa per darle la possibilità di mostrarci da lontano l’ultimo ac-quisto. Qualche volta non anda-vamo per non darle soddisfazio-ne. Eravamo tranquille, buone, educate tranne quando smette-vamo di esserlo. Sempre meglio dei maschi, comunque.

I miei genitori si erano sposati a diciott’anni e io ero arrivata poco dopo, troppo poco agli occhi di chiunque. Li avevano perdonati, però, perché erano innamorati e bellissimi con occhi nocciola e capelli neri e folti come crinie-re. Col passare degli anni i vicini perdevano il lavoro, avevano fi-gli da allattare o mantenere, co-minciavano a tenersi la barba o la pancia, si sformavano in viso e sui fianchi. I miei no. Mio padre andava al lavoro fi-schiando. Gli piaceva l’edicola e l’odore dei giornali appena stam-pati. Quando passavo a trovarlo mi dava la settimana enigmisti-ca da portare subito a casa; era appena arrivata, non ce l’aveva ancora nessuno, diceva e mi fa-ceva pure l’occhiolino, ma io lo sapevo che anche quello era per lei. L’amavamo moltissi-mo tutti e due, ma era naturale,

un sentimento dovuto: nessuna donna delle palazzine era come Caterina. All’uscita di scuola, le altre ma-dri mi fermavano per chiedermi sorridendo della bella ragazza che mi aspettava al cancello. Era mia sorella grande? La raggiun-gevo di corsa, ci allontanavamo insieme, mi sentivo il loro sguar-do sulla schiena che ci seguiva, serio.

Carmela, invece, la odiava. Aveva solo un anno più di me, ma già sapeva mescolare la per-fidia ai gesti quotidiani in picco-le dosi per renderli abbastanza amari da sopportare senza che sconfinassero in un’aperta ostili-tà. Quando Caterina passava per le scale, rimaneva seduta con il libro tra le mani, come se fosse stato impossibile interrompersi per farsi da parte. Se la incontra-vamo dal fruttivendolo, cercava

di incrociare il mio sguardo poi increspava le labbra, baciando il nulla. Accanto a me Caterina scherzava con Michele per farsi mettere più odori nella busta. C’era in quell’ostilità e in quel-le smorfie un’accusa non detta e che neanche capivo. Qualcosa che aveva a che fare coi tacchi di Caterina o l’attenzione che il mondo le riservava.

Ricordo anche pomeriggi di pace, certo, quando giocavamo in cortile unendo i nostri pochi gio-cattoli. Allora mi sembrava quasi che fossimo amiche. Altre volte mia madre attraversava in fret-ta il cortile inseguendo qualche incombenza; Carmela aspettava che si allontanasse, poi prendeva la sua unica Barbie, le allargava le gambe, la faceva ondeggiare in

una camminata oscena. – Chi sono? – chiedeva. Le altre ridevano.

Stavamo in due classi diverse, ma pure la scuola mi doveva tradire. La maestra Anna ci aveva inse-gnato La canzone del Piave: la conoscevamo tutti a memoria. Carmela si ritrovava una voce bellissima perciò la usava spes-

so, nei corridoi, in cortile o per le scale, cantando ovunque del Piave o così mi sembrava, finché non ho capito che il motivo era quello ma non le parole.Michele mormorava calmo e pla-cido al passaggioDi Caterina il 24 maggioEra stupido. Era irritante. Ed era autunno quindi non c’entrava niente. Eppure non lo raccontavo a casa perché di Carmela avevo pau-ra. Non paura che mi picchiasse come capitava qualche volta con i ragazzi del rione quando pensa-vano che avessi due lire. Avevo paura per Caterina. A volte la so-gnavo che piangeva e mi chiede-va che voleva quella da lei. Smisi di scendere in cortile. Bastava che mi vedesse sul bal-cone, però, che subito attaccava con la melodia senza parole e io sapevo che lo faceva perché tanto le parole ce le avrei messe io.

Poi, una sera. Papà era a Macerata perché il nonno era caduto da una scala. Caterina aveva un che da fare, così, per non lasciarmi sola, mi ha spedito a casa di Carmela. Sua madre ci ha detto di finire i com-piti e di fare le brave. Non è mai stato un problema per me. Mentre cercavo di concentrarmi, lei ha ricominciato. Non mi è più capitato di sentirmi formicola-re le mani così tanto, di afferra-re qualcuno con la stessa forza. Con Carmela è stato facile: aveva ancora il grembiule addosso e il colletto sporgeva. Le ho sbattuto la testa sul pavimento e lei mi ha stretto i polsi. Ci siamo fissate per un po’, rancorose, ansimanti. – Tua mamma è una zoccola.– E chi lo dice?Sua madre lo diceva. Siamo salite per le scale di na-scosto. Un po’ di sangue le mac-chiava il mento perché nella lotta s’era morsa un labbro. Non mi dispiaceva. Ci siamo sedute sul-la rampa che andava al piano di sopra, dietro al muro, abbiamo aspettato. Dopo poco si è aperta la nostra porta di casa e Michele è uscito come se niente fosse. Gli sono andata dietro sul pianerotto-lo ma lui non se n’è accorto. Non riuscivo a muovermi e non ci sono riuscita neppure quando la porta si è aperta e Caterina è com-parsa e ha fatto un piccolo salto all’indietro. Ci siamo guardate. Allora ho sentito Carmela, la sua voce trionfante. – Hai visto? Poi tutto ha cominciato a crollare.

Se mi chiedono dell’Ottanta dico che non ricordo ed è vero: ero piccola, non ricordo. So solo che per me è stata una domanda a dare il via a tutto. Hai visto che la tua famiglia va in pezzi? Ho visto. Decido adesso, su questa panchi-na, che a lui dirò di quando la mia paura più grande si è realizzata e ha crepato il palazzo. Gli dirò anche che non capivo allora, ma che adesso, passati i quaranta ca-pisco. E gli racconterò di mia madre che ci ha tenute strette me e Carmela e ci ha salvato la vita. Gli raccon-terò quella notte passata in mac-china noi due sole, delle scosse del mondo fuori e di quelle senza fine nel mio petto, della mano di lei sulla mia testa, di quando ha detto dormi e tutto ha smesso di crollare e io mi sono addormenta-ta mentre Caterina vegliava sulla nostra casa e la teneva in piedi finché papà non fosse tornato.

foto di Bob Noto

17RIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA sudPRAGA

ALLER RETOURAlessandro De Vito

hanno portato a casa sua, nella via Ječná. Ho preso una brutta influenza, avevo 42 di febbre, in quello stato avevo le allucina-zioni, una specie di velo davanti agli occhi, confondevo la notte e il giorno.E così, quando alla fine di dicem-bre del 1989 mi sono risvegliato dall’ottundimento della febbre e sono uscito nelle strade di Praga, non ero certo se il produttore Saul Zaentz non si fosse assicu-rato una scenografia migliore o se non si stesse girando un sequel dal romanzo di Kundera L’inso-stenibile leggerezza dell’essere, nella cui trasposizione cinema-tografica avevo lavorato come “special creative consultant”, il che significava che mi occupavo di questo, che i cechi non sem-brassero albanesi e che la Praga girata a Lione e Parigi fosse per quanto possibile autentica. Non sapevo se stessi calpestando il vero acciottolato della pavimen-tazione di Praga.Perso in queste considerazioni sono finito istintivamente al Tea-tro Ve Smečkách. Il teatro non ha mai fatto presa su di me, ma il bar del teatro era famoso. Quella sera era in scena una commedia a me sconosciuta, Noises Off, Senza costumi. Io l’avrei tra-dotto “Senza rumori”, o “Senza chiasso”. Avrei desiderato piut-tosto il contrario. Nel ruolo prin-cipale Jiří Menzel. Jirka [dimi-nutivo di Jiří, NdA] non ha mai bevuto, non andava alle serate, stava attaccato alle sottane di mamma. Ha avuto l’Oscar, ha mantenuto la sua integrità, non ha girato molti film negli ultimi anni. Al bar del teatro mi ha dato

fermate? Avete un visto per 21 giorni, per ogni giorno dovete cambiare 15 dollari in corone cecoslovacche”. La calcolatrice nella mia testa fece in un lampo: 21 per 15 mi faceva 315 dollari. Non avevo in tasca quella cifra in nessun caso. Risposi: “Cam-bio dollari per tre giorni, più a lungo qui non mi vedrete!”.A dir la verità, non ho fatto tanto il gradasso, il bolscevico talvolta ci ha preparato tranelli e trappole di ogni genere. Nel ’56 l’amba-sciatore sovietico in Ungheria, tale Andropov, in seguito capo del KGB e segretario generale dei comunisti, sosteneva il carat-tere nazionale del cambiamento, e poi invitò i carri armati sovieti-ci, migliaia di persone morirono e il capo del governo Imre Nagy fu impiccato. Da noi i compagni Dubček e Smrkovský, e io a loro credevo e mi piacevano, hanno garantito ai cittadini cecoslovac-chi la sicurezza. Però poi venne-ro arrestati, deportati in Russia e solo per fortuna hanno evitato la forca.Devo annotare che quel 26 dicembre ero apolide, privo della cittadinanza cecoslovacca, senza la possibilità di richiedere asilo politico da qualche parte, con uno straccio di carta che garan-tiva di poter tornare negli USA, ma senza nessuna tutela da parte di quello splendido paese. “Ci va calma”: l’immagine del faccio-ne di Švejk comparve sul muro accanto a quella di Havel.“Tre giorni, sono 35 dollari.” Ho tirato fuori dalla tasca dei dollari spiegazzati e unti, li ho stampati in mano all’impiega-to e ho esclamato: “Tre giorni, tre giorni, poi me ne scappo di nuovo negli USA! Buon Natale e buon anno!”.E così mi fu permesso di attra-versare la frontiera ed entrare nella terra natia, pagando in dol-lari, ma non in manette. In con-tumacia avrei potuto essere stato accusato e condannato per chissà quali delitti e non saperne nulla.Era buio, notte, freddo, umido, cinereo, uno schifo. Mia sorella e qualche amico erano venuti ad aspettarmi all’aeroporto già per il terzo giorno di fila. Mi

Le ricordo ancora oggi le facce dei compagni di giochi al parco sotto casa, le loro espressioni, tra corse, nascondini e su e giù per lo scivolo, quando con mio fratello “giocavamo a parlare in ceco”. Ci piaceva provocare quel breve stupore, creare un mondo magico, una bolla in cui potevamo dirci cose segrete ad alta voce, protetti dall’incom-prensibilità della nostra seconda lingua. Quella di nostra madre.Torino, metà, fine anni ’70. Non c’erano quasi stranieri allora, era raro incontrarne. Neppure i calciatori, vallo a raccontare ai ragazzini di oggi.Che cosa si conosceva della Cecoslovacchia negli anni ’70 e ’80, dopo il quarto d’ora di notorietà storica del ’68-69, e la conseguente ibernazione brez-neviana?“Cecoslovacchia” era metafora di stagnazione, di grigiore neo-stalinista. Quasi lo stupore che ci fossero persone vive, lassù. Li si sentiva appena nomina-re, i cecoslovacchi, con la loro particolare bandiera, in occasio-ne delle competizioni sportive internazionali.L’incredibile vittoria nell’Euro-peo di calcio del ‘76: vittoria ai rigori sui campioni del mondo in carica della Germania Federale di Beckenbauer, grazie alla folle invenzione di Antonín Panenka: il primo rigore “a cucchiaio” della storia. O Jarmila Krato-chvílová, donna sospettata di essere uomo, che detiene tutto-ra il record mondiale degli 800 metri, stabilito nel lontano 1983. O Ivan Lendl, con la sua forza e la sua maschera di sofferenza.Senza dimenticare che negli stessi anni il grandissimo atleta, e uomo, Emil Zátopek, destituito di ogni incarico lavorativo nello sport cecoslovacco dopo il ’69, era costretto a lavorare in una miniera di uranio…Oltre lo sport, Kundera. Certo, anche altra ottima letteratura, importata, a volte salvata dal silenzio dalla passione di Ripelli-no e non solo. Ma il grande scrit-tore ha per un periodo imperso-nificato il ruolo dell’intellettuale fuoriuscito, probabilmente oltre il suo volere, complice il grande successo di pubblico. Diversa la vicenda, simile la notorietà, del regista Miloš Forman (Qualcuno volò sul nido del cuculo, Hair, Amadeus, Larry Flint), uno dei giovani registi della Nouvelle Vague cecoslovacca, l’unico a sfondare all’estero, in questo caso negli USA (anche Jiří Men-zel ha vinto un Oscar, Treni stret-tamente sorvegliati, da Hrabal). Non è questo il luogo per elenca-re tutti coloro che in quegli anni erano in esilio all’estero, o in bir-reria, come il “tenero barbaro” e grande scrittore “molto ceco” signor Hrabal; ma tanti sarebbe-ro da riscoprire, oltre le mutevoli mode di traduzione dell’editoria italiana odierna.

Quindi, per tutta la mia infanzia, poi adolescenza e giovinezza, d’estate si andava “in Cecoslo-vacchia”, dai nonni. Che era un po’ come dire “su Marte”. Un lungo viaggio in auto, ché non c’erano voli low cost: Torino-Ostrava, 1365 km. Un viaggio non dissimile da quelli degli emigranti che lasciavano il nord (Italia, Germania, Belgio, Sviz-zera, Francia) per tornare “al paese”. Però, in direzione con-traria: un viaggio diversissimo e particolare. In un’altra dimensio-ne, quella socialista, in un altro tempo: negli anni ’60, a volte ’50.

1365 km da percorrere, con fron-tiere ante Schengen da superare, sopra tutte quella tra il mondo al di qua e quello al di là della Cor-tina di Ferro. Noi bambini snoc-ciolavamo il rosario del percorso; Torino Piacenza Brescia Verona Bolzano, che era già Bozen, un po’ straniera, Brennero. Fron-tiera, doppia: controlli italiani, e poi austriaci. E passaporti, carta verde, niente da dichiarare: Austria, anzi Österreich. Poi di nuovo frontiera, doppia: austria-ci, e poi tedeschi. Passaporti, carta verde, niente da dichiarare: BundesRepublik Deutschland. E ancora frontiera, doppia: tede-schi, e di nuovo austriaci. E passaporti, carta verde, niente da dichiarare: Österreich. Verso Vienna, era già raro incontrare auto italiane: questo aumentava il senso di avventura, di qual-cosa che stai facendo solo tu. A Vienna, finiva l’autostrada. Era notte, quando si arrivava lassù al Confine di Ferro, per una strada che sembrava secondaria. Che per tutte le logiche del tempo era secondaria.Anche noi bambini capiamo, già prima di arrivarci. I grandi sono in tensione, ci ripetono di fare i bravi, anche se già facciamo i bravi. Si raccomandano molto. Si raccomandano troppo, fuori tono. Viene spenta la radio. Dopo la dogana austriaca, un lungo chilometro di Terra di Nessuno. Nulla, non campi coltivati, non case, non alberi. Si vede l’edifi-cio basso della frontiera cecoslo-vacca, della frontiera del mondo socialista: prima di arrivarci, una fila più o meno lunghissima di camion, più o meno lunga di auto.Non hai nulla da temere, e temi. Non hai nulla da nascondere, e ti comporti come se fossi col-pevole. Con buona approssima-zione, è questo l’essere in balia dell’arbitrio del Potere, essere indifesi di fronte a qualcosa di grosso, informe e sconosciuto, la dittatura.Non si sa mai quanto tempo ci vorrà per i controlli: a volte mezz’ora, a volte due ore, se decidono di smontarti le valigie, ispezionare il motore e sotto la macchina. Bisogna stare tran-quilli, non portare libri sospetti, mio padre deve dire di esse-re avvocato, non giornalista. Le peggiori doganiere – son quasi sempre donne – le ricordo nell’u-niforme verde militare, aveva-no mani grasse e puzzavano di sudore e astio. Mani estranee che frugano nelle nostre cose, nelle nostre borse.

Tutto questo è crollato tra il 17 novembre e la fine del 1989. La Rivoluzione di Velluto, quando uno dei regimi più duri e repres-sivi al mondo ha ceduto il passo in pochi giorni, senza colpo feri-re, salvo un morto… inventato.In quei giorni seguivamo la situazione attraverso i telegior-nali, con eccitazione e un po’ di preoccupazione per chi era lì. Ci sono immagini che incarna-no la storia, pubblica e privata, diventandone icona. La sera del 23 novembre Vaclav Havel e Alexander Dubček , la nuova e la vecchia rivoluzione, si affacciano insieme da un balcone sulla piaz-za Venceslao gremita e festante, abbracciandosi e abbracciando la folla e le bandiere. Ci vorrà ancora qualche giorno, ma ora è chiaro: è tutto finito.

Il regista Jan Němec, enfant terrible della Nouvelle Vague di Praga e sfortunato collega di

Forman, probabile vincitore di Cannes nel 1968, se non ci fosse stata la contestazione al Festival dei rivoluzionari parigini (ma è un’altra storia, raccontata sem-pre nel libro Nepodávej ruku číšníkovi, [Non dar la mano al cameriere], Praga 2011, di cui abbiamo qui di seguito tradotto l’ultimo capitolo), così racconta il suo ritorno in patria, alla fine dell’89.

«Sono tornato a casa, dopo quin-dici anni. L’aereo si avvicinava alla pista notturna, debolmen-te illuminata, dell’aeroporto di Praga. Il criminale torna sulla scena del delitto. La terra natale mi aveva rigettato come un reiet-to, ero volato via da Praga senza cappello, scalzo, senza un soldo e completamente annichilito. Stavolta era il 26 dicembre 1989. Ai controlli di frontiera gli stessi poliziotti, gli stessi doganieri, con le mostrine verdi con la stel-la rossa al posto della coroncina reale sulla testa del leone ceco, nello stemma nazionale sul cap-pello. Ho sfoderato un passaporto cecoslovacco da tempo scaduto e ho fatto l’occhiolino, patriottica-mente. Niente. Ho scorto delle foto di Havel attaccate frettolo-samente al muro, anche se il 26 dicembre 1989 non era ancora presidente. “Suvvia, lasciatemi andare a casa, ho fatto un lungo viaggio!” Niente.“Esibisca un documento di viag-gio valido”, così risuonò l’or-dine del membro della polizia di frontiera. Ho sfoderato un documento, un bianco surrogato di passaporto con su scritto Re-entry permit to USA. Su quel-la specie di passaporto tuttavia rifulgeva un visto della Repub-blica Socialista Cecoslovacca, che permetteva una visita di 21 giorni. I membri della polizia di frontiera non avevano mai avuto per le mani un documento simile, ciò nonostante l’hanno timbrato con un suono secco, e mi hanno fatto passare da un impiegato in civile. “Allora signore,” mi fa, sfogliando quell’imitazione di documento di viaggio “signore che si chiama John Jan Němec, benvenuto dagli USA. Quanto vi

un bacio leggero sulla fronte, e mi ha detto: “Honza [diminutivo di Jan, NdA], benvenuto a casa, quella di oggi sarà la mia miglio-re e più importante esibizione da attore. Siediti, e guarda”.Questa non era l’America. Che un vincitore dell’Oscar, sul pal-coscenico, si agiti davanti a un outsider, tornato dall’America senza Oscar, senza soldi e pure con la febbre?Ma neppure le trovate di Jiří Menzel mi hanno conquistato al teatro. Me ne sono andato die-tro l’angolo, a un baracchino di salsicce in piazza Venceslao. Jirka Menzel mi ha trovato lì, e mi ha chiesto molto direttamente se ho apprezzato la sua esibizio-ne teatral-acrobatica. Dicendo la verità, gli ho raccontato che ero lì a ingozzarmi di salsicce e a bere vino, che mi hanno procurato anche se non è nel menu. Jiří Menzel mi ha detto, seccamente: “Porca miseria, Honza, non sei cambiato affatto, in America!”.Mi è sfuggito. Sono a casa.»

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LA MANOAzra Nuhefendić

da esperta, creava. Fissavo i suoi movimenti sicuri, veloci, cer-cavo di capire e imparare. Ogni tanto facevo le domande, chiede-vo spiegazioni e lei, contenta, mi faceva vedere e insegnava; per farmi capire o vedere meglio ral-lentava i movimenti e mi diceva: «È importante essere pazienti. Se sei nervosa, lascia stare. Fa’ qualcosa d’altro, calmati, e ve-drai, quando riprendi a cucire, che ti viene bene». Una volta, in partenza per le vacanze estive, volevo ad ogni costo portare due - tre cose che facevano l’ultima moda. Lei aveva cucito tutta la notte, e la mattina avevo quello che vole-vo: una gonna lunga stile zinga-ra, un abito corto e una camicia con delle inserzioni di pizzo. Io ero contenta, e lei felice. Ce l’a-veva fatta e godeva immaginan-domi vestita di quegli abiti fatti con tanto amore e la fatica. E sì, faceva fatica solo che io, allora, non consideravo che cucire tutta la notte comportasse uno sforzo. Quello che lei faceva per me lo prendevo come scontato, io lo volevo e le esauriva il desiderio. Insisteva che imparassi a cucire. «Meglio avere un mestiere, an-che se non ti servirà nella vita», diceva. Ci ho provato, inutil-mente, mai riuscita a imparare a cucire. Forse perché sono sem-pre stata nervosa. Anche adesso sono agitata, mi sudano le mani.

che facesse sul serio, io mi dice-vo: «Ma tu non sei me, e adesso faccio quello che mi pare!» Accarezzo la sua mano, quella che è sempre stata per me una metafora viva di un sostegno in-condizionato. Vorrei adesso, più che mai, che mi indicasse come fare. Mi avvicino e sussurro nel suo orecchio: «Se fossi in me, cosa ne faresti adesso? Dimmi, come andare da qui a un posto dove tu saresti come sempre forte, decisa, dimmi che tutto si sistemerà, e che basta solo avere pazienza?». Tengo la sua mano nella mia, l’ accarezzo con l’altra, e sento con ogni mio atomo di far parte del suo corpo. Sono spaventata dalla prospettiva che potrebbe non es-serci più. No, questa possibilità non l’ho mai considerata sul se-rio. Non è il momento, c’è anco-ra tempo, tanto tempo prima di partire, prima di lasciarci. Ancora ieri quando sono venu-ta a trovarla, era sveglia, con un sorrisetto mi ha detto che le piace come mi fossi vestita. «Mi sono fatta bella per te», le avevo detto. Lei se ne intende, non di moda, però il suo occhio per l’estetica era di una finezza che derivava dal talento e da anni di pratica. I ricordi più nutriti sono quelli della sua mano mentre mi cuciva abiti. Teneva l’ago tra il pollice e l’indice, e con movimenti decisi,

Appoggio la sua mano nella mia per misurarla, come fanno i bambini. La sua è più piccola, e questo mi sorprende. Senza alcu-na ragione credevo il contrario. Solo il fatto che sia la mia mam-ma mi bastava per credere che la sua mano fosse più grande, e che in tutto e per tutto, lei doveva es-sere più grande, più forte, più in tutto. «Sarai sempre la mia piccola», mi diceva quando protestavo specialmente se, davanti agli al-tri, mi trattava come se fossi an-cora una bambina.Approfitto della situazione, ten-go e accarezzo la sua mano. Mi fa ridere l’idea che lei, se potes-se, avrebbe trovato un modo o una scusa per liberarsi da que-ste tenerezze. Non si lasciava accarezzare. Negli ultimi tempi, quando qualcuno tentava di ab-bracciarla o baciarla, aveva in-ventato un modo particolare per evitarlo. Ti afferrava la mano e la baciava. «Mamma, non devi fare cosi, le mani della gente sono piene di batteri, ti ammali», la criticavo. Ma lei continuava a farlo. Strano comportamento di una che è sempre stata piena di amo-re e pienamente dedicata alle fi-glie. Spesso esagerava e talvolta m’imbarazzava la sua palese parzialità. Sia nel giusto che nel torto, è sempre stata dalla parte delle figlie.

Esamino attentamente la sua mano. La giro su e giù, guardo bene da destra e da sinistra, per-lustro ogni parte con eccessiva concentrazione, cerco i segni particolari, qualcosa che mi con-fermi la persona eccezionale che è. Lo è sempre stata per me. È una mano bella, molto fem-minile. Non è la bellezza della mano di chi nella vita “non solle-vava nulla più pesante di un cuc-chiaio d’oro”. Ha segni di vita e questo la fa più bella. Le dita sono regolari, nessun segno di artrosi, nessuna cur-va, né gobba. Alla sua età, no-vant’anni, è quasi un’eccezio-ne. Le unghie tagliate corte, color rosa-pallido.Non porta l’anello. Fino a pochi anni fa portava al dito una fede sottile d’oro di quattordici ca-rati. L’avevo comprata io con-vinta che averla fosse un suo desiderio segreto. Con papà si erano sposati durante la guerra, senza scambiare le fedi, dopo c’era sempre qualcosa di più importante per spendere i soldi, invece di quell’oggetto confer-mante la condizione di donna sposata. Non mi sono accorta quando ave-va smesso di portarla. Prediligeva un anello con ametista che mia sorella grande le aveva comprato con il primo stipendio. È rimasto suo preferito, anche avendone al-tri con brillanti.

La sua mano era l’ultima cosa che vedevo prima che i rami dei tigli mi togliessero la vista. Uscivo di casa e lei si sporgeva dalla finestra, appoggiandosi sul-la mano sinistra e con la destra mi salutava. Mentre mi allonta-navo lungo il fiume sulle spalle, sentivo il suo sguardo fisso su di me. Ogni tanto mi giravo per salutarla e mi capitava di urtare contro le persone che mi veniva-no incontro. Mi scusavo, e dopo alcuni passi mi giravo di nuovo. L’immagine della sua mano che si muoveva per salutarmi diven-tava sempre più piccola, meno visibile e, infine, non avrei po-tuto capire se quella che si muo-veva nella cornice della finestra fosse la sua mano. Il suo indice è quello che forse conosco meglio. Lo alzava men-tre parlava per sottolineare argo-menti, per convincermi o per ac-centuare che era seria quando mi sgridava, per farsi più determina-ta, autorevole, o minacciosa. «Se non mangi, non ti lascio guarda-re la TV», mi diceva muovendo l’indice davanti ai miei occhi. Quando ero cresciuta e non do-vevo per forza seguire i suoi con-sigli, sempre muovendo l’indice, mi diceva: «Al posto tuo...» e poi cercava di convincermi di sce-gliere o fare quello che, secondo lei, sarebbe stato meglio per me. Ma io non rinunciavo alla libertà acquisita. Che stesse scherzando,

19RIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA sud

CON UNA CITTÀ NON SI

PUÒ AVERE METODOAndrea Inglese

Non mollo però la sua mano, non voglio staccarmi da questo con-tatto fisico privilegiato, possibile solo in questa situazione partico-lare e solo perché lei non possa sottrarsi alle tenerezze che non le piacevano. Molte altre cose che lei faceva bene, non le ho imparate. Sapeva anche sparare. Da partigiana por-tava un fucile e sparava. «Hai ucciso qualcuno?», la chiedevo perplessa. «Non credo», diceva tranquilla come se ne fosse cer-ta. «Sì, ma come potresti esserne certa», insistevo io. La prima volta che le avevano dato un fucile le avevano ordinato di uccidere un prigioniero, dicendole «devi abituarti». «Non potevo. Quell’uomo che stava davanti a me con le mani legate indietro, tremava, e tremavo pure io, forse di più. Ci guardavamo pieni di paura uno dell’altra, lui per la vita e io per quello che volevano che facessi, togliergliela. Il fucile non l’avevo neanche alzato, mi pesava, avevo la sensazione che mi tirasse giù per terra e stavo per svenire. Un compagno era un po’ dietro di me, era stato mandato ad accompagnarmi e controllarmi. Aveva capito la situazione e aveva preso il fucile dalle mie mani. Credevo che sarebbe stato lui a sparare, ed io avevo coperto gli occhi per non vedere. Piangevo come se fossi io quella

appena sfuggita alla morte. Il compagno mi aveva preso sotto la mano, aveva ordinato al prigioniero di marciare davanti a noi, e ci eravamo uniti agli altri. Dopo, in battaglia, chiudevo gli occhi e sparavo in alto». Questa storia l’ho imparata a memoria. Insistevo che me la raccontasse di nuovo, non perché non ci credessi, ma mi piaceva che la mia mamma da partigiana non fosse una spericolata eroina, ma una come molte altre, piena di paura. Proprio come me. Sì, sono debo-le e solo adesso mi accorgo che mi sentivo sicura e facevo la for-te finché c’era lei a rassicurarmi.Con la vecchiaia la sua mano si è rimpicciolita. Sembra che adesso abbia troppa pelle, sottile, traspa-rente, e morbida. Talvolta scher-zavo, cercavo di «stirare» la pelle della sua mano e lei, accettava il gioco e diceva, che si era fatta il plissé. Chi l’avrebbe detto che quella manina sbatteva forte contro il tavolo. Ricordo quando mi pre-paravo per andare in America, raccoglievo i documenti, i più esigenti alla frontiera erano i nostri ufficiali, più degli ameri-cani. Dovevo, tra altro, avere il consenso dell’associazione dei veterani della Seconda Guerra Mondiale. Succedeva in momen-to delicato per il Paese, perché il presidente Tito stava per morire.

Gli ex partigiani si facevano duri, uno dopo l’altro dicevano che non è il momento giusto, me-glio rimandare, bisognava stare uniti, raccogliere le forze, stare insieme e cosi avanti.Mamma, anche lei una vete-rana, li ascoltava impaziente, ogni tanto saltava dalla sedia, come se qualcuno le avesse dato un pizzico. Poi prese la parola per dirgli perché dovevo an-darci e che le loro ragioni non ci stavano. Rossa in viso dalla rabbia sbatteva con la mano sul tavolo. All’improvviso al-lungò la sua mano verso di me con una mossa decisiva, sem-brava un ordine, l’afferrò e mi portò fuori come se fossi una bambina. Continuava a parlare: «Lei in America ci va, e voglio vedere chi di voi e con quale scusa la fermerà». E così fu. Sotto la pelle sottile della sua mano corrono le vene gonfie, sembrano troppo grosse per una mano cosi piccola. Le accarez-zo e per la prima volta le vedo belle. Non mi piacevano, mi ap-parivano come qualcosa che im-bruttiva la mano. Adesso la bel-lezza la vedo nella loro funzio-ne, mi piacciono le vene gonfie, seguo il loro corso con un dito, le accarezzo, la loro funzione è quello che le fa belle. Correte, grandi, grosse, gonfie, traspor-tate, fate il vostro compito, fin-ché siete così, ci sarà la vita.

Mi avvicino al suo orecchio e sussurro: «Mamma, mi senti? Volevo dirti una cosa importan-te. Sai quando ho avuto la più grande paura delle tue mani? Indovina. Non ci crederai mai! Non è quella volta che mi hai dato uno schiaffo e poi, sorpre-sa anche te stessa da quello che hai fatto, mi hai preso il viso con tutte le due mani, mi hai baciato e abbiamo pianto tutte e due. No, quella volta non avevo paura, ero piuttosto offesa e sorpresa, per-ché non mi picchiavi mai.Le tue mani mi avevano spaven-tate quando ti ho visto in quel fil-mato che avevano fatto di te du-rante la guerra. Guardavo la vi-deocassetta, fermavo il video per vedere meglio ogni dettaglio e la facevo scorrere indietro per sen-tire tutto quello che dicevi; cer-cavo nelle tue parole messaggi nascosti. Ispezionavo il tuo viso reso bluastro dal freddo, lacrime piccole, cosi deboli che non po-tevano scendere giù per tutto il viso e sparivano all’altezza del naso. In quel filmato la vera pau-ra per te l’ho sentita guardando le tue mani irrigidite dal freddo, le dita curve, sporche, con il nero sotto le unghie, perché trafugavi per le immondizie per trovare pezzi di legno da ardere, e poi facevi il fuoco nell’appartamen-to che non aveva la stufa ma lo facevi in un pentolone grande, e non avevi l’acqua per lavarti.

Avevo paura per quello che ti avevano fatto e paura di quelli che ti avevano ridotto in quelle condizioni primitive. Quella vol-ta le tue mani mi avevano fatto capire di quanto soffrissi sotto l’assedio». «Mamma, mi senti? Se mi senti stringimi la mano più forte che puoi», sussurro nel suo orecchio. Aspetto. Poi, mi sposto dall’altra parte del letto per accarezzare la sua mano destra. L’avambraccio è pieno di lividi blu-scuro dalle iniezio-ni che le facevano per prelevare il sangue o per la flebo. Quelle macchie fanno impressione, so che non le fanno male, le tocco una a una, attentamente, evitan-do il punto dove è attaccato l’ago della flebo. Le dita mi sembrano un po’gonfie. Sistemo, come ho visto fare all’infermiera, sotto l’avambraccio un lenzuolo, pie-gato più volte, per fare una sorta di cuscinetto e appoggio la sua mano in alto. Non mi ricordo quando noi due, per la prima volta, avevamo scambiato i ruoli. Quando le ave-vo fatto da mamma, quando era uscita dalla guerra? Che buffo dire «uscire dalla guerra». Però è verissimo. Perché la guerra l’hanno portata nelle nostre case e ci si salvava «uscendo» dalla guerra. Quando era venuta da Sarajevo a Belgrado, sembrava una selvaggia che dopo la vita in

giungla affronta la vita in città. Aveva paura della strada, della gente, del buio, qualsiasi rumo-re le faceva tremare, dormiva nel letto con me, non mi lasciava di spegnere la luce. Mi aveva preso per la mano e non la mollava più, si nascondeva dietro di me, pro-prio come fanno i bambini pau-rosi o timidi. Non voleva staccar-si da me neanche per un attimo. Mi faceva tanta tenerezza. L’ho lavata, portata da parrucchiere, vestita, le ho tagliato le unghie. D’aspetto era come sempre bella, solo che si comportava come se fosse mia figlia. Mi faceva tri-stezza. E quando, di recente, mi diceva che era vecchia e che mi sarei dovuta occupare di lei come se fosse mia figlia, la sgridavo. Non volevo che si lasciasse an-dare, non volevo che diventasse indifesa, debole. Avevo bisogno che mia madre rimanesse sé stes-sa, forte e decisa. Guardo il suo viso tranquillo e immobile. «Mamma, non mol-lare. Ce la faremo», sussurro nel suo orecchio, cercando di essere rassicurante. Poi, con la mano faccio un gesto meccanico, come se avessi voluto togliere dal viso qualcosa che mi dava fastidio. Cerco così di allontanare i pen-sieri cattivi. Anche se tornano continuamente, contro la mia volontà.

Il problema con una città è che, proprio come in amore, non si può avere metodo. Potete metter-vi con metodo a cercare un ap-partamento in affitto, oppure po-tete arredarlo con metodo, o con metodo cercare un lavoro, e poi, con diverso metodo, cercare di tenervelo, di non farvi cacciare, potete sedurre persone con meto-do, e cercare di scoparle metodi-camente, ci sono una quantità di cose belle, di cose necessarie, di cose oscene, che si possono rea-lizzare con metodo, ma non po-tete vivere dentro una città, per mesi, per anni, con metodo.

Le abitudini non sono metodi. Le abitudini sono finti meto-di. Sono, anzi, dei metodi ibridi che pretendono una cristallina razionalità, ma nascono già con-taminati e corrotti dal caso, dalle idiosincrasie, dal terrore più irra-gionevole. A Milano, ho sempre fatto ciò che le miei abitudini mi hanno detto di fare. E certo avevo messo in moto tutto un sistema d’interferenze, come ad esempio la droga, l’alcol, le risse, le perlustrazioni di luoghi spopo-lati, le gite sul Po, le feste che degenerano, le manifestazioni con gli scontri, i corteggiamenti improbabili, la poesia come so-stituto dell’autoipnosi, certe for-me d’arte dubbie e casalinghe. Sentirsi alle sei di mattina come scaraventato giù da un rimorchio di camion dopo un lungo viaggio in traballio costante, ed essere invece seduto su una panchina dei giardinetti di Pagano, per smaltire gli ultimi effetti dell’an-

fetamina e della notte in bianco, non credo si possa considerare un esempio di abitudine. Quindi c’e-rano le abitudini e poi le contro-abitudini, in una specie di gioco al massacro.

Per esempio, vicino alla stazio-ne della metropolitana Pagano esistevano dei giardinetti – non so ora, li avranno magari rasi e cementati per via dell’Expo. Giardinetti vuol dire un po’ d’er-ba, e persino uno spiazzo per bambini con vascone di sabbia, un paio di altalene e uno scivolo. Qualche albero e dei vialetti con panchine. Dalla parte opposta dei vialetti, attraversando una via intensamente trafficata, vi è un enorme parcheggio. (Questo sono certo che esiste ancora, squallido e imperituro.) Ho abi-tato per anni vicino alla stazione metropolitana di Pagano, e per anni mi spostavo per Milano in metrò partendo da quella sta-zione. Quindi quel parcheggio e quei giardinetti, e il traffico automobilistico della via che li separa, oltre alla sagoma dei pa-lazzi circostanti, al colore delle insegne più visibili dei com-merci o delle banche, al rumore delle grate metalliche per terra, quando ci camminavo sopra me-ditabondo e da cui s’intravedono cavità scure e apparecchiature elettriche, tutti questi sfondi e primi piani facevano parte del mio mondo, lo ingombravano in maniera monotona e ostinata. Da quel parcheggio e da quei giardi-netti non mi sono mai aspettato niente. E infatti, nel parcheggio,

in tanti anni ho visto solo gente uscire o entrare nelle automobili parcheggiate, e gente intenta a fare manovra, che sterzava con la faccia corrucciata. Solo una volta ho visto qualcosa di un po’ diverso. Una scenata violenta tra un uomo e una donna. Lei era alta, robusta, aveva un lungo cappotto aperto con delle ma-niche molto larghe e cascanti, i capelli biondo-rossicci e un vol-to pesantemente truccato. Se ne andava oscillando malamente sui tacchi, agitando una borsetta piccola, di cui stringeva la lun-ga tracolla. Gridava, probabil-mente. L’uomo, non ricordo se le fosse vicino o la guardasse da lontano, immobile. Era più pic-colo di lei, più grigio, più silen-zioso e violento. Mi sembrano, nel ricordo, due personaggi di un dittico d’altare, ognuno iso-lato nel suo pannello: lui peri-coloso e immobile, lei sguaiata e tutta in movimento. Eppure la scena era una scena di violenza, con sberle, calci e urla di aiuto. Si stavano addosso. Di certo ruppe la mia abitudine. Di risse di coppia per strada non dovevo averne viste tante, ma ricordo bene una cosa: si menavano, s’insultavano, lei cercava di mettersi a correre, lui si ferma-va, poi la raggiungeva di nuovo, ma non avevano nessuna inten-zione di separarsi, o di essere separati, magari dall’intervento di qualche autorità pubblica. Avevano il parcheggio tutto per loro, e la serata libera, per viver-sela tutta, fino all’esaurimento, quella scenata.

Per il resto, le donne spostavano passeggini lungo i vialetti, qual-che mamma giovane e attraente si sedeva sul bordo della vasca di sabbia e osservava il proprio bambino scavare, la gente saliva con borse da ufficio dalla scali-nata del metrò e senza starci a pensare s’infilava tra le automo-bili in sosta, entrava nella propria e la metteva in moto con lo scopo evidente di tornare a casa il più presto possibile. Eravamo tutti perfettamente guidati dalle no-stre abitudini e quelle degli uni cementavano quelle degli altri.

L’anfetamina, per chi non aveva risse d’amore violento da insce-nare, poteva costituire un buon correttivo dell’abitudine. Questo almeno era il mio approccio. Mi ero spartito le pillole dimagranti con Tito, l’amico fraterno di tut-te le droghe e di tutti gli sballi. Ci eravamo fatti una notte intera di vagabondaggio esaltato, che non capisco bene in cosa potesse consistere, visto che di notte, per le strade di Miano, la gente dor-me, tutto è deserto e sprangato, e noi non avevamo certo i soldi per frequentare i suggestivi locali notturni dove si sbronzano le per-sone belle e originali, quelle che non hanno mai avuto la sfortuna di conoscere le abitudini.

Quindi all’alba, dopo il giro vano e forsennato, io e Tito ritorna-vamo al punto di partenza. Si tagliava per il parcheggio calmo e semivuoto, si attraversava la carreggiata silenziosa strascinan-do i piedi fino ai giardinetti e ci

si accasciava su una panchina. E qui potevamo, finalmente esausti e muti, osservare bene ciò che re-stava di quelle piante, di quell’er-ba, di quelle altalene e vialetti una volta che da essi fosse stata scrostata via tutta l’abitudine. Il peregrinare anfetaminico, il gon-fiarci di parole, l’inoltrarsi nel deserto dei vialoni vuoti serviva forse a questo: bruciare il tessuto mentale delle abitudini, le visioni preconfezionate di cui la nostra testa era satura. Cercavamo altra vita sotto la vecchia vita, qualco-sa che assomigliasse alla nostra impazienza, un paesaggio più convincente, fluido, gremito di possibilità grandiose. Una volta caduta l’abitudine, il falso meto-do, Milano avrebbe cominciato forse a dare suggerimenti, indi-cazioni, a iniettare una stupida ma preziosa eccitazione. Invece, e puntualmente, si limitava ad esibire con più insistenza qual-che dettaglio opaco: la bottiglia di birra infilata in un cespuglio, il manico di un secchiello rimasto semisepolto nella sabbia, l’esatto colore delle tegole della piccola casa di fronte, con le sue persiane marce e bucate. L’ultima sigaret-ta che fumavamo in due, in quat-tro tempi ben misurati, era sem-pre quella della magra filosofia. La schiena come una tavola di legno, l’uccello striminzito nelle mutande, le mandibole esauste di masticare il niente, e il gran-de cratere del dopo anfetamina, il riflusso nero, il down. La luce lattiginosa non faceva promesse. Annunciava già esausta il comin-ciare del giorno.

sud20 80.

immagine di Raffaele Cutillo

Nel mondo rappresentato in cui viviamo, i parametri della posi-tività sono diventati la visibilità e il potenziale di eccitazione psi-chica. Una catastrofe, un terre-moto, è dunque da considerarsi un evento positivo, e tale fu per Avellino. Da oscurissima città di provincia, Avellino divenne per un decennio una città decisiva sul piano politico e sociale, accrebbe enormemente il reddito pro-ca-pite, venne alla ribalta della vita sociale, insomma da allora co-minciò a esistere modernamen-te, mediaticamente. Dapprima Sullo, poi De Mita, che caratte-rizzò una lunga stagione, quindi Nicola Mancino, i ministri e ple-nipotenziari vari Maccanico, De Vito, Gargani, Zecchino, Bianco che fu presidente della DC, fino ai rampolli Rotondi e Pionati...lo stesso Mastella fu una gemi-nazione di De Mita. La tv era in mano a Biagio Agnes, che inse-diò i Marzullo, i Pionati e 100 altri, alla protezione civile c’era Pastorelli, i servizi segreti era-no zeppi di irpini, ai vertici del Vaticano l’altro Agnes, Mario. Calarono in provincia industrie da tutta Italia, Ferrero, Zuegg, Ifs, Fma ecc, si costruirono infrastrut-ture per accoglierle. L’Avellino calcio fu la prima società di pro-vincia a militare in serie A, soste-nuta da una tifoseria votante di 35.000 persone, e ci rimase, stra-namente o ovviamente, per tutto il periodo del regno di De Mita. Come è possibile che in una cit-tadina di 50.000 abitanti e in una provincia da sempre svuotata dall’emigrazione, si accentrasse in pochi anni tanto potere? A fare il miracolo fu la fatale congiuntu-ra fra l’atavica vocazione locale al voto d’appartenenza e clien-telare e l’evento del terremoto, che fece affluire i fondi necessari (63mila miliardi di lire) a fertiliz-zare quel terreno congeniale...Oggi la potenza mediatica dell’e-vento sarebbe stata sfruttata an-cora meglio, con vantaggi sociali e economici anche maggiori: centinaia di iphone, webcam e telecamere avrebbero ripreso e diffuso con impressionante vivi-dezza, da ogni acrobatico punto di vista, l’apoteosi del terrore, l’irripetibile spettacolo della morte che esso rappresentò: pa-lazzi che si accartocciano, suoli squassati, popolo in preda al pa-nico, orizzonti sussultanti squar-ciati da bagliori apocalittici...per la Natura e la placca tettonica fu uno starnuto, ma quale even-to per la piccola comunità degli umani. C’era anche la luna piena, un’oleografica luna rossa a causa del caldo anomalo (io fui sorpre-so dall’apocalisse nel bel mezzo di una passeggiata romantica con una fanciulla, la dolce Gina) ...cosa vuoi di più dalla vita?I politici ci guadagnarono, i buo-ni borghesi ne approfittarono, bambini e scrittori, che vivono nell’attesa dell’evento sconvol-gente di cui scrisse Bataille, gon-golarono, e ci campano ancora oggi, gli unici a patirne furono i poveri... 35 anni fa in Italia c’e-rano ancora i poveri, quelli che abitavano nella case già sgarru-pate, i 3000 che sono morti. Ma quelli erano già invisibili pri-ma di morire, la morte li ha resi anzi più epici e spettacolari, li ha adeguati agli standard mediatici. D’altronde, la funzione dei pove-ri è sempre stata questa, fare la massa al massacro nelle guerre, essere falcidiati nei terremoti, ed oggigiorno fornire materiale di prima qualità per i servizi tv e per i commenti su facebook quando affondano i barconi.

Cos’è che a V. interessase non che il mondo finisca,che il mondo scompaia?È un gioco di bambini,è così da sempre, dalla notte dei tempi.

Gli amici sono in giro a scovare nomi,G. dietro la macchina rossa,I. nell’androne d’un portone,O. è tornato a casa, perché s’an-noia,V. nessuno lo trova.Fissa il sangue raffermo,sotto una pedana di legno,è diventata grovieraper le spade che puntano il cen-tro.Se riuscisse ad estrarne una avrebbe il suo regno,ma V. nemmeno ci prova, pensa che un giorno sarà impiegato d’ufficio,un tossico o un camionista,dal tutto otterrà una parteche non smetterà di volere tutto,sarà un uomo adulto,malinconico come il lavoratoreche inizia il suo turno,avrà un indice mozzo, farà del bene per chiedere aiuto,ricatterà lo spirito, perché torni indietro, asciuttocome il sesso spruzzato sul muro.E la ragazza stranache alleva pulcini sulla terra,macchie gialle tra tappi di bot-tiglia,sarebbe cresciuta, a dismisura,la ragazza dai colori scuriconosce la grammatica straniera,ha un’equazione tra le mani,inventa soluzionicon immaginifica precisione,lei conosce il mistero dei nomi.Vede il ragazzo nascosto nel ventre del mondo,lei avrà il seme di tutti, tranne il suo.È novembre sono leV. aspetta e aspetta,sente lo schianto d’un corvosul rosso marmo del mondo,esce all’aperto, nessuno lo cerca,s’è fermata la meccanica oscura.È domenica sera.

A ogni proposta di acquistare case il bisnonno, secco, re-plicava: “ Le pietre cadono”. Memoria geologica, e storica.La sua non cadde, finimmo lì nella notte. La sedicenne ripete-va un disco rotto: “Sono troppo giovane, giovane troppo per mo-rire”. Lo ricordava alle parche.Anche mio figlio, che riposava in pancia.Per le scale, a rotta di collo, la madre con il coltello ancora e sempre poi nella mano – stava tagliando verdure – si mise a riflettere : “ E’ troppo lungo, non è un terremoto, qualcosa su, alla base Nato, è scoppiato”.Il solaio si spostava, sopra le teste, sul pianerottolo, per un solo microsecondo la certezza che non c’era niente da fare. La quiete. Finis. Giù poi, a rotta di collo. Parenti, amici conoscenti, la lun-ga lista di che fine hanno fatto. Qualcuno scomparso.Sotto l’ospedale, nella collina dei venti, il giovane medico fini-to sotto le travi ai soccorritori: “Lasciate stare, è tardi, lo so, mi è venuta voglia di cantare”, l’au-todiagnosi. DissanguamentoMesi dopo accompagnammo la donna, fredda, austera, una roc-cia, su un altro colle. Tra le ma-cerie, ce n’erano ancora, andava a colpo sicuro. Per noi era solo polvere e freddo e calcinacci. Muta, nello spiazzo che solo lei sapeva, scoppiò dopo poco in un pianto: - “Era della cucina, del-la cucina.” La mattonella, della casa paterna. A lato, in un muc-chio. Non si era capito. Quello era solo l’inizio. Per lunghi anni poi saccheggi e sciacalli, mazzette e corrotti: la gran parte a sbavare, soldi e poi soldi, tanti, pochi, in bocca, al duodeno, dalle orec-chie. Ci si vendeva per poco. L’invasione.Trasferiti, spostati, deviati. Nuove strade. Chalet. Capannoni. Inutili impianti. I vecchi moriva-no. Di vergogna. In silenzio.Era la terra dell’osso.Lungo la faglia aguzzammo afo-ni i cuori.

*E’ il titolo del libro postumo di Manlio Rossi Doria (1905-1988) partigiano, economista, tra gli ultimi meridionalisti.

Il 1980 inizia di martedì.Bob Marley terrà il suo ul-timo concerto a Pittsburgh Pennsylvania.Lennon morirà davanti al DakotaUstica è un cimitero in mare aperto.Bologna esplode mentre l’Italia corre verso le ferieC’è Solidarnosc e arriva Pacman e muore Tito.Ride Like The Wind di Cristopher Cross è la colonna sonora C’è il vento, un’estate da imma-ginare, un terremoto da ricordare.Scoprire la paura per la prima volta.Incontrare Jennifer e il nostro dolore.La prima volta che l’ho vista, Jennifer, era lungo una strada con i suoi occhi stanchi dilatati ed un enorme cane nero che le girava intorno Era spaventata e ho deciso di portarle un libro.È scappata nel bosco, ha percor-so pochi metri il cane si è fermato mentre lei si è voltata per sparire nella pineta.e ci sono entrato pure io come se stessi entrando in una fiaba. Sbagliavo.Era l’inferno e Jennifer diventa-va il mio Caronte.

A poche fila di alberi dalla strada principale c’è un altro universo fatto di tende di plastica di pre-servativi vuoti e di aghi di pino di documenti rubati strappati ri-mescolati ad altre facce di borse svuotate senza più vitaJennifer è ferma dietro il tronco di un pino gigantesco che copre il sole fortissimo di luglio oscuran-do tutti i raggi creando un gioco di ombre come in un miraggio.È seduta con le gambe incrociate e la testa rivolta verso il basso.Sta leggendo a voce alta in una lingua che non conosco, ma dal suono stupefacente come una cantilena.Mentre mi avvicino, sento uno due, cento,mille sguardi non mi-

nacciosi, terrorizzati, attraversar-mi la schiena.È Yoruba mi dice, in un italia-no bruciato, la sua lingua quella della sua gente, quella che si dif-fonde in questo bosco incantato pieno di cani selvatici, di zecche e di epatite , di sandali rotti, di macchie di sangue. Ho paura per la prima volta.Jennifer ha le braccia completa-mente scorticate, avrebbe biso-gno di cure ma deve fare due-centomila lire per stasera e non importa il resto.Le do un fazzolettino di carta e invece le servirebbero unguenti e antibiotici, passeggiare libera-mente fino al crepuscolo, man-giare un gelato, guardare il cielo scomparire dopo il sole fino a diventare stelle.Ha solo diciannove anni strappa-ti alla guerra, in una fuga senza fine, ad una violenza che la se-gue come la dannazione, eppure ha imparato a leggere per cam-biare almeno un po’, ha terribil-mente lottato prima di farsi cattu-rare dalla miseria, nera e desola-ta, prima di accettare il viaggio, che l’ha portata in questo nuovo mondo attraverso il mare. Questo mare che è a pochi al-beri da noi. Eppure Jennifer non ha mai fatto il bagno, ha paura dell’acqua. Le vengono in mente bambini galleggianti simili a boe ingrossate, che danzano intorno ai pochi vivi rimasti in balia delle onde che non hanno poesia affo-gare con la speranza di farcela lasciata in un angolo del cuore.Ha paura anche degli spiriti, ha paura per lei e per i suoi fratellini rimasti in sua Terra , ha paura di incontrare il mio padre nei sogni. Ed è per questo che non dorme mai, che ha la mente in disordine ma conosce Tutuola e adesso sul-le pagine del libro, all’ombra del sole qualche goccia di sale cade le dagli occhi e lei sorride.In questo bosco di spettri passa un uccello e lei ride ancora men-tre tira fuori da un sacchetto di

ANNI ’80Livio Borriello

VENTITRE NOVEMBRE

OTTANTAVincenzo Frungillo

LA TERRA DELL’OSSO*Viola Amarelli

IL 1980Carmine Vitale

plastica nascosto sotto una pie-tra, un libricino senza più la co-pertina: “la latteria potrebbe ven-dere anche al buio,cominciare a vivere da sola è più che nascere si può intendere l’incredulità come un’attenzione che non di-stingue del resto la mia inserzio-ne riguarda una casa in cui non voglio più abitare”.Il cuore balza in gola . Lo tiene stretto gelosamente.Le prometto di portarne ancora uno. DomaniMi dice di portarle un odoreMi dice di portarle una speranzaHa occhi che non chiedonoMi dice di non fumare sei troppo piccolo ha pietà del mondo lei Si raggomitola su quello che re-sta di un materasso e cade in un sonno profondo. E cosi tra i libri , in questo mil-lenovecentottanta lungo una li-toranea ho imparato ad amare le parole.Jennifer ha due bellissimi bambi-ni. Nella foto che mi ha mandato dalla spiaggia in lontananza, si vede il mare e lei indossa un co-stume.Mi scrive che ha fatto finalmente il suo primo bagno.Ha imparato a galleggiare e ogni tanto si stende a guardare in alto le nuvole.Il mare ha una forza silenziosa e sa sorreggermi, scrive.In mano tiene stretto un libro. Sorride.Si sente il rumore del vento.E quello delle parole che si muo-vono leggere libere e felici.Sono passati trentacinque anni ma certe macchie non te le puoi togliere senza alterare il tipo di tessuto.

21RIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA sud

Mi hanno detto di aspettare qui e ormai sono più di due ore che quella porta stronza dell’ambu-latorio non si apre.Ieri alla mensa, Don Livio mi ha invitato a prendermi cura di Adele, una donna che nell’ottan-tacinque ha perso il fratello per overdose. È lontano il tempo, quando al cinema passava il film Noi, i ragazzi dello zoo di Ber-lino, quando ci si apriva le vene con l’eroina. Non si parlava d’al-tro che del giovane di turno che si iniziava alla droga. In estate mia madre preparava le conserve di pomodoro per l’in-verno, e una notte, dalla stan-za posta in corrispondenza del garage, sentimmo arrivare dei rumori strani. Ci alzammo tutti e andammo a vedere cosa era successo. Ancora avvolti dal buio pesto della notte, aspirammo quel sapore acido del pomodoro e capimmo. Buona parte delle bottiglie di pomodoro che ave-vamo faticato tanto a confezio-nare, in una sola notte esplosero. Mia madre cominciò a disperarsi, pensando al lavoro andato perso, allo spreco di legna che si era fatto per far bollire le bottiglie. Quella mattina ci eravamo alzati presto, prima che il sole si levas-se. L’aria era fresca nonostante il giorno prima si fossero toccati i 35 gradi. Il cielo era in procinto di rischiararsi e le nuvole della notte cominciavano a colorar-si di rosa. Non c’erano rumori, solo il suono delle nostre ciabatte che calpestavano il selciato. Mio padre alzò la serranda del garage ed entrammo. In passato ci met-tevamo la macchina lì dentro, poi mia madre cominciò a fare le conserve per l’inverno e si decise di riadattarlo a deposito, anche se noi si continuava a chiamarlo garage. Mi sono sempre meravi-gliato di quanta energia avesse mio padre, nonostante la sua esile figura. Lui era l’addetto al fuoco: si occupava di bollire i pomodori da passare e poi le bottiglie piene di passata. Solo per un attimo, l’idea che fosse colpa sua balenò negli occhi di mamma. Lo so per-ché la vidi mentre si girava verso di lui, pronta a dire qualcosa. Poi invece tacque. E io lo so perché. In quel periodo venimmo a sape-re che Giulia, mia cugina, si face-va le vene. Tutto il rammarico le rimase in gola, insieme a quel senso di sollievo, per la consape-volezza che a lei non era toccato di avere un figlio tossico. Risa-limmo in silenzio, senza aggiun-gere altro, stretti in quella morsa di dolore che macchia la vita e tutto quanto il resto. Io ero pic-colo allora, ma ricordo tutto. Le lacrime di mia madre per quella ragazza che sempre più spesso avevo visto cambiare sotto i miei occhi, con il suo sorriso triste, di chi già assapora il proprio desti-no. In quegli anni la mia vita fu costellata dal senso di inadegua-tezza. Intuivo esattamente cosa si dicevano i grandi, ma loro cer-cavano di nascondermi la storia dei ricoveri nelle comunità. Mi toccava rifugiarmi lontano dalla loro vista per ascoltare le confi-denze che mamma faceva a papà sulla storia di Giulia.Mio fratello in quel periodo com-prò il libro da cui è stato trat-to il film. La copertina ricordo che era gialla e il solo guardarla mi proiettava violentemente alle pareti dei muri del garage. Lo osservavo mentre leggeva quelle pagine curioso di capire perché tanti come lui avessero bisogno di sballarsi. Per noi era inconce-pibile. La nostra vita era perfetta. Papà era il nostro faro, e non

posso dimenticare la notte in cui lui galleggiava nel coma, prima di lasciarci. Ero appena adole-scente e non facevo che leggere ancora e ancora, fino allo sfini-mento, quell’articolo sui tossico-dipendenti che tentava di spiega-re, senza venire a capo di nulla, il motivo di tanta debolezza. Giulia era sballata quando venne alle esequie di papà. La guardavo mentre sorrideva per qualcosa che io non riuscivo a vedere, chiuso nel dolore della perdita. Non mi degnò di uno sguardo, la vita per lei non era che la rincor-sa dell’ultimo trip.La porta si è aperta. Tra un po’ toccherà a me di entrare, penso. Ma è solo un’illusione. Si richiu-de velocemente, per un tempo che ormai non so più quantifica-re e forse sono felice di stare lon-tano da casa e dal mio personale tormento.Continuo a fissare le lancette dell’orologio appeso alla parete che scandisce il tempo, misuran-do la distanza tra me e la dispe-razione. Guardo il display del telefono e penso a quando non ne avevamo, quando per avvisare tutti che papà era morto dovem-mo trascorrere prima mezz’ora a parlare con zio Ciccio, che si rifiutava di accettare quella per-dita improvvisa.Penso a Marta, al viso che ha oggi; mi ricorda quello di mia zia, la madre di Giulia. L’ho

visto cambiare tante volte nel corso degli anni. Tante espres-sioni hanno fatto la comparsa su quell’ovale perfetto di dignità.La porta si apre mentre il tele-fono comincia la sua marcia trionfale. Guardo il display, è Marta. L’infermiere mi fa segno di entrare, mostrandomi la dose di metadone diretta al consumo giornaliero di Lina. Sono com-battuto se rispondere o ignorare quella chiamata. Decido di rispondere, poi un grido e la voce di Marta spez-zata dal pianto che mi dice che mia figlia lo ha fatto, è saltata di sotto. Il cuore mi balza in gola, la schiena è a pezzi. Guardo l’infermiere impaziente che mi sollecita a movimenti rapidi.Ormai non serve più, gli dico.

«Che ti disse?».«Teresa, non ti preoccupare. Non la devi baciare». Le altre le davano il bacio sull’a-nello…La nostra Fiat 126, color crema, denominata “Il Riccardo”, per-ché quando l’accensione manuale eseguiva più suoni di un’orche-stra, mia madre partiva a gran voce con il ritornello della can-zone di Gaber, svoltò nel viale e si lasciava dietro il grande corpo di un edificio a tre piani, bianco, grigio e rosa. La struttura, chiusa e decadente, ricoperta di ram-picanti, conservava un carattere nobile.

«Mamma, le suore non si vedo-no?».«Non ci sono più».Alla fine degli anni ’80, mia madre venne trasferita all’Usl di Aversa. Ora ci accompagnava tutte le mattine a scuola e le nostre zie le chiedevano prenota-zioni per analisi del sangue, visite dall’oculista o dall’otorino.Papà faceva i turni a Caserta. Una sera tornò con una ferita sul collo. Mi sentii ghiacciare il sangue mentre raccontava. E se ha preso l’Aids? Coi giorni ci abituammo all’enorme crosta bordeaux sotto la sua guancia, andata via dopo settimane. «Ma quella ragazza ti voleva mangiare?».«Eh! Lo ha visto bello ciotto!».

Ma peeeer fooortuna che c’è il Riccardo / che da solo gioca al biliardo / non è di grande com-pagnia / ma è il più simpatico che ci sia!«Mamma, ma il manicomio non c’è più?».«Aversa è famosa per le scarpe, la mozzarella e i pazzi. Non c’è più quello dove lavoravamo io e papà, ma c’è l’Ospedale psi-chiatrico giudiziario, dietro la Chiesa dell’Addolorata». Intanto mio padre era stato tra-sferito al Dipartimento di salute mentale, al centro di Caserta. Era l’infermiere con più anni di servizio ed esperienza. Ugual-mente sentì il bisogno di met-tersi a studiare e riprendere nel cassetto la tesi in Psicologia per laurearsi, finalmente. La fre-schezza dei nuovi approcci in Psichiatria era entrata anche a casa nostra, nella nostra cuci-na, dove ci raccoglievamo a sentire i racconti sul giornalino dei pazienti, delle gite al mare, della ginnastica terapeutica, dei laboratori di ceramica. Anche i medici furono riabilitati nella mia opinione, almeno gli psi-chiatri. Soprattutto se donne. Dopo un corso di perfeziona-mento in Antropologia, papà si appassionò alla musica popolare e nel nostro salone espose una tammorra firmata ’O lione. A me, ormai sedicenne, tutto ciò dava il vantaggio di ritrovarmi fra le mani libri bellissimi, come quelli di Paolo Tranchina, cui devo la comprensione di cos’è un archetipo, le prime rifles-sioni sul divino e sul sacro. A pensarci bene, anche il mio primo incontro con la statuetta minoica della Dea dei serpenti. Prima che andasse in pensione, mi sembrava di capire che mio padre lamentasse quasi un ritor-no ai rigidi rapporti gerarchici di un tempo fra dottori, infer-mieri, assistenti, pazienti.La cura dei malati, intuivo dai racconti che si facevano alla nostra tavola, è qualcosa che ha una storia. E va raccolta. Ad Aversa ho fatto la guida presso il museo storico dell’Opg “Filippo Saporito”. La maggior parte dei visitatori mi è capitato che voles-se conoscere tutti i particolari della vita della Saponificatrice di Correggio. Qualcuno si sof-fermava davanti alle camicie di forza e ai letti di contenzione. A me piaceva farli passare davanti alle foto degli omosessuali, ai loro sorrisi belli, dionisiaci, tri-sti o provocatori. Silenzio. La Storia fa male. Con il museo di Aversa fa pendant quello di Antropologia criminale “Cesare Lombroso” di Torino. Una peti-zione minaccia la chiusura del museo piemontese, accusato di diffondere messaggi razzisti nei confronti dei meridionali. Chi dice che è facile leggere la Storia? Ma allora, Torino, per-ché non chiudiamo le sedi della Lega Nord?

A queste alterne vicissitudini non dobbiamo opporre né il rimpian-to, né l’indifferenza, né lo scorag-giamento, ma la comprensione, per frammentaria o fallibile che sia. (Remo Bodei, Se la Storia ha un senso)

«I miei genitori si sono cono-sciuti al manicomio». L’intera classe rise. Così impari a chiedermi che lavoro fanno. Risi anche io.Una volta sono stata alla Mad-dalena con mia madre. Mentre i vecchi colleghi s’informavano di come si lavorasse al Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’Ospedale di Caserta, l’ag-giornavano su tessere sindacali, scatti stipendiali e salute di ami-che rimaste a lavorare ad Aversa anche dopo la legge Basaglia, quando iniziò la dismissione della Maddalena, io e mia sorel-la, ritrovandoci raramente in mezzo a tanto verde, ne appro-fittavamo per raccogliere le noci cadute sul terreno e selezionare le foglie già ambrate dal nuovo autunno.«Ogni mattina le infermiere dovevano baciare la mano alla madre superiora. Una donna per-fida! Me mannaj pure add’ ò duttor. Glielo dissi pure a lui che nun ’a vuleva bacià a chélla stronza!».

PRIMA DI SPARIRECarmelina Moccia

IL LAVORO QUOTIDIANOAnna Smeragliuolo Perrotta

Immagine di Gabriella Giordano

sud22 80.

Ti dicevo al telefono (di cui più mi prendono le pause, gli imbarazzi docili, e se ci udiamo respirare)ti dicevo al telefono un amoreche urge e perché

1) Inventario privato come un canzoniere-Per chi leggeva, come me, la prima volta Inventario priva-to nei primissimi anni ’80, e come me, proprio allora comin-ciava a dedicarsi alla poesia come privilegiata espressione di un desiderio coinvolgen-te bellezza e verità, estetica ed etica, godimento e conoscenza, l’incontro con Pagliarani e con questo testo sarebbero stati pro-babilmente decisivi.

Si tratta di un canzoniere mo-derno: del canzoniere ha il sog-getto amoroso, l’introspezione, il chiodo fisso,la coazione, il dissidio, la variazione sul tema, l’economicità dei segni, la trama della vicenda amorosa tra inna-moramento, prove di relazione e delusione, frustrazione finale. Di moderno ha l’ambientazione metropolitana, la collocazione sociale del mondo impiegatizio, la toponomastica precisa, l’i-deologia della guerra fredda e della bomba, la contraddizione tra pubblico e privato, il sospetto che la situazione pubblica sia un alibi per i problemi del privato, la sperimentazione formale per tenere dentro un registro basso-colloquiale una pluralità di piani e di allegorie.Come può scaturire la poesia dall’impiego di mezzi così po-veri? E cosa vuol dire scegliere questi mezzi, cosa si rifiuta con questa scelta? E poi sono dav-vero poveri questi mezzi? E, nel caso, in cosa consiste la loro ric-chezza e cosa cambia dell’idea di poesia che in genere si ha?2) Le due retoricheI mezzi retorici qui sono ele-menti di disturbo rispetto alla sequenza abituale della lingua parlata. Il disturbo è come un’in-

terferenza (spesso di carattere emotivo ma può anche essere raffreddante,critico).L’iperbato è la figura che inter-rompe la sequenza abituale o viene impiegata l’anastrofe che distorce con le sue anticipazioni la sequenza. A questo disturbo che crea distanza, che allonta-na, che rende difficile il flusso, vi è il movimento opposto delle figure foniche che invece tengo-no insieme e fanno da collante: assonanze, strutture paranoma-siche, allitterazioni. Si crea così una feconda contraddizione tra il piano della retorica scritta e il piano della retorica orale , la prima analitica, separante, anti-naturalistica , la seconda sinte-tica, coinvolgente, musicale. Si potrebbe anche dire che la retori-ca analitica allegorizza il mondo industriale mentre quella orale è segno del mondo contadino : alienazione e vitalità che si con-trappongono nel destino degli amanti metropolitani. Ma anche coesistono come una sfida. Così come la violenza dell’enjambe-ment afferma e contemporane-amente nega il flusso del dire orale, sottolineando drammatica-mente che la lingua parlata si sta consegnando al regime retorico della lingua scritta. Ed è proprio da queste interruzione che scatta l’incremento di bellezza proprio alla dimensione estetica.3) La ricezione per gli speri-mentali alla fine degli anni ’70. Baldus-Alla fine degli anni ’70 la re-azione alle ricerche sperimen-tali da Officinaai Novissimi e al Gruppo 63 era ormai matura: l’antologia La parola innamo-rata, a cura di Pontiggia e Di Mauro, sul finire degli anni ’70, aggiornava non solo il vecchio ermetismo, crepuscolarismo ma addirittura si richiamava ad una visione mitologizzante della po-esia. Erano gli anni di piombo a concludersi e c’era un generale richiamo all’ordine che sarebbe culminato nella Milano da bere di craxiana memoria. Era l’epo-

ca del look e della pubblicità e la poesia, per lo più tenendosi alla larga da qualsiasi tentazione re-alistica, vi rispondeva con la ri-presa del simbolismo, una sorta di ermetismo aggiornato. In un paesaggio di questo tipo i versi di Inventario privato usciti nel 1959 potevano risuonare come un potente antidoto al neoroman-ticismo di fine secolo.In ballo era, soprattutto per le opere successive, anche il tema dellapoesia narrativa che dal verso lungo del doppio ottona-rio di Gozzano, era passata al verso martellante ed ‘oggettivo’ di Pavese per arrivare proprio a Pagliarani che coniugava il bas-so-colloquiale e la pluralità dei registri ad una spiccata tensione critica e meta poetica.L’interrogazione sul senso dello scrivere e della relazione ven-gono collocate nel contesto più vasto della storia. E viene anche indicata la possibile mistificazio-ne dell’ideologia sempre pronta a prestare alibi nobilitanti alle mi-serie individualiAnche qui, in Inventario privato:E’ difficile amare in primaverecome questa che a Brera i con-tatoriGeiger denunciano cariche di pioggiaradioattiva perché le hacca esplodononel Nevada in Siberia sul Pacificoe angoscia collettiva sulla terranon esplode in giustizia.Potrò amartidell’amore virile che mi tocca, e riempirtise minaccia l’uomosé nel suo genere?O trasferisco in pubblico stridoreche è solo nostro,anzi tuo e mio?4) Gli occhi aperti della critica della cultura e gli occhi commos-si della poesiaSimbolo e allegoria-La strategia benjaminiana dell’allegoria coniugava speri-mentazione e realismo, pluridi-scorsività e monodia di bachti-niana memoria.

I platani si ricongiungono sulla testa della strada. Una galleria di rami sbiancati. Tratti di azzur-ro filtrano e si sovrappongono. Cadono foglie d’oro. Lentamen-te volteggiano. Come la busta di plastica di American Beauty. E

poi si posano sull’asfalto rugoso. C’è qualcosa di antico nel colore dell’oro. Come il grano. Basta questo minuscolo contatto per andare altrove.1° luglio 1981. Cresce il grano dappertutto, tra le desolate mace-rie di Laviano; alto, quasi pronto alla mietitura. Impressionante immagine di una semina tragica del 23 novembre mentre in alto a centinaia volteggiano come ogni anno le rondini e mentre qualcu-no va a riconoscere i luoghi, a recuperare ancora oggi qualcosa.Me lo ricordo l’incanto di certe distese gialle. La luminosità. Il profumo. Non tanto antitesi, ma speculare volto delle macerie che abbiamo attraversato e sof-ferto. Una trama di formazione. I vecchi seduti nello spiazzo dove c’era una piazza. Qualcuno rac-conta di essersi salvato sotto un arco in pietra che spunta dalla distesa di grano. Se socchiudi gli occhi vedi solo una vastità. E un silenzio. E una volontà. Sono gli stessi vecchi che ogni volta e in ogni luogo, inevita-bilmente, usciti chissà da quale portone si fermano a prendere fiato proprio in quel punto. Gli occhi appannati. Un bastone un cappello calato sulla testa. Un braccio innaturale senza giacca e un elastico stretto sulla camicia intorno al fievole muscolo, una mano alzata in un saluto lontano secoli, un gruppo di persone che sono l’umanità. La terra incon-tra l’umanità, cosa può esserci di più intrecciato. Non che in quell’istante fosse già in agguato la morte. Per l’età per le malat-tie per i dolori, no, non questo, ma la morte c’è per l’umani-tà. Punto. Una cosa del genere insomma. Una cosa che quando accade già non c’è più, la terra e l’umanità.Mi piace pensare a una scrittura che ricopra come il grano.Sulla pagina della terra. Che tracci i profili delle cose attenuando-ne le forme. Che hanno sempre un che di aspro. Volgare. Un manto di altra evidenza che infi-ne dispiega. Scrivere è così. Ma da certe correnti vorticose e invi-sibili che si agitano sotto il pelo di un’acqua immobile, qualcosa, certamente qualcosa, verrà fuori. Le macerie sono ancora intor-no a noi. Minacciose. O anche, soltanto desolate. E ricostruire è un’opera eterna. Un terremo-to quando accade si sovrappo-ne agli effettisociali e personali ancora vivi di quello precedente. I luoghi portano sulla propria pelle le ferite di un terremoto infinito.

Il paesaggio scorre con le sue figure. Una cascina imbrunita ha la sua dignità. Un albero isolato allunga sulla terrauna specie di coda verde come il dorso di un lupo. Ma quello che conta sta sopra di me. Le foglie si stacca-no dall’alto come qualcosa che si sradica e calano come punti del presente. Certo, istanti. Effimeri. E per questo, assoluti. E andare su questa strada è come andare avanti e indietro nel tempo.C’è un’opera di Ed Ruscha. L’artista americano fotografa in sequenza le facciate di Hollywood Bou-levard. È il 1973. Lo fa dal cassone del suo pick-up Datsun. Poi mette le foto in un cassetto. Dopo trentuno anni ripete l’ope-razione. E mette le due sequenza a confronto. Chiama l’operazio-ne Then&Now. Mentalmente sto facendo la stessa cosa. In una specie di omaggio.C’è sempre un punto di svolta. E se a guardare indietro non lo vedi, vuol dire che la vita ancora ti chiede di deviare il corso. Valli a cercare, allora.

L’ironia e l’autoironia di matrice crepuscolare non cercano auto compiacimento ma si stempera-no nell’oggettualità delle scene, come quando la prolissità del reale è nominata fin dentro il dettaglio.Sarà ora di chiudere,amore,che smetta di fare la guardia al cementotra piazza Tricolore e via Bellini,di coprirmi la faccia col giornalequando ferma la E, di attraver-sareobliqui la tua strada, di patireanche a passarci in trenoin fondo a viale Argonnevicino alla tua casaLa vicenda amorosa, la sofferen-za psicologica sembrano disten-dersi nella toponomastica: desti-no comune, collettivo, teatro me-tropolitano di infinite vicende. E’ la città che guarda il ridicolo di una speranza che dispera: è il nome delle strade, è l’oggettività delle vicende storiche che si pro-pongono come unico ancoraggio.E’ una prova di lirica senza liri-smo, di trattamento di materiali alludenti alla biografia senza biografismo. E’ una sorta di manuale anti-ermetico e anti-simbolista: la poesia nasce non dalla fumosità dell’evocazione ma dalla ‘precisione ‘, propria alla poesia, di una descrizione. La situazione perché reale, con-figurata nello stile come effetto di realtà, è poetica.Amici spesso buoni mi deridonoGianni sostiene che a leggere i miei versitraspare che non amo o che non soamare: se è vero un nonon ha sospetto che non sovivere, Amore, e tu non vieniad insegnarmelo.Qui è già presente il piano me-ta-poetico che spiazza con lo straniamento, e ricontestualizza la scrittura : retorica veritativa, ricerca di una verità esistenziale che è insieme intersoggettiva. La comunità degli amici non per istituire una società letteraria, come nel gioco cortese, ma al

IL GRANO DAPPERTUTTODavide Vargas

INVENTARIO PRIVATO

DI ELIO PAGLIARANI

NEGLI ANNI ’80Biagio Cepollaro

contrario,per sospendere la com-plicità letteraria in favore di una qualche realtà e di una qualche verità. Il piano meta poetico è utile proprio a questo: a sospen-dere e a impedire la facile sugge-stione e l’ipnosi della letterarietà in fondo fine a se stessa.Alienazione e vitalità, industria capitalistica e mondo premoder-no, contadino,o sfera semplice-mente biologica: sono contrad-dizione che in modi diversissi-mi sono presenti o centrali nel lavoro di Volponi, di Di Ruscio, secondo altre declinazioni di Pasolini, o anche di Majorino. In Pagliarani queste contraddizio-ni storiche sono chiamate a dar conto della condizione umana, a definire una specie di cognizio-ne del dolore: l’ideologia non salva, la poesia non riscatta ma sono necessari gli occhi aperti della critica della cultura e gli occhi commossi della poesia. Sono necessari per dare dignità al lavoro culturale e alla singola esistenza che a ciò si dedica.

re così. Anche a Napoli ci poteva essere una storia di trans ma era di quelle strane, uno scazzo che non ci voleva, qualcuno tentò di inguaiare il candidato del pre-sidente ma non c’è riuscito e neanche i giudici sono riusciti a fottere qualcuno, nonostante le intercettazioni…!Il presidente ha ritirato la leggina sul risarcimento danni rinviato a giudizio definitivo? Beh, che c’è da ridire? Lo ha detto, “legge giusta ma la ritiro” più onesto di così non si può. Però adesso con 650 milioni da sborsare il padrone non sarà certo allegro, e per noi non saranno rose fiori e stipendi col superminimo incor-porato!

IERI 6

Musi lunghi e umore pessimo nelle riunioni di redazione per SUD, che per sei mesi non è uscito: non c’è una lira, gli abbo-namenti sono pochissimi, le ven-dite fanno incassare al massimo 500 lire, Pasquale Prunas e Carla De Riso hanno venduto tutto quel che potevano rubacchiare in casa. E non c’è stato nessun aiuto da parte comunista, non è bastato nemmeno il poema ine-dito di Lenin!Pasquale Prunas, Ennio Mastro-stefano e Luigi Compagnone e Gianni Scognamiglio sono anda-ti a parlare più volte, l’ultimo incontro nella sede de La Voce al Vico Rotto San Carlo (ai piani inferiori si stampa Il Mattino) con una delegazione molto auto-revole del Partito Comunista. C’erano infatti Emilio Sereni,

te del mondo comunista, quella di Alberto Jacoviello, giornali-sta de L’Unità (ha un braccio monco, ma è successo per un incidente di caccia; tutti sanno che vive con la moglie di Pie-tro Amendola (fratello minore di Giorgio), Maria Antonietta Macciocchi. Adesso c’è per davvero Anna Maria Ortese, non solo nella “gerenza” assieme a Luigi Com-pagnone, Raffaele La Capria e Franco Rosi con Carla De Riso redattore capo. La Ortese ha scritto per Sud un racconto nel suo linguaggio splendente e insieme tranquillo, il titolo è “dolente splendore del vicolo”, la stradina su cui s’af-facciava la finestra della casa in cui le si era rinchiusa per farvi “il mio anno di disperazione pro-fonda”. Nella stessa pagina c’è una poesia di Gianni Scogna-miglio, finalmente tornato, che annuncia “io me ne vado per sempre da questa città / ove il mare è scomparso…”. Le foto, tutte con l’ombra della tenebra come piace a Prunas, sono in gran parte di Antonio Grassi, che si dichiara infastidito per non dire altro quando gli chiedono se è suo fratello quell’Ernesto Grassi che con la pièce teatrale “La giornata di un uomo qua-lunque” ha ispirato Guglielmo Giannini che impazza e ottiene migliaia di voti con la sua sigla “Uomo Qualunque”, e si fa strada la parola “qualunquismo”.Grandiosa la rassegna degli stra-nieri, poeti e prosatori, dovuta all’infaticabile La Capria : quat-tro poemetti greci , un raconto di Mikhail Zoshchenko, una poesia di Boris Pasternak, alcune pagi-ne di un romanzo di Vasco Pra-tolini, e ancora Stephen Spender, Paul Eluard e tanti altri. C’è un po’ di litigio a proposito di un cognome: Pasquale Pru-nas viene rimproverato perché si ostina a scrive Rosellini con una sola “s”, strano perché non si può proprio dire che non lo conosca. Ma forse gli sta anti-patico, anche se ne apprezza le indubbie capacità artistiche.

OGGI 5

Riunione di redazione in un periodico innominato

DIRETTORE: bisogna stangare chi mette in giro queste storie delle minorenni che vanno alle feste con il presidente! Cercare nel passato, vedere con chi se la fanno, trovate il trans che c’è sempre in questi casi, fatela par-lare a ruota libera, chi se ne frega delle querele. E vedete di trovare un trans anche in quella questione dell’appartamento di Monte-carlo, deve esserci qualcosa del genere, uno non se ne va dalla maggioranza così d’un colpo, magari perché gli è venuto un attacco di morale. Come sta la situazione della munnezza a Napoli? Sempre peggio? Ahh bene, che vi avevo detto? lo sapevo che sarebbe andata a fini-

Che vuoi sostenere, che dove ci sono gli inceneritori non c’è nes-sun incremento dell’inquinamen-to e delle malattie? Può darsi, anzi deve essere vero, visto che nel mondo ce ne sono a migliaia. Ma a noi che ci frega?Quelli che sono contro gli ince-neritori lasciamoli urlare, e se qualche Regione o Città vuole quella munnezza per metterla nei propri inceneritori e fare energia, facciamo un servizio sui costi del trasporto, sullo spreco, sulla pericolosità dei rifiuti napoletani, così Napoli e dintorni rimangono sommerse dalla munnezza e la colpa è solo loro. Meglio che ci occupiamo di alta moda… quella fa sempre bene, duiamoci tutte le pagine centrali che ce ne sono già almeno dieci di pubblicità.Premi letterari? Solo se si sciar-rano, litigano, si prendono a botte in testa: vediamo qualche indiscrezione di quelle che fanno succedere casino, e fate atten-zione a chi ci da la pubblicità. E più il romanzo è fesso e non vale niente, più fanno pubblicità per vendere, perciò, occhio!

IERI 4

Sud di nuovo in numero doppio, 5 e 6, di nuovo in ritardo, esce a metà marzo 1946, nella riunione stavolta si discute di una novi-tà che può portare buonissimi effetti sul piano politico e anche sul piano economico: un artico-lo nientedimeno che di PAOLO RICCI! Ha rievocato Luigi Cri-sconio che definiva se stesso “operaio della pittura”, scom-parso ad appena 53 anni alla fine del gennaio’46, perseguitato dal fascismo perchè si ostinava a ritrarre gli umili, e dipingeva furiosamente in mezzo a capan-nelli di gente attonita, ritraendo carretti, vagoni ferroviari, case modeste, paesaggi senza splen-dori. Paolo Ricci, pittore lui stes-so, giornalista e critico teatrale su L’Unità, amico dei fratelli De Filippo Peppino Eduardo e Titina, è l’uomo più ascol-tato nel Partito comunista sui temi dell’arte e della letteratura. Buon segno se scrive anche lui su Sud, vuol dire che nel Pci non sono poi tanto ostili come si dice, forse qualche aiuto verrà. E Pasquale Prunas ha voluto scri-vere un editoriale sul dolore della gente del sud umiliata e offesa, costretta alla fame, condizione di cui anche gli intellettuali sono corresponsabili. Luigi Compa-gnone s’è scatenato nel prendere in giro gli scrittori che si lasciano andare ai sapienti giochi formali della “bella pagina” dimentican-do che l’uomo deve venire prima dello scrittore , insomma deve impegnarsi anche lui a costruire il destino della nostra società. Prunas ha messo in prima pagina una citazione di Carlo Pisacane (che alla Nunziatella era stato allievo), che dice testualmente: “Io sono convinto che nel Sud la rivoluzione morale esista”.

Mario Alicata, Luigi Amadesi, Lelio Porzio, Alberto Iacoviel-lo, Maria Antonietta Macciocchi, Alberto Iacoviello, Paolo Ricci, Michele Pellicani. Alicata è stato il più deciso quando ha detto a Prunas che doveva cambia-re formula, mentre Sereni era sembrato più disponibile. Una grossa delusione, anche perché è seguita agli elogi che dalla redazione della rivista “Il Poli-tecnico” erano arrivati a “SUD”. I complimenti di Elio Vittoria-ni…? Peggio che andar di notte, viste le acide critiche che erano arrivate proprio da Togliatti in persona.Insomma, non una balla di carta tipografica, e neanche una lira per pagare i debiti. Sud esce di poche pagine ancora a genna-io 1947, e Prunas l’ha aperta con una lettera di Giaime Pin-tor al fratello Luigi (comunista, e giornalista anche lui) scritta alla vigilia del viaggio a piedi per raggiungere una formazio-ne partigiana e poi proseguire per Napoli. Viaggio interrotto da una mina che lo uccise. È un testamento politico-intellettuale: “Artisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quan-to afferma una frase celebre , le rivoluzioni riescono proprio quando le preparano i poeti e i pittori purché poeti e pittorio sappiano quale deve esser e la loro arte…”Seguono mesi di lavoro per cer-care finanziamenti, investimenti, interesse intorno alla rivista; gran dibattiti alla nascita di SUD-

23RIVISTA EUROPEAREVUE EUROPÈENNEEUROPEAN REVIEWEUROPÄISCHE ZEITSCHRIFTREVISTA EUROPEA sud

OGGI 4Riunione di redazione in un periodico innominato

DIRETTORE Questa settimana insistiamo sulle intercettazioni telefoniche che non si devono fare non si devono pubblicare non devono finire nei processi. Un giudice ha detto che costano poco e rendono molto? Dev’es-sere un fesso un venduto un comunista mettiamogli qualcuno alle calcagna qualcosa deve usci-re su di lui voglio sapere pure il colore dei calzini e dove va a passeggiare.Avete sentito che cosa ha detto il presidente? È in preparazione un disegno di legge che prescrive 6 anni di carcere a chi intercetta, 6 anni a chi le ordina e 6 anni a chi le pubblica! Tre per sei uguale 18: avete sentito anche gli applausi? Era una platea della Confindustria, mica all’asilo infantile! E chi se ne frega se le intercet-tazioni fanno arrestare i mafiosi e i camorristi! L’importante è che non rompono il c. a chi ci ha l’amante e a chi ce ne ha due o venticinque, sono cavoli suoi, che poi una delle fanciulle diventi ministro o sottosegretario o consigliere chissà dove, embé, non può essere che è brava? Chi ha detto sta vecchia lagna della questione morale? Leva da mezzo!

IERI 5

Sud n. 7 è uscito il 20 giu-gno ’46, ancora con ritardo “per ragioni assolutamente indipen-denti dalla nostra volontà” come è scritto nella “excusazio” ai let-tori. Nella riunione tutti fanno notare che è tutto rivoluzionario anticapitalista e proletario questo numero che s’apre con “gli intel-lettuali e il Mezzogiorno”, edito-riale di Prunas che cita Gramsci nel primo rigo, e parla anche di “reazionarismo indiscutibile di larghissimi strati delle masse popolari”, e “Cultura – stiamo attenti – significa morale, costu-me, umanità, comporta soluzio-ni sociali…” ossia ciò che può realizzarsi “se la voce dei poeti, degli scrittori, degli uomini ita-liani è una voce meridionale, profondamente meridionale”. E poi c’è addirittura un poema inedito di VLADIMIR ILIC ULIANOV detto LENIN, il grande padre della rivoluzione sovietica. E’ un bel colpo, uno scoop, quei versi così pedagogici e così incitanti alla rivoluzione si leggono per la prima volta in Italia: “Libertà proletaria, spez-za queste catene: dacci la terra, i giorni, e il vento nelle vene” dicono gli ultimi due versi, nella traduzione di Luigi Compagno-ne, che viene sommerso dai com-plimenti,Sono belle le vignette di quel tedesco terribile, Georg Grosz , e sono sconvolgenti le foto dell’uomo e del paesino di “Ita-liani in Calabria” ossia “gli sfruttati nel pianeta latifondo”. E c’è un’altra firma importan-

SINCRONIE

Arte, Pasquale vuole espande-re sud anche nella pittura nella scultura nella musica, tanti sono d’accordo con lui. In primavera lui prepara il botto finale, un numero di sud di ben 40 pagine! Che si aprono con l’editoriale “Cultura non è casta” dove si narra del pericoloso equivoco in cui cadono gli intellettuali: scin-dere cultura e politica. La pole-mica fra Sud e Alberto Jacoviel-lo, aperta nel precedente numero, continua con altri interventi, tutte risposte severe al comunista di ferro convinto delle sue ragioni.Ma per i lettori di Sud è meglio gustare quella pagina di Jean Paul Sartre sull’esistenzialismo, quella di Georges Mouhin sul cattolicesimo , quella di Ver-cors, quella di Annamaria Ortese che se n’è andata anche lei a Roma, di Dante Troisi magistrato scrittore, la poesia di Francesca Spada, il fotoservizio di Anto-nio Grassi sull’Ilva con testo di Ennio Mastrostefano (“Bagnoli, primo caposaldo” , e ancora il racconto lungo di Samy Fayad, e perfino un saggio di Paolo Ricci e uno di Paolo Grassi sul Piccolo Teatro di Milano. Sud si conclude qui. E adesso, non resta che andar-sene.

Disegno di Toya Mastrostefano