ripristini secenteschi. bartolomeo dotti poeta bifronte

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1 RIPRISTINI SECENTESCHI. BARTOLOMEO DOTTI POETA BIFRONTE «Oh, to vex me, contraryes meet in one» JOHN DONNE, Holy Sonnets, 19 1. Il Seicento ed il Dotti 1.1 Sul Barocco 1. Nei due secoli che si sono avvicendati in seguito all’età barocca, in Italia come in Europa, si è proceduti ad un sempre più fortunale e burrascoso naufragio della cultura secentesca, in particolare letteraria (salvandosi maggiormente l’arte e la musica), tanto che si è diligentemente pensato di inabissare, sino a lasciarne meri relitti, testi ed autori della civiltà letteraria del Barocco, sommergendo di un sozzo oceano una storia ardente, pirotecnica e fiammeggiante come quella delle figure del Seicento 1 . La condanna del Settecento illuminista nei confronti del Barocco è essenzialmente intellettuale, basata sulla non condivisione dell’irrazionalismo, della religiosità e dell’eccesso, mentre quella scagliata dai romantici nell’Ottocento ha basi morali, giudicando costoro il XVII un secolo di désengagement, futilità ed autoreferenzialità della scrittura 2 . Assurdo pensare che, invece, ai più del tempo, da parte, ma non tutta, della critica a gran parte del popolo mediamente colto, quell’universo immaginifico di mito e retorica è rimasto così gradito da durare cento anni, e forse oltre: non a caso, è proprio col Barocco che nasce la prima moderna cultura di massa 3 . Bisogna al contrario attendere il Novecento affinché, per una sorta di comunanza di condizione critica, ciò che Hans Robert Jauss definirebbe, mutuando Hans-Georg Gadamer, «orizzonte d’attesa» e «pregiudizio del lettore», o meglio «Erwartungshorizont» e «Vorurteile des Lesers» 4 , la letteratura del Seicento si riscatti e torni ad essere un vulcano in 1 A partire dal termine stesso usato per indicarne tempi e luoghi, come in B. MIGLIORINI, Etimologia e storia del termine «Barocco», in Manierismo, Barocco, Rococò: concetti e termini. Atti del convegno , Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1962, pp. 34-49. 2 Si vedano, come introduttivi status quaestionis per le lettere italiane, da cui ricavare la bibliografia indiretta, G. GETTO, La polemica sul Barocco, in Letteratura italiana, Milano, Marzorati, 1956, vol. 1, pp. 417-504, P. FRARE, La condanna etica e civile dell’Ottocento nei confronti del Barocco, in «Italianistica», 33/I (2004), pp. 147-165 ed E. RUSSO, Sul Barocco letterario italiano. Giudizi, revisioni, distinzioni, dans «Les dossier du GRIHL», 6/II (2012), sous presse. 3 È la tesi del celebre J. A. MARAVALL, La cultura del Barroco. Analisis de una estructura historica, Sant Joan Despì, Ariel, 1975, tradotto in italiano come La cultura del Barocco. Analisi di una struttura storica, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 101-246, in particolare pp. 139-78. 4 Il riferimento va a H. R. JAUSS, Literaturgeschichte als Provokation der Literaturwissenschaft, Konstanz, Universitäts Druckerei GmbH, 1967, in italiano quale H. R. JAUSS, Perché la storia della letteratura, Napoli, Guida, 1969, pp. 41- 58.

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RIPRISTINI SECENTESCHI.

BARTOLOMEO DOTTI POETA BIFRONTE

«Oh, to vex me, contraryes meet in one»

JOHN DONNE, Holy Sonnets, 19

1. Il Seicento ed il Dotti

1.1 Sul Barocco

1. Nei due secoli che si sono avvicendati in seguito all’età barocca, in Italia come

in Europa, si è proceduti ad un sempre più fortunale e burrascoso naufragio della cultura

secentesca, in particolare letteraria (salvandosi maggiormente l’arte e la musica), tanto che

si è diligentemente pensato di inabissare, sino a lasciarne meri relitti, testi ed autori della

civiltà letteraria del Barocco, sommergendo di un sozzo oceano una storia ardente,

pirotecnica e fiammeggiante come quella delle figure del Seicento1. La condanna del

Settecento illuminista nei confronti del Barocco è essenzialmente intellettuale, basata sulla

non condivisione dell’irrazionalismo, della religiosità e dell’eccesso, mentre quella scagliata

dai romantici nell’Ottocento ha basi morali, giudicando costoro il XVII un secolo di

désengagement, futilità ed autoreferenzialità della scrittura2. Assurdo pensare che, invece, ai

più del tempo, da parte, ma non tutta, della critica a gran parte del popolo mediamente

colto, quell’universo immaginifico di mito e retorica è rimasto così gradito da durare cento

anni, e forse oltre: non a caso, è proprio col Barocco che nasce la prima moderna cultura

di massa3.

Bisogna al contrario attendere il Novecento affinché, per una sorta di comunanza

di condizione critica, ciò che Hans Robert Jauss definirebbe, mutuando Hans-Georg

Gadamer, «orizzonte d’attesa» e «pregiudizio del lettore», o meglio «Erwartungshorizont» e

«Vorurteile des Lesers»4, la letteratura del Seicento si riscatti e torni ad essere un vulcano in

1 A partire dal termine stesso usato per indicarne tempi e luoghi, come in B. MIGLIORINI, Etimologia e storia del termine «Barocco», in Manierismo, Barocco, Rococò: concetti e termini. Atti del convegno, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1962, pp. 34-49. 2 Si vedano, come introduttivi status quaestionis per le lettere italiane, da cui ricavare la bibliografia indiretta, G. GETTO, La polemica sul Barocco, in Letteratura italiana, Milano, Marzorati, 1956, vol. 1, pp. 417-504, P. FRARE, La condanna etica e civile dell’Ottocento nei confronti del Barocco, in «Italianistica», 33/I (2004), pp. 147-165 ed E. RUSSO, Sul Barocco letterario italiano. Giudizi, revisioni, distinzioni, dans «Les dossier du GRIHL», 6/II (2012), sous presse. 3 È la tesi del celebre J. A. MARAVALL, La cultura del Barroco. Analisis de una estructura historica, Sant Joan Despì, Ariel, 1975, tradotto in italiano come La cultura del Barocco. Analisi di una struttura storica, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 101-246, in particolare pp. 139-78. 4 Il riferimento va a H. R. JAUSS, Literaturgeschichte als Provokation der Literaturwissenschaft, Konstanz, Universitäts Druckerei GmbH, 1967, in italiano quale H. R. JAUSS, Perché la storia della letteratura, Napoli, Guida, 1969, pp. 41-58.

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eruzione cui attingere il fuoco della propria ispirazione culturale5. In Italia e per la

letteratura soltanto, la censura mortale dura fino a Benedetto Croce, l’ultimo nemico della

poetica secentesca, di cui condanna il cattivo gusto, per quanto ne sia un accorto

conoscitore e ne smuova gli studi6, invece la progressiva rinascita del Barocco, sulla scia di

ciò che sta compiendosi in Germania con Jacob Burckhadt ed Heinrich Wölfflin, si avvia

tramite gli studi pionieristici di due critici letterari, ovvero Carlo Calcaterra7 e Giovanni

Getto8, e tramite il gusto neobarocco nella lirica di Giuseppe Ungaretti, con il suo secondo

tempo poetico di Sentimento Del Tempo9, e di Carlo Emilio Gadda nella narrativa, in specie

nei grandi romanzi, ovvero Quer Pasticciaccio Brutto De Via Merulana e La Cognizione Del

Dolore10, per poi maturare alla seconda metà del secolo, quando operano Franco Croce

all’Università di Genova, Giovanni Pozzi ed i suoi allievi Ottavio Besomi ed Alessandro

Martini all’Università di Friburgo, Ezio Raimondi ed il suo allievo Andrea Battistini

all’Università di Bologna11.

1.2 Biografia e rezeption del Dotti

1. È all’interno di questa delicatissima maieutica che si pone la graduale riscoperta

e rivalutazione del personaggio in questione, ossia Bartolomeo Dotti, poeta di area

settentrionale vissuto in bilico tra Sei e Settecento. Fermo restando il suo status di autore

minimo nel mezzo di un ipotetico canone della tradizione, egli si trova assente nelle opere

generali della letteratura italiana, tanto in quelle più dotte ed erudite, quanto in quelle più

diffuse e popolari12, a causa probabilmente del preconcetto cui l’intera epoca è stata

sottoposta; tuttavia, la sua figura risorge nelle storie letterarie dalla metà del ventesimo

5 Il bilancio critico tanto più aggiornato quanto più agevole sul panorama barocco è certamente A. BATTISTINI, Il Barocco. Cultura, miti, immagini, Roma, Salerno, 2000. Utile anche, per il suo misto di teoria e pratica, di letteratura, arte e musica, J. R. SNYDER, L’estetica del Barocco, Bologna, Il Mulino, 2005. 6 Si pensi alle pubblicazioni B. CROCE, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1911, Storia dell’età barocca in Italia, Bari, Laterza, 1929 e Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1929. Per il rapporto tra Croce ed il Barocco, si rimanda ad A. BATTISTINI, Il Barocco, «peccato estetico». Benedetto Croce e la letteratura del Seicento, in Per civile conversazione. Con Amedeo Quondam, a cura di B. ALFONSETTI - G. BALDASSARRI - E. BELLINI - S. COSTA - M. SANTAGATA, in corso di stampa. 7 Cfr. C. CALCATERRA, Il Parnaso in rivolta, Milano, Mondadori, 1940. 8 Cfr. GETTO, La polemica sul Barocco, pp. 417-504 e G. GETTO, Barocco in prosa e in poesia, Milano, Rizzoli, 1969, raccogliente contributi anteriori. 9 Ne fa il più recente punto della situazione D. BARONCINI, Ungaretti barocco, Roma, Carocci, 2008. 10 Ne fa il più recente punto della situazione R. S. DOMBROSKI, Creative Entanglements: Gadda and the Baroque, Toronto-Buffalo-London, Toronto University Press, 1999, in italiano quale R. S. DOMBROSKI, Gadda e il barocco, Torino, Bollati Boringheri, 2002. 11 Le linee di storia della critica sul Barocco sono dovute, oltre che a GETTO, La polemica sul Barocco, pp. 417-504, in specie ad A. QUONDAM, Il Barocco e la letteratura e M. GUGLIELMINETTI, Gli studi sul Barocco nel Novecento, in I capricci di Proteo. Atti del convegno, Roma, Salerno, 2002, rispettivamente pp. 111-75 e 645-59, e ad E. BELLINI, La letteratura nell’età della nuova scienza, in Il Seicento. Atti del convegno, a cura della SOCIETÀ DANTE ALIGHIERI, Milano, Donizetti, 2004, pp. 47-70. 12 Manca infatti qualsiasi riferimento a lui nel Tiraboschi, nell’Emiliani Giudici, nel Cantù, nel Settembrini, nel De Sanctis e nel D’Ancona-Bacci, mentre nella prima edizione della Vallardi, nel Flora e nel Momigliano viene

inconsistentemente accennato a guisa di ἅπαξ e liquidato in poche parole.

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secolo13, mentre piccoli e timidi studi lui dediti fanno capolino da inizio Novecento14 e la

prima monografia su quest’autore s’invola alla stampa in chiusura di evo15.

Bartolomeo Dotti nasce a Brescia nel 164816 da Pasquino, avvocato e

diplomatico, ed Ottavia Vinacesi. La sua famiglia è della buona borghesia bresciana,

originaria del contado ma ormai ben inserita nella città, tra sicurezza economica e prestigio

sociale, e vanta nel proprio novero letterati e giuristi. Bartolomeo ha due fratelli, vive

un’infanzia serena, compie studi privati, letterari prima e giuridici dopo, e, giovanissimo, è

parte piena della vita politica ed intellettuale della Brescia barocca: risulta membro di

13 È patente, seppur per brevi passi, in C. VARESE, Poesia, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. CECCHI - N. SAPEGNO, Milano, Garzanti, 1967, vol. 5, pp. 764, 812-14 e 908; C. JANNACO - M. CAPUCCI, La poesia tra classicismo e concettismo, in Storia letteraria d’Italia, a cura di A. BALDUINO, Milano, Vallardi, 19863, vol. 8, pp. 357-58 e 510; C. BOLOGNA, Tradizione testuale e fortuna dei classici italiani, in Letteratura italiana, a cura di A. ASOR ROSA, Torino, Einaudi, 1986, vol. 6, p. 740; M. GUGLIELMINETTI, Giovanni Battista Marino. La lirica, l’epica e la parodia, in Storia della civiltà letteraria italiana, a cura di G. BÀRBERI SQUAROTTI, Torino, UTET, 1990, vol. 3, p. 388; G. JORI, Poesia lirica «marinista» e «antimarinista», tra Classicismo e Barocco, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. MALATO, Roma, Salerno, 1997, vol. 5, pp. 590, 688, 707-08 e 764. 14 Una puntuale e completa bibliografia è d’obbligo: E. LEVI, Un poeta satirico: Bartolomeo Dotti, in «Nuovo archivio veneto», 12 (1896), pp. 5-77; E. FILIPPINI, Una miscellanea poetica del sec. XVIII contenente parecchie satire di Bartolomeo Dotti, in «Rassegna bibliografica della letteratura italiana», 14 (1906), pp. 326-39; L. BOLDRINI, I sonetti d’amore del bresciano cavalier Bartolomeo Dotti, in «Illustrazione bresciana», 1.I.1909; L. BOLDRINI., Brescia nei sonetti di Bartolomeo Dotti, in «Illustrazione bresciana», 1.VII.1909; E. FILIPPINI, A proposito di una recente pubblicazione sulle raccolte poetiche del Settecento, in «Ateneo veneto», 32 (1909), pp. 371-87; F. LOMBARDI, Una leggenda dei Ss. Faustino e Giovita in un sonetto di Bartolomeo Dotti, in «Brixia sacra», 5 (1914), pp. 188-89; E. FILIPPINI, Dove e in quale anno nacque Bartolomeo Dotti, in «Rassegna critica della letteratura italiana», 39 (1924), pp. 153-86; C. A. DOTTI, La patria di Bartolomeo Dotti, in «Il cittadino di Brescia», 28.VII.1926; G. GETTO, Introduzione ai lirici marinisti, introduzione a Opere scelte di Giovan Battista Marino e dei Marinisti, a cura di ID., Torino, UTET, 1954, vol. 2, ad indicem; U. LIMENTANI, La satira nel Seicento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1961, pp. 6-7; F. CROCE, Tre lirici dell’ultimo barocco. III, Bartolomeo Dotti, in «Rassegna della letteratura italiana», 47/I (1963), pp. 3-49; E. TRAVI, La lirica barocca in Italia, Torino, SEI, 1965, pp. 207-12; F. CROCE, La lirica tardo barocca dell’Artale, del Lubrano e del Dotti, in ID., Tre momenti del Barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966, pp. 323-92; G. GETTO, Lirici marinisti, in ID., Barocco in prosa e in poesia, Milano, Rizzoli, 1969, pp. 41, 47, 65, 72, 74, 80-82, 85; G. DUVAL-WIRTH, La mise en accusation de la justice dans la littérature italienne du XVII siècle, dans «Revue des études italiennes», 16 (1970), pp. 5-48; G. BALDASSARRI, «Acutezza» e «ingegno»: teoria e pratica del gusto barocco, in Storia della cultura veneta, a cura di G. ARNALDI - M. PASTORE STOCCHI, Vicenza, Neri Pozza, 1983, vol. 4/I, pp. 245-47; A. FRANCESCHETTI, L’Arcadia veneta, in Storia della cultura veneta, a cura di ARNALDI - PASTORE STOCCHI, 1985, vol. 5/I, pp. 133 e 156; N. LONGO, La letteratura proibita, in Letteratura italiana, a cura di A. ASOR ROSA, vol. 5, Torino, Einaudi, 1986, p. 990; A. PELLEGRINO, voce Bartolomeo Dotti, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1992, vol. 41, pp. 532-34; C. VOVELLE, Démêlés et pérégrinations d’un vénitien en marge à travers six lettres inédites de B. Dotti, dans «Cahier d’Études Romanes», 18 (1994), pp. 211-37; C. VOVELLE, Il fascino discreto della nobiltà: Bartolomeo Dotti tra esilio e compromesso (1674-1706), in «Trimestre», 28 (1995), pp. 157-219; G. BÀRBERI SQUAROTTI, Bartolomeo Dotti: l’arte del sonetto morale, in «Rivista di letteratura italiana», 19/I (2001), pp. 79-104; V. BOGGIONE, Dotti, Testi e l’idea della letteratura, in «Levia Gravia», 4 (2002), pp. 177-192; R. ANTONIOLI, Vago et curioso: un itinerario attraverso le opere di autori bresciani del Seicento possedute dalla Biblioteca Queriniana, in «Annali Queriniani», 8 (2007), pp. 47-106; G. ALONZO, La satira secentesca: modi, forme, questioni, Università statale di Milano, XXIV ciclo, a.a. 2010-11, tutoraggio e coordinazione di F. SPERA, ad indicem (disponibile su http://hdl.handle.net/2434/171676, ultimo accesso il 17.II.2015); E. CAVAGNINI, Le biografie manoscritte di Bartolomeo Dotti (1648-1713): studio ed edizione, Diss., Brescia, 2011. 15 Si tratta di V. BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla»: le rime di Bartolomeo Dotti, Torino, Res, 1997, la quale contiene la bibliografia più aggiornata in assoluto per le fonti tra Seicento ed Ottocento sul personaggio e sulla sua produzione e per volumi e saggi di ampio respiro che includono cenni all’autore, alle pp. 313-17. In proposito, si veda anche CAVAGNINI, Le biografie manoscritte di Bartolomeo Dotti. 16 Mantenutisi data e luogo di nascita a lungo dubbi, tra le carte d’archivio solo recentemente è venuto alla luce un registro contenente il suo atto di battesimo, scoperto da VOVELLE, Il fascino discreto della nobiltà, pp. 157-219, la quale così conferma in parte le brillanti deduzioni, seppur non provate, di FILIPPINI, Dove e in quale anno, pp. 153-86.

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numerose accademie, tra cui i Faticosi di Milano, i Dodonei ed i Pacifici di Venezia e gli

Erranti di Brescia, presso le quali si diletta a scrivere poesie, ed è nunzio del Territorio di

Brescia in Venezia, recandosi spesso nella capitale della Repubblica Veneta. Quando però

la rivalità con Giovan Battista Bottalini, vicesegretario dell’Accademia degli Erranti in

Brescia, si accende eccessivamente, con lo scambio di capitoli ingiuriosi, il Dotti finisce

con l’insultare il protettore del suo avversario, il conte Cesare Martinengo, dovendo

lasciare la città per sfuggire alle ritorsioni. Postosi al servizio di un non precisato

funzionario e gentiluomo veneziano, in missione in Grecia e nelle isole, tra cui Zacinto, il

Dotti lo segue, finché, per intercessione di amici comuni, ottiene il perdono dal conte nel

1676. Decide tuttavia di impiantarsi a Venezia, dove prosegue il suo incarico diplomatico e

continua la vita tra salotti e società, dimostrando anche intrecci con potenti funzionari

veneti inviati a Brescia come capitani del popolo o podestà. Nel 1681 il poeta è però

costretto a lasciare nuovamente il territorio lagunare, in quanto bandito per aver dato

ospitalità ai parenti del nobile bresciano Benedetto Chizzola, giunti in città per vendicare

l’uccisione del congiunto ad opera di un concittadino, Zuane Melini, che ora ha trovato

rifugio proprio nella casa di un senatore veneziano.

Non persosi d’animo, Bartolomeo Dotti si stabilisce nello stesso anno a Milano,

lontano, ma non eccessivamente, dalla Serenissima, a discapito dell’idea iniziale di

trasferirsi in Germania. Il soggiorno milanese è ricco di rapporti culturali, tra circoli, Carlo

Maria Maggi e l’abate di Sant’Ambrogio Bartolomeo Aresi, ma l’impatto generale con la

popolazione e le istituzioni di Milano, sobrie e severe, sono scomode al suo personaggio

esuberante e giocondo, tanto che il poeta è spesso in contatti coi protettori veneziani di un

tempo, Marco Bembo e Marco Ruzzini. Le speranze di ritorno a Venezia restano

nondimeno deluse, dato che il Dotti si trova coinvolto in un nuovo incidente nella capitale

padana: quando alcuni sicari tentano di uccidere il conte bresciano Camillo Avogadro,

esiliato dalla Serenissima e pure lui in Milano, per analogia di situazione il Bresciano viene

sospettato di aver fornito al mandante, Nicola Bargnani, informazioni utili per il mancato

attentato, così, nell’aprile del 1683, viene incarcerato per favoreggiamento. Fallito ogni

tentativo di conciliazione, prende avvio l’istruttoria, che si prolunga fino a novembre e

termina con il riconoscimento dell’estraneità al fatto; eppure, per le insistenze degli

avversari, che forse arrivano pure a corrompere il capitano di giustizia milanese Giovan

Tommaso Gallarani, il Dotti è rinviato a giudizio con l’accusa di detenzione illecita di armi

da fuoco ed il processo si conclude agli inizi del 1684 con la condanna alla detenzione. Si

apre allora il periodo di carcerazione, scontato nel castello di Tortona dalla primavera o

estate di quell’anno, momento di pianto e riso, di sdegno indomito e di fêtes galantes: la

prigionia del Bresciano non è però del tutto rustica e fredda, poiché il castellano, presolo in

compiacenza per il suo carattere aperto ed estroso, gli concede alcuni vizi ed alcune

autonomie di movimento, le quali gli permettono in qualche modo di prendere parte alla

vita della città, esigua ma sufficiente, tra le bellezze femminili osservate col cannocchiale, le

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visite di amici e parenti, uno su tutti Giulio Antonio Gagliardi, e le simpatie del canonico,

don Antonio Maria Molo. Ma il desiderio della libertà prevale nel vitale figuro, il quale,

romanzescamente, si dà alla fuga dal carcere nell’autunno nel 1685, di notte, calandosi dalle

mura ed attraversando lo Scrivia.

Rientrato a Brescia dopo un plateale tour attraverso la Liguria, il Parmigiano ed il

Mantovano, nell’estate nel 1686, insoddisfatto anche della sua città natale, prende

sapientemente la decisione di partire al seguito di Pietro Bembo, nobile veneto, per

l’Oriente, al tempo della lotta della Serenissima, a fianco degli eserciti stranieri, contro i

minacciosi Turchi17, nella spedizione comandata dal provveditore generale Girolamo

Correr, in quanto, in virtù di un buon servizio, è possibile ottenere la revoca del bando

dalla Repubblica Veneta, l’unico posto tanto criticato ma tanto agognato negli ultimi anni.

Bartolomeo Dotti, pur volenteroso di combattere contro i nemici levantini, non prende

parte alla guerra, ma rimane nell’isola di Leucade, all’epoca Santa Maura, a svolgere una

tediosa opera burocratica consistente nella creazione di un catasto dei beni sottratti ai

Turchi da devolversi alle esangui casse veneziane. Deluso dalla speranza di arricchirsi e

coprirsi di gloria, dato che, a Milano, nel 1687 è stato nuovamente processato per il

coinvolgimento nell’attentato e, logicamente, per la fuga da Tortona, arrivando il senato a

bruciare pubblicamente i suoi testi, il Dotti può per lo meno tornare a Venezia una prima

volta, provvisoriamente, nel 1688, e, definitivamente, nell’anno successivo, essendogli

revocato il bando. Nondimeno, il secondo tentativo lagunare termina in malora, poiché,

non appena attraccato, viene nuovamente imprigionato con l’accusa di aver abusato in

Leucade delle prerogative offerte dalla sua carica. Il carcere veneto dura in realtà soltanto

alcuni mesi, poiché già nel 1690 il padre Pasquino rinuncia alla carica di nunzio del

Territorio di Brescia in Venezia in favore del figlio, il quale, grazie al titolo, si riabilita e

viene scarcerato.

Profondamente cambiato a livello interiore, Bartolomeo Dotti decide di prendere

seriamente tale compito diplomatico, in maniera molto diversa da come lo ha vissuto anni

prima, quindi mette la sua personalità stizzita ed i suoi influenti contatti al servizio dei

diritti del contado contro i privilegi e le prepotenze della nobiltà e del clero cittadini. Non

manca però di prender parte alla vita mondana e culturale veneziana, tanto che fa parte

dell’Accademia degli Animosi, fondata da Apostolo Zeno, presto colonia d’Arcadia, cui il

Bresciano aderisce con la metonomasia di Viburno Megario; diventa cavalier servente della

più nota bellezza dei salotti dell’epoca, Lucrezia Basadonna Mocenigo; è nominato, forse

per meriti letterari, cavaliere d’Ungheria dall’imperatore Leopoldo I; continua ad avere

piccoli litigi e beghe con personalità di Venezia, anche di spicco, di cui non approva la

condotta e che mordacemente frusta a livello poetico. Le ultime notizie certe risalgono al

17 Per il contesto storico, non solo delle guerre, ma anche a livello generale, si rimanda a J. MATHIEX, The Mediterranean e A. N. KURAT - J. S. BROMLEY, The retreat of the Turks, in The New Cambridge Modern History, edited by F. L. CARSTEN, Cambridge, Cambridge University Press, 19612, vol. 5, rispettivamente pp. 540-71 e 608-47.

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1711, quando, durante un soggiorno a Brescia, offende in versi il conte Mario Stella, il

quale organizza contro l’autore un attentato, fortunatamente andato a vuoto. Il cavalier

Dotti muore infine nel 1713 a Venezia, in circostanze misteriose, mentre di notte fonda sta

facendo ritorno a casa. Certamente vittima del suo carattere e delle sue poesie, le indagini

mulinano a vuoto per un anno mentre il corpo viene sepolto, per interessamento dei

fratelli, nella chiesa di San Vitale.

2. Del poeta bresciano, in vita, sono stati pubblicati soltanto alcuni sonetti,

raccolti sotto il titolo di Delle rime. I sonetti, editi a Venezia nel 1689 da tipografo anonimo e

comunemente noti come Rime, benché, come egli stesso chiarisce nell’introduzione al

lettore, «ti prometto un buon numero di ode, o siano canzoni»18, quindi, per usufruire della

spiegazione di Valter Boggione, «la consuetudine vulgata di servirsi della dicitura Rime è

[…] imprecisa, in quanto nelle intenzioni dell’autore i Sonetti dovevano essere seguiti dalle

Odi, che tuttavia non videro mai la luce»19. Null’altro è stampato e diffuso in pubblico

vivente l’autore, ma sarà solo in tempi recenti Valter Boggione a pubblicare la prima

edizione moderna, e pure critica, del Dotti, che ha edito le cosiddette Odi, in realtà già

stampate, ma solo occasionalmente e singolarmente, su fogli volanti od in raccolte altrui,

assieme ad altre rime rimaste in stato manoscritto, all’interno del volume B. DOTTI, Odi e

altre rime inedite, a cura di V. BOGGIONE, Brescia, Queriniana, 1997. La tiratura dei Sonetti

corona un percorso iniziato con i giovanili esperimenti poetici nelle Accademie di Brescia,

Venezia e Milano e proseguito per tutto il successivo periodo biografico, almeno sino al

secondo periodo veneziano, benché la presenza di rime inedite possa far pensare, oltre a

testi stravaganti ed esclusi dalla silloge, ad una prosecuzione dell’attività lirica anche dopo il

1689 (eppure le questioni stilistiche non lasciano dubbi sulla cronologia). Per quanto

riguarda le Odi, invece, esse concentrano la loro genesi in due distinti periodi, i quali sono

da un canto la prima villeggiatura veneziana, dall’altro il periodo di guerra levantina, ma

alcune di esse sono generate da altre situazioni, benché esauriscano il loro ambito alla

seconda tappa in Venezia.

Nonostante ciò, Dotti è più celebremente noto per altri testi scaturiti dalla sua

penna, le cosiddette Satire20, altro appellativo tradizionale poiché mai ufficialmente

impresso dalla stampa sotto suo consenso, dato che questi suoi componimenti hanno una

discreta circolazione, ma soltanto manoscritta, non essendo mai edite poiché

esplicitamente invise ai più, a volte scurrili e violente, inabili di ricevere l’imprimatur21:

18 B. DOTTI, Delle rime. I sonetti, Venezia, s. e., 1689, p. 22. 19 BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», p. 317. 20 Per geografia e storia delle Satire dottiane, ma anche dei Sonetti e delle Odi, con catalogo completo dei testi a stampa, si rimanda a BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 303-06. 21 Pur non trattando il Dotti, rendono bene l’atmosfera del periodo P. ULVIONI, Stampa e censura a Venezia nel Seicento, in «Archivio Veneto», 106 (1975), pp. 45-93 e M. ZORZI, La produzione e la circolazione del libro, in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, a cura di G. BENZONI - G. COZZI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997, vol. 7, pp. 921-85.

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stando al giudizio dei più, è proprio il carattere scontroso, denigratorio ed accusatorio di

queste poesie a costargli la vita, unito però al temperamento non equabile del personaggio.

Il passaggio dalla lirica alla satira avviene certamente nel secondo periodo veneziano del

Bresciano e prosegue per il resto della sua esistenza. «Clandestine per tutto il Settecento»22,

tra il XVIII ed il XIX secolo si avvicendano ben quattro tirature di quest’opera,

gravemente scorrette e certamente non autorizzate. La princeps, dove primamente compare

il titolo di Satire, è stampata a Ginevra nel 1757 dai tipografi Cramer, ma, secondo padre

Francesco Zaccaria23, il vero luogo di edizione è Parigi24, essendo riportato Ginevra per

sviare indagini e sospetti25; segue l’edizione del 1790, che è stampata ad Amsterdam con gli

stessi intenti ed in cui il tipografo non è riportato, ma in realtà si tratta di uno stampatore

veneziano, il quale ha scrupolosamente riprodotto l’esemplare principe, soltanto

cambiando la numerazione dei testi e dimenticando di imprimerne uno; è il turno di una

seconda edizione ginevrina, le Satire inedite, tirata nel 1797 e priva di tipografo, ma

probabilmente stampata a Parigi, la quale contiene, contemperandoli, alcuni componimenti

satirici già pubblicati, altri non ancora stampati ed alcuni sonetti già noti del Dotti, uniti a

testi non suoi; l’ultima tiratura risale al 1807 ed è certamente opera del precedente

stampatore, compiendosi tuttavia in essa ulteriori ribaltamenti nella disposizione numerica

e nella scelta dei componimenti, quasi ne fosse un florilegio, senza in realtà aggiungervi

nulla.

I Sonetti e le Satire, dunque, uniti a molti testi inediti, attendono ancora una severa

moderna edizione critica, la quale cerchi di far luce sulla nebulosa nebbia di manoscritti,

davvero sterminata26, essendo stranamente prive di varianti significative le edizioni a

stampa, sia dei Sonetti, poiché una soltanto, sia delle Satire, benché siano quattro.

Sorprendentemente già nell’Ottocento, nel gusto della scuola storica per la pubblicazione

dell’inedito, del raro e dell’inusitato, e poi logicamente nel Novecento, in linea con la

renovatio barocca, spuntano nondimeno diverse poesie dottiane, tanto liriche, quanto

satiriche, in compilazioni antologiche, ma mai integrali27.

22 Originali ed esaurienti in proposito le parole di LONGO, La letteratura proibita, p. 990. 23 L’opinione, in forma manoscritta, è in G. P. GASPERI, Catalogo della Biblioteca Veneta, Venezia, Biblioteca del Museo Correr, mss. Cicogna 3525-3528. 24 Sul ruolo colossale di Parigi come capitale tipografica a partire dal Seicento, un’utile introduzione risulta H.-J. MARTIN, La circolazione del libro in Europa ed il ruolo di Parigi nella prima metà del Seicento, in Libri, editori e pubblico nell’Europa moderna, a cura di A. PETRUCCI, Roma-Bari, Laterza, 20032, pp. 105-60, che rimanda al suo maggior lavoro H.-J. MARTIN, Livre, pouvoirs et société à Paris au XVIIe siècle, Genève, Droz, 19993. 25 Si sa, del resto, che Paesi Bassi e Svizzera sono i posti ideali per sottrarsi al regime, di persona o per stampa, fin dai tempi almeno della Controriforma, come illustra M. INFELISE, Falsificazioni di stato, introduzione a False date: repertorio delle licenze di stampa veneziane con falso luogo di edizione, a cura di P. BRAVETTI - O. GRANZOTTO, Firenze University Press, 2008, pp. 7-27. 26 Per geografia e storia delle Satire dottiane, ma anche dei Sonetti e delle Odi, con il catalogo non completo, ma di certo il più esauriente mai steso, dei testi manoscritti, si rimanda a BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 306-12. 27 Si tratta di Raccolta dei poeti satirici, a cura di F. PREDARI, Torino, Ferrero e Franco, 1853, vol. 3, pp. 261-301; Poesie giocose inedite e rare, a cura di A. MABELLINI, Firenze, De Maria, 1884, pp. 114-19; Lirici marinisti, a cura di B. CROCE, Bari, Laterza, 1910, pp. 512-16; Opere scelte di Giovan Battista Marino e dei Marinisti, a cura di G. GETTO, Torino, UTET, 1954, vol. 2, pp. 119-22 e 246-59; Marino e i marinisti, a cura di G. G. FERRERO, Milano-Napoli,

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1.3 Etica ed estetica delle opere, ovvero temi e stili

1. Non è questa la sede per dilungarsi sulla formazione e le capacità culturali, sulle

fonti ed i modelli, sulle preferenze e le idiosincrasie di Bartolomeo Dotti poeta, dato che la

sua musa si colloca «tra vocazione ed incidente»28, scaturita da un canto dal gran secolo,

dove tutti si improvvisano, estemporaneamente e pletoricamente, lirici, e dall’altro da una

vita da romanzo, che lo costringe a mettere per iscritto le sue riflessioni ed i suoi sfoghi,

tanto che, nell’unica silloge edita, adopera come antiporta incisa un’immagine di Apollo

che trionfa su Pitone, quasi a comunicare «il carattere agonistico della poesia, attraverso cui

è possibile ristabilire l’ordine sconvolto»29. È sufficiente dire che la sua conoscenza del

greco, più come lingua che come letteratura, conservato come apprendimento scolastico,

del latino, come lingua e letteratura, con apprezzamenti per i lirici, gli storici ed i satiri,

spesso citati od allusi, come Tacito, Orazio, Persio, Giovenale, Seneca e Virgilio, della

cultura classica e cristiana, cui fa riferimento tra mito, storiografia e religione, della storia

politica e sociale a lui coeva, tra guerre e caste, assolutismo e stati regionali, e della

tradizione letteraria italiana tanto antica, da Dante a Petrarca, da Ariosto al petrarchismo di

Bembo e dintorni, quanto moderna, da Tasso a Guarini, da Marino a Chiabrera, da Rosa a

Battista, non è passibile di discussione. Come già per Marino e per gran parte degli autori

di quest’epoca, la sua poesia è allora un’“enciclopedia del poetabile”, dove l’imitazione

diventa l’appropriamento, più o meno indebito, di materiali da tutta la tradizione, pur di

riuscire, dentro un puro trasformismo, ad esprimere la propria arte, anche attraverso quella

altrui: facendo ars allusiva a Marino, appunto, il Dotti stesso ammette «Io leggo sempre con

l’uncino, e da tutti raccolgo»30. Sulla discussione, si rimanda dunque a più approfonditi

studi31.

2. Per quanto riguarda i contenuti dei Sonetti e delle Odi, essi sono chiariti dal

medesimo autore nell’introduzione al lettore, quando, nel novero dei temi che propone,

parla de «gli amori […] gl’eroici, i morali ed i sacri»32, ed, in effetti, sono proprio questi gli

argomenti, pur declinati nelle varie casistiche e variati sul tema secondo la tecnica barocca,

Ricciardi, 1954, pp. 1087-98; Il fiore della lirica veneziana, a cura di M. DAZZI, Vicenza, Neri Pozza, 1959, vol. 2, pp. 133-46; Parnaso italiano, a cura di C. MUSCETTA - P. P. FERRANTE, Torino, Einaudi, 1964, vol. 7, pp. 914-23. 28 BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», p. 47. 29 BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», p. 90. 30 Il merito di aver individuato il parallelo è di BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», p. 59, dove la frase di Dotti è tratta da una sua lettera del 1685 all’amico Giulio Antonio Gagliardi, inedita e presente nel codice Queriniano D.VII (sezione 5, f. 280v) della Queriniana di Brescia, mentre la celebre asserzione di Marino è nella quarta lettera prefatoria alla Sampogna, inviata all’amico Claudio Achillini nel 1620, dove ammette di «leggere col rampino, tirando al mio proposito ciò ch’io ritrovava di buono, notandolo nel mio Zibaldone et servendomene a suo tempo» (cfr. G. B. MARINO, Lettere, a cura di M. GUGLIELMINETTI, pp. 244-46). 31 Ovvero BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 47-100, le quali ricostituiscono il capitolo secondo, titolato Un’idea della poesia. 32 DOTTI, Delle rime, p. 16.

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che vengono affrontati nelle rime: l’amore per la bellezza femminile ideale e terrena,

sublime e quotidiana, colta in operazioni ed attitudini comuni e popolane o raffinata ed

imbellettata, secondo l’armamentario dell’amore vestito, al limite della sensualità33; l’eroico

elogio delle imprese e delle virtù, della vita e della morte di personaggi e fatti lodevoli, sia

celebri e noti al pubblico, tratti dalla storia, dalla religione o dal mito, sia celebrabili ma non

ancora famosi, ovvero amici e potenti della propria cerchia, in occasione di alcuni loro fatti

biografici; la riflessione etica, a partire da eventi e figure celebri, tratti dalla storia,

dall’antichità classica e dalla Bibbia, ma anche da oggetti e paesaggi, come rovine, specchi,

gioielli, fenomeni astrali, orologi, quadri, statue, stagioni, sulla precarietà dell’esistenza,

sulla fugacità del tempo, sulla metamorfosi del mondo, sul disinganno del reale, sulla

titanica resistenza al fato, sull’oppressione della fortuna34; la celebrazione del sacro

cristiano, dal fasto delle cerimonie alla santità dei personaggi antichi e coevi, dall’amore

divino, quasi mistico, alle occasioni ecclesiastiche.

Ciò cui in realtà accenna soltanto nell’introduzione al lettore, quasi baroccamente

a dissimularlo in principio per poi farlo emergere a chi davvero legge l’opera, è il quinto

tema della silloge, che è la satira sociale, non presente nelle Odi (così come l’argomento

erotico, anch’esso assente in tali testi), tenuta a freno e soffocata nei Sonetti, ma destinata

ad esplodere, ragionevolmente, nelle Satire. In queste liriche, la satira è rivolta

essenzialmente a criticare il potere, con la sua natura illusoria e la sua carica traviante,

attingendo spesso da fonti ed episodi classici, ed alcuni ceti sociali in particolare, ossia i

nobili e l’alta borghesia, con le loro futili voluttà, i loro costumi malati ed il loro credersi

superiori, ed il clero, innalzato a finto perbenista ed ammaliatore delle genti. Al di là dei

toni a volte eccessivamente acrimoniosi in una silloge lirica, la pars construens di questa vena

satirica non manca, poiché, di contro a tutto ciò, esalta, con valori da un lato

antiaristocratici ed anticlericali, dall’altro filantropici, dentro una sorta di flaubertiano

sublime d’en bas, la gente umile ed umiliata, semplice e quotidiana, l’onestà e la gentilezza di

un mondo utopico, la virtù di chi non si fa sedurre dalle mode, dal pettegolezzo e dalla

vanesia fini a se stessi35. Resta infine da sottolineare il tentativo, diffuso a partire dalla

critica di Giovanni Getto36, ed a pieno e buon diritto, di riallacciare le poesie liriche del

Bresciano ad una sorta di tradizione lombarda in senso lato, che per tutta l’età moderna è

impregnata di moralità ed eticità, culminando nelle grandi figure di Carlo Maria Maggi,

33 Si veda, in proposito, BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 101-37, ossia il terzo capitolo, titolato Il giovenil errore. 34 BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 139-200 e 243-301, ossia i capitoli quattro e sei, titolati Il carnevale, la morte, il nulla e La morale eroica; B. DOTTI, Odi e altre rime inedite, a cura di V. BOGGIONE, Brescia, Queriniana, 1997, pp. 3-11; BÀRBERI SQUAROTTI, Bartolomeo Dotti, pp. 79-104. 35 BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 201-42, ossia il quinto capitolo, titolato Potere e nobiltà tra satira ed utopia. 36 Si tratta di GETTO, Lirici marinisti, p. 85, condivisa poi da Marino e i marinisti, a cura di FERRERO, p. 1087, ma, per quanto anche CROCE, La lirica tardo barocca, pp. 344-45 accetti, pur riducendola, tale ipotesi, i più decisi in questo senso sono PELLEGRINO, voce Bartolomeo Dotti, p. 533 e BÀRBERI SQUAROTTI, Bartolomeo Dotti, pp. 79-104. Comunque, pur senza riallacciarsi alla tradizione lombarda, tutti i critici concordano sulla di lui ispirazione morale, in specie nei Sonetti.

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Parini, Alfieri, Foscolo, Manzoni (e pure Gadda, se si arriva al contemporaneo)37. Ecco

perché la vena più innovativa ed originale nelle rime resta certamente quella morale, che

pervade anche sonetti d’amore, canzoni di elogio e testi squisitamente estetizzanti, tanto

che Bàrberi Squarotti parla di «programma di moralizzazione», «retorica morale» e

conclude che «Il Dotti acconcia materiali e figure con abile strategia onde l’ammonimento

morale e ascetico possa essere sviluppato dalle premesse descrittive, ma è una strategia che

non dipende più dalla realtà dell’oggetto [...], bensì dalla scelta a priori del poeta»38.

3. È a partire invece dal nucleo satirico, già contenuto nei Sonetti, che prende

avvio nella mente del Dotti il progetto delle Satire, mai portato a termine, ma che esaurisce

la carica di poeta del personaggio e ne preclude pure l’esistenza. Esse vanno intese come

controcanto testuale della biografia del Bresciano, il quale, esasperato dalle continue accuse

e dagli infiniti fallimenti sociali, riesamina la propria espressione letteraria e passa dalla

lirica alla satira. L’autore assurto a modello per la vis polemica non è più il sorridente e

distaccato Orazio, l’autore dei Bionei Sermones, in cui malinconia ed ironia convivono

mentre, come direbbe Jean de Santeul, castigat ridendo mores, cosa che invece è valsa per l’età

umanistica e rinascimentale, bensì è Giovenale, in particolare quello delle prime nove

Saturae (e non quello delle rimanenti sette, democriteo, più bonario e tollerante, distolto

dalla stoltezza umana39), dall’aria arcigna ed indignata, che non si risparmia di mettere in

poesia l’abiezione della realtà40, benché il Dotti, talora, si smorzi e sopisca in toni più chiari

e suadenti. Il poeta non perde comunque il suo nervo e si scaglia o direttamente contro gli

interessati, personaggi privati della sua cerchia o pubblici del mondo sociale, citati in modo

esplicito o di rado allusi lasciando intendere di chi si tratti, o implicitamente contro

categorie, usanze, eventi anonimi e spersonalizzati, che diventano tipi, archetipi e simboli.

Egli prende infatti a frustate la viziosa e decadente società, tanto lombarda quanto

veneziana, composta di nemici reali ed ideali, riproponendo gli abusi della nobiltà,

prepotente col mondo ed ingiusta con chi non crede suo pari, costruita sul vizio e sulla

boria, e l’ipocrisia del ceto ecclesiastico, corrotto ed infingardo, stipato di pietismo e

nepotismo, e non solo tra i preti e le monache, ma insino ai cardinali, per poi aggiungere le

37 Le basi del filone sono tracciate da M. APOLLONIO, Carlo Maria Maggi e il moralismo lombardo, in «Civiltà moderna», 4/I (1932), pp. 55-69, mentre alcuni spunti sono presenti nei saggi di D. ISELLA, I Lombardi in rivolta, Torino, Einaudi, 1984 e G. MATTESINI, Manzoni e Gadda, Milano, Vita e Pensiero, 1996. 38 Le tre citazioni, colonne basilari della tesi del saggio, provengono da BÀRBERI SQUAROTTI, Bartolomeo Dotti, pp. 88, 90 e 91. 39 Per la questione dei “due Giovenali”, oltre al provocatorio saggio di O. RIBBECK, Der echte und der unechte Juvenal, Berlin, Guttentag, 1865, che riassume in sé le polemiche di molti secoli, si rimanda agli studi che hanno risolto la diatriba, come W. ANDERSON, The Programs of Juvenal’s Later Books, in «Classical Philology», 57/III (1962), pp. 145-60 e F. BELLANDI, Etica diatribica e protesta sociale, Bologna, Pàtron, 1980. 40 Sul passaggio di testimone nel XVII secolo tra Orazio e Giovenale, per quanto anche il satiro di Venosa rimanga un modello molto usato, si consultino LIMENTANI, La satira nel Seicento, pp. 4-29 ed ALONZO, La satira secentesca, pp. 47-66. Sulla satira del XVII secolo utili anche C. CHIODO, La satira del Seicento nella storia della critica, in ID., Il gioco verbale. Studi sulla rimeria satirico-giocosa del Seicento, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 247-81 e A. CORSARO, La poesia senza pubblico. Teoria, scrittura e diffusione della satira nel primo Seicento, in ID., La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca fra Cinque e Seicento, Manziana, Vecchiarelli, 1999, pp. 163-88.

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accuse alle istituzioni politiche, dal doge di Venezia al senato di Milano, filistee e meschine,

fredde e manovratrici, ed all’economia, daziosa e monopolistica, e terminare con la sua

personale vicenda biografica, inneggiando alla libertà dai tiranni, deprecando le sue

condanne alla galera e sdegnandosi per la censura dei suoi testi. Un posto minore occupa

la pars construens nelle Satire, in accordo con lo ψόγος giovenaleo, per cui l’attenzione al

mondo onesto ed umano ed al riscatto delle gerarchie non arriva all’importanza avuta nei

Sonetti.

4. In ambito formale, di difficile inquadramento rientra la produzione lirica di

Bartolomeo Dotti all’interno dell’annosa querelle tra sperimentalisti e classicisti del Barocco

letterario; inoltre, se si considerassero anche le Satire, sarebbe necessario scomodare le

categorie critiche, assai evanescenti, del Rococò e dell’Arcadia. Trovandosi in bilico tra due

secoli, scrivendo due opere diverse nella teoria dei generi letterari ed, in una stessa opera,

adoperando stilemi soprattutto, ma, volendo, pure temi, che lo riconducono all’uno od

all’altro schieramento, si arriverebbe a dover forzare il poeta entro le etichette del Barocco

e dell’Arcadia, del classicismo e dello sperimentalismo, del marinismo e del rappelle à

l’ordre... La soluzione ad una diatriba così capillare non è forse proprio accessibile e ben lo

sanno tanto gli studiosi quanto i poeti. Da un canto, infatti, due secentisti del calibro di

Jannaco e Capucci rammentano che «Classificare, ripartire, distinguere con linee nette non

è solo difficile; spesso è arbitrario; ed è bene ricordare sempre che le molte categorie in uso

- classicisti e concettisti; marinisti e chiabreristi; testiani oraziani e pindarici; grotteschi

burleschi popolareggianti e dialettali - sono etichette approssimative, utili in quanto si

abbia coscienza della loro approssimazione. Linee di innovazione e linee di conservazione

si snodano vicine, spesso si toccano, talora si confondono e si intrecciano…»41. Dall’altro,

invero, è proprio Marino a ricordare l’essenza del suo secolo, dentro una lettera a

Girolamo Preti del 1624: «Rompansi pur il capo i signori critici, disputando fra loro se con

quel nome si debba battezzare […]. Intanto i miei libri, che sono fatti contro le regole, si

vendono dieci scudi il pezzo a chi ne può avere; e quelli che son regolati, se ne stanno a

scopar la polvere delle librarie. Io pretendo di saper le regole più che non sanno tutti i

pedanti insieme, ma la vera regola (cor mio bello) è saper rompere le regole a tempo e

luogo, accomodandosi al costume corrente ed al gusto del secolo»42. Eppure è

anapoditticamente necessario un tentativo di trovare una risposta al «guazzabuglio del

cuore umano», di risolvere lo «gnommero del reale» e di imporsi nella «sfida al labirinto»43:

i critici sono all’opera ed il presente contributo prova, benché in modo superficiale e naïve,

a darne esito.

41 JANNACO - CAPUCCI, La poesia tra classicismo e concettismo, p. 262. 42 G. B. MARINO, Lettere, a cura di M. GUGLIELMINETTI, Einaudi, Torino, 1966, pp. 394-97. 43 Le tre citazioni, riferite alla difficoltà di comprendere appieno la realtà, sono di A. MANZONI, I Promessi Sposi, cap. X, C. E. GADDA, Quer Pasticciaccio Brutto De Via Merulana, cap. I ed I. CALVINO, La Sfida Al Labirinto.

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È bene anzitutto puntualizzare che Bartolomeo Dotti, uomo del suo secolo, vive

nella perenne metamorfosi geografica e nel perenne movimento spaziale, i quali sono

elementi cardine del Seicento44, dunque non si accontenta di un solo modo di poetare, ma,

essendo quello il periodo in cui il successo dipende dal pubblico e dalle vendite, e non più

dalle élites e dalla critica45, volteggia tra temi e stili per accomodare il gusto del momento, in

maniera camaleontica e trasformista. In secondo luogo, non si può non credere che la

celebre posizione di «perplessità interrogativa»46 in cui si trova l’uomo barocco, spiazzato

dalle teorie secentesche, innovative ed arroganti, che ribaltano quelle cinquecentesche,

dalla scienza al cosmo, dall’arte alla storia, alla religione, non possa travasarsi anche nel

passaggio tra Sei e Settecento, quando la poetica della retorica, dell’esoso e della meraviglia

vengono smorzate in favore della logica, della raffinatezza e della razionalità. Chiarito

questo, è necessario distinguere tra i concetti di classicismo e sperimentalismo all’interno

dell’ipotesi barocca e tra le ipotesi Barocco ed Arcadia all’interno della letteratura italiana,

dando per assodato che si tratti di puri, purissimi accidenti. Generalizzando, si può dire

che gli argomenti trattati dipendano maggiormente dall’inclinazione del poeta, preso

singolarmente, mentre le forme dipendano più dalla sensibilità dell’ambiente storico e

sociale, in cui l’autore è collocato, dunque è essenzialmente lo stile il bersaglio di una breve

indagine che possa far ricadere la poesia dottiana all’interno dell’una o dell’altra

designazione.

Sulla disputa tra classicisti e sperimentalisti47, certamente semplificando e

schematizzando, si possono trarre alcuni punti come qualificanti della loro estetica. I

secondi, detti anche concettisti o marinisti, adottano infatti il gusto dello sperimentalismo

44 W. WEIßBACH, Barock als Stilphänomen, in «Deutsche Vierteljahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», 2/II (1924), Sp. 223-56, in particolare Sp. 244-46 e BATTISTINI, Il Barocco, pp. 156-70. 45 Come già intuito da L. A. MURATORI, Della Perfetta Poesia Italiana, Venezia, Coleti, 17242, vol. 1, cap. III, p. 22, e poi illustrato da MARAVALL, La cultura del Barocco, pp. 139-78. 46 Cfr. CALCATERRA, Il Parnaso in rivolta, p. 122. 47 Per il dibattito, ancora in corso, tra sperimentalisti e classicisti, si rimanda anzitutto ai tre studi iniziatori della questione nella letteratura italiana, ossia CALCATERRA, Antibarocco, in ID., Il Parnaso in rivolta, pp. 181-221, CROCE, La critica dei barocchi moderati, in ID., Tre momenti del Barocco letterario, pp. 93-220 ed E. RAIMONDI, Di alcuni aspetti del classicismo nella letteratura italiana del Seicento, in «Lettere italiane», 15/III (1963), pp. 269-78 (proseguiti in vari saggi del volume E. RAIMONDI, Anatomie secentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, come Alla ricerca del classicismo e Paesaggi e rovine nella poesia d’un «virtuoso», rispettivamente pp. 27-41 e 42-72); poi a notevoli tentativi come V.-L. TAPIÉ, Baroque et classicisme, Paris, Plon, 1957, C. GNUDI, introduzione a L’ideale classico del Seicento in Italia e la pittura di paesaggio, Bologna, Alfa, 1962, pp. 3-37, C. L. RAGGHIANTI, Classicismo e paesaggio nel Seicento, in «Critica d’arte», 10 (1963), pp. 1-51 ed il volume miscellaneo Il mito del classicismo nel Seicento, a cura di S. BOTTARDI, Messina-Firenze, D’Anna, 1964; infine alle nuove proposte di ricerca di P. FRARE, Le poetiche del Barocco ed A. BATTISTINI, Le retoriche del Barocco, in I capricci di Proteo, rispettivamente pp. 41-70 e 71-109. Sulle indicazione tecniche dello stile, si sono impiegati gli esili status quaestionis delle storie letterarie, ossia VARESE, Poesia, pp. 788-828, JANNACO - CAPUCCI, La poesia tra classicismo e concettismo, pp. 182-86 e 261-64, JORI, Poesia lirica «marinista» e «antimarinista», pp. 653-58, BATTISTINI, Classicismo e barocco, pp. 25-35 ed i classici strumenti B. MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 19836, pp. 441-48, W. T. ELWERT, Poesia lirica italiana del Seicento. Studio sullo stile barocco, Firenze, Olschki, 1967, pp. 1-116, V. COLETTI, Storia dell’italiano letterario, Torino, Einaudi, 1993, pp. 182-93, C. MARAZZINI, Il secondo Cinquecento e il Seicento (compreso nell’ambito della Storia della lingua italiana a cura di F. BRUNI), Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 112-97, C. MARAZZINI, La lingua italiana. Profilo storico, Bologna, Il Mulino, 20023, pp. 325-29 e L. SERIANNI, La lingua del Seicento: espansione del modello unitario, resistenze ed esperimenti centrifughi, in Storia della letteratura italiana, a cura di MALATO, 1997, vol. 5, pp. 561-95.

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stilistico, composto di pointes in chiusura di testo, di frasi sintatticamente tortuose, con

anastrofi, iperbati e sinchisi, di giochi fonici che cercano la sonorità più che la musicalità,

come bisticci, equivoci e paronomasie, di accumuli ed aenumerationes, di impalcature

artificiose nella struttura della poesia, in un modo dilemmatico, parallelistico o circolare di

procedere; il diletto dell’anarchia lessicale, impiegando, accanto a sintagmi tendenzialmente

del XVI e XVII secolo, meno volentieri della tradizione anteriore, tecnicismi, latinismi e

grecismi, arcaismi ed aulicismi, forestierismi, neologismi e solecismi; l’edonismo delle tre

grandi ed esagerate soluzioni dell’epoca, ossia la metafora (e la metonimia), l’antitesi (e

l’ossimoro) e l’iperbole; la propensione al riuso della tradizione, dal classico al moderno,

senza distinzioni, enciclopedicamente, ma con l’inclinazione verso il raro ed il nuovo; la

curiosità nell’allargamento del poetabile, mettendo in versi non solo le tematiche

tradizionali e la novella meraviglia secentesca, ma persino il grottesco, il quotidiano e

l’orrido. I primi, detti anche, abbastanza impropriamente, chiabreristi od antimarinisti,

adottano invece uno sperimentalismo che al massimo si arresta alla metrica, e non procede

oltre, trovando nuove soluzioni e nuovi generi prosodici per esprimere il contenuto; uno

stile facile e comunicativo, sciolto e naturale, senza eccedere nelle figure retoriche e

nell’artificiosità della struttura; una sincera continuazione del lessico e dei sintagmi della

tradizione lirica italiana, priva dell’ostentata ricerca dell’inusitato, se mai, al contrario,

allineandosi ai canoni toscani trecenteschi promulgati dall’Accademia della Crusca;

un’attenzione alla musicalità della poesia più che alla sonorità, sviluppando ritmi, sintagmi

e fonemi che siano armoniosi e gradevoli; una ripresa, nelle tematiche, nelle situazioni e nei

τόποι, della tradizione classica e moderna più sobria e celebre; un certo legame, non

sistematico, ma frequente, tra la poesia ed il messaggio morale.

Sulla querelle tra Barocco non necessariamente, ma prevalentemente classicista, ed

Arcadia48, l’argomento diventa più complicato, anche poiché, come ha giustamente

sottolineato Calcaterra, molta della poesia rococò dei lirici d’Arcadia deve la propria

estetica al Barocco, infatti «i maldestri arcadi tentavano invano di nascondere che lo

scombussolamento paralogico continuava»49; tuttavia, è possibile erigere alcune

considerazioni. Il collettivo e subitaneo sentimento di rappelle à l’ordre, ben pilotato

dall’Accademia e della sue filiazioni in tutt’Italia, si incentra sul cosiddetto ritorno al buon

gusto, rappresentato da Petrarca e dalla tradizione lirica italiana, mediato però dalla presenza

48 Come introduzione all’Arcadia da questo punto di vista formale non si possono trascurare anzitutto i singoli contributi W. BINNI, Il Rococò letterario, in Manierismo, Barocco, Rococò, pp. 217-37, A. PIROMALLI, L’Arcadia, Palermo, Palumbo, 19752, A. COTTIGNOLI, «Antichi» e «Moderni» in Arcadia, in La colonia renia. Profilo documentario e critico dell’Arcadia, a cura di M. SACCENTI, Modena, Mucchi, 1988, vol. 2, pp. 53-69, poi le parti delle storie letterarie W. BINNI, La letteratura nell’epoca arcadico-razionalistica, in Storia della letteratura italiana, a cura di CECCHI - SAPEGNO, 1968, vol. 6, pp. 326-28 e 375-82 e A. L. BELLINA - C. CARUSO, Oltre il Barocco: la fondazione dell’Arcadia, in Storia della letteratura italiana, a cura di MALATO, 1998, vol. 6, pp. 239-56 e 259-65, infine i classici strumenti MIGLIORINI, Storia della lingua, pp. 561-63, COLETTI, Storia dell’italiano, pp. 194-201, T. MATARRESE, Il Settecento (compreso nell’ambito della Storia della lingua italiana a cura di F. BRUNI), Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 151-61 e MARAZZINI, La lingua italiana, pp. 366-69. 49 È il classico C. CALCATERRA, Il Barocco in Arcadia, in ID., Il Barocco in Arcadia e altri scritti sul Settecento, Bologna, Zanichelli, 1950, pp. 1-34, la cui citazione è a p. 4.

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del petrarchismo cinquecentesco, in specie meridionale, cui si fa riferimento per le forme

espositive, dalle parole alle situazioni; sull’atmosfera bucolica delle poesie, anche quando

non sono esplicitamente di ambito pastorale, recuperata soprattutto da Sannazaro e da

qualche autore antico, in primis Virgilio; sull’allontanamento dallo sperimentalismo

linguistico e sull’avvicinamento alla Crusca, anche in virtù del rientro nella tradizione,

benché permangano ancora molti latinismi, aulicismi ed arcaismi; sull’impiego sì della

retorica, ma in modo più sobrio, meno insistito ed esposto; sull’adozione di uno stile più

razionale e lineare, composto di sintassi piana e semplificata, vicinanza alla musicalità nei

metri letterari, ricerca di ordine e misura, simmetrie limpide ed armoniose, frasette concise

e scorrevoli; sull’uso, alquanto unanime, dell’endecasillabo sciolto, della perifrasi, del

troncamento e dell’inversione minima; logicamente, sulla preponderanza, se necessario

adottare i canoni coevi, del chiabrerismo e del testismo di contro al marinismo.

È la volta allora di considerare la poesia del Bresciano all’interno di queste

etichette, attraverso la rassegna della critica nei di lui confronti e, dove possibile, attraverso

le sue medesime dichiarazioni programmatiche. Si è già detto della vena morale delle Rime

dottiane, più o meno rilevata all’unanimità dagli studiosi50, nonostante alcuni tendano ad

ammorbidire un’esigenza così etica nell’autore: tale elemento lo avvicina quindi al

secentismo moderato. Questa condizione spinge Boggione a parlare, nonostante ammetta

che lo stile talora sia in disaccordo con ciò, di un vero e proprio «classicismo Barocco»51

per il Dotti lirico, supportato poi dall’impiego della sermocinatio e dalle riprese di personaggi

e situazioni greche e latine (quando però la teatralità emerge più sperimentalista ed il riuso

dell’antico risulta generico nel XVII secolo52). Il poeta stesso, nell’introduzione al lettore

firmata nei Sonetti, si ascrive a questo Barocco classicista quando, conoscendo le frustate

conseguite agli eccessi della tematica amorosa, afferma «Avrei volentieri omessi gli Amori,

come deliri giovenili, se ben vanità studiose», invece poi smentisce lo spegnersi dell’ἔρως e

si allinea al concettismo, poiché spiega «ma li tollerai; fu la considerazione fattami che in

libro simile, quasi in convito publico, devono imbandirsi vivande per qualunque

appetenza»53. Croce insiste piuttosto sull’«abbandono pieno della vena sensualistico-

naturalistica del Marino», dimostrando come la tematica amorosa si faccia giocosa e

materiale, con «empiti di spavalderia romanzesca»54, e sulla polemica contro l’ingiustizia

sociale e politica, «un atteggiamento di rottura nettissima con la sua epoca»55, benché rilevi

presenze mariniste come i bisticci sul nome dell’amata, gli innesti al macabro, le variazioni

sul tema, gli anagrammi e le pointes. Contro chi inquadra la sua figura nella temperie del

ritorno all’ordine, invece, Jannaco e Capucci sfoderano un sonetto, Occhi neri, composto di

ben ventitré ossimori uno di seguito all’altro, «vera macchina che gira a vuoto», nel pieno 50 Il più deciso tra tutti in questa direzione è l’intero saggio di BÀRBERI SQUAROTTI, Bartolomeo Dotti, pp. 79-104. 51 BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 158-68. 52 Su entrambi gli aspetti si è espresso ELWERT, Poesia lirica italiana, rispettivamente pp. 27-30 e 44-48. 53 Entrambe le citazioni sono tratte da DOTTI, Delle rime, p. 16. 54 CROCE, La lirica tardo barocca, rispettivamente pp. 330 e 336. 55 CROCE, La lirica tardo barocca, p. 360.

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del marinismo56. Guglielminetti, dal canto suo, sottolinea l’antimarinismo della poesia

dottiana, esponendo che le Rime sono «volute lontane dai moduli dei marinisti», non

specificandone il motivo, ma non tarda subito a precisare che «Lettori […] trovano, però,

nelle Rime sonetti d’amore tipicamente marinisti; e così pure dicasi dei morali»57. È poi

Getto stesso, dopo aver innalzato il Dotti all’interno del moralismo lombardo, ad attenuare

la proposta, parlando di «toni librati fra un ridente moralismo e una mondanità scanzonata

e monellesca»58. Chiaramente sperimentale è inoltre l’impiego linguistico dei poeti del

Seicento più che della tradizione toscana e di sintagmi e vocaboli rari ed inusitati, come

ben nota Jori quando mette in rilievo che il poeta «adopera alvo, utero, embrione, aborto,

offrendo di quest’ultimo termine una delle prime attestazioni»59. Eppure è il Dotti stesso

ad asserire «Mi son guardato al possibile dal peccare contro la favella toscana», che tuttavia

subito corregge con «ma però non mi è nato scrupolo nel valermi talvolta di voci usate

dagli autori, se non accreditati positivamente nella lingua, almeno applauditi

communemente nell’arte»60. Conclude infine Varese dicendo che «nei suoi versi le

situazioni argute sono riprese con un piglio spesso nuovo e con una bizzarria che non è

soltanto nell’accostamento degli oggetti, ma nell’intervento diretto di un’estrosa

personalità»61. Si può dunque parlare a buon diritto sia di classicismo, sia di concettismo,

oppure semplicemente evitare il problema ponendo il Bresciano in un gruppo di poeti che

va «oltre Marino»62 e si colloca nella «lirica tardo barocca»63. La situazione delle Satire

sembra al contrario salda ed uniforme nel restauro arcade, a partire proprio dalle asserzioni

del poeta, il quale spiega d’aver assunto uno «stile naturale» dallo «scrivere elegante»,

nell’idea secondo cui «Come sogliono i belletti / adornare mostri e carogne, / tal le frasi ed

i concetti / sono addobbi alle menzogne»64. Ecco la ragione per la quale Croce assicura

che è avvenuta una «conversione dal secentismo al buon gusto della cultura arcadica»,

molto evidente nei temi, e che egli impieghi «toni mediani, cari alla cultura degli arcadi»65,

Guglielminetti inserisce le Satire nel gusto rococò, essendo i componimenti «ormai

settecenteschi e pariniani»66, Arbizzoni vede in esse «Frasi semplici e musicali di strofette

di versi brevi, o nel metro di recente fortuna delle quartine»67, Baldassarri spiega che

«approdando in Arcadia […], l’esercizio delle Satire lascerà cadere le tematiche e le

56 JANNACO - CAPUCCI, La poesia tra classicismo e concettismo, p. 357. 57 Per ambedue i passi si è in GUGLIELMINETTI, Giovanni Battista Marino, p. 388. 58 GETTO, Lirici marinisti, p. 41. 59 JORI, Poesia lirica «marinista» e «antimarinista», pp. 590-91. 60 DOTTI, Delle rime, p. 16. 61 VARESE, Poesia, p. 814. 62 JORI, Poesia lirica «marinista» e «antimarinista», p. 707. 63 CROCE, La lirica tardo barocca, p. 323. 64 Per tutte le citazioni si è in B. DOTTI, Satire, Ginevra [ma Parigi], Cramer, 1757, vol. 1, p. 7. 65 CROCE, La lirica tardo barocca, rispettivamente pp. 370 e 379. 66 GUGLIELMINETTI, Giovanni Battista Marino, p. 388. 67 G. ARBIZZONI, Poesia epica, eroicomica, satirica, burlesca. La poesia rusticale toscana. La «poesia figurata», in Storia della letteratura italiana, a cura di MALATO, 1997, vol. 5, p. 764.

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soluzioni formali del Barocco estremistico»68 e Varese stabilisce che il Dotti satiro «sembra

ammorbidire, senza mai rinnegarli, i suoi temi in una forma chiara e in qualche modo

persuasiva. Le sue osservazioni, il suo gusto già settecentesco dello spettacolo della vita

veneziana, assumono […] il carattere di una protesta che vuole riavvicinare poesia e

verità»69, di contro al Seicento che è il secolo dell’eccesso e della menzogna.

L’unica conclusione possibile a trarsi dai testi del poeta e da queste plurime voci

dei critici è che non risulta affatto netta le cesura tra le varie stagioni della produzione

dottiana, irrichiudibile dentro una singola etichetta, dato che i Sonetti e le Odi non sono

soltanto un barocco discreto, di stampo classicista, ma presentano molti tratti di barocco

tout court, sperimentale insomma, e non solo all’interno della stessa lirica, come se si

contemperassero le due anime del Seicento, bensì esistendo anche poesie totalmente

sperimentali o liriche prettamente classiche; e dato che le Satire, come più

approfonditamente dimostra il terzo capitolo del presente contributo, di contro al

sopradetto parere degli studiosi, non sono esclusivamente parte del rappelle à l’ordre

dell’Arcadia, infatti non rinunciano ad atmosfere, stilemi e pure temi ancora rivolti al

secentismo, sia miscelando i toni all’interno di una medesima satira, sia tenendo distinti

questi affetti in composizioni esclusivamente dell’una o dell’altra carica. Non è dunque

totalmente valido il giudizio dei più, per il quale il secondo tempo del Bresciano si attua

sotto il segno del ritorno al buon gusto arcadico. Il segreto del successo di Bartolomeo Dotti

è, invece, quello di essere un poeta bifronte, come il dio romano Giano, epigone del

passato ed al contempo ecista del futuro, incapace di scegliere nell’aut aut, attratto

dall’ultima moda eppure attento all’antiquaria, vigoroso nella morale ma effimero nei

sentimenti, con lo specchio vanesio dell’età Barocca in una mano e la spada dell’impegno

del siècle des lumières nell’altra, quasi uomo e donna al contempo, dentro una tesissima

dialettica che caratterizza tutta la sua produzione, tanto nel primo quanto nel secondo

tempo.

68 BALDASSARRI, «Acutezza» e «ingegno», p. 247. 69 VARESE, Poesia, p. 908.

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2. Dalla teoria alla pratica

2.1 Tre manoscritti

1. Nella Biblioteca dell’Archivio provinciale dei cappuccini lombardi, con sede

presso il Convento di San Francesco in Milano, in via Piave, 2, sono presenti tre

manoscritti, con segnatura A 40, A 41 ed A 42, contenenti, assieme ad altri materiali,

alcune poesie di Bartolomeo Dotti, tutte satiriche. Riguardo a questi testi sembra

necessario confezionare due premesse metodologiche.

Anzitutto, va da sé che siano solo i copisti dei tre codici ad asserire che di tali testi

è autore il Dotti, cosa che potrebbe trovare conferma di verità solo qualora la

composizione fosse pubblicata all’interno di un’edizione, fermo restando che per i Sonetti si

ha un’edizione dottiana, perciò inappellabile70, e per le Odi si ha un’edizione critica,

altrettanto valida71, le quali quindi non lasciano dubbio alcuno, invece per le Satire non

esiste un’edizione curata o sorvegliata dal Dotti, ma soltanto quattro dubbie stampe

postume72, dunque si ricade in un autentico corto circuito gnoseologico. Tuttavia, la

convenzione di cui vive la filologia vuole che ci si affidi alla veridicità delle asserzioni

riscontrate nei manoscritti, ed, in effetti, molte delle composizioni trovano riscontro,

seppur con qualche variante, all’interno delle edizioni sopracitate. Il problema arriva ad un

cartesiano dubbio iperbolico, da malin génie, quando i componimenti che si considerano

non si trovano editi da nessuna parte, eppure vengono presentati quali dottiani; ed è

purtroppo proprio su questi testi che la presente analisi si concentra. Spiragli risolutivi

sono proposti allora dal fatto che almeno uno dei copisti abbia giudizio critico, in quanto,

al f. 262v del ms. A 40, una mano afferma, in riferimento alla precedente satira «Io non

chiedo come sta», svolta tra i ff. 258r-62v, che «Io però, considerando bene, stento a

crederla del Dotti, né posso disimprimere i riverenti miei dubbi»; e dal fatto che si sia

appurato che almeno uno dei componimenti sia presente come opera di Bartolomeo Dotti

in almeno un altro codice, invero i testi «Me stupisco, Pasini», al f. 498r del ms. A 41, e «Mi

stupisco, Pasini», al. f. 139v del ms. A 42, tra l’altro leggere varianti di un medesimo

componimento presente in due codici diversi, altra prova di autenticità, si trovano come

«Me stupisco, Pasini» al f. 222r del ms. 2153 della Biblioteca civica Bertoliana in Vicenza73.

Per quanto ciò possa sembrare una mera operazione retorica, che procede per παραδείγματα,

argomentando una tesi senza però dimostrarla, poiché, a tale scopo, è necessaria la logica,

70 B. DOTTI, Delle rime. I sonetti, Venezia, s. e., 1689. 71 B. DOTTI, Odi e altre rime inedite, a cura di V. BOGGIONE, Brescia, Queriniana, 1997 72 Anzitutto B. DOTTI, Satire, Ginevra [ma Parigi], Cramer, 1757, poi B. DOTTI, Satire, Amsterdam [ma Venezia], s. e., 1790, quindi B. DOTTI, Satire Inedite, Ginevra [ma Parigi], s. e., 1797, infine B. DOTTI, Satire, Ginevra [ma Parigi], s. e., 1807. 73 Si è rintracciato il dato per il semplice fatto che tale biblioteca ha il suo catalogo on-line e tale lirica figura nella descrizione del codice in quanto è l’ultimo testo, del quale si citano per obbligo normativo incipit ed explicit. Si consulti il sito http://www.nuovabibliotecamanoscritta.it/StampaManoscritto.html?codice=40601, ultimo accesso il 23.II.2015.

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questi due exempla rappresentano comunque un indizio di verità, come le prove di Galileo

in favore dell’eliocentrismo, le quali, senza totalmente illuminarla, rischiarano però la giusta

direzione.

In secondo luogo, non si può non pensare che, forse, non di certo i testi di palese

ascendenza satirica, in quanto redatti in quartine e trattanti qualcuno o qualcosa in modo

canzonatorio, ma più probabilmente i sonetti, che sono di vario argomento, mai finora

pubblicati, siano Rime, o meglio Sonetti stravaganti, e non Satire inedite, come farebbero

invece pensare la maggior parte delle condizioni. In favore dell’idea delle satire si pongano

il fatto che la quasi totalità dei testi dei tre manoscritti riscontrati come editi sia presente

nelle edizioni delle Satire, mentre soltanto un componimento risulti parte delle Odi, ossia

«Or che ha la fragranza», ai ff. 213r-15v del ms. A 42; il fatto che gli altri componimenti

non dottiani presenti nei codici siano quasi tutti di manifesti forme e contenuti satirici, a

volte inerenti il Dotti o proprio di risposta al Dotti; ed il fatto che, materialmente, i tre

manoscritti rechino sempre la dicitura di satire, infatti il ms. A 40 sul dorso ha un’etichetta

in cui si intralegge «Satire» e nel frontespizio, al f. 1r, parla di «Satire / Di vari autori», il

ms. A 41 sul dorso ha impresso «Sat:2 / Kv. Dotti.» ed all’interno, nel frontespizio del f. 2r,

asserisce «Opere del K.r / Bartolomeo Dotti» ed il ms. A 42 all’esterno ha posseduto un

adesivo dal titolo «Dotti / Poesie» mentre il frontespizio interiore parla di «Dotti Bart.o /

poesie» al f. 3r, dunque in tutti i casi, eccezion fatta per l’A 42, che in effetti contiene anche

un’ode, come sopra detto, quindi a buon diritto parla di opere e di poesie, e non di satire, i

codici si riferiscono ai propri contenuti come satirici. Di contro, tuttavia, non è da

disperare nell’idea che tali poesie non possano in realtà essere dei sonetti non entrati nel

novero ufficiale dell’edizione veneziana del 1689, per più motivi: anzitutto, a livello

materiale, cavillosamente riutilizzando per via negationis ciò che si è asserito in precedenza, il

manoscritto A 41 al proprio interno parla di «Opere del K.r / Bartolomeo Dotti» ed il

manoscritto A 42 di satire non parla proprio; quindi, a livello metrico, sono sonetti, mentre

la maggior parte, ma non tutte, delle satire dottiane sono in quartine; ancora, a livello

tematico, non tutti questi componimenti fanno satira, bensì parlano di altro,

riconducendosi più spontaneamente agli argomenti delle Rime, benché, bisogna

ammetterlo, è da sempre in auge la prassi dei testi “liberi”, ossia svincolati dalla tematica

principale all’interno delle sillogi, infatti, ad esempio, nella Galeria di Marino ci sono

componimenti sciolti dalla vena obbligata della raccolta, quella ecfrastica; infine, a livello

editoriale, non sono presenti in alcuna edizione delle Satire dottiane, per quanto non lo

siano neppure nelle Rime. È dunque lecito il permanere del dubbio, almeno per gli inediti

sonetti che non fanno satira, sulla loro attribuzione alla prima od alla seconda raccolta del

poeta bresciano.

È finalmente giunto il momento di enumerare i testi inediti, in quanto non

riscontrati come pubblicati in nessuna delle sei edizioni, antiche o moderne, del Dotti,

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sopraelencate, né in alcuna monografia o saggio scientifico dei riferimenti bibliografici

sull’autore. Si tratta di:

- A 40, ff. 258r-61v. «Io non chiedo come sta». Quartine. Dubbia attribuzione.

- A 41, ff. 165r-67r. «Se chi sia saper». Quartine.

- A 41, ff. 415v-18r. «Mentre un giorno». Quartine.

- A 41, f. 500v. «Qual di rigor o di pietà». Sonetto.

- A 41, f. 502r. «Mentre pazza genia». Sonetto.

- A 41, f. 516v-17r. «Ho letto un sonetaccio». Sonetto.

- A 41, f. 525v. «Sul sacro d’Adria». Sonetto.

- A 41, f. 526r. «Padre d’un figlio son». Sonetto.

- A 42, ff. 167r-70v. «Giovinetto mio». Quartine.

- A 42, ff. 170v-72r. «Io non parlo già». Quartine.

- A 42, f. 172v. «Un certo gesuita». Sonetto.

- A 42, ff. 281v-84r. «Questa volta sì». Quartine.

- A 42, ff. 358r-61v. «Da quel luogo». Quartine.

Tuttavia, tra i predetti testi, si è scelto, da un canto per coerenza paleografica,

trattandosi del medesimo codice e della medesima mano, dall’altro per comodità filologica,

trattandosi della medesima forma metrica e della medesima facies linguistica del copista,

tranne in un singolo caso (l’eccezione che conferma la regola), di lavorare, nel presente

contribuito, soltanto sui sei sonetti inediti, i quali vanno così a formare una corona mai

finora pubblicata. Segue dunque la descrizione strictu sensu dei tre manoscritti in

questione74.

2. Milano, Archivio provinciale dei cappuccini lombardi, A 40 (già A 17). Codice

cartaceo del XVIII secolo, fatto di carta di medio spessore, buona consistenza, colore

bianco, di pregio, con filigrana su ciascuna pagina, a forma di griglia, a guisa di rigatura,

dove ogni casella misura 22,5 x 4 millimetri, tranne logicamente nei fogli di guardia, e

marchio in filigrana nel foglio finale, f. 262, di tipo vagamente analogo a BRIQUET 1707

con all’interno un simbolo molto simile a BRIQUET 792275. Misura 284 x 200,2 millimetri

in media. È costituito da I + 262 fogli, di cui quello di guardia iniziale è più antico rispetto

74 Seguendo, per i dettami tanto catalogatori quanto propriamente descrittivi, i canoni tradizionali proposti da A. PETRUCCI, La descrizione del manoscritto. Storia, problemi, modelli, Roma, Carocci, 20012, pp. 93-107. 75 Per entrambi, si è consultato C. M. BRIQUET, Les filigranes. Dictionnaire historique des marques du papier, Leipzig, Hiersemann, 1923 (= BRIQUET), rispettivamente vol. 1, p. 129 e vol. 3, p. 430, dove il primo è un blasone ornato di fiordalisi, diffuso in varie località della Francia del XVI secolo, mentre il secondo è una lettera “A” stilizzata, reperita solo a Verona nel XVI secolo. Pur essendo i tomi di Briquet un poco fuori periodo, fermandosi al Sei-Settecento, si sono scartati a priori, proprio in quanto esulano dal momento storico e geografico, i monumenti di Mosin-Traljic e Piccard.

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al resto del codice e non fa parte di un fascicolo, tuttavia al termine manca un foglio,

evidentemente il foglio di guardia finale, che completa quello iniziale. La cartulazione è

attiva su di ogni pagina, in alto a destra nel recto ed in alto a sinistra nel verso, dalla penna

marrone del copista del testo principale, in cifre indo-arabe, mentre la fogliazione si trova

in alto a destra sui soli recti, è recente, in penna nera ed in cifre indo-arabe. Non sono

presenti parole di richiamo. La rigatura è parte della filigrana, la quale si sviluppa infatti a

forma di griglia, come già osservato. In discreto stato di conservazione, molto usurato è il

foglio di guardia iniziale, mentre gli altri fogli presentano al massimo pieghe o buchi. Il

libro chiuso mostra macchie nere e rosse sui lati inferiore e laterale, mentre al lato

superiore esse risultano sbiadite ed annerite (probabilmente è stata la parte esposta alle

intemperie).

È scritto da una sola mano, settecentesca. Essa utilizza un inchiostro marrone,

con delle sfumature più tenui, quasi al trasparente, per esaurimento dell’inchiostro ed

usura, e dei tratti più marcati, per avvenuta tintura nel calamaio. Ha una scrittura corsiva,

date le legature del ductus, e cancelleresca, data la presenza di cappi, svolazzi e

sbandierature vari. La sua grafia è sciolta, fluida ed armoniosa, come da attenta prassi

scrittoria, con un buon chiaroscuro in base all’impiego della penna ed una linearità

coerente nel seguire la mise en page e la rigatura. Si cura di postillare marginalmente in

caratteri più piccoli, con informazioni di tipo esegetico, di mettere dei cappi esornativi per

segnalare le pause, di numerare talvolta le strofi; inoltre, passa sempre alla pagina

successiva quando inizia a stendere una nuova poesia. Le lettere minuscole presentano

pochissime varianti morfologiche, mantenute per tutto il testo (tranne la s, a volte corsiva

ed a volte in stampatello; la z, a volte senza l’asta mediana; la p, la q, la f, la h e la d, che

vengono sbandierate se ad inizio parola, altrimenti di rado), mentre quelle maiuscole

risultano sempre arzigogolate e spesso diverse. Non ci sono abbreviazioni di alcun tipo, se

non alcune rare per troncamento (ad esempio, bene:o per Benedetto, sig per signore, suda per

suddetta). In verità sussiste una presenza minima anche di una seconda mano, recenziore,

presumibilmente novecentesca (forse quella di padre Carlo Varischi), la quale stende la

fogliazione a penna nera ed aggiunge in matita numeri cardinali ai titoli dei testi nell’indice.

Lo specchio di scrittura risulta contenuto e non espansivo, con molta distanza dal margine,

anche se variabilissimo nelle misure, nella scelta della disposizione dei testi, nell’impiego o

meno delle colonne ecc…

Non si rilevano motivi ornamentali di alcun tipo, da miniature ad iniziali

calligrafiche, da simboli a trame decorative. Il codice presenta piatti e dorso in cartone

coperti all’esterno di carta marmorizzata color rossastro, mentre all’interno possiede dei

fogli di controguardia in carta bianca inscurita. Ha una legatura composta da quattro nervi

semplici ed omogeneamente ripartiti, di materiale sconosciuto (sembra un filo spesso ed

unico di carta dura). Sul dorso, in alto, è apposta un’etichetta annerita in cui l’unica parola

leggibile è «Satire». Non sono presenti note di possesso o di passaggio. Il manoscritto non

21

sembra aver avuto precedenti formati, condizioni o legature, essendo in toto ancora

originale. Sono in seguito stati apposti dei timbri novecenteschi della «Biblioteca dei

Cappuccini di San Francesco»: due, uno più antico ed uno più moderno, ai ff. 1r e 261r,

mentre uno soltanto, antico, al f. 215r.

Il manoscritto contiene un buon novero di satire, prevalentemente in quartine o

sonetti, di poeti italiani del XVII-XVIII secolo, la maggior parte dei quali sono dilettanti e

si presentano in un testo soltanto, mentre quelli degni di maggior nota sono Antonio

Bianchi, Bartolomeo Dotti ed il dottor Reggia. Datazione e localizzazione del codice sono

difficili da precisare, in quanto, tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, sono

circolate molte versioni manoscritte delle satire del Dotti in particolare ed, a volte, soltanto

a lui attribuite, quindi non è possibile impiegare l’editio princeps, per altro incompleta e non

curata dall’autore, come termine post quem. Ad ogni modo, probabile luogo di nascita del

manoscritto dovrebbe essere l’Italia settentrionale, non essendosi le satire diffuse troppo

oltre di essa, e probabile data di nascita dovrebbe essere il Settecento, basandosi sul tipo di

carta e di scrittura. Al f. 1r si colloca il frontespizio, fatto a mano, composto dal titolo

«Satire / Di vari autori / Raccolte / Per volume secondo in / In seguito a quelle / Del

Dotti / con annotazioni erudite ed illustrative» e da un disegno sottostante, stilizzato ed a

mano libera, che simula un nastro avviluppato, a mo’ di marca tipografica. Il primo testo

ha per incipit al f. 2r «L’Ipocrisia / Satira / Veneziana del Caccia» e per explicit al f. 13v «fa

ridere in Cielo ogni Beato.». L’ultimo testo ha per incipit al f. 251r «Contro l’adulazione /

Satira / Di Antonio Bianchi» e per explicit al f. 256v «Però che in adular son come Cani /

Fine». Tra i ff. 257r e 261r è presente un «Indice / Di tutte le satire / Contenute in questo

Volume», con anche la mano recente che aggiunge in matita, a fianco del titolo, il numero

cardinale crescente delle liriche. Bianchi risultano i ff. 1v e 261v.

3. Milano, Archivio provinciale dei cappuccini lombardi, A 41 (già A 36). Codice

cartaceo del XVIII secolo, fatto di carta di medio spessore, scarsa consistenza, colore

giallino, di basso pregio, priva di filigrana. Misura 238,5 x 178 millimetri in media. È

costituito da 277 fogli, senza alcun foglio di guardia. La cartulazione è attiva su di ogni

pagina, in alto a destra nel recto ed in alto a sinistra nel verso, dalla penna marrone del

copista del testo principale, in cifre indo-arabe, a partire dal f. 3r, quindi risulta sfasata

rispetto a quella qui attuata, mentre la fogliazione si trova in alto a destra sui soli recti ed è

doppia, costituita ovvero da una foliazione prima, stampata a macchina nera, recente, in

cifre indo-arabe, e da una foliazione seconda, stesa da una penna calcata di color marrone

scuro, da mano altra, comunque antica, in cifre indo-arabe, che però da un lato sbaglia

spesso la conta delle pagine e finisce fuori fase, dall’altro copre la cartulazione espressa nei

recti dalla penna del copista principale, inoltre entrambe le foliazioni partono dal f. 3r,

dunque anch’esse risultano sfasate rispetto a quella qui attuata. Non sono presenti parole

di richiamo. La rigatura è eseguita a secco, in particolare a tavola, grazie ad un torchio, il

22

quale ha infatti lasciato pieghe e buchi su di ogni pagina. In mediocre stato di

conservazione, molto usurati sono i piatti e la legatura, mentre i fogli presentano, oltre a

pieghe e buchi causati dalla rigatura, macchie scure di sporco e, palesemente, di bevande. Il

libro chiuso mostra tutti i lati esterni in condizioni di annerimento (probabilmente tutte le

parti sono state esposte alle intemperie).

È scritto da una sola mano, settecentesca, tuttavia una mano diversa, dello stesso

periodo e dello stesso inchiostro, ma più andante e meno curata, si palesa tra i ff. 266r e

268r. Essa utilizza un inchiostro marrone chiaro che, unito alla trasandatezza del codice, la

fa risultare molto sbiadita. Ha una scrittura corsiva, date le legature del ductus, e

cancelleresca, data la presenza di cappi, svolazzi e sbandierature vari. La sua grafia è fluida

ed andante, come da retta prassi scrittoria, ma appiattisce il chiaroscuro della penna,

praticamente inesistente, a tratti pare quasi trascurata e non ha eccessiva coerenza nel

seguire la mise en page e la rigatura. Non ci sono postille laterali né ornamenti vari per

segnalare le pause (ne compare occasionalmente qualcuno, il quale però è un ghirigoro e

nulla più), eppure è sempre esplicitata la numerazione delle strofi; inoltre, non passa mai

alla pagina successiva quando inizia a stendere una nuova poesia. Le lettere minuscole

presentano parecchie varianti morfologiche, rinnovate per tutto il testo (le più significative

tra le quali appaiono la s, tanto in forma minuscola quanto in forma corsiva, e la e, tanto in

forma minuscola quanto in forma corsiva), mentre quelle maiuscole risultano sempre

arzigogolate e spesso diverse. Sono presenti occasionali abbreviazioni, alcune rare per

troncamento (ad esempio, rev per reverendo, mons per monsignore, ecca per eccellentissima, Kv per

cavalier), altre più comuni mediante il titulus (ň per non) o le notae iuris (p per per). Lo

specchio di scrittura risulta contenuto e non espansivo, con molta distanza dal margine,

ma piuttosto regolare in scelta e svolgimento delle misure e della disposizione dei testi,

mentre la seconda mano, tra i ff. 266r e 268r, si dimostra più irruenta, tanto da arrivare

spesso al margine.

Non si rilevano motivi ornamentali di alcun tipo, da miniature ad iniziali

calligrafiche, da simboli a trame decorative. Il codice presenta piatti e dorso in cartone,

nudi, di color grigio cenere annerito dall’usura, mentre all’interno possiede dei fogli di

controguardia in carta bianca inscurita. Ha una legatura composta da tre nervi semplici ed

omogeneamente ripartiti, di corda. Sul dorso, in alto, direttamente sul cartone, in gotica

libraria (logicamente, imitata) si legge «Sat:2 / Kv. Dotti.». Non sono presenti note di

possesso o di passaggio. Il manoscritto non sembra aver avuto precedenti formati,

condizioni o legature, essendo in toto ancora originale. Sono in seguito stati apposti dei

timbri novecenteschi della «Biblioteca dei Cappuccini di San Francesco»: due, uno più

antico ed uno più moderno, ai ff. 3r e 268r, mentre uno soltanto antico ai ff. 217r e 276r ed

uno soltanto moderno al f. 1r.

Il manoscritto contiene un buon novero di poesie, prevalentemente satire in

quartine o sonetti, in gran parte di Bartolomeo Dotti ed in minor parte di sua imitazione

23

od a lui dirette in risposta. Datazione e localizzazione del codice sono difficili da precisare,

in quanto, tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, sono circolate molte versioni

manoscritte delle satire del Dotti in particolare ed, a volte, soltanto a lui attribuite, quindi

non è possibile impiegare l’editio princeps, per altro incompleta e non curata dall’autore,

come termine post quem. Ad ogni modo, probabile luogo di nascita del manoscritto

dovrebbe essere l’Italia settentrionale, non essendosi le satire diffuse troppo oltre di essa, e

probabile data di nascita dovrebbe essere il Settecento, basandosi sul tipo di carta e di

scrittura. Al f. 2r si colloca il frontespizio, fatto a mano, composto dal titolo «Opere del K.r

/ Bartolomeo Dotti» e da un ghiribizzo, sottostante, a mano libera, a mo’ di marca

tipografica. Il primo testo ha per incipit al f. 3r «Più, che servo la Dama / la Parente / Al N.

H. G.» e per explicit al f. 9r «mà – io n’hò scritto in versi.». L’ultimo testo ha per incipit al f.

268r «Sonetto / Forma d’Amor son io, ma senza amore,» e per explicit al f. 268r «per

vergine morir, martire vivo.». Tra i ff. 274r e 276r è presente una «Tavola / delle

composizioni del K.r Dotti», ovvero un indice di tutte le composizioni, del Dotti o meno,

presenti nel codice. Bianchi risultano i ff. 1v, 2v, 268v, 269-73, 276v. Si segnala infine che al

f. 1r è presente una terza mano, più recente, necessariamente ottocentesca in base a quello

che scrive, la quale di seguito, ad inchiostro nero e con scrittura corsiva ed ordinaria

riporta «In questo volume si contengono, non edite nel 1807 colla data di Ginevra ne’ tre

volumi, oltre molte poesie dirette al K.v Dotti, le seguenti sue :», accompagnandolo con un

elenco di incipit di satire presenti nel tomo; tale struttura ricorre anche nel codice A 42 e

per giunta proviene dalla medesima mano.

4. Milano, Archivio provinciale dei cappuccini lombardi, A 42 (già A 35). Codice

cartaceo del XVIII secolo, fatto di carta di vario spessore, scarsa consistenza, colore

giallino, di nullo pregio, tutta di recupero e di riciclo, priva di filigrana. Misura 201 x 151

millimetri in media, ma i fogli sono ben diversi tra di loro per forme e dimensioni e per di

più tagliati a mano e ad occhio. È costituito da II + 369 + II fogli, di cui i fogli di guardia

iniziali e finali sono aggiunti in seguito al restauro. La cartulazione è attiva su di ogni

pagina a partire dal f. 4, in alto a destra nel recto ed in alto a sinistra nel verso, dalla penna

bruna del copista, in cifre indo-arabe, quindi risulta sfasata rispetto a quella qui attuata,

mentre la fogliazione è assente. Non sono presenti parole di richiamo. La rigatura è

eseguita a secco, in particolare a tavola, grazie ad un torchio, il quale però non ha lasciato

pieghe e buchi. In discreto stato di conservazione, risulta tuttavia danneggiata e restaurata,

ma non più leggibile, la parte inferiore dei ff. 1-25. Il libro chiuso mostra macchie scure sui

lati superiore e laterale (probabilmente sono state le parti esposte alle intemperie).

È scritto da una sola mano, settecentesca. Essa utilizza un inchiostro bruno, con

delle sfumature più tenui, per esaurimento dell’inchiostro, e dei tratti più marcati, per

avvenuta tintura, ma dal f. 144r l’inchiostro improvvisamente si scurisce sino al nero. Ha

una scrittura corsiva, date le legature del ductus, e cancelleresca, data la presenza di cappi,

24

svolazzi e sbandierature vari. La sua grafia è sciolta, fluida ed armoniosa, come da attenta

prassi scrittoria, con un leggero chiaroscuro in base all’impiego della penna ed una linearità

coerente nel seguire la mise en page e la rigatura, benché, talora, rimpicciolisca il modulo per

rimanere nei limiti della pagina. Non ci sono postille laterali né ornamenti vari per

segnalare le pause, tantomeno è esplicitata la numerazione delle strofi; inoltre, non sempre

passa alla pagina successiva quando inizia a stendere una nuova poesia. Le lettere

minuscole presentano alcune varianti morfologiche, mantenute per tutto il testo (la c è

grande se iniziale, più piccola se in corpo di parola; la d è a sedia, ad onciale od avviluppata;

la l è larga se iniziale, più avviluppata se geminata in corpo di parola; la s è tanto in forma

minuscola quanto in forma corsiva; la z è tanto priva quanto pregna dell’asta mediana),

mentre quelle maiuscole risultano sempre arzigogolate e spesso diverse. Non ci sono

abbreviazioni di alcun tipo, se non alcune rare per troncamento (ad esempio, bart:o per

Bartolomeo, sig per signore). Lo specchio di scrittura risulta scomposto ed espansivo,

arrivando spesso a lambire il margine, ma è piuttosto regolare in scelta e svolgimento delle

misure e della disposizione dei testi, optando sempre per una colonna di dimensioni

pressoché costanti.

Non si rilevano motivi ornamentali di alcun tipo, da miniature ad iniziali

calligrafiche, da simboli a trame decorative. Il codice presenta piatti e dorso in pelle nuda,

di color grano, qua e là scurita dall’usura, mentre all’interno possiede dei fogli di

controguardia in carta bianca; entrambi gli elementi sono novecenteschi. Ha una legatura a

brossura con la tecnica del filo-refe, di fattura novecentesca. Il dorso è libero da scritte od

etichette. Non sono presenti note di possesso o di passaggio. Il manoscritto ha avuto una

precedente legatura, non essendo in toto ancora originale: il restauro è stato eseguito, come

riportato da un adesivo nel foglio di controguardia finale, dall’Abbazia di Viboldone, in

Milano, sicuramente dopo il 1937, annata di catalogo. Tale restauro ha sostituito una

precedente rilegatura con piatti in carta, ha coperto il titolo «Dotti / Poesie» presente sul

dorso, ha aggiunto i fogli di guardia e di controguardia ed ha mondato, pur non riuscendo

a restituirne il testo, la parte inferiore dei ff. 1-2576. Sono in seguito stati apposti dei timbri

novecenteschi della «Biblioteca dei Cappuccini di San Francesco»: tutti moderni, uno

soltanto è impresso ai ff. 3r e 359r, mentre al f. 5r ne sono piazzati ben due.

Il manoscritto contiene un buon novero di poesie, molte satire ma alcune liriche,

di vario metro, in gran parte di Bartolomeo Dotti ed in minor parte di sua imitazione od a

lui dirette in risposta. Datazione e localizzazione del codice sono difficili da precisare, in

quanto, tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, sono circolate molte versioni

manoscritte delle satire del Dotti in particolare ed, a volte, soltanto a lui attribuite, quindi

76 La composizione originaria, innanzi il restauro, si trova nel saggio di colui che ha redatto l’inventario della biblioteca cappuccina di Milano e che, non avendolo annotato, ricostituisce un termine post quem: C. VARISCHI, Catalogo dei codici della biblioteca del convento di San Francesco dei Minori Cappuccini in Milano, in «Aevum», 11/III (1937), pp. 237-74 e 461-503, poi riedito singolarmente, come estratto, quale C. VARISCHI, Catalogo dei codici della biblioteca del convento di San Francesco dei Minori Cappuccini in Milano, Milano, Vita e Pensiero, 1937, in particolare a p. 481.

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non è possibile impiegare l’editio princeps, per altro incompleta e non curata dall’autore,

come termine post quem. Ad ogni modo, probabile luogo di nascita del manoscritto

dovrebbe essere l’Italia settentrionale, non essendosi le satire diffuse troppo oltre di essa, e

probabile data di nascita dovrebbe essere il Settecento, basandosi sul tipo di carta e di

scrittura. Al f. 3r si colloca il frontespizio, fatto a mano, composto dal solo titolo «Dotti

Bart.o / poesie». Il primo testo ha per incipit al f. 4r «Al Sig:r N. N. G. P. / Le disgrazie tali

e tante» e per explicit al f. 23r «saper vivere con quel d’altri.». L’ultimo testo ha per incipit al

f. 361r «Da qual luogo, dove nacque» e per explicit al f. 365r «E il Pittale è la mia dama.

Fine.». Non c’è indice alcuno. Bianchi risultano i ff. 224v, 335v, 366v-370v. Si segnala infine

che al f. 2r è presente una seconda mano, più recente, necessariamente ottocentesca in

base a quello che scrive, la quale di seguito, ad inchiostro nero e con scrittura corsiva ed

ordinaria riporta «In questo volume si contengono, non edite nel 1806, colla data di

Ginevra ne’ tre volumi, oltre molte altre poesie intorno al K.v Dotti, le seguenti sue :»,

accompagnandolo con un elenco di incipit di satire presenti nel tomo; tale struttura ricorre

anche nel codice A 41 e per giunta proviene dalla medesima mano.

5. I tre manoscritti considerati per questo contributo sono tuttora inediti e l’unico

riferimento bibliografico che ne tratti, ormai superato dal cambiamento del loro status

codicologico e rimproverabile nei ponderosi errori di trascrizione, per quanto esemplari ne

siano il tentativo e la solerzia, è C. VARISCHI, Catalogo dei codici della biblioteca del convento di

San Francesco dei Minori Cappuccini in Milano, in «Aevum», 11/III (1937), pp. 237-74 e 461-

503, poi riedito singolarmente, come estratto, quale C. VARISCHI, Catalogo dei codici della

biblioteca del convento di San Francesco dei Minori Cappuccini in Milano, Milano, Vita e Pensiero,

1937.

2.2 Piano linguistico77

1. Le Satire del Dotti sono un testo cronologicamente avanzato a livello

linguistico, nel senso che non presentano, se non per brevi cenni, la lingua dell’italiano

77 Sono stati impiegati i seguenti studi, cui si rimanda nel dettaglio in ogni singolo caso, sia in questa pagina, a livello prettamente teorico, sia nelle note al testo, a livello marcatamente pratico, ovvero A. ERNOUT - A. MEILLET, Dictionnaire Étimologique de la Langue Latine, Paris, Klincksieck, 19594 (= DELL), G. ROHLFS, Historische Grammatik der italienischen Sprache und ihrer Mundarten, 3 Bd., Bern, Francke, 1949-54, disponibile quale G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, 3 voll., Torino, Einaudi, 1966-69 (= ROHLFS), Grande dizionario della lingua italiana, a cura di S. BATTAGLIA - G. BÀRBERI SQUAROTTI, 21 voll., Torino, UTET, 1961-2002 (= BATTAGLIA), L. SERIANNI, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria: suoni, forme, costrutti, Torino, UTET, 1988 (= SERIANNI), P. D’ACHILLE, L’italiano dei semicolti, in Storia della lingua italiana, a cura di L. SERIANNI - P. TRIFONE, Torino, Einaudi, 1994, vol. 2, pp. 41-79 (= D’ACHILLE), M. CORTELAZZO - P. ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, a cura di M. A. CORTELAZZO, Bologna, Zanichelli, 19992 (= DELI), G. PATOTA, Nuovi lineamenti di grammatica storica dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 20072 (= PATOTA), L. SERIANNI, La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma, Carocci, 2009 (= LinPoet) e G. SALVI - L. RENZI, Grammatica dell’italiano antico, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 2010 (= ItalAnt).

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antico, ormai vivendo dell’italiano letterario ben formato78, mentre, in ambito geografico,

nonostante l’origine bresciana del personaggio, sarebbero da collocare in area veneta, sia

per l’appartenenza dalla Lombardia orientale alla Serenissima79, i cui influssi, anche

glottologicamente, non possono non avvertirsi (vi sono intere liriche in veneziano80), sia

per la stesura lagunare di questi testi, i quali comunque ricadono nel macrogruppo dei

vernacoli del Nord Italia81. Tuttavia, i sei sonetti in questione, non essendo parte di

un’opera a stampa sorvegliata dall’autore né di un manoscritto autografo o per lo meno

idiografo, bensì essendo semplici trascrizioni di copista, ricadono nella problematica che

Cesare Segre ha giustamente definito «diasistema»82, dove l’impianto linguistico dell’autore,

certamente veneto nel parlato, ma non necessariamente veneto nella scrittura delle poesie,

interferisce con quello dello scrivano, che può aver sovrapposto, nello stendere il codice, i

tratti della propria lingua a quelli originari di Bartolomeo Dotti. In aggiunta, i sonetti

provengono da codici differenti vergati da copisti differenti, quindi le considerazioni

generali che seguono andrebbero tenute distinte per il testo VI rispetto ai testi I, II, III, IV

e V, non potendo essere raggruppate in quanto derivate da penne diverse, eppure le si

unifica per convenzione, come del resto accade per le rubrichette a cappello di ogni poesia,

che chiaramente non sono nemmeno del Dotti.

2. A livello fonetico, si riscontra una veste linguistica tipica dei dialetti

settentrionali, in particolare di area veneta. Nell’ambito del vocalismo tonico, avviene il

dittongamento spontaneo toscano di Ĕ ed Ŏ latine sotto accento in sillaba libera, diffuso in

area veneta dalla metà del XIV secolo (ROHLFS, §§ 94 e 115, ossia vol. 1, pp. 117-20 e 145-

47), in muore (I, 8), muoron (I, 14), duol (II, 6), stuol (II, 8), maniere (III, 9), cielo (IV, 14), diedi

(V, 3), diede (V, 4), cielo (VI, 6) e buon (VI, 9), e pure nell’analogico suonar (IV, 2);

nell’ambito del vocalismo atono, avviene l’apocope delle vocali prive d’accento in fine di

parola, dopo consonante liquida o nasale, incombenza tipicamente veneta (ROHLFS, §§ 143

e 146, ossia vol. 1, pp. 180-83 e 186-87), ma anche stratagemma prosodico e tipico della

78 Sulla diatriba e sui tratti essenziali dell’italiano antico di contro a quello moderno, felice e celere mise à point è quella di L. RENZI - G. SALVI, Italiano antico, in «Laboratorio sulle Varietà Romanze Antiche», 4/I (2011), pp. 35-57. 79 Brescia passa da lombarda a veneta nel 1426, sfuggendo al dominio del duca Filippo Maria Visconti e concedendosi all’autorità del doge Francesco Foscari, seguita a breve da Bergamo e Crema. In proposito, si veda M. MALLETT, The Northern Italian States, in The New Cambridge Medieval History, edited by C. ALLMAND, Cambridge, Cambridge University Press, 19982, vol. 7, pp. 547-70. 80 Ad esempio DOTTI, Satire Inedite, vol. 2, p. 19. 81 Per una rassegna dei fenomeni linguistici dei dialetti settentrionali, in particolare veneti, si è ricorsi ad A. ZAMBONI, Le caratteristiche essenziali dei dialetti veneti, in Guida ai dialetti veneti, a cura di M. CORTELAZZO, Padova, CLEUP, 1979, vol. 1, pp. 20-29, P. TOMASONI, Veneto, in Storia della lingua italiana, 1994, vol. 3, pp. 215-27, C. MARCATO, Il Veneto, in I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, a cura di M. CORTELAZZO, Torino, UTET, 2003, pp. 296-328, PATOTA, Nuovi lineamenti, pp. 190-93 e M. LOPORCARO, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 112-14. 82 Esposta in C. SEGRE, Critica testuale, teoria degli insiemi e diasistema, in «Académie Royale de Belgique. Bulletin de la Classe des Lettres et des Sciences Morales et Politiques», 62 (1976), pp. 279-92, poi ristampato in ID., Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino, Einaudi, 1979, pp. 53-70.

27

lingua poetica, in un novero talmente elevato di lemmi da essere improponibile in uno

spazio così ristretto. Nell’ambito del consonantismo, avvengono lo scempiamento delle

consonanti geminate ad interno parola, protonico, fenomeno tipico di tutti i dialetti

settentrionali, veneto compreso (ROHLFS, § 229, ossia vol. 1, pp. 321-24), in sonetaccio (III,

1) e sudetto (VI, rubrica), e l’ipercorrettismo di uno scrittore del Nord, quindi anche veneto,

il quale erroneamente tenta di ricostruire le consonanti geminate in cavallier (III, rubrica),

dattemi (III, 11), sattirica (VI, 8) e sattire (VI, 13). Tuttavia, nei brani sono presenti fenomeni

fonetici che sembrano contraddire la facies settentrionale, ovvero il mancato dittongamento

di Ŏ latina tonica in sillaba libera in move (I, 7), movere (IV, 6), moro (V, 12) e mora (V, 12),

che sono di ascendenza latino-occitano-siciliana (ROHLFS, § 107, ossia vol. 1, pp. 133-35, e

LinPoet, § 2.1, ossia pp. 56-60); la conservazione delle vocali prive d’accento in fine di

parola, dopo consonante liquida o nasale (ROHLFS, §§ 143 e 146, ossia vol. 1, pp. 180-83 e

186-87) e la conservazioni delle consonanti geminate in interno di parola (ROHLFS, § 229,

ossia vol. 1, pp. 321-24), in plurimi loci che, per praticità, qui non sono riportati. Inoltre,

molti altri fenomeni fonetici, irrelati alla localizzazione geografica, si propongono nei

sonetti. Nel vocalismo, la chiusura di e tonica in iato (ROHLFS, § 88, ossia vol. 1, pp. 110-

11) in rio (I, 4). Nel consonantismo, la spirantizzazione della labiale intervocalica (ROHLFS,

§ 215, ossia vol. 1, pp. 291-94) in sovra (II, 2); il mancato sviluppo di jod iniziale (ROHLFS, §

158, ossia vol. 1, pp. 212-15) in iesuita (VI, 1) ed il suo sviluppo ipertrofico in Giesù (IV,

rubrica); l’esito non toscano del nesso vibrante e jod (ROHLFS, § 285, ossia vol. 1, pp. 401-

03, e LinPoet, § 11.3, ossia pp. 92-93) in muoron (I, 14), moro (V, 12) e mora (V, 12); il

fraintendimento, in sintassi, del finale -li quale un nesso di jod (ROHLFS, § 233, ossia vol. 1,

pp. 326-28, e PATOTA, pp. 134-35), che si palatalizza, in begli (I, 11); e l’evoluzione del

nesso di l (ROHLFS, § 252, ossia vol. 1, pp. 355-56) creando un plurale non canonico, in

tempii (II, 10). Nei fenomeni generali, la sincope (PATOTA, pp. 104-05) in merta (VI, 13 e

14); la mancata sincope (PATOTA, pp. 104-05 e LinPoet, § 18.1, ossia pp. 107-12) in goderò

(V, 14); l’apocope (PATOTA, pp. 105-07) in un numero assai elevato di vocaboli, quivi non

restituiti per problemi di spazio; l’apocope anteriormente ad una vocale, che dunque

necessita dell’apostrofo (SERIANNI, p. 68), in de’ (II, rubrica), a’ (II, 1), co’ (II, 4) e fi’ (IV,

5); e l’elisione (SERIANNI, pp. 24-25) in un ulteriore immane numero di casistiche.

Spiccano infine alcuni cultismi, dove la grammatica storica non ha compiuto il proprio

regolare corso dal latino all’italiano, ossia supplicio (I, 2), mancando la c di passare a z nel

nesso di jod, officio (I, 5), mancando la o di oscurarsi in u, e Gerolamo (II, rubrica), mancando

la e di chiudersi in i, mentre assurda rimane la forma suissitiarsi (I, rubrica), dove avvengono

metatesi di iu, passaggio di ss in c, sordizzazione di d in t ed epentesi di -i-.

A livello morfologico, si riscontrano l’esito sincopato del pronome personale di

terza singolare ei (III, 3), un toscanismo letterario tradizionale, diffuso in poesia sino

all’Ottocento ed oltre (ROHLFS, § 446, ossia vol. 2, pp. 141-42, e LinPoet, § 27.1, ossia pp.

173-75); la forma arcaica, inusitata ma non introvabile nella poesia posteriore alle origini

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(ROHLFS, § 414, ossia vol. 2, pp. 99-102, e LinPoet, § 22.1, ossia pp. 143-45), dell’articolo

determinativo maschile plurale li (III, 14); l’omissione dell’articolo, in bilico tra esigenza

metrica, prassi poetica e giustificazione linguistica (ItalAnt, vol. 1, pp. 297-311 e 331-46 e

LinPoet, §§ 22.3 e 22.4, ossia pp. 146-49), in un novero molto elevato di occasioni, quivi

non trascritte; la forma suppletivistica di futuro primo fi’ (IV, 5), di provenienza latina e

comune in poesia (ROHLFS, § 592, ossia vol. 2, pp. 336-38, e LinPoet, § 32.22, ossia pp.

230-32); la forma alternativa di condizionale presente saria (V, 6 e 8), che si trova al

Settentrione, al Meridione e nei poeti toscani, ma origina dal provenzale ed, importata dalla

scuola siciliana, si diffonde in tutta l’Italia poetica (ROHLFS, § 593, ossia vol. 2, pp. 339-40,

e LinPoet, §§ 32.17 e 32.22, ossia pp. 217-18 e 230-32); ed alcuni colloquialismi, ovvero

l’uso del congiuntivo in luogo dell’indicativo (D’ACHILLE, p. 72) in sebben ei s’asconde (III, 3)

e bench’io son (V, 11), però diffuso e tollerato nella lirica (ItalAnt, vol. 2, pp. 1051-52), l’uso

di un falso condizionale (D’ACHILLE, p. 72 ed ItalAnt, vol. 1, pp. 515-19) in doveva […] /

[…] aver (IV, 13-14), il che polivalente (D’ACHILLE, p. 72) in alla meglio che sa (VI, 3) ed il

pleonasmo, in bilico tra retorico e volgarizzante (D’ACHILLE, p. 70), in al sen nol sazia (I,

12) e Che non meriti lode, ognun l’accorda (VI, 12).

A livello sintattico, si riscontrano l’impiego di forme sintetiche in cui un articolo

determinativo od un pronome personale si appoggia per enclisi ad una preposizione o ad

un avverbio (SERIANNI, pp. 160-61 e LinPoet, § 19.5, ossia pp. 127-29), tipiche della

tradizione poetica, in nol (I, 12), sen (II, 11) e col (VI, 4) e l’enclisi di un pronome atono ad

un verbo tonico, essendo dopo il Quattrocento uno statuto libero della lingua poetica

italiana in qualsiasi posizione (ItalAnt, vol. 1, pp. 58-59 e 437-40), in farmi esser (V, 5 e 7).

3. A livello schiettamente grafico, si riscontra un’imbastitura che presenta i

seguenti tratti: ricorso al segno u per rendere il suono [v]; ricorso al segno j per rendere il

suono [i]; presenza di h etimologica; presenza di parole in scriptio continua e di parole in

tmesi; impiego di abbreviazioni quali il titulus e le notae iuris.

2.3 Schema metrico83

1. Si tratta di cinque sonetti tradizionali, tutti in soli endecasillabi, di cui quattro (I,

III, IV e VI) composti di due quartine a rime incrociate seguite da due terzine a rime

alternate, con schema ABBAABBA CDCDCD, come prevalente dallo Stilnovo in avanti, e di

83 Per i lineamenti metrici, imprescindibile è risultato A. MENICHETTI, Metrica italiana: fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore, 1993, rispettivamente su versi ipermetri ed ipometri, anasinalefe ed episinalefe (pp. 153-72), dieresi e sineresi (pp. 182-99), sinalefe e dialefe (pp. 313-19 e 327-40), endecasillabo e sua prosodia ritmica (pp. 386-416), cesure (pp. 447-77) ed enjambements (pp. 477-505), tipologie di rima (pp. 506-90) e sistole e diastole (pp. 512-14); riguardo al genere metrico del sonetto ci si è affidati al sintetico ma valente W. T. ELWERT, Italienische Metrik, München, Hueber, 1968, letto come W. T. ELWERT, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Le Monnier, 1973, pp. 125-34 ed a G. LAVEZZI, Manuale di metrica italiana, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1996, 149-63; purtroppo poco utile sull’argomento si è invece rivelato M. MARTELLI - F. BAUSI, La metrica italiana. Teoria e Storia, Firenze, Le Lettere, 1993, pp. 177-203, ovvero il capitolo Il Seicento.

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cui uno (II) composto di due quartine a rime alternate, tra di loro complementari, seguite

da due terzine a rime alternate, con schema ABABBABA CDCDCD, come diffuso alle origini

della letteratura italiana, cui si aggiunge un sonetto sperimentale (V) che è continuo, in

quanto l’intero schema è costruito sulle rime A e B, possedendo non solo le due medesime

rime, ma persino le due medesime parole rimiche per tutto il testo, composto di due

quartine a rime incrociate, tra di loro complementari, seguite da due terzine a rime

alternate, con schema ABBABAAB BABABA.

Nei vari sonetti v’è piena identità tra stanza e pensiero, poiché il discorso

sintattico si interrompe al termine della strofe, mai strabordando in quella successiva. Per

quanto riguarda l’inarcamento, l’enjambement è mediamente praticato, trovandosene 28 (su

78 vv., 35 %), di cui in realtà soltanto 16 sono forti (20 % del totale), mentre i rimanenti 12

sono deboli (15 % del totale); oltre a ciò, si rileva un caso di rejet in del Vangelo (IV, 10). È

netto invece il prevalere dell’endecasillabo a maiori (in 47 vv., 56 %), con cioè l’accento di

sesta, per rallentare il tempo e scandire bene alcuni concetti cardinali, di contro a quello a

minori (in 11 vv., 13 %), con cioè l’accento di quarta, usato per velocizzare il ritmo e far

fluidamente progredire la narrazione, mentre un ruolo mediano assumono i versi ancipiti

(in 26 vv., 31 %), nonostante ciascuno abbia accenti secondari che lo avvicinano alla prima

od alla seconda categoria; nel sonetto V, inoltre, l’impiego della prosodia è funzionale al

messaggio (per cui cfr. l’introduzione al testo). Al fine di non lasciare versi ipometri od

ipermetri, sono state impiegate: la sineresi, in maniera alquanto frequente, nelle poesie I (v.

4 rio, v. 11 suo e v. 13 reo), II (v. 1 genia, v. 4 ingiurie, v. 9 sua e v. 14 scagliar e suo), III (v. 3 io,

v. 7 suo e v. 12 sue), IV (v. 1 Adria, v. 2 aurea e v. 5 Dio) e V (v. 2 mio e mio, v. 3 io, v. 4 mio,

v. 5 mia, v. 7 mia, v. 10 mio, v. 12 mio e v. 14 io); la dialefe, di rado, nelle poesie V (v. 14

goderò io) e VI (v. 1 certo iesuita e v. 4 possesso ignaziano); l’episinalefe, nella poesia I (vv. 9-10

senti /e); implicitamente ed assai ampiamente, nei rimanenti casi, la sinalefe. Tuttavia,

nonostante gli stratagemmi, rimane inspiegabilmente ipermetro il verso I, 2 (+1), tra l’altro

nello stesso testo che richiede un espediente anomalo come l’episinalefe. Si noti poi la

diastole in Satàn (IV, 6), risaltata graficamente.

A livello di tessitura rimica, risaltano le rime facili categoriali di tipo desinenziale

brama : infama : chiama : ama (I, 1, 4, 5 e 8), strazia : sazia (I, 10 e 12), presenti : innocenti (I, 11 e

13), vostro : nostro (IV, 5 e 8), padrino : poverino (VI, 9 e 13) e di tipo desinenziale-etimologico

dispetti : tetti : negletti (II, 1, 3 e 6), nonché le rime difficili ricche ed inclusive senti : presenti (I,

9 e 11), ponte : onte : monte : fronte (II, 2, 4, 5 e 7), ricche strazia : grazia (I, 10 e 14), Amore :

rumore (II, 9 e 13), conclusione : coglione (III, 5 e 8), maniere : groppiere (III, 9 e 13), proposizioni :

composizioni : coglioni (III, 10, 12 e 14), croce : atroce (IV, 3 e 6), facondo : secondo (IV, 9 e 11),

sicliano : ignaziano (VI, 1 e 4), rara rostro : chiostro (IV, 1 e 4) e quasi identica invano : insano

(VI, 5 e 8). Ancora, si presentano rime interne, ossia induce : croce (IV, 3) e nostro : vostro (IV,

12), e rimealmezzo, ossia grazia : strazia (I, 9-10) e nulla : falla (III, 6-7). Lungo tutto il

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sonetto V spicca infine un gioco di rime identiche, o meglio equivoche (per cui cfr.

l’introduzione al testo).

2.4 Criteri di edizione84

1. Nel realizzare l’edizione critica dei testi, derivanti dai manoscritti sopracitati,

sono stati attuati i seguenti criteri editoriali, al fine di rendere le partiture presentabili al

lettore contemporaneo. Si sono divise la parole in scriptio continua (e.g. VI, 8 estroinsano →

estro insano) e si sono univerbate le parole in tmesi, raddoppiando, se necessario, le

consonanti scempie (e. g. I, 9 Chi sà → Chissà, III, 8 in vece → invece e VI, 5 in vano →

invano), dato che i testi, più che conservare la prassi antica e medievale, tendono a forme

diverse da quelle accettate nei vocabolari odierni. Si sono sciolte le abbreviazioni presenti,

come il titulus (e. g. I, 13 ň → non) e le notae iuris (e. g. III, 2 p → per), ancora, seppur

marginalmente, impiegate. Si sono normalizzate le maiuscole e le minuscole secondo l’uso

coevo85, tributando la maiuscola ai nomi propri, alle personificazioni, ai nomi comuni di

particolare rilievo ed in seguito a particolari segni di punteggiatura (i punti fermo,

interrogativo ed esclamativo), invece stabilendo la minuscola nell’andare normalmente a

capo, di contro ai testi, i quali abbondano in libertà scrittoria in questa direzione, in quanto

la utilizzano in nomi di cose religiose (e. g. IV, 3 Croce → croce), titoli reverenziali o nobiliari

(e. g. V, 1 Padre → padre e VI, 1 Iesuita → iesuita), concetti astratti (e. g. I, 14 Speme →

speme)86 e pure andando a capo (e. g. VI, 2-3 pelo, / Alla meglio → pelo, / alla meglio). Si è

variata la punteggiatura, a scopo logico e comprensivo, non più ritmico e cadenzativo,

secondo l’uso coevo87, intervenendo in modo moderato, in quanto i codici sono ormai

cronologicamente attendibili, se non per minimi interventi, ossia eliminazione della virgola

davanti alle congiunzioni coordinative e disgiuntive e ed o (e. g. II, 4 ingiurie, ed Onte →

ingiurie ed onte e II, 12-13 Popol basso; / e Girolamo → popol basso / e Girolamo), mantenuta

invece davanti a né e ma e davanti ad e con valore avversativo (e. g. I, 14 gl’Occhi, e ň han

grazia → gl’occhi, e non han grazia), davanti ad un che seguito da subordinata completiva di

qualsiasi tipo o circostanziale di tipo consecutivo (e. g. I, 7 fate, ch’assista → fate ch’assista e II,

8 par, che → par che) e tra il soggetto ed il verbo (e. g. VI, 7 vi fù, chi → vi fu chi), quindi

aggiunta della virgola per isolare alcuni incisi, come participi congiunti, parentetiche,

apposizioni-vocativi ed avverbi (e. g. II, 10 vivi Tempij estinti al basso → vivi tempii, estinti al

basso, III, 3 e se ben ei → e, se ben ei, IV, 9 v’invitiamo Apostolo facondo → v’invitiamo, apostolo

84 Le norme provengono prevalentemente da A. STUSSI, Introduzione agli studi di filologia italiana, Bologna, Il Mulino, 20114, pp. 139-43, innestate coi consigli vari presenti in F. BRAMBILLA AGENO, L’edizione critica dei testi volgari, Padova, Antenore, 19842 e P. CHIESA, Elementi di critica testuale, Bologna, Pàtron, 20122, per entrambi passim. 85 A riguardo, sono stati adottati i precetti di SERIANNI, Grammatica italiana, pp. 53-57. 86 Per questi tre casi si sono seguiti i parametri presenti in G. B. MARINO, Adone, a cura di G. POZZI, Milano, Adelphi, 19882, un testo esemplare per l’epoca e redatto in edizione critica da un autorevole secentista. 87 Sulla scia delle indicazioni contenute nel sintetico ma ottimo B. MORTARA GARAVELLI, Prontuario di punteggiatura, Roma-Bari, Laterza, 201416, di cui sul punto pp. 59-67, sul punto e virgola pp. 67-74, sulla virgola pp. 74-92, sui punti intonativi pp. 94-99, sui due punti pp. 99-105 e sulle marche dell’enunciazione pp. 105-110.

31

facondo e V, 2 anzi questo → anzi, questo), infine trasformazione del punto e virgola in due

punti in caso di valore esegetico (e. g. V, 9 prima di Lui; come → prima di lui: come). Si sono

introdotti i segni diacritici88, intervenendo in modo invasivo nei confronti degli accenti,

inaccettabili secondo le attuali norme grammaticali, per cui sono stati eliminati dai

monosillabi non canonici (e. g. I, 9 quì → qui e IV, 10 sù → su), distinti i segni tra acuti e

gravi, invece senza intervenire nei confronti degli apostrofi, ormai in forma tollerata,

assenti nelle apocopi (tranne in II, rubrica de’ e II, 4 co’) e presenti nelle elisioni, mentre,

per il resto, si è conservata la simbologia diacritica presente, con al più l’aggiunta di due

punti e virgolette caporali a marcare il discorso diretto (e. g. IV, 5-6 Che la Tromba […] /

[…] → «Che la tromba […] / […]»). Si sono corretti gli errori di derivazione dal copista, ma

non dell’autore, quando possibili nell’identificazione all’interno del loro diasistema (e. g. III,

rubrica all → al). Si sono marcate in carattere corsivo le parole titolative (e. g. VI, 3 Vangelo

→ Vangelo). Si è disposta la mise en page, dividendo e numerando le rubriche ed i versi.

Inoltre, si è proceduto all’inserimento delle parentesi uncinate in caso di

emendazioni congetturali, causate da manoscritto faticosamente leggibile o del tutto privo

di senso, diritte (<…>) se si tenta di restituire il testo e capovolte (>…<) se lo si espunge,

delle cruces desperationis (†…†) in caso di lacuna insanabile ed alla normalizzazione di tutte le

varianti di forma prettamente grafiche, non fonetiche, secondo le usanze coeve, a causa

dell’altezza cronologica dei testi in questione:

1) alternanza u/v ed i/j (e. g. I, 3 u’indusse → v’indusse e II, 10 Tempij → tempii);

2) trattamento delle grafie latineggianti, grecheggianti e colte, ossia H etimologica >

Ø (e. g. II, 12 Christo → Cristo e V, 12 Heredità → eredità).

88 Per i quali il riferimento va ancora a SERIANNI, Grammatica italiana, pp. 45-53.

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3. L’edizione ed il commento

3.1 (I) Qual di rigor o di pietà qual brama

1. Il primo testo preso in analisi tratta di una dama sopraggiunta ad assistere al

suicidio di un peccatore che l’ha amata, così da allietarne l’ambascia, ma, conclude il

sonetto, la bella presenza non è sufficiente a riscattare il male. La tematica intreccia quindi

tre elementi squisitamente barocchi, sospesi per altro tra etica ed estetica, ossia i gusti

incestuosi tra l’amore e la morte, il dolore e la bellezza89, che sono prettamente estetizzanti;

il suicidio di stampo neostoico90, in bilico tra beau geste e disciplina interiore; ed il senso

religioso e morale scaturito in conclusione, a guisa di trovata secentesca91. Il sonetto è

impostato in modo teatrale, altra situazione di ambiente barocco e particolarmente

congeniale al Dotti92, non solo per la situazione da melodramma, dove l’eroe si avvia al

suicidio e l’eroina vi assiste imbelle, bensì poiché è un narratore esterno a raccontare i fatti

inscenati, ma lo fa prevalentemente rivolgendosi in modo diretto alla donna accorsa (v. 2

vi, v. 3 v’ e vostra, v. 5 vi, v. 6 vostro, v. 8 v’, v. 14 vi), e solo di rado parlando in terza persona

della dama e del suicida (v. 7 si, v. 10 si, v. 11 suo), in un exploit di deittici diretti,

enfatizzando il tutto tramite tormentate e martellanti domande retoriche. Nel gusto dello

sperimentalismo, inoltre, il sonetto è organizzato secondo un’artificiosa impalcatura

strutturale, non estranea al Dotti93, che è dialettica, poiché nelle due quartine sono i nuclei

del rigor e della pietà ad esporsi dilemmaticamente al v. 1 ed a svilupparsi uno per volta ai

vv. 5 e 7, mentre è l’espediente della grazia che apre e chiude le due terzine, ai vv. 9 e 14, in

Ringkomposition.

Il quesito iniziale maturato, a livello quasi filosofico, è se la fanciulla sia spinta da

un dovere necessaristico (vv. 1 e 5 rigor), scaturito dal vincolo esistenziale o d’amore,

magari neanche ricambiato, o da una sorta di misericordia pietistica (vv. 1 e 7 pietà), che la

spinge ad amare ogni essere umano, entrambi elementi stoicheggianti, spesso insiti nel

poeta bresciano94. La soluzione non arriva, ma si procede spiegando, sulla scia della

89 L’intreccio di amore e morte e di dolore e bellezza come parte dell’immaginario barocco è di H. CYSARZ, Deutsche Barockdichtung, Leipzig, Haessel, 1924, Sp. 37-39, famoso per la citazione, che chiarisce l’intreccio, «Sie spricht so viel vom Tod, weil sie so überschwenglich das Leben liebt», ovvero «parla così tanto della morte perché così tanto ama la vita». 90 Sul neostoicismo diffuso in Italia nel Seicento, si veda, tra i tanti, un recente saggio che contiene a cascata molti dei materiali precedenti, ossia D. ZARDIN, Il «Manuale» di Epitteto e la tradizione dello stoicismo cristiano tra Cinque e Seicento, in «Studia Borromaica», 20 (2006), pp. 91-111. 91 Il coup de foudre finale della lirica barocca è segnalato in W. T. ELWERT, Poesia lirica italiana del Seicento. Studio sullo stile barocco, Firenze, Olschki, 1967, pp. 63-64. 92 La teatralità della lirica barocca è segnalata in ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 44-48, mentre del Dotti teatralizzante parla V. BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla»: le rime di Bartolomeo Dotti, Torino, Res, 1997, pp. 262-64. 93 L’organizzazione della lirica barocca è segnalata in ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 53-55, mentre il Dotti utente della rapportatio è trattato in BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 111-16 e 124-26. 94 Sullo stoicismo, il volume più recente, in lingua italiana e che tracci le linee istituzionali del pensiero filosofico è M. ISNARDI PARENTE, Introduzione a lo stoicismo ellenistico, Roma-Bari, Laterza, 20044, da cui poi ricavare la

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tradizione stilnovistica italiana, che la presenza della donna può portare una sorta di

sollievo (v. 9 grazia) allo stoico morituro, soprattutto tramite il di lei sguardo (v. 11 occhi)95.

La terzina conclusiva, tuttavia, ribalta l’ottimismo sinora affrontato e, con un puro esprit

barocco, quello che i Greci chiamano ἀπροσδόκητον ed i Latini fulmen in clausola, risolve la

situazione ad effetto, chiarendo che la speranza di salvezza è puro istinto e non colpisce la

parte razionale, se non quella di un povero peccatore che sta andando a morire, e

comunque non basterebbe a salvare un intero stuolo di persone, seppur innocenti. Tutto il

testo è percorso da elementi dai tratti del barocco sperimentale, come, oltre al coup de foudre

conclusivo ed all’artificiosa impalcatura delle frasi, già sviluppati, l’iperbole96 (v. 4 il mondo

infama e v. 11 mill’innocenti) e l’attitudine all’inversione sintattica, non esclusiva ma

ampiamente praticata dai marinisti97, tramite pochi ma evidenti anastrofi (v. 2 e v. 4),

iperbati (v. 1, vv. 3-4, v. 5 e v. 12) e persino sinchisi (v. 6 e vv. 9-10). Al Seicento tanto

classicista quanto concettista rimanda infine l’area semantica della vista, senso privilegiato

di quest’epoca98, maturata nei confini nella prima quartina (v. 2 i lumi, v. 3 vostra vista e v. 4

un spettacol).

Alla bella donna accorsa al siussitiarsi / d’un reo

Qual di rigor o di pietà qual brama

a supplicio vi ma<l>a, ch’i lumi attrista?

Chi v’indusse a degnar di vostra vista

4 un spettacolo rio, ch’il mondo infama?

S’all’officio cruel rigor vi chiama,

nel vostro bel troppo di dolce acquista.

<S>e si move a pietà, fate ch’assista

8 all’agonia di chi si muore, e v’ama.

Chissà che grazia forse tanto non senti

e non speri colui, che qui si strazia,

bibliografia indiretta, mentre sullo stoicismo del Dotti si rimanda a BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 243 e 277-85. 95 Sul ruolo della donna nella tradizione italiana, con anche la clausola salvifica canonizzata a partire dalle origini, si vedano M. ZANCAN, La donna, in Letteratura italiana, a cura di A. ASOR ROSA, Torino, Einaudi, 1986, vol. 5, pp. 765-827 e M. ZANCAN, Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana, Torino, Einaudi, 1998. 96 Su metafora, iperbole ed antitesi nel Barocco, ottimo è ancora ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 56-63. 97 Si è sempre in ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 65-68. 98 W. WEIßBACH, Barock als Stilphänomen, in «Deutsche Vierteljahrschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», 2/II (1924), Sp. 223-56, in particolare sul Barocco come «Augenkultur» Sp. 251-52.

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11 da sì begli occhi al suo morir presenti.

Ma lusinga di speme al sen nol sazia,

non ch’un misero reo: mill’innocenti

14 vi muoron sotto gl’occhi, e non han grazia.

Postille metriche: sinalefe in lumi attrista (2), indusse a (3), spettacolo rio (4), move a (7), muore, e (8), begli occhi (11), speme al (12) e occhi, e (14), sineresi in rio (4), suo (11) e reo (13) ed episinalefe in senti / e (9-10). 1-8. Quale, quale desiderio di dovere o di misericordia vi condanna a [questa] sofferenza, che rattrista gli occhi? Chi vi ha convinta a degnare un [tale] maligno spettacolo, che disonora il mondo, del vostro sguardo? Se il duro obbligo vi impone [questo] compito, [la situazione] acquista molta dolcezza grazie alla vostra bellezza. Se [la dama] è mossa dalla compassione, fate in modo che assista al dolore di chi si uccide, eppure vi ama. 9-14. Chissà se, forse, colui che qui soffre prova tuttavia sollievo e ricava speranza dagli occhi così belli presenti al suo suicidio. Ma l’attrattiva della salvezza non soddisfa che un infelice peccatore nella ragione: mille innocenti vi muoiono sotto gli occhi, eppure non hanno conforto.

*. siussitiarsi: è una forma non canonica di suicidarsi, verbo entrato in italiano come prestito dal francese se suicider, derivato del neologismo, creato nel 1734 dall’abate Antoine François Prévost, suicide (DELI, p. 1641), difatti, non trattandosi ancora di un vocabolo stabile e magari mediato dalla trasmissione orale, presenta, rispetto al comune esito suicidarsi, metatesi di iu (ma forse è un errore del copista, che in una grafia con la standardizzazione dei minimi, trovandosi a leggere iii, trascrive iu anziché ui), passaggio di ss in c (è una sorta di alveolarizzazione in senso contrario, ma forse è un ipercorrettismo dovuto all’eco francese), sordizzazione di d in t (ma forse è un ipercorrettismo dovuto all’eco francese) ed -i- epentetica; la nascita così tarda del vocabolo non ricostituisce tuttavia un termine post quem per la datazione del sonetto e per la sua attribuzione dottiana, dato che si trova nella rubrica e non nel testo, la quale può essere stata compilata a posteriori e da altri mani. 1. Qual brama: i due lemmi formano un iperbato a cornice, che abbraccia dall’inizio alla fine il verso; il secondo termine, aulicismo, deriva dal germanico *brammōn, ossia muggire, che passa poi al senso di chiedere con insistenza (DELI, p. 243), infatti vale ambizione, desiderio (BATTAGLIA, vol. 2, p. 351), mentre il primo, pronome interrogativo-relativo, subente apocope da quale, è ripetuto in epanalessi, avviluppando i due genitivi; inoltre, si noti l’enjambement, abbastanza forte, con lo stico successivo. di rigor o di pietà: elementi del neostoicismo del Seicento, che si ribalta dal suicida pure nella fanciulla, sono i due nuclei poi sviluppati nella seconda quartina, ossia da un lato il doveroso vincolo di assistere chi entra nelle proprie vite, poco importa se corrisposto o meno (il testo non dà a sapere se anche la donna ha amato l’uomo), nel senso di obbligo (BATTAGLIA, vol. 16, pp. 331-33), dall’altro la compassione umana verso un’altra creatura vivente (BATTAGLIA, vol. 13, pp. 420-22); le due parole sono foneticamente marcate, la prima dal rotacismo, la seconda dall’allitterazione delle occlusive, inoltre rigor presenta apocope; ambedue i termini, in specie il primo, sono tipici del cavalier Marino, anzi, in lui solo si trovano, dato che «Nova pietà, ch’ogni rigor» appare in MARINO, La Strage Degli Innocenti, II 82, 1, mentre di «pietoso rigor» parla MARINO, Adone, VII 184, 7 (LIZ). 2. a supplicio: derivato dal latino SŪPPLĬCĬŬ(M) > vocalismo tonico ed atono *SUPPLICEO > chiusura di e postonica supplicio (DELI, p. 1645), è un cultismo, poiché la c non è passata a z nel nesso di jod; arcaismo che significa sofferenza, pena (BATTAGLIA, vol. 20, p. 561), riveste il ruolo di complemento di luogo figurato, dipendente dal successivo mala, ed è privo di articolo, secondo una prassi diffusa. mala: il manoscritto presenta una lettera pasticciata, che si può emendare in l; voce del verbo malare (BATTAGLIA, vol. 9, p. 502), che quivi regge la preposizione a, si tratta di un vocabolo prezioso e non tradizionale in poesia, il quale significa ammala e quindi, per metafora, si passa da contagia a condanna, castiga. ch’i: il che, eliso davanti ad i, è pronome relativo con funzione di soggetto (ItalAnt, vol. 1, pp. 475-76), riferentesi a supplicio, e chiude, quasi a guisa di zeppa, il primo periodo, parallelamente a ciò che accade al v. 4. lumi attrista: la iunctura è un tripudio di traslati, come gradito agli sperimentalisti, in quanto i lumi sono la tipica metafora, quasi metonimica, per indicare gli occhi, almeno fin dalla memoria evangelica ed, attraverso Dante, nella tradizione lirica italiana, iniziando in più un’area semantica della visione (che è quella più congeniale al Barocco), e pure il verbo attristare (BATTAGLIA, vol. 1, p. 835), vale a dire rattrista, addolora, appaiato alla parola lumi, forma una bella metafora; per quanto tradizionale, un’accoppiata simile, al singolare, risale soltanto a TASSO, Rime, CMXVIII, 8-9 e Le Sette Giornate, II 436-37 (LIZ); si notino infine l’anastrofe e la domanda retorica, nonché il fatto che il verso risulti insanabilmente ipermetro di una sillaba.

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3. v’indusse: presenta un brusco cambio di tempo verbale, essendo un passato, rispetto al resto del sonetto, che è al presente, forse per rispetto della metrica, come già insegna la poesia latina, licenziosa in questa direzione; v’ è una forma elisa di vi, causata da indusse. di vostra vista: l’emistichio è privo di articolo, sostituito dall’aggettivo possessivo, mentre di va in deltacismo con indusse e soprattutto degnar, a sua volta apocopato; vostra vista è notevole poiché canonico in poesia, tramite DANTE, Vita Nuova, XXXV, 11 e PETRARCA, Rerum Vulgarium Fragmenta, CXCI, 14 e CCCXXV, 100 raggiungendo de’ Medici, Poliziano, Boiardo, Bembo, Ariosto e Tasso (LIZ); esso forma quasi un omoteleuto, va in allitterazione della v, con anche l’iniziale v’indusse, e prosegue l’area semantica della visione; inoltre, si noti l’enjambement, abbastanza forte, col verso successivo. 4. un spettacolo: un è forma apocopata per uno, in realtà scorretta in italiano poiché la segue una parola incipiente per s impura, ossia spettacolo (SERIANNI, pp. 27-28), mentre spettacolo, oltre a richiamare la teatralità insita nel sonetto, principio di ascendenza barocca, chiude l’area semantica della visione; assieme a rio forme una iunctura anticipata, a termini anastrofici, soltanto da ARIOSTO, Orlando Furioso, V 51, 8 e da BRIGNOLE SALE, Maria Maddalena, II 20 (LIZ). rio: proviene dal latino RĔŬ(M) > vocalismo tonico ed atono reo, con anche l’ulteriore chiusura di e tonica in iato rio (DELI, p. 1345), com’è più tipico in poesia per questo lemma; si noti poi che spettacol rio è iperbatico rispetto ad a degnar. ch’: il che, eliso davanti ad il, è pronome relativo con funzione di soggetto (ItalAnt, vol. 1, pp. 475-76), riferentesi a spettacolo, e chiude, quasi a guisa di zeppa, il secondo periodo, parallelamente a ciò che accade al v. 2. il mondo infama: non solo metafora, ma anche iperbole, due elementi squisitamente sperimentalisti, a ciò si aggiunga anche la ricerca fonica, altro pilastro del barocco sperimentale, infatti mondo ed infama si allitterano nelle nasali, mentre mondo e spettacolo presentano assonanza; connubio assai tradizionale in poesia, se si considerano «mondo» ed «infamia» spuntano precedenti simillimi in PUCCI, Libro Di Varie Storie, XV 1, PULCI, Morgante, XXVII 167, 7, BELO, Il Pedante, III 4, BANDELLO, Novelle, IV 6, BOCCALINI, Ragguagli Di Parnaso II 54, 2, MARINO, Adone, II 164, 8, e ROSA, Satire, La musica, 232 (LIZ); si notino infine l’anastrofe e la domanda retorica. 5. S’all’: doppia elisione, a catena, in luogo di se ed allo. officio: aulicismo per ufficio, conserva la suo etimologia latina, infatti va inteso come compito, dovere (BATTAGLIA, vol. 21, pp. 497-502), e non è una scelta casuale, infatti è un termine chiave dell’etica stoica, riscontrabile fin dai

titoli di opere esemplari, come il Περì Τοῦ Καθήκοντος di Panezio, l’omonima opera di Posidonio ed il De Officiis di Cicerone; ma è pure un latinismo a livello fonetico, in quanto ŎFFĬCĬŪ(M) > vocalismo tonico ed atono officio, però non avviene la chiusura di o protonica in u rispetto all’esito abituale (DELI, p. 1758-59); si noti inoltre che chiamare all’officio risulta un’espressione velatamente metaforica e che all’officio è in iperbato rispetto a vi chiama. cruel rigor: privo dell’articolo, secondo l’uso corrente, il sintagma sembra una iunctura acri, poiché è enfatizzata dal rotacismo, marcata dalla sincope di -d- che rende cruel un aulicismo da crudele < vocalismo tonico ed atono CRŪDĒLE(M) (DELI, p. 420), connesso etimologicamente alla crudezza, nel senso pratico di duro, spietato (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 1016-18), e presenta apocopi che velocizzano il ritmo, altrimenti a maiori, dell’endecasillabo; se ripristinata agli esiti «rigore» e «crudele», è una coppia che si trova prima solo in BOCCALINI, Ragguagli Di Parnaso, III 27, 9 e MARINO, Adone, IV 2, 2 (LIZ); inoltre, sviluppa il primo nucleo espresso nel sonetto, per cui a spronare la donna è un vincolo necessaristico, ossia l’esito di un agire umano il quale, nella dottrina stoica, è conseguenza meccanica di una causa superiore, la volontà provvidenziale che tutto regge, nomata λόγος. 6. nel vostro bel: è una sorta di ablativo di mezzo o strumento, espresso insolitamente con la preposizione nel (ItalAnt, vol. 1, pp. 668-72), come a dire tramite, grazie a, in cui bel, tra l’altro apocopato, per il fenomeno della nominalizzazione (ItalAnt, vol. 1, p. 285), dove l’aggettivo passa a sostantivo, va ad indicare beltà, bellezza. troppo di dolce: l’espressione è priva di articolo, sostituito dal quantificatore, ed è il centro di una sinchisi, dovendo ordinare acquista troppo di dolce nel vostro bel; troppo regge un genitivo partitivo con preposizione di (ItalAnt, vol. 1, p. 653), ossia di dolce, in cui dolce assume, per metafora, valore di gradevolezza, soavità, in quanto la presenza in scena della donna stempera il dolore del suicida. 7. Se: il manoscritto presenta una lettera sghemba in bilico tra r ed s, ma si è congetturato in s in virtù non solo del senso, ma anche del sigmatismo instaurato con il si successivo e del parallelismo che gioca l’attacco di questo verso rispetto a quello del v. 5. si move a pietà: il si è un brusco cambio di punto di vista, poiché il narratore parla della donna in terza persona, e non più a lei indirizzandosi in seconda, come confermato dal successivo assista, mentre move, rispetto al normale esito MŎVĒ(T) > vocalismo tonico ed atono muove (DELI, p. 1017-18), non possiede il dittongamento spontaneo; muovere a pietà è un’espressione tipica di tutta la letteratura italiana (LIZ), perciò priva di articolo, ed è metaforica; inoltre, sviluppa il secondo nucleo espresso nel sonetto, per cui a spronare la fanciulla è il buon cuore, ossia la συμπάθεια la quale, nella dottrina stoica, è una condizione di solidarietà nel sentimento che accomuna tutti gli essere viventi. fate ch’assista: è come un appello del narratore affinché la donna sia partecipe del suicidio, espletando ulteriormente la drammatizzazione della scena; inoltre, la frase rappresenta una completiva volitiva e ribadisce il brusco cambio del punto di vista, come già nel precedente si move, invece che si mostra in forma elisa ed assista

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forma una sorta di assonanza col lemma che la segue, agonia, sottolineando un legame di media intensità sobillato anche dall’enjambement. 8. agonia: il lemma deriva dal termine che in latino illustra la competizione, ovvero AGŌNĬA(M) > vocalismo tonico ed atono *AGONEA > chiusura di e tonica in iato agonia (DELI, p. 74), quindi sottolinea più la faticosa gara con l’esistenza che il dolore (BATTAGLIA, vol. 1, p. 265), infatti il saggio stoico, imperturbabile ed apatico, non dovrebbe soffrire nel suicidio (inoltre, c’è da dirlo, il neostoicismo del Seicento è cristiano, quindi non dovrebbe neppure ammettere l’auto-sacrificio). si muore: vale si uccide, si dà la morte (BATTAGLIA, vol. 10, pp. 908-14), in un insolito uso riflessivo del verbo (cfr. F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo nell’italiano antico, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964, pp. 136-49); si noti il calembour, gustosamente secentesco, con si move. e v’ama: la congiunzione e ha valore avversativo (ItalAnt, vol. 1, pp. 252-53), come a dire ma, eppure, in stretto parallelismo a ciò che succede nell’emistichio finale del v. 14; inoltre, il rivolgersi del narratore alla dama ristabilisce la seconda persona plurale. 9. Chissà: locuzione avverbiale cristallizzata sviluppante un senso di dubbio e vaga speranza al contempo (BATTAGLIA, vol. 3, p. 92), è canonicamente posta in sede anaforica e seguita da una subordinata completiva, introdotta in questo caso da che. grazia: priva dell’articolo, secondo una prassi diffusa, esplica lo stato di serenità provocato dall’animo benevolo della donna ed è intendibile come assenza di fatica e dolore, durante l’atto terreno del suicidio, o come opportunità di salvezza nel mondo celeste, nonostante il suicidio (BATTAGLIA, vol. 7, pp. 12-20); del resto, la donna come figura salvifica è presente nella letteratura italiana almeno fin dall’eredità stilnovistica (cfr. l’introduzione). forse tanto: sono lemmi attenuativi, il primo insinuante il dubbio e la possibilità, ma non la certezza, ed il secondo con valore concessivo, nel senso di tuttavia, nonostante tutto (BATTAGLIA, vol. 20, pp. 714-17). non senti: si tratta di una forma irregolare di congiuntivo presente alla terza persona singolare (ItalAnt, vol. 2, pp. 1446-49), senta, che acquista la terminazione in -i per analogia alla prima coniugazione, dato che altrimenti SĒNTĬA(T) > vocalismo atono e tonico *SENTEA > sincope postonica senta (DELI, p. 1503-04), in linea con il successivo non speri, dove il non ed il modo verbale sono giustificati dall’essere parte della completiva dipendente da Chissà, oppure di un mero errore del copista, che ha assimilato senta nella flessione del vicino speri, compiendo una sorta di saut du même au même per omoteleuto; indica l’azione della grazia che dall’esterno, passivamente, tenta di entrare nel personaggio reo; innegabile è l’enjambement con lo stico che segue, la cui continuità è cadenzata dal verso ipermetro, di dodici sillabe, contemperata dall’episinalefe senti /e. 10. non speri: il non ed il congiuntivo presente si spiegano in dipendenza dal Chissà anteriore, come nel non senti al v. 9, con il quale questi due termini formano una sorta di endiadi, se non che quivi si intenda l’azione della grazia che all’interno del personaggio reo, attivamente, viene richiesta e ricercata. colui, che qui: l’emistichio, formato dal soggetto pronominale colui e dalla subordinata relativa a lui riferita, dove il che ha funzione di soggetto (ItalAnt, vol. 1, pp. 475-76), è da considerarsi il capo della sinchisi incipiente al verso anteriore, da riordinare colui forse tanto non senti e non speri grazia; nascosta dalla morfologia delle lettere è l’allitterazione dell’occlusiva velare sorda [k]. si strazia: il termine deriva da DISTRĂHĔRE, mediato dal sostantivo DISTRĂCTIŌNEM, che passa al verbo *STRĂTĬĂRE > vocalismo tonico ed atono *STRATEARE > chiusura di e protonica *STRATIARE > evoluzione del nesso di occlusiva e jod straziare (DELI, p. 1628), indicando proprio la condizione di spasimo in cui si trova il suicida, ed è in netta antitesi con la grazia del v. 9, un contrasto tipicamente barocco anche perché messo in risalto dalla rimalmezzo che accomuna grazia e strazia; si noti infine il sigmatismo nei due termini. 11. da begli occhi: sintagma tradizionale, che dai trovatori passa ai siciliani, a Dante, a Petrarca e da lì al canone lirico (LIZ), gli occhi, in particolare le pupille, sono nella tradizione latina, poi trobadorica (lo canonizza André le Chapelain in De Amore I 15, 3) e stilnovistica (del resto, è l’epoca degli studi scientifici sull’ottica) e da lì italiana, il mezzo privilegiato per la trasmissione dei sentimenti, quindi la presenza stessa della fanciulla è attestata, per metonimia, a partire proprio dagli occhi; l’espressione, priva di articolo, in accordo ai tempi, ricostituisce un ablativo di mezzo o strumento, di rado dichiarato con la preposizione da (ItalAnt, vol. 1, pp. 661-63), a partire dalla quale discende la grazia; begli vale a dire belli, incantevoli, ed è un arcaismo giustificato davanti a vocale o ad s impura (BATTAGLIA, vol. 2, pp. 151-56), dove la sillaba finale -li è in sintassi percepita come un nesso di jod e quindi si evolve in -gli, per altro dalla complicata vicenda etimologica, provenendo dalla voce, alterato di BONUS, arcaica e popolare BŎNĒLLOS > sincope BĒLLOS > vocalismo atono e tonico *BELLOS > palatalizzazione dovuta ad -s finale, poi apocopatasi belli (DELI, pp. 199-200). sì: conserva l’origine etimologica del latino SI(C EST) > apocope sì (DELI, p. 1524), significando così, tanto (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 883-86), con valore comparativo, in quanto seguita da aggettivo od avverbio (ItalAnt, vol. 1, pp. 49-52). morir: infinito sostantivato (ItalAnt, vol. 1, pp. 310-11 e vol. 2, pp. 874-79), che assieme ad al suo ha valore di complemento di luogo figurato, è un eufemismo per indicare l’autoinflizione della morte e presenta apocope di vocale finale.

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12. Ma: posto in posizione anaforica, come tipico nella letteratura tanto greco-latina, quanto italiana, ha valore avversativo (ItalAnt, vol. 1, pp. 259-62) e segna un forte distacco rispetto al resto della poesia, introducendo la triste conclusione del sonetto. lusinga di speme: tradizionale il sintagma, impiegato in plurimi passi in modo simile, ma non precisamente eguale, in Tasso, Guarini, Marino e Tassoni (LIZ), lusinga vale attrattiva, richiamo di tipo illusorio (BATTAGLIA, vol. 9, pp. 321-22) ed è privo dell’articolo, secondo una prassi comune, invece tipico della lirica italiana è speme, aulicismo per speranza (BATTAGLIA, vol. 19, pp. 804-05), che chiude in Ringkomposition lo speri citato al v. 10, ribaltandolo in absentia; si noti l’allitterazione delle nasali, cui si aggiungano Ma, lusinga e speme. al sen nol sazia: sen è apocope sillabica per senno, vale a dire la parte razionale ed intellettiva dell’uomo, che non si contenta di vane speranze, come l’apparizione della dama al momento dell’harakiri, agenti sulla parte emotiva e sensibile delle persone; sembra quasi uno scontro tra la mente ed il corpo, dove il saggio stoico che si suicida non dovrebbe aver bisogno di soddisfazioni emotive, eppure, nel difficile momento della morte, l’immagine dell’amata quasi lo risolleva; nol sintatticamente è una forma sintetica, comune in poesia (BATTAGLIA, vol. 11, pp. 529-33), che fonde assieme le parole non lo, e retoricamente è un pleonasmo, che ripete lo nel senso di al sen, formula comune nel parlato , invece sazia è metaforico, lasciando intendere la lusinga di speme come un cibo per il suicida; si noti il lambdacismo, cui si aggiunga lusinga, ed il fatto che nol sazia è in iperbato rispetto ad al sen. 13. non ch’: significa se non che, fuorché ed è un ablativo eccettuativo-restrittivo (ItalAnt, vol. 2, p. 1133); ch’ è un’elisione di che in quanto seguito da un; si noti infine l’enjambement, poco marcato poiché separato dalla virgola, con il verso precedente. un misero reo: la frase iniziata allo stico precedente trova in ciò il suo accusativo, retto dal soggetto lusinga, dal verbo sazia e dall’ablativo di limitazione al sen; reo, all’opposto del v. 4, è qui usato come sostantivo e non presenta la chiusura di e in iato, com’è più tipico in prosa per questo vocabolo, ricostituendo un cultismo; si notino poi l’assonanza interna al sintagma e l’antitesi secentesca di contro a mill’innocenti, codificata dal contrasto dei numerali, dall’oppositività semantica e dalla variatio che propone tre parole versus una sola, con i due punti a fare da cesura. mill’innocenti: è un’iperbole squisitamente barocca, sottolineata dalle due parole che tentano di fondersi grazie all’elisione di mille, dall’andamento a maiori dell’endecasillabo e dalla posizione epiforica della iunctura; presenta l’allitterazione delle nasali, in aggiunta a non, un e misero, ed è priva dell’articolo, sostituito dal quantificatore; l’espressione si riscontra già in MARINO, Adone, X 235, 4 e Sampogna, XI 506 (LIZ). 14. vi muoron: vi vale a dire a discapito vostro ed è in bilico tra dativus incommodi e dativo etico (ItalAnt, vol. 1, p. 141), invece muoron, rispetto all’esito poi regolare, presenta il riflesso non toscano da -rj- ad -r-, infatti proviene da MŎRĬŬNTŪR > regolarizzazione della deponenza per analogia alle altre coniugazioni *MŎRĬŬN(T) > vocalismo tonico ed atono *MUOREON > chiusura di e postonica *MUORION > esito non toscano del nesso vibrante e jod muoron (DELI, pp. 1007-08), ed è in apocope di vocale finale; la soluzione di continuità col verso precedente è data dal fortissimo enjambement. sotto gl’occhi: l’espressione, dove gli è in forma elisa, chiude in Ringkomposition gli occhi citati al v. 11, ribaltandoli in absentia, dato che non hanno il potere salvifico sperato, ma osservano inermi la tragedia umana. e non han grazia: la congiunzione e ha valore avversativo (ItalAnt, vol. 1, pp. 252-53), come a dire ma, eppure, in stretto parallelismo a ciò che succede nell’emistichio finale del v. 8, invece grazia chiude in Ringkomposition la grazia citata al v. 9, ribaltandola in absentia, dato che, pur stando le persone sotto gli occhi della dama, non ne ricevono la salvezza sperata, né in terra né in cielo; inoltre, grazia è ancora carente dell’articolo, come tipico nella poesia, ed han è apocope di hanno, essendo privo della sillaba finale.

3.2 (II) Mentre pazza genia corre a’ dispetti

1. Il secondo testo preso in analisi tratta di quel celebre delirio avvenuto a Venezia

nel 1705, elemento post quem per la datazione del sonetto, quando, in occasione dell’usuale

guerra dei pugni, le due fazioni concorrenti lasciano che lo scontro degeneri in una

colluttazione colossale, la quale, tra i vari esiti infausti, travolge ed incendia la chiesa di San

Girolamo99.

99 Storia e geografia di questa chiesa sono in U. FRANZOI - D. DI STEFANO, Le chiese di Venezia, Venezia, Alfieri, 1976, pp. 112-14 ed A. BOCCATO, Chiese di Venezia, Verona, Arsenale, 2011, pp. 123-24, impiegati in appoggio al colossale G. CAPPELLETTI, Le chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, Venezia, Antonelli, 1854, vol. 9, pp. 105-489 ed al sistematico sito delle Chiese italiane (http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane, ultimo accesso il 26.II.2015), dove tuttavia il primo dà esito, mentre il secondo non la riporta.

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La guerra dei pugni100 non è altro che una zuffa opponente le due fazioni del

popolo magro e minuto di Venezia, ossia i Castellani, inquilini dei sestieri di Castello, da

cui il nome, di San Marco, di parti di Dorsoduro e Cannaregio e pure della Giudecca e del

Lido, più abbienti e per lo più operai, situati ad Ovest e tradizionalmente vestiti di rosso,

ed i Nicolotti (inizialmente chiamati Cannaruoli, in quanto viventi in zone ancora paludose

e meno civilizzate, quindi colme di canne), abitanti dei sestieri di Santa Croce, San Polo e

di parti di Dorsoduro e Cannaregio, cosiddetti poiché sono soliti ritrovarsi in fronte alla

chiesa di San Nicolò dei Mendicoli, meno benestanti e per lo più pescatori, situati ad Est e

tradizionalmente vestiti di nero101. L’origine di questa contesa è medievale102, essendo

documentata a partire dal 1292, quando il governo veneziano da un canto la favorisce, per

tenere il popolo allenato alla lotta, farlo sfogare e deviarne l’attenzione, nonché mantenerlo

diviso in schieramenti onde evitare insurrezioni congiunte; dall’altro la regolamenta, per

evitare danni, feriti e morti, che pure non sono mancati, stabilendo che gli scontri si

animino in appositi giorni tra settembre e Natale, su determinati ponti della città, all’epoca

privi di transenne, sgomberando sapientemente le zone e facendo schierare gli avversari

alle due estremità, con una giuria valutatrice, attraverso tre tipi di gare, ossia il pugilato

individuale tra i due campioni delle fazioni ed il pugilato di gruppo tra alcuni contendenti, i

quali terminano al primo spargimento di sangue o quando gli avversari cadono in acqua, e

la conquista del ponte, scenografica e sesquipedale, cui partecipano tutti in massa,

tentando di offendere e poi gettare nel rio sottostante i nemici, la quale termina quando

rimangono sul viadotto solo i partecipi del proprio allineamento. L’eziologia di questa

prassi è sconosciuta, benché due teorie, discordanti negli argomenti ed inattendibili poiché

non trattate nelle fonti e pure cronologicamente antistoriche, siano proposte: alcuni

ritengono che risalga addirittura alle guerre civili nel Tardoantico tra Eraclea e Jesolo per il

dominio di Venezia, altri invece all’uccisione di Ramperto Polo, vescovo di Castello, dai

parrocchiani di San Nicolò per aver imposto una decima al pievano.

Le lotte, inizialmente armate e violente, si sono fatte più cavalleresche e plateali

con l’alba della modernità, fino ad essere vietate nell’uso delle armi nel 1574, dovendo

combattere a mani nude, ed a limitarsi man mano a pochi eventi annuali stabilizzatisi su

quello che ancor oggi si chiama ponte dei Pugni, presso campo San Barnaba, da cui la

contesa prende il nome consueto, od, occasionalmente, su di un omonimo ponte, oggi

ribattezzato, presso campo Santa Fosca. Il malfatto del 30 settembre 1705103 ha voluto

tuttavia che il tradizionale gioco fosse tralignato in una piccola guerra tra i popolani,

100 G. TASSINI, Curiosità veneziane, a cura di L. MORELLI, Venezia, Filippi, 19708, pp. 132-39. 101 Per la geografia cittadina, si rimanda a C. BALISTRERI, Venezia nel tempo: atlante storico dello sviluppo urbano, Roma, Aracne, 2014. 102 Le informazioni storiche derivano da A. CASTAGNETTI, Insediamenti e «populi», in Storia di Venezia. Dalle origini alla caduta della Serenissima, a cura di L. CRACCO RUGGINI - M. PAVAN - G. CRACCO - G. ORTALLI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1992, vol. 1, pp. 577-612. 103 Le informazioni storiche derivano da A. ZANNINI, La presenza borghese, in Storia di Venezia, a cura di G. BENZONI - G. COZZI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997, vol. 7, pp. 225-72.

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passati dai pugni a coltelli e sassi, così, in un vortice incessante di violenza, fossero presi

d’assalto individui ed edifici, dilagando la turba indemoniata il suo tour attraverso buona

parte della città, tanto che l’aneddoto, per altro topico, vuole che solo l’intervento di un

parroco della chiesa di San Barnaba, irrotto in scena ostentando un crocefisso, abbia posto

termine agli scontri. Da allora, per decreto governativo, chiunque faccia rissa su di un

ponte è condannato a lavorare per cinque anni su di una galea od a scontare sette anni di

prigione ai Piombi, mentre la guerra dei pugni si limita a due gare, una tenentesi a

Carnevale in piazza San Marco, dove vince chi edifica la piramide umana più alta, l’altra

d’estate sul Canal Grande e consiste in una regata di gondole.

2. Tuttora non si sa se la chiesa, nel 1705, è stata appositamente incendiata,

improbabile ma non impossibile, magari per mano degli inquilini dello schieramento

opposto alla parrocchia, o, più verosimilmente, è rimasta vittima innocente del trambusto

irrazionale ed incontrollato di quell’infausta giornata, dato che qualche colpo, qualche

danno o qualche oggetto vagante impiegano poco ad includere candele, ceri, candelabri o

lampadari, i quali, a contatto con un arredo di età medievale e moderna, prevalentemente

ligneo, permettono il divampare ed il propagarsi estemporaneo di un incendio. È

all’interno di questo frangente storico che prende avvio la composizione, in cui le due

quartine hanno un andamento descrittivo, tratteggiando la circostanza e comunicando un

senso di dinamismo, mentre le due terzine hanno un tono riflessivo, nonostante

l’apparente scenicismo, dando adito a considerazioni e fantasie del narratore, in un senso

di staticità. La lirica principia spiegando come, proprio mentre si svolge il tradizionale

scontro dei pugni (v. 2 sovra d’un ponte), molti sciagurati ne profittano per portare la

situazione al degenero, inasprendosi contro le persone e le costruzioni di Venezia. Il fronte

procede quindi per coppie parallele. Tuttavia, emersa la mole dei teppisti, alcuni di questi

(v. 7 la turba più vil) stanno in prima linea a combattere nella rissa, mentre altri (v. 8 più sano

stuol) cercano di evitare gli scontri. Ancora una volta, la coalizione è dialettica. Segue

l’immagine doppia degli edifici che, nel medesimo momento, crollano (v. 10 cadon e v. 11

sen cade), ossia tanto i palazzi peccaminosi quanto la chiesa di San Girolamo, incorniciata

dal poliptoto. Chiude l’immagine scambievole del popolo, intento a lanciar pietre (v. 12

Tira sassate), e di san Girolamo, immaginato nell’atto di ricambiare il favore (v. 14 scagliar

[…] sasso), ammaestrata da una figura etymologica. Non si può che fiatare di sagace ed

artificiosa impalcatura architettonica, invero il Dotti non tradisce la sua vena di accorto

orchestratore nella dispositio della materia nelle strofi, in accordo, del resto, con l’estetica

barocca104. Il punto di vista del narratore è moderato e conservatore, poiché, nel gioco

sperimentalista, alla Marino, del variare sul tema, trova sempre nuovi e diversi appellativi,

tendenzialmente dispregiativi, per nominare la folla (v. 1 pazza genia, v. 3 molt’altri, vv. 5-6

104 L’organizzazione strutturale della lirica barocca è segnalata in ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 53-55, mentre dell’impiego dottiano della rapportatio parla BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 111-16 e 124-26.

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monte / di semivivi, v. 7 turba più vil, v. 8 più sano stuol, v. 12 popol lasso), quasi a voler non solo

prenderne le distanze, ma anche condannarla. Chiude la lirica l’ennesimo concetto

secentesco105, ἀπροσδόκητον o fulmen in clausola a livello formale, il quale scioglie l’atmosfera

di tensione tramite un’ingegnosa ed acuta trovata, quasi divertente, dove la pietra di cui san

Girolamo si avvale per la mortificazione corporale si trasforma in un brillante modo di

ricambiare le sassate che i fedeli tirano al suo sacro tempio.

Per l’incendio della chiesa di San Gerolamo / accaduto nel giorno fatale

della / guerra de’ pugni

Mentre pazza genia corre a’ dispetti,

anzi, vola a pugnar sovra d’un ponte,

sudan molt’altri a impoverir i tetti

4 e vendicar co’ sassi ingiurie ed onte.

Nella reggia del mar s’innalza un monte

di semivivi in preda al duol negletti:

sta la turba più vil dei colpi a fronte,

8 più sano stuol par che sua fuga affretti.

Nel tempo stesso in cui del divo Amore

cadon i vivi tempii, estinti al basso,

11 sen cade quel del più sovran dottore.

Tira sassate a Cristo il popol lasso

e Girolamo ancor parve al rumore

14 scagliar qui in terra il suo pesante sasso.

Postille metriche: sinalefe in corre a (1), vola a (2), altri a (3), a impoverir (3), sassi ingiurie (4), ingiurie ed (4), innalza un (5), semivivi in (6), colpi a (7), stesso in (9), divo Amore (9), tempii, estinti (10), sassate a (12), Girolamo ancor (13), parve al (13), qui in (14) e terra il (14) e sineresi in genia (1), ingiurie (4), sua (8), scagliar (14) e suo (14). 1-8. Mentre uno squilibrato gruppo ricorre ai soprusi, anzi vola a combattere sopra un ponte, molti altri si affaticano a saccheggiare le case ed a castigare gli insulti e le offese con le sassate. A Venezia si crea una montagna di spossati, trasandati, oppressi dalla sofferenza: la massa dei più spregevoli si pone di fronte agli scontri, la schiera più moderata sembra affrettare la propria fuga. 9-14. Nel momento in cui crollano i vivaci palazzi [nobiliari] del dio Amore, danneggiati nei basamenti, crolla anche quello di Dio. Il popolo misero lancia

105 Il colpo di fiamma del concettismo è ancora in ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 63-64.

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sassate contro la chiesa cristiana e san Girolamo, a [tal] rumore, è sembrato scagliare ancora una volta la sua pietra pesante quaggiù sulla Terra.

*. chiesa di San Gerolamo: si tratta della chiesa coinvolta nei tumulti (cfr. l’introduzione) della guerra dei pugni del 1705, dove Gerolamo è un cultismo per Girolamo poiché la e non si è chiusa in i (BATTAGLIA, vol. 6 p. 705). guerra de’ pugni: è appunto lo scontro storico (cfr. l’introduzione) tra le fazioni popolari di Venezia, in particolare quello tenutosi nel 1705 e sconfinato nel caos; de’ è la preposizione articolata dei dopo il fenomeno dell’apocope, la quale tuttavia merita l’apostrofo poiché la vocale decaduta è preceduta da un’altra vocale. 1. Mentre: il rapido lemma d’attacco, in variatio rispetto a quello del v. 9 Nel tempo stesso in cui, sottolinea un parallelismo di azioni esplicitato, quello cioè della pazza genia e dei molt’altri. pazza genia: accostamento ingegnoso, privo dell’articolo, come diffuso in poesia, genia sta a significare stirpe, razza, ma nel tempo assume una connotazione spregiativa, nel senso di banda, gentaglia (BATTAGLIA, vol. 6, pp. 663-64), come quivi intendibile, con pure pazza che, pleonastico, ribadisce questa sfumatura; si tratta del primo soggetto della quartina, compiente la prima azione. corre a’ dispetti: l’espressione è metaforica e rappresenta un verbo che regge un complemento di fine, il quale sostituisce brachilogicamente un’intera subordinata finale (ItalAnt, vol. 2, pp. 1375-79), di cui rimane soltanto l’accusativo dispetti, nel senso di soprusi, ingiurie (BATTAGLIA, vol. 4, pp. 733-34), privo dell’articolo, secondo una tendenza comune; a’ è la preposizione articolata ai dopo il fenomeno dell’apocope, la quale tuttavia merita l’apostrofo poiché la vocale decaduta è preceduta da un’altra vocale; il movimento alacre della corsa non risulta velocizzato, bensì solennizzato, dall’endecasillabo a maiori, tuttavia il ritmo è dato dall’alternanza di vocali doppie e consonanti geminate nel verso (mentre, pazza, corre e dispetti). 2. anzi, vola: è una correctio, situata, come di consueto tanto in latino quanto in italiano, in posizione anaforica, segnalata in questo caso dal tradizionale avverbio anzi (ItalAnt, vol. 1, pp. 262-63); non si tratta invero di un correre, bensì di un più celere e spedito volare, logicamente con valore metaforico. pugnar: arcaismo molto diffuso nella tradizione letteraria italiana, deriva dal latino PŪGNARE > vocalismo tonico ed atono pugnare (DELI, p. 1283), ossia combattere, scontrarsi (BATTAGLIA, vol. 14, pp. 907-08), ma quivi assume un di più di senso, poiché, un po’ per etimologia, un po’ per paronomasia, si ricollega alla guerra dei pugni svoltasi in quella giornata; è pure apocopato. sovra d’un ponte: sovra è spirantizzazione per il termine che, pur già esistente, nel latino tardo va a soppiantare SUPER, ossia SŬPRA > vocalismo tonico ed atono sopra > lenizione della p in b sobra > spirantizzazione della b intervocalica sovra (DELI, p. 1159); tale preposizione vuole l’ulteriore preposizione d’ in quanto secondaria (ItalAnt, vol. 1, pp. 625-29), dove d’ è elisione per di; il ponte, elemento urbano peculiare di Venezia, città dominata dai canali, è il luogo in cui, tradizionalmente, si avvia la guerra dei pugni, in particolare al cosiddetto ponte dei Pugni, presso campo San Barnaba, anche se, come si è già segnalato, è più plausibile che il nucleo del delirio di quel giorno sia l’altro, meno celebre, ponte dei Pugni, situato presso campo Santa Fosca. 3. sudan: in forma apocopata, sudare in questo caso vale stancarsi, affaticarsi (BATTAGLIA, vol. 20, pp. 492-93), quasi in senso ironico; essendo un verbo che, per traslato, indica il movimento, regge, grazie alla preposizione a, due infiniti, impoverir e vendicar, che hanno valore di subordinata finale implicita (ItalAnt, vol. 2, pp. 1092-94). molt’altri: in iperbato rispetto al verbo sudan, si tratta del secondo soggetto della quartina, compiente la seconda azione; si aggiunga poi l’elisione molt’ per molti. impoverir i tetti: l’uso metonimico di tetto per casa od in generale edificio risale alla tradizione latina e poi italiana, mentre l’espressione impoverire i tetti, quasi ironica, è in sé metaforica e rimanda ad una Weltanschauung che ha al centro gli oggetti, le cose, la materia, suscitando le immagini del denaro e della casa; impoverir è pure in apocope. 4. vendicar: anch’esso apocopato, l’espressione vendicar ingiurie ed onte è metaforica e rimanda ad una Weltanschauung che ha al centro gli individui, le persone, lo spirito, suscitando le immagini del conflitto e dell’insulto; il legame tra questo verso ed il precedente è scandito dall’enjambement. co’: si tratta della preposizione articolata coi dopo il fenomeno dell’apocope, la quale tuttavia merita l’apostrofo poiché la vocale decaduta è preceduta da un’altra vocale. sassi: assieme a coltelli e bastoni, sono le armi bianche più diffuse durante le zuffe, infatti il sopracitato decreto del 1574 ne vieta l’impiego, precedentemente lecito, durante la guerra dei pugni; ma l’uso di questo lemma, seppur storicamente sensato, è un necessario preludio alla chiusura ad effetto nell’ultima terzina. ingiurie ed onte: il sintagma è tradizionalissimo, tornando simile in Passavanti, Gherardi, Ariosto e Marino ed uguale in TEBALDEO, Rime, CXXXVII, 8, TASSO, Rinaldo, I 72, 6 e II 15, 4 e Rime, DCCCXIV, 12, MARINO, Galeria, CDLXIV, 7 e TASSONI, La Secchia Rapita, XI 1, 6 (LIZ); inoltre, è privo di articolo, secondo una prassi di largo uso, e forma un’endiadi, quasi a mo’ di zeppa; i due termini sono aulicismi che valgono insulti ed offese (BATTAGLIA, rispettivamente vol. 7, pp. 1043-44 e vol. 11, pp. 1015-17) e che derivano, in ordine, dall’univerbazione di ĬN e IŪRĬA(M) > vocalismo atono e tonico *ENIURIA > chisura di e protonica ed evoluzione di jod iniziale ingiuria, nel senso di contro il diritto, il primo e dal germanico *haujān il secondo, nel senso di schernire (DELI, rispettivamente pp. 781 e 1076). 5. reggia del mar: se uno degli appellativi tradizionale di Venezia è, oltre a “la Serenissima”, “la Regina del mare”, quivi si presenta una leggera variante, dovuta probabilmente a motivi metrici, che ricostituisce comunque una

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perifrasi; reggia comunica l’idea di sovranità, spiegando la lunga storia di dominio avuto dalla Repubblica veneta, mentre mar, apocopato, rende la spazialità, esplicando i termini geografici in cui il dominio veneziano si esercita. s’innalza un monte: oltre a marcare baroccamente l’antitesi tra mar e monte, l’espressione è una metafora per indicare il crearsi di una mole immensa, quasi un processo di orogenesi, però in modo arguto, con secentesco wit, dato che, normalmente, ci si aspetterebbe la semantica del mare, in termini come ondata, frangente, fiumana e marea; il genitivo di materia cui si riferisce, per enjambement, travalica questo verso ed arriva al successivo. 6. semivivi: è un vocabolo estraneo alla tradizione e peritamente barocco, quasi neologico, già presente come unicum in Boccaccio e Sannazaro, ma ripreso, sempre come ἅπαξ, da BRIGNOLE SALE, Maria Maddalena, III 22 e ROSA, Satire, La poesia, 719 (LIZ); l’orda, per metafora, si trasforma in una massa di persone in bilico tra la vita e la morte, forse per la loro carica distruttiva e priva di senno, che fa sopire la loro umanità, forse per il loro essere negletti ed in preda al duol, che li priva della loro parte vitale e li rende morti ambulanti. in preda al duol: sintagma canonizzato nei secoli XVI e XVII, riscontrato in ARETINO, Angelica, I 15, 2, TASSO, Rinaldo, V 7, 8 e 41, 4, STAMPA, Rime, CVC, 2 e MARINO, Lira XIV, 7 ed Adone, XII 260, 7 (LIZ), in preda è un modo di dire metaforico che vede il soggetto come vittima di un cacciatore, da intendere quale oppressi (BATTAGLIA, vol. 14, pp. 73-77), mentre duol, aulicismo, nel senso generico di sofferenza (BATTAGLIA, vol. 4, pp. 1030-31), apocopa la vocale finale del latino DŎLŬ(M) > vocalismo tonico ed atono duolo (DELI, p. 500). negletti: attributo riferito, in iperbato, a semivivi, significa tanto malmessi quanto dimenticati (BATTAGLIA, vol. 11, pp. 316-18), essendo comunque della parte popolana, appunto sciupata nelle condizioni fisiche e socialmente distaccata dalla borghesia e dal patriziato, predominanti in città, di cui si tratta; interessante ne è l’etimologia, provenendo da NEGLĒCTUM, il participio passato del latino NEGLIGĔRE, formato dall’univerbazione di NEC e LEGĔRE, ossia non accogliere, ovvero non curare (DELI, p. 1031); si noti inoltre come i due punti in posizione epiforica sottolineino un parallelismo di azioni implicito, per asindeto, che si sviluppa nei due stichi successivi (benché sia anche una scelta editoriale). 7. sta: il verbo indica una posizione statica, in antitesi al fuga affretti del v. 8, ed è posizionato in sede anaforica, quasi a dire che stia fisicamente tenendo le fila del testo; è inoltre il preludio alla terribile sinchisi che stravolge il verso, essendo necessario ordinare la turba più vil sta a fronte dei colpi. turba più vil: in parallelo al v. 8, la folla, diversificata ancora nel nome, in un barocco gioco di varianti, è quivi nella parte peggiore, con turba che ha prevalente senso negativo (BATTAGLIA, vol. 21, pp. 451-52) e vil che, in apocope, vale proprio spregevole, ignobile (BATTAGLIA, vol. 21, pp. 869-70); «turba» e «vil» si accostano in modo letterario già in BOCCACCIO, Corbaccio, 88, TEBALDEO, Rime, CCLXXXVI, 29, ARIOSTO, Orlando Furioso, XII 78, 6 e XXVI 40, 8, GUICCIARDINI, Storia D’Italia, XI 12, ARETINO, Marfisa, II 61, 6, TANSILLO, Canzoniere, II, 12 e VII, 300 ed in plurimi loci in tutto Tasso, tutto Marino e tutto Tassoni. dei colpi a fronte: in anastrofe tra di loro, a fronte indica letteralmente la parte del viso rivolta verso qualcosa e metaforicamente lascia intendere la volontà di misurarsi con esso, quindi va inteso come affrontare (BATTAGLIA, vol. 6, pp. 383-97), mentre dei colpi è l’accusativo, l’oggetto dell’azione a fronte di cui si sta, ovvero gli scontri, identificati per metonimia; l’espressione determina la parte della moltitudine che continua a combattere, sta in prima linea, prosegue nello scempio; si noti poi che la possenza e la pompa di quest’immagine sono intensificate dall’endecasillabo a maiori, usato per rallentare il tempo ed enfatizzare i contenuti, all’opposto del v. 8. 8. più sano stuol: in parallelo al v. 7, la frotta, ancora differita nell’appellativo, proseguendo il gioco variantista, è descritta con un iperbato ed un sigmatismo, rafforzato dal seguente sua, ma quivi nella parte migliore, con stuol che, lemma greco mediato dal latino STŎLŬ(M) > vocalismo atono e tonico stuolo (DELI, p. 1635), di rado ha senso negativo (BATTAGLIA, vol. 20, p. 425) e sano che indica proprio assennato, equilibrato (BATTAGLIA, vol. 17, pp. 522-24); presenta l’omissione dell’articolo, sostituito dal quantificatore; impossibile non notare anche la struttura a chiasmo dei vv. 7-8, con la turba più vil al fronte ed il più sano stuol in fuga, antitetica a livello concettuale ed accompagnata da una variatio della sintassi non solo a livello di disposizione lemmatica, ma anche in ambito periodico, dato che il primo verso ha una sola frase mentre il secondo mostra due verbi in rapporto subordinante. par: presentato in apocope, assume in tale contesto un valore attenuativo, come a dire sembra (BATTAGLIA, vol. 12 , pp. 592-96). fuga affretti: il sintagma indica una condizione dinamica, in antitesi allo sta del v. 7, ed è posizionato in sede epiforica, quasi a dire che stia fisicamente scappando dal testo; l’espressione determina la parte della moltitudine che rinuncia al combattimento, passa in ultima linea, anzi, essendo più furba, si allontana dai tumulti; si notino poi l’assenza dell’articolo, sostituito dall’aggettivo possessivo, e che la celerità e l’andamento di quest’immagine sono intensificate dall’endecasillabo a minori, usato per velocizzare il ritmo e far fluire il discorso, all’opposto del v. 7. 9. Nel tempo stesso in cui: la prolungata espressione d’attacco, in variatio rispetto a quella del v. 1 Mentre, sottolinea un parallelismo di azioni esplicitato, ossia la caduta dei templi dell’Amore e della chiesa di San Girolamo; stesso vale nel senso di medesimo, indicando identità (BATTAGLIA, vol. 20, pp. 165-66). divo Amore: con la maiuscola in quanto personificato, si tratta di Amore inteso come divinità mitologica, a guisa di Eros o Cupido, infatti divo è un aulicismo e deriva da una forma poetica di DĪVĪNŬM, ossia DĪVŬ(M) > vocalismo atono e tonico divo (DELI, pp. 487-88); l’espressione, se considerata con «divino», risale addirittura alla poesia latina ed è canonica per tutta la letteratura italiana.

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10. cadon: apocope per cadono, nel senso di crollano, franano (BATTAGLIA, vol. 2, pp. 489-95), è il centro della sinchisi sintattica, tra l’altro in bilico tra questo verso ed il precedente, legati in forte enjambement, per cui l’ordine della frase è i vivi tempii del divo Amore cadono. vivi tempii, estinti al basso: vivi tempii è una perifrasi per indicare i palazzi dei nobili dediti all’amore, anch’essi danneggiati dagli scontri; vivi ed estinti (assieme all’uso di cadono, più adeguato alle persone) tendono a rendere viventi ed umani tali templi, in realtà edifici inanimati, ma vivi si giustifica per enallage, riferendosi ai nobili, ed estinti si giustifica per metafora, indicando che la parte bassa, ossia il basamento, degli alti palazzi viene guastata; estinti al basso è dunque un participio congiunto a tempii, dove estinti è il verbo metaforico umanizzante, mentre al basso è un ablativo di limitazione; tempii è una forma non canonica di plurale per tempio, in quanto templi in italiano è un cultismo in cui il nesso di l si conserva, mentre quivi si è evoluto in nesso di jod (DELI, pp. 1675-76). 11. sen: è una forma sintetica, comune in poesia, che fonde assieme le parole se ne, ed ha funzione intensiva, servendo ad accrescere l’azione espressa dal verbo; se, il pronome riflessivo, ha valore di dativus incommodi od al massimo di dativo etico (ItalAnt, vol. 1, p. 141), nel senso di a proprio discapito, mentre ne fa le veci, duplicandolo e pronominalizzandolo, del complemento temporale al v. 9 nel senso di in quel tempo (ItalAnt, vol. 1, pp. 429-31). quel del più sovran dottore: si tratta, in un gioco barocco di scatole cinesi, di un giro di parole incastonato dentro un ulteriore giro di parole, infatti più sovran dottore è una perifrasi per enunciare Dio, sottolineata da più, che è un comparativo assoluto (ItalAnt, vol. 1, pp. 291-92 e 616), come a dire che non merita paragoni, da sovran, in apocope, ad indicare la regalità del personaggio, e da dottore, appellativo del sapiente per antonomasia, invece quel, apocope sillabica di quello, è un pronome dimostrativo che sostituisce i tempii dello stico precedente, dunque quel del più sovran dottore è una perifrasi che indica la chiesa di San Girolamo, ovvero il tempio di Dio; il parallelismo tra le due scene della prima terzina è sottolineato a livello retorico dal poliptoto cadon (v. 10) cade (v. 11); sovran dottore, sintagma prezioso, si trova soltanto in DELLA PIAGENTINA, Il Boezio Volgarizzato, XVI 3, il quale però è un testo di circolazione veneta, quindi conoscibile da parte dell’autore (LIZ). 12. Cristo: figlio di Dio e Dio stesso, vissuto in Palestina agli inizi del I secolo, è il personaggio storico più noto e rappresentativo della cristianità, di cui è il fondatore, tanto che qui è assurto a metonimia per indicare la chiesa, in particolare quella veneziana di San Girolamo, contro cui la calca inferocita sta scagliando pietre, finendo per farla incendiare. popol lasso: la prima parola, in apocope, è l’ennesima maniera di nomare la mole inferocita, identificandola ormai scopertamente con gli strati bassi della società, il popolo propriamente detto, invece la seconda indica affaticato e, di conseguenza, per traslato va a significare misero, disgraziato (BATTAGLIA, vol. 8, pp. 798-99), provenendo dal latino arcaico e popolare LĂSSŬ(M) > vocalismo tonico ed atono lasso (DELI, p. 851); il sintagma è in iperbato rispetto al verbo Tira sassate, privo d’articolo per prassi, e con esso forma un forte sigmatismo; simile, con popol ripristinato nella vocale finale, si presenta soltanto in BOCCALINI, Ragguagli Di Parnaso, I 67, 2, II 68, 2 e III 88, 2 (LIZ). 13. e Girolamo: Sofronio Eusebio Girolamo, santo e padre della chiesa di origine dalmata e di lingua latina, vissuto tra IV e V secolo, è un asceta ed esegeta biblico, famoso per aver compilato, mandante papa Damaso, la cosiddetta Vulgata, ovvero la traduzione quasi completa della Bibbia in latino, destinata a divenire canonica; la forma differisce da quella della rubrica, poiché quivi ha il normale esito italiano, con la i protonica; oltre al rilevante enjambement, si noti inoltre come la e sottolinei un parallelismo di azioni implicito, per polisindeto, essendo l’unica congiunzione, coordinativa (ItalAnt, vol. 1, pp. 252-53), della terzina, per di più priva di qualsivoglia punteggiatura (per scelta editoriale, esito anche di questo motivo). ancor: ha senso iterativo di nuovamente, ancora una volta (BATTAGLIA, vol. 1, pp. 447-48), dato che il santo è stato solito, nella sua vita terrena, adoperare qualcosa, il sasso, che ora sta adoperando di nuovo, un’altra volta (cfr. v. 14).

parve: nel testo risulta l’unico verbo usato al tempo passato, a mo’ di ἅπαξ, probabilmente al fine di creare un audace e voluto misunderstanding, poiché quivi vale sembrare (BATTAGLIA, vol. 12, pp. 592-96), nel senso che sembra quasi che Girolamo possa compiere un’azione tale, ma potrebbe anche valere apparire, in aferesi sillabica, nel senso che Girolamo appare, si manifesta a compiere ciò (BATTAGLIA, vol. 1, pp. 553-54). al rumore: forma brachilogica, che necessiterebbe di un verbo, qui invece ellittico (ItalAnt, vol. 2, pp. 1375-79), va inteso quale all’udire quel trambusto, in risposta a quella guerriglia contro di lui; si completa con questa espressione il rotacismo iniziato da Girolamo, ancor e parve. 14. scagliar: voce verbale di forte impatto, che avvia le allitterazioni di r ed s presenti in tutto lo stico ed esplica l’enjambement col verso precedente, è in apocope. qui in terra: espressione priva di articolo, sostituito dal localizzatore, secondo l’escatologia e la cosmologia cristiane, la dimensione in cui riposano le anime rette, come quelle dei santi, dopo la morte, è il Paradiso, che ha sede nell’alto del cielo, dunque il movimento che san Girolamo dovrebbe eseguire per gettar pietre è verticale e dalla sua sopraelevata sede approda al basso, appunto qui in terra, dove vive la ressa indemoniata, in implicita antitesi col Paradiso. pesante sasso: san Girolamo, nella sua tipica iconografia da anacoreta, solo, deperito e nel mezzo del deserto, è uso far penitenza colpendosi ripetutamente il petto con una pietra (cfr. J. GRIBOMONT, voce Girolamo, in Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane, a cura di A. DI BERNARDINO, Genova-Milano, Marietti, 20072, vol. 2, pp. 2262-68), il cui peso si colloca più a livello morale che fisico, metaforizzandosi; il parallelismo tra le due scene

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della seconda terzina è sottolineato a livello retorico dalla figura etymologica sassate (v. 12) sasso (v. 14); si tratta infine di un sintagma molto ricorrente ed esclusivo del XVII secolo, trovandosi in MARINO, Dicerie Sacre, II 4 ed Adone, XVII 146, 1 e BRIGNOLE SALE, Maria Maddalena, II 46 (LIZ).

3.3 (III) Ho letto un sonetaccio da barone

1. Il terzo testo preso in analisi tratta finalmente una tematica tout court satirica,

infatti il Dotti entra in competizione, degradandolo, con un altro personaggio, omesso nel

nome, di cui solo si sa che è un poetastro e che è una persona di un certo rango (in rubrica

cavallier). La satira parte presentando il Bresciano che ha letto di costui uno sgarbato

componimento (v. 1 sonetaccio), di quelli che scrivono le canaglie (v. 1 da barone), il quale

dimostra l’autore uno squilibrato (v. 2 matto), così il Dotti vuole palesarlo a tutti come un

giullare (v. 4 buffone). Inizia così ad insultarlo, tacciandolo di mancanza di capacità poetica

(v. 6 di giudizio non ha) e di essere proprio un inetto (v. 8 m<erda>). Scusandosi poi per i toni,

spiega che non c’è altro modo di presentare il rivale, poiché è la pura verità (v. 11 dattemi un

caval, se non son vere), e che lui, nei suoi componimenti, non ha disturbato nessuno oppure è

in grado superare gli stolti come quel poetastro (l’esegesi è dubbia, si consultino le note al

v. 14). L’operazione rientra così nella vena più aspra ed ostile della satira, in accordo alla

linea giovenalea tipica del secolo per questo genere letterario106, la quale è anche

l’andamento prediletto, ma non assoluto, della satira dottiana.

Il sonetto è impostato in modo vagamente teatrale, elemento barocco e ricorrente

nel Dotti107, poiché è indirizzato ad una prima persona, il c†† signor presente in rubrica,

volutamente nascosto da un’abbreviazione che non lascia intendere nomi propri; è in

risposta ad una seconda persona, il <pr>edetto presente in rubrica, accidentalmente nascosto

dal fatto che le poesie siano disordinate rispetto alla disposizione autentica, tra l’altro

inesistente nelle Satire, cosa che non permette di risalire a chi sia stato in precedenza citato

(ma, per lo meno, la risposta indica che esista una lirica di proposta, infatti, come tipico

della letteratura e molto tipico del Seicento, intere sezioni di sillogi poetiche sono dedicate

a proposte e risposte tra i poeti, in bilico tra l’essere amici o nemici); ed inscena una tesa

dialettica nel narratore, che parla del Bresciano o del suo contendente, platealmente

rivolgendosi all’audience, durante la quale cambia funambolicamente il soggetto, in quanto

principia con il Dotti in prima persona (v. 1 Ho letto e v. 3 io prendo patto), che si appella ad

un pubblico (v. 4 di farvelo conoscere), poi passa alla terza persona singolare, parlando del suo

rivale poetico (v. 6 non ha e v. 7 falla […] nel suo), quindi ritorna al punto di vista del Dotti

che si rivolge alla platea (v. 12 dattemi), infine termina con il Dotti in terza persona (v. 13 Se

106 Sul modello dell’Aquinate per la satira del XVII secolo si consultino U. LIMENTANI, La satira nel Seicento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1961, pp. 4-29 e G. ALONZO, La satira secentesca: modi, forme, questioni, Università statale di Milano, XXIV ciclo, a.a. 2010-11, tutoraggio e coordinazione di F. SPERA, pp. 47-66. 107 La teatralità della lirica barocca è segnalata in ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 44-48, mentre sul Dotti teatralizzante cfr. BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 262-64.

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il Dotti nelle sue). L’uso degli improperi108 si colloca in bilico tra il πρέπον della satira come

genere letterario, in particolare di quella secentesca, la quale è più saporita ed esplicita109

(ma già in L. ARIOSTO, Satire, VI 106, per esempio, in rima sottintesa, poi evitata,

s’intravedono parolacce) e l’allargamento del lessico tipico del Seicento, in particolare nella

vena del barocco sperimentale110 (si pensi, emblematicamente, alla Merdeide di Tommaso

Stigliani, che fin dal titolo palesa i propri toni); ad ogni modo, l’uso del turpiloquio ricorre

molto nel Dotti satiro, trovandosi, liberamente e ripetutamente, parole come merda, culo,

coglione, figa e cazzo. Inoltre, il testo presenta espressioni colloquiali ed informali, come un

dispregiativo (v. 1 sonetaccio), un indicativo in luogo del congiuntivo (v. 3 sebben ei s’asconde),

un rafforzativo che pare una zeppa (v. 6 ma nulla affatto) e parecchi modi di dire111, più o

meno letterariamente marcati, ossia fare un ritratto, avere giudizio, dare un cavallo, mettere le

groppiere alle cavalle, rompere i coglioni, cui si aggiunge l’impiego dei vocaboli sconci. Una

conclusione traibile, se si legge questa satirella con attenzione, non tanto nei contenuti,

quanto nella parte formale, linguistica e stilistica, è che essa non raggiunga le competenze

degli altri cinque sonetti: il clic spitzeriano non arriva affatto. Non è dunque parte piena del

barocco sperimentale, in quanto non è curata e pomposa come le altre, ma questo non la

ammette necessariamente tra le fila del barocco classicista o del restauro arcadico: è

semplicemente una composizione di pregio più modesto.

Risposta al>l< <pr>edetto / V’è un certo cavallier, ossia barone. A c†† signor

Ho letto un sonetaccio da barone

che convince l’autor assai per matto

e, sebben ei s’asconde, io prendo patto

4 di farvelo conoscere un buffone.

Stabilisce così la conclusione:

di giudizio non ha, ma nulla affatto,

e falla ben assai nel suo ritratto

8 se invece d’una m<erda> fa un coglione.

108 Essendo flebile la bibliografia (seria, s’intenda) in proposito, si consigliano G. CASALEGNO - G. GOFFI, Brutti, fessi e cattivi. Lessico della maldicenza italiana, Torino, UTET, 2005 e F. ROSSI, voce Parole oscene, in Enciclopedia dell’italiano, a cura di R. SIMONE, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2011, vol. 2, pp. 1060-62, da cui poi ricavare ulteriori riferimenti. Sulla letteratura dell’improperio nel Seicento, latamente fruibile è A. MARINI, Murtoleide, Marineide, Stiglianide et autres...«Merdeidi» marinestes et antimarinistes, in L’invective: histoire, formes, strategiés, Saint-Étienne, Publications de l’Université de Saint-Étienne, 2006, pp. 141-156. 109 Cfr. la nota 106. 110 Si rimanda alla recenziore mise à point di L. SERIANNI, La lingua del Seicento: espansione del modello unitario, resistenze ed esperimenti centrifughi, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. MALATO, Roma, Salerno, 1997, vol. 5, pp. 561-95. 111 Per i quali si è consultato O. LURATI, Dizionario dei modi di dire, Milano, Garzanti, 2001 (= LURATI).

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Ecco dell’argomento le maniere

con cui si provan le proposizioni,

11 e dattemi un caval, se non son vere.

Se il Dotti nelle sue composizioni

alle cavalle mise le groppiere,

14 qu<es>te non han già rotto li coglioni.

Postille metriche: sinalefe in letto un (1), asconde, io (3), conoscere un (4), nulla affatto (6), se invece (8), fa un (8), dattemi un (11) e Se il (12) e sineresi in io (3), suo (7) e sue (12). 1-8. Ho letto un indegno sonetto da imbroglione che fa passare l’autore alquanto per matto e, benché egli si nasconda, io giuro che ve lo farò risultare un poetastro. Così sancisce la [mia] conclusione: [egli] non ha buon senso, ma proprio alcuno, e sbaglia proprio molto nel suo presentarsi se al posto delle feci fa un testicolo. 9-14. Ecco i toni del ragionamento con cui si dimostrano le [proprie] affermazioni, e, se non sono vere, datemi uno schiaffo. Se il Dotti nelle sue poesie ha messo le groppiere alle cavalle, queste non hanno affatto rotto (aut non hanno almeno sconfitto) i coglioni (?).

*. al predetto: forse, inizialmente, il copista avrebbe voluto scrivere il nome per esteso del corrispondente, poi però ha cambiato idea, ma ha dimenticato di correggere all in al, come invece si è congetturato; le prime due lettere di predetto risultano di dubbievole comprensione. c: il manoscritto presenta un’abbreviazione, c seguita da due punti, davanti alla quale ci si è arresi. cavallier: ipercorrettismo di geminate, tra l’altro apocopato, per cavalier, il quale ha subito l’influsso francesizzante di chevalier in fine di parola < *CAVALLARIO spirantizzazione di b intervocalica < *CABALLARIO

vocalismo tonico ed atono < CABALLARĪŬ(M), che è latino volgare e tardo, indicando il cavallo da tiro, che sostituisce il nobile EQUUS, il cavallo da guerra (DELI, pp. 315-16); puntualizza un certo status sociale del figuro, dato che, fin dalla romanità, chi si può permettere il cavallo è un personaggio abbiente. barone: cfr. v. 1. 1. letto: il testo principia con la prima persona singolare di Bartolomeo Dotti, che sta parlando; la lettura di poesie è un’attività ludica tipica dell’epoca, in particolare per un personaggio come il Bresciano che è partecipe della vita galante e delle accademie letterarie, ambienti in cui circolano liriche manoscritte, stampate su fogli volanti od a stampa in plaquettes e tomi. sonetaccio: alterato dispregiativo (ItalAnt, vol. 2, pp. 1504-05) di sonetto, un genere metrico della poesia che diventa, per antonomasia, una poesia qualsiasi; presenta lo scempiamento delle geminate da sonettaccio, derivante appunto da sonetto, che entra in italiano come prestito dall’occitano e francese sonet, diminutivo di son, poiché le poesie, almeno nella tradizione gallica, sono canticchiate e musicate (DELI, p. 1158). da barone: in bilico tra ablativo di qualità e di origine o provenienza, indica briccone, imbroglione, baro appunto, sempre in modo spregiativo (BATTAGLIA, vol. 2, p. 78); l’etimologia è ancora incerta, ma sembra provenire dal germanico *baro, ossia uomo libero, subentrato nella “lingua del sì” tramite il galloromanzo baron, nel senso di persona che, svincolata, può fare quello che le pare (DELI, pp. 185-86). 2. che: è pronome relativo con funzione di soggetto (ItalAnt, vol. 1, pp. 475-76), riferentesi a sonetaccio, in lieve enjambement col verso precedente. convince per: in questo frangente significa fa passare per, induce a credere (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 730-31). l’autor: non è chiaro, e non si sa fino a che punto l’anfibologia sia voluta, se Dotti stia parlando di se stesso o del suo avversario; ciò che è palese, tuttavia, è che il lemma sia apocopato ed in assonanza con matto. assai: avverbiale, va inteso come moltissimo, parecchio (BATTAGLIA, vol. 1, pp. 745-46), in qualità di superlativo assoluto (ItalAnt, vol. 1, pp. 613-14). 3. sebben: introduce una subordinata concessiva, il cui verbo è s’asconde, e presenta apocope da sebbene; la congiunzione e implica un enjambement debole con lo stico anteriore. ei: si tratta del pronome personale di terza persona singolare egli, dopo il decorso dal latino volgare *ĬLLĪ >

vocalismo atono e tonico elli > evoluzione del nesso -llj egli > sincope ei (DELI, p. 509), e costituisce un

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toscanismo letterario tradizionale, diffuso in poesia sino all’Ottocento ed oltre; inoltre, è in antitesi, quasi agonistica, con io. s’asconde: indicativo anziché congiuntivo all’interno della concessiva, è un fenomeno del parlato, ma si trova anche in poesia; s’ è un’elisione per il riflessivo si. prendo patto: la iunctura, in pitacismo, è un’espressione metaforica, per indicare un giuramento, una promessa, attestata altrove, in terza persona plurale, solo in ROSA, Satire, La Pittura, 189 (LIZ); il soggetto, esplicitato, è io, che investe ancora il Dotti del ruolo di protagonista del sonetto. 4. di farvelo conoscere: subordinata completiva oggettiva di forma implicita, retta dal prendo patto al verso precedente in enjambement, il primo verbo è a sua volta un causativo che regge il secondo (ItalAnt, vol. 2, pp. 836-46 e BRAMBILLA AGENO, Il verbo nell’italiano, pp. 468-89); farvelo è formato dall’infinito fare, dall’accusativo -lo, pronome riferito ad ei, appunto colui che si vuole palesare, e da -ve-, variante, richiesta dalla grammatica storica, del dativo vi, il quale esplica la teatralità di questa poesia, come se si stesse rivolgendo ad un pubblico; conoscere vale risultare, emergere, intendere (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 575-77); infine, è in antitesi, quasi agonistica, con s’asconde. buffone: non indica genericamente una persona stupida e buffa, come nell’italiano attuale, bensì fa riferimento al buffone, tecnicismo per colui che nelle corti d’età medievale e moderna ha una precisa carica e, tramite azioni sceniche, che includono appunto la poesia, ha il compito di dilettare i committenti (BATTAGLIA, vol. 2, pp. 430-31), dunque il Dotti sta schernendo il suo avversario dichiarandolo un poetastro da strapazzo; curiosa l’etimologia, trattandosi di un accrescitivo dall’onomatopeica radice *buff, a guisa di gonfiamento delle gote per provocare il riso (DELI, p. 258). 5. Stabilisce: etimologicamente significa rendere stabile, quindi va recepito come delibera, sancisce (BATTAGLIA, vol. 20, pp. 18-20); in coppia con conclusione, seppur in altri tempi e persone, non si trova prima di GALILEI, Dialogo, III 2 e 3 e III 24, che sembra aver stabilizzato la dicitura per la seguente prosa secentesca (LIZ). così: nel senso terminale di in tal modo (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 883-86); va in assillabazione col successivo conclusione ed è in anastrofe con stabilisce, lasciando conclusione volutamente dislocato in sede epiforica, per conferire enfasi. conclusione: dopo una sorta di ragionamento non esplicitato, si arriva ad una conclusione che la logica definirebbe apodittica, ovvero così evidente da non necessitare di dimostrazione; peccato che il Dotti ometta di stare riportando la propria personale risoluzione, ovvero il suo punto di vista sul poeta rivale, per rendere la successiva sentenza più oggettiva e categorica. 6. di giudizio: genitivo partitivo (ItalAnt, vol. 1, p. 653), retto dal successivo ha, nell’italiano letterario è un cultismo, però a quest’altezza cronologica può anche essere un francesismo; aver giudizio è quasi un modo di dire, metaforico, indicante avere capacità critica, ma qui è un tecnicismo tipico del Seicento (cfr. J. BRODY, Constantes et modèles de la critique anti-maniériste à l’âge classique, in ID., Lectures classiques, Charlottesville, Rookwood, 1996, pp. 17-40) che indica il talento artistico, dato che, nella retorica classica (a partire da Quint. Instit. Orat. VIII 3, 56), iudicium ed ingenium individuano proprio le due componenti di chi scrive, quella contenitiva ed ordinatrice e quella estrosa ed irrazionale (cfr. E. R. CURTIUS, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern, Francke, 1948, letto come E. R. CURTIUS, Letteratura europea e Medio Evo latino, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 325-34). non ha: in questo punto si passa al narratore che parla in terza persona dell’antagonista del Dotti; è in iperbato rispetto a di giudizio. ma nulla affatto: l’espressione ha valore tanto rafforzativo quanto olofrastico e significa proprio per niente, in nessun modo (BATTAGLIA, vol. 1, p. 200), tenendo presente che nulla vale come avverbio che indica la negazione mentre affatto è ciò che ne esplica il significato, altrimenti positivo; interessante l’etimologia di affatto, creazione italiana dall’univerbazione, con raddoppiamento fonosintattico, di a fatto, nel senso di stando proprio così i fatti (DELI, p. 65); inoltre, si notino l’uso delle consonanti doppie in interno di parola e l’allitterazione delle nasali, in specie se si congiunge l’emistichio con il non precedente. 7. falla: aulicismo, ha radice indoeuropea e deriva dal latino tardo FALLĀRE, variante di FĂLLĔRE, poiché FALLA(T) > vocalismo atono e tonico falla (DELI, p. 557), significando errare, sbagliare (BATTAGLIA, vol. 5, pp. 594-96); prosegue la narrazione in terza persona; inoltre, una quasi rimalmezzo lo accomuna a nulla e la congiunzione e lega lo stico a quello precedente, in modo leggero, per enjambement. ben assai: sintagma rafforzativo, ben è apocope per l’avverbio bene, nel senso di pienamente, prorpio, con in più valore antifrastico (BATTAGLIA, vol. 2, pp. 161-67), invece assai, anch’esso avverbiale, va inteso come moltissimo, parecchio (BATTAGLIA, vol. 1, pp. 745-46), al grado di superlativo assoluto (ItalAnt, vol. 1, pp. 613-14); l’espressione si trova quasi esclusivamente, all’interno dell’intera letteratura italiana, nel Boccaccio in prosa, in infiniti loci (LIZ). nel suo ritratto: ablativo di limitazione, indica ciò in cui il contendente poetico falla, ossia quando parla di sé, quando si presenta, appunto, in metafora, o quasi modo di dire, fa il suo ritratto, come se dall’emistichio mancasse, per ellissi, il verbo fare, mentre suo indica ancora una volta il punto di vista esterno sul poetastro; volendo, nel suo ritratto può esser inteso come complemento di luogo del verbo fa situato allo stico successivo. 8. invece: vale proprio nel senso di al posto di, in luogo di (BATTAGLIA, vol. 8, p. 402); unito a se, crea una iunctura avversativa, posta tradizionalmente in sede anaforica in poesia, nonché un tenue enjambement col verso precedente.

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merda: il manoscritto presenta una m seguita dai due punti, però qualsiasi tentativo di scioglimento dell’abbreviazione rimane vano, tanto che anche il Cappelli (cfr. A. CAPPELLI, Dizionario di Abbreviature latine ed italiane, a cura di M. GEYMONAT - F. TRONCARELLI, Milano, Hoepli, 20117, p. 208) presenta un’abbreviazione molto simile e la data a partire dal XV secolo, ma la risolve in mistura, mortalis, moneta, inaccettabili sia per il contesto, sia per la lunghezza; si è allora congetturato, senza in realtà certezza alcuna, in merda, poiché ridà senso, come vuole la circostanza, è una parola bisillabica e piana, come vuole la metrica (se si assumono per valide le sinalefi), è femminile, come vuole la grammatica(essendoci d’una accanto), e viene tranquillamente impiegata dal poeta (DOTTI, Satire, vol. 2, p. 95); inoltre, anzitutto il Bresciano, quando usa gli spropositi, li affastella tutti nello spazio di pochissimi versi, come qui avverrebbe, quindi è lui stesso a scusarsi, implicitamente, nella terzina successiva, per i toni adottati, infine, forse, è il copista del testo ad averlo censurato, non potendo epurare le altre parolacce poiché sono in sede di rima e conferiscono significato al sonetto (ed in contesto letterario è prassi, per finezza, accennare soltanto tali lemmi, cfr. G. CARDUCCI, Lettera a Giuseppe Chiarini - San Miniato, 22.VII.1857, «questi letteratucci imbecilli che stimo men della m.»); si tratta dunque di un improperio per feci (BATTAGLIA, vol. 10, p. 151); si noti inoltre l’elisione d’una per di una. coglione: turpiloquio per testicolo (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 264-65), il suo etimo è discorde ma pare il latino CŌLĔUS, nel senso di sacca, contenitore, filtrato dal tardo COLĒŌNE(M) > vocalismo atono e tonico *COLEONE > chiusura di e protonica *COLIONE > evoluzione del nesso di liquida e jod coglione (DELI, p. 355); in coppia con l’ipotetico merda, l’espressione varrebbe a dire che l’antagonista del Dotti sbaglia se, quando si presenta al pubblico, fa delle feci al posto di un testicolo, poiché le feci sono il prodotto, in atto, mentre il testicolo è il produttore, in potenza, dunque, se volesse davvero dar prova di sé, come il poeta Bresciano vuole, al fine di metterlo in ridicolo, dovrebbe darsi della merda e non del coglione; inoltre, l’intero fa un coglione è in iperbato rispetto al resto della frase. 9. Ecco: stilema di derivazione biblica (sia ebraica, sia greca, sia latina, ma è molto usato anche da Virgilio e dagli epici flavi), che tramite Dante è presentissimo nella lirica italiana, si trova in posizione anaforica dopo una pausa forte, a designare un rapido mutamento di scena; ciononostante, a questa altezza cronologica può anche essere un prestito dell’usatissima prassi francese del voilà; ciò ch’è certo è la sua funzione deittica. dell’argomento: vale a dire ragionamento, argomentazione (BATTAGLIA, vol. 1, pp. 648-50), appunto il processo che giustifica il pessimo giudizio appena enunciato sul poeta concorrente. le maniere: in anastrofe col precedente dell’argomento, in questo contesto significa atteggiamenti, toni, modi (BATTAGLIA, vol. 9, pp. 676-82), come se il Dotti si accorgesse di aver esagerato ma, stizzito e sincero al contempo, non ha saputo rinunciare agli improperi. 10. con cui: apre una subordinata relativa strumentale (ItalAnt, vol. 1, pp. 479), allitterando il fonema [k]. si provan: il si ha valore passivante (ItalAnt, vol. 1, pp. 151-60), nel senso di vengono saggiate, sono dimostrate (BATTAGLIA, vol. 14, pp. 772-77); presenta inoltre apocope di vocale finale ed, assieme a proposizioni, un forte pitacismo. proposizioni: in iperbato rispetto al resto dello stico, ancora una volta il poeta sottintende che sta adottando il proprio punto di vista e fa passare il suo messaggio per oggettivo, valendo questo sostantivo come affermazioni, asserzioni (BATTAGLIA, vol. 14, pp. 658-60); in coppia con provare, seppur in altri tempi e persone, non si trova prima di GELLI, I Capricci Del Bottaio, II 32, che apre la via al Tasso prosaico, a Bruno ed a Galileo (LIZ). 11. dattemi un caval: l’emistichio, giocato sulla vocale a, contiene un lemma in ipercorrettismo di geminate, dattemi, dall’imperativo DĂTĒ > vocalismo atono e tonico date (DELI, p. 431), con -mi che indica il dativo di termine a me e la seconda persona plurale che si appella all’audience, nella teatralità di questo sonetto, ritornando al punto di vista del Dotti, ed un lemma in apocope sillabica di fine di parola, ossia caval; rappresenta l’apodosi, all’imperativo presente, del periodo ipotetico di grado zero, la cui protesi è nel resto del verso; dare un cavallo è un modo di dire panitalico diffuso sin dal Medioevo, basato sulla pratica di quei tempi di trascinare un condannato al luogo del supplizio attaccandolo con una corda ad un cavallo, che va a significare flagellare, dar frustate, sculaccioni, schiaffi (LURATI, pp. 149-52), quindi quivi vale pressappoco prendetemi a schiaffi; si noti infine un debole enjambement col verso precedente. se non son vere: l’emistichio, giocato sulle vocali o ed e, è una subordinata ipotetica di grado zero, all’indicativo, e forma una sorta di αδύνατον trattenuto, come a dire di non dargli alcun ceffone poiché le sue seppur pesanti affermazioni corrispondono alla verità. 12. Se il Dotti: il punto di vista, chiudendo la funambolicità sperimentale della lirica, torna quello del poeta, ma inteso dal di fuori, parlando il narratore di sé alla terza persona.

composizioni: vale a dire composizioni poetiche, appunto poesie (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 422-23), probabilmente riferendosi alle sue Satire; si ricollega per enjambement al verso successivo.

13. mise: nel testo risulta l’unico verbo usato al tempo passato, a mo’ di ἅπαξ (se si esclude il passato prossimo Ho letto al v. 1, che comunque, nell’aspetto verbale, ha valore puntuativo), con valore durativo. alle cavalle le groppiere: le cavalle sono semplicemente gli esemplari femminili del cavallo, scelte in questo contesto poiché più inclini, dentro un pregiudizio misogino plurisecolare, a ricevere finimenti ed imbellettature, infatti le groppiere sono una parte meramente ornamentale della bardatura del cavallo, costituita da una striscia di cuoio che, fissata alla sella, corre lungo la groppa e gira intorno alla coda (cfr. S. PASSERI, voce Equitazione, in Enciclopedia dello sport, a cura di G. GOGGIOLI, Roma, Edizioni Sportive Italiane, 1964, vol. 4, pp. 441-80 e

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BATTAGLIA, vol. 7, p. 60); seguendo il metaforico modo di dire “Il fatto dei cavalli non sta nella groppiera”, per cui il fondamento della cosa non sta nell’apparenza (BATTAGLIA, vol. 7, p. 60), l’espressione potrebbe lasciar intendere che il Dotti mette gli ornamenti, che sono l’apparenza, ossia le groppiere, alle tematiche delle sue poesie, che sono il fondamento, ossia le cavalle, quasi a dire che il poeta sia stato tacciato di uno stile troppo pomposo (magari proprio dal suo avversario), comunque la conclusione esplicativa di questo ἀπροσδόκητον è concentrata nell’ultimo verso; si noti inoltre la sinchisi, dovendo riordinare la frase in mise le groppiere alle cavalle. 14. queste: il manoscritto presenta due lettere incomprensibili, che si possono emendare in es, formando un pronome dimostrativo che sostituisce le composizioni del v. 12. non han già: tra i tanti significati di già, in frase negativa quelli più aderenti paiono per niente, null’affatto da un lato e tuttavia, almeno dall’altro (BATTAGLIA, vol. 6, pp. 748-50), due varianti che si adeguano alle due proposte riportate in seguito; han è apocope sillabica per hanno. rotto li coglioni: li è l’articolo determinativo maschile plurale i, dal latino volgare *(ĬL)LĪ > vocalismo atono e tonico li, nella fase antica dell’italiano, prima dell’evoluzione in gli ed i (DELI, p. 711), e costituisce un arcaismo poco usato in poesia se non alle origini; su storia e significato di coglioni si rimanda al v. 8; metafora e modo di dire alquanto volgare, può indicare in prima e probabile ipotesi, che, considerando già nel senso di affatto, i testi, pur imbellettati, del Dotti non hanno affatto disturbato nessuno, affermazione palesemente falsa ma che, nella retorica del duello verbale, dove la manipolazione è ammessa, diventa lecita, oppure, in seconda ed eventuale ipotesi, che, considerando già nel senso di almeno, i testi, pur imbellettati, del Dotti non hanno almeno surclassato i disgraziati come il suo rivale (e bisognerebbe congetturare un punto interrogativo a fine frase, non presente nel manoscritto e necessario a giustificare il non, trattandosi di una frase interrogativo-negativa).

3.4 (IV) Sul sacro d’Adria impareggiabil rostro

1. Il quarto testo preso in analisi tratta l’esito positivo di un invito, rivolto a padre

Giovanni Battista Simonetti, affinché venisse a predicare in una chiesa di Adria, esaltando

in modo eroico l’omelia da lui tenuta. Il sonetto rientra così nella sottocategoria

dell’ἔπαινος, ovvero dell’elogio, da sempre diffuso nelle letterature di ogni spazio e

tempo112, ma particolarmente apprezzato in epoca barocca113, secolo di convenzioni e di

venduti, che ha dunque permesso la fioritura di moltissima poesia di pregio (tanto che

intere sezioni di sillogi constano di occasioni di lode, come avviene ad esempio nelle

Eroiche delle Rime e poi della Lira di Marino). Due precisazioni in proposito meritano allora

particolare attenzione.

In primo luogo la figura di Giovanni Battista Simonetti, su cui purtroppo non si è

riusciti a far luce114, potendo dire soltanto che si tratti di un sacerdote dell’ordine gesuita,

nato nel 1661, il quale ha tenuto un panegirico su san Francesco di Sales nei pressi di

Macerata nel 1707115 ed il quale ha tenuta un’omelia dai toni probabilmente bellicosi (se

112 Si rimanda a due celebri status quaestionis del sottogenere, ossia per il mondo antico classico il monumentale L. PERNOT, La rhétorique de l’éloge dans le monde gréco-romain, 2 voll., Paris, Institut d’études augustiniennes, 1993, mentre per il mondo antico cristiano il breve ma denso C. MAZZUCCO, Vino nuovo e otri vecchi. Per una ricerca sull’encomio cristiano, in De tuo tibi. Omaggio degli allievi a Italo Lana, Bologna, Pàtron, 1996, pp. 451-478. 113 Utile sulla tematica G. GETTO, Barocco in prosa e in poesia, Milano, Rizzoli, 1969, pp. 62-63. 114 Il suo nome non compare nei grandi strumenti che permettono l’individuazione dei personaggi noti a livello nazionale, come il Dizionario biografico degli Italiani, 82 voll. (attuali), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960- e l’Indice biografico italiano, a cura di T. NAPPO - P. NOTO, 4 voll., München-Leipzig, Saur, 1993, e neppure nei repertori di quadri locali, come, in questo caso, Storia della cultura veneta, a cura di G. ARNALDI - M. PASTORE

STOCCHI, 10 voll., Vicenza, Neri Pozza, 1976-86. Una piccola risposta arriva nondimeno dal catalogo Opac (http://www.sbn.it/opacsbn/opac/iccu/free.jsp, ultimo accesso il 2.III.2015), che ha permesso di individuare la stampa di un discorso di questo personaggio, ovvero G. B. SIMONETTI, L’enigma di una straordinaria santità, Macerata, Silvestri-Sassi, 1707, presente in copia unica alla Biblioteca comunale Augusta di Perugia. 115 Tali due informazioni derivano appunto da SIMONETTI, L’enigma di una straordinaria, p. 1.

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non è il Dotti, per amplificatio, a deformarne l’aspetto) nei pressi di Adria, come afferma il

presente sonetto, che, se genuinamente dottiano, non può che essere anteriore alla sua

morte, giunta nel 1713. Padre Simonetti, tra i suoi vari incarichi, deve aver avuto anche

quello di predicatore itinerante, così o è stato appositamente richiesto in una particolare

occasione per sfoggiare le sue doti omiletiche in Adria, o, durante un trasferimento, ha

condisceso a trattenersi in Adria per la predica. È del resto innegabile che ciò costituisca

una prassi compiacente alle norme dei gesuiti: si tratta di un ordine di chierici regolari

fondato a Parigi nel 1534 dallo spagnolo sant’Ignazio di Loyola, sulla scia della incipiente

Controriforma, con un successo ed una diffusione senza pari in Europa, il quale intende il

sacerdozio come milizia religiosa; esso smuove gran parte dei fondamenti

dell’organizzazione monastica, come la residenza per tutta la vita in una medesima

comunità, le decisioni prese a maggioranza da tutti i membri riuniti in capitolo e l’elezione

del proprio superiore da parte di ogni gruppo, aprendosi al mondo, stando ai diretti ordini

del papa e specializzandosi nelle missioni di evangelizzazione, dalle Americhe alla Cina, e

nei vari gradi dell’istruzione, dalle odierne elementari all’università collegiale116. Si noti,

inoltre, in accordo all’étiquette dell’epoca117, come a tale personaggio ci si rivolga sempre

dando “del voi”, e non “del lei” (v. 9 v’, v. 11 voi e v. 12 vostro).

In secondo luogo la localizzazione della chiesa adriese, su cui purtroppo non si è

riusciti a far completamente luce118. Dando per scontato che il «San Lorenzo» citato in

rubrica non sia il nome del pulpito, magari effigiato o scolpito con le storie di quel santo

da qualche artista locale di cui non v’è traccia, bensì il nome della chiesa in cui il pulpito

giace, non risulta esistere nella città di Adria, all’epoca parte dello Stato Pontificio119,

alcuna chiesa, né in passato né in presente, dedita a san Lorenzo. Tuttavia, ampliando la

ricerca alla diocesi di Adria, si sono riscontrati ben quattro sacri edifici che, in quel

periodo, ancor oggi, ma non dalle origini, sono stati tributati a quel santo. La prima è la

chiesa arcipretale di San Lorenzo di Occhiobello, all’epoca chiamato Le Casette, un

paesino a 25 chilometri circa da Adria. Questa struttura è spaziosa, storica e famosa,

essendo la parrocchia che sorge nella piazza centrale della città, essendo un edificio

immenso e contenendo al proprio interno opere di famosi pittori e scultori locali. La

116 Sui gesuiti è sufficiente rimandare a M. FOIS - I. IPARRAGUIRRE - C. POZO - N. GONZÁLES-CAMINERO - G. GARAND - R. AGUILÓ - F. TROSSARELLI - V. MARIANI, voce Compagnia di Gesù, in Dizionario degli istituti di perfezione, a cura di G. PELLICCIA - G. ROCCA, Roma, Edizioni Paoline, 1975, vol. 2, pp. 1262-1343 ed all’aggiornata ed approfondita monografia W. V. BANGERT, Storia della Compagnia di Gesù, Genova, Marietti, 20092, da cui ricavare la bibliografia indiretta. 117 Cfr. L. LORENZETTI, voce Appellativi e epiteti, in Enciclopedia dell’italiano, 2010, vol. 1, pp. 90-92. Utile anche la parte sulla deissi sociale del voi in Grammatica dell’italiano antico, a cura di G. SALVI - L. RENZI, Bologna, Il Mulino, 2010, vol. 2, pp. 1296-97. 118 Si è impiegato il più pratico e recente inventario A. GABRIELLI, Comunità e chiese nella diocesi di Adria-Rovigo, Roma, Ciscra, 1993, pp. 89-90, in appoggio al colossale G. CAPPELLETTI, Le chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, Venezia, Antonelli, 1854, vol. 10, pp. 9-102 ed al sistematico sito delle Chiese italiane (http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane, ultimo accesso il 2.III.2015), dove tuttavia il primo non la riporta col proprio nome, mentre il secondo dà quattro esiti. 119 Sull’argomento, non si può prescindere da Diocesi di Adria-Rovigo, a cura di G. ROMANATO, Padova, Gregoriana, 2001.

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seconda è la chiesa di San Lorenzo di Canalnovo, frazione di Villanova Marchesana, un

paesino a 10 chilometri circa da Adria, con cui confina. Pur in stretti rapporti con la grande

città, si tratta di una chiesetta piccola e sobria. La terza è la chiesa di San Lorenzo di

Cavazzana, frazione di Lusia, un paesino a 35 chilometri circa da Adria. Si tratta di una

chiesa parrocchiale, ma non è la principale della località, situandosi in una frazione;

tuttavia, è molto maestosa e ben artisticamente curata. La quarta è la chiesa di San Lorenzo

di Selva, frazione di Crispino, un paesino a 15 chilometri circa da Adria. Tale edificio

all’epoca non è stato altro che una chiesetta isolata. A livello di ipotesi, non potendo il

pulpito essere usato come discrimine, dato che lo possiedono tre edifici su quattro,

carendone allora ed adesso solo la struttura di Selva, si può dunque immaginare che la

chiesa in cui padre Simonetti abbia esposto la sua omelia sia o l’arcipretale di San Lorenzo

di Occhiobello, non vicinissima ad Adria, però più nota a livello locale ed

architetturalmente più predisposta alla scena, date le dimensioni e la cura artistica, o quella

di San Lorenzo di Cavazzana, assai legata ad Adria e, pur piccola, posseditrice di quello che

può sembrare un chiostro (anche se il fatto non è limpido, dato che l’immobile potrebbe

sembrare una cascina in corte), residuo di un oratorio malridotto già nel Settecento, come

vorrebbe, se inteso letteralmente, il testo del sonetto (vv. 3-4 ch’induce a lacrimar […] / […]

il chiostro?).

2. Il sonetto si apre con la registrazione di un’omelia così appassionata (v. 2 aurea

voce) da portare tutti i presenti al pianto (v. 3 ch’induce a lacrimar) e fa seguire un lacerto della

predica, inneggiante alla guerra contro il male (v. 6 movere a Satàn conflitto atroce), così che gli

ascoltatori si trasformino in un fedele e compatto esercito del bene (vv. 7-8 Fu […] /

esercito a seguirvi il popol nostro). Il Dotti torna poi indietro nella prima terzina a segnalare

l’invito all’eccelso predicatore affinché tenga l’omelia (v. 9 Noi v’invitiamo), mentre nella

seconda, rientrando all’odierno, conferma le aspettative di eccezionalità stimate in

precedenza (v. 14 il primo aver predicator del mondo). Se la prima parte del testo, alle quartine, è

più ricca di πάθος, facendo leva sulla voce toccante e sull’immagine delle lacrime ai piedi

della croce, elementi che stuzzicano i sentimenti120, la seconda parte, alle terzine, si

concentra invece sulla doctrina, la quale sobilla l’intelletto, chiamando implicitamente in

causa i concetti antichi di πρῶτος εὐρετής o primus ego e di πρέπον o decorum. La prima di tali

nozioni121 designa l’ansia, tipica dei Greci e dei Latini, di trovare lo scopritore, il solo ed

unico, colui che andrebbe messo al primo posto in una classifica, riguardo ad una

determinata questione; essa si esprime in un τόπος diffuso fin dagli autori classici arcaici e

poi stigmatizzato da Arist. Rhet. 1368a 10-13, non sconosciuto nel Medioevo ma

fortemente ripreso in età umanistica e rinascimentale, per esplodere nella lirica del Cinque-

120 Interessante contributo, tra linguistica e poetica, risulta in proposito R. DACHSELT, Pàthos. Tradition und Aktualität einer vergessenen Kategorie der Poetik, Heidelberg, Winter, 2003. 121 Per la quale si consulti A. KLEINGÜNTHER, Pròtos euretès. Untersuchungen zur Geschichte einer Fragestellung, Leipzig, Dieterich, 1933.

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Seicento, epoca di primi uomini come Colombo e Galileo (si pensi a G. B. MARINO,

Adone, X 45 e G. B. MARINO, Galileo Galilei, in Galeria). Esposto in prima battuta a tratti

brevi e per litote (v. 11 a nessun […] secondo), in seconda per anadiplosi lungo due interi

versi (vv. 13-14 il primo […] / il primo […]), viene adoperato per indicare il primato tanto

della chiesa di San Lorenzo e del suo pulpito, quanto di padre Simonetti, il predicatore. La

seconda nozione122 individua invece l’idea retorica secondo cui, quando due realtà sono

messe in relazione, devono tra di loro risultare adeguate, proporzionate, opportune, nel

senso di concordi ed appropriate l’una con l’altra; tale concetto viene stigmatizzato nel

pieno senso a partire da Panezio, è ampiamente usato nell’etica e nell’estetica classica

antica e non è mai abbandonato nelle età medievale e moderna, durante le quali è più noto

quale principio di convenientia. Di conseguenza, il luogo dell’omelia ed il fautore dell’omelia

sono tra loro appropriati e concordi (vi allude, pur riferendosi ad altro, il v. 12 Convenne),

poiché tanto è insuperabile il pulpito (v. 13 primo pergamo del mondo), quanto lo è il

divulgatore (v. 14 il primo […] predicator del cielo). Queste due astrazioni sono concentrate ed

esplicitate pressoché nell’ultima terzina, a fornire, ancora una volta, una chiusa

stupefacente, il solito colpo di fiamma wit della lirica sperimentalista del Seicento123.

Altri costituenti chiave della presente lirica sono, in ambito formale, la teatralità, la

tortuosità sintattica e l’asindeto, dove il primo elemento è fortemente barocco, il secondo

non esclusivamente ed il terzo non necessariamente. Della scenicità secentesca e dottiana,

a proposito della quale si è già parlato124, fanno parte, al di là delle immagini da

melodramma della commozione nella prima quartina e del militare nella seconda, l’uso dei

deittici diretti, come gli aggettivi possessivi e dimostrativi ed i pronomi personali, alcuni

anche in sede epiforica (v. 2 quest’, v. 5 vostro, v. 8 nostro, v. 9 Noi e v’, v. 10 questa, v. 11 ella e

voi, v. 12 nostro e vostro), ma soprattutto l’uso del discorso diretto, tratto non occasionale in

Bartolomeo Dotti, filologicamente congetturato in ben due luoghi del sonetto (quello

incipiente al v. 5 serve a giustificare l’uso di vostro, mentre quello che comincia al v. 9 è

necessario per motivare il Noi v’invitiamo, inoltre entrambe le espressioni sono apostrofi,

degne quindi del discorso diretto). Benché non si limiti nell’uso alla corrente barocca dei

concettisti, il gusto della confusione sintattica è da questi ampiamente praticato125 e questo

testo ne è un emblema alquanto marcato, essendo infatti funambolicamente presenti al v. 1

un’energica sinchisi, al v. 4 un lungo iperbato, al v. 5 un’altra sinchisi, al v. 6 un breve

iperbato, ai vv. 7-8 una funambolica sinchisi stesa su due stichi, al v. 10 un iperbato in

reject, al v. 12 un altro iperbato, al v. 13 un altro iperbato ancora ed al v. 14 un’anastrofe.

Innegabile è infine l’impiego, davvero peculiare per questa lirica, dell’asindeto, che ricorre

ben quattro volte (v. 1, v. 4, v. 7 e v. 11, di cui solo quello al v. 1 è privo di punteggiatura), 122 Per la quale si consulti M. POHLENZ, Tò prépon. Ein Beitrag zur Geschichte des griechischen Geistes, Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1933. 123 L’esprit conclusivo, stilema tipico del concettismo, è segnalato in ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 63-64. 124 La teatralità della lirica barocca è sempre in ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 44-48, mentre il Dotti teatralizzante è trattato da BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 262-64. 125 ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 65-68.

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creando un effetto di ridondanza e sontuosità che lascia poi alla prosodia del singolo

endecasillabo il compito di imprimervi velocità andante o gravezza solenne.

Al padre Giovanni Battista Simonetti, / predicatore della Compagnia di

Giesù, per il numeroso / uditorio, nel pulpito insigne di San / Lorenzo

Sul sacro d’Adria impareggiabil rostro,

chi mai trasse a suonar quest’aurea voce

ch’induce a lacrimar sotto la croce

4 la nobiltà, la plebe, il clero, il chiostro?

«Che la tromba di Dio fi’ l’orar vostro,

per movere a Satàn conflitto atroce».

Fu immenso, innumerabile, veloce,

8 esercito a seguirvi il popol nostro.

«Noi v’invitiamo, apostolo facondo,

su questa gran ringhiera del Vangelo:

11 a nessun ella, a nessun voi secondo».

Convenne il nostro invito al vostro zelo:

doveva il primo pergamo del mondo

14 il primo aver predicator del cielo.

Postille metriche: sinalefe in Adria impareggiabil (1), trasse a (2), induce a (3), plebe, il (4), clero, il (4), movere a (6), conflitto atroce (6), Fu immenso (7), immenso, innumerabile (7), esercito a (8), seguirvi il (8), invitiamo, apostolo (9), ella, a (11), Convenne il (12), nostro invito (12), invito al (12), doveva il (13) e primo aver (14) e sineresi in Adria (1), aurea (2) e Dio (5). 1-8. Chi mai ha iniziato ad emettere sul santo [e] senza eguali pulpito di Adria questa voce toccante, che porta i nobili, il popolo, i religiosi e la chiesa [tutta] a lacrimare al basamento della croce? «Il vostro pregare sarà la tromba di Dio, per condurre una dura guerra contro Satana». La nostra gente, nel seguirvi, è stata un esercito immenso, numeroso e pronto. 9-14. «Noi vi invitiamo, o predicatore eloquente, su questo importante pulpito: voi e quello non [siete] secondi a nessuno». Il nostro invito si è confatto alla vostra sollecitudine: il primo pergamo del mondo doveva avere il primo predicatore del cielo.

*. padre Giovan Battista Simonetti: è il sacerdote gesuita, appellato con il titolo reverenziale di padre, come da galateo religioso, che ha tenuta la predica (cfr. l’introduzione). Compagnia di Giesù: si tratta appunto dei gesuiti (cfr. l’introduzione), ordine di cui padre Simonetti fa parte; Giesù è un errato esito di jod iniziale da *IESU(M) vocalismo tonico ed atono < IĒSŪ(M) (DELI, pp. 650-51), diffusissimo sino al Sette-Ottocento per questo lemma e quasi cristallizzato nell’espressione in oggetto (BATTAGLIA, vol. 6 pp. 711-12).

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pulpito insigne di San Lorenzo: il pulpito è la zona sopraelevata da cui si predica e si fanno le letture, presente nelle basiliche tardoantiche, poi elemento architettonico canonico, ma non necessario, a partire dallo stile romanico (cfr. D. F. GLASS, voce Pulpito, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, a cura di A. M. ROMANINI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1998, vol. 9, pp. 796-803 e BATTAGLIA, vol. 14, pp. 933-34); insigne vale a dire celebre, rinomato (BATTAGLIA, vol. 8, pp. 116-17) ed è composto dall’univerbazione di IN, illativo, più SIGNUM, che contraddistingue dalla massa, ovvero ĬNSĬGNEM > vocalismo atono e tonico *ENSEGNE > chiusura di e protonica ed anafonesi insigne (DELI, p. 791); San Lorenzo è il nome della chiesa dal cui pulpito il gesuita ha tenuta l’omelia (cfr. l’introduzione). 1. sacro d’Adria impareggiabil: l’intero verso, da buon lead, è un’esplosione di retorica, data dall’insolita cadenza a minori, che modella l’andamento saltellante del ritmo, dal fortissimo asindeto, che velocizza ancor più il tempo, dall’allitterazione in r ed s e dalla presenza di una sinchisi, acrobatica e sperimentalista, dovendo ordinare Sul rostro d’Adria sacro impareggiabil; d’Adria presenta l’elisione di di ed indica la località veneta, nell’odierna provincia di Rovigo, in cui l’azione si svolge, sacro vale a dire santo (BATTAGLIA, vol. 17, pp. 332-36), meno paganeggiante e più cristiano, ma altrettanto tradizionale in poesia (LIZ), ed impareggiabil, in apocope, significa senza pari (BATTAGLIA, vol. 7, pp. 403-04), ricostituendo questi ultimi due lemmi un’aggettivazione che esalta positivamente, seppur a distanza, il sostantivo rostro; parte del canone secentesco, ma non anteriore, è la iunctura tra «sacro» e «rostro», presente in ROSA, Satire, La Musica, 190 e LUBRANO, Sonetti, CV, 12 (LIZ). rostro: si tratta di un termine molto generico, adattantesi a più ambiti, con valore di gancio, becco, sperone (BATTAGLIA, vol. 17, pp. 123-24), ma qui è assurto a metafora parecchio ardita, per concludere l’exploit del primo stico, nel significato di pulpito, accomunato agli altri vocaboli dal tertium comparationis della sporgenza. 2. chi mai: è il pronome interrogativo-relativo (ItalAnt, vol. 1, p. 475), nominativo dell’interrogativa diretta che si snoda lungo tutta la prima quartina, in cui mai ha valore enfatico, ad intendere quella volta (BATTAGLIA, vol. 9, pp. 484-85). trasse a suonar voce: il verbo trarre in questo contesto ha valore di iniziò, cominciò (BATTAGLIA, vol. 21, pp. 191-99), e regge l’infinito suonar, apocopato, il cui oggetto è voce, caricando l’espressione di un senso metaforico, come se la voce fosse uno strumento da suonare, logicamente uno strumento nelle mani del divino che agisce tramite la voce umana. quest’aurea: se quest’ è un’elisione per questo, aurea è in assonanza con trasse ed Adria ed insieme a voce forma una metafora già di TASSO, Rime, DCVII, 13 (LIZ), tradizionale però fin dall’espressione greca χρυσόστομος, che indica un suono soave, armonioso e prezioso come l’oro, anche se quivi è impossibile intenderla nel senso eufonico, dato che, come si vede in seguito, inneggia a parole di guerra, per quanto esse portino al pianto, dunque risulta più coerente intenderla come patetica, emozionante. 3. ch’induce: il che, eliso davanti ad i, è pronome relativo con funzione di soggetto (ItalAnt, vol. 1, pp. 475-76), riferentesi a voce, all’interno di un moderato enjambement col verso precedente; induce ha il senso di spinge, stimola (BATTAGLIA, vol. 7, pp. 859-61) ed è in quasi rima interna col successivo croce. sotto la croce: situazione topica, già dello Stabat mater tributato a Jacopone, non viene però ripresa nella tradizione lirica italiana; è un ablativo di luogo, tanto concreto, se si fa riferimento al novero di croci presenti in chiesa, dalla struttura dell’edificio al crocifisso dietro l’altare, quanto figurato, se lo si intende metaforicamente come il dolore che porta alla croce, inteso per antonomasia quale il supplizio più alto, quello cioè di Cristo e della sua crocifissione. 4. la nobiltà, la plebe, il clero, il chiostro?: il verso riproduce in modo catalogativo e sistematico, in ordine gerarchico e tenendo distinti i ceti, tutto il «numeroso uditorio» presente in quel giorno nella chiesa di San Lorenzo ad ascoltare la predica; squisitamente barocco, è scandito da un asindeto sconcertante, dall’andamento maestoso e solenne a maiori, da un evidente chiasmo (dove tra nobiltà è plebe non c’è dialogo, mentre tra clero e chiostro è chiara l’allitterazione di c ed r, simbolicamente marcando i legami esistenti o meno tra gli status), da una aenumeratio e da un iperbato che ribalta in fine di frase tutti e quattro gli accusativi, congiungendosi in forte enjambement allo stico precedente; il chiostro, dal latino CLĀŪSTRŬ(M) > vocalismo tonico ed atono *CLAUSTRO > evoluzione del nesso di consonante ed l e monottongamento di au chiostro (DELI, p. 334), nel senso proprio di chiusura, data la sua forma, è una struttura inizialmente tipica dei soli monasteri, ma poi estesa ad altri edifici religiosi, composta di un’area centrale scoperta circondata da corridoi coperti, da cui si accede ai vari annessi del complesso (cfr. P. F. PISTILLI, voce Chiostro, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, 1993, vol. 4, pp. 694-718 e BATTAGLIA, vol. 3, p. 89) ed, isolato in

posizione epiforica di κλῖμαξ finale, è l’unico membro non umano del chiasmo che indica indistintamente, per metonimia, tutta la gente ammassata ad ascoltare dall’esterno l’omelia (rimane però il dubbio sulla reale esistenza, o soltanto metaforica, di un chiostro in questa chiesa); l’accostamento di «nobili» e «plebei» trova numerosissimi riscontri, fin dalla poesia del Duecento (LIZ). 5. l’orar vostro: si apre con questo verso un discorso diretto, in apostrofe, stralcio dall’omelia di padre Simonetti, a drammatizzare l’azione, assieme all’uso dell’aggettivo possessivo; i termini, in allitterazione della r, più marcata se uniti a tromba, si presentano tra di loro in anastrofe e sono pure il fulcro della sinchisi dell’intero verso, da riordinare Che l’orar vostro fi’ la tromba di Dio, nello svago funambolico del disordine sintattico; l’ è in elisione a causa di orar, che, apocope per orare, è un infinito sostantivato con valore di nominativo (ItalAnt, vol. 1, pp. 310-

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11 e vol. 2, pp. 874-79) ed un aulicismo, derivando dal latino ORĀRE > vocalismo atono e tonico orare (DELI, p. 1082-83), che significa pregare (BATTAGLIA, vol. 12, pp. 2-3). fi’: si tratta dell’aulicismo fia, esito suppletivo dell’indicativo futuro primo del verbo essere, ovvero sarà (BATTAGLIA, vol. 5, pp. 415-26), derivato infatti dal latino FĬA(T) > vocalismo tonico ed atono *FEA > chiusura di e tonica in iato fia (DELI, p. 541), dopo il fenomeno dell’apocope, la quale tuttavia merita l’apostrofo poiché la vocale decaduta è preceduta da un’altra vocale; esplica un futuro iussivo (ItalAnt, vol. 1, pp. 536-40), simile nel valore al congiuntivo esortativo (ItalAnt, vol. 2, p. 1204), ed è sottolineato in questo ruolo dal Che, mera

congiunzione, aprente il verso; innegabile è il fatto che, a mo’ di ἅπαξ, costituisca l’unico tempo presente della composizione e sia all’interno di un discorso diretto (assieme allo speculare v’invitiamo del v. 9). tromba di Dio: con questo sintagma, assai tradizionale in poesia, se variato leggermente (LIZ), e risalente alla Bibbia (e.g. 1Ts 4, 16), dove indica il suono dell’apocalisse, principia l’area semantica militare; si intende che le preghiere degli uomini saranno, per metafora, la tromba di Dio (accomunandole, per amplificatio, il suono), dato che, storicamente, lo squillo di tromba si dà all’inizio di uno scontro (cfr. P. RIGHINI, voce Tromba, in Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, a cura di A. BASSO, Torino, UTET, 1984, vol. 4, pp. 593-98), quello, in questo caso, contro le forze del male. 6. movere: rispetto al normale esito MŎVĒRE > vocalismo tonico ed atono muovere (DELI, pp. 1017-18), non possiede il dittongamento spontaneo, mentre l’espressione muovere guerra è tradizionale in letteratura (LIZ) e già presente in latino quale GERERE BELLUM, divenendo una metafora slittata quasi a modo di dire. a Satàn: dativo di termine, ma con valore conflittuale (ItalAnt, vol. 1, pp. 633-34), Satana, quivi apocopato, è uno dei tanti appellativi con cui è noto il Diavolo (deriva dall’ebraico שטן, sātān, ovvero avversario, ed in particolare lo intende come il tentatore, l’accusatore, cfr. G. BUSI, Simboli del pensiero ebraico, Torino, Einaudi, 1999, p. 319 ed A. M. CRISPINO, I nomi del diavolo, in Il libro del diavolo, a cura di A. M. CRISPINO - F. GIOVANNINI - M. ZATTERIN, Bari, Dedalo, 1986, pp. 11-17), assunto, per antonomasia, a rappresentante di tutte le forze del male e quindi a nemico che in sé concentra tutto ciò contro cui l’orar vostro deve muoversi; presenta inoltre il fenomeno della diastole, tradizionale per questo lemma sin da DANTE, Divina Commedia, Inferno, VII, 1 (LIZ). conflitto atroce: iunctura già impiegata da MARINO, Adone, XIV 385, 4 (LIZ), priva dell’articolo secondo l’uso poetico, essa ben riassume in sé le allitterazioni in t ed r presenti in tutto il verso, fa proseguire l’area semantica militare ed è in iperbato rispetto a movere; atroce etimologicamente si ricollega al nero, colore della malvagità, provenendo da ATRŌCE(M) > vocalismo tonico ed atono atroce (DELI, p. 143). 7. immenso, innumerabile, veloce: ancora un collasso di retorica, lo stico presenta l’accumulo dell’aenumeratio, la gravità ritmica dell’endecasillabo a maiori e la scansione dell’asindeto per una serie di tutti lemmi diversi e dalle sonorità differenti (se non per un accenno di assillabazione tra i primi due vocaboli), riferiti all’esercito del verso successivo, legato in energico enjambement; valgono allora nel senso di grande, numeroso e pronto (BATTAGLIA, rispettivamente vol. 7, pp. 359-60, vol. 8, pp. 45-46 e vol. 21, pp. 719-20), ma soltanto con «veloce» «esercito» forma un’espressione canonica, presente in VILLANI, Nuova Cronica, II 24, 3 e X 1, 2 e RAMUSIO, Libri Di Matteo Micheovo, II 1, 2 (LIZ). 8. esercito a seguirvi: si è scelto di legittimare esercito come metafora molto marcata, in quanto il popolo, aizzato dall’omelia di padre Simonetti, chiude la sua semantizzazione militare sconfinando nella trasformazione in un’armata pronta a scortare in guerra il predicatore; sarebbe potuto anche valere quale abituato, educato (BATTAGLIA, vol. 5, pp. 334-37), però probabilmente il gesuita è un’ospite esterno, come sottolineano i vv. 9 e 12, quindi non ha senso pensare che il pubblico a lui sia avvezzo; si notino l’assenza dell’articolo in esercito, dovuta al suo essere parte nominale (ItalAnt, vol. 1, pp. 331-46), e la dipendenza della subordinata implicita, in bilico tra finale e limitativa, a seguirvi direttamente da un sostantivo, appunto esercito (ItalAnt, vol. 2, pp. 865-69). popol nostro: i due termini, per altro in assonanza, si presentano in anastrofe tra di loro e sono la chiusura della tortuosa sinchisi associata ai vv. 7-8, di cui rappresentano il nominativo, dovendo riordinare il popol nostro fu esercito immenso, innumerabile, veloce a seguirvi; inoltre, popol è apocopato e nostro, aggettivo possessivo, rimarca la dialettica drammatica del sonetto. 9. Noi v’invitiamo: si apre con questo verso un discorso diretto, in apostrofe, sintetico resoconto dell’invito a padre Simonetti, a rendere teatrale l’azione; al di là dell’allitterazione delle nasali, dell’elisione di v’ per vi e

dell’antitesi tra Noi e v’, che collabora alla dialogicità della scena, innegabile è che v’invitiamo, a mo’ di ἅπαξ, costituisca l’unico tempo presente della composizione e sia all’interno di un discorso diretto (assieme allo

speculare fi’ del v. 5), come se, in ὕστερον πρότερον, il Dotti esponesse l’invito dopo l’esibizione dell’invitato, ma soltanto in questa terzina, di cui v’invitiamo ricostituisce l’unico verbo, essendo il v. 11 nominale, per poi dalla terzina successiva ritornare al tempo passato delle azioni già concluse; si noti inoltre come questo emistichio ed il seguente apostolo facondo formino i primi due membri del chiasmo che coinvolge i vv. 9-10. apostolo facondo: compone un vocativo riferito a padre Simonetti, ossia v’, motivo per il quale è privo di articolo; entrambi i termini fanno riferimento alle capacità della parola, infatti gli apostoli, derivati dal greco e poi dal latino APŌSTŎLOS > vocalismo atono e tonico *APOSTOLOS > palatalizzazione dovuta ad -s finale, poi apocopatasi apostoli (DELI, p. 115), etimologicamente significano inviati e sono i primi predicatori itineranti della tradizione occidentale (almeno religiosa, cfr. M. STAROWIEYSKI - R. TREVIJANO - C. CARLETTI, voce Apostolo, in Nuovo dizionario patristico, vol. 1, pp. 436-50; diverso è invece lo scopo dei sofisti, dei diatribi stoico-cinici e dei

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secondi sofisti), inviati da Gesù a diffondere la sua parola (BATTAGLIA, vol. 1, pp. 543-44), mentre facondo, dal latino FĀCŬNDŬ(S) > vocalismo tonico ed atono facondo (DELI, p. 554), che significa dotato di parola, dal latino FOR, indica proprio loquace, eloquente (BATTAGLIA, vol. 5, p. 572). 10. gran ringhiera: è una metafora, o forse meglio metonimia, per designare il pulpito, accomunandoli una struttura a guisa di parapetto, infatti è proprio a tenere un’omelia, azione svolgentesi sul pulpito, che il gesuita è invitato; se gran presenta un’apocope, ringhiera è interessante nell’origine etimologica, provenendo dal germanico *hring, che indica il circondare e, quindi, il contenere (DELI, p. 1383); si noti inoltre come questo emistichio ed il seguente del Vangelo formino i primi due membri del chiasmo che coinvolge i vv. 9-10. del Vangelo: il Vangelo, metaplasmo tradizionale (ItalAnt, vol. 2, pp. 1389-97) per quattro libri noti come Vangeli (dato che nell’alto medioevo sono trasmessi in un solo tomo), è una parte del Nuovo Testamento della Bibbia cristiana, composto di tali libri che sono tra i più letti durante messe e prediche e tra i più conosciuti e commentati della tradizione, raccontando la vita di Gesù dal punto di vista dei suoi seguaci; è appunto il testo che fa da base per le comunità che gli apostoli inizialmente fondano, infatti rappresenta un genitivo di specificazione di apostolo, al verso precedente, quindi sintatticamente è un iperbato molto avventato e metricamente è un prezioso reject, dove la prima prerogativa lo rende uno sperimentalismo barocco, mentre la seconda soluzione, per di più in verticalizzazione col termine cui si riferisce, sembra palesemente ispirata alla tradizione lirica latina. 11. a nessun ella, a nessun voi: patente parallelismo chiastico, rimarcato anche dall’antitesi tra ella e voi, che concorre al πάθος scenico del sonetto, i due termini, l’uno riferentesi alla ringhiera, ossia il pulpito, l’altro al v’ iniziale, dietro cui si cela padre Simonetti, presentano nessun apocopato ed a nessun in epanalessi. secondo: si innesta qui un τόπος tipico delle letterature classiche, quello del πρῶτος εὐρετής o primus ego, basato sull’angoscia, tipica dei Greci e dei Latini, di trovare l’inventore, il solo, colui da mettere al primo posto in una graduatoria, mai passato di moda e molto in voga nel Seicento (cfr. l’introduzione); esso consiste nel dire, in questo caso per litote, che il pulpito della chiesa, quindi la chiesa stessa, non è seconda a niente, e che padre Simonetti non è secondo a nessuno, ovvero essi detengono necessariamente il primato quale edificio religioso e quale predicatore (e con ciò si recupera anche l’uso di apostolo al v. 9, essendo gli apostoli i primi predicatori d’Occidente); a sottolinearlo, nel boom retorico, l’atipico andamento a minori ed il brusco asindeto, che velocizzano il ritmo, quasi una gara alla ricerca del primo posto, l’ellissi verbale, che rende lo stico nominale (ItalAnt, vol. 2, pp. 1375-79), il sigmatismo, se unito ai due nessun, la posizione epiforica e soprattutto il prezioso zeugma, per cui secondo si accorda grammaticalmente con voi e concettualmente pure con ella. 12. Convenne: ulteriore ripresa di un concetto retorico antico, quello che i Greci chiamano πρέπον ed i Latini decorum, mai abbandonato in età medievale e moderna, consta del fatto che le realtà debbano tra di loro essere adeguate, appropriate, consone, come appunto l’invito sentito della comunità e le capacità zelanti del gesuita; convenne si parafrasa quindi come fu corrispondente, fu opportuno (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 717-19) ed emerge accentuato dalla posizione anaforica e dal fatto che il nostro invito si trovi in iperbato rispetto ad esso.

il nostro invito al vostro zelo: il grosso lacerto di verso presenta una forte antinomia, per di più con i membri in chiasmo, tra la domanda e la risposta e tra gli aggettivi possessivi di prima e di seconda persona, esplicando ancora una volta la teatralità del testo, con in aggiunta la ricerca sonora dell’allitterazione in v, se aggiunto a convenne, e della rima interna, però desinenziale, tra nostro e vostro; l’invito è quello rivolto dalla comunità a padre Simonetti affinché tenesse l’omelia, come mostrato dal v. 9, mentre lo zelo, di radice indoeuropea indicante invidia e competizione, approdata dal greco al latino ZĒLŬ(M) > vocalismo atono e tonico zelo (DELI, p. 1848), indica la passione, l’entusiasmo, il fervore della predica, ed è un vocabolo tipico del sentimento religioso (BATTAGLIA, vol. 21, pp. 1065-66); vuole insomma indicare che le aspettative dipendenti dall’invito, evidenziate nella prima terzina, non sono state deluse. 13. doveva: indicativo imperfetto quale falso condizionale per avrebbe dovuto, è un fenomeno del parlato e significa

era necessario che avesse, in accordo al decorum espresso dallo stico precedente; inizia quivi l’ἀπροσδόκητον secentesco,

che chiude ad effetto la lirica e prosegue al verso successivo, giocando sull’antico τόπος del πρῶτος εὐρετής già accennato in una sola parola e per negazione al v. 11, ma qui esplicato per due interi versi ed in forma positiva, in modo da renderlo una pointe finale; il resto del verso è inoltre in iperbato rispetto al lemma. primo pergamo del mondo: si evince subito la forte fuga fonica del verso, giocata sulla ripetizione di -mo- in assillabazione ed in omoteleuto e sul pitacismo; pergamo va inteso come sinonimo di pulpito (per il quale cfr. v. *), nel gusto barocco del variare il lessico per non ripeterlo, ma, a livello tecnico, non sono la stessa cosa, dato che il pergamo è l’ambone e non il pulpito, da cui teoricamente dovrebbero procedere le sole letture, benché anche gli studiosi ormai li equivalgano (cfr. D. F. GLASS, voce Pulpito, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, 1998, vol. 9, pp. 694-718 e BATTAGLIA, vol. 13, p. 21); primo e del mondo concorrono all’iperbole conclusiva, artificio del barocco sperimentale e parte del fulmen in clausola di fine sonetto, che individua nel pulpito della chiesa di San Lorenzo il primato tra tutti quelli esistenti sulla Terra, meglio chiarendo il τόπος del primus ego accennato al v. 11. 14. il primo aver: aver, in apocope ed in anastrofe, è retto dal servile doveva del verso precedente e porta anche in questo stico il concetto del πρέπον (cfr. v. 12), per cui un pulpito celeberrimo, anzi il primo, come quello di San Lorenzo, non poteva, per conformità, che avere un predicatore del calibro di Giovanni Battista Simonetti, primo tra gli omiletici, nuovamente esplicando il τόπος del primus ego accennato al v. 11; si noti l’enjambement molto marcato con l’antecedente verso.

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predicator del cielo: si chiude così la pointe baroccheggiante, sottolineata dall’iperbole primo del cielo, per cui la convenientia ha stabilito che solo il pulpito di San Lorenzo sia degno della favella di padre Simonetti, essendo

entrambi un πρῶτος εὐρετής; altri elementi degni di nota sono per questo verso l’apocope di predicator, il pitacismo di entrambi gli emistichi, continuato pure dallo stico precedente, e l’allitterazione anche in r, invece per quest’ultimo ed il penultimo verso il forte parallelismo antitetico, dove primo è in anadiplosi tra le due righe mentre cambiano pergamo di contro a predicator e mondo di contro a cielo, a sottolineare come le cose materiali, quale un oggetto, restino sulla Terra di contro a quelle spirituali, quale l’uomo, sia destinato al regno iperuranio.

3.5 (V) Padre d’un figlio son, che non m’è figlio

1. Il quinto testo preso in analisi tratta un argomento arguto e cavilloso e sacro e

religioso al contempo, ben accomodandosi all’estetica ed all’etica del secolo barocco,

amante del wit e del devoto, poiché risulta un indovinello avente per risposta “san

Giuseppe”, il padre putativo di Gesù Cristo. L’indovinello, meglio noto come enigma,

nasce in età antica per fini ludici ed entra di traverso nella letteratura, invece nel Medioevo,

grazie alla canonizzazione fornita da Simposio, diventa un vero e proprio genere letterario.

In età moderna, nondimeno, ormai privo di qualsiasi autonomia, a causa delle bordate

provenienti dall’étiquette di Castiglione e Della Casa, rimane comunque un sottogenere

esercitato in letteratura, all’interno della poesia più che della prosa, ma ancor più florido

nella tradizione orale126. Palese residuo della prassi medievale è il fatto che il titolo del testo

sia la soluzione del quesito, invero la rubrica del sonetto riporta «Enigma / San Giuseppe»,

ma la presenza degli enigmi vegeta ancora nel Seicento, come mostrano le riflessioni di

Accetto, Graciàn e Tesauro in proposito, la silloge di indovinelli La Sfinge di Antonio

Malatesti od il sonetto «Mostro son io più strano e più diforme» attribuito a Galileo.

Questo particolare rompicapo procede per paradossi, ovvero per «enunciati

contrari all’opinione comune, che si presentano in se stessi contraddittori»127, di matrice

prettamente filosofica, difatti è una tortuosa variazione sul tema (e, si ricordi, il variare sul

tema è un modulo tipico del barocco marinista)128 di come il padre sia inferiore al figlio,

all’opposto della situazione canonica (insomma, per antitesi al pensiero condiviso, altra

126 Sugli aenigmata in letteratura, oltre alla celebre riflessione di G. PARIS, Préface, essai introductif à E. ROLLAND, Devinettes, ou énigmes populaires de la France, Paris, Vieweg, 1877, pp. V-XVI, un libro notevole e due rassegne storiche sono G. A. ROSSI, Enigmistica. Il gioco degli enigmi dagli albori ai giorni nostri, Milano, Hoepli, 2001, J. KÖNIG, Aenigma, in Historisches Wörterbuch der Rhetorik, herausgegeben von G. UEDING, Tübingen, Niemeyer, 1992, Bd. 1, Sp. 187-195 e S. BARTEZZAGHI, voce Indovinelli e enigmi, in Enciclopedia dell’italiano, 2010, vol. 1, pp. 651-55. Per l’età antica e medievale, la miscellanea di Ainigma e Griphos. Gli antichi e l’oscurità della parola, a cura di S. MONDA, Pisa, ETS, 2012 ed il saggio di G. POLARA, Aenigmata, in Lo spazio letterario del Medioevo, a cura di G. CAVALLO - C. LEONARDI - E. MENESTÒ, Roma, Salerno, 1993, vol. 1/II, pp. 197-216, dai quali ricavare la bibliografia indiretta; per l’età moderna e contemporanea, riguardo alla letteratura italiana, A. TAYLOR, The Literary Riddle before 1600, Berkeley-Los Angeles, California University Press, 1948, M. DE FILIPPIS, The Literary Riddle in Italy to the End of the Sixteenth Century, Berkeley-Los Angeles, California University Press, 1948, M. DE FILIPPIS, The Literary Riddle in Italy in the Seventeenth Century, Berkeley-Los Angeles, California University Press, 1953 e M. DE FILIPPIS, The Literary Riddle in Italy in the Eighteenth Century, Berkeley-Los Angeles, California University Press, 1967. 127 A. CAPECCI, voce Paradosso, in Enciclopedia filosofica, a cura di V. MELCHIORRE, Milano-Gallarate, Bompiani-Centro studi filosofici di Gallarate, 2006, vol. 9, pp. 8308-09. 128 ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 51-52.

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sostanza del concettismo)129, dato che il poeta escogita ben undici trovate ad effetto

lascianti una meraviglia stupita in bocca a chi legge, imperniando l’eccentricità sul fatto che

Gesù sia figlio di Dio (e Dio stesso) e non di Giuseppe. Per quanto la tradizione degli

aenigmata si basi sovente sul paradosso, il quale disorienta l’aspirante risolutore e lo devia

dalla corretta soluzione, tale scelta non può essere casuale all’interno del novero delle

possibilità di esposizione che il sottogenere prospetta: Bartolomeo Dotti può infatti aver

prediletto il paradosso poiché stilema essenziale nel pensiero stoico130, essendo il Seicento

il secolo del neostoicismo ed avendo il poeta Bresciano patenti inclinazioni verso questa

filosofia131; del resto, il Barocco stesso è il secolo dei paradossi, come illustra Carlo

Calcaterra notando la celebrata situazione di «perplessità interrogativa»132 nell’uomo

secentesco, sconvolto da teorie scientifiche, religiose e cosmologiche che ribaltano il

common sense, così non mancano ossimoriche manifestazioni di questa sensazione anche in

letteratura (a partire dal titolo del noto Cannocchiale Aristotelico di Emanuele Tesauro). Altro

elemento tipico del modo di procedere dei riddles è il fatto che sia la soluzione stessa a

comunicare in prima persona (v. 2 son, v. 4 son, v. 9 son e son, v. 11 son, v. 12 moro, v. 14

goderò), a parlare di sé ed a narrare il discorso dal proprio punto di vista (v. 1 m’, v. 2 questo,

mio e mio, v. 3 io, gli e gli, v. 4 egli, mi e mio, v. 5 mia e farmi, v. 6 mi, v. 7 mia e farmi, v. 8 mi, v.

9 di lui, v. 10 egl’, di me e mio, v. 11 di me ed io, v. 12 mio, v. 13 egli, v. 14 io), invero nella lirica

è san Giuseppe che si pronuncia, dando indizi all’interlocutore affinché possa azzeccare la

spiegazione. Così facendo, va a caricare la partitura testuale di un’eccessiva mole di deittici

diretti, come i sopraelencati pronomi personali ed aggettivi e pronomi possessivi e

dimostrativi, tuttavia giunge ad una tesissima dialettica tra l’“io” e l’“egli”, l’interno e

l’esterno ed, in un certo senso, l’umano ed il divino, appunto Giuseppe e Gesù, ribadendo

per contrasti antitetici la causa religiosa del sonetto.

2. Cifre stilistiche del testo sono indubbiamente la ripetizione e la simmetria

giocata sull’antitesi, infatti da un canto presenta un alto tasso di figure retoriche

riconducibili alla iteratio, ovvero l’evidente epanalessi (vv. 1, 2, 9 e 10), l’ascosta anadiplosi

(vv. 2, 4 ed 11), il chiaro poliptoto (v. 12) e la più ricercata figura etymologica (vv. 13-14);

dall’altro possiede una compagine piuttosto coerente, che esaurisce l’impalcatura attraverso

tre categorie di esposizione, ovvero coppie di stichi simillime, ma non eguali, nella forma,

eppure opposte nel contenuto (vv. 1 e 2, 9 e 10 e 13 e 14), coppie di stichi perfettamente

parallele nella forma, però in netta antitesi contenutistica (vv. 3 e 4 e 5 e 6) e coppie di

129 ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 56-63. 130 Sugli stoici in generale, si rimanda al già segnalato ISNARDI PARENTE, Introduzione a lo stoicismo, mentre per i paradossi degli stoici fondante rimane G. MORETTI, Acutum dicendi genus. Brevità, oscurità, sottigliezze e paradossi nelle tradizioni retoriche degli stoici, Bologna, Pàtron, 1995, pp. 163-94; utile anche F. STOCK, Omnes stultos insanire: la politica del paradosso in Cicerone, Pisa, Opera universitaria di Pisa, 1981. 131 Sul neostoicismo secentesco, rimane il sopradetto ZARDIN, Il «Manuale» di Epitteto, mentre sullo stoicismo dottiano l’unico recapito possibile resta ancora BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 243 e 277-85. 132 Cfr. C. CALCATERRA, Il Parnaso in rivolta, Milano, Mondadori, 1940, p. 122.

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stichi in totale identità, con solo il cambio ossimorico in sede epiforica (vv. 6 e 8). Il fatto

che molti dei termini, dei sintagmi, degli emistichi e degli attacchi vengano ripresi senza

strabilianti o cavillose variazioni, tuttavia, non autorizza ad esaltare il testo quale tra i più

emblematici della perizia del barocco concettista, ed anche la struttura stessa della lirica,

per quanto precisa e speculare, è molto prevedibile, non permettendo quindi di parlare a

pieno titolo di una ricercata dispositio degli elementi, bensì più di un sistematico elenco di

idee.

Autentica summa formale del sonetto, la quale al contrario lo rende un’apoteosi

dello sperimentalismo secentesco, è certamente la trama rimica. Ad una prima analisi,

verrebbe da dire che il testo proponga sole rime identiche, tutte giocate sulle parole padre e

figlio, che si rincorrono in chiusura di ciascun verso, ritoccando lo schema del sonetto in

ABBABAAB BABABA, dato che, rispetto al modello tradizionale, anche le terzine vengono

forzate in questi esiti, generando il cosiddetto sonetto continuo. La rima identica133 ricorre

moltissimo nella lirica trobadorica e da lì in quella italiana delle origini, da Jacopone a

Dante, ma è adoperata in un senso quasi sublime, sempre con un retropensiero inespresso

molto alto che la guida, mai come ripetizione, come zeppa o come understatement, tuttavia

Petrarca non la adopera e quindi non entra nel canone della tradizione lirica italiana, non

essendovi solito quasi nessuno degli autori moderni, se non in qualità di sofisma o di

scherzo. È per questo motivo di artificiosità, probabilmente, che un autore concettista

come Bartolomeo Dotti decide di riprenderla. La rima equivoca134, invece, possiede le

stesse basi dell’identica, poiché ha grande fortuna tra i trovatori ed i poeti del Duecento,

però Petrarca la impiega e così non va mai a perdere il suo appeal nel corso della tradizione,

diventando un intramontabile mezzo di esibizione di bravura e di perizia tecniche

(specialmente in Marino, caro al poeta bresciano, qual è in G. B. MARINO, Al pesce spada, in

Lira).

Al di là dell’uso invalso nel XII-XIV secolo della sestina, spesso a retrogradatio

cruciata, che ha al massimo qualche estimatore fino al Manierismo, ma di rado oltre135, sotto

133 Si rimanda anzitutto ad A. MENICHETTI, Metrica italiana: fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore, 1993, pp. 572-76, infine a due celebri repertori, ossia alla voce Rima, in Dizionario enciclopedico della letteratura italiana, a cura di G. PETRONIO, Roma-Bari, Laterza-UNEDI, 1967, vol. 4, pp. 551-53. 134 Si rimanda nuovamente a MENICHETTI, Metrica italiana, pp. 572-76, alla voce Rima, in Dizionario enciclopedico, 1967, vol. 4, pp. 551-53. Non si possono tuttavia non citare, quando si tratta di rima equivoca e minormente di rima identica, gli studi di Roberto Antonelli sulla lirica trobadorica e la poesia italiana delle origini, benché due giovani studiosi, Simone Fidalgo ed Elvira Marcenaro, stiano cominciando ad indagare tali ambiti nella tradizione spagnola e portoghese del XII-XIV secolo: R. ANTONELLI, Rima equivoca e tradizione rimica nella poesia di Giacomo da Lentini. 1. Le canzoni, in «Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani», 13 (1977), pp. 20-108 e R. ANTONELLI, Equivocatio e repetitio nella lirica trobadorica, in Seminario Romanzo, a cura di ID., Roma, Bulzoni, 1979, pp. 113-55. 135 Per la quale, oltre ad A. RONCAGLIA, L’invenzione della sestina, in «Metrica», 2 (1987), pp. 3-41, sintetiche mises à point sono sull’italiano M. PICCHIO SIMONELLI, La sestina dantesca tra Arnault Daniel e il Petrarca, in «Dante Studies», 91 (1973), pp. 131-44, sul francese M. SWITTEN, De la sextine: amour et musique chez Arnaut Daniel, dans Mélanges de langue et de littérature occitanes en hommage à Pierre Bec, Poitiers, Centre d’Études Supérieures de Civilisation Médiévale, 1991, pp. 549-65 e sullo spagnolo E. SCOLES - C. PULSONI - P. CANETTIERI, Fra teoria e prassi: innovazioni strutturali della sestina nella Penisola Iberica, in «Il Confronto Letterario», 12 (1995), pp. 345-388, mentre per la lirica italiana non si può non citare il capitale G. FRASCA, La furia della sintassi. La sestina in Italia, Napoli, Bibliopolis, 1992. Con

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il nome di equivocationes136 vanno, invece, quelle poesie medievali in cui la rima equivoca è

utilizzata sistematicamente lungo tutto il testo, ed è proprio in questa tipologia di lirica che

il presente sonetto si colloca. È pur vero che la rima equivoca preveda necessariamente

l’identità grafica tra due parole che assumano però sensi differenti, mentre quivi questa

condizione non avviene, dato che padre e figlio esplicano sempre il medesimo contenuto.

Ciononostante, sia gli stessi autori medievali (ad esempio, F. PETRARCA, Rerum Vulgarium

Fragmenta, XVIII) formano rime equivoche dove la differenza di significato è minima,

poiché il vocabolo impiegato ha un senso soltanto, non è affatto polisemico, ma sta al

lettore concedergli piccole sfumature137, sia nel presente sonetto le parole padre e figlio, in

effetti, hanno due nuances ben differenti, anzi opposte, poiché nella metà delle volte hanno

un valore positivo e nella rimanente metà un tono negativo, secondo uno schema perfetto

ed adamantino (nei vv. 1, 6, 10 e 14 l’esser figlio è un vizio, nei vv. 4, 7 e 12 l’esser figlio è

una virtù, mentre nei vv. 3, 8, 9 e 13 l’esser padre è un vizio, nei vv. 2, 5 ed 11 l’esser padre è

una virtù), a ribadire la simmetria come cifra dell’opera. Non si può dunque concludere, in

ultima analisi, che si tratti soltanto di rime identiche, bensì che tali rime abbiano un di più

di senso, ovvero un che di equivoco. Tale formulazione è infine marcata persino dalla

prosodia, in un sorprendente e raffinato equilibrio stilistico, poiché laddove il verso,

guidato dalla parola cardine padre o figlio, risulti di sfumatura negativa, allora il Dotti

impiega l’endecasillabo ancipite (con accento di quarta secondario) nelle quartine e nella

seconda terzina ed a maiori nella prima terzina, invece laddove il verso risulti di sfumatura

positiva, allora impiega l’endecasillabo a maiori nelle quartine e nella seconda terzina ed

ancipite (con accento di sesta secondario) nella prima terzina; a ciò si aggiunge poi

l’eccezione che conferma la regola, la falla nel cosmo, situata, appositamente, all’ultimo

verso, marcando il solito coup de foudre della poesia barocca, in cui vengono ristabiliti i

normali legami tra la negatività e l’endecasillabo a minori, ἅπαξ nel componimento.

Enigma / San Giuseppe

Padre d’un figlio son, che non m’è figlio;

anzi, questo mio figlio è il ver mio padre.

Io l’esser non gli diedi, e gli son padre;

un ampio salto dal Cinquecento all’Ottocento, la sestina in Italia rinasce alle soglie della contemporaneità, come dimostrano l’ultimo capitolo di FRASCA, La furia della sintassi e C. PULSONI, La sestina nel Novecento italiano, in E vós Tágides minhas. Miscellanea in onore di Luciana Stegagno Picchio, a cura di M. J. DE LANCASTRE - S. PELOSO - U. SERANI, Viareggio-Lucca, Baroni, 1999, pp. 541-49. 136 Si rimanda alla voce Equivocazione, in Dizionario enciclopedico, 1966, vol. 2, p. 373. 137 A risolvere il problema viene incontro F. DE SAUSSURE, Cours de linguistique générale, publié par C. BALLY - A. SECHEHAYE, Lausanne-Paris, Payot, 1916, letto nell’edizione critica F. DE SAUSSURE - C. BALLY - A. SECHEHAYE, Cours de linguistique générale, publié par T. DI MAURO, Paris, Payot, 1997, pp. 97-100, quando parla della signification, ossia l’apporto di senso che una parola assume quando è calata nel testo, non quando è considerata a livello di signifié o di signifiant.

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4 egli l’esser mi diede, ed è mio figlio.

La mia verginità farmi esser padre

di chi non mi saria per altro figlio.

La mia paternità farmi esser figlio

8 di chi non mi saria per altro padre.

Non son prima di lui: come son padre?

Egl’è prima di me: com’è mio figlio?

11 Anzi, maggior di me, bench’io son padre.

Moro prima che mora il mio bel figlio

e, invece ch’egli erediti dal padre,

14 goderò io l’eredità del figlio.

Postille metriche: sinalefe in figlio è il (2), diedi, e (3), diede, ed (4), farmi esser (5), farmi esser (6), mora il (12), e, invece (13) ed egli erediti (13), sineresi in mio (2), mio (2), io (3), mio (4), mia (5), mia (7), mio (10), mio (12) ed io (14) e dialefe in goderò io (14). 1-8. Sono padre di un figlio che non è mio figlio; anzi, questo mio figlio è il mio vero padre. Io non gli ho dato la vita, eppure sono suo padre; egli mi ha dato la vita, eppure è mio figlio. La mia verginità mi rende padre di chi però non sarebbe mio figlio. La mia paternità mi rende figlio di chi però non sarebbe mio padre. 9-14. Non esisto prima di lui: come faccio ad essere padre? Egli esiste prima di me: come fa ad essere mio figlio? Anzi, [è] più grande di me, anche se io sono il padre. Muoio prima che muoia il mio caro figlio e godrò io l’eredità del figlio anziché egli ereditare dal padre.

*. Enigma: prestito greco mediato dal latino AENĪGMA > vocalismo tonico ed atono e monottongamento di ae enigma (DELI, p. 522), esplicando l’idea del parlare per racconti, in modo indiretto, indica qualcosa di oscuro e difficile ad intendersi, che dunque viene proposto ad indovinarsi (BATTAGLIA, vol. 5, pp. 159-60), ecco perché è il termine tecnico con cui sono designati gli indovinelli fin dall’età medievale. San Giuseppe: si tratta appunto del padre putativo di Gesù Cristo, ovvero di colui che è considerato suo padre senza in realtà esserlo, essendo quegli figlio di Dio e Dio in persona; umile carpentiere, ha accettato di sposare Maria, nonostante la sua pregnanza divina, ed ha amorevolmente accompagnato Gesù lungo tutto il suo percorso (cfr. E. PERETTO - M. MARINONE, voce Giuseppe, in Nuovo dizionario patristico, vol. 2, pp. 2322-29). 1. Padre d’un figlio son: sono appellativi indoeuropei, arrivati in italiano dal latino PĂTRE(M) > vocalismo atono e tonico *PATRE > lenizione di t in d padre e FĪLĬU(M) > vocalismo atono e tonico FILEO > chiusura di e postonica ed evoluzione del nesso di consonante e jod figlio (DELI, rispettivamente pp. 1109 e 579); Padre è privo d’articolo, in quanto parte nominale, invece son si presenta apocopato ed in iperbato rispetto al resto. che: pronome relativo con funzione di soggetto (ItalAnt, vol. 1, pp. 475-76), riferentesi al primo figlio. non m’è figlio: il sostantivo è in epanalessi, invece il verbo ed il pronome, tra l’altro in elisione, sono in dativo di possesso (ItalAnt, vol. 1, p. 137), tradizionalmente molto usato in poesia, ma a quest’altezza considerabile pure un francesismo, valendo non è figlio a me, ossia non è mio figlio; il sostantivo si presenta senza articolo in quanto parte nominale; si noti l’antitesi tra figlio e non figlio; il senso del verso è paradossalmente negativo, in quanto il padre possiede un non figlio, essendo Gesù figlio di Dio e non di Giuseppe. 2. anzi: è una correctio, situata, come di consueto tanto in latino quanto in italiano, in posizione anaforica (ItalAnt, vol. 1, pp. 262-63). questo mio figlio: si riferisce al figlio citato al verso precedente, ovvero il non figlio, con cui è in anadiplosi, mentre mio presenta epanalessi.

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è il ver mio padre: con ver apocopato e mio in anastrofe, l’impressione dello stico è paradossalmente positiva, in quanto il non figlio è comunque un vero padre, essendo Gesù padre di tutti gli uomini e, dunque, anche di Giuseppe. 3. Io: è in posizione anaforica, parallela ed antitetica al seguente egli, come del resto è tutto il verso rispetto al v. 4. l’esser non gli diedi: infinito sostantivato (ItalAnt, vol. 1, pp. 310-11 e vol. 2, pp. 874-79) in apocope, con valore di esistenza, vita (BATTAGLIA, vol. 5, pp. 415-26), dare l’essere è un’espressione metaforica per dire generare, mentre non gli diedi è iperbatico rispetto a ciò che lo precede. e gli son padre: la congiunzione e ha valore avversativo (ItalAnt, vol. 1, pp. 252-53), come a dire ma, eppure, mentre padre è privo dell’articolo in quanto parte nominale; il senso del verso è paradossalmente negativo, in quanto il padre non ha generato il figlio, essendo Gesù concepito da Dio e non da Giuseppe. 4. egli: in posizione anaforica, parallela ed antitetica al precedente io, come del resto è tutto il verso rispetto al v. 3, si aggiunga inoltre il calembour tra e gli ed egli. l’esser mi diede: per le varie componenti cfr. v. 3, con il quale si forma il poliptoto diedi diede e l’anadiplosi esser esser. ed è mio figlio: la congiunzione ed ha lo stesso valore di quella al v. 3; mio e figlio, inoltre, si mostrano in omoteleuto; l’impressione dello stico è paradossalmente positiva, in quanto il figlio ha generato il padre, essendo Gesù padre di tutti gli uomini e, dunque, concepitore di Giuseppe. 5. verginità: parallelo ed antitetico al seguente paternità, come del resto è tutto il verso rispetto al v. 7, va ad indicare obliquamente il non avere figli (BATTAGLIA, vol. 21, pp. 775), dato che, nella morale e nella prassi d’altri tempi, in specie per le classi sociali basse da cui Giuseppe proviene, il fatto di non essere padre significava praticamente il non aver ancora sperimentato l’atto sessuale. farmi esser padre: farmi presenta l’enclisi del pronome atono mi al verbo tonico fare, essendo dopo il Quattrocento uno statuto libero della lingua poetica italiana in qualsiasi posizione, e significa mi fa, mentre esser è apocopato; padre è privo di articolo in quanto parte nominale ed in antitesi a verginità; il senso del verso è paradossalmente positivo, in quanto il padre, pur vergine, possiede un figlio, avendo Giuseppe Gesù quale figlio. 6. di chi: in forte enjambement col verso precedente, l’attacco è identico al v. 8; pronome relativo doppio al caso genitivo (ItalAnt, vol. 1, pp. 494-96), si scioglie in di colui che e si riferisce al previo padre. non mi saria: il verbo, linguisticamente, è un esito alternativo di condizionale presente, infatti al posto dell’usuale sarebbe compare nella forma saria, che si trova al Settentrione, al Meridione e nei poeti toscani, ma origina dal provenzale ed, importata dalla scuola siciliana, si diffonde in tutta l’Italia poetica, provenendo da *(ES)SER(E) (HAB)Ē(B)A(M) > vocalismo tonico ed atono siciliano *seria > analogia con meridionalismi in -ar- (e.g. mozzarella) saria (DELI, p. 541) e comunque non subendo il passaggio protonico del fiorentino di -ar- in -er- in direzione seria; il costrutto è invece un dativo di possesso (ItalAnt, vol. 1, p. 137), tradizionalmente molto usato in poesia, ma a quest’altezza considerabile pure un francesismo, valendo non sarebbe a me, ossia non sarebbe mio. per altro figlio: la locuzione avverbiale per altro vale a dire tuttavia, però (BATTAGLIA, vol. 12, pp. 1085-86), invece figlio è privo dell’articolo in quanto parte nominale; l’impressione dello stico è negativa (se preso isolatamente), in quanto il padre, essendo vergine, non potrebbe in linea teorica avere un figlio. 7. paternità: parallelo ed antitetico al precedente verginità, come del resto è tutto il verso rispetto al v. 5, va ad indicare direttamente l’avere figli (BATTAGLIA, vol. 12, pp. 815-16), dato che esser padre comporta necessariamente l’avere almeno un figlio. farmi esser figlio: su farmi esser cfr. v. 5; figlio è privo dell’articolo in quanto parte nominale ed in antitesi a paternità; il senso del verso è paradossalmente positivo, in quanto il padre, pur genitore, è un figlio (e, se si procede allo stico successivo, s’intende paradossalmente figlio di chi non è il proprio padre), avendo Giuseppe Gesù quale padre. 8. di chi: in forte enjambement col verso precedente, l’attacco è identico al v. 6; su di chi cfr. v. 6, con la clausola che ciò cui il pronome si riferisce è il previo figlio. non mi saria: espressione in identità al v. 6. per altro padre: su per altro cfr. v. 6, invece padre è privo dell’articolo in quanto parte nominale; l’impressione dello stico è negativa (se preso isolatamente), in quanto il figlio sarebbe figlio di chi non è suo padre, dato che Gesù è figlio di Giuseppe, non potendo quindi essere suo genitore. 9. Non son prima di lui: l’emistichio è parallelo ed antitetico alla rispettiva parte del v. 10; son è in apocope, in epanalessi ed è impiegato nell’accezione di esisto, vivo (BATTAGLIA, vol. 5, pp. 415-26), come sum in latino, cosa che lo rende un aulicismo; intendendo con lui il figlio, vuol dire che il padre non è vissuto prima del proprio figlio. come son padre?: domanda retorica parallela e complementare alla chiusa del v. 10, con son in apocope e con valore di potenziale, nel senso di posso essere, si chiede in quale modo (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 348-51) ciò, pur paradossale, sia possibile; padre si presenta ancora privo d’articolo in quanto parte nominale; il senso del verso è paradossalmente negativo, in quanto il padre non esiste innanzi al figlio, essendo Giuseppe creatura di Dio, ovvero di Gesù, e quindi non potendo esistere prima della sua nascita (anzi, Dio non nasce affatto: è eterno e dunque innato).

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10. Egl’è prima di me: l’emistichio è parallelo ed antitetico alla rispettiva parte del v. 9; Egl’ è in elisione a causa dell’è successivo, il quale a sua volta è nella stessa accezione del v. 9; questa parte di verso, in specie se unita alla prossima, forma un marcato mitacismo, mentre è si ripropone in epanalessi; intendendo con me il padre, vuol dire che il figlio è vissuto prima del proprio padre. com’è mio figlio?: domanda retorica parallela e complementare alla chiusa del v. 9, con com’ in elisione e con è che ha valore di potenziale, nel senso di può essere, si chiede in quale modo (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 348-51) ciò, pur paradossale, sia possibile; mio e figlio, inoltre, si mostrano in omoteleuto; il senso del verso è paradossalmente negativo, in quanto il figlio esiste innanzi al padre, essendo Gesù Dio e quindi esistendo ben prima della nascita di Giuseppe (anzi, Dio non nasce affatto: è eterno e dunque innato). 11. Anzi: è una correctio, situata, come di consueto tanto in latino quanto in italiano, in posizione anaforica (ItalAnt, vol. 1, pp. 262-63); tutto il verso è allitterativo nelle nasali. maggior di me: la frase è nominale, con il verbo essere, quivi è, sottinteso; nella tradizione lirica indica preminenza in età più che in altre qualità, tuttavia in questo frangente, dato che segue una correctio, in cui si corregge e perfeziona ciò ch’è detto prima, appunto l’età, pare adeguato intenderlo come superiore in senso lato (BATTAGLIA, vol. 9, pp. 433-40), continuando l’indovinando ad interrogarsi su come il proprio figlio possa essere più rilevante di lui; di me si presenta inoltre in anadiplosi. bench’io son padre: subordinata concessiva, presenta elisione in bench’, apocope in son ed indicativo in luogo del congiuntivo, il quale è un fenomeno del parlato, ma si trova anche in poesia; vale a ripetere la perplessità del protagonista parlante nell’ammettere la superiorità di suo figlio su di lui, padre, come sempre privo d’articolo in quanto parte nominale; l’impressione dello stico, per quanto negativa, va intesa positivamente per paradosso, al fine di non tradire l’altrimenti perfettamente e simmetricamente strutturata trama tanto semantica quanto prosodica del sonetto, dovendo allora considerare il fatto che il personaggio si ribadisca padre, evento in sé positivo. 12. Moro prima che mora: i due verbi sono tra di loro in poliptoto, entrambi forme del verbo morire, da intendersi nel senso letterale di perire, trapassare (BATTAGLIA, vol. 10, pp. 908-14); ambedue aulicismi di triplice e remota ascendenza latino-occitano-siciliana, entrati nella tradizione italiana e fissi fino al Settecento, rispetto all’esito poi regolare non presentano il dittongamento spontaneo toscano e presentano il riflesso non toscano da -rj- ad -r-, infatti il primo proviene da MŎRĬOR > regolarizzazione della deponenza per analogia alle altre coniugazioni *MŎRĬO > vocalismo tonico ed atono, però senza dittongamento *MOREO > chiusura di e postonica *MORIO > esito non toscano del nesso vibrante e jod moro (DELI, pp. 1007-08), ma forse andrebbero recepiti come scempiamento delle geminate per morrò e morrà, in linea con l’altro futuro della terzina (benché il manoscritto non registri l’accento finale in ambo i casi); il verso, ancor più se unito alla sua rimanente parte, è in marcato mitacismo; non è un caso che la tematica della morte, la più delicata, ricorrente nelle Rime del Dotti, venga affrontata in fine di sonetto.

il mio bel figlio: il sintagma, con mio e figlio in omoteleuto, è in iperbato rispetto a mora, di cui ricostituisce il nominativo; si tratta dell’unico stico in cui non v’è alcun paradosso e dell’unico emistichio in cui si trovino reminescenze letterarie, ricorrendo identico in ACHILLINI, Poesie, LVIII, 129 (LIZ), comunque il senso del verso è positivo, in quanto il padre, com’è giusto e normale che sia, muore prima del figlio. 13. invece ch’: in lieve enjambement col verso che precede, si tratta dell’avviamento di una subordinata avversativa, strategicamente anteposta alla rispettiva sovraordinata, sviluppantesi al v. 14; ch’ presenta elisione. egli erediti dal padre: il verbo ereditare, usato in senso assoluto ed intransitivo, vale a dire succeda, riceva l’eredità (BATTAGLIA, vol. 5, p. 236); l’impressione dello stico è paradossalmente negativa, in quanto il figlio, come dovrebbe comunemente accadere, non riceve l’eredità del padre. 14. goderò io: se il nominativo si presenta in anastrofe, il verbo è una forma di indicativo futuro primo con assenza della sincope di e interconsonantica, poco usato in poesia, al posto del regolare GAUDĒR(E) (HABE)O > vocalismo tonico ed atono *GAUDERÒ > monottongamento di au e sincope godrò (DELI, p. 657); si noti poi come godere l’eredità sia un’espressione latamente metaforica. l’eredità del figlio: l’accusativo si trova in variatio e figura etymologica con l’eredità del verso precedente; disilluso, l’ultima constatazione del Dotti riguarda però l’economia, un soggetto contro cui le sue Satire si scagliano con sarcasmo; l’impressione dello stico è paradossalmente negativa, in quanto il padre riceve l’eredità del figlio.

3.6 (VI) Un certo iesuita siciliano

1. Il sesto testo preso in analisi tratta per la seconda ed ultima volta, all’interno di

questa corona poetica, una tematica strictu sensu satirica, infatti il Dotti fa parodia del rigore

di un anonimo sacerdote gesuita, arrivando però a scusarne il comportamento, da altri al

contrario pesantemente bersagliato. La poesia principia con un quadretto del padre

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predicatore, connotato come troppo giovane (v. 2 che in viso ha il primo pelo), troppo

impreparato (v. 3 alla meglio che sa spiega il Vangelo) e troppo confidente (v. 4 col solito

possesso), per poi passare al diretto enunciato del personaggio, che esorta a non perdere

tempo nella vita contemplativa (v. 6 «Conversar? Con gli eletti un giorno in cielo!»). Continua

quindi accennando alle pesanti disapprovazioni avanzate al sacerdote (v. 7 Vi fu chi ferì quel

troppo zelo), sminuendole (v. 10 perdona del mal dir la voglia ingorda), difendendolo (v. 13 sattire

non merta il poverino) e cercando di proporre una critica costruttiva (v. 14 merta lingua

ch’insegni e non che morda). Questa satira si presenta allora attraverso connotati miti e bonari,

propensi più alla conciliazione che alla condanna, più al sornione compromesso che alla

rigida censura, con dei toni molto rari, ma non impossibili, nella satira, altrimenti

giovenalea, di Bartolomeo Dotti. Inoltre, ancora una volta, accidentalmente nascosto dal

fatto che le liriche, nel manoscritto, siano disordinate rispetto alla disposizione autentica

(del resto inesistente nelle Satire), non si sa chi sia il chierico in questione, poiché la rubrica

è intitolata «al sudetto padre predicatore», cosa che non permette di risalire a chi sia stato

in precedenza citato, ed, a complicare ulteriormente la questione, si aggiunge il fatto che è

incognito se si tratti di un semplice dedicatario, essendo l’intestazione in dativo, oppure

proprio dell’oggetto medesimo della satira.

Il tema principale sviluppato nel testo è quello anticlericale, che non ha limiti e

confini nelle lettere di tutte le nazioni, ma che, a partire dalla nascita della Compagnia di

Gesù (per la quale si veda l’introduzione al IV sonetto), sembra aver trovato proprio nei

gesuiti il bersaglio per eccellenza, tanto che lo scherno del gesuita diventa un τόπος e spunta

una vera e propria letteratura antigesuitica138: nella tradizione italiana, i primi sentori

arrivano già in bilico tra XVII-XVIII secolo, come dimostra questa satira, ma esplodono

nel Settecento neoclassico, come avviene in Foscolo, e si rincarano nell’Ottocento

romantico, come nel caso di De Sanctis, spaziando dalla letteratura alla critica ed

intaccando persino la lingua, potendo invero gesuita significare anche «infido», «miserabile»

od «ipocrita»139. Bisognerà attendere il XX secolo per il riscatto dell’operato dell’ordine

nella storia intellettuale, a livello tanto culturale quanto religioso, rivalutandone l’apertura

138 La bibliografia in proposito è sterminata, così si sono scelti i soli titoli più recenti, ossia S. PAVONE, Le astuzie dei gesuiti. Le false Istruzioni segrete della Compagnia di Gesù e la polemica antigesuita nei secoli XVII e XVIII, Roma, Salerno, 2000, C. E. O’ NEILL, voz Antijesuitismo, en Diccionario histórico del al Compañìa de Jésus, al cuidado de C. E. O’ NEILL - J. M. DOMINGUEZ, Institutum Historicum Societatis Iesu-Universidad Pontificia Comillas, Roma-Madrid, 2001, vol. 1/I, pp. 178-189, C. VOGEL, Des stéréotypes religieux à la pensée conspirationniste. L’exemple des jésuites, in The Power and Persistence of Stereotyping, edited by A. D. BARKER, Aveiro, Aveiro University Press, 2004, pp. 51-69, M. ROSA, Gesuitismo e antigesuitismo nell’Italia del Sei-Settecento, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», 2 (2006), pp. 248-81, Les antijésuites, publié par P.-A. FABRE - C. MAIRE, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2011 e T. EGIDO, Formación y funciones del estereotipo antijesuita e M. CATTO, The Jesuit Memoirists: How the Company of Jesus contributed to anti-Jesuitism, en Los jesuitas. Religión, política y educación (siglos XVI-XVIII), al cuidado de J. MARTÍNEZ MILLÁN - H. PIZARRO LLORENTE - E. JIMENEZ PABLO, Madrid, Comillas, 2012, vol. 2, rispettivamente pp. 715-726 e 927-942. 139 Cfr. Grande dizionario della lingua italiana, a cura di S. BATTAGLIA - G. BÀRBERI SQUAROTTI, Torino, UTET, 1970, vol. 6, p. 712.

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mentale al mondo laico, il rigore dei programmi scolastici, la saldezza teologica, la bontà

missionaria ed il concorso alla scienza ed alla letteratura140.

Le cagioni recondite di una tale ostilità verso la loro figura sono da ricercarsi in

plurime cause. Anzitutto il loro successo e la loro diffusione, nonché il loro assunto

prestigio per potenza e disciplina, li hanno resi invisi e sospetti agli stati assoluti,

all’opinione pubblica colta e persino agli altri ordini religiosi, in specie i domenicani. Poi

sono stati percepiti come gli esponenti radicali del dominio papista, tanto più avversato

dopo i fallimenti della Controriforma e della guerra dei Trent’anni, che viene identificato

con l’oscurantismo e la chiusura intellettuale, soprattutto da quella parte dell’Europa la

quale, protestante, è ostile ai cattolici. All’interno della Chiesa, quindi, è scoppiata una forte

polemica, di carattere morale e teologico, tra gesuiti e giansenisti, contribuendo latamente

alla loro cattiva fama, in quanto, per la cura animarum, i primi propongono di compiere

molte confessioni, dato che assicurano la salvezza per tutti gli espianti, mentre i secondi

insistono su di una condotta più rigorosa, dato che la salvezza non è già per tutti,

accusando i primi di corrompere le coscienze. Ancora, il sistema dei collegi universitari è

stato contestato per lo scarso aggiornamento dei programmi di studio ed il modello delle

missioni extraeuropee criticato per l’eccessivo accomodamento verso le culture di sostrato,

ad esempio il confucianesimo in Cina e la spiritualità dei nativi nelle Americhe. La

situazione è infine tralignata alla metà del Settecento, quando Portogallo, Spagna e Francia

hanno iniziato, dopo violente campagne di stampa, ad espellere i gesuiti dalle colonie e

dalle madrepatrie, fino ad ottenere da Clemente XIV la soppressione dell’ordine nel 1773

(benché l’exequatur non sia stato ratificato nelle Russie, in cui l’operato gesuitico è

proseguito), ricostituendosi soltanto nel 1814 grazie a Pio VII, ma con una pesante eredità

da sopportare ed un pregiudizio che non demorde lungo l’intero secolo.

2. Tornando al testo, nel suo nucleo contenutistico, l’accusa al centro del discorso

è quella contro l’eccessivo radicalismo del padre gesuita, criticato e schernito per aver

ammonito il pubblico di non dedicarsi al vaniloquio (v. 5 chi conversa anela invano), da

intendere più finemente e più latamente come βίος θεωρητικός, la vita nella contemplazione,

dato che un tale comportamento si terrà al massimo in futuro in Paradiso (v. 6 con gli eletti

un giorno in cielo). All’interno della diatriba tra vita attiva e vita contemplativa141, infatti, i

gesuiti sono situabili più nella prima che nella seconda, poiché, al di là di celebri esercizi

spirituali, sono spalancati al saeculum, vivono la vocazione come una militia e sono

impegnati, oltre negli elementi già noti come le missioni, l’insegnamento e la predica, in

attività quali la riconciliazione dei litiganti nelle dispute politiche, sociali ed economiche, il 140 La più recente testimonianza del quale, in Italia e sul piano culturale, è certamente Andrea Battistini, come si evince dai suoi innumerevoli saggi in proposito, molti dei quali concentrati in A. BATTISTINI, Galileo e i Gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza, Milano, Vita e Pensiero, 2000. 141 Per un felice status quaestionis di ciò lungo la storia, dall’età antica a quella moderna, utile strumento è D. A., voix Vie active et contemplative, dans Dictionnaire de spiritualité: ascétique et mystique, doctrine et histoire, publié par M. VILLER ET ALII, Paris, Beauchesne, 1992, vol. 16, pp. 592-616.

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servizio ai carcerati ed ai malati, il magistero del catechismo ed il recupero di musulmani ed

ebrei (persino moriscos e marranos). Eppure l’intransigenza massimalista con cui il giovane

padre si esprime spiazza l’audience e dunque non può che essere motivo di satira.

Tornando al testo, invece, nella sua facies esteriore, si riscontrano alcuni materiali

costituenti del XVII secolo, quali la tendenza alla drammatizzazione (già esplicata come

dottiana)142, l’esprit conclusivo143 ed il lessico ardito144, dove tuttavia il primo esito è

barocco in generale ed il secondo non è in questo sonetto particolarmente messo in rilievo,

mentre il terzo è seducentemente sperimentale. La teatralità è concentrata nel cuore

centrale della lirica, ovvero nella seconda quartina, quando viene introdotto il pensiero

rigido del gesuita, prima indirettamente (v. 5 Disse che […]) e dopo direttamente (v. 6

«Conversar? […]»), e nella prima terzina, dove il Dotti inizia la di lui apologia appellandosi

in seconda persona singolare ai satiri accusatori (v. 9 Pari e v. 10 perdona), un tu generico

molto usato nella tradizione satirica (e prima ancora diatribica) latina e poi italiana; ad ogni

modo, alla scenicità concorrono minormente anche la presenza di tali accusatori (v. 7 Ma

vi fu chi) ed il tentativo di parificazione del conciliante narrator Dotti nei loro confronti (v.

12 ognun l’accorda). Poco marcato risulta però il fulmen in clausola, che dovrebbe ricostituire il

concetto arguto chiudente ad effetto la lirica, quivi posto all’ultimo verso, in metafora e

poliptoto (v. 14 merta lingua ch’insegni e non che morda), ma non particolarmente felice,

occupandosi di comunicare il messaggio morale più che di meravigliare ingegnosamente il

lettore. È invece il vocabolario il segreto sperimentale della poesia, realizzato attraverso

iuncturae non tradizionali nella lirica italiana, degne dell’apertura enciclopedica della vena

concettista del Seicento, esplicantisi in sostantivi già di per sé temerari accoppiati ad

aggettivi ulteriormente negativizzanti (si tratta di v. 4 possesso ignaziano, v. 8 estro insano, v. 9

cinico audace, v. 11 voglia ingorda). In conclusione, ciononostante, c’è da ammettere che

questo testo, tra quelli esaminati, è certamente il più arcadico, che comunica il senso del

buon gusto dagli arcadi tanto amato: gli endecasillabi sono tutti rigorosamente a maiori, la

retorica non è eccessiva ed è ben distribuita, il tono è leggero e cantilenante e forma e stile

non si preoccupano di esiti fonici e sintattici e variano le proprie strutture in modo

spontaneo e naturale, senza un demiurgo che accosti ed intrecci artificiosamente le trame.

Al sudetto padre predicatore / Sonetto

Un certo iesuita siciliano,

giovinetto, che in viso ha il primo pelo,

alla meglio che sa spiega il Vangelo

142 La teatralità nel barocco lirico è sempre in ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 44-48, mentre sul Dotti teatralizzante cfr. BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla», pp. 262-64. 143 Sull’ἀπροσδόκητον come tecnica barocca si veda il solito ELWERT, Poesia lirica italiana, pp. 63-64. 144 Sullo sperimentalismo lessicale dei poeti concettisti, ancora SERIANNI, La lingua del Seicento, pp. 561-95.

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4 col solito possesso ignaziano.

Disse che chi conversa anela invano:

«Conversar? Con gli eletti un giorno in cielo!».

Ma vi fu chi ferì quel troppo zelo

8 con sattirica penna ed estro insano.

Pari cinico audace: al buon padrino

perdona del mal dir la voglia ingorda:

11 ha carattere anch’esso alto e divino.

Che non meriti lode, ognun l’accorda,

ma sattire non merta il poverino:

14 merta lingua ch’insegni e non che morda.

Postille metriche: sinalefe in che in (2), viso ha il (2), spiega il (3), conversa anela (5), anela invano (5), gli eletti (6), eletti un (6), giorno in (6), penna ed (8), estro insano (8), cinico audace (9), audace: al (9), voglia ingorda (10), carattere anch’ (11), esso alto (11), alto e (11), lode, ognun (12), merta il (13) ed insegni e (14) e dialefe in certo iesuita (1) e possesso ignaziano (4). 1-8. Un certo gesuita siciliano, giovanotto, che ha i primi peli sul volto, predica il Vangelo al meglio che riesce con la solita sicurezza di sant’Ignazio. Ha detto che chi chiacchiera aspira invano [alla salvezza]: «Chiacchierare? In futuro in Paradiso con i beati!». Ma c’è stato chi ha colpito quella troppa veemenza con versi di satira ed impeto sconsiderato. 9-14. Sembri un cinico impudente: perdona al benevolo sacerdote la voglia insaziabile di esagerare: anche ciò è un elemento eminente e santo. Ognuno concorda che non meriti lode, ma non merita [nemmeno] satira il pover’uomo: merita una lingua che [lo] educhi e non che [lo] sgridi.

*. Sudetto: scempiamento delle geminate per suddetto, il quale rappresenta l’univerbazione di su e detto tramite raddoppiamento fonosintattico (DELI, p. 1640). padre: cfr. v. 9. 1. certo: aggettivo che rimanda all’indeterminatezza ed all’anonimato del personaggio, vale tale (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 3-5). iesuita: è l’appellativo con cui vengono chiamati gli ecclesiastici appartenenti alla Compagnia di Gesù, di cui appunto il sacerdote fa parte (cfr. l’introduzione); si tratta di un arcaismo in cui lo jod iniziale non si è sviluppato in g, essendo la parola inizialmente nata come gesuita e iesuita e poi modernizzatasi nella sola forma gesuita (DELI, pp. 650-51). siciliano: i membri dell’ordine provengono da tutt’Europa ed, in virtù dell’assenza della stabilitas loci, tipica delle precedenti congregazioni, si muovono liberamente sul territorio in base alle occorrenze; ecco perché Bartolomeo Dotti, che passa la vita al Settentrione, può aver conosciuto anche un gesuita oriundo dalla Sicilia. 2. giovinetto: alterato vezzeggiativo (ItalAnt, vol. 2, pp. 1504-05) di giovine, consta di una forma arcaica di giovane derivata da IŬVĔNĒ(M) > vocalismo tonico ed atono *IOVENE > chiusura di e postonica *IOVINE > sviluppo di jod iniziale giovine (DELI, p. 664), impiegato in prosa e poesia fino al Sette-Ottocento in concorrenza a giovane; è un’apposizione del sacerdote che comunica il suo primo difetto, la poca età, sinonimo di poca esperienza e conoscenza, concettualmente continuato nell’emistichio seguente, anche tramite un lieve enjambement. in viso ha il primo pelo: oltre a giocare fonicamente sul pitacismo e sull’assonanza tra pelo e giovinetto e sintatticamente sulla sinchisi che destruttura ha il primo pelo in viso, si tratta di una perifrasi per indicare ancora la prima accusa mossa all’ecclesiastico, ossia l’età poco matura, con primo che compone un’iperbole e pelo che vale per metonimia barba (BATTAGLIA, vol. 12, pp. 971-76); il che è pronome relativo con funzione di soggetto (ItalAnt, vol. 1, pp. 475-76), riferentesi al certo iesuita, mentre in viso è privo di articolo, essendo un’espressione idiomatica; un debole enjambement conduce al verso successivo.

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3. alla meglio che sa: i primi due lemmi sono un’espressione colloquiale che indica nel miglior modo (BATTAGLIA, vol. 10, pp. 7-11), quale ablativo di modo, con anche meglio in assonanza con Vangelo; il che è pronome relativo riferito ad alla meglio, ma è un fenomeno del parlato, poiché, polivalente, assume il valore di ablativo di modo, significando in cui e raddoppiando pleonasticamente il complemento; sa esplica quivi il saper fare, quindi può (BATTAGLIA, vol. 17, pp. 545-52); il riferimento va alla seconda colpa tacciata al chierico, ovvero il pressapochismo e l’impreparazione. spiega il Vangelo: più che ad un atto di pura esegesi, cui rimanderebbe il verbo spiegare, probabilmente, come accennato in rubrica, dove si parla, se il destinatario e l’oggetto del testo non differiscono, di un «padre predicatore», il gesuita è colto nell’atto dell’omelia, la predica appunto, che solitamente, almeno durante la messa, parte da un passo biblico, preferibilmente dai Vangeli; il Vangelo, metaplasmo tradizionale (ItalAnt, vol. 2, pp. 1389-97) per quattro libri noti come Vangeli (dato che nell’alto medioevo sono trasmessi in un solo tomo), è una parte del Nuovo Testamento della Bibbia cristiana, composto di tali libri che sono tra i più letti e tra i più commentati della tradizione, raccontando la vita di Gesù dal punto di vista dei suoi seguaci. 4. col: preposizione articolata tipica della tradizione poetica (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 449-51), è una forma sintetica che fonde assieme le parole con lo. solito possesso: marcata dal sigmatismo, la coppia indica la disciplina tipica dei gesuiti, dove possesso vale proprio sicurezza di sé, padronanza, nel senso di essere posseduto dallo spirito santo (BATTAGLIA, vol. 13, pp. 1046-49), che ricostituisce il terzo peccato riscontrato nel sacerdote. ignaziano: è l’aggettivo qualificativo che rimanda al fondatore dell’ordine dei gesuiti, sant’Ignazio da Loyola (BATTAGLIA, vol. 7, p. 236), celebre per il suo rigore e la sua serietà (cfr. R. GARCÍA VILLOSLADA, voce Ignazio da Loyola, in Bibliotheca Sanctorum. Enciclopedia dei santi, a cura di F. CARAFFA, Roma, Città Nuova, 19984, vol. 7, pp. 674-706), ma non è presente nella tradizione, risultando un termine innovativo (LIZ). 5. chi conversa: il primo lemma è un pronome relativo doppio (ItalAnt, vol. 1, pp. 494-96) scioglibile in colui che, dove colui è il nominativo del verbo anela mentre che è il nominativo della relativa avente quale verbo conversa, secondo vocabolo, il quale significa parla, fiata (BATTAGLIA, vol. 3, p. 723), quivi con senso di pettegolezzo e chiacchiera, da intendere più accortamente e più latamente come l’emblema della βίος θεωρητικός, la vita nella contemplazione, composta di perdita di tempo in cose vane come la parola; il verso è allitterante nel fonema [k], in specie se unito al precedente che. anela invano: anela è un aulicismo, tipico della lingua poetica, significante aspirare a, desiderare (BATTAGLIA, vol. 1, p. 462), in riferimento alla salvezza che la dottrina cristiana riserva, sottintesa, e derivante dal latino ANHĒLĀ(T) > vocalismo atono e tonico anela (DELI, p. 102), nel senso di respiro dato dallo sforzo per il raggiungimento dell’ambizione; invano, invece, è un avverbio che indica inutilmente (BATTAGLIA, vol. 8, p. 395); si sta qui esponendo il concentrato del pensiero rigido, e perciò parodiato, del gesuita, che crede che il dedicarsi a discorsi e ragionamenti non serva al cristiano retto in Terra. 6. Conversar?: inizia quivi il lacerto della predica dell’ecclesiastico, riportato in discorso diretto; il verbo all’infinito presente, apocopato ed in poliptoto col precedente conversa, è usato con valore sostantivato di nominativo (ItalAnt, vol. 1, pp. 310-11 e vol. 2, pp. 874-79) ed inserito in una domanda retorica dove ha valore assoluto, bastando di per sé ad indicare qualcosa di riprovevole dal punto di vista del predicatore. con gli eletti: ablativo di compagnia, indica che la vita contemplativa non sia concessa nel mondo, bensì riservata alla dimensione degli eletti, ovvero, a sfumatura religiosa, i beati (BATTAGLIA, vol. 5, pp. 85-86), le anime che stanno con Dio dopo la morte. un giorno in cielo: si chiariscono poi i tempi ed i luoghi in cui il discorrere sarà ben accetto, ovvero in futuro (BATTAGLIA, vol. 6, pp. 821-24), poiché per ora si è ancora viventi, ed in Paradiso (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 130-33), credendo escatologia e cosmologia cristiane che la dimensione in cui riposano i morti, in vita retti, abbia sede nell’alto del cielo; l’espressione è iperbolica, anche se il gesuita vuol essere piuttosto serio, comunicando un concetto molto intransigente. 7. Ma vi fu: la congiunzione, in posizione anaforica, come tipico nella letteratura tanto greco-latina, quanto italiana, ha valore avversativo (ItalAnt, vol. 1, pp. 259-62) e segna un forte distacco rispetto al resto della poesia, esplicitando finalmente il giudizio dell’autore e dei suoi coevi, opposto al rigorismo del sacerdote, finora soltanto accennato; l’adozione di vi anziché ci, vale a dire esservi anziché esserci, è comune nella lingua alta e letteraria (ItalAnt, vol. 1, pp. 431-32), con fu allitterativo in f grazie al prossimo ferì. chi ferì: pronome relativo doppio (ItalAnt, vol. 1, pp. 494-96) scioglibile in colui che, dove colui è il nominativo del verbo vi fu mentre che è il nominativo della relativa avente quale verbo ferì, cruenta metafora per asserire colpì, si scagliò contro (BATTAGLIA, vol. 5, pp. 821-25), in quanto c’è stato chi ha fatto satira cattiva avversa al padre gesuita; si noti inoltre come anche i delatori rimangano nell’anonimato. quel troppo zelo: emerge patente il giudizio dell’autore e dei suoi coevi sugli eccessi del predicatore, querelato per esagerato zelo, termine che, di radice indoeuropea indicante invidia e competizione, approdata dal greco al latino ZĒLŬ(M) > vocalismo atono e tonico zelo (DELI, p. 1848), indica la veemenza, il fervore ed è un vocabolo tipico del sentimento religioso (BATTAGLIA, vol. 21, pp. 1065-66), in questo caso significando, per perifrasi, la posizione radicale del sacerdote contro il vaniloquio.

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8. con sattirica penna: ablativo di mezzo, privo dell’articolo data la presenza di con, il pregiato sintagma è similmente posto in «da satiro […] / penna» da MARINO, Galeria, CCCLXVII, 2-3 (LIZ) e contiene un’enallage, dove è il poeta che scrive ad essere satirico, non la penna che usa; sattirica è un ipercorrettismo di geminate, dall’idea antica di satira come componimento misto di temi, stili e metri, appunto saturo nel senso di ricolmo, da cui poi SĂTЎRĬCA(M) > vocalismo tonico ed atono *SATIRECA > chiusura di e postonica satirica (DELI, p. 1441), mentre penna deriva dal piumaggio d’uccello usato per compilare fino a qualche secolo fa, PĒNNA > vocalismo atono e tonico penna (DELI, p. 1162), ed indica proprio lo strumento scrittorio (BATTAGLIA, vol. 12, pp. 1017-22); evidente è il chiasmo con i due lemmi posteriori. ed estro insano: coordinato al precedente emistichio da ed, con lo stesso valore sintattico e la stessa omissione d’articolo, la iunctura è molto ricercata nei termini, quasi sperimentale, difatti corre uguale in LUBRANO, Sonetti, I, 5 (LIZ); estro vale impeto, fervore (BATTAGLIA, vol. 5, pp. 474-75) ed è un lemma che nasce in Grecia per indicare un fastidioso insetto, che sobilla appunto, entrando in italiano mediato da ŌESTRŬ(M) > vocalismo atono e tonico *OESTRO > monottongamento di oe estro (DELI, p. 545), mentre insano ha origine nell’univerbazione latina, nel senso di carente nel senno, di ĬN privativo e SANŬ(M) > vocalismo tonico ed atono insano (DELI, p. 789) e comunica sconsiderato, irragionevole (BATTAGLIA, vol. 8, pp. 82-83); evidenti sono il sigmatismo ed il nitacismo con i due vocaboli anteriori. 9. Pari: inizia quivi il rivolgersi dell’autore direttamente ai satiri che criticano l’ecclesiastico, cercando di ammansirli; il verbo è indirizzato ad una seconda persona singolare, un tu generico, peculiare della tradizione satirica, ed è a dire sembri (BATTAGLIA, vol. 12, pp. 592-96). cinico audace: sintagma elaborato ed innovativo, introvabile altrove e privo dell’articolo in accordo al costume poetico; cinico ha indicato inizialmente chi ha condotto una vita canina, ridotta all’osso, provenendo da CЎNĬCŬ(M) > vocalismo atono e tonico *CINECO > chiusura di e postonica cinico (DELI, p. 341), ma ha assunto nel tempo il senso di persona sprezzante, impudente (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 157-58), mentre audace sembra conservare il valore negativo che possiede in latino, dove vale temerario, scriteriato, poiché proviene da colui che osa, appunto AŪDACE(M) > vocalismo tonico ed atono audace, cultismo che conserva il dittongo au (DELI, p. 147), piuttosto che quello italiano di valoroso, ardito (BATTAGLIA, vol. 1, p. 839); intende incriminare per eccessivo rigore, stavolta, non il padre omiletico, bensì i suoi delatori. al buon padrino: perifrasi per indicare il gesuita, è composta da buon, apocopato, nel senso morale di benevolo, bonaccione, quasi a tacciarlo di ingenuità (BATTAGLIA, vol. 2, pp. 442-50), e da padrino, alterato diminutivo (ItalAnt, vol. 2, pp. 1504-05) di padre, quasi affettivo, il titolo reverenziale con cui rivolgersi, secondo il galateo religioso, ad un sacerdote; interessante il fatto che padrino sia soltanto occasionale nella letteratura prima di ricorrere davvero insistentemente in Sarpi ed in Tassoni, che lo canonizzano (LIZ); marcato è l’enjambement col verso che segue. 10. Perdona: ancora un appello alla seconda persona, questa volta pure all’imperativo, del Dotti, che invita a scusare il comportamento intransigente; si tratta del primo dei tre lemmi che, in questo stico, rivelano assonanza, e del centro della sinchisi tra i vv. 9-10, da riordinarsi perdona la voglia ingorda del dir mal al buon padrino. del mal dir: genitivo di specificazione riferito a voglia ingorda, dir è un infinito sostantivato (ItalAnt, vol. 1, pp. 310-11 e vol. 2, pp. 874-79) in apocope e mal è l’avverbio male, anch’esso apocopato, trattandosi di una perifrasi per connotare, in eufemismo, l’intollerante morale, appunto il dire male, comunicata dal gesuita; si notino il deltacismo e l’anastrofe, nonché il fatto che mal dir è un dittico tradizionalissimo in poesia fin dalle e soprattutto nelle origini duecentesche (LIZ). voglia ingorda: è un sintagma non comune nella tradizione, che spunta timidamente solo in Ariosto, Tasso e Marino (LIZ), il quale compone una metafora nella semantica dell’abbuffarsi, significando ingorda proprio insaziabile, famelica (BATTAGLIA, vol. 7, pp. 1059-60) e provenendo dall’univerbazione di ĬN illativo e del latino volgare *GŬRDUM, che vale a causa della pesantezza, quindi ĬNGŬRDA(M) > vocalismo tonico ed atono ENGORDA > chiusura di e protonica ingorda (DELI, p. 782); si tratta del robusto desiderio che ha il predicatore di far valere la propria etica. 11. carattere anch’esso: non è chiaro a che cosa anch’esso, per altro in iperbato, si riferisca, dato che grammaticalmente dovrebbe rifarsi all’ultimo sostantivo, ma in poesia ciò non vale, così si suppone si rivolga al mal dir od al buon padrino dei versi precedenti; carattere, privo d’articolo secondo una prassi diffusa, quivi significa, in maniera vaga, disposizione, inclinazione (BATTAGLIA, vol. 3, pp. 738-41) ed, accordato con ha, possiede una sfumatura metaforica. alto e divino: in bilico tra dittologia sinonimica ed endiadi, alto è metaforico ed indica qualcosa che si innalza o procede dall’alto, essendo l’elevato la sede di Dio, mentre divino è un più diretto rimando alla divinità; si tratta quindi di due aggettivi, in sintagma canonico fin dalla poesia delle origini (LIZ) e riferiti a carattere, che discolpano il prete e rendono la sua omelia comunque eminente e santa, benché eccessivamente inflessibile. 12. Che non meriti lode: il comportamento del sacerdote, per litote, non è da lodare, cercando il Dotti ancora una volta di contemperare le posizioni; si notino meriti, oggetto di poliptoto ai vv. 13-14, e lode, privo d’articolo nell’uso poetico.

ognun l’accorda: i due termini si trovano in iperbato rispetto al resto del verso, dove ognun, nominativo, è in apocope, mentre l’accorda, con l’ pleonastico, è il verbo che regge l’infinitiva del primo emistichio; accorda, aulicismo da poesia più che da prosa, vale concorda, è d’accordo (BATTAGLIA, vol. 1, p. 105); la iunctura, formulata in modo similare, si colloca in PULCI, Morgante, XIX 154, 1 ed ARIOSTO, Orlando Furioso, XLIII 197, 6 (LIZ).

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13. sattire non merta: il verbo è sincopato, dal latino MĔRĒTUR > regolarizzazione della deponenza per analogia alle altre coniugazioni e metaplasmo nella prima *MĔRA(T) > vocalismo tonico ed atono, con blocco del dittongamento per innesto col lemma MERITUS merita > sincope merta (DELI, p. 965), mentre il sostantivo è in ipercorrettismo di geminate da satire, per cui cfr. v. 8, e non presenta l’articolo, secondo l’uso; è la più diretta presa di posizione del narratore nella sua apologia in favore del figuro. poverino: è l’ennesimo alterato del testo, in diminutivo (ItalAnt, vol. 2, pp. 1504-05) da povero, quasi affettivo, ma non nel senso materiale di indigente, bensì metaforico di misero, infelice (BATTAGLIA, vol. 13, pp. 1131-36); centro della sinchisi del verso, che si riordini il poverino non merta sattire, è un altro tentativo di scusare il satireggiato dal mocking. 14. merta: in anadiplosi, riprende in positivo che cosa effettivamente meriti il gesuita, aprendo al coup de foudre finale di questa poesia, che, nei toni accomodanti e comprensivi, costituisce un messaggio morale; linguisticamente, cfr. v. 13. lingua ch’insegni e non che morda: la lingua, priva d’articolo, è qui intesa non come il muscolo del cavo orale, bensì, in bilico tra metafora e metonimia, come l’organo da cui procede la parola, nel senso, quasi rimproverevole, proprio di discorso, ramanzina (BATTAGLIA, vol. 9, pp. 104-11); ch’ è in elisione ed introduce una subordinata relativa impropria con valore finale (ItalAnt, vol. 2, pp. 1086-89); insegni e morda, in antitesi tra di loro, sono due espressioni metaforiche risultato della lingua, di cui la prima, affermata, indica l’aspetto educativo del linguaggio, mentre la seconda, negata, ne indica quello irrisorio; ciò che serve al padre predicatore, insomma, non sono parole di satira, bensì parole di consiglio, ecco in che cosa consiste il fulmen in clausola, tutto teso all’etica, del sonetto; l’idea della «lingua mordace» ricorre già in TEBALDEO, Rime, CXCVI, 2 e CCLXXXI, 55, ARIOSTO, Rime, LXX, 82, CELLINI, Vita, II 44, MARINO, Galeria, CCCC, 33 ed Adone, XV 14, 7 (LIZ).

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4. Riferimenti bibliografici

Trascurando qualsiasi rimando bibliografico troppo specifico, per il quale si invita a leggere

il testo negli appositi punti, si elenca qui di seguito una bibliografia essenziale, quindi non

esaustiva, attinente al materiale che ricorre più spesso e che si è consultato per redigere il

presente contributo. Si avvisa inoltre che non sono state incluse le edizioni delle opere

letterarie, risultando quelle essenziali soltanto sei (ovvero B. DOTTI, Delle rime. I sonetti,

Venezia, s. e., 1689, B. DOTTI, Satire, Ginevra [ma Parigi], Cramer, 1757, B. DOTTI, Satire,

Amsterdam [ma Venezia], s. e., 1790, B. DOTTI, Satire inedite, Ginevra [ma Parigi], s. e.,

1797, B. DOTTI, Satire, Ginevra [ma Parigi], s. e., 1807 e B. DOTTI, Odi e altre rime inedite, a

cura di V. BOGGIONE, Brescia, Queriniana, 1997), e che le citazioni dagli autori moderni

sono redatte secondo la prassi coeva, mentre quelle dagli autori antichi secondo le norme

dettate dal Thesaurus Linguae Latinae e dal Liddell and Scott’s Greek-English Lexicon.

4.1 Barocco ed Arcadia

C. JANNACO - M. CAPUCCI, La poesia tra classicismo e concettismo, in Storia letteraria d’Italia, a cura di A. BALDUINO, Milano, Vallardi, 19863, vol. 8, pp. 177-387 C. CALCATERRA, Il Parnaso in rivolta, Milano, Mondadori, 1940 C. CALCATERRA, Il Barocco in Arcadia, in ID., Il Barocco in Arcadia e altri scritti sul Settecento, Bologna, Zanichelli, 1950, pp. 1-34 G. GETTO, La polemica sul Barocco, in Letteratura italiana, Milano, Marzorati, 1956, vol. 1, pp. 417-504 B. MIGLIORINI, Etimologia e storia del termine «Barocco» e W. BINNI, Il Rococò letterario, in Manierismo, Barocco, Rococò: concetti e termini. Atti del convegno, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1962, rispettivamente pp. 34-49 e 217-37 A. PIROMALLI, L’Arcadia, Palermo, Palumbo, 19752 F. CROCE, Tre momenti del Barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966 E. RAIMONDI, Anatomie secentesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966 W. T. ELWERT, Poesia lirica italiana del Seicento. Studio sullo stile barocco, Firenze, Olschki, 1967 C. VARESE, Poesia, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. CECCHI - N. SAPEGNO, Milano, Garzanti, 1967, vol. 5, pp. 762-908 W. BINNI, La letteratura nell’epoca arcadico-razionalistica, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. CECCHI

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72

C. BOLOGNA, Tradizione testuale e fortuna dei classici italiani, in Letteratura italiana, a cura di A. ASOR ROSA, Torino, Einaudi, 1986, vol. 6, pp. 445-928 A. COTTIGNOLI, «Antichi» e «Moderni» in Arcadia, in La colonia renia. Profilo documentario e critico dell’Arcadia, a cura di M. SACCENTI, Modena, Mucchi, 1988, vol. 2, pp. 53-69 M. GUGLIELMINETTI, Giovanni Battista Marino. La lirica, l’epica e la parodia, in Storia della civiltà letteraria italiana, a cura di G. BÀRBERI SQUAROTTI, Torino, UTET, 1990, vol. 3, pp. 357-411 G. JORI, Poesia lirica «marinista» e «antimarinista», tra Classicismo e Barocco, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. MALATO, Roma, Salerno, 1997, vol. 5, pp. 653-726 A. L. BELLINA - C. CARUSO, Oltre il Barocco: la fondazione dell’Arcadia, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. MALATO, Roma, Salerno, 1998, vol. 6, pp. 239-312 A. BATTISTINI, Il Barocco. Cultura, miti, immagini, Roma, Salerno, 2000 P. FRARE, Le poetiche del Barocco, A. BATTISTINI, Le retoriche del Barocco, A. QUONDAM, Il Barocco e la letteratura e M. GUGLIELMINETTI, Gli studi sul Barocco nel Novecento, in I capricci di Proteo. Atti del convegno, Roma, Salerno, 2002, rispettivamente pp. 41-70, 71-109, 111-75 e 645-59 E. BELLINI, La letteratura nell’età della nuova scienza, in Il Seicento. Atti del convegno, a cura della SOCIETÀ

DANTE ALIGHIERI, Milano, Donizetti, 2004, pp. 47-70 P. FRARE, La condanna etica e civile dell’Ottocento nei confronti del Barocco, in «Italianistica», 33/I (2004), pp. 147-165 J. R. SNYDER, L’estetica del Barocco, Bologna, Il Mulino, 2005 E. RUSSO, Sul Barocco letterario italiano. Giudizi, revisioni, distinzioni, dans «Les dossier du GRIHL», 6/II (2012), sous presse

4.2 Bartolomeo Dotti

E. LEVI, Un poeta satirico: Bartolomeo Dotti, in «Nuovo archivio veneto», 12 (1896), pp. 5-77 C. JANNACO - M. CAPUCCI, La poesia tra classicismo e concettismo, in Storia letteraria d’Italia, a cura di A. BALDUINO, Milano, Vallardi, 19863, vol. 8, pp. 357-58 e 510 E. FILIPPINI, Una miscellanea poetica del sec. XVIII contenente parecchie satire di Bartolomeo Dotti, in «Rassegna bibliografica della letteratura italiana», 14 (1906), pp. 326-39 L. BOLDRINI, I sonetti d’amore del bresciano cavalier Bartolomeo Dotti, in «Illustrazione bresciana», 1.I.1909 L. BOLDRINI., Brescia nei sonetti di Bartolomeo Dotti, in «Illustrazione bresciana», 1.VII.1909 E. FILIPPINI, A proposito di una recente pubblicazione sulle raccolte poetiche del Settecento, in «Ateneo veneto», 32 (1909), pp. 371-87 F. LOMBARDI, Una leggenda dei Ss. Faustino e Giovita in un sonetto di Bartolomeo Dotti, in «Brixia sacra», 5 (1914), pp. 188-89 E. FILIPPINI, Dove e in quale anno nacque Bartolomeo Dotti, in «Rassegna critica della letteratura italiana», 39 (1924), pp. 153-86

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C. A. DOTTI, La patria di Bartolomeo Dotti, in «Il cittadino di Brescia», 28.VII.1926 G. GETTO, Introduzione ai lirici marinisti, introduzione a Opere scelte di Giovan Battista Marino e dei Marinisti, a cura di ID., Torino, UTET, 1954, vol. 2, ad indicem U. LIMENTANI, La satira nel Seicento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1961, pp. 6-7 F. CROCE, Tre lirici dell’ultimo barocco. III, Bartolomeo Dotti, in «Rassegna della letteratura italiana», 47/I (1963), pp. 3-49 E. TRAVI, La lirica barocca in Italia, Torino, SEI, 1965, pp. 207-12 F. CROCE, La lirica tardo barocca dell’Artale, del Lubrano e del Dotti, in ID., Tre momenti del Barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966, pp. 323-92 C. VARESE, Poesia, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. CECCHI - N. SAPEGNO, Milano, Garzanti, 1967, vol. 5, pp. 764, 812-14 e 908 G. GETTO, Barocco in prosa e in poesia, Milano, Rizzoli, 1969, pp. 41, 47, 65, 72, 74, 80-82, 85 G. DUVAL-WIRTH, La mise en accusation de la justice dans la littérature italienne du XVII siècle, dans «Revue des études italiennes», 16 (1970), pp. 5-48 G. BALDASSARRI, «Acutezza» e «ingegno»: teoria e pratica del gusto barocco, in Storia della cultura veneta, a cura di G. ARNALDI - M. PASTORE STOCCHI, Vicenza, Neri Pozza, 1983, vol. 4/I, pp. 245-47 A. FRANCESCHETTI, L’Arcadia veneta, in Storia della cultura veneta, a cura di G. ARNALDI - M. PASTORE

STOCCHI, Vicenza, Neri Pozza, 1985, vol. 5/I, pp. 133 e 156 N. LONGO, La letteratura proibita, in Letteratura italiana, a cura di A. ASOR ROSA, vol. 5, Torino, Einaudi, 1986, p. 990 C. BOLOGNA, Tradizione testuale e fortuna dei classici italiani, in Letteratura italiana, a cura di A. ASOR ROSA, vol. 6, Torino, Einaudi, 1986, p. 740 M. GUGLIELMINETTI, Giovanni Battista Marino. La lirica, l’epica e la parodia, in Storia della civiltà letteraria italiana, a cura di G. BÀRBERI SQUAROTTI, Torino, UTET, 1990, vol. 3, p. 388 A. PELLEGRINO, voce Bartolomeo Dotti, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1992, vol. 41, pp. 532-34 C. VOVELLE, Démêlés et pérégrinations d’un vénitien en marge à travers six lettres inédites de B. Dotti, dans «Cahier d’Études Romanes», 18 (1994), pp. 211-37 C. VOVELLE, Il fascino discreto della nobiltà: Bartolomeo Dotti tra esilio e compromesso (1674-1706), in «Trimestre», 28 (1995), pp. 157-219 G. JORI, Poesia lirica «marinista» e «antimarinista», tra Classicismo e Barocco, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. MALATO, Roma, Salerno, 1997, vol. 5, pp. 590, 688, 707-08 e 764 V. BOGGIONE, «Poi che tutto corre al nulla»: le rime di Bartolomeo Dotti, Torino, Res, 1997 G. BÀRBERI SQUAROTTI, Bartolomeo Dotti: l’arte del sonetto morale, in «Rivista di letteratura italiana», 19/I (2001), pp. 79-104

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V. BOGGIONE, Dotti, Testi e l’idea della letteratura, in «Levia Gravia», 4 (2002), pp. 177-192 R. ANTONIOLI, Vago et curioso: un itinerario attraverso le opere di autori bresciani del Seicento possedute dalla Biblioteca Queriniana, in «Annali Queriniani», 8 (2007), pp. 47-106 G. ALONZO, La satira secentesca: modi, forme, questioni, Università statale di Milano, XXIV ciclo, a.a. 2010-11, tutoraggio e coordinazione di F. SPERA, ad indicem (disponibile su http://hdl.handle.net/2434/171676, ultimo accesso il 17.II.2015) E. CAVAGNINI, Le biografie manoscritte di Bartolomeo Dotti (1648-1713): studio ed edizione, Diss., Brescia, 2011

4.3 Filologia, linguistica e stilistica

C. M. BRIQUET, Les filigranes. Dictionnaire historique des marques du papier, Leipzig, Hiersemann, 1923 (= BRIQUET) A. ERNOUT - A. MEILLET, Dictionnaire Étimologique de la Langue Latine, Paris, Klincksieck, 19594 (= DELL) B. MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 19836

H. LAUSBERG, Elemente der literarischen Rhetorik, München, Hueber, 1949, letto come H. LAUSBERG, Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino, 1969 G. ROHLFS, Historische Grammatik der italienischen Sprache und ihrer Mundarten, 3 Bd., Bern, Francke, 1949-54, disponibile quale G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, 3 voll., Torino, Einaudi, 1966-69 (= ROHLFS) The New Cambridge Modern History, 14 voll., edited by G. NORMAN CLARK, Cambridge, Cambridge University Press, 1957-79 Dizionario biografico degli Italiani, 82 voll. (attuali), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960- Grande dizionario della lingua italiana, a cura di S. BATTAGLIA - G. BÀRBERI SQUAROTTI, 21 voll., Torino, UTET, 1961-2002 (= BATTAGLIA) F. BRAMBILLA AGENO, Il verbo nell’italiano antico, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964

Dizionario enciclopedico della letteratura italiana, a cura di G. PETRONIO, 6 voll., Roma-Bari, Laterza-UNEDI, 1966-70 W. T. ELWERT, Italienische Metrik, München, Hueber, 1968, letto come W. T. ELWERT, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Le Monnier, 1973 Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di V. BRANCA, 4 voll., Torino, UTET, 19862 F. BRAMBILLA AGENO, L’edizione critica dei testi volgari, Padova, Antenore, 19842 M. CORTELAZZO - P. ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, a cura di M. A. CORTELAZZO, Bologna, Zanichelli, 19992 (= DELI) Guida ai dialetti veneti, a cura di M. CORTELAZZO, 15 voll., Padova, CLEUP, 1979-91

75

A. PETRUCCI, La descrizione del manoscritto. Storia, problemi, modelli, Roma, Carocci, 20012 L. SERIANNI, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria: suoni, forme, costrutti, Torino, UTET, 1988 (= SERIANNI) B. MORTARA GARAVELLI, Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 200811

L’italiano nelle regioni, a cura di F. BRUNI, Torino, UTET, 1991 A. MENICHETTI, Metrica italiana: fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore, 1993 V. COLETTI, Storia dell’italiano letterario, Torino, Einaudi, 1993 C. MARAZZINI, Il secondo Cinquecento e il Seicento (compreso nell’ambito della Storia della lingua italiana a cura di F. BRUNI), Bologna, Il Mulino, 1993 T. MATARRESE, Il Settecento (compreso nell’ambito della Storia della lingua italiana a cura di F. BRUNI), Bologna, Il Mulino, 1993 Letteratura italiana Zanichelli. CD-ROM dei testi della letteratura italiana, a cura di P. STOPPELLI - E. PICCHI, Bologna, Zanichelli, 20014 (= LIZ) Indice biografico italiano, a cura di T. NAPPO - P. NOTO, 4 voll., München-Leipzig, Saur, 1993 Storia della lingua italiana, a cura di L. SERIANNI - P. TRIFONE, 3 voll., Torino, Einaudi, 1993-94 M. MARTELLI - F. BAUSI, La metrica italiana. Teoria e Storia, Firenze, Le Lettere, 1993 C. MARAZZINI, La lingua italiana. Profilo storico, Bologna, Il Mulino, 20023

A. STUSSI, Introduzione agli studi di filologia italiana, Bologna, Il Mulino, 20114 G. LAVEZZI, Manuale di metrica italiana, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1996 L. SERIANNI, La lingua del Seicento: espansione del modello unitario, resistenze ed esperimenti centrifughi, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. MALATO, Roma, Salerno, 1997, vol. 5, pp. 561-95 A. CASTELLANI, Grammatica storica della lingua italiana. Introduzione, Bologna, Il Mulino, 2000 P. CHIESA, Elementi di critica testuale, Bologna, Pàtron, 20122 G. PATOTA, Nuovi lineamenti di grammatica storica dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 20072 (= PATOTA) B. MORTARA GARAVELLI, Prontuario di punteggiatura, Roma-Bari, Laterza, 201416

I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, a cura di M. CORTELAZZO, Torino, UTET, 2003 M. LOPORCARO, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Roma-Bari, Laterza, 2009 L. SERIANNI, La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma, Carocci, 2009 (= LinPoet) G. SALVI - L. RENZI, Grammatica dell’italiano antico, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 2010 (= ItalAnt) Y. GOMEZ GANE, Dizionario della terminologia filologica, Torino, aAccademia University Press, 2013

76

Ringrazio la professoressa Mirella Ferrari ed il dottor Emiliano Bertin dell’Università

Cattolica di Milano, per i preziosi consigli la prima e per una lettura attenta e produttiva il

secondo, e padre Costanzo e padre Agostino, con tutti i cappuccini del Convento di San

Francesco in Milano, per la disponibilità e la cordialità offertemi nel visionare i loro

manoscritti.

N. S. GAVUGLIO