provenienze e modalità di spogliazione e di reimpiego a roma tra tardoantico e medioevo, in...

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Quando si affronta la problematica del reimpiego, limitarsi al tema delle provenienze delle spoglie è certamente riduttivo se si considera che l’impor- tanza degli elementi antichi riutilizzati è soprattutto nel nuovo significato che essi assumono nei contesti di riutilizzo: stiamo parlando naturalmente degli elementi destinati a essere visti e non di quelli frammentati e “nascosti” nelle murature dove hanno funzione di coementa. È per i primi che la gam- ma delle interpretazioni, dei significati varia a seconda dei contesti e delle funzioni negli edifici in cui sono mesi in opera, Nel campo degli elementi di elevato, quali basi, capitelli e fusti, si passa da spiegazioni funzionali (“sostenere”) e di arricchimento dell’aspetto decorativo e del prestigio dei nuovi spazi architettonici in cui sono inseriti, tramite appunto l’uso di spoglie provviste di dignitas, di decus, a interpretazione invece cercate prevalente- mente sul piano simbolico o addirittura ideologico: nell’edilizia religiosa la vittoria della chiesa sull’impero romano e in quella civile o anche privata il richiamo all’autorità imperiale romana nel segno della continuità quale giustificazione del potere delle nuove classi dirigenti. A meno che, dunque, non si tratti di spoglie particolari, la domanda sulla loro provenienza risulta meno importante rispetto ai significati acquisiti nel nuovo contesto. Tuttavia in una visione complessiva del fenomeno del reimpiego, anche la ricerca dei monumenti da cui provenivano le spoglie può divenire un campo di feconde ricerche storiche, in quanto contribuisce a spiegare i cambiamenti sociali e anche politici che si verificano di volta in volta e ancora ci permette in qualche modo di “misurare” il rapporto con l’antico intrattenuto nei vari periodi. In questa sede tratteremo soprattutto del reimpiego architettonico e rile- veremo come, quando il fenomeno è seguito attraverso i secoli, si possano ottenere informazioni importanti per ricostruire le tappe della spoliazione dei monumenti antichi e della trasformazione della città di Roma tra il PATRIZIO PENSABENE PROVENIENZE E MODALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA TRA TARDOANTICO E MEDIOEVO

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Quando si affronta la problematica del reimpiego, limitarsi al tema delle provenienze delle spoglie è certamente riduttivo se si considera che l’impor-tanza degli elementi antichi riutilizzati è soprattutto nel nuovo significato che essi assumono nei contesti di riutilizzo: stiamo parlando naturalmente degli elementi destinati a essere visti e non di quelli frammentati e “nascosti” nelle murature dove hanno funzione di coementa. È per i primi che la gam-ma delle interpretazioni, dei significati varia a seconda dei contesti e delle funzioni negli edifici in cui sono mesi in opera, Nel campo degli elementi di elevato, quali basi, capitelli e fusti, si passa da spiegazioni funzionali (“sostenere”) e di arricchimento dell’aspetto decorativo e del prestigio dei nuovi spazi architettonici in cui sono inseriti, tramite appunto l’uso di spoglie provviste di dignitas, di decus, a interpretazione invece cercate prevalente-mente sul piano simbolico o addirittura ideologico: nell’edilizia religiosa la vittoria della chiesa sull’impero romano e in quella civile o anche privata il richiamo all’autorità imperiale romana nel segno della continuità quale giustificazione del potere delle nuove classi dirigenti.

A meno che, dunque, non si tratti di spoglie particolari, la domanda sulla loro provenienza risulta meno importante rispetto ai significati acquisiti nel nuovo contesto. Tuttavia in una visione complessiva del fenomeno del reimpiego, anche la ricerca dei monumenti da cui provenivano le spoglie può divenire un campo di feconde ricerche storiche, in quanto contribuisce a spiegare i cambiamenti sociali e anche politici che si verificano di volta in volta e ancora ci permette in qualche modo di “misurare” il rapporto con l’antico intrattenuto nei vari periodi.

In questa sede tratteremo soprattutto del reimpiego architettonico e rile-veremo come, quando il fenomeno è seguito attraverso i secoli, si possano ottenere informazioni importanti per ricostruire le tappe della spoliazione dei monumenti antichi e della trasformazione della città di Roma tra il

PATRIZIO PENSABENE

PROVENIENZE E MODALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA

TRA TARDOANTICO E MEDIOEVO

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tardo antico e il medioevo. Ricostruire dunque la provenienza delle spoglie architettoniche, anche se in realtà è possibile in un numero limitato di casi rispetto alle enorme mole dei materiali reimpiegati, ci consente di risalire alle modalità dell’abbandono degli edifici antichi, ai tempi con cui essi si trasformarono in cave di materiali, e soprattutto ai mutamenti che nel corso dei tempi subisce proprio la richiesta di spoglie e all’atteggiamento nei diversi periodi verso la qualità e la quantità delle spoglie.

È di prammatica cominciare con l’arco di Costantino e con la basilica Lateranense perché entrambi, pur nella continuità di un pratica sempre esistita, anche se a Roma si accentua soprattutto dal III sec. d.C. in poi, segnano un cambiamento epocale proprio a riguardo del reimpiego1: spo-glie e pezzi lavorati ex novo sono assemblati insieme (fig. 1) in modo da restituire una forma omogenea, che si riallaccia alle antiche tradizioni architettoniche, pur apportando novità compositive importanti, secondo i dettami della traditio, della inventio e della varietas. Sono questi dettami che ora consentono di mettere sullo stesso piano pezzi di riutilizzo e pez-zi nuovi, di lasciare in secondo piano le differenze stilistiche tra le varie componenti, in quanto unifica, anzi prevale su tutto, il messaggio affidato all’architettura dei due monumenti, il primo destinato a celebrare la vitto-ria di Costantino su Massenzio, mettendo in ombra il fatto “scandaloso” che ad essere celebrata è una guerra civile, il secondo a contrapporre alle basiliche tradizionali romane un nuovo tipo di basilica, quella cristiana, dentro la quale si svolgevano funzioni religiose per onorare il dio che aveva permesso la vittoria dell’imperatore sul suo rivale. Abbiamo già discusso in passato sul significato dei due monumenti a tale riguardo, ma in questa sede interessa sottolineare le conseguenze che avrà il fatto che tutte le loro componenti marmoree siano costituite da elementi di reimpiego, in alcuni casi rilavorati, ma nella maggioranza messi in opera con lo stesso aspetto che avevano nel luogo del primo impiego.

Innanzitutto ciò implica una disponibilità di spoglie marmoree pre-sumibilmente provenienti da monumenti pubblici, o comunque imperiali, data la loro grandezza e la qualità della loro lavorazione. Se siamo ancora in un periodo in cui la città, nella sua parte monumentale, era certamente quasi tutta in piedi, tuttavia dovevano essersi costituiti magazzini proba-bilmente statali in cui vi erano radunati i resti di edifici danneggiati per qualche evento naturale (terremoti, incendi) o parti di monumenti rimasti incompiuti per varie cause quale la damnatio memoriae, ripensamenti di

1 P. PENSABENE, Il reimpiego nell’età costantiniana, in Costantino il grande. Dall’an-tichità all’umanesimo. Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico, Macerata, 18-20 dicembre 1990, Macerata 1993, tomo II, pp. 749-768, in part. p. 755 ss.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 673

Fig.

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costruzioni, adattamenti. In questo senso si è ventilata l’ipotesi che nell’Ar-co di Costantino alcuni dei marmi architettonici provenissero dagli avanzi della ricostruzione massenziana delle celle e della peristasi del Tempio di Venere a Roma che poco prima erano state danneggiate nell’incendio di Carino e che in occasione della ricostruzione subì la parziale eliminazione del colonnato interno del peristilio: dal tempio sicuramente provengono alcuni elementi architettonici reimpiegati nella Basilica di Massenzio2. Non è più cosi certa inoltre la provenienza dal Foro Traiano dei Daci dell’arco, sia perché delle stesse dimensioni non ne sono stati trovati nel foro, sia per aver rinvenuto frammenti di statue semilavorate in pavonazzetto di Daci in depositi marmorari connessi al porto tiberino presso il Campo Marzio3. In effetti, la scritta ad arcu(m) incisa sulla base dei Daci dell’Arco di Co-stantino4 fa pensare a una loro precedente collocazione in un magazzino, dentro cui sarebbero stati scelti, che non eventualmente sui portici del foro dove avrebbe causato maggiore difficoltà l’incisione di tale destinazione, soprattutto se le statue erano collocate sull’attico5. Ricordiamo che anche nell’Arco di Giano è reimpiegato nella pavimentazione un blocco di tra-vertino in cui è inciso ARCI che potrebbe ugualmente rappresentare una sigla di destinazione6.

Sia l’arco di Costantino7, sia l’arco “di Giano” (da identificare pro-babilmente con l’Arco del divus Costantinus)8 già pongono, dunque, il problema dell’esistenza di un grande edificio pubblico di cui parte della trabeazione doveva essere caduta in disuso, perché in entrambi gli archi sono reimpiegati frammenti di fregio-architrave e altre parti di trabeazione (figg. 2-4) che presuppongono l’origine da importanti monumenti, come

2 A. CARÈ, L’ornato architettonico della Basilica di Massenzio, Roma 2005, pp. 51,86, cat. n. 4, tav. 13 (elemento di architrave alto cm. 124, che nel tempio doveva far parte della trabeazione del peristilio).

3 M. MAISCHBERGER, Marmor in Rom (Palilia 1), Wiesbaden 1997.4 CIL VI, 36617; C. FEA, Notizie degli scavi dell’Anfiteatro Flavio, Roma 1813, p. 23;

P. PENSABENE, Progetto unitario e reimpiego nell’Arco di Costantino, in P. PENSABENE, C. PANELLA (ed.), Arco di Costantino tra archeologia e archeometria, Roma 1999, pp. 13-42, in part. pp. 33, 35, fig.25.

5 I Daci in pavonazzetto rinvenuti nel foro di Traiano sono apparentemente più piccoli dell’arco. Gli altri sono invece in marmo bianco: L. UNGARO in L. UNGARO, M. DE NUCCIO (ed.), Marmi colorati della Roma Imperiale, Roma 2002, pp. 336-337.

6 P. PENSABENE, C. PANELLA, Reimpiego e progettazione architettonica nei monumenti tardoantichi di Roma, II, Arco Quadrifronte (“Giano”) del Foro Boario, in RendPontAc 67 (1994-1995), pp.25-67, in part. p. 42, fig. 20.

7 P. PENSABENE, C. PANELLA, Reimpiego e progettazione architettonica nei monumenti tardoantichi di Roma, I in RendPontAc 66 (1993-1994), pp. 111-283.

8 PENSABENE, PANELLA (op. cit. nota 6) , pp. 25-67.

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Fig. 2 – Arco di Giano.

Fig. 3 – Arco di Giano. Fig. 4 – Arco di Giano.

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poteva essere appunto l’arco dedicato a Marco Aurelio, da cui proverreb-bero i rilievi dell’attico dell’Arco di Costantino. Ancora, parti reimpiegate di architravi, di basamenti e di rocchi di colonne di dimensioni notevoli hanno fatto pensare ad una provenienza di alcune delle loro spoglie, oltre che dal Tempio di Venere e Roma, anche da un qualche complesso tem-plare del Campo Marzio; ci si riferisce in particolare alla soglia sul lato sud del fornice centrale costituita a un enorme blocco in proconnesio di architrave (lungo m. 5, largo m.1,40) e da quello vicino poco più piccolo, per cui si è ipotizzato una provenienza dal Tempio di Matidia nel Campo Marzio9. È noto, inoltre, come già le colonne onorarie superstiti del lato meridionale del Foro Romano, attribuibili in base ai bolli laterizi all’età dioclezianea, o al massimo a cavallo tra questa e il periodo di Massenzio10, fossero costituite da enormi fusti di reimpiego (rudentati in pavonazzetto, scanalati in marmo bianco, lisci in granito grigio e rosa di Assuan) che di nuovo presuppongono un’origine da grandi edifici: anche la colonna di Foca, che presentava la sua fase principale di epoca dioclezianea o di IV secolo (nella fase della sua ridedicazione del 608, furono aggiunte solo le scalinate sui quattro lati11), era composta da un grande capitello corinzio, di età traianea, e da un fusto scanalato in marmo proconnesio, alto m.13,60, diviso in rocchi e risalente ugualmente alla piena età imperiale. Non me-raviglia quindi che già nei primi decenni del IV sec. d.C. fossero a dispo-sizione per reimpieghi grandi rocchi di colonne scanalate in proconnesio, quali testimoniate appunto dalla colonna di Foca (fig. 5) e da un rocchio dal diametro di m. 1,85 riusato nella muratura dell’Arco di Giano12.

Infine è stato ipotizzato che gli stessi fregi traianei possano essere considerati domizianei, anche perché si ritiene quasi impossibile che il Foro Traiano possa essere stato impoverito per l’arco di Costantino, mentre si

9 PENSABENE, PANELLA (op. cit. nota 7), p. 262, fig. 98 (l’uso del proconnesio ha per-messo di escludere la sua pertinenza all’altro tempio gigantesco di Roma, quello di Marte Ultore al Foro di Augusto con colonne in lunense): v. anche pp. 268-281 sui dubbi che la soglia possa invece attribuirsi a restauri del ’700, ma il reimpiego del fusto gigantesco nella colonna poi di Foca, eretta in età dioclezianea, e il rocchio ancora gigantesco reim-piegato nella muratura dell’Arco di Giano (v. oltre) proverebbero che già vi erano stati grandi edifici in rovina o restaurati con l’avanzo di elementi architettonici (v. sopra anche il Tempio di Venere e Roma) da cui prelevare grandi spoglie.

10 M. STEINBY, L’industria laterizia di Roma nel tardo impero, in A. GIARDINA (ed.), Società romana e impero tardoantico, II, Bari 1986, pp. 99-159, in part. p. 141.

11 C. F. GIULIANI, P. VERDUCHI, L’area centrale del Foro Romano, Firenze 1987, p. 174 ss.

12 PENSABENE, PANELLA (op. cit. nota 6), p. 62, fig. 59: nel tempio di Venere e Roma i fusti scanalati avevano un diametro di m. 1,85.

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ritiene che la damnatio memoriae di Domiziano possa aver lasciato monu-menti incompiuti a lui dedicati, i cui marmi sarebbero stati conservati in magazzini13. Sono comunque possibili altre ipotesi perché si è già rilevato

13 W. GAUER, Konstantin und die Geschichte zu den Spolien am Konstantinsbogen und zur Schlangensäule, in Panchaia. Festschrift K. Thraede, Münster 1995, pp. 131-140.

Fig. 5 – Foro Romano, colonna di Foca.

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che uno dei capitelli compositi del portico in summa cavea del Colosseo, ricostruito sotto Alessandro Severo, è scolpito in un blocco marmoreo di reimpiego con parte di una grande iscrizione in cui si è riconosciuta una dedica a Traiano14, suggerendo quindi l’esistenza di un monumento traianeo già demolito o non compiuto i cui elementi architettonici potevano essere reimpiegati già dalla fine del periodo severiano.

Quello che è certo è che nel corso del IV secolo, e soprattutto nella prima metà del V secolo, l’atteggiamento statale sulla conservazione degli antichi edifici del centro monumentale di Roma non è uniforme. Se sono molteplici gli interventi di restauro nell’area del Foro Romano, tuttavia si registra un precoce abbandono di alcuni monumentali edifici, come il tempio dei Dioscuri: da una parte sono state addotte cause strutturali che avevano minato la stabilità di questo tempio e di altre strutture, determinandone un precoce abbandono e il conseguente smantellamento di alcune parte marmoree, dall’altra si è messo in evidenza come la costruzione dei rostra Diocletiani possa aver “tagliato” dal foro i templi dei Castori e del Divo Giulio di cui si trascurò o s’interruppe il mantenimento, condannandoli ad un declino, evidente dalla metà del IV secolo, al contrario della Curia e della Basilica Giulia che invece furono ricostruiti dopo l’incendio del 28515, del Tempio di Saturno e del Portico degli Dei Consenti ripristinati invece nel terzo trentennio del IV secolo16.

In effetti non emergerà immediatamente un atteggiamento ostile verso i monumenti pagani di Roma, anche quando si tratta di luoghi di culto antichi: vi è infatti una serie di passi legislativi graduali che divengono più decisi e frequenti nel loro contenuto antipagano solo con la fine del IV secolo, quando vari decreti di Teodosio I (v. in particolare quelli del 391) documentano una nuova fase definibile repressiva verso gli antichi templi, ma dettano anche criteri di conservazione degli antichi edifici. Il periodo teodosiano è anche importante per la progressiva comunanza d’intenti e solidarietà che viene a manifestarsi tra l’autorità statale e quella dei vescovi proprio a riguardo del’edilizia pagana17.

14 PENSABENE (op. cit. nota 4), p.33, fig. 23 e bibl. Citata.15 I. NIELSEN, B. POULSEN (ed.), The temple of Castor and Pollux, Roma 1992, p. 58;

K. AAGE NIELSON, C. B. PERSSON, J. ZAHLE, in S. SANDE, J. ZAHLE (ed.), The Temple of Castor and Pollux III, the Augustean Temple, Roma 2010, p. 73: una delle ultime notizie riguardanti il tempio dei Castori è della metà del IV sec. quando il calendario filocaliano (CIL2, 268) ricorda la celebrazione della transvectio equitum associato al tempio.

16 P. PENSABENE, Il Tempio di Saturno, Roma 1984, p. 152.17 Rimando ai contributi contenuti nel volume di W. CUPPERI (ed.), Senso delle rovine

e riuso dell’antico (Annali Scuola Normale di Pisa. Quaderni 14), Pisa 2002, sulle fonti

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Dal V secolo in poi, a parte opere di utilità pubblica come gli acquedotti e le terme, o di pubblico divertimento, come gli edifici di spettacolo, che si restauravano, molte delle strutture antiche erano abbandonate, avendo perso la loro funzione originaria: venivano quasi sempre riutilizzate o asportan-done singole parti, preferibilmente pezzi lavorati o colonne da reimpiegare in nuovi edifici, oppure riutilizzando l’intero edificio antico a cui veniva attribuita una nuova funzione.

Ma è dal VI secolo che si assiste ad una “normale” attività di riutilizzo degli edifici pubblici, e non solo dei templi, e – dopo le guerre gotiche che avevano devastato l’Italia – ad una disponibilità da parte della Chiesa di terre e di denaro maggiori del governo bizantino stesso, che ebbe come conseguenza che la cura e l’amministrazione di molti edifici passarono sotto di essa18. Tuttavia va rilevato che la legislazione tardoantica non ha mai previsto il trasferimento sistematico alla chiesa di edifici pubblici, seb-bene ciò non escluda che questi possano essere stati oggetto di specifici provvedimenti di donazione: è ormai assodato, comunque, che gli effettivi controlli delle autorità vengono meno con il VI secolo19 e che la distrazione dei fundi templorum andasse a totale vantaggio delle Sacrae Largitiones fino oltre il 423, come si desume dal codice teodosiano (CTh, XV,1,18; CJ, XI,71,3-4; CTh, XI,28,14).

I dati archeologici, di pari passo a quelli legislativi, ci permettono di seguire le trasformazioni in atto, documentandoci i prelievi di spoglie e di conseguenza gli abbandoni parziali o completi di monumenti pubblici che cominciano ad infittirsi a partire dal tardo IV secolo. Un’area della città che appare presto colpita in tal senso è di nuovo il Campo Marzio. Infatti dai propilei del Portico di Ottavia (figg. 6, 7) che appartengono al restauro severiano del complesso20 sono prelevati alcuni capitelli e probabilmente altri marmi riutilizzati a S. Paolo fuori le mura del tardo IV sec. d.C., ma con un importante intervento nel V secolo: infatti tre esemplari corinzi reimpiegati sulle colonne della navata centrale della basilica (figg. 8, 9)

citate e la discussione sugli atteggiamenti dello stato verso il mantenimento o meno degli antichi monumenti pagani.

18 R. KRAUTHEIMER, Roma, Profilo di una città, 312-1308, Roma 1981, pp. 92-93.19 G. CANTINO WATAGHIN, …Ut haec aedes Christo Domino in ecclesiam consecretur.

Il riuso cristiano di edifici antichi tra Tarda Antichità ed Alto Medioevo, in Settimane di studio del Centro italiano sull’alto Medioevo (Spoleto 1998), Spoleto 1999, pp. 673-749; A. CAMPESE SIMONE, Fra l’Ara Coeli e piazza Bocca della Verità, persistenze e trasforma-zioni nel tessuto urbano della Roma tardoantica e altomedievale, in AMediev 31 (2004), p. 447.

20 G. TEDESCHI-GRISSANTI, Disiecta membra del Portico di Ottavia in San Paolo f.l.m. e nel duomo di Pisa, da Bollettino dei Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie 19 (1999), pp. 87-98.

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Fig. 6 – Portico di Ottavia.

Fig. 7 – Portico di Ottavia.

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Fig. 8 – San Paolo f.l.m.

Fig. 9 – San Paolo f.l.m.

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sono uguali anche nelle misure ai capitelli ancora in situ nella facciata esterna con frontone del propileo, di cui dovevano essere venute meno le colonne della facciata interna21.

Se però nel corso del IV sec. si è in presenza di smantellamenti solo parziali di edifici antichi, come proverebbe proprio il conservarsi a tutt’oggi della facciata esterna del Portico di Ottavia, è con la prima metà del V sec. d.C., a partire probabilmente degli anni immediatamente successivi al sacco di Roma del 410, che diventano disponibili a Roma interi complessi monumentali, evidentemente danneggiati e non più recuperabili, o comunque non restaurati per mancanza di una volontà politica in questo senso. Si re-gistra cosi l’abbandono della Porticus Liviae sul Colle Oppio che permise nella basilica di S. Pietro in Vincoli la realizzazione di un colonnato dorico uniforme: l’edificio era stato promosso dal papa e da una evergete impe-riale Eudocia, e ciò spiega il permesso di demolire e riutilizzare un intero complesso porticato22. Ancora, sul colle Aventino avviene la demolizione delle Terme di Sura (pare collocate a nord di S. Prisca) che nuovamente permise nella basilica di S. Sabina l’innalzamento di un uniforme colonnato corinzio di II secolo (fig. 10) e di portali con stipiti e architravi ottenuti da spoglie architettoniche sempre dalle terme23: la committenza è ora del pre-sbitero Pietro d’Illiria, evidentemente ben connesso alla corte papale e alla prefettura della città per aver ottenuto il permesso di utilizzare un insieme così importante di elementi architettonici marmorei in buone condizioni di conservazione. Ancora, a S. Paolo f.m., nel restauro successivo al 441, furono sostituite 24 della 40 colonne delle navate con magnifici fusti in pavonazzetto, di cui, non sappiamo su che base, è affermata la provenienza dal Mausoleo di Adriano da parte di Nicola Nicolai, che costituisce la fonte più importante sullo stato della chiesa prima dell’incendio del 182324 e che descrive nel 1815 le colonne (ventiquattro colonne di marmo “pavonazetto di un sol pezzo scanalate da un terzo in su”), di cui riporta il disegno di due esemplari (alti m 10,19 e 10,45).

21 Sul propileo del portico d’Ottavia v. ora M. BRUNO, D. ATANASIO, Il reimpiego nel Portico di Ottavia, in J.-F. BERNARD, PH. BERNARDI, R. MANCINI (ed.), Il reimpiego in architettura. Recupero, Trasformazione, Uso, Roma 2008, pp. 51-66.

22 Secondo un’ipotesi del Krautheimer, non confermata però dai recenti scavi: cfr. C. PANELLA, L’organizzazione degli spazi sulle pendici del Colle Oppio tra Augusto e i Severi, in L’Urbs. Espace urbain et histoire, pp. 611-651.

23 Nel portico d’ingresso alla chiesa è conservata un’iscrizione di Gordiano che ricorda di aver restaurato il balneum Surae (CIL, VI, 40690), da cui certamente sono stati prelevati marmi per la chiesa: l’altezza delle colonne e il loro numero (24) fa pensare al recinto porticato di un importante monumento della zona.

24 N. NICOLAI, Della Basilica di San Paolo, Roma, 1815, pp. 301 e ss.

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Nel V sec. inoltre si registra un abbandono a macchie di leopardo dei fori imperiali: alcuni infatti, come il foro Traiano, sono ancora conservati e presumibilmente oggetto di manutenzione, come già dimostra l’ammirazio-ne per esso di Costanzo II che lo visita nel 356 e come prova l’evidenza archeologica di un uso piuttosto avanzato, altri invece abbandonati, come il foro di Cesare da cui furono prelevati numerosi elementi marmorei per il nuovo Battistero Lateranense, costruito fra il 432-440 da Sisto III, tra cui le famose basi d’acanto (fig. 11) oggetto di continue riproduzioni grafiche nei secoli successivi25 ed ancora diversi capitelli corinzi del tipo asiatico che evidentemente dovevano formare parte di un qualche annesso del foro perché, sia nel caso dei capitelli sia nel caso delle basi, sono state trovati frammenti uguali proprio al suo interno26.

Va ancora osservato che nel IV e V secolo l’ampiezza delle grandi basiliche, costruite nel periodo costantiniano e anche nel tardo IV secolo,

25 M. ROMANO, I materiali di spoglio nel battistero di San Giovanni in Laterano: un riesame e nuove considerazioni, in BdA s. VI, 76 (1991), p. 31-69.

26 Si tratta di capitelli, del tipo composito baccellato di ambito microasiatico e di fattura piuttosto elegante ed energica, che non sono molto usati a Roma, ed è stato rilevato come abbiano caratteristiche stilistiche di officina orientale della prima metà del II secolo; si

Fig. 10 – Santa Sabina.

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come mostra S. Paolo, o ancora nella prima metà del V secolo, come mostra S. Maria Maggiore, richiedeva necessariamente elementi architettonici di spoglio di grandi dimensioni che non potevano che essere cercati nei ma-gazzini dove appunto erano radunati pezzi provenienti da edifici demoliti, o nei grandi depositi marmorari lungo il Tevere, presso la Statio Marmorum ai piedi dell’Aventino, e di Porto, dove, come abbiamo già osservato in altre sedi, vi era una rimanenza piuttosto consistente di blocchi di marmo e fusti non messi in opera, spesso importati anche nei secoli precedenti e rimasti inutilizzati. Si è già osservato come tali magazzini continuino a for-nire cantieri ecclesiastici anche nell’avanzato V secolo, come proverebbero molti dei fusti in granito di S. Stefano Rotondo27, che presentano gli scapi

ipotizza una loro provenienza dal portico del Foro di Cesare, nella fase di restauro traianea, dove sono stati rinvenuti tre frammenti di capitelli simili, ma di dimensioni minori: H. KÄHLER, Zu den Spolien in Baptisterium der Lateransbasilika, in RM 52 (1937), pp. 106-118, in part. p. 115, figg. 5,6. Sulla datazione v. però C. H. LEON, Die Bauornamentik des Trajansforums und ihre Stellung in der früh- und mittelkaiserzeitlichen Architekturdekoration Roms, Wien 1970, pp. 241, 242.

27 H. BRANDENBURG, S. Stefano Rotondo, der letzte Großbau der Antike in Rom. Die Typologie des Baues, die Ausstattung der Kirche, die kunstgeschichtliche Stellung des Kir-

Fig. 11 – Battistero Lateranense.

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non rifiniti (fig. 12) e alcuni dei suoi elementi architettonici con sigle da interpretare come nomi abbreviati dei proprietari o gestori dei magazzini28. È vero anche che in diversi casi si verifica pure l’importazione di marmi nel corso di IV e V secolo – basti citare il nutrito gruppo di capitelli corinzi ad acanto dentellato di S. Paolo f.l.m.29, i fusti in marmo tasio di S. Maria Maggiore, dei depositi di Porto e del protiro di SS. Giovanni e Paolo, e come tra l’altro provano negli ultimi due casi le sigle di proprietà relative a importanti personaggi tardo antichi (fig. 13).

chenbaues und seiner Ausstattung, in. H. BRANDENBURG, J. PÁL (ed.), Santo Stefano Ro ton do in Roma: archeologia, storia dell’arte, restauro. Atti del convegno internazionale, Roma 10-13 ottobre 1996, Wiesbaden 2000, pp. 35-65, in part. 56, 57, figg. 80-84, 95.

28 P.PENSABENE, Depositi e magazzini di marmi a Porto e Ostia in epoca tardoantica, in BA 49-50 (1998) (2003), pp. 1-56; ID., Reimpiego e depositi di marmi a Roma e Ostia tra la seconda metà del IV e i primi decenni del V secolo, in Paul-Albert Fèvrier de l’An-ti quité au Moyen Age, Aix-en-Provence 2004; v. ora H. BRANDENBURG, Die Architektur und Bauskulptur von S. Paolo f.m.. Baudekoration und Nutzung von Magazinmaterial in späterem 4. Jh., in RM 115 (2009), pp. 143-202.

29 F.W. DEICHMANN, A. TSCHIRA, Die frühchristlichen Basen und Kapitelle von S. Paolo f.l.m., in RM 54 (1939), pp. 99-111; H. BRANDENBURG, Die Architektur der Basilica San Paolo fuori le mura, in RM 112 (2005-2006), pp. 237-276.

Fig. 12 – Santo Stefano Rotondo. Fig. 13 – San Giovanni e Paolo..

Infine vi è il tema dei tituli già inseriti in domus o in parti annesse, come impianti termali: nella loro trasformazione architettonica in chiese con navate essi utilizzerebbero le colonne dello stesso edificio in cui erano inserite, come sembra sia il caso di S. Pudenziana che riadopererebbe le colonne e i capitelli a calice delle terme annesse alla domus dei Pudentes. Più complesso è affrontare il reimpiego che nel tardo IV e nella prima metà del V secolo si verifica nei “nuovi” fori ed edifici a scopi civili costruiti o restaurati e ridedicati agli imperatori regnanti ad opera dei prefetti urbani, in quanto in parte utilizzano elementi degli stessi edifici che vengono rifatti, in parte da altri contigui abbandonati o di nuovo prelevati da magazzini.

686 PATRIZIO PENSABENE

Menzioniamo per la sua singolarità il complesso che occupava l’area sotto parte di S. Maria in Cosmedin, di cui è stata scoperta la platea in blocchi di tufo di m. 21,70 x 31,5030, rinvenuta sotto le absidi della chiesa, nella quale si è proposto di riconoscere il basamento dell’Ara Maxima31, e i resti di una attigua aula colonnata di cui sono visibili 10 colonne sorreg-genti arcate, perché inglobate nei muri ovest (sette fusti) e nord (tre fusti) della chiesa (fig. 15). I fusti, rudentati e di marmo bianco quelli restanti, ma, secondo una descrizione della chiesa del 1715, anche lisci sul fianco est dell’aula non più conservato32, sono di altezza leggermente diversa, intorno ai sette metri, e in conseguenza di ciò variano le altezze delle basi e dei piedistalli, più bassi sul lato nord dove le tre colonne sono più alte, permettendo di riconoscere in essi materiale di reimpiego. Questo dato, insieme alle sei arcate in bipedali reimpiegati, alte circa due metri che si conservano sul lato lungo, ha condotto ad una datazione tardo imperiale, epoca a cui corrisponde anche il rialzamento del livello della piazza, portata alla stessa quota della fascia lungo l’argine (già rialzato nel II secolo di m. 1,77), e a cui risale la dedica ivi ritrovata di una statua a Costantino da parte di Creperio Madaliano, prefetto dell’Annona nel 337-341: possiamo così inserire l’intervento nell’area di Ercole tra i restauri di piazze che si verificano tra il IV e la metà del V secolo ad opera dei prefetti della città che spesso ricordano il loro operato come costruzioni di nuovi fori33. Per le colonne, dunque di reimpiego, si potrebbe ipotizzare una provenienza dall’area stessa, forse proprio da un portico o propileo (v. l’uso dell’ordine composito che a Roma non è mai impiegato nei templi), che comunque attesterebbe demolizioni e danni negli spazi di culto dedicati a Ercole nel Foro Boario.

Che portici e propilei con varie funzioni continuino ad essere eretti nel V secolo lo mostra il portico che chiudere a nord l’area sacra di Largo

30 G. B. GIOVENALE, La basilica di S. Maria in Cosmedin, Roma 1927, le ritiene le misure più probabili della platea,

31 F. COARELLI, Il Foro Boario dalle origini alla fine della repubblica, Roma 1988, pp. 29, 88, 89; G. FUSCIELLO, La piazza del Foro Boario e gli edifici romani nell’area di S. Maria in Cosmedin, in Palladio 28 (2001), pp. 5-22, in particolare p. 6.

32 G. M. CRESCIMBENI, L’istoria della basilica diaconale colleggiata e parrocchiale di Santa Maria in Cosmedin di Roma, Roma 1715, p. 2; FUSCELLO (op. cit. nota 31), p.11.

33 F. A. BAUER, Stadt, Platz und Denkmal in der Spätantike, Mainz 1996; ID., Einige weniger bekannte Platzanlagen im spätantiken Rom, in R. L. COLELLA, M. J. GILL, L. A. JENKENS, P. LAMERS (ed.), Pratum Romanum, Wiesbaden 1997, pp. 27-54; ID., Das Denk-mal der Kaiser Gratian, Valentinian II. und Theodosius am Forum Romanum, in RM 106 (1999), pp. 213-234; P. LIVERANI, in Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana, Roma 2000, p. 49.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 687

14 – Santa Maria in Cosmedin.

Fig. 15 – Santa Maria in Cosmedin.

688 PATRIZIO PENSABENE

Argentina e che correva parallelo all’estremità est dell’Hecatonstylum34: in esso riteniamo siano state reimpiegate colonne e basi dal complesso del Teatro di Pompeo, i cui annessi, dunque, comincerebbe ad essere sman-tellato già in questo periodo35.

La riconquista bizantina anche di Roma non segna grandi opere di restauro nonostante la dichiarazione nella Pragmatica Sanctio di voler provvedere alla manutenzione di edifici pubblici, del foro e dell’alveo del Tevere a Roma e di Porto (consuetudines etiam privilegia Romanae civi-tatis vel publicarum fabricarum reparationi vel alveo Tiberino vel foro aut portui Romano sive reparationi formarum concessa servari praecipimus, ita videlicet ut ex isdem tantummodo titulis ex quibus delegata fuerunt praestentur), ma queste poche confermerebbero come le testimonianze di tali interventi vadano cercate nelle fonti epigrafiche ed archeologiche. È probabile, ad esempio, che la frase purgato fluminis alveo che compare nelle iscrizioni del ponte Salario sull’Aniene, ricostruito nel 565 da Narsete (fu-rono ricopiate dall’Anonimo di Einsiedeln: CIL,VI,1199a-b; ILS 832; PLRE III Narses 1), faccia riferimento alle disposizioni della Pragmatica Sanctio, ma è importante sottolineare che nelle sponde del ponte furono impiegati plutei (noti dalle incisioni di Seroux d’Agincourt) uguali a quelli d’impor-tazione bizantina e in marmo proconnesio di S. Clemente36, a conferma che i grandi personaggi, legati alla corte di Costantinopoli, continuavano a intervenire e anche a poter disporre di marmi d’importazione e non solo di reimpiego. Un’ulteriore annotazione sul fatto che l’iscrizione ora citata è

34 D. MANCIOLI, R. SANTANGELI VALENZANO, L’area sacra di Largo Argentina, Roma 1997, p. 16: “il portico settentrionale venne restaurato con materiali di reimpiego, probabilmente a seguito di un terremoto, forse quello del 408 o quello del 443… in un momento suc-cessivo, databile probabilmente ai primi anni del VI secolo, l’area sacra subì una pesante ristrutturazione …vennero tamponati anche gli intercolumni del portichetto settentrionale che venne trasformato così in un corridoio coperto”.

35Si tratta di quattro fusti scanalati – tre in portasanta e uno in cipollino, diam. inf. cm. 52/54 – con astragalo liscio che percorre i listelli e con punte di lancia tra le estremità delle scanalature, con tre basi apparentemente pertinenti, decorate eccetto su un lato non visibile (che indica loro originaria appartenenza a colonne addossate ad una parete, forse al terzo ordine del frontescena), mentre una quarta è ottenuta dal reimpiego di un’iscrizione di Settimio Severo.

36 R. COATES STEPHENS, La committenza edilizia bizantina a Roma dopo la riconquista, in A. AUGENTI (ed.), Le città italiane tra la tarda antichità e l’alto medioevo, Atti Con-vegno Ravenna 2004, Firenze 2006, p. 300; cfr. A. GUIGLIA GUIDOBALDI, La scultura di arredo liturgico nelle chiese di Roma: il momento bizantino, in F. GUIDOBALDI, A. GUIGLIA GUIDOBALDI (ed.), Ecclesiae Urbis. Atti del Congresso Internazionale di Studi sulle Chiese di Roma (IV-X sec.) Roma 4-10 settembre 2000 (Studi di antichità cristiana 59), Città del Vaticano 2002, pp. 1491-1500; v. F. GUIDOBALDI, C. BARSANTI, A. GUIGLIA GUIDOBALDI, San Clemente. La scultura del VI secolo (San Clemente Miscellany IV, 2), Roma 1992.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 689

l’ultima ad informare del rinnovamento di un monumento pubblico da parte del potere imperiale a Roma – ex praeposito sacri palatii ac patricius et exarchus Italiae –, la stessa formula impiegata nell’ultima testimonianza di una dedica imperiale, quella posta nel 608 sulla Colonna di Foca nel Foro Romano (fig. 5), questa abbiamo detto già eretta nel IV secolo.

Non è precisabile quale possa essere stato a Roma l’eco della grande trasformazione giustinianea di S. Sofia a Costantinopoli, con le sue cupole e i suoi matronei, ma le fonti informano che otto grandi colonne di por-fido furono prelevate dal Tempio del Sole e trasportate a Costantinopoli per essere riutilizzate a S. Sofia: il prelievo di queste colonne svolgerà un grosso ruolo nell’atteggiamento verso l’antico dei costruttori delle nuove chiese a Roma, tanto più se sono veri i significati simbolici che si sono voluti vedere in questo grandioso e dispendioso riutilizzo di fusti di porfido di Roma nella capitale dell’impero bizantino37.

Ma nel VI secolo la parabola di Roma è in netto contrasto con quanto avviene a Costantinopoli. È ormai abbandonato il Foro della Pace, la cui pavimentazione era rimasta in uso fino al momento dell’abbandono del tempio determinatosi forse per un incendio in conseguenza della caduta del fulmine, come ricordato da Procopio (Bell. Goth., 4,21), o per un ge-nerale stato di decadenza del complesso forense analogo a quello in cui versavano in epoca tardoantica anche gli altri Fori Imperiali. In ogni caso Costanzo II al momento della sua visita aveva trovato in buono stato il foro (Amm., 16,10,14), che inoltre era stato quasi subito restaurato dopo il terremoto del 408 (Simmaco, Epist., 10.78). Solo tra il 526 e il 530 l’aula meridionale fu occupata dalla chiesa dei SS.Cosma e Damiano, e poco dopo s’inserisce il racconto di Procopio sul suo stato di abbandono: va rilevato che tale rioccupazione ha permesso il conservarsi di parte delle murature antiche in opera quadrata, già viste da Ligorio e studiate in occasione di restauri degli anni ’5038.

Agli inizi del secolo successivo avviene la trasformazione in chiesa del grande Pantheon del Campo Marzio, ma ciò che c’interessa sottolineare è che nella seconda metà del VI secolo si deve essere registrato anche il parziale abbandono di alcune delle grande basiliche circiformi funerarie costantiniane, costruite nella periferia della città: da quella di S. Agnese ab-biamo supposto provenissero molti degli elementi architettonici reimpiegati nella più piccola basilica di fine VI, inizio VII costruita nelle immediate vicinanze e connessa alle catacombe locali; la stessa ipotesi ci sembra di

37 A. MONETI, La Santa Sofia di Giustiniano e il Tempio del Sole di Aureliano, in Analecta Romana 21 (1993), pp. 137-157.

38 F. CASTAGNOLI, L. COZZA, L’angolo meridionale del Foro della Pace, in BCom 76 (1956-1958), pp. 119-142, in part. p. 130 ss.

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poter fare per S. Lorenzo f.l.m. in quanto molte delle sue trabeazioni sono chiaramente di epoca costantiniana (fig. 16) e avrebbero potuto proveni-re della basilica circiforme39 che sorgeva nei pressi. In effetti, la basilica circiforme di San Lorenzo si differenzia dalle altre dello stesso tipo, in quanto possedeva non pilastri, ma colonne, con interasse di m 3,1540. Se il

39 G. GATTI, Scoperta di una Basilica Cristiana presso S. Lorenzo fuori le mura, in Capitolium 32 (1957), pp. 16-20; G. MATTHIAE, S. Lorenzo fuori le mura (Le Chiese di Roma illustrate n. 89), Roma 1966, p. 9: nel 1957, all’interno del cimitero del Verano, a sud della chiesa attuale, vennero ritrovati i resti di una grande basilica di IV secolo, lunga m 98,60 e larga m 35,50, di tipo circiforme. La pianta è analoga a quelle di S. Agnese sulla via Nomentana, di S. Sebastiano sulla via Appia, dei SS. Pietro e Marcellino a Tor-pignattara e alla chiesa del fondo “ad duos lauros” vicino alla Villa dei Gordiani: tutte basiliche cimiteriali di committenza imperiale databili in età costantiniana, e tutte poste fuori dalle mura urbane, con le navate costituite da pilastri ed arcate (cfr. F. TOLOTTI, Le basiliche cimiteriali con deambulatorio del suburbio romano: questione ancora aperta, in RM 89 (1982), 153-211.

40 GATTI (op. cit. nota 39); cfr. MATTHIAE (op. cit. nota 39), p. 45. Nella costruzione della basilica di IV secolo intervenne il presbitero Leopardo, che aveva finanziato lavori alla basilica di S. Pudenziana, dopo il sacco di Alarico (410), come attesta un’iscrizione, posta su un affresco dell’abside. Presso il sepolcro del Santo fu poi sepolto papa Zosimo (418), e papa Sisto III (432-440) che, secondo il Liber Pontificalis, donò alla cripta del Santo confessionem cum columnis porfireticis et ornavit platomis transendam et altarem

Fig. 16 – San Lorenzo f.l.m.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 691

Krautheimer ipotizzava che gli elementi antichi di questa fossero riutilizzati nella successiva basilica onoriana41, in quanto riteneva che la circiforme fosse stata abbandonata nel IX dato la mancanza di notizie dopo questo secolo, tuttavia proprio il reimpiego di cornici e fregi-architrave costantiniani nella Pelagiana farebbero pensare che l’abbandono sia stato precedente.

Abbiamo citato queste due chiese, S. Agnese f.m. e S. Lorenzo f.m., come esempi di possibile reimpiego da edifici vicini perché nel periodo bizantino la riduzione dell’abitato e anche delle dimensioni delle chiese ha avuto come conseguenza un cambio notevole nelle modalità di recuperare spoglie rispetto al IV-V secolo. Infatti dal VI a buona parte dell’VIII secolo la contrazione della città, spesso immaginata come un insieme di villaggi insediatisi su monumenti antichi ormai in rovina, determina il fatto che la spoliazione per le nuove chiese dell’epoca riguardi soprattutto gli antichi monumenti su cui esse sorgevano, e meno quelli più lontani, in quanto le difficoltà e le spese del trasporto non avrebbero reso possibile un approv-vigionamento in altre zone della città.

Tanto più inserite nei vecchi monumenti sono le abitazioni private: ricordiamo brevemente il caso della Basilica Emilia dove innanzitutto la caduta dei muri perimetrali era stato causato dal crollo dei colonnati in-terni, che era fatto risalire dal Bartoli non all’incendio degli inizi del V secolo, limitato al soffitto dell’aula e di cui resterebbero tracce di cenere sul pavimento, bensì ad un intervento di spoliazione dei marmi dell’aula interna (gli elementi marmorei apparivano spezzati non per caduta, ma per i colpi di mazza e i rocchi di colonna sono stati tutti portati alla stessa altezza42). Ma su tre taberne della Basilica (verso il Tempio di Antonino e Faustina) si trovano resti pavimentali di VII-IX secolo e aggiunte murarie anche più tarde, che ne attestano l’uso cristiano, mentre, sempre nell’area delle taberne fino a comprendere la crepidine della basilica, sarebbero sta-ti rinvenuti i resti di una casa altomedievale, piuttosto grande, con muri formati da grossi blocchi di “tufo verdastro” e con una “rozza” scala che conduceva al piano superiore: vi era stato riutilizzato come soglia di una camera un blocco di marmo contenente parte dei fasti consolari più antichi e proveniente dalla vicina Regia43.

et confessionem de argento purissimo pens. lib. L, cancellos argenteos supra platomas porfireticas et absidam supra cancellos cum statuam beati Laurenti argenteam.

41 R. KRAUTHEIMER, V. FRANKL, G. GATTI, Excavations at San Lorenzo f.l.m. in Rome, in AJA 62 (1958), pp. 379-382, in part. p. 397 ss.; MATTHIAE (op. cit. nota 39), p. 46.

42 A. BARTOLI, Ultime vicende e trasformazioni cristiane della Basilica Emilia, in RendLinc 21 (1912), pp.758-766, in particolare p. 760.

43 E. DE RUGGIERO, Il Foro Romano, Roma 1913, p. 402: cfr. LANCIANI, in BCom, 1899, p.186ss.

692 PATRIZIO PENSABENE

Va rilevato che dopo il VII secolo e per diversi secoli ancora, la giu-risdizione sui resti monumentali antichi passa ormai nelle mani del Papato e il controllo e la legislazione relativa si indeboliscono dal momento che i papi stessi sfruttavano le rovine come meglio ritenevano44. In effetti si era verificato un mutamento notevole nel governo, in quanto il Senato, che ormai aveva solo funzioni di rappresentanza, era stato sostituito nel 603 da un collegio di personaggi scelti tra le principali famiglie dell’Urbe e con un ruolo soltanto consultivo: la carica di praefectus urbi e del curator aquarum è ancora attestata fino agli inizi del VII secolo, mentre il curator Palatii è nominato ancora nel 687. Se continuava l’apparente ossequio della curia papale verso i funzionari assegnati dall’Esarca ravennate a governare la città, tuttavia fu inviato un nunzio permanente alla corte di Costantinopoli, anche per accelerare la convalida da parte dell’Imperatore dei nuovi pontefici.

Che non dovesse essere vigente una legislazione che impedisse l’oc-cupazione degli edifici antichi romani, lo prova il fatto che anzi si registra nel periodo altomedievale un’importante fase di riuso e trasformazione in chiave cristiana di aree non ancora occupate in tal senso, come quella presso l’antico porto tiberino: così S. Nicola in Carcere dove le epigrafi di Anastasius Maiordomus incise su una colonna attestano che la chiesa – allora dedicata ai santi Maria, Simeone, Anna e Lucia, fu costruita nel-l’VIII secolo sopra i tre templi del foro Olitorio; S. Maria del Portico che occupa il sito degli Horrea Aemiliana nell’VIII-IX secolo45; S. Maria de Secundicerio che s’insedia nel Tempio di Portuno, e ancora nell’VIII secolo, S. Angelo in Pescheria che s’inserisce nella porticus d’Ottavia.

Ma si consuma nello stesso periodo l’occupazione cristiana dell’antico e più importante centro monumentale della città, il foro: infatti, nel VI e VII secolo comincia il grande periodo della trasformazione dei monumenti del Foro romano, che fino a tutto il V secolo era rimasto invece l’area privile-giata degli interventi di restauro imperiali e del praefectus urbi. Se ancora nel 608 era stata ridedicata, come si è visto, una colonna onoraria da parte dell’Imperatore Foca, pochi anni dopo, nel 625-38, addirittura il Senato fu trasformato dal papa Onorio I in una chiesa, quella di S. Adriano. In un periodo precedente al tardo VIII secolo, la chiesa di S. Martina era stata

44 B. WARD PERKINS, From classical antiquity to the Middle Ages: urban public building in northen and central Italy, AD 300-850, Oxford 1984, p. 205.

45 A. ACCONCI, Le vicende storico monumentali della chiesa di S. Maria in Portico, in Giornata di studi su S. Galla (Roma 26 maggio 1990), Roma 1991, pp. 89-121; CAMPESE SIMONE, (op. cit. nota 19), p.446.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 693

costruita nel Secretarium Senatus, mentre al VII secolo risale la diaconia dei SS. Sergio e Bacco vicino all’Arco di Settimio Severo: le diaconie, centri di assistenza ai bisognosi esemplati su strutture governative ormai fuori uso, erano amministrate da funzionari laici della curia, ma ispirate ai principi della carità cristiana: donde la presenza dell’oratorio annesso. Sem-pre nel VII secolo avvenne l’inserimento della Chiesa di S. Maria Antiqua (figg. 17, 18) nel vestibolo dei palazzi imperiali sul Palatino e ancora più significativo è il fatto che più tardi, nel 705-7, il papa Giovanni VII inserì una residenza papale proprio accanto a questa chiesa. È un primo annuncio di ciò che succederà con la crisi iconoclasta, nel 726, quando avviene il distacco definitivo della Chiesa da Bisanzio: allora i Papi iniziano a do-tarsi di residenze e centri amministrativi, per far fronte ad un’esigenza di autonomia. I successori di Giovanni VII preferiranno tornare al Laterano, che meglio si prestava alle modifiche necessarie e proprio in quegli anni dovette essere lì collocata la statua equestre di Marco Aurelio, additato ai fedeli come Costantino (secondo il nuovo principio della interpretatio in chiave cristiana di molte antichità cittadine).

È proprio il fenomeno dell’inserimento di chiese nei vetusti edifici del Foro che testimonia il potere raggiunto dai Papi e in un qualche modo il disinteresse, o comunque il cambiamento di atteggiamento e di mentalità,

Fig. 17 – Santa Maria Antiqua.

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Fig. 18 – Santa Maria Antiqua.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 695

verso i monumenti-simbolo della potenza di Roma da parte degli Impera-tori bizantini.

In questa nuova situazione politica ed economica avvenne, dunque, la riappropriazione per nuove funzioni anche di antichi e prestigiosi edifici pubblici della piena età imperiale.

Se continua la pratica del prelievo di spoglie dagli antichi edifici, tuttavia è soprattutto per alcuni casi eccezionali che essa si registra anche su monumenti lontani dal luogo di destinazione, quali le opere di fortifi-cazione o le grandi basiliche apostoliche, che continuano a essere meta di pellegrinaggio e oggetto di restauri o altri interventi: a S. Pietro (fig. 19) il rifacimento del tetto durante il pontificato di Onorio I (625-638) avviene tramite tegole di bronzo provenienti dal Templum Romae (cioè il tempio di Venere e Roma)46.

46 L.P., I, p. 323.

Fig. 19 – San Pietro, Basilica costantiniana con muro divisorio per la costruzione della nuova cupola.

Dopo la caduta di Gerusalemme nel 640, Roma venne ad essere l’unica città santa meta di pellegrinaggi cristiani, e ancor più motivata a custodire le sue memorie. Lo stesso Imperatore Costante II ebbe a visitarla nel 667 durante la sua spedizione contro i Longobardi, anche se in quell’occasione finì di rimuovere il bronzo ancora rimasto sugli edifici romani, comprese le tegole del Pantheon. Meno di un secolo (731-741) dopo la basilica di S. Pietro riceve dall’esarca Eutichio il dono di sei colonne tortili vitinee importate dall’Oriente e collocate da Gregorio III nel presbiterio, davanti

696 PATRIZIO PENSABENE

alla “confessio”, in linea con le sei colonne più antiche47: si tratta dell’ul-tima concessione ufficiale dell’Impero alla Chiesa.

È con il IX secolo, in conseguenza dello sviluppo anche edilizio che investe la città, dovuto, come è noto, alle condizioni politiche favorevoli determinate dall’alleanza in funzione antilongobarda tra la monarchia franca e il papato – questo ormai ha assunto definitivamente il controllo della città –, che si verifica un importante cambiamento, tanto a riguardo dell’occu-pazione dei monumenti antichi, quanto a riguardo della loro spoliazione in quanto torna a comparire un processo di prelievo sistematico, che non riguarda più soltanto le zone vicine agli edifici da costruire o restaurare, ma anche campi di rovine più lontani.

Innanzitutto, pur realizzandosi nel Foro sotto Leone IV (847-55) il primo grande edificio costruito integralmente – piuttosto che adattato – sin dall’età classica, cioè S. Maria Nuova, che occupò parte del tempio di Venere e Roma (anche se in gran parte il tempio restava in piedi, tanto da poter essere ancora spogliato nei secoli successivi), tuttavia l’area principale della città è ormai nell’ansa del Tevere presso il ponte che conduceva a S.Pietro, pur continuando a sussistere altri nuclei abitativi e pur iniziando l’espansione edilizia e urbanistica oltre i limiti dell’ansa stessa. Infatti in questo secolo si compie ormai l’occupazione a scopi abitativi degli edifici monumentali del Campo Marzio, dove era possibile l’inserimento di abitazioni quali ap-punto i teatri (di Marcello, di Pompeo, di Balbo), lo stadio di Domiziano, l’odeion di Domiziano, i cui ambulacri e vani voltati, sostruzione della cavea, diventano dimore per la popolazione, che farà riferimento al luogo in cui abita chiamandolo “cripte”. Certo è che questi edifici di spettacolo, prima oggetto solo di parziali spogliazioni, vengono ora sistematicamente saccheggiati dei loro marmi che servono alla decorazione delle chiese (v. oltre il caso di S. Prassede con spoglie del Teatro Marcello). Questo pro-cesso di occupazione del Campo Marzio è naturalmente dovuto al polo di attrazione costituito dal vicino Vaticano, subito sull’altra sponda del Tevere: il Campo Marzio doveva necessariamente essere attraversato dai pellegrini che entravano dalla parte nord di Roma e si dirigevano a S. Pietro.

Ma la parte settentrionale del Campo Marzio diviene adesso oggetto di un’attenzione particolare proprio per ciò che riguarda il prelievo possiamo dire sistematico di marmi antichi, tanto da poterlo definire come uno dei campi privilegiati di rovine da spogliare. Tale osservazione emerge dalla circostanza che nelle chiese carolingie di IX secolo, dall’inizio alla fine,

47 L.P., I, p. 417.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 697

trovano impiego come sostegno nelle cornici esterne delle absidi, due gruppi numerosi di elementi architettonici, uno costituito da cassettoni decorati con maschere di acanto, il secondo da mensole rivestite di foglia di acanto, in entrambi i casi ritagliate da cornici di uno stesso monumento di età im-periale in modo da ottenere un altissimo numero di elementi decorati da potere riadattare al perimetro semicircolare delle absidi stesse. In particolare SS. Nereo e Achilleo e S. Martino ai Monti riutilizzano mensole abbinate a soffitti decorati con maschere d’acanto o con motivi vegetali (figg. 20, 21), lo stesso probabilmente S. Prassede e i SS. Quattro Coronati, perché, se attualmente le cornici sono composte solo da mensole, in origine erano completate da lastre decorate con mascheroni, testimoniate da esemplari fuori opera nelle due chiese; S. Cecilia e S. Giorgio al Velabro sembrano invece progettate fin dall’inizio con l’utilizzo di sole mensole. Sei chiese, dunque, distribuite nel’arco di circa un cinquantennio, dall’età di Papa Leone III a quella di Leone IV, che sembrano poste su una medesima linea proget-tuale, al di là di altre evidenti differenze costruttive, e che sembrano aver usufruito di una comune fonte di materiali48. Abbiamo rilevato in altra sede come l’analisi complessiva di tutti questi pezzi ci abbia indotto a ritenere possibile che essi provenissero da un recinto col muro di fondo articolato in nicchie su più piani, che abbiamo proposto d’individuare nel complesso del tempio del Sole di Aureliano, alla cui epoca rimandano lo stile e la tipologia dell’acanto e al cui particolare recinto absidato che circondava il tempio rinvia la possibilità di distinguere in base alle misure diversi gruppi di mensole e maschere di acanto: esse si adattano all’ipotesi ricostruttiva di un recinto con le pareti articolate su più ordini addossati.

Ma l’importazione dell’operazione di reimpiego effettuata per queste chiese è che ora per la prima volta in modo sistematico e attento si assiste anche alla rilavorazione delle spoglie per dar maggiore coerenza e unifor-mità alla loro sistemazione.

Con l’età carolingia diviene evidente un altro fenomeno che riguarda proprio le chiese: il reimpiego di elementi architettonici e altro provenienti da fasi più antiche delle stesse chiese.

È quanto sembrerebbe emergere dall’osservazione che chiese come SS. Quattro Coronati, e più tardi S. Saba e S. Giovanni a Porta Latina, mostrano serie omogenee di capitelli ionici di tardo IV-primi decenni V secolo (fig. 22), per lo più risultanti dalla rifinitura avvenuta in epoca tar-do antica di pezzi importati in stato di semilavorazione da cave di Taso e

48 P. PENSABENE, A. GUIGLIA GUIDOBALDI, Il recupero dell’antico in età carolingia: la decorazione scultorea absidale delle chiese di Roma, in RendPontAc 78 (2005-2006), pp. 3-74.

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Fig. 20 – Santi Nereo e Achilleo.

Fig. 21 – Santi Nereo e Achilleo.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 699

Proconneso, ma anche ottenuti dalla rilavorazione di blocchi di reimpiego in marmo lunense49. Tale aspetto è particolarmente significativo in quanto condizionerà la rinascita dell’ordine ionico presso le officine cosmatesche tra XI e XII secolo.

Ai SS. Quattro Coronati tali capitelli furono messi in opera nella fase di IX secolo, quando la chiesa ad opera di Leone IV (847-855), che già ne era stato il presbitero, raggiunse le sue massime dimensioni e a questa fase forse risale anche il reimpiego di diversi elementi di un fregio dorico prelevato dall’arco Partico del Foro Romano50, ora visibili nella corte anti-stante alla chiesa di XI secolo, ridotta in seguito ai danneggiamenti subiti durante il sacco normanno del 1086. si tratta di un frammento di soffitto di cornice di ordine dorico che trova il corrispettivo in un pezzo uguale esposto nel chiostro51 (figg. 23, 24).

49 P. PENSABENE, Elementi di reimpiego di IV-VI secolo nella Basilica dei SS. Quattro Coronati, in Atti Congresso Int. Archeologia Cristiana, Toledo 2008, c.s.

50 LTUR 1 (1993), v. Arcus Augusti, p. 84; A. MUÑOZ, Il restauro della chiesa e del chiostro dei SS. Quattro Coronati, Roma 1914, pp. 37, 38, 128, 130.

51 Il fregio si compone di lastre di forma quadrata chiamate anche mutuli; si alternano mutuli con guttae e semplici cassettoni con rosette al centro. Le guttae hanno la forma di dischetti, mentre le rosette sono costituite da quattro foglie di acanto inframmezzate da quattro foglie lisce. E. Fiechter nel suo studio sulle cornici doriche (E. FIECHTER, in F. TÖBELMANN, Römische Gebälke I, Heidelberg 1923, p. 132), rinvenute nel Foro Romano, ci dice che tra i vari frammenti, ve ne erano alcuni che erano stati posti nella chiesa dei SS. Quattro Coronati prima del 1513: secondo lo studioso, dopo questa data i frammenti sarebbero stati gettati via. I frammenti di cornice rinvenuti dal Muñoz, ora nel chiostro, devono essere presi in considerazione assieme a quelli, ancora in situ, del primo cortile

Fig. 22 – San Giovanni a Porta Latina.

700 PATRIZIO PENSABENE

Ma nella cappella di S. Barbara, sempre della stessa basilica, sono stati reimpiegate quattro trabeazioni sporgenti inserite diagonalmente ai quattro angoli52 e che erano sorrette da quattro colonne di verde antico, se ad esse si riferisce la notizia del trasporto al Vaticano di quattro colonne di questo materiale prelevate dalla basilica di Ss. Quattro Coronati53. Di queste tra-beazioni tre più la cornice della quarta sono attribuibili al tardo IV-primi decenni V secolo, in base alla forma dell’acanto dentellato (fig. 25), quale era venuto di moda a Costantinopoli in questo periodo, dove si trova un importante confronto con i propilei della S. Sofia teodosiana inaugurata nel 415, mentre la quarta trabeazione al IX secolo54. Apparirebbe dunque una datazione simile a quella dei capitelli ionici e ciò non può non mettersi in relazione ai dati che hanno permesso di ricostruire l’esistenza di una fase ancora più antica della chiesa, già sicuramente esistente nel VI secolo (v. la partecipazione del presbitero della basilica Fortunatus al sinodo del 595) e forse da identificare col titulus Aemiliane55, presente nell’elenco dei tituli che aderirono al sinodo del 499.

Una particolare situazione è offerta da S. Prassede: infatti recenti la-vori di pulizia hanno riportato alla luce le iscrizioni, che in parte erano state già viste nel XV secolo, sugli architravi sorretti dalle colonne delle navate, che fanno riferimento a importanti cariche del V secolo (fig. 26). Si tratta di 28 elementi di architravi, sia lisci, sia decorati, inclusi anche quelli posti nel passaggio dalla navata al transetto originario. Nella navata laterale sinistra tra la sesta colonna e il quarto pilastro vi è un architrave liscio (alt. mass. 0,50 m, largh. 2,37 m, spess.0,50 m), sulla cui prima fascia si legge [[VRBI]] CVRANTIBV[…], riconducibile ad un praefectus urbi, che subì la damnatio memoriae,, in quanto VRBI risulta eraso56; tra il

del complesso dei SS. Quattro. Infatti come conferma Krautheimer nel muro est del primo cortile vi sono frammenti di una cornice dorica di età romana incorporata nella muratura carolingia.

52 Pubblicate da L. PANI ERMINI, Corpus della scultura altomedievale, VII, La diocesi di Roma, Tomo primo, la IV regione ecclesiastica, Spoleto 1974, p. 141 ss., n. 9, tav. 42; A. MELUCCO VACCARO, Corpus della scultura altomedievale, VII, La diocesi di Roma, Tomo terzo, la II regione ecclesiastica, Spoleto 1974, pp.204-207, nn. 171-174 tav. 61-62; J. KRAMER, Korinthische Pilasterkapitelle in Kleinasien und Kostantinopel, (Istanbuler Mitteilungen Beiheft 39), Tübingen 1994, p. 121.

53 A. MUÑOZ, Il restauro della chiesa e del chiostro dei SS. Quattro Coronati, Roma, 1914., p. 31; MELUCCO VACCARO, Corpus della scultura altomedievale, VII, La diocesi di Roma, Tomo terzo, la II regione ecclesiastica, Spoleto, 1974, p. 204.

54 P. PENSABENE (op. cit. nota 49).55 L’ipotesi è stata formulata dal DUCHESNE, Lib. Pont., II, p. 43, n. 77.56 Cfr. con la simile CIL VI 37110 dedicata a Petronio Massimo, praefectus urbi di

inizi V secolo d. C.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 701

terzo pilastro e la quinta colonna si legge sulla prima e la seconda fascia dell’architrave (alt. mass. 0,50 m, largh. 2,30 m, spess.0,50 m) […]LV-STRIS EX PRIMICERIO NOTARIORVM SACRI P[…] /[…]QVALO-RIBVS PORTICVM A FVNDAMEN[…], iscrizione già nota in parte da un manoscritto medievale (CIL VI, 1790), che la situava falsamente nella

Fig. 25 – Santa Prassede, cappella di Santa Barbara.

Fig. 26 – Santa Prassede.

702 PATRIZIO PENSABENE

Cappella di S. Zenone, dove la datazione tra il IV e forse meglio V secolo d.C. emerge dalla menzione della carica del primicerius notariorum sacri palatii, il capo del collegio notarile papale, una carica nota dal IV secolo in poi ad imitazione della burocrazia imperiale; nel passaggio dalla navata laterale destra al transetto, oggi Cappella del Crocifisso, tra la colonna centrale e il pilastro di destra, sulla prima fascia dell’architrave (largh. 2 m, spess. 0, 50 m) si ha […]IVS FELIX AVG REFECERVN[…], con la possibile integrazione [P]IVS FELIX che questa volta rimanderebbe ad un edificio fatto ricostruire (refecerunt) da Settimio Severo e Caracalla, a cui è pertinente la titolatura imperiale. Evidentemente il primo monumento per cui furono scolpiti gli architravi, era opera degli imperatori severiani: questo fu poi restaurato e ridedicato in epoca tarda e in esso s’insedia o meglio da esso furono prelevati gli architravi per metterli in opera a S.Prassede, che , ricordiamo, esisteva già almeno dalla fine del V secolo, quando viene menzionato un titulus omonimo (ICUR VII, 19991).

Questi architravi, di nuovo iscritti tra IV e V secolo, possono essere messi in collegamento con alcuni capitelli corinzi ad acanto dentellato da-tabili tra il tardo IV e i primi decenni del V secolo, di nuovo reimpiegati nella stessa chiesa, ricostruita integralmente, come è ben testimoniato, da Pasquale I (817-824)57, che tuttavia può aver riutilizzato anche i resti mar-morei della fase precedente. Infine possiamo notare che le otto colonne di acanto che attualmente decorano l’abside cinquecentesca di S. Prassede, ma che dovevano far parte già della fase carolingia della chiesa58, trovano confronto uguale con una base di acanto rinvenuta nel teatro di Marcello, che ebbe una fase severiana, oltre a tardi restauri (fig. 27).

Per capire i mutamenti del rapporto con le sue rovine da parte della Roma carolingia, caratterizzata, come si è detto, da una forte ripresa edi-lizia e urbanistica, va rilevato l’aumento in notevole misura che si verifica nella seconda metà dell’VIII e soprattutto nel IX secolo del reimpiego di blocchi di tufo antichi di grandi dimensioni. Per il loro minore peso e facilità di trasporto vengono preferiti ai più pesanti blocchi di travertino e di marmo quando si debbano utilizzare in parti strutturali di rafforzamento

57 Lib.Pont. II, p.54: cfr. Da ultimo G. FINOCCHIO, Riflessioni sul pavimento presbiteriale della chiesa di S.Prassede, in AISCOM, Atti XV Colloquio, Aquileia 2009, Tivoli 2010, pp.305-314, che osserva che nel presbiterio vi era un originario pavimento carolingio forse con disco di porfido centrale e a scacchiera (come a S. Giorgio in Velabro) e con pannelli di modulo semplice ai lati del baldacchino, che potrebbero riutilizzare i marmi del prece-dente titulus. Nel XII secolo il pavimento sarebbe stato rinnovato con l’aggiunta di nello stile cosmatesco; diverse lastre sono dovuto al reimpiego di iscrizioni funerarie rivoltate.

58 M. CAPERNA, La basilica di Santa Prassede. Il significato della vicenda architetto-nica, Roma 1999, p.42.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 703

Fig. 27 – Santa Prassede.

704 PATRIZIO PENSABENE

della muratura, nel livellamento di piani di fondazione o di terrazzamento: essi vengono messi in opera, senza subire ulteriori modificazioni rispetto alla forma originaria del blocco, in un irregolare e poco accurato opus quadratum all’interno del quale si creano numerosi interstizi riempiti con zeppe di mattoni e che, quando usato in fondazione, spesso sporge note-volmente dal filo del muro59. Solo quando i blocchi sono usati nell’elevato essi si dispongono con maggiore regolarità, ma in tali casi non implicano necessariamente una coerenza nella struttura muraria, perché spesse si ac-compagnano a cortine nell’VIII secolo miste di laterizi e tufelli, nel IX prevalentemente di laterizi, in entrambi i casi sempre di reimpiego e con irregolarità nella tessitura. L’aumento piuttosto forte di attività di recupe-ro di blocchi, tufelli e laterizi in questo periodo è il segno dell’aumento della popolazione e della ripresa edilizia che caratterizza Roma tra l’VIII e il IX secolo, come hanno mostrato i recenti scavi nell’area dei fori: essi hanno restituito case con portici datate al IX secolo ad esempio nel Foro di Nerva, costruiti in blocchi di peperino e laterizi di inzeppo prelevati dai monumenti dell’area60.

Diamo un breve elenco delle chiese in cui si verifica il reimpiego di blocchi perché molte di esse sono le stesse interessate al fenomeno del reimpiego di “maschere d’acanto” che abbiamo visto nei paragrafi prece-denti. Vanno citate innanzi tutto muri di fondazione in blocchi nelle chiese promosse o restaurate da Leone III (795-816), quali SS. Nereo e Achilleo, S. Stefano degli Abissini, S. Susanna, S. Anastasia che sotto questo papa subì la tamponatura degli archi della navata destra con grossi blocchi. Il Liber Pontificalis assegna a questo papa anche la costruzione di S. Pelle-grino in Naumachia in cui le fondazioni sono realizzate in grandi blocchi di travertino probabilmente prelevati dallo Stadio di Domiziano61. Citiamo ancora S. Martino ai Monti, con la fondazione in blocchi ben visibile sul fianco nord (fig. 28): questa chiesa, inoltre, rientrerebbe nella casistica delle chiese che sfrutterebbero come luogo di raccolta delle spoglie i mo-numenti vicini, se è vero, come è stato ipotizzato, che la serie omogenea di capitelli corinzi asiatici nelle colonne tra le sue navate provengano dalle Terme di Traiano.

59 L. BARELLI, Il complesso monumentale dei SS. Quattro Coronati a Roma, Roma 2009.

60 R. SANTANGELI VALENZANI, Edilizia residenziale e aristocrazia urbana a Roma nel-l’Altomedioevo, in S. GELICHI (ed.), I Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, Pisa 1997, pp. 64-70.

61 R. KRAUTHEIMER, Corpus Basilicarum Christanarum Romae III, Città del Vaticano 1967, pp. 175-178; Barelli 2007, p. 69.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 705

Tale reimpiego di blocchi indicherebbe come le tecniche cantieristiche progrediscono notevolmente proprio in questi secoli, tanto da consentire, evidentemente con l’uso di argani, la spoliazione sistematica di grandi complessi romani costruiti in opera quadrata, di cui si hanno importanti indizi anche sui moli e le banchine sul Tevere costruiti con materiali di spoglio62.

Insomma, sono l’VIII e soprattutto il IX secolo, che segnano l’inversio-ne di tendenza rispetto ai secoli immediatamente precedenti, che riguarda un’occupazione della città estensiva e non più a macchia di leopardo: i quartieri tendono ad essere ampi e omogenei ed escono dunque dallo spa-zio ristretto dell’ansa del Tevere in Campo Marzio,in corrispondenza delle strade e dei ponti che conducevano a S. Pietro. Al di fuori di quest’area cominciano così a registrarsi case in muratura, dotate anche di portici, co-me mostrano le domus recentemente ritrovate sugli strati di riempimento medievale del foro di Nerva. Si preannuncia così l’espansione edilizia che avverrà tra XI e XIII secolo, che vede la città nuovamente ricompattarsi in quartieri senza soluzione di continuità.

62 R. COATES STEPHENS, Epigraphy as spolia -the reuse of inscriptions in early medieval buildings, in BSR 70 (2002), pp. 275-296.

Fig. 28 – San Martino ai Monti.

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Con la fine della lotta per le investiture e la vittoria del papato sul-l’Impero si verificano alcuni importanti fenomeni che segnano in modo notevole la pratica del reimpiego: il ritorno a basiliche di grandi dimensioni che vogliono riproporre il modello paleocristiano, rievocato anche dall’uso delle trabeazioni orizzontali, come nella basilica lateranense e a S. Pietro; la costituzione di grandi officine specializzate nella spoliazione e nella rilavorazione dei marmi antichi e con un’attività non limitata soltanto a Roma ma all’Italia e anche in Europa, l’inclusione anche di Ostia e Por-to tra le cave di marmi da cui erano prelevate le spoglie da riutilizzare non solo a Roma (in precedenza è solo a S. Paolo che è attestato con sicurezza l’uso di spoglie da Ostia)63. Il fenomeno dunque dell’espansione del mercato del marmo determina un nuovo assalto ai monumenti ancora superstiti, consentito di nuovo dai progressi tecnici in campo edilizio che avevano permesso l’erezione delle grandi bailiche romaniche (basti citare il caso del Duomo di Pisa). Viene così raggiunta l’area delle grandiose terme di Caracalla, che cominciano ad essere progressivamente spogliate proprio a partire dall’XI secolo: ne danno testimonianza otto capitelli io-nici figurati, le basi decorate (fig. 29) e le colonne in granito reimpiegate nella basilica di S. Maria in Trastevere64, ma anche i numerosi capitelli riconosciuti come provenienti dalle terme nel Duomo di Pisa. Il materiale di questo Duomo ci testimonia anche il riutilizzo di elementi architettonici dalle terme di Nettuno nel Campo Marzio, dal teatro e altri monumenti di Ostia, e da questa città portuale provengono numerosi pezzi reimpiegati, compresi sarcofagi e urne, reimpiegati a Salerno e Amalfi. Marmi romani raggiungono anche la Sicilia normanna, da cui provengono grandi tamburi di porfido destinati a sarcofagi reali, prima destinati alla chiesa di Cefalù e ora nel duomo di Palermo, e da cui provengono molto probabilmente le grandi colonne tra le navate con capitelli figurati con protomi di divinità femminili utilizzati come sostegni tra le navate del duomo di Monreale e di cui è da ammirare l’opera di trasporto dall’area portuale di Palermo alla cima del monte su cui sorgeva Monreale.

Non è comunque facile seguire il percorso seguito dalle attività degli spogliatori soprattutto in periodo come quello carolingio e romanico dove l’urgenza di riutilizzare pezzi antichi moltiplica le ricerche in più direzio-

63 P. PENSABENE, Ostiensium marmorum, decus et decor. Studi architettonici, decorativi, archeometrici sulla città di Ostia, Roma 2007, p.

64 Le basi, probabilmente provenienti dalla terme di Caracalla, sono state pubblicate da M. WEGNER, Schmuckbasen des Antiken Rom, Münster 1966, p. 79, tav. 25; D. KINNEY, Spolia from the Baths of Caracalla in S. Maria in Trastevere, ArtB 68 (1986), pp. 379-397, in part. 387; G. JENEWEIN, Die Architekturdekoration der Caracallathermen, Wien 2008, pp. 35, 199.

PROVENIENZE E MDALITÀ DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA 707

ni. Sulla presa di mira di una determinata regio, talvolta si possono avere indizi dal riutilizzo in chiese vicine topograficamente di fusti uguali di colonne, come è il caso per il Celio dei SS. Giovanni e Paolo di V secolo, ma con i fusti della navata risistemati nella fase romanica, di S. Maria in Domnica di IX secolo, ugualmente con interventi cosmateschi all’interno e dei SS. Quattro Coronati nella ricostruzione di XII, dove i fusti sono certamente più piccoli di quelli della fase carolingia: le altezze dei fusti e i loro diametri inferiori sono praticamente identici (le altezze medie dei fusti oscillano tra i 4,11 e i 4,13 metri e i diametri tra i 53 e i 55 centimetri). Ne è nata l’ipotesi della presenza nell’area di un unico monumento da cui sono state tratte spoglie e si può ricordare che lungo l’attuale Via della Navicella sorgeva la sede piuttosto monumentale e notevolmente estesa della V Coorte dei Vigili, di cui strutture sono state rinvenute anche sotto S. Maria in Domnica e nella quale probabilmente vi erano cortili a peri-stilio e aule di culto imperiale colonnate (basti pensare alla più modesta Caserma dei Vigili a Ostia) e non lontano vi erano i Castra Peregrina a est di S. Stefano Rotondo ugualmente di grande estensione, che sembrano già in declino dopo il sacco di Alarico65.

65 F. ASTOLFI, La zona in età classica: preesistenze e scavi archeologici in S. Maria in Domnica, in A. ENGLEN, Caelius I, S. Maria in Domnica, S.Tommaso in Formis e il Clivus Scauri, Roma 2003, pp.154-165; C. PAVOLINI, Archeologia e topografia della regione II (Celio) (Suppl. LTUR), Roma 2006, p.108.

Fig. 29 – Santa Maria in Trastevere.

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Infine vanno menzionate le ipotesi erudite di provenienza nei manuali sui marmi dell’800: il Corsi ad esempio attribuiva al Palazzo di Plauzio Laterano due grandi fusti in porfido rosso del Battistero Lateranense, al Foro Traiano due fusti scanalati in giallo antico della navata Clementina a S. Giovanni in Laterano, e quindi non della fase originaria della basi-lica, lo stesso le due di sienite trovate presso S. Croce in Gerusalemme e reimpiegate ancora nella navata Clementina, i due fusti di verde antico detti provenire dall’“Arco di Marco Aurelio”, che furono riutilizzate nella prima cappella a sinistra insieme ad un’urna di porfido trovata nel 1443 nel Pantheon. A S.Maria Maggiore le quattro colonne di granito grigio e le 24 in imezio (in realtà tasio di Aliki) proverrebbero dal “Tempio di Giunone Lucina”, mentre al Tempio di Giunone Regina sarebbero attribuite le 24 colonne rudentate in imezio (in realtà proconnesio) di S. Sabina. A S.Anastasia sette fusti di pavonazzetto sarebbero stati trovati nell’area della chiesa e apparterrebbero al Tempio di Nettuno. A S. Maria in Cosmedin le otto colonne scanalate in marmo imezio inserite nella parete apparterrebbero al Tempio della Pudicizia, ma in realta abbiamo visto facevano parte di un’aula porticata tardo antica rinvenuta sotto la chiesa e già costruita con colonne di reimpiego.

È comunque un indizio che le due colonne di verde antico della cap-pella Corsini al Laterano, credute provenienti dalla spoliazione dell’arco di Portogallo, decorato sotto Marco Aurelio, abbiano le stesse misure standard di tutte le altre colonne della basilica, inducendo alcuni autori ad indivi-duare per quest’ultima un riutilizzo da un edificio di II secolo di carattere privato, consideratene anche le modeste altezze66. D’altronde però, una tale ricchezza di questa qualità di marmo, scarsamente diffuso in Roma con simile omogeneità di dimensioni, non è riscontrabile in nessun altro edificio cristiano costantiniano e lascia ipotizzare una diretta committenza del IV secolo forse dallo sfruttamento del grosso magazzino che Massen-zio raccolse nei sei anni di attività edilizia in Roma, materiale destinato a qualche costruzione di carattere monumentale, fornita di grandi peristili. L’alternativa è così tra un riutilizzo di materiale di II secolo e l’uso di una committenza di poco anteriore a Costantino.

66 Sulla provenienza delle colonne cfr. R. GNOLI, Marmora Romana, Roma 19882, p. 164.