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Dante2021 II /2012

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1265-1321

LA COMMEDIA DAI MANOSCRITTI

ALLE EDIZIONI SCOLASTICHE

DANTE TESTIMONE PER L’ETERNITÀ

(PURGATORIO, CANTO II)INDAGINI SU FRANCESCA DA RIMINI

(INFERNO, CANTO V)

Le conversazionidi Dante2021

LUCA AZZETTAROSARIO COLUCCIA

SILVIO ORLANDOCARLO OSSOLAMARZIO PORROPAOLO TROVATO

Ravenna, 5-7 settembre 2012

a cura di DOMENICO DE MARTINO

LONGO EDITORE RAVENNA

ACCADEMIADELLA CRUSCA

Lanfranco Gualtieri e Antonio Patuelli, Verso il settimo Centenario dantesco p. 7

Domenico De Martino, Ancora conversazioni » 9Programma » 15

LA COMMEDIA DAI MANOSCRITTI ALLE EDIZIONE SCOLASTICHE

Paolo Trovato, Due parole sulla critica testuale, senza dimenticare Dante » 23

Rosario Coluccia, I manoscritti e le edizioni della Divina Commedia » 32

Marzio Porro, Novità per la Divina Commedia? » 41Paolo Trovato, A mo’ di congedo » 48

DANTE TESTIMONE PER L’ETERNITÀ

(PURGATORIO, CANTO II)

Silvio Orlando e Carlo Ossola, «Ma noi siam peregrin come voi siete» » 53

INDAGINI SU FRANCESCA DA RIMINI

(INFERNO, CANTO V)

Luca Azzetta, Da Dante a Boccaccio: la nascita di un mito » 79

LA COMMEDIA: DAI MANOSCRITTI ALLE EDIZIONI SCOLASTICHE

Due parole sulla critica testuale, senza dimenticare DantePAOLO TROVATO

Buona sera. Comincio con un’ovvietà: il testo della Commedia, anzitutti i testi antichi medioevali e moderni fino al primo Cinquecento cisono trasmessi, dai manoscritti e dai libri a stampa antichi, in una formache è molto diversa da quella dei libri che oggi compriamo in libreria.Non parlo tanto dell’esterno del libro, la legatura (oggi diremmo la co-pertina) e simili, e nemmeno dei caratteri, ma proprio del modo di pre-sentare il testo. Non ci sono apostrofi. Non ci sono accenti. Di solito,l’uso frequente di segni di interpunzione è uno sfizio per dotti che fannooccasionalmente i copisti. Fino al tardo Quattrocento un copista di pro-fessione non li mette quasi mai. Inoltre, quelle che per noi sono due opiù parole, sono quasi sempre univerbate cioè scritte assieme a formaredei gruppi grafici, per esempio: gliuomini, lombra, noncia (cioè ‘non cià’). E questi sono casi tutto sommato semplici, nei quali non c’è alcunapossibilità di dividere in modo diverso.

Come se non bastasse, i copisti che hanno prodotto i nostri mano-scritti (e specialmente i manoscritti danteschi che abbiamo in mente)non sono necessariamente della stessa area linguistica dell’autore, masono (se la sua opera ha successo) di zone disparate e ogni copista cimette del suo, cioè avvicina senza accorgersene il testo che copia aisuoi usi linguistici. Un veneto riscriverà freddo come fredo, un napole-tano amore come ammore.

Nel caso di Dante il successo fu immediato. A voler dare i numeri,i manoscritti che contengono almeno una cantica della Commedia sonoquasi seicento. E poi ci sono i frammenti: manoscritti che contenevanola Commedia, ma che adesso sono ridotti a frustoli. E sono circa due-cento. Abbiamo insomma otto centinaia di manoscritti superstiti, cioèuna cifra spaventosa, specie per un testo in volgare. Pensate che i poetisiciliani, dei quali è espertissimo l’amico Coluccia, sono tramandati so-stanzialmente da tre manoscritti. I poeti dello Stil novo sono tramandatida una quindicina di manoscritti. Il Roman de la Rose, cioè il capola-voro della letteratura francese medievale, è tramandato da meno di due-cento manoscritti.

Ma attenzione: la carta e la stessa pergamena (ben più resistente)sono supporti fragilissimi, che l’acqua, il fuoco o anche solo l’umiditàbastano a danneggiare irreparabilmente. Il numero dei manoscritti ar-rivati fino a noi è molto più piccolo di quello dei manoscritti esistiti.

24 Paolo Trovato

A distanza di qualche secolo, il 70 o l’ 80 o il 90% della produzionecomplessiva di un testo non c’è più: è scomparso senza lasciare tracce.Per (ovvie) ragioni di calcolo delle probabilità, in questo enorme nau-fragio le prime generazioni di copie (per forza di cose meno numerosedi quelle più tarde, perché se si parte da una copia sola, entro una dataunità di tempo o copi tu o copio io) non sopravvivono quasi mai. Nelcaso che qui ci interessa, sappiamo che l’opera di Dante è stata termi-nata a Ravenna e che, quindi, i primi manoscritti devono essere statiprodotti a Ravenna. Bene, a riprova di quanto ho appena detto, almenoa mia conoscenza, nessuno degli 800 manoscritti superstiti della Com-media è sicuramente ravennate, anche se ci sono una serie di mano-scritti relativamente tardi ma importanti che sono certamente diquest’area: ferraresi, bolognesi o di zone vicine.

Ma anche se i manoscritti superstiti sono a volte straordinariamentebelli, l’editore moderno non può limitarsi a trascriverne uno a caso per-ché ogni copia contiene un certo numero di errori. Ai primi del Nove-cento, qualche tedesco molto metodico ha fatto degli esperimentifacendo copiare lo stesso testo a qualche decina di dattilografe (le eredidei copisti di professione). È arrivato a concludere che in media si in-troduce un errore importante in ogni pagina di testo. Non prendiamoquesto dato alla lettera. Ma come indicazione di massima ha una sua va-lidità e implica che, dato un testo di cento pagine, se nella prima copiac’è un errore importante quasi per ogni pagina di testo, una copia diquesta copia dovrebbe avere, se non duecento, centocinquanta errori, ladecima dovrebbe avere molte centinaia di errori importanti.

Ovviamente, quando il filologo lavora sui manoscritti non c’è maiscritto “questa è la terza copia”, “io sono la decima copia” e quindi noidobbiamo cercare di capire autonomamente quali sono le copie più alte,quelle meno lontane dall’originale perduto e scartare quelle che sono lepiù basse, quelle che non aggiungono niente. Perché, se io sono sicuroche un certo manoscritto, che chiamo C, sia copia di una copia super-stite B e che B sia a sua volta copia di una copia A ancor oggi conser-vata, secondo lo schema:

ORIGINALE PERDUTO

|A|B|C

La Commedia: dai manoscritti alle edizioni scolastiche 25

B e C non mi servono assolutamente a niente, perché aggiungerannosolo nuovi errori al testo. Ovviamente gli alberi genealogici dei filologisono bizzarri perché, invece di avere le radici per terra, partono dal cielo,da dove vorremmo arrivare, cioè il più vicino possibile all’originale.

La disciplina, antica ma in continuo aggiornamento, che ci insegnaa ripulire i testi dagli errori si chiama, appunto, filologia o critica te-stuale. Ben inteso si tratta di una specialità per pochi, come per esem-pio la corsa a ostacoli, ma possiamo dire, con un po’ di compiacimento,che il modo con cui la si pratica in Italia è particolarmente raffinato,anche se non è usuale ricordarla, con la Ferrari e il Brunello, tra i no-stri vanti nazionali.

Molte procedure della critica testuale sono note a tutti. Le appli-chiamo tutti, anche senza saperlo, quando leggiamo i quotidiani, che, daquando non ci sono più i correttori di bozze e ci sono solo i tastieristi,sono lardellati di errori.

(1) A questo punto però è plateale la spaccatuta dentro la Lega.

(2) …È costretto a turarsi il naso con le pinze, come hanno fanno tutti i de-putati… quando hanno votato le leggi ad personam.

(3) …Anche adesso che ha un età.

(4) …Riscoprire lo spirito delle origini, cioè quello centrifugo, pedemon-tanto, ostile all’establishment in quanto tale…

Questi refusi tipografici sono tratti da un grande quotidiano nazio-nale di un estate fa. L’articolo parla di un deputato che stava per esserearrestato, della Lega e simili. Come sempre in Italia, anche cose di ven-t’anni fa sembrano attualissime. E viceversa. Il prossimo esempio è ri-cavato invece da un’inserzione relativa a un appartamento:

(5) Zona centro. Bilocale in contesto prestigioso. Corte esplosiva.

Due parole di commento. Es. 1. Chiunque sappia un po’ di italiano,capisce che spaccatuta non funziona e bisogna integrare, congetturare,come si dice tecnicamente, «spaccatura»: «è plateale la spaccatura den-tro la Lega».

Es. 2. Hanno fanno è, evidentemente, una specie di eco, un effettoacustico: chi lo ha scritto, voleva scrivere «hanno fatto».

Es. 3. Ovviamente, ci vuole l’apostrofo. Qui basta sapere una bricio-

26 Paolo Trovato

lina di grammatica delle elementari, o almeno delle elementari di una volta.Es. 4. «[…] lo spirito delle origini, cioè quello centrifugo, pedemon-

tanto, ostile […]». Anche in questo caso, è facile congetturare «pede-montano».

L’ultimo esempio (una parola di senso compiuto ma incongrua) ri-chiede all’editore un salto di qualità, cioè una congettura che si basi sulsignificato del contesto e sulla lingua normale nei testi di questo tipo. Perpoter correggere al bisogno, un bravo filologo alle prese con un testodel Trecento deve leggere molti testi del Trecento e studiare la “gram-matica” della lingua del Trecento, deve capire come gira la lingua delTrecento, che è sensibilmente diversa dalla lingua di oggi, ma anche daquella del Cinquecento. Analogamente, per fare una congettura su que-sta deliziosa inserzione bisogna aver letto altri testi di questo genere.

Ora, noi sappiamo che quando andiamo a comprare case che hannoun cortile o un giardino, questo può essere in comune o esclusivo. Esplo-sivo è un pasticcio acustico che può essersi verificato al telefono, mapuò anche essersi verificato durante quella che i filologi più esperti chia-mano la dettatura interiore. Quando io non copio come un perdigiorno,ma per portare a casa la pagnotta per la famiglia, cioè faccio il copistadi mestiere, io devo memorizzare un pezzo lungo di testo. Di regola, icopisti di Dante memorizzavano una terzina e poi non guardavano piùquello che c’era scritto; se lo dettavano e riscrivevano a memoria. Nonandavano a riguardare, perché se fossero andati a ricontrollare avreb-bero perso il triplo del tempo. (Superfluo avvertire che noi filologi fac-ciamo tutto il contrario: ci mettiamo a guardare parolina dopo parolinae ci torniamo dopo averla trascritta per essere sicuri di averla trascrittagiusta. E la pagnotta è miseranda perché, invece di produrre tanti libri,perdiamo un sacco di tempo).

Un ultimo esempio: che è carino perché spiega bene che cosa vuoldire la banalizzazione, che è un tipo di errore frequente e insidioso cau-sato da eventuali dislivelli culturali del copista rispetto all’autore. Sem-pre nel giornale nazionale che tendo a comperare, un paio di mesi fa siparlava dello sport nell’antica Grecia:

(6) La boxe, disputata sul sottofondo musicale di un atleta.

Ovviamente il sottofondo musicale era quello di un auleta, un suo-natore di flauto. Non so dirvi se il pasticcio lo abbia commesso un cor-rettore, un giovanotto a contratto, o se l’abbia fatto piuttosto un correttoreautomatico del PC, che di fronte a una parola a bassissima frequenza

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come auleta segnala errore e suggerisce la presunta correzione atleta.

Ho insistito tanto sugli errori perché nei nostri manoscritti gli errorinon sono solo ostacoli da rimuovere, ma sono anche i maggiori alleatidel filologo. Come si diceva prima, noi abbiamo bisogno di sapere inche posizione reciproca sono i manoscritti. Abbiamo bisogno – l’in-venzione è stata fatta tra fine Settecento e primo Ottocento – di unostemma codicum, cioè di un albero genealogico. Ve ne faccio vedereun paio e poi avremo quasi finito.

Questo è uno degli stemmata codicum in assoluto più famosi. È lostemma tracciato nel 1890 da un neolaureato che avrebbe fatto moltastrada, Joseph Bédier, di un poemetto francese che si chiama il Lai del’ombre sul quale è scorso il sangue, cioè i filologi si sono accapigliatie continuano ad accapigliarsi. Cosa vuol dire questo stemma? Vuol direche all’inizio della tradizione superstite c’è un manoscritto perduto O(che ci accontentiamo di chiamare il vertice, sennò bisognerebbe per-dere un quarto d’ora per spiegare cosa è l’archetipo e in fondo non ècosì importante in questa sede). Ci sono una serie di lettere maiuscole, AB C D E F G, e una serie di lettere minuscole, t x y w z. Per conven-zione, le maiuscole corrispondono a manoscritti che sono conservati, le let-tere minuscole corrispondono a manoscritti perduti, che sono statiricostruiti (idealmente) dai filologi. Per esempio y è ricostruito sulla basedella oggettiva convergenza di C e G.

Come si fa a ricostruire un manoscritto perduto? Ce ne vogliono almenodue di conservati, che devono avere in comune delle bestialità o, come sidice in gergo, degli errori patenti. Per esempio, se noi avessimo la fortunadi avere due o più manoscritti della Commedia (su seicento) che comincino:Nel mezzo del cammin di nonna Rita invece che Nel mezzo del cammin di

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nostra vita, saremmo sicuri che quella grandiosa bestialità non può essereavvenuta indipendentemente. Quindi gli n manoscritti che “leggono” dinonna Rita invece di nostra vita devono essere imparentati tra loro (magariuno è il modello e gli altri due sono la copia diretta). Procedendo con que-sto sistema, cioè usando l’errore come mattoncino base della nostra ri-co-struzione (di tipo logico-formale), si arriva a costruire lo stemma.

Perché i manoscritti D, F siano disposti come vuole Bédier bisognache ci siano un certo numero di errori in comune, che mostrano l’esistenzadi t, qualche errore proprio di D, che non è in F, e qualche errore propriodi F, che non è in D. È chiaro che se D fosse copia di F avrebbe tutti glierrori di F, più magari qualche errore in più, per il discorso che facevamoprima (un copista medio aggiunge al disordine della copia di partenza al-meno un errore importante ogni pagina). In questo caso tutte e tre le con-dizioni sono soddisfatte: errori comuni, errori separativi, come si dice, diD contro F e errori separativi di F contro D.

Ma ecco un altro stemma, ben più ramificato:

La Commedia: dai manoscritti alle edizioni scolastiche 29

Questo è, lo stemma del Turco in Italia di Rossini. Uno stemma di librettia stampa, affollatissimo. Il libretto di Barcellona del 1820 è la fonte del librettodi Madrid, ma entrambi derivano, chissà perché, dal libretto di Mantova del1817. Magari dei cantanti che sono andati prima a Mantova e poi sono finitiin tournée in Spagna hanno portato con sé il libretto, che è stato ristampato.

A che cosa serve uno stemma? Lo stemma, dicevo, è un’invenzioneimportante, perché riassume in modo preciso la nostra ricostruzione dellatradizione superstite e ci serve a capire di quali manoscritti possiamo farea meno: che non è poco se pensate, per esempio, al caso degli ottocentomanoscritti che sono testimoni della Commedia di Dante.

Un altro esempio, di fantasia:

Anche in questo caso c’è un vertice – non gli ho messo nessunonome, né archetipo né O, chiamiamolo vertice, va bene lo stesso –; poia destra c’è un manoscritto O. Da questo manoscritto O dipendono infila indiana i manoscritti P, Q e R. R può essere eliminato, come si dicetecnicamente, perché tanto riprodurrà tutti gli errori di Q, aggiungen-done alcuni suoi propri, quindi gli facciamo un crocione sopra. Q puòessere eliminato perché abbiamo P. P può essere eliminato perché ab-biamo O. O non può essere eliminato, ci serve per andare in su e rico-

struire il vertice, il punto più alto della tradizione a cui noi possiamo ar-rivare. Noi abbiamo esaminato un ramo dello stemma, il ramo di destra,indicato con [β]. Guardiamo il ramo di sinistra: c’è un manoscritto per-duto α. I manoscritti perduti si possono indicare, oltre che con lettere la-tine minuscole, anche con lettere dell’alfabeto greco.

Anche da questo lato ci sono manoscritti come E e F che risultano,da subito, di nessuna utilità. C e D invece non possono e non devono es-sere eliminati perché il loro confronto ci permette di arrivare a b minu-scolo, il manoscritto che ha (oltre a una lunghissima serie di lezioniapparentemente buone che si ritrovano anche nel resto della tradizione,per ora trascurabili) tutti gli errori comuni a C e a D, ma non ha gli er-rori in più del solo C né gli errori in più che sono esclusivi di D.

In questa maniera si cammina verso l’alto. Ma non è finita. Lo stemmanon mi dice solo che manoscritti devo buttare via, ma anche (quale gran-diosa invenzione!) che variante devo scegliere a parità apparente di con-dizioni. Supponiamo che la tradizione superstite di cui sto per riportare laconfigurazione sia quella di un romanzo e che in un punto si stia descri-vendo una bellissima donna, la protagonista, con una veste che in alcunimanoscritti è rosa, in altri è gialla, in altri è verde. Scelgo rosa o giallo overde? (Si noti che dilemmi del genere sono frequentissimi, quando an-diamo a ricostruire un testo antico o medievale o rinascimentale. Mi ver-rebbe da dire che più del 50% di un testo è fatto di varianti adiafore, cioèdi varianti come queste, che sembrano ugualmente accettabili).

L’invenzione sette-ottocentesca dello stemma ci permette di risol-vere, almeno in termini di calcolo delle probabilità, questo dilemma.

Paolo Trovato30

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La cosiddetta legge della maggioranza ci dice che la lezione buonaè quella che si trova appunto nella maggioranza delle ramificazioni pri-marie, cioè quelle che derivano direttamente dal vertice. Ragioniamoper percentuali: tre rami vuol dire un 33% periodico per ogni ramo. Lafamiglia α vale 33%, esattamente come la famiglia β e come il ms. O.Ma α si è diviso in due: da una parte troviamo un rosa che è il 16,5%,dall’altra troviamo un giallo. Morale: rosa ha la maggioranza di questostemma con il 49,5%, in seconda posizione c’è verde con il 33%, in terzaposizione giallo, con un modestissimo 16,5%. Il ragionamento che oc-corre fare, ancora una volta di tipo logico-formale, è quello che segue:è più probabile supporre che il copista di β si sia distratto e abbia inno-vato, e il copista di B si sia distratto e abbia innovato (diversamente), cheimmaginare che due copisti di due zone diverse della tradizione (A e O)siano andati a innovare nello stesso senso, in maniera convergente. Ov-viamente, è una questione di grandi numeri: cioè, non possiamo esclu-dere con ogni certezza che nella fattispecie l’autore non abbia scrittorosa ma verde, ma non c’è dubbio, sul piano logico, che si tratti di un ec-cezione e che, dati mille casi di questo genere, la soluzione prospettatasopra sulla base della legge della maggioranza sia la più razionale.

Concludo, scusandomi per la lunghezza di questo antipasto. Comeavete capito le edizioni scientifiche di Virgilio o di Dante, da cui deri-vano le nostre edizioni scolastiche, presuppongono almeno questi ele-menti: 1. chi le fa deve aver confrontato integralmente o almeno acampione tutti i testimoni superstiti, 2. deve averli classificati, come sidice tecnicamente, 3. deve aver tracciato uno stemma codicum, 4. deveaver fissato il testo, 5. deve avere separato le parole, 6. deve aver intro-dotto gli elementi chiarificatori per noi normali (maiuscole, segni di in-terpunzione, apostrofi e altri segni diacritici). Mi auguro che questamolto sommaria presentazione basti per far capire di che lacrime grondie di che sangue, come diceva un altro poeta, un’edizione scientifica, cioèun’edizione critica. E vi ringrazio per l’attenzione.

I manoscritti e le edizioni della Divina Commedia

ROSARIO COLUCCIA*

Prima d’ogni cosa ringrazio gli organizzatori che, oltre a darmi lapossibilità di parlare davanti a un pubblico così competente, mi hannopermesso di rivedere questa bellissima città (nella quale torno semprevolentieri) e offerto anche l’occasione di ricontrollare un manoscrittodella splendida Classense.

L’introduzione di Paolo Trovato presenta alcuni problemi del testodella Commedia e, più in generale, di qualsiasi testo che sia giunto a noinon in originale ma in copia. Nel caso della Commedia il discorso èparticolarmente complicato perché l’editore deve fare i conti con unatradizione manoscritta estremamente ricca e assai variata, nel tempo enello spazio.

Mi limiterò perciò a discutere alcune questioni testuali rifacendomial lavoro di quanti, con grande abnegazione, si sono cimentati nella im-presa temeraria (perché difficoltosissima) di allestire l’edizione criticadel capolavoro dantesco. Per ragioni di tempo, considererò con più at-tenzione il metodo e le implicazioni operative delle due edizioni diGiorgio Petrocchi (La Commedia secondo l’antica vulgata, Milano,Mondadori, 1966-67) e di Federico Sanguineti (Dantis Alagherii Co-media, Tavarnuzze-Firenze, SISMEL, 2001): radicalmente diverse e pro-prio per questo idonee a una valutazione comparativa dei risultati, secosì posso esprimermi. Mi scuso fin d’ora di non citare con la stessa in-tensità altri studiosi che successivamente hanno formulato proposte ri-guardo alla sistemazione critica del testo dantesco, tra cui il carissimoTrovato qui presente (e inoltre Giorgio Inglese, Enrico Malato, CarloOssola); ma almeno, al momento opportuno, a qualche lavoro capiteràdi fare cenno.

Consideriamo lo stemma di Petrocchi 1966-67 costruito, come tuttisanno, sui 27 codici che egli riteneva corrispondenti alla antica vulgata(oggi le cose non stanno più così, ma non è discorso da fare in questasede). Limitiamoci davvero a uno sguardo d’insieme, senza neppure sfio-rare la questione dei rapporti tra i singoli manoscritti: si constata la sepa-

* Una presentazione più sistematica di alcune tesi è in stampa nell’articolo Sultesto della Divina Commedia, in «Medioevo Letterario d’Italia», 9 (2012) [ma 2013],pp. 35-48.

La Commedia: dai manoscritti alle edizioni scolastiche 33

razione nei due grandi tronconi α e β, rispettivamente corrispondenti allafamiglia dei codici toscani e a quella dei codici emiliano-romagnoli.

La questione del testo della Commedia è tutta lì. L’editore dovrà ri-farsi al ramo α o al ramo β? E, fatta questa prima scelta, quale mano-scritto dovrà privilegiare, quale dovrà essere scelto a base della propriaedizione? Fondamentalmente Petrocchi ha puntato sul ramo toscano,con una prassi che è difficile definire rigida e rigorosa, al di là delle di-chiarazioni di principio che pure sono numerose.

Più succinto è lo stemma di Sanguineti 2001: solo sette manoscrittiorganizzati nelle due consuete grandi famiglie. La distribuzione dei co-dici è diversa rispetto a quella di Petrocchi, non solo perché la quantitàdelle testimonianze è notevolmente ridotta, ma anche perché differen-temente si configurano i rapporti interni tra i testimoni. Il manoscrittoUrb [Città del Vaticano, Vaticano Urbinate latino 366, del 1352] da solorappresenta un ramo della tradizione (quello emiliano-romagnolo); difatto si contrappone al principale esponente della tradizione toscanaTriv [Milano, Biblioteca dell’Archivio storico civico e Trivulziana1080, del 1337].

34 Rosario Coluccia

Il ragionamento conseguente potrebbe essere così formulato: se dauna parte abbiamo una tradizione emiliano-romagnola e dall’altra unatradizione toscana con quali criteri l’editore orienterà le proprie scelte?Il filone emiliano-romagnolo ha un vantaggio evidente, almeno a primavista: nella presentazione di Sanguineti è costituito da un sol mano-scritto, se si va in quella direzione le scelte sostanziali e anche formalirisultano vincolate e quasi automatiche. Dall’altra parte invece, quellatoscana, vi sono più manoscritti su cui ragionare, le soluzioni vannosottoposte al vaglio della distribuzione stemmatica ed è assai più com-plicato trovare un criterio predeterminato.

Le conseguenza pratiche di tale situazione sono tutt’altro che indif-ferenti sotto il profilo linguistico. Il testo della Divina Commedia puòvariare anche notevolmente nelle diverse edizioni e nessuno degli edi-tori arriverebbe a giurare che il testo da lui proposto coincida con quellouscito dalla penna di Dante. Con onestà intellettuale, dovremo conve-nire che noi dobbiamo fare i conti con quello che la storia ci ha conse-gnato: al contrario di quanto è avvenuto per molte opere di Petrarca odi Boccaccio e per tanti altri (per fortuna!), di Dante non possediamoneppure un rigo autografo della sua penna, neppure una parola. Posse-diamo solo copie: copie del testo della Commedia che, come abbiamovisto, sono state prodotte da un lato in area emiliano-romagnola e dal-l’altro in Toscana. Esistono anche copie confezionate in altre regioni,ad esempio copie meridionali ancora successive, che non entrano nelnostro ragionamento. Del fatto che la lingua del testo edito non corri-

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sponda alla lingua di Dante sono consapevoli, in primo luogo, gli stessieditori: «è vano illudersi di rintracciare fatti linguistici che non restinocircoscritti all’ambiente scrittorio e all’usus peculiare del copista, esiano [invece] prova di un’alternanza di una scelta attribuibili al poeta»(Petrocchi 1966-67, vol. I, p. 410). Di questa constatazione dovremoprudentemente tenere conto anche noi, in particolare se consideriamole variabili forme che il testo di Dante ha assunto, quando nel corso deisecoli è stato letto da milioni di italiani. Ci approssimiamo, la formulaè quella canonica, il più che sia possibile all’originale, il più che siapossibile sulla base di quello che il passato, la storia, la tradizione cihanno consegnato.

Tra le due edizioni che stiamo considerando, quella di Petrocchi equella di Sanguineti, si colloca l’edizione di Antonio Lanza (Anzio,De Rubeis, 1995; 19962), che poggia su un diverso criterio. L’editorecontesta a Petrocchi l’utilizzazione del metodo ricostruttivo, a suo direinapplicabile nel caso della Commedia e per giunta adottato senza con-siderare globalmente la tradizione manoscritta, anche post-boccac-ciana. Preferita la pubblicazione di un codice unico, viene individuatoin Triv il codice migliore, latore di lezioni fondamentalmente accetta-bili e per quanto possibile vicino all’originale, e insomma dotato diottimi requisiti: esemplato nel 1337, questo manoscritto riflette unostadio della tradizione antichissimo, testimone incomparabilmente piùaccurato, portatore delle lezioni migliori e con un indice di erroneitàassai meno elevato di tutti gli altri. Tentativo bédieriano, isolato ri-spetto alle altre edizioni di cui trattiamo in questa sede, che tuttaviacontiene spunti interessanti in specie nel commento, anche al di là dellespecifiche scelte testuali.

Torniamo a seguire lo schema principale del nostro ragionamento:da un lato c’è una filiera toscana, dall’altro c’è una filiera emiliano-ro-magnola. Presa con prudenza la direttrice toscana, Petrocchi stabili-sce il suo testo utilizzando in maniera eclettica i codici di quellatradizione. Sanguineti ragiona diversamente, prendendo a base il ma-noscritto Urb, del 1352, esponente unico del ramo settentrionale nellasua ricostruzione: «sussistono le condizioni perché l’editio criticapossa venire incontro a una duplice esigenza, bédieriana e lachman-niana» rifacendosi, a parte le eccezioni di cui torneremo a parlare, allalectio dell’Urbinate. Ma proprio qui, a mio parere, cominciano i pro-blemi legati alla assunzione di un testo che ha una evidente forma set-tentrionale.

Nel 2007 Paolo Trovato pubblica un volume importante: Nuove pro-

36 Rosario Coluccia

spettive sulla tradizione della «Commedia». Una guida filologico-lin-guistica al poema dantesco (Firenze, Cesati, 2007). Diciotto i collabo-ratori di questo volume, coordinato e diretto da Trovato (che vicontribuisce con scritti anche propri): riuscire a far lavorare coordinata-mente 18 diversi studiosi è di per sé un merito in un paese come l’Italia,che ha una tradizione di studio eccellente ma iperindividualista, dove èdifficile far convivere e lavorare insieme due persone, perché troppo nu-merose...

Di questo libro prima De Martino diceva: tutti quanti, quando an-diamo a letto, dobbiamo tenerlo sotto il cuscino perché con quello ripo-siamo bene ecc. Benissimo, condivido; io non ce l’ho proprio sotto ilcuscino, ce l’ho sulla scrivania e lo consulto spesso. Se provassi a rias-sumere in poche parole il senso complessivo del volume, potrei affer-mare che vi si ribadisce la preminenza della linea emiliano-romagnola,confermata dall’analisi della tradizione manoscritta della Commedia,estesa ben al di là della antica vulgata. Non so se Trovato condivide.

Certo non ci permetteremmo di giudicare l’edizione di Sanguinetisemplicemente riportando titoli di giornale, come quello dell’articoloche Cesare Segre pubblicò sul «Corriere della sera»: La Divina Com-media dal sapore emiliano; titolo di giornale, si dirà (magari non attri-buibile all’autore). Ma la sostanza di quei rilievi, che lamentano la linguaun po’ troppo settentrionale di quell’edizione, non può essere facilmenteaccantonata. Trovato invita, con piena ragione filologica, a non lasciarsifuorviare da impostazioni ideologiche e da fatti sentimentali quando sidiscute di problemi ecdotici. In altre parole: indipendentemente dallenostre abitudini di lettori, anche il testo di Dante va sottoposto al vaglioscientifico e al rigore della logica; dovremo accettare i risultati di que-st’esame, quali che essi siano. Ha perfettamente ragione. Allora, io mipermetto di citare, come meri elementi che favoriscano il procedere delladiscussione, non certamente per negare l’importanza delle tesi appena ri-ferite, le opinioni di altri studiosi che seriamente hanno avanzato riservesulla preferenza accordata a Urb e al ramo emiliano-romagnolo, vol-gendo invece lo sguardo con rinnovato interesse al ramo toscano. Conargomentazioni indipendenti, ma ampiamente coincidenti nei risultati,Luca Serianni nel 2007, Giorgio Inglese in vari contributi sfociati poinell’edizione dell’Inferno (Roma, Carocci, 2007) e del Purgatorio (ivi,2011), ridanno importanza al ramo toscano della tradizione e in parti-colare riaffermano l’importanza di Triv.

Un po’ diversa nella formulazione è la critica che Alberto Varvaro fain un volume recente, Prima lezione di filologia (Roma-Bari, Laterza,

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2012). Leggiamo: «Sanguineti ha invece creduto di poter sostenere chela famiglia più autorevole è quella in cui il principale testimone, il co-dice Vaticano Urbinate latino 366 è di area emiliano romagnola. Ciòsarebbe anche coerente con la circostanza che è in Romagna dove Danteha vissuto gli ultimi anni e terminato il poema. Ne consegue però chela recente edizione Sanguineti della Commedia, che assume l’Urbi-nate come buon manoscritto, cioè come manoscritto di base, ha do-vuto eliminare un certo numero di tratti linguistici e grafici estranei alfiorentino, intervenendo sul testo numerosissime volte».

La sostanza, la plausibilità, o almeno la possibile fondatezza di que-sto tipo di critica è in qualche modo accolta dallo stesso Trovato. In uncontributo del 2008 (sono gli atti di un convegno che si è tenuto tra Pisae Firenze, tra la Scuola Normale e l’Accademia della Crusca, organiz-zato dall’Associazione per la Storia della Lingua Italiana – ASLI, Fi-renze, Cesati, 2010) Trovato riflette sulle obiezioni, fondamentalmentedifendendo, come è normale, giusto e doveroso, le sue tesi, e nellostesso tempo facendo un passo in più rispetto all’edizione di Sanguineti:nello specifico, correggendo in senso toscano alcune forme di quel-l’edizione che paiono linguisticamente inaccettabili. Come lo fa? Agi-sce a caso o a piacere? No, non certamente a piacere perché, ce lo haspiegato prima, bisogna appoggiarsi alla tradizione manoscritta: di con-seguenza prende un codice della medesima famiglia, ma più tardo, equando vi trova una preferibile forma toscana corregge le forme emi-liane presenti invece in Urb. Nello specifico, il V canto dell’Inferno,quello di Paolo e Francesca, su cui Serianni aveva in parte fondato lapropria critica, viene emendato producendo quarantotto interventi insenso toscano su un totale di centoquarantadue versi (se non ho contatomale). Ne risulta sicuramente accresciuto il coefficiente di fiorentinitànella tradizione settentrionale del testo dantesco; ma contemporanea-mente viene a cadere il presupposto di Urb come manoscritto unico (inquanto tale rivendicato come acquisizione fondamentale dell’edizionedi Sanguineti), indulgendo proprio a quell’eclettismo contaminatoriofrequentemente rimproverato a Petrocchi, seppur qui applicato in ma-niera mirata e su un campionario manoscritto obiettivamente più ri-stretto (ma con opzioni non vincolanti né automatiche, neanche in virtùdello stemma proposto). Questa mi pare la conseguenza implicita.

Questi discorsi potrebbero sembrare forse un po’ lontani dal temadel nostro incontro: «La Commedia: dai manoscritti alle edizioni sco-lastiche». E invece no: riflettendo sull’assetto del testo di Dante, cistiamo chiedendo anche cosa leggiamo quando leggiamo Dante, nella

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scuola e fuori. Introduco un elemento di riflessione che, lo dico subito,non è un elemento filologico né logico, ma forse ha un qualche peso perla storia della nostra lingua. Di fronte a queste discussioni su forma esostanza del testo dantesco, io mi chiedo quale testo milioni di italianiabbiano letto quando si sono accostati alla Commedia. L’importanza diDante per la storia della nostra lingua è straordinaria: una parte signi-ficativa del lessico fondamentale che adoperiamo nello scritto e nel par-lato è costituito da parole filtrate attraverso l’uso dantesco, che si sonocontinuate fino a oggi grazie al carattere particolarissimo, aristocraticoe selettivo (o se preferiamo oligarchico e antipopolare), della nostrastoria culturale. Il modello linguistico dantesco nel corso dei secoli siè imposto ed è diventato unificante. Questa è la storia della nostra lin-gua. Non sarà peregrino porsi queste domande e chiedersi come effet-tivamente gli italiani conoscano e abbiano conosciuto il testo dantesco.

All’indirizzo www.pensieriparole.it la gente “posta” – così si dice –frasi ritenute importanti. Non sono i filologi che leggono Dante, si trattadi gente comune che seleziona frasi significative; una intera rubrica èintitolata Frasi di Dante Alighieri e vi si legge ad esempio:

Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,vidi ’l maestro di color che sannoseder tra filosofica famiglia.Tutti lo miran, tutti onor li fanno.

Questo pezzo è stato postato da Simona Iapichino, dal libro La Di-vina Commedia di Dante Alighieri, così è scritto nel sito; vi si spiegache in questi versi Dante allude ad Aristotele ecc. E alcuni lettori com-mentano: “mi piace”.

Subito dopo nello stesso sito, pagina successiva, si legge:

L’amor che move il sole e l’altre stelle.

Frase postata non sappiamo da chi, che riceve moltissimi commentidi approvazione: “mi piace, mi piace, mi piace”. Riporto ancora una ci-tazione, che difficilmente additerei quale esempio di rigore filologico.

Nulla addolora maggiormente che ripensare ai momenti felici quando siè nel dolore.

Non continuerò il gioco di citare le frasi postate nel sito e poi di con-trollare se a base vi sia il testo di Petrocchi o il testo di Sanguineti, o

La Commedia: dai manoscritti alle edizioni scolastiche 39

altro ancora: questi lettori di Dante non si pongono problemi filologicie linguistici. La signora o signorina Simona Iapichino, che non ho avutoil piacere di conoscere, posta le sue frasi e i visitatori del sito annui-scono. Quale testo avrà scelto Iapichino per le sue citazioni? Non ci in-teressa in questo momento, ma l’episodio invita a riflettere sull’impattoche il testo dantesco nel corso dei secoli ha avuto sulla nostra storia lin-guistica e culturale. Non ho una soluzione netta di fronte ai problemiche sto cercando di delineare, ho una linea possibile di futuro lavoro,buona per noi filologi per fortuna strutturati e non ancora disoccupati,che magari coinvolga qualche giovane bravo. Evoco idee, solo possi-bili idee, su quello che potremmo fare.

Ricordiamo tutti la notissima terzina di Purgatorio XXIV:

«O frate, issa vegg’ io», diss’ elli, «il nodoche ’l Notaro e Guittone e me ritennedi qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!».

Nell’edizione di Sanguineti troviamo scritto:

di qua dal dolce stil! E il novo ch’io odo.

Questa scelta testuale (che potrebbe implicare la riconsiderazione diuna parte non secondaria del percorso storico della poesia duecentesca)da un lato può provocare (come ha provocato) commenti distaccati, iro-nici e anche entusiastici che possiamo ragionevolmente omettere di ri-ferire in questa sede e dall’altro, più concretamente, tentativi di porreriparo a una lezione controversa proponendone una differente sistema-zione: «di qua dal dolce stile il novo ch’io odo!» (Trovato) e «di qua daldolce stil è il novo ch’io odo!» (Fenzi).

Prima De Martino richiamava l’edizione della Divina Commedia,quella del 1595, che poi gli Accademici della Crusca hanno usato per ilVocabolario del 1612. E osservava correttamente che quel testo (ovvia-mente di stampo toscano) è largamente presente nel Vocabolario: «laCommedia è la fonte maggiore, citata in 5.726 voci con ben 22.356 oc-correnze, contro le 3.215 voci con 4.826 occorrenze di Canzoniere eTrionfi del Petrarca e le 6.449 voci con 13.024 occorrenze del Decame-ron». Testo toscano, non emiliano-romagnolo.

Non voglio essere frainteso: Trovato ha meriti eccezionali perché hacontribuito in maniera determinante a rimettere in moto la discussione sultesto della Commedia, che di fatto stagnava dopo l’edizione di Petrocchi.

Quale è una strada di lavoro percorribile che io mi permetto non disuggerire né ancor meno di imporre, ma almeno di adombrare? Qual-che anno addietro Serianni si chiedeva: «è più economico partire daU[rb] e ortopedizzarne i settentrionalismi oppure partire da T[riv] e in-tervenire ove ci sia il fondato sospetto di lezioni linguisticamente spu-rie?». Questa è una possibile ipotesi di lavoro, ma per capire qualisaranno i risultati di questo lavoro non possiamo basarci su un sol canto,dovremmo avere un campione più esteso, dico a caso, quindici o venticanti. E ragionare così: allestire venti canti duplicemente impostati, se-guendo la strada toscana e quella emiliano-romagnola, e poi confron-tare concretamente i risultati. Proviamo a operare concretamente,esaminare le conseguenze pratiche dei discorsi teorici, che naturalmenteservono moltissimo.

C’è un difetto in questa mia ipotesi e lo dichiaro subito: il singolostudioso, gli individui, il gruppo che lavora a queste cose hanno la cer-tezza che, quando avranno finito, metà del lavoro potrebbe essere inu-tile o quasi (a parte le implicazioni di metodo che sicuramente se netrarrebbero). Se alla fine risultasse preferibile la via A, si butterebberonel cestino i risultati della via B; se si scegliesse la via B, si buttereb-bero nel cestino i risultati della via A. In altri termini: si lavora per qual-che anno e poi ci si dice: «beh, metà del mio lavoro, lo butto via». Ionon so se questa sia una strada praticabile (nonostante il masochismoche spesso anima il lavoro del filologo), ma con questo dilemma an-gosciante finisco e vi ringrazio dell’attenzione.

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Novità per la Divina Commedia?MARZIO PORRO

Il testo della Commedia appare da lontano come un poderoso mas-siccio: come deve apparire, d’altra parte, un testo che è pietra miliare1) di una concezione etica riguardo al peccato e alla redenzione an-cora esplicitamente o implicitamente vigente in molti settori della no-stra cultura; 2) della visione dell’aldilà di una cospicua parte del genereumano; 3) della consistenza identitaria dell’Italia e degli italiani perfatti di lingua scritta e parlata e non solo di quello. Ma a guardare me-glio, senza timori e pregiudizi, anche a costo di perdere qualche cer-tezza, il “massiccio” del testo appare di natura carsica, percorso dacorrenti sotterranee che solo a tratti emergono e lambiscono l’atten-zione e l’opinione comuni.

E non potrebbe che essere così, quando si pensi al pochissimo chesappiamo della vita di Dante anche a proposito della composizione delcapolavoro. Il testo che ci è rimasto è stato, diciamo così, licenziato daDante e corrisponde alla sua volontà, o al figlio Jacopo si deve piutto-sto l’edizione definitiva sui manoscritti cui il padre lavora fino allamorte? E ancora che cosa accade in quel decennio, più o meno, che in-tercorre tra la morte e le prime testimonianze del testo che ci restano?Dante muore a Ravenna, i rapporti con Firenze di lui e della famigliasono pessimi e le prime copie della Commedia sono quasi sicuramentesettentrionali, eseguite tra Emilia e Veneto: come incide questa storiadella prima diffusione del testo sul suo aspetto linguistico? In che mi-sura un copista di Bologna o di Padova, edotto di latino e del suo vol-gare, era in grado di adeguarsi al dettato “fiorentino” del testo? Non sidimentichi inoltre che tutta la Commedia è stata scritta durante l’esilioin gran parte presso le corti settentrionali, anche qui tra Veneto e Ro-magna… Ecco, di questi problemi di cui si sono occupati e si occupanomolti studiosi di Dante (i dantisti sono una cosa un po’ diversa…) checosa è giunto e giunge ai comuni lettori della Commedia e allo studiodel testo nella scuola? Direi poco, o niente.

La “lettera” comunque di un’opera di tale importanza deve presen-tarsi come indefettibile e indiscutibile: pena, si direbbe, la sua autenti-cità e dunque la sua efficacia identitaria. Si tocca qui il gran temadell’insicurezza linguistica degli italiani. Lingua appresa a scuola quasida tutti, almeno fino alla mia generazione, l’italiano con le sue oscilla-zioni storiche ha indotto e induce incertezze intollerabili alla precariasicurezza idiomatica dei suoi parlanti. Che pretendono regole gram-

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maticali ferree anche dove non ci sono e possono avere reazioni im-prevedibili (ho potuto rilevare insofferenze anche presso i miei stu-denti…) se si mette in questione persino l’assetto linguistico del padredella lingua così come si configura nell’opera maggiore.

Eppure dall’ultimo scorso di Novecento ai nostri giorni molto è cam-biato per quanto attiene al testo della Commedia e qualche segnale hacominciato a circolare anche nell’ambiente scolastico. Si diceva che laprima diffusione del poema è stata tutta nordica. E proprio dal nord ar-rivano a Firenze i manoscritti che poi saranno copiati dagli amanuensifiorentini. Eppure il mito della “fiorentinità” di Dante – che Dantestesso edifica in positivo e soprattutto in negativo – e della sua linguaha fatto sì che gli editori privilegiassero le copie fiorentine – e da quelletraessero il testo della Commedia – rispetto ai manoscritti settentrio-nali, presumibilmente più vicini agli originali: come se un decennio di“logorante” copiatura della Commedia fosse trascorso invano. Ma giàGiorgio Petrocchi editore del testo oggi più diffuso del poema avevaaccordato, una cinquantina d’anni fa, una certa fiducia a un manoscrittodi origine emiliana appartenuto alla corte di Urbino e oggi conservatonella Biblioteca Vaticana. Ancora più significativo che il manoscritto diUrbino sia servito come base a un’importante edizione del poema Dan-tis Alagherii Comedia, a cura di Federico Sanguineti, 2001. Il mano-scritto Urbinate è risultato a Sanguineti esente da tanti errori che si sonoprodotti lungo le molte trafile di copiatura a Firenze e in Toscana. An-cora qualche anno prima, tuttavia, Antonio Lanza elevava l’ultimo mo-numento al mito fiorentino ponendo a base della sua La Commedìa(Anzio, De Rubeis, 1995) – come si vede cambiano anche i titoli – unmanoscritto copiato a Firenze, ma da un amanuense della Val d’Elsa,nel 1337.

Comunque il passare degli anni ha permesso agli studiosi di domi-nare sempre meglio e sempre più dall’alto il panorama dei circa 800manoscritti della Commedia e ha consentito anche di stabilire i rapportidi parentela che li avvincono rendendo dunque possibile l’eliminazionedelle “copie di copie” piene di errori fino a isolare un numero ragione-vole di testimonianze dell’opera in diversa misura abbastanza fedeli.Naturalmente c’è qualche angolo di questo paesaggio che deve essereancora esplorato. Qualche angolo un po’ nascosto in cui la diffusionedel testo non è stata così frequente e veloce come a Firenze dove gliscriptoria (le copisterie del tempo) lavoravano a tutto vapore ad allestirecopie della Commedia: ecco in questi angoli più appartati dove menoclamore e “domanda” che nella “colpevole patria” poteva suscitare la

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fiorentinità del poema, può essere rimasta ancora qualche buona copiadell’originale, sottratta all’usura e al progressivo deterioramento dellecopiature.

Di tutto questo, dicevo, qualcosa comincia a trapelare anche nelmondo dei lettori comuni e della scuola. Molti ricorderanno la terzaedizione del commento di Sapegno, 1985, in cui si adotta il testo sta-bilito da Petrocchi le cui scelte però sono spesso rifiutate e si ritorna alvecchio testo approntato dalla Società Dantesca Italiana per tutte leopere di Dante, 1921, lavoro in cui – nonostante la visuale sui mano-scritti e sui loro rapporti fosse ancora limitata – gli studiosi del tempoavevano fatto scelte molto opportune. Stesso discorso per la Commediacommentata da Anna Maria Chiavacci Leonardi uscita nei “Meridiani”di Mondadori nel 1994 e poi continuamente ristampata anche in vestieditoriali più divulgative. Qui le obiezioni nei confronti del testo di Pe-trocchi aumentano, se non dal punto di vista della frequenza, sicura-mente da quello della intensità e della pertinenza argomentativa,indicando che si tratta di un testo ormai in crisi.

Si arriva così all’ultima novità firmata da Giorgio Inglese che hapubblicato presso Carocci con il titolo Commedia le prime due canti-che: l’Inferno nel 2007 e il Purgatorio nel 2011. Il sottotitolo recita sem-plicemente Revisione del testo e commento e Inglese spiega nella Notaal testo che si tratta ancora del testo di Petrocchi aggiungendo: «Riesa-minati e nuovamente valutati i luoghi critici, rendo conto in nota deglieventuali scostamenti dalle conclusioni di Petrocchi». Si tratta in realtàdi un’edizione caratterizzata da revisioni testuali insistenti e vistose.

Ma sarà il caso a questo punto, di fare qualche esempio concretodelle fenditure che si aprono nel “massiccio” e delle correnti sotterra-nee che ne minano la saldezza. Prendiamo un punto cruciale a InfernoXX, vv. 28-30: dunque Virgilio e Dante hanno appena lasciato la bol-gia dei simoniaci e Dante sta vedendo la terribile processione degli in-dovini la cui faccia è completamente torta all’indietro, tanto che le lorolacrime scendono tra le natiche. La visione (muta nel gran clamore diMalebolge) dello stravolgimento è una tale offesa alla imago Dei cheDante esplode in un pianto dirotto, più marcato di altri suoi pianti, tantoche Virgilio interviene con un duro rimprovero: Qui vive la pietà quan-d’è ben morta; / chi è più scellerato che colui / che al giudizio divin pas-sion comporta? passibile tradizionalmente di due interpretazioni: 1)‘chi è più scellerato di chi prova compassione di fronte alle pene stabi-lite dal giudizio divino?’; 2) ‘chi è più empio di colui che attribuiscepassività ai decreti di Dio?’ che, insomma, considerandoli passibili di

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revoca, si illude di prevenirli e modificarli? Siamo qui giusto al cuoredell’esegesi dantesca dove si scontrano coloro che 1) fautori, diciamocosì, di un’etica debole sono alla ricerca di momenti di perplessità nelpellegrino a proposito della rigorosa e compatta morale tomista: ab-bracciata una volta per tutte da un Dante che comunque inciampa in at-timi di esitazione o di dubbio o, come qui, di intima pena per icondannati e coloro invece che 2) ancor più convinti della assoluta or-todossia del Dante tomista, impermeabile a qualsiasi reazione emotiva,tendono a chiudere porte e finestre negando qualsiasi possibile sussultoo commozione che possa risuonare qua e là nel dettato del poema. Na-turalmente l’un partito e l’altro abbondano nelle escursioni vocabola-ristiche e nelle citazioni filosofiche. Tutto questo discutere che ruotaattorno a un verso ambiguo, di difficile interpretazione e variamentetestimoniato dai codici, sparisce come d’incanto in Dantis AlagheriiComedia, già citata, che costituisce la più “nuova” delle edizioni che sidiceva: più nuova nel senso che il curatore Sanguineti, adottando le tec-niche della filologia moderna, ha cercato di trovare il manoscritto cheoffrisse le maggiori garanzie di rispettare il testo originale individuan-dolo appunto nel settentrionale Urbinate. Nell’Urbinate i versi suonanocosì: Qui vive la pietà quand’è ben morta; / chi è più scelerato checolui / ch’al giudicio divin compassion porta? Qui di dubbi non ce nesono più. In modo chiarissimo Virgilio accusa Dante di abbandonarsi aforme di compassione per dannati che sono in netto contrasto con quellagiustizia divina che li punisce come nemici del libero arbitrio e del con-cetto stesso di provvidenza.

Naturalmente le discussioni continuano. Qualcuno accusa il copistadell’Urbinate di essere intervenuto a suo tempo a rendere il testo piùchiaro – e banale – come potrebbe fare un editore moderno (comporta-mento già diffuso e normale ai quei tempi). Ma l’accusa, mi si passi iltermine, è anche di natura ideologica: dipende da idee su Dante che po-tevano essere anche nella testa dei copisti antichi. Per Sanguineti in-vece l’aver posto a testo il termine compassione dipende in primo luogoproprio dal fatto che esso è presente in un manoscritto che dà affida-mento nel suo complesso, per la sua posizione privilegiata rispetto al-l’originale prima ancora che per la qualità di singole lezioni!

Risulta evidente a questo punto l’importanza primaria di studiare –per via via eliminare le copie di copie – tutti i manoscritti della Com-media alla ricerca delle testimonianze o meglio della testimonianza mi-gliore che si ponga come garante della autenticità sempre relativa, maalmeno storica del testo e per ridurre al minimo quei casi in cui tra due

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scelte di pari qualità alla fine scelga (con la sua cultura, le sue ipotesidi lavoro, in definitiva il suo arbitrio) l’editore. È l’impresa meritoria eimmensa cui da anni si dedicano l’amico Paolo Trovato e i giovani stu-diosi cresciuti alla sua scuola che sta ormai giungendo a buon fine…

Un altro esempio, molto significativo nello stesso ordine di pro-blemi, è quello di Inferno IV, v. 36 dove si dice del battesimo che port’èdella fede che tu credi, almeno nell’edizione Inglese, per intendere chesenza battesimo, cioè senza il sacramento che testimonia la discesa e lapresenza dello Spirito Santo nella vita del cristiano, non c’è fede. Orai manoscritti quasi all’unanimità dicono che il battesimo è parte dellafede che tu credi cioè uno dei capitoli di fede. Da dove salta fuori porta?Con una certa intermittenza pare agli editori che parte sia terminetroppo generico per un filosofo-teologo-grande poeta come Dante e cheparte/porta sia una banalizzazione molto facile già dei primi se non del“primo” copista. Naturalmente a favore di porta si allegano luoghi dicontemporanei (e uno di Dante stesso a Paradiso XXV, vv. 10-12) incui è presente la metafora. È lecito rifiutare una lezione ampiamente eottimamente attestata solo per il sospetto che si tratti di una banalizza-zione? Ancora: Pier della Vigna (Inferno XIII, v. 63) scalza gli altri cor-tigiani dal potere e si dedica con abnegazione totale al servizio diFederico II fede portai al glorïoso offizio, / tanto ch’i’ ne perde’ lisonni e ’ polsi. L’interpretazione tradizionale per cui Piero perde primala pace (i sonni) e poi la vita (i polsi) è tacciata da Inglese di essere «ba-nalmente impressionista» e sostituita nel suo testo dal binomio li senni e ’ polsi, cioè ‘i sensi e il battito cardiaco’ un po’ tirata per i capelli,sotto ogni aspetto.

Ecco, se una caratteristica generale si può rilevare nell’edizione diInglese è la frequenza con cui la scelta tra due o più lezioni accettabiliin quanto non palesemente insensate è il risultato di argomentazioniculturali anche convincenti, ma, per così dire, come sospese nel vuoto.Di manoscritti importanti, compreso l’Urbinate, Inglese ha discusso inpassato e discute con acribia nelle note, ma il loro ruolo nella concre-tezza delle scelte è, come dire, cangiante. A volte il curatore sembraalla ricerca della soluzione testuale più rara e peregrina, oltre che con-forme della sua “idea di Dante”. È un po’ come scendere a gara conl’autore, quasi a dimostrare di aver capito così bene le regole del giocoda sfidarlo e batterlo sul suo stesso piano… In questo quadro non è con-cesso all’autore il diritto, diciamo così, di essere imperfetto a riguardodella sua stessa perfezione reale o supposta, o banale, o semplicementedi contraddirsi, se i manoscritti lo imponessero…

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L’ultimo esempio mi consente di sfiorare anche il tema della lingua.Dunque Dante a Inferno XV, vv. 4-6 per descrivere i margini del sab-bione infuocato richiama le dighe costruite nelle Fiandre e a Padovacontro, rispettivamente, il mare e la Brenta: Qual i fiamminghi tra Guiz-zante e Bruggia, / temendo il fiotto che ’nver lor s’avventa, / fanno loschermo per che ’l mar si fuggia; // e qual i padovan lungo la Brenta,/ per difender lor ville e lor castelli […]. Nel primo verso secondo In-glese, e altri prima di lui, i nomi stessi del popolo e delle località citate(i nomi di luogo Wissant e Bruges) evocano con i loro suoni (in ita-liano) l’atmosfera di ‘fiamme guizzanti e brucianti’ di quel sito infer-nale con un bell’effetto fonosimbolico. È osservazione pertinente, main virtù del fonosimbolismo, Inglese mette a testo fiamminghi invece difiaminchi o fiamenghi, molto meglio attestati, in modo che l’effetto fo-nico sia più perfetto. Cioè su una ipotesi stilistica sceglie una lezioneestranea ai manoscritti che normalmente predilige! Come se la formacon consonante semplice invece che doppia (che ha anche il vantag-gio, ai suoi occhi, di essere di “lingua”) cancellasse il fonosimbolismo.

Lascio per ultimo almeno un accenno al problema molto delicatodella lingua sul quale restituisco la parola a Inglese, a nome diciamo cosìdei “fiorentinisti”, per la chiarezza e la nettezza con cui imposta il pro-blema, almeno dal suo punto di vista:

È ragionevole supposizione che i perduti autografi della Commedia fosserodistesi da Dante nel suo volgare nativo, cioè nel fiorentino urbano […]. Ilpoema, come tutti sanno, enuncia a chiare lettere la fiorentinità del viator,evidente nella sua parlata (1.10.25: «La tua loquela ti fa manifesto / di quellanobil patrïa natio, / ala qual forse fui troppo molesto» ecc. [parla il fioren-tino Farinata degli Uberti n.d.r.]), ed è logico che l’indicazione si trasferiscaalla lingua dell’Io narrante-scrivente.

Ovviamente Inglese sa che i primi copisti della Commedia erano set-tentrionali, come si è già detto, e che il testo arriva a Firenze dopo un belpo’

per esservi – diciamo così – ritradotto in fiorentino. Ottimo documento diquesta fondamentale operazione è il ms. Trivulziano 1080, firmato da serFrancesco di ser Nardo nel 1337: per la sua vetustà […] Triv. va assuntocome testo-base del poema.

Ecco, è sulla base di queste due affermazioni che si fonda l’imponenteedificio della vulgata fiorentina ed entrambe sono a dir poco discutibili.

Per quanto riguarda la prima, è difficile mettere in dubbio che la lin-gua materna del “pellegrino” fosse il fiorentino urbano, subito inteso dalfiorentino Farinata. Ma siamo in una situazione di “disvelamento lingui-stico”: la lingua materna come elemento incancellabile di fraternità ecomplicità, oltre le storie di odio e di guerra che hanno diviso a distanzai due personaggi. Il valore dell’episodio è accresciuto dall’ovvio rimandoevangelico: Matteo 26,73 Vere et tu ex illis es; nam et loquela tua mani-festum te facit ‘È vero, anche tu sei dei loro; infatti il tuo dialetto ti tradi-sce’. Si tratta qui della lingua come fatto di nascita, istinto, “natura” cheniente ha a che fare con la “cultura”: antropologia e non letteratura. De-durre da questo riconoscimento idiomatico, fondante, ma assolutamentespecifico, le conseguenze teoriche che si diceva è gratuito. Tanto più cheuna costante della meditazione dantesca, solo apparentemente confinatanei limiti del Convivio e del De vulgari eloquentia è proprio la naturadella lingua letteraria e i suoi complessi rapporti con la lingua parlata.Per nessun autore è lecito stabilire, in termini immediati e semplicistici,un rapporto diretto tra lingua materna e lingua letteraria, come ci hannoinsegnato tanti filologi e linguisti “non si scrivono poesie o prose comesi mangia o si dorme”. Ma certo la cosa risulta addirittura scandalosaquando l’operazione riguarda proprio Dante in cui la consapevolezza del-l’intervallo che separa le due realtà è così profonda e netta, oltre che “mi-litante”. Questo non significa che l’assetto fono-morfologico dellascrittura dantesca non fosse con ogni probabilità fiorentino. Ma attra-verso una serie complicata di mediazioni che riguardano l’intera opera diDante e ferma restando l’assoluta libertà linguistica, teorica e pratica, del-l’autore. Ricordo appena, comunque, il giudizio durissimo sul fiorentinocome lingua di “natura” che l’autore esprime nel De vulgari.

Per quanto riguarda la “ritraduzione” delle testimonianze arrivate danord a Firenze, di cui il Trivulziano sarebbe l’episodio più significativo,bisogna riconoscere che l’ipotesi è più che probabile, forse anche un po’ovvia. Ciò che colpisce è la tranquilla accettazione del “rivestimento”linguistico a posteriori, compiuto da un copista di contado (la Val d’Elsa),indipendentemente dal molto di fiorentino, fors’anche originale, che po-trebbe esserci – e che già trapela dall’edizione Sanguineti – nella più an-tica e fedele tradizione settentrionale.

Inoltre proprio qui Paolo Trovato ci annuncia che altri manoscritti fio-rentini, migliori e non meno antichi del Trivulziano, sono sotto osserva-zione: chissà che non possano anch’essi fornire utili dati linguistici...

La Commedia: dai manoscritti alle edizioni scolastiche 47

A mo’ di congedoPAOLO TROVATO

Un breve commento e un accenno di due minuti a quello che il miogruppetto di ricerca sta cercando di fare adesso.

Il commento, assolutamente non polemico (voglio troppo bene agliamici che la sorte mi ha portato qua a fianco), riguarda un punto del di-scorso di Coluccia. Tutti i padri fondatori della critica testuale modernaci hanno insegnato che il momento della ricostruzione linguistica è com-pletamente differente, sul piano logico e anche operativamente, dal mo-mento della ricostruzione genealogica. In altre parole, può succedere,facendo lo stemma e classificando i manoscritti nel modo più rigoroso,che si arrivi a dimostrare, mettiamo, che l’Urbinate sia in assoluto il ma-noscritto più vicino all’archetipo. Non c’è un modo altrettanto netto perrisolvere il problema linguistico, se non quello di appiccicarsi a un solotestimone mimandone il comportamento.

Petrocchi, di cui per più di trent’anni tutti hanno accettato i risultatisenza batter ciglio, “bara” molto spesso perché non ha mai detto dadove proveniva la veste linguistica della lezione che mette a testo. Ognivolta che una lezione lo imbarazzava sul piano formale, lui ha preso,senza segnalarlo, una lezione più rassicurante da qualche altro mano-scritto dei suoi 27. Sanguineti, onesto fino all’autolesionismo, anche seaggiunge un’acca, la mette tra parentesi quadre. Di conseguenza, siamotutti capaci di dire che in un canto di Sanguineti ci sono 39 o 40 o 57 in-terventi per ripristinare la fiorentinità linguistica del testo, ma nessunodi noi è in grado di sapere quanti scarti rispetto al suo testimone fonda-mentale, cioè Triv, Petrocchi ha fatto in ogni canto. Perché Petrocchinon dichiara niente.

Vengo ai lavori in corso. Dal 2007 un piccolo gruppo di fedelissimiha continuato a lavorare con me. Devo dire che sono molto grato a que-sti giovani, anche, anzi soprattutto, perché dal 2007 sono venuti a man-care i quattrini che potevano servire per remunerarli in qualche forma,lavorano gratis, per passione. Grazie a loro stiamo concludendo la fasedella classificazione dei seicento manoscritti non frammentari dellaCommedia. Per ora non è saltato fuori nessun manoscritto migliore del-l’Urbinate. Sono venuti in luce però molti altri manoscritti settentrio-nali. Per chi ha presente il mio ultimo stemma, dichiaratamenteprovvisorio, del 2007, le due famiglie settentrionali che ho individuatoper la prima volta, g e p, sono più che raddoppiate.

La Commedia: dai manoscritti alle edizioni scolastiche 49

Ovviamente questo non vuol dire che abbiamo capito tutto. Per orastiamo ultimando un libro, un po’ tipo Rocky II la vendetta, che si inti-tolerà Nuove prospettive sulla tradizione della Commedia. Seconda serie(2008-2013), con alcuni studi nuovi su diverse zone di questa enormetradizione. Credo che questo libro, che sarà pubblicato da libreriauni-versitaria.it e che citeremo con l’acronimo NP2, uscirà nei primi mesidell’anno prossimo.

Tra poco più di due anni, se tutto va bene, usciremo con un lavorod’insieme sulla classificazione dei seicento manoscritti della Comme-dia e, se saremo vivi, Deo concedente – come diceva Dante nelle sueopere – cominceremo subito a fare un’edizione, che naturalmente saràbasata sui sette, otto o dieci manoscritti che la classificazione riveleràcome i più alti nello stemma, secondo i criteri che ricordavamo prima.

Un’ultima postilla su Triv, il ms. Trivulziano, sul quale è stato co-struito un mito ingombrante perché è uno dei pochi manoscritti del primoTrecento che abbia una firma: Francesco di ser Nardo, anzi Francesco diser Nardo di Barberino in Val di Pesa, un centro che, come diceva beneprima l’amico Marzio Porro, sta tra Firenze e Siena. Ma anche se il co-pista proviene dal contado, il suo mito biografico è stato evidentementeintroiettato da molti dantisti. Petrocchi ha lavorato bene su ventisettemanoscritti scelti abbastanza a caso. Quando diceva che erano i mano-scritti più antichi, in vari casi si è sbagliato però clamorosamente. Pen-sava che fossero sempre anteriori al 1355 ed erano più tardi anche di 30o più anni (così per esempio il manoscritto Cortonese, così il GinoriVenturi, così altri). Inoltre, quelli che sono effettivamente molto antichi,sono una piccola parte dei manoscritti della stessa fascia cronologicaante 1355: oltre ai circa venti individuati da Petrocchi, ce ne sono infattiun’altra sessantina, come ha mostrato Marisa Boschi Rotiroti. Per tor-nare al manoscritto Trivulziano, caro a Petrocchi e idolatrato da molti,posso anticipare che non discende direttamente dal capostipite α tramitel’antigrafo a, ma appartiene a una zona bassa di una sottofamiglia rela-tivamente folta, che una mia scolara, Elisabetta Tonello, descriverà nelvolume appena citato, NP2.

Solo in questa sottofamiglia fiorentina, chiamata a° e formata da ma-noscritti assolutamente ignoti a Petrocchi, ce ne sono più di uno che sonogenealogicamente più alti del Trivulziano, come il fiorentino Palatino319, il fiorentino Conventi Soppressi C III 1262, il Parigino 71 ecc. Mainsisto sul fatto che questo è un angolino minuscolo dello stemma, unpiccolo particolare in un quadro che dovrà contenere seicento mano-

scritti. Un particolare, aggiungo, che − posto che tutta la zona dei ma-noscritti fiorentini dal punto di vista della genuinità del testo, non certodel colore linguistico, è piuttosto scadente − è destinato ora, alla lucedei nuovi studi di Tonello, a risultare ancor meno attraente. Grazie aglistudi di maestri della storia della lingua italiana come Arrigo Castellanie dei suoi scolari, saremo in grado, se proprio ne avremo bisogno, di tro-vare dei manoscritti che siano fiorentini e che siano anche più alti delmanoscritto Trivulziano anche se non sono firmati, evitando così di “fis-sarci” su un manoscritto decisamente basso, ricchissimo di lezioni ma-nifestamente erronee. Vi ringrazio ancora di cuore per la vostra pazienzae per la vostra attenzione.

Paolo Trovato50